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Giocare per far giocare
Quando, alla fine degli anni Settanta, ho visto all’opera giovanissimi garzoni di bottega dei vasai salentini mentre realizzavano i fischietti in terracotta dipinta, mi sono reso conto per la prima volta di come si poteva “giocare facendo oggetti per far giocare”.
Sì, perché i fischietti salentini venivano realizzati dalle mani ingenue e cariche di fantasia dei bambini che “andavano a bottega”: oggetti/giocattolo pensati per essere venduti sulle bancarelle durante le feste patronali, che rappresentavano il regalo per i bambini che partecipavano all’evento collettivo carico di attività ludico-spettacolari, esaltato dalle grandi luminarie.
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Quelle ingenue pratiche giovanili di bottega continuavano poi ad evolversi, portando il garzone verso la professione di vasaio che, nel tempo, conserva alla base del suo lavoro il piacere del gioco, dalla manipolazione della materia all’oggetto finito. Ho sempre scritto dell’artigianato artistico come di un’attività che produce oggetti non necessariamente funzionali, carichi di significati relativi alle varie culture e tradizioni che si sono evolute e rinnovate nel tempo. Ma ho sempre dimenticato di aggiungere che queste opere vengono prodotte, anche e soprattutto, attraverso una pratica dove l’artefice è colui che sa usare la materia, e la usa con la bravura e la passione di un “giocoliere”.
Chi ha avuto l’occasione di vedere il Maestro vetraio all’opera, ha potuto osservare con meraviglia come, con una mano, regga una lunga canna di metallo con una massa incandescente di vetro fuso appena uscita dal forno e, con l’altra, modelli attraverso due lunghe pinze e con rapidi gesti la materia per realizzare in pochi secondi un’anfora decorata con bordi merlettati; di fatto ha potuto assistere non solo alla creazione di un’opera d’arte ma anche ad un’attività fisico-ludica che caratterizza il lavoro dell’artigiano-artista.
L’oggetto, così definito, porta con sé tutte queste caratteristiche e le trasmette a chi poi lo possiederà, permettendogli di partecipare a suo modo e mantenere viva la dimensione ludicospettacolare della sua creazione. È ancora il bambino che ci aiuta a vedere e capire il rapporto che spesso abbiamo con gli oggetti a cui ci affezioniamo. Guardare la bambina che gioca con la propria collezione di bambole, e vedere come poi le conserva per godere della loro immagine una volta diventata adulta, è assimilabile alle pratiche che in quasi tutti i nostri spazi domestici caratterizzano l’uso delle mensole, vetrinette, librerie… dove collocare in bella vista i nostri oggetti d’affezione. Oggetti che sanno trasmettere tutto il valore artistico-fattuale dell’oggetto artigianale ma anche la loro carica ludica.
Oggi, la perdita di quasi tutti i rituali riferiti all’uso degli oggetti (che infatti ritroviamo nei tanti mercati dell’usato) e la grande quantità di oggetti di consumo, oltre alla crescita esponenziale degli oggetti-immagine che riempiono in modo sempre più vasto e indifferenziato i nostri dispositivi elettronici, ci portano a dimenticare la dimensione ludica degli oggetti, dimensione che riguarda sia chi li produce sia chi li possiede. In questo modo si va perdendo così forse l’aspetto più importante del nostro rapporto con gli oggetti significanti: da quello che ci riporta alle pratiche infantili, all’oggetto-regalo che ci riempie di sorpresa e di gioia, all’oggetto d’affezione con cui abbiamo passato i più bei giorni della nostra infanzia. •