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Massimiliano Zane

Non tutti i virus vengono per nuocere Massimiliano Zane progettista culturale

l Coronavirus ha creato uno stato di emergenza che, tra gli altri, sta mettendo in ginocchio tutto il settore della cultura e della creatività dell’Italia, un comparto essenziale non solo per la nostra economia ma per la nostra stessa qualità della vita. Un ecosistema già endemicamente fragile, travolto da una emergenza contingente che ne ha portato alla luce difficoltà e contraddizioni. Una situazione a tratti surreale, che ha visto migliaia di operatori, di professionisti (molti dei quali senza alcuna indennità) e di imprese, accanto a milioni di visitatori e turisti, tutti “congelati” nel giro di 24 ore e fino a data da destinarsi. Una incertezza economica e sociale che potrebbe avere risvolti negativi a lungo termine e che rischia di produrre danni anche in regioni e luoghi oggi accessibili e non toccati dal virus, colpendo maggiormente realtà piccole o piccolissime e acuendo differenze geografiche e disomogeneità territoriale. Ecco allora che tra le pieghe di questa crisi emergono chiaramente due prospettive: da una parte quella politica, con il bisogno (urgente) di rafforzare e armonizzare la gestione di un settore (e la sua filiera) a oggi ancora troppo frammentato, esposto a contingenze terze imprevedibili. Un asset economico e produttivo (piace definirlo così) importante, tuttavia ancora volatile nel suo esser privo di una connotazione economica tale da permettergli di godere, tanto in tempi buoni, quanto in quelli di emergenza, di un “piano industriale” vero e specificatamente definito all’interno del quadro nazionale, che preveda azioni e supporti idonei per affrontare eventuali criticità, come qualunque altro settore produttivo cui viene richiesto di contribuire attivamente al PIL nazionale. I

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TECNOLOGIE E DIGITAL STRATEGY La seconda prospettiva invece riguarda internamente il settore culturale stesso, costretto a limitare il contatto con i propri pubblici, o addirittura a cancellarlo, quindi anche a rivedere le modalità di comunicazione per mantenere vivo il rapporto con cittadini e potenziali visitatori. In questo senso sfruttare a pieno le potenzialità offerte dalle tecnologie, o dalle varie forme di smart-working, non è più solo una possibilità: oggi è una necessità. Ne sono un esempio le dirette streaming e le visite virtuali che difatti hanno già “aperto” alcuni musei tra Veneto e Lombardia che in questo modo (similmente alla scuola) hanno superato i propri spazi fisici di condivisione. Allora occorre riflettere sull’urgente necessità di una vera “digitalstrategy” per la cultura, applicata secondo un piano di sviluppo comune e nazionale. Una prospettiva, questa, che se messa in atto potrebbe sollecitare nuovi processi di contatto, offrendo ai luoghi della cultura nuove risorse e professionalità, ma anche inedite opportunità di conoscenza per i pubblici.

POTENZIARE LA CULTURA Temi questi che il COVID-19 ha reso attuali e concreti e che, forse, non sarebbero stati affrontati in altre situazioni (sicuramente non in maniera così stringente). Perché per generare “valori” attraverso il patrimonio servono le giuste condizioni, e se fino a poco tempo fa la priorità era individuare obiettivi di crescita condivisi (spesso utilizzati più per sterili classifiche che per altro), oggi appare a tutti chiaro quanto sia urgente definire un quadro di potenziamento del settore culturale e della creatività, che definisca anche tutti i mezzi e le prospettive di sostegno e superamento di eventuali crisi e flessioni, così da renderlo realmente maturo e pronto a contribuire attivamente (e non solo passivamente) allo sviluppo del sistema Paese.

E ora tocca a Raffaello

Antonio Natali storico dell’arte

opo le puntate sull’Uomo vitruviano e sul Paesaggio 8P avevo pensato che per un po’ mi sarei astenuto, almeno su queste pagine, da ragionamenti sui prestiti delle opere d’arte; ma le polemiche che in questi giorni si sono pubblicamente levate intorno alla trasferta romana del Ritratto di Leone X coi due cardinali dipinto da Raffaello, m’inducono invece a riprendere subito il discorso. Non torno però sulla materia perché reputi che l’insistenza serva a favorire riflessioni in chi al governo sarebbe doveroso riflettesse (sono troppo avanti negli anni e ho accumulato troppa esperienza per coltivare l’ingenua fiducia che la riflessione sia una pratica ministeriale). Riprendo invece la questione perché in questi giorni gli strumenti di comunicazione, dando notizia delle dimissioni del Comitato scientifico degli Uffizi avverso al prestito del Leone X, evocano sovente la lista delle opere “imprestabili” della Galleria fiorentina (comprensiva del ritratto del papa), che per l’appunto fu stilata da me nel 2007 e subito spedita al Ministero. Mi contenni in questa maniera perché l’anno prima, fresco di nomina a direttore della Galleria degli Uffizi, avevo visto partire per Tokyo con il mio parere decisamente contrario l’Annunciazione di Leonardo. D

LEGGI E PARTENZE M’ero opposto a quella trasferta non già per un capriccio, bensì per il divieto d’una legge (non d’epoca fascista, ma recente com’è il Codice Urbani, 2004) che al comma 2b dell’articolo 66 proibisce – e quasi mi ripugna citarlo per l’ennesima volta – l’esportazione fuori dal territorio nazionale di quei “beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. E siccome per me l’Annunciazione di Leonardo calzava a pennello, avevo espresso – come m’obbligava il dovere di funzionario dello Stato e come la coscienza mi dettava – parere negativo. Ovviamente l’opera partì. E allo stesso modo sono da poco partiti per la mostra vinciana di Parigi l’Uomo vitruviano e il Paesaggio 8P, come se il primo non fosse parte del “fondo principale” della collezione di disegni dell’Accademia di Venezia e il secondo non lo fosse di quello degli Uffizi. Per aggirare la legge sono stati addotti argomenti capziosi; e ancora s’avverte l’eco dello stridore delle unghie sugli specchi del Codice Urbani. Torno a ripetere che, quando ai ministri una legge non piace, è nelle loro prerogative – se ci riescono ‒ cambiarla. È invece giuridicamente e moralmente inammissibile che la trasgrediscano. Nel caso del Leone X di Raffaello tutto questo però non vale, giacché l’articolo della legge si volge alle opere per cui si chieda l’esportazione all’estero. Nondimeno in margine a quella lista, cui oggi ci si riferisce, avevo scritto alcune chiose che meritano in questo frangente d’essere richiamate.

LA LISTA DEGLI UFFIZI Dicevo allora ch’essa era stringatissima in sé (non avevo infatti voluto che mi si tacciasse d’esser talebano: ventitré opere in tutto) e che tanto più lo era in rapporto al numero grande di capolavori che il museo esibiva e che in essa non comparivano: del ricchissimo nucleo botticelliano – per dire – c’erano soltanto due opere e di quelli di Tiziano e Caravaggio solo una. Seguiva un’elencazione (veramente da brivido) d’artisti, dei quali nulla era incluso. Della lista pertanto io stesso denunciavo l’incompletezza, nel contempo auspicando (con buona dose d’ironia) ogni integrazione che sembrasse opportuna agli organi superiori. Ma subito esplicitamente dichiaravo che la lista contava opere di tenore storico e qualitativo a tal segno eminente da poter ben rappresentare i vertici assoluti dell’arte figurativa occidentale d’ogni tempo. Opere che (in quanto tali) non potevano essere esposte ai rischi che qualsiasi trasferta comporta, sia o non sia di lungo tragitto (rischi che sempre ci sono; e chi dica il contrario, mente). Opere dunque per le quali, proprio in virtù della loro eccellenza storica, culturale e linguistica, preannunciavo che fino al giorno in cui fossi rimasto direttore degli Uffizi avrei espresso parere contrario a qualunque prestito, all’estero o in Italia che fosse. Ventitré opere per le quali si viene agli Uffizi da Paesi che sono all’altro capo del mondo. E a chi, da quei posti lontani venga apposta a Firenze, importa poco se l’opera per la quale s’è mosso sia stata prestata all’estero o in Italia. Non la trova dove pensava fosse; e questo gli basta.

Produzione di mostre ed export culturale Stefano Monti economista della cultura

indubbio: quando sentiamo parlare di export è raro che si stia parlando di cultura, di musei o di mostre. Eppure questa associazione dovrebbe essere immediata. Naturale. Non si tratta di una riflessione meramente “economica”, ma di una visione a più ampio respiro, che coinvolge il ruolo che il nostro Paese ha affidato alla cultura: bandiera da sventolare al vento delle statistiche. Quando si parla di “viaggi e turismo”, la cultura pare essere la più importante opportunità di sviluppo del nostro Paese. Quando si tratta di fare riflessioni “strutturali”, invece, la cultura è molto più che emarginata, è ignorata. È chiaro che né la produzione né l’esportazione di mostre possono “incidere” in modo significativo sul PIL nazionale, ma possono avere degli effetti positivi che è importante considerare. Come rivelava un insolito studioso di economia, il famoso scrittore Fernando Pessoa, il rapporto tra cultura ed economia (Pessoa con più precisione parlava di “commercio”) è un rapporto consolidato fin dai tempi dei Greci: rotte commerciali e influenze culturali si sono da sempre intrecciate in uno sviluppo che, nella storia, non ha mai smesso di reiterarsi. In epoca contemporanea, questo binomio è stato guidato dagli Stati Uniti, con l’esplosione di quello che gli esperti di “cultural studies” chiamano “soft power”. È

LA SITUAZIONE ITALIANA Il nostro Paese, invece, continua a giocare, in questo scacchiere, un ruolo meno che minoritario. L’influenza culturale che ci viene riconosciuta è l’influenza di un immaginario collettivo standardizzato che non risponde alle reali condizioni del nostro Paese. Se da un lato questo è un fenomeno più che auspicabile, dall’altro è inevitabile che, prima o poi, se non sapremo affermarci anche attraverso la nostra cultura, intesa come la cultura che rappresenta la nostra Italia nel nostro tempo, lo stereotipo positivo che ci mostra “meravigliosi” tenderà a svanire, e questo potrebbe avere non pochi effetti sul resto dell’economia. I dati parlano chiaro. Secondo uno studio condotto da Promos, l’export culturale italiano è veramente molto basso: il volume d’affari di prodotti creativi, artistici e d’intrattenimento, è stato, nel 2017, di circa 200 milioni; quello degli articoli sportivi quasi quattro volte di più. L’export di giochi per computer e software è stato pari a 4 milioni, meno del fatturato estero di una singola impresa in altri settori.

GLI EFFETTI SULL’ECONOMIA In questo scenario, le mostre possono rappresentare un modo attraverso il quale raggiungere nuovi pubblici, costruire nuovi “immaginari”, affermare una produzione culturale viva, capace di rappresentare il nostro Paese con tutti i suoi limiti, ma anche con tutti i suoi pregi. È qui che risiede l’importanza dell’export culturale: se l’export delle materie prime ha effetti quasi esclusivamente economici diretti, l’export culturale è in grado di influenzare positivamente anche altri settori. Ciò non implica affermare il primato della cultura sul resto dell’economia. Implica affermare che la bilancia delle esportazioni può essere influenzata da dimensioni culturali. In Italia, ogni volta che si parla di cultura, si parla necessariamente di finanziamenti ‒ teatro, musei, bandi per associazioni culturali e chi più ne ha più ne metta. Eppure, per un settore che potrebbe avere un ruolo importante nella crescita internazionale della nostra cultura nel mondo, mancano anche misure minime di natura fiscale. Sarà forse perché il settore è popolato soprattutto da soggetti privati? OPINIONI

Mostre e musei: dall’“inimicizia” all’ibridazione

Fabrizio Federici storico dell'arte

l fatto che la mostra si sia imposta negli ultimi decenni come il principale dispositivo di fruizione dell’arte, soppiantando il museo, obbliga quest’ultimo a una riflessione sulle proprie modalità operative, che già da più parti è stata avviata e che darà frutti sempre più tangibili negli anni a venire. Piaccia o meno, la mostra ha sostituito alla complessa polifonia del museo una tornita monodia, che è (generalmente) più facile da seguire, anche da parte di chi non ha una buona preparazione culturale e non frequenta abitualmente gli spazi dell’arte. Altrimenti detto, ciò che sorregge la mostra è una narrazione, un racconto per immagini e oggetti che solitamente fa più presa sullo spettatore rispetto alla presentazione paratattica dei pezzi, tipica del museo ottonovecentesco. Il museo deve dunque raccogliere la sfida lanciata dalle mostre, presentando le proprie raccolte sotto forma di una o più esposizioni, temporanee ma non troppo (diciamo, ad esempio, della durata di sei mesi), che puntino a illustrare al pubblico un determinato periodo della storia dell’arte, un movimento, una porzione della storia della città e del territorio in cui il museo è situato. Ne deriverebbe un maggiore dinamismo dell’istituzione museale e il cittadino sarebbe invogliato a tornarvi più spesso, per vedere “che c’è di nuovo”. Senza pretendere, peraltro, di vedere tutti insieme i pezzi più significativi del museo: alcuni di essi potrebbero non essere esposti, se non sono inseriti nei percorsi espositivi delle ‘mostre museali’ in corso. I

UN CIRCOLO VIRTUOSO Questo aspetto si lega alla questione delle opere in prestito: alla fine di febbraio la polemica si è accesa, per motivi diversi, intorno alla concessione del Leone X di Raffaello alle Scuderie del Quirinale e sul caso della quarantina di opere di Capodimonte (tra cui molti dei dipinti più importanti del museo) spediti per quattro mesi a una mostra a Fort Worth, in Texas. Una riorganizzazione sotto forma di rassegne temporanee degli allestimenti museali (eventualmente integrati da pochissimi, irrinunciabili prestiti) consentirebbe di vedere sotto una luce diversa anche questo problema: a non poter essere prestate non sarebbero tanto le opere ‘identitarie’, quanto quelle che in quel dato momento sono indispensabili per le mostre che il museo ha messo in piedi al proprio interno. Armonizzando il calendario delle rassegne organizzate dal museo e quello dei prestiti si potrebbe creare un circolo virtuoso, in cui l’assenza di determinati pezzi non è avvertita dal visitatore come una mancanza. Fermi restando, naturalmente, alcuni capisaldi: le buone condizioni dell’opera e la sicurezza del trasporto, il fatto che magari non si prestano tutte insieme quaranta opere tra le più importanti, la validità scientifica e divulgativa della mostra cui il pezzo è destinato (di mostre inutili, si sa, è pieno il mondo).

L’OPINIONE DI LONGHI Le narrazioni che andranno ad animare le sale dei musei saranno di vario genere, ai direttori e al personale spetterà il piacere di escogitarne di sempre nuove e accattivanti. Certo, sembra opportuno che a sostenerle ci sia una solida visione storica, che si traduca in percorsi ordinati cronologicamente, i più facili da seguire e i più efficaci, forse, a livello comunicativo. Narrazioni di storie, insomma, da preferire a quelle “ideuzze pretestuali come ‘luce e ombra’, ‘fantastico’, ‘diabolico’” che già nel 1959 Roberto Longhi vedeva alla base di tante mostre “che si risolvono per lo più in ozii mondani e diplomatici, o in isvaghi municipali a scopo turistico”. Longhi lo scriveva in un intervento dal titolo Mostre e musei, in cui precocemente evidenziava una “inimicizia” tra le une e gli altri, cui sarebbe stato opportuno porre fine. Il grande storico dell’arte si augurava che i musei sarebbero diventati “sempre più cose vive; mostre permanenti, e dunque sempre con qualche punto di vantaggio sulle mostre improvvisate”. Se quindi Longhi sentiva, per un verso, la necessità di superare la contrapposizione, per l’altro non metteva in discussione il primato del museo. Oggi il conflitto va superato per davvero: occorre che i musei siano disposti a imparare dalle (buone) mostre. Ovvero, per chiudere ancora con Longhi: “‘Le esposizioni? Ma le esposizioni siamo noi!’: questo dovrebbero dire i musei”.

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