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L SHORT NOVEL Alex Urso Martina Sarritzu
from Artribune #62
by Artribune
Martina Sarritzu
éaffascinata dal kitsch e dal grottesco, e i suoi fumetti lo dimostrano a meraviglia. Martina Sarritzu (Cesena, 1992) è una delle nuove matite della nona arte italiana. Provate a non innamorarvi dei suoi disegni, e delle sue parole, se ci riuscite...
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Cosa vuol dire per te essere fumettista?
I fumetti che faccio sono la traduzione di uno sguardo insistente su quello che mi circonda. Osservo e origlio per pormi degli interrogativi, per pensare. Sento il bisogno di raccontare un certo tipo di quotidianità.
Ci aiuti a conoscerti meglio?
Ho studiato al liceo scientifico e ho preso una laurea triennale in Psicologia, ma mi sentivo frustrata. Così ho deciso di “resettarmi” e riprendere il disegno. Mi sono iscritta all’Accademia di Fumetto e Illustrazione a Bologna non tanto perché lettrice di fumetti o albi illustrati, ma in quanto varie persone a cui avevo chiesto consiglio ritenevano che lì si imparasse a disegnare bene. All’inizio mi sentivo fuori luogo, ma è in questi studi che poi mi sono riconosciuta.
Nei tuoi lavori convivono temi sociali, fantastico e una forte dose di grottesco, offrendo al lettore un’occasione per meditare con il sorriso sui temi del presente. Cosa ti interessa raccontare?
Da sempre tendo a notare i dettagli sconvenienti del reale. Mi interessa raccontare l’imperfezione del corpo (la ricrescita dei baffetti, la pezza di sudore, i calli) e i difetti della nostra umanità: le scelte sbagliate, le dinamiche di potere, la sofferenza e l’esaltazione che ci regalano le piccole imprese quotidiane. La realtà di per sé è grottesca.
Eppure, come per Nuvolario – il bambino protagonista di Vacanze in scatola (Canicola, 2020) –, l’immaginazione diventa un escamotage per sopravvivere all’inferno del reale.
Da bambina avevo un’idea mitizzata della mia esistenza, forse come chiunque durante l’infanzia: volevo essere la più speciale e vivere avventure incantevoli. Però ho capito presto che, quando si è attratti dall’abbondanza, conviene innamorarsi del brutto: non ho voluto rassegnarmi alla delusione e ho iniziato a trovare affascinante e divertente tutto ciò che era sgraziato e ridicolo. Raccontandolo poi potevo renderlo fastoso e leggendario. Da ragazza le mie compagne di scuola mi chiamavano “l’iperbolica”, per come enfatizzavo la narrazione delle cose banali che mi succedevano.
La tavola qui di fianco, invece, da cosa nasce?
Quando vado al mare in Riviera la battigia è costellata di granchi morti: i bambini e le bambine li pescano, li lasciano cuocere nel secchiello e poi li buttano a fine giornata. Lo facevo anch’io, mentre in Sardegna (mio padre viene dalla provincia di Cagliari) ammazzavo le stelle marine in una maniera brutale, per poi farci dei lavoretti. Non ho mai avuto il minimo rimorso ai tempi. Raccontavo di questa pratica a degli amici qualche giorno prima che tu mi contattassi, e ho deciso di metterla in scena qui.