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L DIETRO LE QUINTE Arianna Testino Albert Oehlen: artista e collezionista || 80 L ARTE E PAESAGGIO Claudia Zanfi Arte tra le vigne. Fondazione La Raia / IL MUSEO NASCOSTO Lorenzo Madaro Roma. Studio- Museo Salvatore Meo || 81 L IL LIBRO Arianna Testino Zanele Muholi / ASTE E MERCATO Cristina Masturzo Domenico Gnoli
from Artribune #63
by Artribune
Albert Oehlen: artista e collezionista
Arianna Testino
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Èun legame viscerale e senza compromessi quello che unisce Albert Oehlen (Krefeld, 1954) alla pittura. Non incasellabile in definizioni, movimenti o etichette, lo stile dell’artista tedesco ha affermato la propria coriacea indipendenza a più riprese, scegliendo il linguaggio pittorico quando la sua impopolarità era evidente e decostruendone le categorie formali. Nelle mani di Oehlen figurazione e astrazione diventano recinti da scavalcare, insieme all’interpretazione a tutti i costi del contenuto dell’opera.
Come riportato nel catalogo che accompagna la mostra allestita al MASI Lugano, la posizione assunta dall’artista su questi temi è sempre stata netta: “In realtà non mi interessa il significato dei quadri. Le persone possono interpretarli come vogliono. La pittura, secondo me, significa provare ad allontanarsi il più possibile dal significato, e questa è forse la cosa più difficile di tutte. In realtà, cerco solo di creare qualcosa di nuovo ogni volta. Sono uno sperimentatore che riesce a convivere con le contraddizioni e con gli errori che la sperimentazione comporta”.
LA MOSTRA E LA COLLEZIONE DI OEHLEN
Un approccio aperto e fluido, echeggiato dall’attività collezionistica di Oehlen, che nella mostra svizzera riveste un ruolo complementare a quello di artista. Fin dal titolo – “grandi quadri miei con piccoli quadri di altri” –, l’esposizione gioca sul filo dell’acume e dell’ironia per
fino al 20 febbraio ALBERT OEHLEN “GRANDI QUADRI MIEI CON PICCOLI QUADRI DI ALTRI”
a cura di Francesca Benini e Christian Dominguez Catalogo Mousse Publishing MASI LUGANO, sede espositiva LAC Via Bernardino Luini 6 – Lugano masilugano.ch
Richard Phillips, Venetia Cuninghame Left (After John D Green), 2002. Olio, alluminio e grafite su tela, 213.5 x 164.4 cm. Photo def image © 2021, ProLitteris, Zurich sovvertire catalogazioni e logiche di facciata: una selezione di opere incluse nella raccolta di Oehlen (i “piccoli quadri di altri”, che in realtà hanno spesso dimensioni molto ampie) sono al cospetto della pittura dell’artista (i “grandi quadri miei”), innescando dialoghi inaspettati e mai definitivi, che svelano non solo l’orientamento di Oehlen nei confronti del suo stesso medium, ma anche le traiettorie del desiderio di un collezionista animato dall’impulso, per sua stessa natura allergico alle mediazioni.
La mostra a Lugano procede nel solco dell’intuizione, accostando a opere che racchiudono l’inquieta energia creativa di Oehlen – capace di spaziare dalle colate di colore degli Anni Novanta ai richiami pop di inizio Anni Zero fino all’acceso minimalismo cromatico del 2020 con Space is the Place – lavori di Mike Kelley, Richard Phillips, Daniel Richter, Paul McCarthy, Rebecca Warren, Gino De Dominicis, Richard Artschwager, Duane Hanson e Julian Schnabel. Alla stregua della pittura, anche il collezionismo per Oehlen non conosce dinamiche ferree, ma conversazioni liquide, mutevoli, non per forza comprensibili e certamente non didascaliche, tuttavia di una potenza visiva indubitabile. Proprio come la mostra progettata dallo stesso Oehlen per il museo elvetico.
PAROLA AD ALBERT OEHLEN
In questa mostra lei è l’artista, il collezionista e anche il curatore. Come ha combinato i tre ruoli e che cosa hanno in comune, dal suo punto di vista?
Collezionista e curatore hanno qualcosa in comune. Come artista ho un ruolo diverso e, sempre come artista, in rapporto agli autori delle opere, possono entrare in campo sentimenti come l’ammirazione, il rispetto, l’invidia.
Essere un artista, in particolare un pittore, influenza le sue scelte come collezionista?
Sì, l’opera può confermare qualcosa che voglio esprimere con il mio lavoro. Oppure essere qualcosa che trovo del tutto impossibile.
Parlando di scelte, in base a quali criteri ha selezionato le opere della sua collezione da includere nella mostra insieme ai suoi dipinti?
Ho cercato di non prendere in considerazione la fama né il valore di mercato. C’è una logica specifica che ha guidato l’allestimento della mostra e il dialogo tra le opere?
Poiché non ci sono uno o più temi generali in questa raccolta di opere, ho dovuto raggrupparle in qualche modo. Mentre lo facevo, ho individuato un paio di argomenti che sembravano interessarmi. L’iperrealismo e le strade parallele al Surrealismo, ad esempio.
Il titolo della mostra è geniale. Ritiene che l’umorismo conti nell’essere un artista (e anche un collezionista e magari un curatore)?
Credo che l’umorismo sia così essenziale nell’arte e nella vita che non sia necessario pensarci molto. Le opere, al pari delle persone, che si portano dietro il loro umorismo come una etichetta non sono divertenti.
Qual è la necessità che la guida nel momento in cui sceglie un’opera da aggiungere alla sua collezione?
Non lo so. Vedo una cosa e penso: ecco!
ARTE E PAESAGGIO
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Sulle colline tra Piemonte e Liguria, nel meraviglioso paesaggio del Gavi, esiste un luogo speciale: Fondazione La Raia, che invita artisti internazionali a creare opere in dialogo con il territorio.
DA AZIENDA AGRICOLA A FONDAZIONE La storia di questo progetto agricolo-artistico parte da lontano. Quasi vent’anni fa nasce l’azienda agricola biodinamica La Raia, allo scopo di operare in sintonia con l’ambiente, rispettando i cicli naturali delle stagioni e valorizzando il lavoro dell’uomo. L’azienda punta su una produzione vitivinicola di qualità, recupera antiche varietà di cereali e l’allevamento brado di mucche di razza fassona. Allo stesso tempo investe in progetti educativi e didattici e ospita una scuola steineriana. La stessa ristrutturazione della cantina è avvenuta seguendo i principi di sostenibilità, utilizzando un tradizionale metodo locale in terra cruda detto pisé, con terra di scavo mescolata a sassi frantumati, per permettere maggiore traspirazione delle pareti. All’interno della tenuta è stato inoltre recuperato un piccolo borgo destinato in parte ad alloggi per i lavoranti, in parte ad agriturismo.
ARTE A LA RAIA Più recentemente la missione della Fondazione amplia gli orizzonti rispetto all’azienda agricola e introduce il progetto Nel paesaggio. Artisti, paesaggisti, fotografi sono invitati a vivere e sperimentare i vigneti, i campi, i boschi del territorio. Questi interventi sono occasione di una nuova conoscenza dello straordinario paesaggio circostante. Tra le installazioni nella tenuta, oltre alle sculture permanenti di Remo Salvadori, sono visibili Coreografia e cartografia del collettivo COLOCO con Gilles Clément, un orto-giardino che circonda la guest house a forma di grande foglia, con alternanza di alberi da frutto e centinaia di essenze aromatiche, che vengono quotidianamente utilizzate nelle cucine. Palazzo delle Api, opera permanente site specific realizzata da Adrien Missika, che, in risposta alle attività dell’azienda biodinamica, crea un grande bee hotel, struttura destinata a fornire riparo alle diverse specie di insetti solitari. Tra i vari autori invitati al programma, Michael Beutler realizza Bales, balle di fieno multicolore disseminate sulle colline del Gavi. L’autore tedesco, noto per le sue grandi installazioni scultoree create con materiali semplici, legati a pratiche artigianali, ha da poco inaugurato la nuova opera Oak Barrel Baroque. Si tratta di una installazione realizzata in travi di legno e doghe di barrique riciclate dalla cantina vinicola. Ispirata alle pievi rurali, l’opera strizza l’occhio alle architetture neoclassiche palladiane: una sorta di piccolo teatro tra le vigne, dove rifugiarsi e riconnettersi con la natura. ARTE TRA LE VIGNE. FONDAZIONE LA RAIA
Michael Beutler, Oak Barrel Baroque. Fondazione La Raia, photo Claudia Zanfi
IL MUSEO NASCOSTO
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Lo studio è il luogo della genesi, è lo spazio (segreto e non) in cui avviene fino in fondo il miracolo dell’arte. Anche se negli ultimi decenni, cambiando metodi e approcci, gli artisti hanno generato nuove tipologie di relazione con esso, uscendo dai suoi confini ed entrando nella sfera nomade e pubblica del fare creativo, lo studio continua a essere, nell’immaginario collettivo, un perimetro di magiche imprese. Accessibili e non, gli studi sono luoghi da visitare perché spesso custodiscono l’anima di chi li ha vissuti e vive, luoghi in cui poter interagire con opere, oggetti, amuleti e semplici reperti di un’esistenza trascorsa in stretta congiunzione con l’arte e le sue declinazioni. Arte e vita, quindi.
LO STUDIO DI SALVATORE MEO A ROMA Ed è ciò che si avverte entrando nello studio di Salvatore Meo a Roma. Pochi passi dal caos turistico di Fontana di Trevi ed ecco che, salite alcune rampe di scale e scansando le lenzuola di un b&b, è possibile assistere a un’autentica rivelazione: ogni millimetro di questo appartamento costituito da una manciata di stanze è rimasto com’era quando Meo, artista americano classe 1914, morto a Roma nel 2004, ci lavorava giornalmente. Due mezze bottiglie di plastica, schiacciate e quindi modificate, sono inquadrate in un box di legno; segni nevrotici si muovono nello spazio bidimensionale di un supporto di recupero, componendo grammatiche nuove e impenetrabili; sassi e altri profili contundenti vivono in strutture autoportanti e poi dipinti segnici, vortici fragorosi in grado di elaborare nuovi limiti.
L’ARTE DI MEO Pionieristicamente Meo comprende le potenzialità degli scarti, perciò pratica compulsivamente l’assemblaggio per dare nuova linfa a ciò che non ce l’ha più, costruendo – da autentico homo faber qual è – un repertorio maniacale di nuove immagini, teatrini di una vita domestica impossibile in cui convivono frammenti di bambole con reti di ferro, bottiglie dalla forma collassata e plastica assembrata a pietre e legni. Sulla scia delle esperienze di Schwitters – avverte Mario Diacono nel 1965 – sperimenta “la pittura nella dimensione dell’uomo raccoglitore”. A dare il benvenuto ai visitatori c’è la curatrice Mary Angela Schroth, amica di Meo e testimone oculare della sua esperienza esistenziale nel segno dell’arte, nonché angelo custode di queste stanze e direttrice artistica di Sala 1 a Roma, il più antico spazio non profit d’Italia. Racconterà con passione e competenza la storia di questo artista che il sistema dell’arte ha accantonato, invitando a osservare le accumulazioni a parete o sui mobili, ma anche le complessità che sussistono per rendere fruibile e sostenibile un luogo di questo genere. Sperando che nel mentre un museo della città – magari proprio il Macro diretto da Luca Lo Pinto – possa rendere noto al grande pubblico il percorso straordinario di un artista che a Roma ha dato tanto. ROMA STUDIO-MUSEO SALVATORE MEO
Vicolo Scavolino 61 339 2397762
Veduta dello studio-museo Salvatore Meo, Roma. Courtesy Mary Angela Schroth
IL LIBRO
È una monografia particolarmente attesa quella data alle stampe da 24 ORE Cultura e dedicata a una delle artiste più incisive dell’epoca attuale, che dal prossimo 26 novembre sarà in mostra al Gropius Bau di Berlino. A ritmare le pagine del volume Zanele Muholi. Somnyama Ngonyama – Ave, Leonessa nera sono una novantina di scatti in bianco e nero realizzati dalla fotografa sudafricana classe 1972 che ha colpito nel segno durante la Biennale Arte di Venezia 2019. Chiunque abbia attraversato le Corderie dell’Arsenale non può non ricordare gli autoritratti in grande formato di Zanele Muholi come un elemento ricorsivo e ipnotico.
GLI AUTORITRATTI DI ZANELE MUHOLI E proprio gli autoritratti tengono le redini della storia, individuale e globale, che si dispiega all’interno della monografia. A prendere forma è la vicenda di Zanele Muholi, testimone diretta dell’Apartheid e artista che ha scelto la via dell’attivismo visivo e politico per rispondere, colpo su colpo, alla minaccia del razzismo e della discriminazione, ferite aperte e sanguinanti del tempo presente. “Alla base dell’intolleranza, del razzismo e della violenza c’è l’ignoranza, alla quale si può porre un limite solo attraverso l’istruzione. Questo messaggio è per le generazioni future e per quanti avranno il desiderio di imparare”, ha affermato Zanele Muholi nell’intervista pubblicata sulle nostre pagine a pochi giorni dall’avvio della Biennale veneziana che ha consegnato al grande pubblico il suo messaggio, diretto, chiaro, senza mediazioni. “Il punto non è quando ho deciso di essere un’attivista, ma perché. È stata una necessità. Le circostanze in cui mi trovavo hanno determinato il mio attivismo. La gente non può cambiare il sistema se non si considera parte di esso”.
ARTISTA E ATTIVISTA Dagli autoritratti raccolti nel volume emerge la presa di posizione di un essere umano – non solo e soltanto artista, fotografa e attivista – che fa scendere in campo il proprio corpo nel dibattito sulla blackness e sui diritti LGBTQIA. Il pensiero di Zanele Muholi trova una potente cassa di risonanza nelle parole delle autrici e poetesse che hanno consegnato alle pagine della monografia riflessioni dense – sulla poetica di Muholi, sul mezzo fotografico e sul nodo dell’identità –, alternate agli scatti, come in un racconto corale. Ama Josephine Budge, Fariba Derakhshani, Ruti Talmor e Deborah Willis sono alcune delle voci che si uniscono a quella di Zanele, accompagnando lo sguardo del lettore sino al dialogo finale tra l’artista e la curatrice Renée Mussai, intitolato emblematicamente Archivio del Sé, dove è il termine “archivio” a essere posto in discussione e calato nel cuore di un dibattito che non può più attendere. ZANELE MUHOLI (a cura di) ZANELE MUHOLI. Somnyama Ngonyama Ave, Leonessa nera
24 ORE Cultura, Milano 2021 Pagg. 212, € 79,90 ISBN 9788866485582 24orecultura.com
Pag. 146, © Zanele Muholi. Courtesy of Stevenson Gallery, Cape Town/ Johannesburg, and Yancey Richardson Gallery, New York. Zanele Muholi, Faniswa, Seapoint, Cape Town 2016. Da Zanele Muholi: Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness (Aperture, 2018)
ASTE E MERCATO
Ottima l’accoglienza per l’arte italiana alle aste londinesi di ottobre, che hanno visto nelle sale room il ritorno della presenza fisica, oltre che di record e atmosfere da pre-Covid. Da Christie’s, la Thinking Italian del 15 ottobre, così come la selezione presentata il giorno prima da Sotheby’s, continua a convincere, e tutti i lotti offerti hanno trovato un nuovo proprietario.
L’OPERA DI GNOLI Tra questi, Sous la Chaussure di Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) del 1967, già più che affascinante, arrivava in catalogo con una allure ancora più vivida, per essere tra i desiderata della grande retrospettiva dedicata all’artista dalla Fondazione Prada di Milano, che porta a compimento il progetto concepito da Germano Celant e sviluppato in collaborazione con gli archivi di Gnoli a Roma e Maiorca. L’opera aveva stime pre-asta tra 1,5 e 2 milioni di sterline ed è stata aggiudicata per un totale di £ 2.182.500 (oltre 2,5 milioni di euro). Tra le provenienze, pochi passaggi di proprietà precedenti, un lungo intervallo di tempo nella stessa collezione, dal 1985 a oggi, e partecipazione a importanti occasioni espositive internazionali.
LA MOSTRA A MILANO Eseguita, secondo la caratteristica tecnica di Gnoli, con un misto materico di acrilico e sabbia, la tela vede campeggiare sulla superficie di grandi dimensioni (185x140 cm) una scarpa – tema ricorrente nella produzione dell’artista – dalle proporzioni monumentali. In procinto di staccarsi dal suolo nel compiere un passo, mostrando una visione ravvicinata di tacco e suola, l’oggetto viene osservato e restituito minuziosamente, diventando fuoco dell’attenzione e generatore di una sottile dissonanza che si apre tra l’adesione al dettaglio realistico e la sospensione allucinata, in quella “sfasatura rispetto a quanto sarebbe richiesto da una visione ‘normale’”, di cui Barilli scriveva nel catalogo per la mostra alla Galleria de’ Foscherari nel 1968, dove pure si legge: “Ma si tratta di un vedere, di un percepire che non si possono più dire neutri e passivi, bensì in funzione di segrete ossessioni, tali da ridare alle cose un potere di choc, di ‘nausea’ attraente e repellente nello stesso tempo”. E nel Podium della Fondazione Prada, che fino al 27 febbraio ospita 100 opere realizzate da Domenico Gnoli tra il 1949 e il 1969 e altrettanti disegni, c’è finalmente occasione di fare esperienza di questa fascinazione per gli oggetti, della magia insita in presenze apparentemente consuete, ordinarie, familiari, e di aprire nuove ipotesi su quanto quest’artista, innamorato del Rinascimento italiano, risuoni ancora nella ricerca visiva contemporanea. CHRISTIE’S DOMENICO GNOLI
Domenico Gnoli, Sous la Chaussure (Under the Shoe), 1967. Acrilico e sabbia su tela, 184,7 x 140 cm. Courtesy Christie’s Images Ltd, 2021
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