ALGEBAR
Dialogo Religioni Spiritualità #3
ALGEBAR
Dialogo Religioni Spiritualità
#3
giugno 2021
Progetto grafico Daniel Ingenito e Chiara Bobbio
In copertina
La figura dell’Angelo tra spazio reale e spazio poetico "E tutto appare sempre e soltanto una volta, e di quell’una volta la foto fa poi un sempre" (Wim Wenders)
La figura dell’Angelo è radicata nell’immaginario collettivo da secoli. Nell’antichissima tradizione indiana troviamo i Deva, in Arabia i Djinn. Gli Angeli si manifestano anche in Israele, nella Qabbalah ebraica così come tra i protestanti, che attraverso il cinema (Chaplin, Disney, Lubitsch, F. Capra) hanno affrontato il tema angelico. Wim Wenders ce li presenta come esseri che vivono l’imperfezione degli uomini come "mancanza", con un profondo senso di nostalgia, Angeli che aspirano a diventare uomini, per questo si incarnano. I miei Angeli, appena staccati dal suolo, restano vicini al mondo ridotto ad elementi essenziali. Noi vediamo dei corpi che si sollevano da terra come se si sprigionasse una forza dal basso verso l’alto, le persone sembrano sollevarsi, come se ci fosse una forza contraria alla gravità. E’ come se nell’immagine fotografica si potesse impressionare ciò che non è fotografabile, quel mondo che non appare agli occhi di chi è incarnato nello spazio e nel tempo. (Viana Conti sugli Angeli di A Terrile) Alberto Terrile Fotografo creativo. Attivo nel campo editoriale, dello spettacolo (teatro, danza, cinema, musica) e pubblicitario. E’ specializzato nella ritrattistica d’autore (1 premio nazionale nell’89 e due volte standard di eccellenza al Kodak European Gold Award nel 1994 e 1996). Conosciuto in Italia e all’estero per il suo work in progress sul tema dell’Angelo nella contemporaneità che è stato promosso nel 1995 a Berlino dal regista Wim Wenders è poi approdato con una versione ampliata e riveduta di questo progetto presso Il Museo del Petit Palais di Avignone che ha prodotto e curato nell’estate 1998 la sua personale “Sous le Signe de L’Ange” E’ stato il primo artista italiano in occasione della mostra internazionale “Disegnare il Marmo” Carrara 2005 a stampare su marmo alleggerito una sua opera di grande formato. Ha firmato la campagna lasciti Telethon del 2006 vincitrice della freccia d'argento. Dal 2011 è titolare di Cattedra di Fotografia all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. www.albertoterrile.it
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UN CENTRO PERMANENTE PER IL DIALOGO FRA RELIGIONI E SPIRITUALITÀ Renato Carpi - Foto di Nicola Perfetto
L’ECUMENE DELL’AGNOSTICO, OVVERO L’AUSPICATA FINE DELLE GUERRE DI RELIGIONE Alessandro Cavalli - Foto di Nicola Perfetto
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ALCUNE QUESTIONI DI METODO E CONTENUTO NEL DIALOGO INTERRELIGIOSO
Rav Giuseppe Momigliano - Foto di Nicola Perfetto
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IL DIALOGO INTERRELIGIOSO OGGI: PRESUPPOSTI STORICI TEOLOGICI E SOCIO-CULTURALI Rav Joseph Levi - Foto di Nicola Perfetto
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CONTRO LA TORRE DI BABELE
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CORONAVIRUS: QUANTO RESTA DELLA NOTTE?
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DIALOGO TRA RELIGIONI E SPIRITUALITÀ. LA RELIGIONE PROMOTRICE O OSTACOLO?
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IL VALORE DEL DIALOGO PER LA CREAZIONE DELLA CIVILTÀ E LA CONVIVENZA
Rav Haim Fabrizio Cipriani - Foto di Nicola Perfetto
Luciano Rosasco - Foto di Nicola Perfetto
Marco Gaetano - Foto di Nicola Perfetto
Abdulrazzaq Al Malahi - Foto di Nicola Perfetto
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IL DIALOGO INTERRELIGIOSO NELLA SOCIETÀ PLURALE: REGOLE E PRESUPPOSTI Yassine Lafram - Foto di Nicola Perfetto
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APRIRSI AL RISCHIO DELL’INCONTRO Virginia Manzitti - Immagini a cura di Blaise Patrix
LA VOCE DELLE DONNE NEL DIALOGO
Virginia Manzitti intervista Azza Karam, Nayla Tabbara e Ani Zonneveld - Foto di Nicola Perfetto, immagini a cura di Blaise Patrix.
LA DIGNITÀ DELLA DIFFERENZA. NOTE SULL’IMPRESCINDIBILITÀ DEL DIALOGO INTERRELIGIOSO NEL NOSTRO TEMPO Roberto Celada Ballanti - Foto di Nicola Perfetto
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DIALOGO INTERRELIGIOSO E PROCESSI MIGRATORI: UNO SGUARDO DALLA RICERCA
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IL MAROCCO E LA SFIDA RELIGIOSA DEI NUOVI FLUSSI MIGRATORI
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DIALOGO INTERRELIGIOSO E VALORI COSTITUZIONALI
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CORONAVIRUS E RELIGIONI: UN TENTATIVO (PROVVISORIO) DI RIFLESSIONE
Francesca Lagomarsino, Andrea T. Torre - Foto di Nicola Perfetto
Mauro Spotorno - Foto di Nicola Perfetto
Aristide Canepa - Opere di Claudio Tagliamacco
Daniele Ferrari - Opere di Claudio Tagliamacco
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www.associazionealgebar.net
SPIRITUALITÀ E DIALOGO INTER-RELIGIOSO
Matteo Manzitti - Opere di Cesare Viel
UN CENTRO PERMANENTE PER IL DIALOGO FRA RELIGIONI E SPIRITUALITà Foto di Nicola Perfetto Nicola Perfetto nasce nel 1953 a Giugliano in Campania. Fin da ragazzo, durante i suoi viaggi, utilizza la fotografia come “moleskine visiva”, diario di viaggio fatto di appunti fotografici scattati più per una ricerca di scoperta introspettiva della propria vita che per un intento di produzione commerciale. Dalla personalità solitaria e intimistica, Nicola con la sua fotografia dipinge un mondo ovattato e senza tempo carico di nostalgia.
Renato Carpi Agli inizi degli anni 0ttanta crea e dirige per 10 anni la rivista politico-culturale “Entropia-crisi e trasformazione”. Nel 1995 è tra i fondatori del centro di studi sulla globalizzazione Planet. Entra a far parte, agli inizi del duemila, dell’associazione Megachip che affronta i problemi socio-culturali dell’evoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Attualmente è Presidente dell’associazione culturale ALGEBAR.
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Scrivo queste mie riflessioni nel pieno dell’emergenza “coronavirus”. Non è semplice distogliere l’attenzione da questo sconvolgente evento planetario. Non è semplice tentare di mettere a fuoco il senso di un’idea, di un possibile progetto, in un momento in cui tutto è messo in discussione, anche la propria vita. Quando ne usciremo da questo incubo? Come ne usciremo? Chi ne uscirà? Domande che rimangono sospese e che fanno dell’emergenza “coronavirus” un evento da cui è impossibile prescindere. E allora, nel tentativo di mettere a fuoco il senso di un progetto finalizzato alla promozione del dialogo fra religioni e spiritualità, ho pensato di partire da ciò che oggi sto vivendo: l’esperienza della pandemia. È dall’inizio del millennio che ho incominciato a pensare che la specie umana si stia dotando di un vero e proprio sistema nervoso. L’evento che mi ha spinto a formulare questa idea è stato l’attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York del 2001. Non era mai successo, prima di allora, che una moltitudine così vasta di persone potesse provare le stesse emozioni fruendo, contemporaneamente, delle stesse immagini televisive in diretta. Oggi si pensa che nel 2025 l’intera popolazione del mondo sarà probabilmente connessa a telefoni cellulari e rete Internet. Ogni individuo potrà entrare in contatto con ogni altro membro della specie. Questa fitta rete di connessioni informativo-comunicative, in rapida diffusione ed evoluzione, permetterà agli umani di ogni regione del pianeta di scambiare idee, pensieri, informazioni, conoscenze, esperienze, sguardi, suoni e colori, emozioni e sentimenti. E’ destinata, come già sta avvenendo da alcuni decenni,
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innanzitutto a svelare l’altro, il diverso, a fornire sempre nuovi elementi di conoscenza di quegli umani che hanno altre storie, culture, religioni diverse dalle nostre, che parlano lingue diverse e che vivono in ogni parte del pianeta, anche la più lontana e la più recondita. Questa fitta rete malgrado la paura che ha suscitato e può continuare a suscitare, malgrado le falsità che sta diffondendo, malgrado l’aggressività e la violenza di cui può farsi tramite e cassa di risonanza, costituisce fin dalla sua nascita uno spiraglio importante di conoscenza del mondo, e può aiutare l’intera specie a prendere coscienza di sé, ad acquisire una vera identità terrestre. Ma, guardando con più attenzione e più profondamente le trasformazioni in atto nel nostro pianeta, possiamo anche formulare l’ipotesi che la specie umana si stia dotando non solo di un sistema nervoso, ma anche di un corpo e, per certi aspetti, si può guardare alla specie come ad un unico organismo che avvolge l’intero nostro pianeta e di cui la pandemia che oggi stiamo vivendo può essere una chiara manifestazione. L’epidemia ci mostra che siamo inestricabilmente connessi agli altri. Il coronavirus di oggi è il primo virus nuovo a manifestarsi così velocemente su scala mondiale. Nel contagio siamo un organismo unico, la comunità coinvolta è la totalità degli esseri umani. Se inoltre pensiamo ai circa 5.000 aerei commerciali che solcano i cieli, alle 10.000 navi che attraversano gli oceani, ai 64 milioni di Km di autostrade, ai 2 milioni di Km di oleodotti e gasdotti, all’1,2 milioni di Km di ferrovie, ai 750.000 Km di cavi Internet sottomarini che collegano i tanti centri nevralgici, per popolazione
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ed economia del mondo, emerge una rete di infrastrutture che costituisce le arterie, le vene, i capillari e le cellule di un’economia planetaria che in futuro raggiungerà l’efficienza del corpo umano.
Dobbiamo pensare al genere umano come a una comunità di destino. Perciò la sfida per il futuro, in pericolo, dell’umanità è elaborare la coscienza di una “comunità di destino” di tutti i popoli della Terra, nonché di tutta l’umanità con la Terra stessa. In questo orizzonte si pone la prospettiva di un nuovo umanesimo planetario, che potrà nascere solo dall’incontro fra le diverse culture del pianeta, dalla capacità di pensare insieme unità e molteplicità. Sarà una sfida difficile, forse impossibile, il cui esito dipenderà dalla capacità che i popoli sapranno acquisire di riconoscere e accogliere le diversità e di provare a diffondere un profondo sentimento di uguaglianza e di appartenenza ad un’unica comunità di destino, l’intera umanità. Dovremo trovare tutti insieme gli strumenti necessari per impedire al nuovo virus, il Sars-Cov-2, di causare la nostra morte e per ridurre drasticamente la possibilità che insorgano altri virus biologici che minaccino la nostra vita, senza dimenticare quelli che potremmo chiamare i virus culturali che si annidano nella nostra mente e che possono condurci all’autoannientamento della specie, penso ad esempio, al razzismo, all’antisemitismo, all’islamofobia, alla xenofobia, virus che tanti lutti hanno già determinato e la cui diffusione potrebbe portarci ad un nuovo e devastante conflitto mondiale. Ecco da dove nasce la necessità
del dialogo, un dialogo multidimensionale tra i popoli, le culture, le generazioni, i generi, i saperi, tra l’uomo e la natura. È questa molteplicità dei piani di confronto, di dialogo che può innervare la creazione di un nuovo umanesimo planetario. Un dialogo onnicomprensivo, in tutte le direzioni, un dialogo che possa ricomporre l’umanità per poter condividere una prospettiva di vita per l’uomo e il suo ambiente, per poter far nascere nuovi e più profondi legami di solidarietà fra gli umani e fra l’intera umanità e la natura in cui è immersa e vive. È in questo bisogno generale di dialogo che si colloca la riflessione nello specifico sul dialogo fra religioni e spiritualità. Ecco il punto, per contribuire a creare la civiltà del dialogo ritengo che si debba considerare l’esperienza religiosa, quella che l’umanità ha vissuto nella sua lunga storia e che tuttora sta vivendo, di fondamentale importanza. Da qui deriva il mio impegno personale per promuovere il dialogo fra le religioni che considero una condizione necessaria per creare un nuovo umanesimo planetario. Necessaria ma non sufficiente, un nuovo umanesimo planetario richiede una forte tensione verso una piena ricomposizione dell’umano, ricomposizione che può avvenire attraverso una profonda interazione tra mondo delle religioni e mondo laico, mondi che devono trovare nella dimensione della spiritualità i gesti e le parole per dar vita a quell’umanesimo planetario di cui, io sento e penso noi sentiamo, un profondo bisogno. E’ da queste riflessoni che scaturisce l’idea di dar vita a un centro permanente sul dialogo fra religioni e spiritualità.
Nel formulare questa idea non ho in mente un definito progetto operativo, ma essenzialmente percepisco un bisogno, che è sinteticamente espresso nelle tre frasi con cui Hans Kung introduce i suoi tre libri su: EBRAISMO, CRISTIANESIMO, ISLAM. Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni. Non c’è dialogo tra le religioni senza una ricerca sui fondamenti delle religioni. A queste tre frasi, per completare il quadro aggiungerei: Non c’è ricomposizione dell’umano senza dialogo fra la spiritualità laica e quella religiosa.
dubbio e fede, fra tentazione e certezza. E chissà mai che proprio il dubbio, il quale preserva tanto l’uno quanto l’altro dalla chiusura nel proprio isolazionismo, non divenga il luogo della comunicazione. Esso infatti, impedisce ad ambedue gli interlocutori di barricarsi completamente in se stessi, portando il credente a rompere il ghiaccio col dubbioso e il dubbioso ad aprirsi al credente; per il primo rappresenta una partecipazione al destino dell’incredulo, per il secondo una forma sotto cui la fede resta – nonostante tutto – una provocazione permanente. È con questo spirito che intendiamo portare avanti l’dea di dar vita ad un centro permanente di iniziativa e di studio sul dialogo fra le religioni e le spiritualità.
È mia convinzione che fra credenti, non credenti, incerti sia possibile creare legami profondi, sia possibile vivere un sentire comune, sia possibile condividere fondamentali valori di umanità, è questo il senso che attribuiamo al dialogo fra la spiritualità laica e quella religiosa. A questo proposito mi sembrano molto interessanti queste parole di Joseph Ratzinger, tratte dal suo libro “Introduzione al Cristianesimo”. In altri termini tanto il credente quanto l’incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede, sempre che non cerchino di sfuggire a se stessi e alla verità della loro esistenza. Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede; per l’uno la fede si rende presente contro il dubbio, per l’altro attraverso il dubbio e sotto forma di dubbio. E’ la struttura fondamentale del destino umano poter trovare la dimensione definitiva dell’esistenza unicamente in questa interminabile rivalità fra
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L’ecumene dell’agnostico, ovvero l’auspicata fine delle guerre di religione Alessandro Cavalli Ha insegnato Sociologia all’Università di Pavia. E’ socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei. Vive attualmente a Genova.
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Mi sono chiesto: come risponderei a uno dei miei nipoti (o dei miei ex-studenti o dei figli dei miei ex-studenti) se mi domandasse se credo in Dio ? Le riflessioni che seguono sono un tentativo di dare una risposta a questa domanda. Mettiamo subito le cose in chiaro, anticipando la conclusione: io mi considero un agnostico, non un ateo, e penso che anche un agnostico può sposare la causa dell’ecumenismo tra le religioni. In quanto segue cercherò di argomentare questa tesi.
1. Sapere e credere
2. La scienza e i suoi limiti
Per poter vivere ognuno di noi ha bisogno di fare affidamento su un sapere pratico utile ma molto limitato. Un sapere che il nostro cervello/mente ha imparato dal primo giorno di vita (e forse anche prima) e che continua ad accrescersi, a modificarsi e ad essere messo alla prova in ogni momento della nostra esistenza.
Generalizzando il discorso, possiamo dire che, negli ultimi cinque secoli, le società moderne hanno sviluppato una robusta (talvolta fino eccessiva) fiducia nella scienza. Molti pensano che la scienza (e gli scienziati) siano i depositari della/e “verità”. E certamente la scienza moderna ha smontato molte credenze che un tempo erano date per scontate: già Platone ed Aristotele avevano capito che la terra non è piatta ma sferica, Galileo e Copernico ci hanno spiegato che non è al centro dell’universo e che non è il sole a girare intorno alla terra, ma viceversa, Charles Darwin ci ha spiegato che tutti gli esseri viventi e anche l’uomo sono il risultato di un lento processo di evoluzione e che la narrazione della creazione del mondo della Bibbia è solo una grande (e bellissima) metafora.
Ma appena usciamo dall’ambito di questo sapere pratico quotidiano e ci avventuriamo in territori che non ci sono familiari (e questo succede costantemente) dobbiamo fidarci del sapere che ci è fornito da altri: dobbiamo avere fiducia in qualcuno (essere umano o istituzione) che sa quello che noi non sappiamo. Senza la fiducia nel sapere incorporato nel pc col quale scrivo questo articolo, nell’automobile, nel treno o nell’aeroplano col quale viaggio, oppure nel pane che mangio a colazione, a pranzo e a cena, la mia vita, come quella di tanti altri, sarebbe impossibile. La fiducia si basa sulla credenza che altri sappiano quello che io non so. C’è però un’altra complicazione: non c’è solo sapere e non sapere (conoscenza e ignoranza), ma c’è anche credere di sapere quello che non si sa. Ci sono cioè le convinzioni. Si tratta di idee che mi sono fatto da solo o che mi sono fatto perché ho avuto fiducia in qualcuno che le sostiene; le convinzioni sono credenze sulla cui attendibilità solo la scienza è in grado, talvolta, di dirci qualcosa.
Questi sono esempi classici che hanno suscitato, e suscitano ancor oggi, grandi discussioni. Sono tanti i casi in cui la scienza ha scosso convinzioni ritenute incrollabili, spesso fondate su credenze religiose. La scienza ha fatto molti progressi e continua a farne. Sull’idea di progresso scientifico ci sarebbe molto da discutere perché presuppone l’idea di cumulatività che non è per nulla scontata, soprattutto nel campo delle scienze umane. Ma senz’altro l’umanità nel suo complesso dispone oggi di un sapere in molti campi più affidabile di quanto non fosse in passato. Oggi, ad esempio, non
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crediamo più che i terremoti o le epidemie siano flagelli mandati dagli dei per punire le comunità umane che si sono macchiate di gravi peccati. E tuttavia anche la fiducia nella scienza rischia di trasformarsi in una credenza religiosa di cui gli scienziati sarebbero i sacerdoti. A dire il vero questa credenza è alimentata più dal pubblico ingenuo, influenzato dai media, che non dalla maggior parte degli scienziati, ma di fatto è diffusa la credenza che, prima o poi, è solo questione di tempo, la scienza riuscirà a svelare tutti i segreti. Questa credenza non è fondata. Siamo di fronte ad un effetto paradossale: molte scoperte svelano l’esistenza di ambiti di realtà che ci restano sconosciuti e che prima non sapevamo di non sapere. In un certo senso la conoscenza ci rende consapevoli dell’ignoranza, di quanto non conosciamo ancora e forse non conosceremo mai. Il progresso della conoscenza produce la consapevolezza dell’ignoranza, il conoscibile cresce più rapidamente del conosciuto, la scienza scopre i suoi limiti proprio quando celebra i propri successi. Oggi siamo sempre più consapevoli che conosciamo solo una minima parte del conoscibile. Su quello che non siamo in grado di conoscere compiutamente, vale a dire in modo scientificamente accertato, possiamo però sviluppare delle credenze. I limiti della scienza non consistono solamente nell’immensità dell’ignoto non conoscibile che la scienza stessa ci aiuta a scoprire. Ripeto, la scienza ci aiuta a scoprire quanto siamo ignoranti. E inoltre, le connessioni causali accertate scientificamente molto spesso non sono altro che leggi probabilistiche che ci danno ragionevoli anticipazioni, ma mai certezze assolute. Anche se pos-
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siamo stare tranquilli che domattina il sole sorgerà ancora nell’ora precisa prevista dai calcoli astronomici, non possiamo avere certezza su accadimenti come i terremoti e, a maggior ragione, sulla possibilità che cada il governo attualmente in carica. Infine, non solo la scienza non produce certezze, ma assai spesso (e nelle scienze sociali regolarmente) si sviluppano tra gli scienziati più o meno aspre controversie sia a livello teorico, sia a livello metodologico. Quasi sempre in ogni scienza c’è storicamente un main stream al quale si contrappongono più o meno agguerrite correnti dissidenti e spesso si deve scegliere a chi dare o togliere fiducia sulla base di criteri anch’essi discutibili. Nelle scienze umane non esiste quasi mai un paradigma effettivamente dominante. Tutto questo per dire che tra credenze (religiose o meno) e conoscenze (scientifiche o meno) non c’è una contrapposizione radicale, il confine è molto sfumato, anche se non dobbiamo rinunciare all’idea di poter tracciare un confine. Infatti, sebbene tra gli scienziati la quota di atei e di agnostici sia assai più elevata che non nella popolazione, vi sono scienziati credenti in qualche divinità senza tradire la scienza.
3. Le domande alle quali la scienza non può dare risposte Se, come ho già accennato, aderiamo alla teoria dell’evoluzione (assai plausibile in quanto difficilmente confutabile) dobbiamo ammettere che gli esseri umani sono una specie di animali appartenenti alla classe dei mammiferi che si sono molto evoluti e hanno sviluppato forme complesse di linguaggio e di pensiero astratto. Il pensiero astratto ha la caratteristica di riferirsi a cose, situazio-
ni, realtà che non ci sono più e di anticipare cose, situazioni, realtà che non ci sono ancora. E’ un pensiero capace di memoria del passato e di anticipazione del futuro. A questa dimensione temporale del pensiero è legata la consapevolezza della finitudine, di un inizio e di una fine, della nascita e della morte ed è proprio questa consapevolezza, e tutto quanto da essa deriva, che costituisce il fondamento della differenza tra l’animale uomo e gli altri animali. Se la nascita e la morte segnano l’inizio e la fine della vita, si pone immediatamente la domanda: che senso ha la vita? Ovvero, il senso della vita consiste soltanto in un percorso verso la morte ? Che cosa c’è dopo la morte, supposto che ci sia qualcosa? Perché dobbiamo per forza morire? E poi, la vita è per tutti gli esseri viventi (forse anche per le piante) una stringa di piaceri e di dolori, di gratificazioni e sofferenze. Ma perché alcuni soffrono di più ed altri di meno ? Perché non c’è giustizia ? Perché alcune azioni umane producono piacere e gratificazione a sé e agli altri e altre azioni dolore e sofferenza? Perché tra gli uomini talvolta c’è pace e talvolta c’è guerra? Sono tutte domande che ruotano intorno alla vita e alla morte, all’esistenza del bene e del male, a che cosa tiene insieme e a che cosa divide le società umane. Intorno a queste domande c’è sempre un’aria di mistero. Non tutti si pongono queste domande, alcuni ne sono sfiorati solo ogni tanto in occasioni particolari, altri si accontentano delle risposte date dalle autorità in cui ripongono fiducia, altri ancora fanno della ricerca di una risposta una ragione di vita. Le religioni offrono risposte a queste domande. Il mistero è un vuoto che può essere riempito solo da una credenza o, meglio, da un sistema di credenze. Il riconoscimento dei limiti temporali e dei limiti nelle possibilità umane di governare gli eventi evocano
immediatamente l’idea dell’eternità e dell’onnipotenza, cioè gli attributi della o delle divinità
4. La presenza universale delle religioni Il fatto che non ci sia, e non ci sia stata nella storia, nessuna società che non abbia sviluppato qualche forma di religione (o qualche sostituto funzionale della religione) dimostra l’universalità delle domande e della ricerca di risposte. La varietà delle credenze e delle pratiche religiose è veramente molto grande: alcune sono comparse e sono scomparse in tempi più o meno lunghi, altre hanno millenni di storia, alcune hanno avuto una diffusione relativamente circoscritta nello spazio, altre si sono adattate a condizioni geografiche e culturali le più diverse. La storia, la sociologia e l’antropologia delle credenze e delle pratiche religiose non smetterà mai di suscitare l’interesse degli studiosi ma anche della gente comune, dalle “forme elementari” degli aborigeni autraliani studiate da Durkheim alle “ forme razionali” studiate da Weber . Da poco più di 3000 anni a questa parte ha fatto la propria comparsa nella storia un tipo molto particolare di religione: il monoteismo. L’uso del singolare è in effetti improprio perché di monoteismi ce ne sono almeno tre.
5. Religione e razionalizzazione Se guardiamo alle divinità del mondo greco-romano ci rendiamo conto della grande somiglianza tra “l’al di là” e “l’al di qua”. Le divinità rappresentano sentimenti, forze, eventi, qualità, attività, tipicamente umane. E’ una popolazione variopinta, dove ogni divinità rappresenta simbolica-
mente su un piano che potremmo chiamare di “trascendenza relativa” caratteristiche tipiche degli esseri umani. Così, tra gli dei si stabiliscono rapporti di alleanza e collaborazione, oppure di ostilità e conflitto, alcuni simboleggiano le virtù, altri i vizi, alcuni le fortune, altri le disgrazie. Lo storico Paul Veyne si è chiesto se i greci credessero veramente ai loro miti . A noi non interessa rispondere a questa domanda quanto piuttosto sottolineare l’importanza del passaggio dalle religioni che adorano una pluralità di divinità (politeismo) alle religioni per le quali di Dio ce ne può essere uno e uno soltanto (monoteismo). La nascita del monoteismo risale all’Egitto del XIV secolo prima di Cristo. Il Dio dei monoteisti è un’entità assolutamente trascendente il mondo terreno e, in quanto onnipotente, onnisciente e onnipresente, non può essere che uno, non può ammettere rivali, è perfetto ed eterno e comunica con gli esseri umani attraverso la “rivelazione”, mediante le “profezie”. Queste caratteristiche sono più o meno condivise da tutte e tre le grandi religioni monoteiste, l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islamismo. Le differenze dipendono largamente dalle “profezie”, dai modi coi quali Dio ha rivelato agli uomini la sua volontà, o meglio, dai modi coi quali le sue volontà sono state recepite dai profeti e successivamente interpretate dalle diverse tradizioni teologiche. Il problema è proprio che ciò che unifica (la credenza in un solo Dio) è anche ciò che divide. Se Dio è uno solo, ogni popolo che adotta questa credenza pensa che il “vero Dio” sia il proprio e che gli altri popoli siano degli “infedeli” poiché adorano un falso dio. Come sostiene lo storico Jan Assmann, intorno alle fedi monoteiste si scatena inevitabilmente la violenza tra i popoli e, di fatto, la storia degli
ultimi 3000 anni è costellata da guerre di religione tra popoli che credono (o ai quali viene fatto credere) che l’unica religione autentica sia la propria. Ciò vale sia tra le tre grandi religioni monoteiste, ma anche all’interno di ciascuna di esse, tra diverse versioni, interpretazioni, tendenze. Da qui, le guerre e le persecuzioni reciproche tra Protestanti, Cattolici e Ortodossi nel Cristianesimo, tra Sciiti e Sunniti nell’Islam, per non parlare delle vicende che hanno caratterizzato la storia delle popolazioni ebraiche. Gli storici si sono spesso chiesti se le “guerre di religione” siano state combattute per affermare la propria fede, oppure si sia trattato di tradizionali conflitti tra stati e tra fazioni al loro interno che sono apparsi nelle vesti di ostilità animate da motivi religiosi. Non mi interessa qui discutere l’intricato problema dei rapporti tra fede e politica, tra gerarchie mondane e gerarchie religiose, problema che si riproduce in tutte le religioni. Personalmente adotto weberianamente una posizione che lascia impregiudicato il rapporto per cui solo storicamente si può accertare quando e dove il potere politico si serve della religione per affermarsi e consolidarsi e dove invece è la religione ad usare i poteri temporali.
6. Le religioni in un mondo secolarizzato Qualcuno potrebbe chiedersi se ha senso porsi questi problemi in un mondo in cui la quota di atei, agnostici o, comunque, non credenti sembra comunque cospicua, anche se forse non in crescita. La cautela ci dice che dobbiamo evitare una visione eurocentrica. Nei tre secoli passati il processo di secolarizzazione ha segnato avanzamenti consistenti soprattutto in Europa, molto meno e in forme diverse nel resto del mondo. Altrove si osservano fenomeni assai
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visibili di ritorno delle religioni. In molti casi, anche e soprattutto in Europa, le fedi religiose sono state sostituite da altre credenze (spesso proprio in contrapposizione alle religioni tradizionali) di natura ideologica che hanno funzionato in modo analogo per rafforzare la coesione e le identità sociali. Non a caso si parla talvolta di un “credo liberale”, o “socialista”, “democratico”. In particolare, l’idea di nazione ha assunto caratteristiche (e utilizzato retoriche) di natura quasi religiosa. Io mi sono nel tempo sempre più convinto che le società umane abbiano bisogno di credere in qualche forma di trascendenza. E’ proprio la consapevolezza nella invitabile finitezza dell’esistenza terrena a fare in modo che gli esseri umani, per costruire un’entità che duri nel tempo al di là dell’esistenza individuale, per “fare società”, abbiano bisogno di postulare qualcosa che trascenda la storicità del presente, che sia il culto degli antenati o la credenza in una vita e in entità ultraterrene. La dimensione religiosa (è chiaro che intendo questa parola con un significato molto ampio) è quindi intrinseca alla natura umana e storicamente assume le forme più diverse.
7. La religione nell’età della globalizzazione I mercati mondiali, il turismo, la conoscenza delle lingue e in particolare dell’inglese, le migrazioni, Internet ed ora anche le pandemie che si diffondono dappertutto quasi contemporaneamente, sono tutti aspetti del processo di globalizzazione che si è fortemente accelerato negli ultimi tre decenni. Le culture talvolta si aprono e si ibridano, in altri casi resistono e si chiudono. Lo stesso succede alle religioni che sono comunque una parte cospicua della cultura di tutti i popoli. In Occidente, ad esempio, ci sono fasi ricorrenti in
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cui molti sono attratti dalle religioni e dalle filosofie orientali, forse anche perché sono o appaiono meno inclini alle guerre di religione. E c’è anche chi, come chi scrive, pur avendo avuto da bambino una formazione cattolica, avendo frequentato molto la cultura germanica apprezza alcuni tratti del rigorismo morale protestante ed è attratto dall’ebraismo, la religione di un popolo che ha vissuto, fino ad epoca recente, come minoranza nel mezzo di altri popoli. Sono però anche affascinato dalle tracce che l’Islam ha lasciato nella penisola iberica e nell’area balcanica, sono stato accarezzato dall’atmosfera che si respira nelle chiese ortodosse della Grecia contemporanea e non sono insensibile, avendo letto il Siddharta di Hesse, al fascino del buddismo. Non sono il solo a costruirsi una composizione propria mettendo insieme frammenti di pensiero religioso che vengono da tradizioni religiose vicine e lontane. Come ha scritto Ulrich Beck nella tarda modernità ognuno, seguendo le sue inclinazioni e preferenze, si costruisce il suo “Dio personale”, prendendo a prestito dei pezzi dall’ampia gamma di modelli che la storia globale ci ha lasciato in eredità. Questa religiosità composita e individualizzata, prodotta dalle ibridazioni di un mondo globalizzato, è abbastanza frequente in certe élite intellettuali e nei ceti colti delle nostre società dell’Occidente secolarizzato, ma convive con forme che ne sono l’esatto opposto, cioè con i fondamentalismi. I fondamentalismi reagiscono alla mescolanza globalizzata rivendicando la “purezza” dei rispettivi credo religiosi. Si è parlato molto del fondamentalismo islamico perché ha dato origine a movimenti estremisti che dall’attentato delle Torri gemelle in poi hanno compiuto atti terroristici in quasi ogni grande metropoli dell’Occidente, ma il fondamenta-
lismo non è per nulla un fenomeno circoscritto al mondo islamico. Esiste un fondamentalismo cattolico, protestante ed ortodosso, così come esiste un fondamentalismo ebraico ed è comparso anche un fondamentalismo indù. Ricompare il flagello delle guerre di religione da un lato e, dall’altro, la prospettiva di un mondo senza Dio. E’ in questo contesto storico che affiora l’esigenza di un dialogo tra le religioni.
8. La proposta ecumenica dell’unità nella diversità Abbiamo disegnato tre scenari: una nuova religiosità individualizzata come cocktail variopinto di credenze, la ripresa dei fondamentalismi che riaprono la strada alle guerre di religione, l’appiattimento senza trascendenza e senza Dio di masse secolarizzate. Ma forse si apre un quarto scenario, quello del dialogo tra le grandi religioni, non per arrivare a una sintesi e azzerarne la diversità, ma per riconoscere sia il bisogno universale di credere sia la fondamentale diversità e quindi storicità delle diverse credenze e pratiche religiose. L’agnostico riconosce l’universalità del bisogno di credere in qualcosa di trascendente, ma non avverte il bisogno di postulare l’esistenza di Dio. Per l’agnostico chi crede in Dio non è un avversario da combattere, ma un fratello da rispettare e col quale confrontarsi. Mi era molto piaciuta l’iniziativa del Cardinale Martini di istituire la cattedra dei non credenti, sono contento di aver vissuto a Milano in quegli anni e di aver respirato l’aria di dialogo che Martini era riuscito a creare. Il mio bisogno di trascendenza è soddisfatto da una “fede” nei valori della pace, della giustizia e della fratellanza. Della famosa triade dei valori della Rivoluzione
del 1789 ho tralasciato la liberté e l’égalité perché non riesco a concepire la “giustizia” senza ampie quote di libertà e di uguaglianza (su quanto ampie debbano essere queste quote il dibattito resta aperto). Ho invece messo la “pace” al primo posto, non solo per omaggio a Immanuel Kant, ma perché non dobbiamo mai dimenticare che viviamo in un’epoca in cui l’auto-distruzione del genere umano è tecnicamente possibile ed è quindi auspicabile un monopolio mondiale della violenza militare. Nessuno stato dovrebbe potersi armare da solo e quindi le uniche armi dovrebbero essere quelle che impediscono ad uno stato di armarsi. Devo riconoscere che in questi valori c’è molto del Cristianesimo (ma non solo); per dirla con un filosofo, che non ho particolarmente amato, perché non possiamo non dirci (anche, aggiungo io) cristiani.
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Alcune questioni di metodo e contenuto nel dialogo interreligioso
Rav Giuseppe Momigliano Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Genova, Vice Presidente dell’Assemblea dei rabbini d’Italia.
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Il dialogo tra le religioni è certamente importante non solo per i soggetti e le comunità direttamente coinvolte ma, più in generale, per lo sviluppo di rapporti di pace tra i popoli e di progresso morale per l’uomo; introducendo alcune riflessioni su questo tema, desidero in via preliminare ricordare alcuni criteri di gestione che ritengo necessario tenere presenti. La condizione primaria e condivisa per questo tipo di confronto è certamente l’impegno a presentare gli argomenti nel rispetto della fede del prossimo e coerentemente con la propria, senza nascondimenti e senza secondi fini; il dialogo però richiede anche molte altre sensibilità, ad esempio, la consapevolezza, per noi e per l’interlocutore, del ruolo che svolgiamo in quel contesto, ovvero se parliamo a titolo personale o rappresentiamo pienamente la nostra comunità religiosa, se le informazioni che riportiamo della nostra religione rispecchiano convinzioni condivise o sono invece nostre peculiari o di un ambito più ristretto al quale facciamo riferimento. Il dialogo riguarda anche il pubblico delle rispettive comunità, comporta la scelta di tempi e modalità di coinvolgimento, come riportare e spiegare i contenuti e l’evoluzione degli incontri, quando, come e in che misura rendere le comunità più direttamente partecipi; è necessario che ogni parte si senta libera di identificare secondo i propri parametri di giudizio le occasioni in cui il dialogo può passare da un ambito ristretto a quello più ampio, senza che questo debba essere avvertito per gli uni come intenzione di spegnere sinceri sentimenti di maggiore condivisione, per gli altri un abbraccio imposto che può apparire soffocante. Occorre ricordare che nel dialogo entrano in gioco non solo i contenuti ma anche le rispettive vicende storiche, le re-
lazioni intercorse nel passato e la considerazione di come si siano evolute in epoche recenti, valutazioni che richiedono grande attenzione e sensibilità. Le religioni hanno approcci e sensibilità diverse rispetto al concetto stesso di dialogo, l’ebraismo si orienta verso i temi di carattere sociale, di spiritualità in senso generale, sui grandi problemi dell’umanità, piuttosto che su argomenti specificatamente di carattere teologico, in quest’ultimo caso penso che, più che di vero e proprio dialogo, si possa parlare di rispettoso reciproco ascolto, di un impegno sincero e aperto per comprendere soprattutto i sentimenti e le sensibilità dell’altra parte, senza tuttavia escludere il valore intrinseco di ciò che, attraverso il dialogo, percepiamo del prossimo e la conferma – o la scoperta - dei valori condivisi. L’ascolto dell’altro deve tradursi in uno sforzo sincero di impostare la comunicazione e l’insegnamento ai propri fedeli nel rispetto delle altre fedi, in maniera tale che le differenze e le risposte che necessariamente ogni religione ritiene di avere, sollecitino innanzitutto a vivere i propri valori religiosi coerentemente, nella ricerca di D.O, nel più rigoroso impegno morale e non siano mai motivo di ostentazione né di sensi di superiorità. Passando ora ai contenuti del dialogo, possiamo constatare innanzitutto come gli effetti devastanti determinati nel mondo intero dal coronavirus sollecitino le religioni al confronto, alla ricerca di risposte che ci aiutino a comprendere, a dare un senso agli eventi drammatici che stiamo vivendo; questa piaga non fa che accentuare gli angosciosi interrogativi che si pongono alla coscienza dell’umanità: le forze della natura che si scatenano con modalità sempre più catastrofiche o manifestano inquietanti prospettive per il futuro costringono l’uomo ad interro-
garsi sul rapporto con l’ambiente e lo sollecitano a considerarsi con maggior senso di responsabilità quale ospite e custode di questo mondo piuttosto che detentore di arbitrio e potere illimitato. Fame e malattie continuano a seminare morte e sofferenze così come gli spargimenti di sangue per guerre e violenze; di fronte a queste sciagure e a problemi di dimensione cosmica, le religioni possono contribuire a sviluppare la coscienza di un’identità universale che accomuni tutti gli uomini “Creati ad immagine di D.O”; questo insegnamento biblico non solo stabilisce in modo inequivocabile l’uguaglianza di tutti gli uomini ma conferisce anche all’uomo il compito di operare in sintonia con il Signore per sviluppare e portare a compimento il progetto della creazione. Nel progetto divino ogni essere umano, ogni vita possiede un valore intrinseco e incommensurabile che spesso sfugge o rimane del tutto travisato agli occhi umani, cosi ricorda un Maestro d’Israele: “Ben Azai diceva Non disprezzare nessuna persona, poiché non c’è nessuno che non abbia la sua ora” (Mishnà Avot, 4,3); attraverso il legame con l’Eterno l’uomo è sollecitato ad un impegno di vita operoso, è chiamato a cogliere e riconoscere le meraviglie del creato – come espresso nella preghiera ebraica del mattino “Quanto sono grandi le Tue opere, o Signore, tutte le hai fatte con sapienza, la terra è piena delle Tue creazioni!” ma è anche sollecitato ad essere sensibile al male, alle sofferenze e alle ingiustizie, alle storture cui deve cercare di porre rimedio. A questo proposito possiamo ricordare un insegnamento di Rabbi Nachman di Brazlav, a commento del passo del Talmud (Mishnà Sanhedrin 4,5), che afferma “Ogni uomo deve dire: Per me è stato creato il mondo”, cioè, ogni essere umano vale l’intero creato; Rabbi Nachman così spiegava: “Se il mondo è
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stato creato per me, ne consegue che io devo costantemente preoccuparmi di ripararlo, di completare quanto manca e di pregare in suo favore”. Le religioni in dialogo potrebbero contribuire a superare le laceranti contrapposizioni tra le concezioni grette ed esclusiviste dei rapporti tra i popoli, che ignorano le visioni più ampie e globali, e le affermazioni generiche di principi universali, che trascurano le peculiarità e le storie di popoli e culture diverse. Le religioni, che hanno lo sguardo rivolto al mondo intero ma che egualmente parlano alla coscienza di ogni singola persona, dovrebbero cercare di educare gli uomini a vivere positivamente e non come motivo di conflitto le diverse identità che ciascuno porta con sé, come persona, come membro di una o più comunità, come parte di un popolo e come cittadino del mondo. Insegnare all’uomo ad essere responsabile per il futuro, per ciò che prepara e lascia alle generazioni che verranno, è un altro obiettivo che può darsi nel dialogo fra le religioni, in virtù del fatto che esse abbracciano idealmente nel loro sguardo lo scorrere del tempo, dal passato al presente e al futuro; esse possono ricordare a tutti che la nostra stessa identità di esseri umani e creature di D.O si misura e si verifica anche nella capacità di preservare per il futuro il mondo in cui viviamo, proteggendo le risorse e i beni della natura, consapevoli che ciò che distruggiamo del nostro mondo è qualcosa che non solo cancelliamo dal futuro dei nostri figli ma dal presente della nostra dignità di esseri umani. Il concetto di creazione definisce anche altri aspetti del nostro rapporto con il mondo in cui viviamo, la terra è stata data all’uomo affinché tutti ne possano trarre il cibo e i mezzi essenziali di sussi-
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stenza, così è detto nella preghiera ebraica dopo il pasto. “Benedetto Tu, o Signore, che fornisci nutrimento al mondo intero”; anche per questo il perdurare, in certi casi persino l’aggravarsi delle condizioni di miseria assoluta e di fame, mettono in discussione la nostra identità umana; le religioni devono sollecitare le nazioni ad affrontare queste problematiche creando condizioni ambientali, sociali e di lavoro che consentano di sviluppare tutte le potenzialità di vita che la terra possiede. Gli sviluppi della medicina e delle scienze consentono interventi e terapie che mettono in discussione i confini della vita, dalla prima formazione dell’essere umano fino alla morte, attivando intensi, talora drammatici confronti di opinione nel pubblico e nelle istituzioni; le fedi religiose, con le distinzioni di metodo e di concezioni tra loro esistenti, sono chiamate a portare la propria voce, con risposte meditate, che riaffermino l’identità di ogni uomo come creatura e il rapporto tra l’uomo e D.O tra i valori indispensabili di riferimento entro i quali operare tali scelte, per riconoscere i confini della sperimentazione, per poter in ogni caso distinguere il giudizio etico di coscienza, che non sempre coincide con le normative di legge degli Stati. Non possiamo nasconderci che uno degli ambiti più complessi, forse il più difficile per il dialogo tra le religioni è quello che ha implicazioni di carattere politico; le religioni, sia per il proprio specifico contenuto di fede, sia per gli eventi storici e le contingenze del presente, sono coinvolte nei nodi cruciali che dividono e contrappongono popoli in diverse parti del mondo; in questo contesto così complesso il dialogo tra le religioni può contribuire a riportare nelle dinamiche conflittuali richiami a valori condivisi, preoccupazioni ed elementi di umani-
tà di comune considerazione, rimembranze storiche significative e positive per entrambe le parti; non penso che il dialogo religioso possa risolvere i conflitti ma può creare occasioni di confronto costruttivo e clima di comprensione, capaci di aiutare lo sviluppo di un vero e proprio dialogo di pace. Al di là dei temi specifici di dialogo le religioni sono anche chiamate ad ascoltare, a cercare di interpretare il disorientamento dell’uomo, che si traduce spesso, da un lato nello scetticismo, nella presa di distanza da ogni fede religiosa o, diversamente, nella disperata ricerca di risposte nel contesto religioso, con un ricorso alla fede confuso e superficiale che, non supportato da un adeguato processo di consapevolezza e maturazione dei propri sentimenti, può deviare verso stravolgimenti, manipolazioni, abusi della religione stessa fino a sfociare nelle pratiche più tragicamente violente; il dialogo può contribuire a restituire alle religioni un‘immagine diversa da quella che troppo spesso le ha viste e ancora le vede associate a conflitti, persecuzioni, adesioni imposte con la forza, eventi che hanno allontanato tanti dalla fede, dialogo tra religioni significa anche incontrarsi per fornire agli uomini non solo le risposte già elaborate, che ciascuna di esse possiede nel retaggio della propria fede, ma strumenti e percorsi di ricerca, sensibilità, spirito aperto e cuore sincero per trovare, con l’aiuto di D.O, risposte che non conosciamo per le angosce e le incertezze che gravano sul nostro presente e ancor più sul nostro futuro. Voglia il Signore – “Che opera la pace ed è creatore del tutto” ( Talmud Berachot 11b) - indirizzare i nostri passi per compiere in questo senso un lavoro fecondo, che possa rendere più sensibili i nostri cuori e le nostre menti e maturare i desiderati frutti di pace.
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Il Dialogo Interreligioso oggi: presupposti storici teologici e socio-culturali Rav Joseph Levi Rabbino, Psicologo, Studioso del pensiero ebraico. Laureato in Filosofia, Psicologia clinica e cognitiva. Specializzato in studi rabbinici e pensiero ebraico del Rinascimento, in particolare su Scienza e Kabbalah con Eugenio Garin (SNS) e Moshe Idel (Università Ebraica di Gerusalemme). Rabbino Capo di Firenze (1996-2017). Docente di Filosofia ebraica del Rinascimento all’Università Ebraica di Gerusalemme, Centro Studi sul Rinascimento (Université de Tour) e Università di Siena. Dal 2006 insegna Pensiero ebraico e Storia della liturgia ebraica al Centro Bea di Studi Giudaici della Pontificia Università Gregoriana di Roma. Attivo nel campo psicoterapeutico e del dialogo interreligioso. Vicepresidente della Scuola fiorentina per l’educazione al dialogo interreligioso e interculturale (FSD).
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Il bisogno e la necessità di sviluppare una visione interreligiosa e interculturale in senso postmoderno sono dovuti a un insieme di fattori sociali, tecnologici e culturali. La cultura postmoderna è segnata da una esistenziale e profonda problematicità legata alla crisi morale dell’Europa e dell’Occidente seguita alla fine della seconda guerra mondiale. Gli stermini di massa portati avanti dal nazismo che toccarono interi gruppi della popolazione europea, handicappati, malati mentali, omosessuali, ebrei, rom e altri nemici immaginari del sistema totalitario nazista, hanno messo in evidenza la fragilità del sistema liberal-religioso e umanista di fine Ottocento e inizio Novecento. Il progetto kantiano che ha voluto mettere l’uomo con la sua razionalità e dignità al centro dell’universo e della società, e che ha dato luogo alla concezione di un nuovo umanesimo e dei diritti dell’uomo come un nuovo principio filosofico e antropologico universale, si è mostrato debole ed incapace di resistere alle tentazioni di definire nuove identità collettive rigide ed esclusive. Da parte sua, il socialismo e il marxismo di fine secolo, insieme alle teorie di liberazione popolare, trasformate poi in Russia in leninismo e in dittatura del proletariato, non si sono mostrati forti e capaci di offrire una nuova identità culturale in grado di sconfiggere le proposte d’identità collettive di regimi nazionali e nazionalisti. Allo stesso tempo, la proposta laica viennese di una filosofia logica positivista da una parte, e di una visione laica psicoanalitica dell’identità individuale della persona dall’altra, hanno contribuito a livello culturale alla liberazione dell’uomo europeo dal peso delle forme comunitarie ed identitarie religiose ed ecclesiastiche senza però offrire valide forme d’organizzazione e appartenenza sociale capaci di contenere il momento di passaggio da una
cultura ed organizzazione religiosa della società medievale a nuove forme di appartenenza sociale più libere e dinamiche. Da parte loro, il cristianesimo tradizionale e la Chiesa cattolica e protestante non hanno saputo proporre tra le due guerre una visione e definizione umanistica aperta e plurale dell’identità individuale e collettiva contrapponendola alla visione religiosa di un’identità collettiva dell’individuo in forme di comunità religiose storico nazionali e locali di ogni paese Europeo con la sua storia e di entità particolare, dalla Polonia all’Italia. Così facendo i sistemi politici e le religioni si rafforzavano reciprocamente in vista della formazione di una identità forte ed esclusiva del gruppo nazionale. Il fallimento colossale delle categorie nazionali, religiose, socialiste o laiche di fine Ottocento e della prima metà del Novecento, ha portato ad una ricerca di nuovi contenuti filosofici antropologici e sociali capaci di accogliere meglio la pluralità etnico-culturale dei popoli europei con la loro storia particolare. Così, si è proposta una nuova cornice antropologica capace di definire un nuovo concetto di dignità e di diritti umani in modo da includere non più solo gruppi etnici e religiosi europei con le loro storie millenarie, ma anche una nuova umanità universale portatrice di diverse teorie e forme di sviluppo culturale in tutto l’universo della società umana. Si è cercato così di definire secondo nuovi criteri diversità e somiglianze logico-strutturali d’organizzazione nel campo sociologico, mitologico, religioso ed ecosistemico. Margaret Mead e Claude Lévi-Strauss sono solo gli esempi più noti della ricerca antropologica universale post bellica. Altrettanto, si sono sviluppate teorie e definizioni antropologiche che proponevano una nuova visione del rapporto uomo/società secondo una modalità in grado di includere partico-
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larismo etnico e una definizione umanistica universale secondo un schema scientifico e logico antropologico in grado di promuovere - si sperava nella cultura post bellica francese - la nascita di un neo-umanesimo laico, unendo tendenze di esistenzialismo individuale liberatorio con un neo-universalismo strutturalista in cerca di strutture universali applicabili alle varie forme dell’attività umana dalla religione alle forme rituali della vita. Da parte loro, le religioni storiche organizzate hanno cominciato subito dopo la guerra, sulle orme dell’orrore esistenziale e culturale lasciato dalla guerra stessa e dai genocidi nazisti, ma anche di quello turco della prima guerra mondiale e dello stalinismo sovietico, a dialogare per poter trovare nuovi spazi religiosi universali in grado di includere in una unica visione cultural-religiosa le tradizioni storiche religiose come si sono presentate nella storia: l’ebraismo nelle sue varie fasi, il cristianesimo nelle sue varie forme teologiche e sociali, l’islam e le sue forme d’organizzazione sociale e teologiche. Al dialogo fra le religioni del libro si è aggiunta poi a partire degli anni sessanta con l’adesione di non pochi giovani americani ed europei nati dopo la guerra, la ricerca di nuove forme di vita comunitaria ispirate anche alle esperienze religiose dell’oriente asiatico buddista e induista. Queste sono a un veloce sguardo le esperienze che hanno portato alla nascita e alla formazione del documento Nostra aetate, che stimolò la ripresa di contatto fra l’ebraismo storico ed il mondo cristiano in Europa, e oggi più di cinquanta anni dopo in un contesto politico religioso e culturale internazionale ormai diverso, alla ripresa attiva da parte della chiesa cattolica di un rinnovato dialogo istituzionale con l’Islam in cerca di fondamenti e valori ci-
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vili e religiosi comuni e condivisi. Dialogo e ricerca di nuovi principi etici comuni e condivisi, nati in modo contemporaneo nel mondo islamico moderato come in quello ebraico americano e cristiano cattolico, per poter contenere i conflitti e le tendenze della società post moderna globalizzata. Società caratterizzata da una forte flessibilità di ruoli e identità. Flessibilità dovuta non solo alla crisi e alla mobilità culturale post bellica, ma anche negli ultimi anni ai forti flussi migratori dal sud del globo, prevalentemente di religione islamica al nord del Mediterraneo prevalentemente e storicamente cristiano con qualche realtà e formazione culturale ebraica, ancora presente in Europa, tornando volenti o nolenti alla realtà religiosa e culturale della Spagna medievale e all’incontro/scontro fra ebraismo/Islam/e cristianità. Alla luce di questa nostra analisi si spiega la nostra scelta, circa 5 anni fa, di lavorare insieme - Cardinale, Imam di Firenze e il sottoscritto allora Rabbino Capo di Firenze - per la creazione di una Scuola di dialogo interreligioso a Firenze al fine di offrire risposte alle problematiche della crisi politica religiosa e culturale odierna attraverso un programma educativo in grado di mettere al centro l’analisi e la conoscenza dei problemi religiosi, di identità personale, di immigrazione, di formazione umanistica e religiosa in Italia, del dialogo e della conoscenza interreligiosa, dei concetti e dei valori base delle religioni, in particolare quelle abramitiche: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Un metodo per formare una nuova classe dirigente e una nuova cultura umanistica universale consapevole delle differenze teologiche e concettuali che si sono create nella storia e delle grandi rivelazioni storiche all’umanità. Sembra assurdo, ma di fatto un giovane cittadino colto in Italia o in Europa oggi conosce appena la
sua tradizione religiosa per non parlare di quella biblica e ha delle nozioni molto generiche e spesso sbagliate e non documentate delle religioni altrui. La formazione interreligiosa non mira ad essere confessionale, ma a offrire agli interessati e a chi per motivi professionali o di servizio pubblico ha necessità, gli strumenti base per conoscere e capire le similitudini e le differenze fra le tre religioni abramitiche mondiali. Culture ed esperienze religiose che riguardano principi teologici di fede, calendari e feste diverse tra loro, usanze alimentari legate al rapporto con la natura e con il mondo animale e il consumo di cibi diversi, definizioni di principi etici nei rapporti fra le persone e tra uomini e donne, tra forme di vita tradizionali e quelle della modernità occidentale post illuminista e odierna (individualista e neo capitalista), il concetto di famiglia e il matrimonio, gli spazi materiali e spirituali riservati alla vita sociale per uomini e/o per donne. Un intreccio di storie complesse che ci porta dall’antichità alla modernità e ci chiede come base antropologica filosofica e spirituale un fermo sguardo universale sulla natura umana e la sua ricerca fisico-biologica, sociale e metafisica. Solo un tale presupposto antropologico positivo concernente il talento e il comportamento umano permette di trovare e sviluppare la flessibilità necessaria per poter includere e concepire come un continuo reciproco arricchimento l’incontro tra tradizioni e storie materiali e spirituali diverse tra loro che oggi invece convivono in uno stesso territorio geografico, e che aspirano a sviluppare e a confrontare insieme le sfide del futuro della società postindustriale e post moderna: quelle climatiche ed ecologiche, come quelle del consumismo e della libertà individuale, ma anche la consapevolezza di dover costruire insieme una casa comune dove ogni grup-
po di famiglie o tradizioni riesce a vivere con relativa tranquillità la propria tradizione, accettando e modificando allo stesso tempo il contratto sociale e culturale e le definizioni di ciò che è permesso e proibito, nello spazio privato e/o pubblico. Il credo antropologico relativo alla somiglianza esistenziale e strutturale della ricerca spirituale e materiale dell’uomo come quello francese degli anni Cinquanta e Sessanta, è necessario per permettere e facilitare una nuova negoziazione sui valori fondanti del convivere sociale e culturale. Invece di essere delusi dell’uso strumentale della disgregazione fatto con l’aiuto dello strutturalismo antropologico francese in Europa e altrove in cerca di un’autodeterminazione culturale locale esclusiva e separata dalle altre identità storico-culturali create col tempo anche nella stessa Europa, la nostra società europea ha bisogno oggi di una visione culturale inclusiva e multiforme, di uno sviluppo culturale che potrà avvenire, noi crediamo, solo in base a una conoscenza più profonda e sistematica delle nostre
tre tradizioni culturali e religiose: quella biblica con i suoi parallelismi e somiglianze, ma anche con i suoi profondi e diversi sviluppi storici dell’ebraismo e del cristianesimo. Inoltre è di primaria importanza la conoscenza della storia religiosa e culturale dell’Islam, culla della cultura scientifica e filosofica europea, e la conoscenza dell’evoluzione di questo credo religioso con particolare attenzione a come questa religione ha agito sull’organizzazione della società e ha influito sulle nozioni di libertà sociale e individuale. Per permettere questo necessario scambio di esperienze e negoziazioni in avvenire è necessario creare una nuova solida base storico-culturale, che la nostra scuola si propone umilmente di offrire contribuendo ad una rivoluzione culturale indispensabile: l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam desiderano camminare insieme per prendersi cura del futuro della società, con l’intento di creare attraverso una maggiore conoscenza reciproca, non un nuovo inutile sincretismo, ma uno scambio ed un dibattito costruttivo sui valori base dell’umanità da condividere
e promuovere insieme. Una base culturale che permetterebbe la nascita di una nuova cultura europea universale, basata non più sulla storia di una sola religione e di una sola chiesa, ma sull’impegno al reciproco riconoscimento culturale e religioso delle diverse esperienze, storie e fonti di rivelazioni. Modelli storici di esperienze religiose parallele che mantengono un dialogo continuo tra loro e si arricchiscono l’un l’altro, coltivando insieme un assetto culturale nuovo di ascolto, inclusione e rispetto per l’esperienza e la rivelazione altrui, permettendo alla nuova società europea di definire insieme nuovi valori base comuni di cittadinanza e nuovi equilibri socio culturali attraverso un profondo rispetto religioso reciproco. Preghiamo insieme che sia gradito alla divinità il nostro sforzo e la nostra intenzione di contribuire alla crescita dell’umanità e a una maggiore consapevolezza e conoscenza delle infinite qualità e affinità del Sacro che rappresenta il Dio Unico.
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Contro la torre di Babele
Rav Haim Fabrizio Cipriani Presta servizio rabbinico presso le comunità francesi ULIF (Marsiglia) e Kehilat Kedem (Montpellier). In Italia è rabbino e fondatore della comunità Etz Haim (www.etzhaim.eu ). Esercita in parallelo una carriera internazionale di violinista concertista e direttore d’orchestra. Inoltre è autore di svariati saggi a tema ebraico.
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Da sempre le religioni costituiscono un potenziale terreno di divisione per l’essere umano. Per questo molti usano identificare la religione come una forza essenzialmente negativa e considerano estremamente positiva un’evoluzione della società in cui le religioni sono relegate al ruolo di convinzioni private. Dal punto di vista politico questa è senza dubbio un’ottima cosa. Oggigiorno viviamo però in una società che si dirige verso una condizione di post-laicità, per usare l’idea del filosofo tedesco Jürgen Habermas. L’epoca della nascita degli Stati moderni richiedeva infatti una neutralità religiosa, nella quale i cittadini perdevano i loro contorni religiosi, e questa fase era necessaria per la fondazione delle democrazie moderne. Questa narrativa però sta evolvendo insieme al resto delle vicende umane. L’esperienza che il mondo sta attraversando a causa della pandemia ha mostrato con chiarezza quanto le frontiere del nostro mondo siano labili, e le culture umane in costante contatto. In questo mondo la conoscenza dell’altro è fondamentale, e l’illusione di vivere in modo isolato è per fortuna ormai obsoleta. Ma che tipo di interazione è possibile fra le diverse religioni, e fra le religioni e l’ampia massa di persone non credenti? Esistono diversi tipi di interazioni possibili. Vi è un’interazione di vita, ossia la condivisione di aspetti dell’esistenza che sono comuni a tutti. La nascita, la morte, la sofferenza, ma anche solo un tramonto o una tempesta. Poi vi è l’interazione intellettuale, attraverso lo studio comune e la riflessione condivisa sulle credenze, la storia, gli usi e costumi.
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Sull’aspetto teologico è talvolta più difficile interagire. Vi sono però alcuni aspetti importanti. Uno per me centrale è l’idea che ogni cultura religiosa possiede una parte essenziale del Tutto, e che questa realtà trascenda le singole culture religiose. Per arrivare a questo, ritengo necessario che ogni religione si spogli della sua parte di esclusivismo, ossia della tendenza a credere di essere l’unica a portare davvero la verità. Questo vale per tutte le religioni, perché questo esclusivismo è presente in ognuna delle grandi religioni, ed è spesso incompatibile con un dialogo alla pari. La letteratura ebraica biblica contiene testi come Michea 4-5, “Mentre tutti i popoli camminano ciascuno nel nome del suo Elohim, noi cammineremo nel nome di YHVH nostro Elohim, all’infinito”, che mostrano come ogni via verso la Trascendenza abbia la stessa dignità. All’inizio del suo Sefer Emunot veDeot, il saggio babilonese medievale Saadia Gaon dice che esistono molti modi di arrivare ai messaggi importanti dell’etica religiosa, includendovi i principali monoteismi. Il filosofo medievale spagnolo Maimonide nel suo Mishné Torà spiega che il Cristianesimo e l’Islam hanno un ruolo importante nell’avanzamento etico dell’umanità. Il rabbino medievale provenzale Menachem haMeiri teorizza addirittura l’esistenza di un gruppo di culture accomunate dalla ricerca etica, che sarebbero da considerare in pratica come membri della stessa famiglia religiosa. Ma non sempre l’ebraismo, spesso oggetto di persecuzioni a sfondo religioso da parte delle culture dominanti, ha saputo essere all’altezza di questi nobili ideali. Il Rabbino Capo emerito del Regno Unito, Jonathan Sacks, negli anni che hanno seguito l’11 settembre ha scritto il libro The Dignity of
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Difference, dove teorizza un pensiero fondamentale. La sua idea è che a partire dall’11 settembre è chiaro a tutti che le religioni non possono essere messe da parte, ma al contrario giocheranno un ruolo fondamentale nella storia moderna e futura. Questo ruolo può essere positivo o catastrofico, e sta a noi tutti evitare che questa seconda possibilità non si verifichi. A questo fine è fondamentale che ogni religione sappia mettere da parte i propri movimenti estremisti, che esistono ovunque, per costruire un dialogo fra gli elementi moderati. Sacks usa l’esempio molto eloquente della Torre di Babele, dove la Trascendenza spezza il totalitarismo del pensiero attraverso un’esplosione delle culture e dei linguaggi, che chiaramente in quella lettura appaiono come incompleti e frammentari, perché nessuno di loro può contenere la totalità del senso. Noteremo però che il rabbino Sacks stesso fu gravemente criticato dai movimenti ebraici più estremisti e conservatori per la sua grande apertura, e finì per realizzare una seconda versione emendata del suo libro, autocensurandosi. Questo la dice lunga su quanto sia difficile in certi ambiti perseguire una politica di reale apertura al mondo. La filosofia postmoderna ci aiuta, con il suo scetticismo nei confronti delle grandi narrazioni e ideologie, a sviluppare l’idea di una verità sempre plurale e cangiante a seconda della posizione in cui ci si trova. Alcuni pensatori dell’ebraismo moderno, come l’insigne universitaria israeliana Tamar Ross, hanno sottolineato l’affinità fra questo tipo di posizioni e alcuni aspetti dell’ebraismo. Non dimenticheremo che secondo un Midrash, un antico commento rabbinico, la Torà è stata data in settanta lingue, una per ogni nazione, e ben sappiamo come un messaggio possa acquisire sfumature di-
verse a seconda della lingua in cui è espresso. Questo significa che ognuno ha una parte del Tutto, e che dobbiamo prenderne atto fino in fondo e assumerne pienamente le conseguenze. Personalmente ritengo che nell’attuale contesto, la possibilità di interagire e conoscersi sia fondamentale, e ogni sforzo dovrebbe essere fatto in questo senso. Alcuni anni fa ho fondato in Italia il gruppo Etz Haim, un gruppo nazionale a carattere ebraico ma aperto a tutti senza distinzioni di background, anche con questo scopo di condivisione della conoscenza. Si tratta di un gruppo unico nel suo genere in Europa, che esprime con chiarezza la mia volontà di trascendere alcuni particolarismi per permettere un più alto grado di condivisione della spiritualità. In parallelo è senza dubbio importante che nascano iniziative di condivisione e di dialogo a livello locale, e sono ben lieto di poterne fare parte di un’iniziativa di questo genere a Genova, città di incontri, di scambi, crocevia di culture da sempre. Perché solo l’incontro, lo scambio e la condivisione permettono di evitare la costruzione delle moderne torri di Babele, fatte di pensiero unico e di negazione della diversità.
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Coronavirus: quanto resta della notte? Luciano Rosasco Appassionato di montagna e di fotografia, mi sono diplomato al liceo classico ed ho lavorato per oltre quarant’anni come impiegato di banca. Sono sposato e padre di un ragazzo con sindrome di Down. Da sempre impegnato nell’associazionismo cattolico e nel dialogo ecumenico, negli anni mi sono occupato di formazione dei giovani e di volontariato a favore di Rom e Sinti, di persone disabili e senza fissa dimora. Attualmente sono in pensione e proseguo il servizio per i più poveri, occupandomi in particolare della distribuzione dei pasti a chi vive per strada. Frequento con umiltà e passione la Sacra Scrittura, ricercando l’eco della parola di Dio rivolta alla vita di tutti gli uomini: “per coloro che credono e per coloro che dicono di non credere. Gli uni e gli altri, a volte questi più di quelli, lavorano, soffrono, sperano perché il mondo vada un po’ meglio”. (don Primo Mazzolari)
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Tutti, in ogni parte del mondo - con intensità diversa ma con uguale incertezza - abbiamo vissuto la notte. Tanti si sono affannati ad associare il momento della pandemia ad una guerra, applicando all’attuale situazione chiavi di lettura militari: si dice guerra per dire epidemia, nemico per parlare di un virus, attacco per dire infezione, armi per dire medicinali e vaccini. Siamo onesti: la guerra é ben altra cosa. Non abbiamo combattuto in trincea, non siamo stati mandati al fronte, non abbiamo subito bombardamenti, non abbiamo patito ferite, penuria e fame. Quello é successo alle generazioni passate, questo succede a chi vive in altre parti del Mondo. Proprio gli ultimi testimoni delle nostre guerre sono stati le prime vittime dell’epidemia presente. Ciò nondimeno abbiamo fatto esperienza dell’angoscia per una minaccia sconosciuta e mortifera, dell’isolamento improvviso e dello stravolgimento dei nostri ritmi consueti e dei modi di rapportarsi con gli altri. Tutti abbiamo dovuto fare i conti con un modo diverso di vivere e tanti, purtroppo, con un modo diverso di morire. Molti sono infatti morti da soli, soffrendo senza nessun caro vicino, senza un volto e una mano amica. Tanti credenti sono morti senza il conforto dei sacramenti, tanti defunti non sono stati accompagnati da nessuno nell’ultimo viaggio. L’immagine del mesto corteo di camion militari che nella notte trasportavano via da Bergamo le salme dei defunti per Covid é stata lo spartiacque tra il facile ottimismo e la coscienza del dramma. Quella sì é stata un’immagine di guerra. Incatenati a una lunga notte Forse proprio la notte è la miglior metafora che può descrivere il momento che abbiamo vissuto.
C’è un libro della Bibbia cattolica, il libro della Sapienza, scritto poco prima dell’avvento di Cristo, che ha un capitolo che sembra anticipare del tutto ciò che in questi tempi abbiamo vissuto. Scrive il libro della Sapienza al capitolo 17: “prigionieri delle tenebre e incatenati a una lunga notte, chiusi sotto i loro tetti, giacevano esclusi dalla provvidenza eterna” (Sap. 17,2) Il testo si riferisce agli ingiusti, nemici di Israele, ma sembra proprio descrivere efficacemente la situazione in cui ci siamo improvvisamente ritrovati. Il testo continua dicendo: “... essi, durante tale notte davvero impotente, uscita dagli antri del regno dei morti anch’esso impotente, mentre dormivano il medesimo sonno, ora erano tormentati da fantasmi mostruosi, ora erano paralizzati, traditi dal coraggio, perché una paura improvvisa e inaspettata si era riversata su di loro. Così chiunque, come caduto là dove si trovava, era custodito chiuso in un carcere senza sbarre: [...] sorpreso, subiva l’ineluttabile destino perché tutti erano legati dalla stessa catena di tenebre.” (Sap.17,13-16) Chiuso in un carcere senza sbarre Abbiamo fatto tutti esperienza dell’impotenza di essere custoditi in un carcere senza sbarre, tutti accomunati solo dall’ineluttabile destino di ritrovarci legati dalla stessa catena di tenebre. Il timore per la propria salute, per quella dei propri cari. Il dubbio di cosa potesse succederci se avessimo contratto la malattia e se avessimo dovuto subire un ricovero. L’angoscia per il timore di dover lasciare improvvisamente e forse per sempre i propri cari ha occupato la nostra personale notte impotente.
Neanche il confinamento nelle nostre case ci dava sicurezza: “Neppure il nascondiglio in cui si trovavano li preservò dal timore, ma suoni spaventosi rimbombavano intorno a loro e apparivano lugubri spettri dai volti tristi”. (Sap.17,4). Nelle nostre case eravamo infatti inseguiti dalle statistiche sull’andamento dell’epidemia, sul crescere dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva, dei decessi. Nelle strade deserte l’unico suono era quello lacerante delle ambulanze che forse annunciava un nuovo ricovero. Ogni giorno alle 18, c’era il rito della conferenza stampa della Protezione civile nazionale, poi quello del Governatore della regione, poi i commenti e le valutazioni. Finché non se ne poteva più... Non abbiamo trovato conforto nelle parole di quei volti tristi che hanno invaso le nostre case: “Fallivano i ritrovati della magia, e il vanto della loro saggezza era svergognato. Infatti quelli che promettevano di cacciare timori e inquietudini dall’anima malata, languivano essi stessi in un ridicolo timore”. (Sap. 21,7-8) Il vanto della loro saggezza era svergognato Esperti di ogni tipo o sedicenti tali, virologi, epidemiologi, statistici, governanti e politici vari si avvicendavano ad ogni ora in Tv o sul web per spacciarci dati, offrirci spiegazioni, prometterci soluzioni, indicarci comportamenti. Spesso in contraddizione tra di loro, languivano essi stessi come dice la Bibbia - in un ridicolo timore. Di fronte a tanta incompetenza, alle contraddizioni, alle palesi falsità abbiamo cominciato a perdere la fiducia e a far crescere la paura: “La paura infatti altro non è che l’abbandono degli aiuti della ragione; quanto meno ci si affida nell’in-
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timo a tali aiuti, tanto più grave è l’ignoranza della causa che provoca il tormento”. (Sap.17,11-12) Passati gli stornelli festanti sui balconi, scoloritisi gli arcobaleni dei bambini, ci é rimasta solo l’angoscia e una domanda é scaturita nel cuore di tutti, dell’ipocondriaco e del salutista, di quello che ascoltava i profeti di sventura come di colui che aveva creduto all’andràtuttobene. Anche quella era una domanda antica: “quanto resta della notte?” Ci sono altri due versetti della Bibbia, nel grande libro del profeta Isaia, che dicono: Mi gridano da Seir: «Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?». La sentinella risponde: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is. 21,1112) Shomèr ma mi-llàilah Questi versetti del profeta Isaia sono affascinanti e misteriosi, in tanti si sono interrogati sul senso di queste parole. É uno dei cantici più belli di tutta la Bibbia. È lo Shomèr ma mi-llàilah?: che, in ebraico antico, significa «Sentinella: quanto della notte ?». Il poema notturno della sentinella è molte cose insieme, e forse il primo senso che aveva in mente il suo primo autore è ormai perso per sempre. È la preghiera dell’attesa e della speranza nel tempo della notte, dell’attesa e della speranza di Dio, dell’amico, della pace, del paradiso, della giustizia, dell’amore che ancora non torna e che dovrebbe tornare. Il canto di chi lotta per non perdere la fede, di chi sa che l’alba arriverà ma non sa quando, e il buio continua. È il
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pianto delle notti dell’anima, che non finiscono mai. Ma è anche una rivelazione del mistero della vocazione profetica, e quindi dei carismi, di ieri, di oggi. Chi é lo Shomér? Il profeta è sentinella della notte. Non è uomo o donna della luce, non è abitante del mezzodì. Sa che la notte non è per sempre, l’alba arriverà, ma soprattutto sa di non sapere quando e sa che «è ancora notte». Abita la notte, come tutti; ignorante, come tutti, del tempo dell’aurora. Non chiama la notte giorno, non accende fuochi per spegnere il buio. La conosce, è il suo tempo, e non dà risposte che non può dare. Il profeta non è un astrologo, non sa leggere le stelle, non è un indovino né un aruspice. Non è questo il suo mestiere. Lui è “colui che sta”, rimane nel suo posto di vedetta notturna. E lì spera, attende, crede, non sa, come tutti, con tutti. Ma dialoga con i passanti, parla con i viandanti della notte: «Se volete domandate, domandate ancora, tornate a chiedere». Non può dare quelle risposte, ma non si rifiuta di ascoltare le domande. Non scaccia i domandanti perché non ha risposte da dare, e addirittura li invita a continuare a domandare, a tornare, a ritornare per chiedere. In questi tempi difficili, anche noi forse ci siamo trovati a gridare “Quanto resta della notte?” nell’incertezza del presente e nel timore per il domani, forse di fronte al dolore nostro o di persone a noi molto care. E già il trovare qualcuno che ascoltasse la nostra domanda, senza pretendere di darci una risposta, ci sarebbe di sollievo. Quella della sentinella mi sembra però una risposta onesta: “Viene il mattino, poi anche la notte”, una risposta che non dà illusioni perché la vita é così, un alternarsi di gioia e di dolore, come si alternano il giorno e la notte. Anche se il
salmista biblico sa che la sentinella, in quanto tale, non é rassegnata alla notte, é scritto infatti: L’anima mia è rivolta al Signore più che le sentinelle all’aurora. (Sal.130,6) Ma vorrei sottolineare che la risposta della sentinella non si esaurisce qui. Essa continua dicendo: “se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!” Il tono dell’oracolo é sconcertante per la sua inaudita cortesia: se volete domandare, ritornate, domandate... Se volete domandare, domandate, convertitevi, venite! Questo invito é insolito, inaspettato. La sentinella é lì a vegliare nella notte, in piedi, in attesa di eventuali nemici ma non esita a rispondere agli interroganti ed anzi li invita a ritornare, a convertirsi, a porre nuove domande. Secondo una diversa interpretazione del termine ebraico teshuvà (ritorno), l’invito della sentinella non é tanto alla conversione quanto al ritorno. Ancora, un’altra interpretazione é quella di un’invito a prendere dimora presso di lei, a diventare una nuova sentinella della notte. Penso che al cospetto della morte, nel dolore della malattia, più che di risposte facili e consolatorie, abbiamo bisogno di una sentinella che ascolti, di qualcuno a cui potersi appellare, nella notte della sofferenza e del dubbio. Di qualcuno che non bruci la domanda nella fretta, che risponda con affabilità e comprensione. Anche quando la domanda magari é muta, espressa solo dagli occhi, da una mano che si aggrappa alla nostra. Ma questa domanda, lanciata in una lunga notte, davvero impotente, a chi era rivolta? Qual’é la sentinella a cui ci si rivolge? E’ un uomo di Dio, un credente la sen-
tinella o può essere anche un non credente ? Come ho detto, secondo una delle traduzioni del brano di Isaia, quella greca dei LXX, la sentinella invita a tornare e a prendere dimora presso di lei: “se volete domandare, domandate e presso di me prendete dimora”. E’ l’invito cioè a diventare sentinelle. C’é bisogno di uomini e donne che si mettano di sentinella, che accolgano le domande di chi é malato e soffre. C’é bisogno dello Shomer - la Sentinella: ce n’é bisogno perché davanti al dolore é più facile fuggire che restare. Quante volte chi soffre é abbandonato anche da familiari e amici; per il pudore, la paura, l’incapacità che abbiamo a stare vicino a chi sta male e ad ascoltare le sue domande. La preoccupazione che il dolore ci contagi, che la sofferenza ci coinvolga ci rende incapaci di pathos. In fondo é un po’ vero che “per tutti il dolore degli altri é dolore a metà”. (F. De Andrè) In questi tempi c’é stato tutto un dibattito sul fatto che l’esperienza della pandemia ci avrebbe reso migliori, o comunque diversi da prima. Tanti invero hanno saputo reagire al timore e all’incertezza dimostrandosi attenti e solidali, dandosi disponibili all’aiuto di chi era in maggiore difficoltà. Ma tanti altri si sono rinchiusi nelle proprie case preoccupati solo per sé, lamentosi per le limitazioni che erano costretti a vivere, senza un particolare coinvolgimento per chi era fuori dei propri ristretti confini. Possiamo forse dire che l’esperienza della chiusura ha esasperato le caratteristiche di ognuno: chi era buono é diventato migliore, chi già era chiuso e incattivito é diventato più rancoroso ed ostile verso gli altri. Anche le religioni in questi tempi si sono ritrovate impedite e
rinchiuse, impossibilitate a celebrare le loro liturgie riunendo i credenti: la Quaresima e la Pasqua cristiana, la Pesach ebraica, il Ramadan e l’Eid al-Fitr degli islamici non hanno visto celebrazioni condivise, sono stati impediti riti consueti e fondamentali. Ci si é dovuti affidare a collegamenti virtuali con i luoghi e con i rappresentanti del culto. La distanza fisica, necessaria e dovuta, é inspiegabilmente diventata distanza sociale: e qui forse si é un po’ persa l’essenza delle chiese, delle religioni che vivono dell’incontro e della vicinanza tra i fedeli: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt.18,20) dice Gesù nel vangelo secondo Matteo. Le religioni si sono ritrovate davanti ad una nuova sfida: accogliere le domande esistenziali che crescevano nella loro gente senza poter raccogliere chi quelle domande le poneva. E’ in fondo quello che vive la sentinella biblica, che ascolta un grido nella notte, un grido ripetuto e collettivo, anche se non vede da chi esso giunga. La risposta non é però nella tecnica; non é il web, la radio, la Tv. La risposta é la crescita dell’uomo interiore. Non solo dei ministri del culto ma di ogni credente che voglia farsi sentinella per il prossimo. Anche chi non si riconosce in una fede ma é attento alle domande essenziali può essere una sentinella accogliente. Sì, perché certe domande “ultime” spesso non hanno una risposta che un uomo esteriore possa dare. Certo, ci sono tanti che pretendono di saper dare certezze e spandere verità con un tweet o un post. Ma sono falsi profeti, gente da cui bisogna guardarsi, perché solo attenta ad ogni esteriorità e ogni guadagno.
lui che veglia, che é attento alle domande, che invita chi le pone a non accontentarsi, a ritornare per chiedere di nuovo. Ma che é pure cosciente del proprio limite: sa che viene il mattino ma che la notte non é finita, che sarà giorno ma che anche la notte tornerà. E’ altresì l’uomo che non sfugge al dolore altrui, alle domande di senso nella vita: “se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!” C’è tanto bisogno di ascolto perché molte sono le angosce nel cuore della gente; spesso sono interrogativi che non pretendono una risposta, domande che hanno però bisogno di ascolto, per non perdersi nella disperazione e nella solitudine. Le voci che gridano nella notte, che pongono una domanda sul futuro devono poter trovare, se non una risposta certa, almeno un’ascolto vero. Vorrei allora concludere citando le parole di un poeta del nostro tempo: La notte, udite, sta per finire, ma il giorno ancora non è arrivato, sembra che il tempo nel suo fluire resti inchiodato... Ma io veglio sempre, perciò insistete, voi lo potete, ridomandate, tornate ancora se lo volete, non vi stancate... Cadranno i secoli, gli dei e le dee, cadranno torri, cadranno regni e resteranno di uomini e idee, polvere e segni. Ma ora capisco il mio non capire, che una risposta non ci sarà, che la risposta sull’avvenire è in una voce che chiederà: Shomèr ma mi-llailah? Shomèr ma mi-lell? Shomèr ma mi-llailah, ma mi-lell? (F. Guccini)
La sentinella biblica é invece l’esempio dell’uomo interiore: é co-
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Dialogo tra religioni e spiritualità La religione promotrice o ostacolo?
Marco Gaetano Nativo di Bolzano, residente a Serra Riccò (GE), lavorativamente impegnato in una impresa di materiali per l’isolamento termico nei settori automotive, precedentemente coordinatore di una struttura per persone con patologie neurologiche; la sua formazione dopo il liceo scientifico si sviluppa intorno ai temi filosofici e teologici, raggiungendo il baccalaureato in teologia e frequentando poi la specializzazione in teologia morale con indirizzo economico – politico. La passione teologica lo porta con frequenza a tenere corsi di formazione, incontri e dibattiti sui temi legati all’orizzonte religioso, alle Scritture del cristianesimo, ai temi morali.
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Ciò di cui pensiamo di possedere la conoscenza, è spesso motivo di grande ignoranza. Per questo approcciare il tema del dialogo tra religioni, ma subito rilette come spiritualità, richiede grande umiltà e proposte di percorsi più che definizioni e certezze. Domande e forse qualche traccia di risposta, osservazioni e cammini di approfondimento, più che semplificazioni e schematizzazioni. E tuttavia la dimensione di questo articolo chiede proprio di abbozzare e ridurre le complessità, dire parole di senso e aiutare chi legge, ma ancor più chi scrive, a trovare qualche accenno sintetico e illuminante. Innanzitutto chiariamo il concetto di dialogo che i dizionari etimologici ricordano nella sua origine greca e che, delle diverse sfumatura possibili, rimandano a due dimensioni intrecciate. Il «logos», ovvero la parola, il ragionamento, il colloquio e quindi la comunicazione; e «dia» il cui significato primo è: attraverso. Pertanto se l’oggetto è la dimensione della comunicazione, del parlare, questo viene colto nella realtà relazionale della conversazione, che dal latino traduciamo con trovarsi insieme. Ne deduciamo, con buona approssimazione, che la parola dialogo implica un oggetto (un logos) che determina un comunicare (comunicarsi) dentro uno spazio condiviso tra soggetti differenti. Il dialogo rappresenta quella dimensione strutturale della comunicazione tra due soggetti che decidono, o sono costretti, a condividere una dimensione, una vita, un luogo, un tempo e in quel trovarsi insieme si comunicano. Un secondo chiarimento. Il dialogo inter-religioso. E’ necessario ricordare che una cosa è il dialogo inter-religioso e una cosa l’ecumenismo. Questo secondo riguarda i cristiani tra di loro, nella loro storia e nelle separazioni tra chiese latina, orientale, riformata e via dicendo. Il dialogo inter-religioso invece rappresenta la comunica-
zione tra soggetti appartenenti a tradizioni religiose differenti. Dal punto di vista di ALGEBAR l’attenzione riguarda in particolar modo le religioni monoteiste, in quanto lo sguardo dell’Associazione è rivolto al mare nostrum, al Mediterraneo e allo scambio umano di tutti coloro che lo vivono nelle diverse latitudini e longitudini. Conseguenza ne è il coinvolgimento nel dibattito e nelle discussioni tra membri del gruppo di persone con tradizioni differenti, islamici, ebrei, cristiani, oltre alle persone non aderenti ad alcun credo religioso specifico. Questo ultimo aspetto fa si che nell’idea del dialogo inter-religioso si sia aperta una riflessione più ampia, ovvero quella che riguarda la dimensione della spiritualità. Ecco perché il nostro ragionamento, durante questo articolo, chiede di aprirsi ad un tema più vasto e più complesso, quello della spiritualità. Ma cosa è la spiritualità? O cosa vogliamo intendere almeno in queste righe? E ancora, solo chi appartiene ad una religione, ad un credo, solo la persona che si rapporta ad un Trascendente vive una forma di spiritualità? Oppure possiamo dire che esiste una dimensione spirituale “laica”? E cosa intendiamo per laica? In questo numero della rivista vi sono approcci e riflessioni differenti, e la stessa Associazione ragiona e vive sensibilità diverse su questo tema. Per quel che riguarda il focus qui proposto, restiamo sostanzialmente dentro la più stretta cerchia delle religioni istituzionali. Il Paese nel quale viviamo ha radici profondamente interconnesse con la cristianità, così come con il pensiero greco-latino e con forme di interscambio con la cultura ebraica e islamica. Le tante chiese che ancora oggi animano il paesaggio sono testimonianza attiva di una profonda penetrazione della dimensione religiosa cristiana. Le stesse esperienze evangeliche, riformate, valdesi, sono state vis-
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sute come ospiti, non sempre graditi, e hanno elaborato un concetto di dialogo partendo dalla loro posizione di minoranza, rispetto all’apparente monolitico mondo della cattolicità. L’organizzazione religiosa, intesa nelle sue forme più o meno verticistiche e centralizzate, ma certamente istituzionalizzate, è sempre diventata soggetto attivo nello spazio sociale e politico nel quale ha vissuto. Così l’appartenenza ad un gruppo, più o meno ampio, appoggiato su un credo religioso definito da prassi, liturgie, dottrine e professioni di fede, ha contribuito in maniera determinante al consolidarsi di comunità non solo, o non tanto, religiose, quanto sociali ed etniche. Il terreno che stiamo cercando di sondare è alquanto periglioso, facile cadere in semplificazioni qualunquiste o in pregiudizi ideologici. L’appartenenza ad un gruppo etnico spesso determina la dimensione identitaria. E’ stata la psicologia sociale a studiare e sviluppare molto tale concetto. Ma per quanto concerne questo articolo teniamo a riferimento solamente il concetto di identità di un gruppo come quel sentimento che fa si che tale gruppo di persone si sentano accomunate da riferimenti sociali, culturali, storici, comuni. Nello specifico teniamo insieme quel legame che unisce persone di uno stesso credo dentro un comune orizzonte sociale. Fino a quando tali mondi, tali sfere di interesse, si rapportano a distanza il dialogo non esiste. Come sarebbe una forzatura immaginare realtà dialogante il rapporto tra un dominante e un dominato. Ma la storia è ricca di queste asimmetrie. Pensiamo allo sviluppo del rapporto inter-religioso. In un ambiente dominato da un gruppo e dal suo credo, l’altro, il diverso, o viene visto come eretico o come infedele. Nel primo caso pensiamo a colui che non è allineato ai precetti del dato di fede o alle prassi religiose. Nel secondo caso è colui che professa un’altra
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religione ma che è così in minoranza da avere come possibilità o la con-versione o l’allontanamento o qualche forma di costrizione. La storia è piena di crimini. Ogni gruppo, ancor più se vincolato dalla dimensione religiosa (religione rimanda al termine relegere, ovvero raccogliere), trova funzionale la caccia alle streghe, perché l’altro, che poi assurge subito al ruolo del nemico, è alquanto utile nel mantenimento interno del gruppo, nella sua coesione. Ma perché dentro un tale contesto l’eretico (eresia, dal latino haeresis, ovvero scelta), o l’infedele sono oggetto di problematica? Forse in maniera banale possiamo immaginare che la loro presenza rappresenti un pericolo alla stabilità dell’edificio socio-religioso del gruppo. Possa insinuare il dubbio, determini sguardi non ortodossi circa il credo e azioni non «orto pratiche». Ma quando il contesto si differenzia e quando ci si ritrova (trovarsi insieme) dentro la stessa dimensione di vita e non esiste una maggioranza omologante, ma neanche una minoranza arrogante, il dialogo può dunque avere inizio? Apparentemente la giustapposizione di vettori più paragonabili, di pesi equiparabili potrebbe indurci a pensare che sia un fattore favorevole al dialogo. Ma è qui che emerge una delle radici profonde della serietà del concetto di dialogo tra religioni. Le religioni monoteiste vivono grazie ad un’esperienza del trascendente che è la sua dimensione di rivelazione. Certamente persiste il fattore dell’ineffabile, del Dio impronunciabile e anche indescrivibile. Ma è l’azione di questo Totalmente Altro che ha generato il processo di fede. E’ JHWH che si offre ad Abramo e poi si concretizza nel liberatore dell’esodo. E’ lui che attraverso la mediazione dell’angelo Gabriele offre la sua parola dettata al fedele, è lui che si incarna nella storia. Tradizioni differenti, per alcuni aspetti inconciliabili, ma
legate dalla dimensione dell’Altro che ti si presenta e si ri-vela (nel senso che si disvela e che si vela nuovamente). La questione, tuttavia, riguarda un aspetto particolare che si è venuto, forse inevitabilmente, a determinare nel farsi storico delle esperienze ebraiche, messianico-cristiane, islamiche: la dimensione della verità. Il Dio è la Verità, rivela al fedele la verità del mondo. Semplificando, con i limiti di questo, se ricevo da Dio la verità, ebbene come suo fedele sono chiamato a custodirla, a preservarla. Per questo chi compie una scelta differente all’interno del gruppo di credenti si evidenzia come eretico. Ma se poi di fronte mi si pone una persona che anch’essa professa, con tutta la sua tradizione, di aver ricevuto la verità? Esistono due verità? E la soluzione è quella che ciascuno si tenga gelosamente la sua? O il conflitto? La primazia? Nell’inevitabile banalizzazione di quanto sopra approssimato, sta una chiave di lettura di alcuni scontri antichi e moderni e di alcune pericolose riletture tra appartenenza, storia, religiosità, estraneità e via dicendo. Meriterebbe invece, come approccio religioso alla questione, riflettere con pacatezza e rigore logico su quale senso religioso si intenda nel concetto di verità. Non è questo il luogo per un’analisi del concetto noetico, etico o religioso della verità, quanto piuttosto una prima proposta di itinerario che fa della verità religiosa quel dono di logos ricevuto per essere scambiato. E’ il logos che chiama alla verità e che nel divenire storico non si impone ma si pone, non si definisce ma si incarna, non obbliga ma chiama alla libertà. La rivelazione che concretizza in «essere nella storia» il Dio Altro come Unico, è effettivamente legata al concetto di verità. A-letheia (il termine greco) significa per l’appunto verità ma nella sua precisa forma linguistica disvelamento (a=togliere letheia=il velo), la rivelazione e la verità si
offrono parimenti al credente del Dio Unico. Ma tale aspetto dicevamo si concretizza nella storia. Così possiamo proporre l’itinerario che se il fedele vive la propria vita in risposta alla chiamata di Dio, il Rivelatore, è solo nella pienezza escatologica che egli raggiunge integralmente tale dimensione, e quindi la Verità si pone come fine e non come dato. E’ nel cammino storico che si fa la verità, e fare la verità ha una dimensione religiosa, per l’appunto escatologica e rivelativa, etica, perché il Dio rivelato in tutte e tre le fedi abramitiche si manifesta come Amore e chiede di essere incarnato nell’amore a Dio e al prossimo, e noetica, perché chiama l’uomo nella sua dimensione razionale e logica. Resta un’ultima questione da accennare. Il dialogo inter-religioso si dimensiona dunque in quanto la Verità, (la rivelazione) avviene nella poliedricità della storia e pertanto le persone chiamate (convocate) dal Totalmente Altro camminano nelle diversità verso l’omega finale che determinerà una dimensione di unità ora impossibile. Ma il dialogo tra persone chiama ciascuno a farsi trovare in uno spazio comune per portare il suo logos che lo inabita. Possiamo dunque dire che il dialogo stesso tra persone è un dialogo tra spiritualità? Dipende da cosa si intende per spiritualità. Se il concetto è legato esclusivamente all’appartenenza religiosa allora il dialogo-religioso e spirituale riguardano solo gli aderenti a determinate fedi. Se invece per dimensione spirituale intendiamo quella realtà antropologica che pone la libertà di ciascuno di fronte alla possibilità dell’oltre, o con diversa immagine e verso, alla capacità dell’interiore, del profondo, del simbolico, ebbene il dialogo tra persone riguarda il dialogo tra spiritualità ciascuna portatrice di un seme del logos umano, che per il credente cristiano è l’immago Dei.
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Il valore del dialogo per la creazione della civiltà e la convivenza Abdulrazzaq Al Malahi Dott. Abdulrazzaq Al Malahi è docente di lingua araba all’Università Al-Iman di San’a’ Yemen, ha il titolo di dottorato di ricerca in lingua e letteratura araba, ha una seconda laurea in dottrina islamica, è un poeta viene chiamato il poeta di San’a’, ha pubblicato numerose raccolte di poesie, attualmente è l’imam del centro culturale islamico di Genova.
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1. Chi è l’essere umano? L’essere umano è l’unica creatura degna di intelletto, che è il miglior dono con cui Allah distinse l’uomo dall’animale, per questo gli diede la libertà di scelta e il compito di esplorare, costruire coltivare e popolare la terra. Inoltre, gli proibì di diffondere la corruzione e rovinare la natura. Allah non abbandonò l’uomo, perciò gli tracciò le principali linee guida ovvero la religione. Cosicché possa percorrere la vita con l’emendamento, la conciliazione, il corretto utilizzo fino all’ora del suo passaggio alla vita ultraterrena, dove verrà discusso il suo operato: “Hai conciliato o posto la corruzione”,” hai costruito o demolito”. Dopodiché riceverà la miglior ricompensa o la giusta punizione. L’ uomo crede in un Dio e professa una religione per un istinto naturale. La religione è antica e continuerà ad esserci durante tutta l’esistenza della specie umana. La vita terrena non è il posto del giudizio, è la fase della prova e della libera scelta.
2. L’Islam, la scienza, la ragione e l’emozionee Esiste un legame molto forte tra la religione musulmana e la scienza. Un legame forte che non ha precedenti, non c’è fede senza scienza. L’intelletto è il mezzo essenziale per il raggiungimento della conoscenza e della sapienza. L’islam promuove il pensiero e il ragionamento con la testimonianza di oltre 300 versetti nel sacro Corano. L’emozione (amore, odio, gioia, rabbia, nostalgia, invidia, compassione, …) stimola l’intelletto ma non lo comanda, stimola l’uomo nel compimento di ciò che pensa il cervello (sempre in corrispondenza fra di loro). Non è
essa a dargli indizi o comandi. La ragione anche di un’intelligenza superiore senza l’emozione non matura azioni e non dà frutti. Il mezzo dell’emozione è il cuore, la sua conciliazione o la sua corruzione provoca effetti su tutto il corpo. Allah disse: “In ciò vi è un monito per chi ha un cuore, per chi presta attenzione e testimonia” (Corano 50:37). Disse il profeta Mohammed pace e benedizioni su lui: “Nel corpo c’è un organo che se è sano rende tutto il corpo sano, ma se è deteriorato tutto il corpo è deteriorato ed è il cuore”. Il Corano dà importanza alle emozioni e nello stesso tempo invita a porre attenzione al loro uso, come mezzo di comando delle azioni umane (è citato in più di 170 versetti coranici). Disse Allah: “In ciò vi è un monito per chi ha un cuore, per chi presta attenzione e testimonia” (Corano 50:37).
3. L’obbligo dell’uomo secondo l’Islam I principi e le direttive dell’islam sono essenziali e chiari come la luce del sole. I suoi principi sono flessibili adattabili a tutti i tempi. Così è stato il volere di Allah, in maniera che il musulmano possa vivere in armonia con l’universo, in pieno rispetto verso altri credi religiosi. Ed è l’ultimo messaggio divino all’uomo sulla terra, un messaggio che iniziò con Adamo. L’islam invita al dialogo con tutte le etnie e religioni, senza escludere alcuno. Usa dei principi importanti e necessari per la vita delle persone e la convivenza reciproca tra i diversi, come: la ragione, la giustizia e la libertà. In essa non trova posto il razzismo, il terrorismo fisico e di pensiero, la differenziazione di classi sociali, l’odio e l’ingiustizia, ecco alcuni principi contenuti nel sublime Corano: l’equilibrio “Non eccedete. In verità
Allah non ama coloro che eccedono” (Corano 5:87); le buone maniere nel dialogo “ e discute con loro nella maniera migliore”(Corano 16:125); la curiosità di conoscere e di rispettare “O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosceste a vicenda” (Corano 49:13); onestà e giustizia “Allah vi ordina di restituire i depositi ai loro proprietari e di giudicare con equità quando giudicate tra gli uomini” (Corano 4:58), libertà del credo“ non c’è costrizione nella religione” (Corano 2:256). All’uomo è stata concessa la creatività e l’ingegno e di ambire a raggiungere alti livelli tecnologici, nonché assaporare i beni in questa vita, importante non creare danno a se stesso né al creato: “Mangiate e bevete, ma senza eccessi, ché Allah non ama chi eccede.” (Corano 6:141), “Non divoratevi l’un l’altro i vostri beni” (Corano 2:188), “Non spargete la corruzione sulla terra, dopo che è stata resa prospera” (Corano 7:56), “E fate il bene, Allah ama coloro che compiono il bene” (Corano 2:195). Nella vita ultraterrena ci saranno due risultati: il paradiso o l’inferno. Cosicché non sarà vano ogni sforzo per il bene, e i corruttori saranno puniti per il male e la distruzione compiuti. L’islam non è solo preghiere ripetitive che terminano con l’uscita dal luogo di culto. La preghiera è una connessione spirituale. Non ha alcun valore per Allah se non frutta un buon comportamento con il creato: “Guai a coloro che fanno l’orazione e sono incuranti delle loro azioni, che sono pieni di ostentazione e rifiutano di dare ciò che è utile” (Corano 107:4-7). Le parole possono essere alquanto dolci e impressionanti, ma se non fanno allontanare dal compimento del male, saranno insignificanti: “Tra gli uomini, c’è qualcuno di
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cui ti piacerà l’eloquio a proposito della vita mondana; chiama Allah a testimone di quello che ha nel cuore, quando invece è un polemico inveterato; quando ti volge le spalle, percorre la terra spargendovi la corruzione e saccheggiando le colture e il bestiame. E Allah non ama la corruzione” (Corano 2:140). Il valore dell’uomo sta in ciò che compie e dà frutto: “Dì: “Agite, Allah osserverà le vostre opere e le osserveranno anche il Suo Messaggero e i credenti. Presto sarete ricondotti verso Colui Che conosce il visibile e l’invisibile ed Egli vi informerà di quello che avete fatto”” (Corano 9:105). L’islam non dà valore al simbolismo rituale e alla parvenza, ha un valore alquanto minimo, se la persona è sprovvista di valori: “Le loro carni e il loro sangue non giungono ad Allah, vi giunge invece il vostro timor in lui” (Corano 22:37). Ci insegna l’altruismo: “Segua dunque la via ascendente. E chi ti farà comprendere cos’è la via ascendente? È riscattare uno schiavo, o nutrire, in un giorno di carestia, un parente orfano o un povero prostrato dalla miseria, ed essere tra coloro che credono e vicendevolmente si invitano alla costanza e vicendevolmente si invitano alla misericordia. Costoro sono i compagni della destra” (Corano 90:1118). Disse il profeta Mohammed pace e benedizioni su di lui “Giuro su Allah non crederà, non crederà, non crederà” chiesero “chi sarà O messaggero di Allah”, rispose “colui che il suo vicino non sarà al sicuro dal suo male”.
4. Come guida l’islam i suoi seguaci ad atteggiarsi e a convivere con gli altri? L’uomo basa la sua vita su due principi: la libertà di scelta e la consapevolezza che questa vita è una prova. Nessuno potrà privarlo di ciò, finché non trasgre-
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disce in maniera provocatoria e fino al ritorno al suo Signore: “Se Allah avesse voluto, vi avrebbe fatto una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi” (Corano 5:48). Quindi la civile convivenza è essenziale senza la quale non c’è libertà né armonia. Quindi la responsabilità è individuale e le azioni di ogni uomo non passano inosservate, di seguito alcuni versetti del sublime Corano, che incentivano la buona convivenza “Non sono di certo uguali la cattiva azione e quella buona. Respingi quella con qualcosa che sia migliore: colui dal quale ti dividerà l’inimicizia, diventerà un amico affettuoso. Ma ricevono questa facoltà solo coloro che pazientemente perseverano; ciò accade solo a chi già possiede un dono immenso” (Corano 41:3435). Il suddetto versetto invita ad evitare la vendetta e al cambio della brutta azione con la buona. Vi è un caloroso invito alla condivisione dei beni con il vicinato, disse il profeta Mohammed pace e benedizioni su di lui: “chi di voi crede in Allah e nel giorno del Giudizio sia generoso con il proprio vicino” e non solo, invita all’altruismo: “Loro che, nonostante il loro bisogno, nutrono il povero, l’orfano e il prigioniero; e interiormente affermano: “è solo per volto di Allah, che vi nutriamo; non ci aspettiamo da voi né ricompensa, né gratitudine”” (Corano 76:8-9).
5. Conclusione Questa è la visione dell’islam per quanto riguarda l’essere umano e la vita. Il ruolo dell’uomo e di ogni musulmano è: - Impegnarsi nella conciliazione e nell’emendazione; - Impegnarsi nell’evitare la corruzione e combatterla;
- Stabilire la giustizia e la libertà; - Promuovere un ottimo dialogo e la convivenza reciproca; - Assegnare un maggior spazio alla ragione e alla conoscenza, la quale Allah rese la via per l’evoluzione umana; - La misericordia per il creato con cui Allah mandò il sigillo del profeta pace e benedizioni su lui: “Non ti mandammo se non come misericordia per il creato” (Corano 21:107). La gente si allontana da tali valori per ignoranza o negligenza. La colpa non è da imputare all’islam, ma alle persone. Le parole non avranno valore se non sono fatti. Come un’ottima medicina, prescritta da un dottore esperto, che il paziente chiude in una cassetta d’oro, senza beneficiare della guarnigione facendone uso.
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Il dialogo interReligioso nella società plurale Regole e presupposti Yassine Lafram Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia.
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Premessa Gli attuali mezzi di comunicazione e i crescenti fenomeni migratori hanno accorciato le distanze ed intensificato i contatti fra persone di diverse culture e credenti di diverse religioni in una misura senza precedenti. Il nostro sguardo sul mondo e le immagini quotidiane mostrano società e abitudini diverse che a volte suscitano la nostra curiosità ma spesso alimentano in noi paure e diffidenze. Nelle società dove viene a mancare il dialogo interreligioso, si sviluppa molto spesso un’immagine stereotipata dell’altro frutto della poca conoscenza o della conoscenza distorta dell’altro. In modo più drammatico,atti di violenza perpetrati in nome delle religioni sollevano dubbi nelle coscienze, diffidenze e paure favorendo il discorso di odio religioso e gli atti di discriminazione e d’intolleranza. Per questi motivi sono sempre in tanti ad avvertire il bisogno di impegnarsi sulla strada del dialogo interreligioso come atteggiamento indispensabile per la convivenza civile e per la promozione della pace.
Il Musulmano e il dialogo interreligioso: Il principio su cui si fonda tutto l’insegnamento islamico è l’unicità di Dio “Al tawhid”. Ed è l’asse e il punto di riferimento a partire dal quale il Musulmano si posiziona all’interno del dialogo interreligioso. Sulla conoscenza profonda del Tawhid si basa la vita del credente il quale capisce che il pluralismo e la diversità sono la volontà dell’Unico Dio che ha creato e amato tutti gli esseri e ci chiede di amare tutti come Lui ha amato.
“Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi.” (Corano V,48) Il Musulmano, quindi, si impegna nel dialogo interreligioso, alimentato da questa fede a partire dalla quale capisce se stesso, comprende il mondo e stabilisce le relazioni con il proprio ambiente sociale. Il suo rapporto nei confronti della verità, delle credenze altrui e della diversità nel suo insieme è direttamente influenzato dal contenuto e dalla natura di questa fede e di questa convinzione. Il Musulmano, incontrando credenti di altre religioni, non è coinvolto in un’attività marginale per la propria fede. Per lui il dialogo interreligioso non esprime una stagione, una moda o una tattica ma un suo modo irrinunciabile di essere. Per il Musulmano, il dialogo interreligioso non ha senso soltanto quando i tempi sono favorevoli, quando incontra il consenso di tutti o quando è capace di raggiungere obbiettivi e risultati visibili. Le stagioni cambiano, gli umori e i contesti sociali cambiano ma la scelta del dialogo per il musulmano è irreversibile perché il dialogo è religione.
e il loro rapporto con Dio convinti che si diventa migliori grazie alle persone che si incontrano, alle parole che si ascoltano, alla vita che si condivide, alle decisioni che si prendono, ai sogni che si custodiscono nei cuori.
Le Comunità islamiche e il dialogo interreligioso Le Comunità islamiche d’Italia sono chiamate ad impegnarsi con convinzione nel dialogo interreligioso facendo riferimento al Corano, all’esempio Profetico e alla vita dei Compagni ben guidati. Per le Comunità Islamiche il dialogo non è un mestiere ma è religione dove la sincerità e la competenza sono condizioni necessarie. La cultura dialogica in seno alle Comunità islamiche va trasmessa all’intera comunità dei fedeli in quanto parte integrante della sua religiosità e sistema di valori e non può rimanere un’esclusiva degli addetti al lavoro. In questo sforzo dialogico i musulmani sono chiamati a costruire il loro discorso che non può essere di facciata e tantomeno di circostanza. Nel dialogo interreligioso c’è bisogno di definire anzitutto i principi e gli obiettivi, di conoscere i limiti invalicabili che non devono mai essere superati, di sapere dire SI e/o NO nella verità e nell’affetto fraterno.
E colui che dice agli altri: aiutatemi, ho bisogno anch’io di essere più uomo, più credente in Dio.
Nel dialogo interreligioso, i Musulmani d’Italia hanno la necessità di elaborare in piena autonomia un loro progetto comunitario nazionale e cercare l’armonia e cercare la collaborazione superando sterili protagonismi e progetti personali.
I veri credenti sono coloro che cercano di perfezionare, anche attraverso il dialogo, la loro fede
Vivendo il dialogo interreligioso, i Musulmani d’Italia si mettono al servizio della pace fatta di
Il vero credente che si apre agli altri è colui che dice: non sono ancora contento di me stesso.
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azioni concrete e non di proclami e di bandiere. Credono in una pace che produca giusitizia e dignità per ogni uomo e non ne fanno un diversivo per giusitificare o rimanere in silenzio dinanzi a ingiustizie, razzismi, colonialismi o dittature. Le Comunità islamiche credono in un dialogo alla pari che mai si riduca a un mero sincretismo o peggio a un monologo dove una parte pensa, progetta e prende l’iniziativa mentre l’altra parte si limita alle relazioni pubbliche e si adegua alle proposte atrui.
Regole e presupposti per il dialogo interreligioso Anzitutto, va sottolineato che il dialogo interreligioso presuppone un altrettanto impegno per il dialogo all’interno della stessa famiglia religiosa, dialogo intra religioso. Questo aspetto riguarda tutti i credenti di tutte le religioni monoteiste e di tutte le istituzioni religiose di riferimento. Invece, il dialogo interreligioso che desideriamo vivere e coltivare assieme esige: • una duplice consapevolezza: la prima di essere poveri e piccoli e quindi di aver bisogno dell’altro; la seconda è di essere ricchi perché portatori di una verità divina; • una conoscenza approfondita della propria tradizione religiosa e una vita coerente con gli insegnamenti della stessa, altrimenti il dialogo perde il suo valore in parte o in tutto; • il dialogo deve essere aperto a tutti senza esclusione perché ognuno di noi è chiamato a testimoniare l’amore con cui Dio lo ha amato e continua ad amarlo; • il dialogo, pur nel rispetto dell’altro, non tende alla conquista dell’altro ma è sincero e al servizio della verità;
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• il dialogo deve essere capace di guardare al futuro e di andare oltre i pregiudizi, i torti subiti o i muri che la storia ha messo tra i popoli; • il dialogo deve andare oltre la stima reciproca, la fiducia e il mutuo rispetto verso un lavoro in rete in settori come la difesa della sacralità della vita, la tutela dei diritti fondamentali della persona (e in primo luogo la libertà religiosa o areligiosa per ogni individuo), la tutela e la promozione della famiglia basata sul matrimonio naturale tra uomo e donna, la bioetica, la salvaguardia del creato, l’economia eco-solidale, la difesa della pace e della giustizia, la condanna di ogni giustificazione religiosa della violenza, la difesa e il rispetto di tutti i simboli religiosi, i luoghi di culto, i libri sacri, i Profeti, i leader religiosi, ecc...
passa attraverso il rispetto e lo sviluppo integrale di ogni uomo e di tutto l’uomo sia sul piano naturale che su quello sopranaturale; • il rispetto di tale dignità umana passa attraverso il pieno riconoscimento del diritto alla Libertà di cui la libertà religiosa è indubbiamente una delle forme più importanti; • l’Islam considera la libertà religiosa una condizione fondamentale per l’autentica ricerca della verità, perciò la fede che si basa sulla costrizione non è autentica e non è valida; • l’Islam considera la libertà religiosa un diritto per ogni individuo e un dovere per ogni società. Per questo motivo questa libertà fondamentale dell’uomo deve essere riconosciuta dal diritto civile e tutelata da ogni violazione dall’ordine civile.
Il dialogo interreligioso e il diritto alla libertà religiosa
Alcuni ambiti della libertà religiosa
Quando si è impegnati nel dialogo interreligioso, ci si trova prima o poi ad affrontare temi importanti che meritano un chiarimento immediato e un impegno convinto e deciso tra le parti desiderose di consolidare questo cammino comune onde evitare incomprensioni spiacevoli o addirittura l’arresto di questo dialogo. Uno di questi temi attuali ed importanti per Musulmani e Cristiani è senz’altro il diritto alla libertà religiosa. Per questo motivo considero la chiarezza, la coerenza e l’impegno dei Credenti Cattolici e Cristiani da un lato e dei Musulmani dall’altro lato - al riguardo - un campo di prova fondamentale nella nostra vita religiosa e dialogica. Per quanto riguarda l’Islam mi preme ribadire ciò che segue: • Dio nel Corano riconosce ad ogni persona umana una dignità la quale non deve mai essere violata; • il rispetto di tale dignità umana
La libertà religiosa è quindi un diritto che deve essere garantito nei giusti limiti e comprende molti aspetti, in particolare: 1 Sul piano personale: • La libertà di aderire o meno ad una determinata fede religiosa • La libertà di esercizio del proprio culto • La libera scelta da parte dei genitori di educare i propri figli in base alle loro convinzioni religiose • Il diritto all’assistenza spirituale in ogni luogo • Il diritto all’obbiezione di coscienza basata sulla propria fede. 2 Sul piano collettivo: • L’autonomia organizzativa dell’ente di culto • Il libero esercizio del ministero • La libertà della formazione e dell’insegnamento religioso • La libertà di Associazione in nome delle proprie convinzioni religiose
• La libertà, nei limiti delle leggi vigenti e nel rispetto delle regole di trasparenza, di compiere opere di beneficienza e raccogliere fondi e finanziamenti da destinare a progetti inerenti alla propria attività religiosa.
Un impegno comune tra Musulmani e Cristiani/Cattolici In vari paesi del mondo, il diritto alla libertà religiosa e la pratica religiosa stessa vengono ostacolati. I fedeli delle diverse tradizioni religiose vengono discriminati, oppressi o perseguitati per le loro convinzioni religiose. Violazioni del diritto alla libertà religiosa e persino persecuzioni e violenze nei confronti delle minoranze religiose si verificano in molti paesi del mondo. In altri paesi, gli stessi fedeli della religione di maggioranza possono subire violazioni del loro diritto all’esercizio religioso nel quadro di un generale regime di oppressione. Per questo motivo , cristiani e musulmani oggi, più che mai, sono chiamati ad assumere un ruolo sempre più attivo a difesa di questo diritto fondamentale della persona umana. Partendo dai propri testi sacri entrambe le Comunità religiose devono denunciare ogni abuso in questo ambito, rompere il silenzio e pretendere dai loro leader religiosi una posizione chiara a difesa della libertà religiosa basata sulla dignità di ogni uomo e donna. I diritti umani fondamentali sono il perno di ogni società civile e tra questi diritti, la libertà religiosa è indubbiamente uno dei più importanti. Conoscere e mettere in pratica questi principi nella vita di ogni giorno significa migliorare il mondo in cui viviamo.
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Aprirsi al rischio dell’incontro La voce delle donne nel dialogo Immagini a cura di Blaise Patrix Blaise Patrix, pittore francese che vive a Bruxelles, ha sviluppato negli ultimi trent’anni il metodo dell’Art Socia(B)le. Il riconoscimento dell’altro e di sé, il futuro come spazio da costruire insieme sono al centro di laboratori di co-creazione spontanea che producono opere circolari, affreschi, installazioni o prodotti di design. La pittura in cerchio su supporti circolari è uno dei metodi più usati.
Virginia Manzitti Virginia Manzitti è nata a Genova nel 1961. Ha vissuto a lungo in Africa e ora vive a Bruxelles. Dal 1992 lavora per la Commissione Europea e ha coperto diversi incarichi nel campo della cooperazione internazionale e vissuto per 10 anni in Africa. Dal 2016 al 2019 ha lavorato per il primo Inviato Speciale dell’Unione Europea per la Libertà di Religione e di Credenza incaricato dal Presidente Juncker di promuovere la libertà di religione e il dialogo interreligioso nelle politiche di cooperazione. Ha visitato molti paesi in Africa, Medio Oriente e Asia. Da anni, anche a titolo personale si forma e promuove il dialogo interculturale. Esperimenta l’uso dell’arte e della creatività come strumento per facilitare la comunicazione interculturale e interreligiosa.
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In un mondo sempre più “furiosamente religioso” in cui il fondamentalismo e la pandemia galoppano, le iniziative interreligiose si stanno moltiplicando, c’è un senso di urgenza che spinge leader e comunità a incontrarsi. Il COVID ha ulteriormente rafforzato questo fenomeno. 1. Oggi il dialogo interreligioso sembra urgente e inevitabile. Ma non è ancora facile. Cosa lo rende più o meno possibile/fattibile rispetto a ieri e perché? 2. Quali sono gli ingredienti indispensabili per costruire uno spazio interreligioso di successo in un paese europeo, in una città come Genova (caratterizzata da una forte popolazione cattolica ma anche sede di nuove comunità religiose)? 3. Che cosa è necessario per rendere un dialogo interreligioso più profondo e autentico (al di là del “kiss and go”), compatibile con il principio della sacra verità religiosa? 4. Cosa possono portare “le donne nella fede” a questi processi finora piuttosto incentrati sugli uomini? Ho posto queste domande a tre donne particolarmente impegnate su questo terreno - Azza Karam, Nayla Tabbara e Ani Zonneveld - le ho invitate a condividere su ALGEBAR la loro esperienza. Non sono un’esperta in materia di dialogo interreligioso. Ho avuto l’opportunità di occuparmene dal 2016 al 2019 visitando vari paesi. In questo contributo, intreccio le loro risposte con gli appunti di un viaggio ricco e interessante. “Ora sappiamo di aver disperatamente bisogno gli uni degli altri”. Così nel 2016 il Rabbino Soetendorp, figura carismatica nel mondo del dialogo interreligioso, concluse commosso a Bruxelles il suo discorso abbracciando il Dalai Lama al termine di un incontro sul tema del potere e della cura1
tra uomini di fede, scienziati e politici. La platea si commosse e io con loro. Ho ritrovato continuamente questa stessa emozione incontrando attori del dialogo interreligioso durante i miei viaggi in Africa, Asia, nel Medio Oriente. Un’emozione che rivela la coscienza sempre più condivisa di una inevitabile co-dipendenza. Ma contemporaneamente crescono muri sempre più alti tra religioni e all’interno delle stesse, un’intolleranza che può essere violenta, che uccide anche in Europa e che si diffonde in modo sottile e discreto. Questo è il paradosso in cui situare oggi il dialogo interreligioso. Un fenomeno in piena ebollizione, con un’esplosione di iniziative, caratterizzato da un senso di urgenza e su cui pesano però tanti insuccessi. Il mondo del dialogo interreligioso è necessariamente uno spazio complesso, confuso, fumoso, facilmente strumentalizzato, che ha spesso fallito, ma che ha portato e ancora porta speranza. Molti esperti concordano sul fatto che c’è bisogno di un radicale up-grade del suo sistema operativo, per anni hanno lamentato risultati spesso insoddisfacenti, incontri di facciata. L’assenza delle voci femminili è un’altra critica frequente. Il professor Alberto Melloni, noto per la sua denuncia dei pericoli dell’analfabetismo religioso e del cosiddetto “religious climate change”, invita i leader religiosi, dopo essersi limitati ad abbracciarsi tante volte davanti alle telecamere, ad andare più in profondità, ad esplorare anche dove può far male quello che in ogni religione spinge verso o contro l’altro, a riflettere su cosa può generare o spiegare la violenza.
Il dialogo è urgente, importante e inevitabile e va promosso ovunque
Ovunque nel mio percorso ho osservato un’onda di tensione interreligiosa in piena espansione, anche in paesi dove la religione fino ad oggi non aveva mai diviso. Il sospetto, la paura, a volte l’odio crescono veloci anche in società tradizionalmente coese. Penso soprattutto all’Africa e al Sahel dove ho vissuto dieci anni. Penso al Burkina, una società tradizionalmente rispettosa del multi-religioso, dove i matrimoni tra mussulmani e cristiani erano visti come un arricchimento per la coppia e la famiglia allargata e dove oggi le famiglie mussulmane non accettano più il cibo offerto, come da tradizione, dalle famiglie cristiane e i loro bambini giocano separati. La promozione del dialogo interreligioso inteso come generatore di rispetto e come fondamento di una cittadinanza inclusiva è un’urgenza inderogabile in gran parte del mondo. L’85% della popolazione mondiale si dichiara affiliata a una religione secondo il Pew Research Centre. Al di fuori dell’Europa, la religione è un fattore determinante della vita in società e della politica. Laddove a Genova può sembrare quasi un lusso, in molti paesi questo incontro è essenziale per la pace. In un mondo virtuale dove tutto rimbalza sulla rete, è importante promuovere questa cooperazione anche a Genova città storicamente aperta al mondo in uno spirito di solidarietà. Questa assoluta necessità l’avevano prevista in molti, penso in particolare allo straordinario teologo gesuita Raimon Panikkar, grande esperto di buddismo e induismo, che mi aiuta a navigare il mondo delle religioni. I leader e gli attori del mondo religioso che ho incontrato in Africa, in Asia, nel Medio Oriente sono tutti convinti che lo scontro in corso tra rappresentanti di diverse religioni, in nome della religione, vada affrontato insieme, aprendosi agli altri. Ho percepito mo-
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vimenti di sottile apertura anche in contesti apparentemente chiusi. Ho incontrato grandi imam in paesi ancora molto conservatori dove l’Islam è la religione di stato, pronti a muovere passi in cerca di alleanze e nuovi incontri. In Pakistan, una delle massime autorità dell’Islam si è fatto promotore di una tavola rotonda sui percorsi verso il pluralismo nel suo paese, ha partecipato, con toccante modestia, a tutti i lavori di gruppo, seduto accanto a donne - pastori luterane - venute dalla Svezia, a fedeli shia, a militanti dei diritti umani. In Egitto, ho incontrato una certa apertura anche nei vertici di Al-Azhar, la più grande scuola e università islamica che sta lavorando per sviluppare una risposta globale a un Islam esclusivo e estremista. Il ministro egiziano responsabile delle questioni religiose si è detto promotore del pensiero critico promuovendo la diplomazia in questo senso. Jean Druel , padre domenicano dell’Institut Dominicain d’Etudes Orientales del Cairo, che lavora in una meravigliosa biblioteca specializzata con un patrimonio di cultura arabo-mussulmana di 150.000 volumi, mi ha parlato quasi sorpreso dall’inaspettato interesse suscitato presso molti studenti dal progetto “Adawāt : Des outils pour une pensée critique en études islamiques” finanziato dalla Commissione Europea. La domanda che molti gli rivolgono è “come fate voi domenicani a essere uomini di fede e contemporaneamente uomini moderni?”.
Auto-coscienza, umiltà, riconoscimento e amore Quali sono le componenti essenziali del dialogo interreligioso? Secondo Azza Karam, Segretario Generale di Religions for Peace International – per la prima volta una donna e una mussulmana dirige la più grande organizzazione interreligiosa al mondo - il
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dialogo implica una forma nuova di coscienza e di auto-coscienza, richiede di accettare una “certa perdita di controllo”. L’umiltà è fondamentale. Sono parole forti e audaci. D’altronde qualsiasi organismo per poter integrare elementi nuovi deve abbassare le sue difese immunitarie2 . Nayla Tabbara, teologa mussulmana, riflette che è essenziale “scoprirsi compagni di viaggio sulla via verso il divino o verso valori più alti” ed accettare che la verità divina non sia dogma, non rappresenti così una realtà assoluta. E se si trattasse anche di amore? Panikkar afferma che il dialogo interreligioso è in sé un atto religioso e l’amore ne è l’ingrediente essenziale. Senza amore il dialogo diventa una metodologia come un’altra. Questa affermazione apre su un’altra prospettiva, direi quasi intima e dirompente. Pannikar aggiunge che “il dialogo deve andare oltre la dimensione dialettica, deve produrre auto-conoscenza e fiducia in una realtà superiore che ci aiuterà a trovare insieme la luce”. A suo avviso il potenziale per una fecondazione reciproca tra religioni è altissimo e sottoutilizzato. Ad esempio il cristianesimo può ispirare più attenzione al sociale alle religioni orientali che a loro volta possono insegnare a sviluppare capacità di preghiera, meditazione e contemplazione. Ogni incontro aiuta a conoscere meglio se stessi attraverso le differenze, aiuta ad arricchirsi e completarsi. Parlare del ruolo dell’amore nel dialogo non è banale. Rischi quasi di sentirti ingenuo e buonista. E parlarne nei circoli istituzionali è quasi imbarazzante. Ho incontrato in un quartiere povero del Cairo una associazione chiamata “Loving Group”, lì per lì questo nome mi aveva quasi insospettito e appunto imbarazzato. Vedendoli in azione ho capito che insieme scoprivano il desiderio di conoscersi,
rispettarsi e anche di amarsi. Nayla Tabbara parla dell’importanza di “riconoscere pienamente l’altro”, di affrontare apertamente le paure e mettere in gioco le speranze, di giocare a carte scoperte. Spesso questo non è successo. Avere il coraggio di ascoltare fino in fondo anche quando fa male. L’apertura verso l’altro è fatta di domande e di desiderio, di curiosità. In questa direzione pensa il teologo cristiano Ermes Ronchi, quando parla della religione come di ricerca, esplorazione, dell’importanza dell’attrazione, che fa saltare frontiere e paure. Fare domande significa mettersi in gioco3 .
Come autorizzare il nuovo che può emergere dall’incontro. Il terzo occhio e la creazione artistica In linea di principio, qualsiasi forma di dialogo presuppone l’apertura al cambiamento, lo scoprirsi, l’accettare la possibilità di uscirne diversi. E poi di generare insieme qualcosa di nuovo. Ma nel mondo delle religioni, rigidamente strutturato attorno a dottrina e dogmi, come fare per costruire e accettare il cambiamento? Il dialogo interreligioso è un terreno impervio e potenzialmente rischioso, in cui le parole e la dottrina delimitano rigidamente gli spazi di libertà, in cui si giocano assieme conservazione e riforma. Panikkar invita ad attivare il terzo occhio e inoltrarsi oltre il razionale. In una prospettiva simile, molti sono convinti che la dimensione mistica del dialogo, sia quella che funziona meglio. Tradizionalmente gli incontri di preghiera e di meditazione, come quelli iniziati nel 1986 dalla Comunità di Sant’Egidio e le straordinarie assemblee di Religions for Peace, che convocano donne e uomini di fede compresi animisti e rappresentanti di comunità
indigene, hanno un grande successo, suscitano una connessione profonda e i partecipanti ne escono sempre in qualche modo rigenerati nella loro fede e nella comprensione dell’altro. La co-creazione artistica è a mio avviso un strumento prezioso di incontro e connessione, fino ad oggi poco sperimentato. Il suo valore aggiunto è di offrire uno spazio libero e idoneo a creare
insieme qualcosa di inaspettato, andando oltre le parole. La produzione artistica collettiva di per sé genera qualcosa di imprevisto. A Bruxelles applicando il metodo dell’ «Art Socia(B)le» dell’all’artista Blaise Patrix4, si organizzano laboratori di “interfaith painting” dove donne e uomini di fedi diverse dipingono assieme “opere” collettive. L’esperienza di Ani Zonneveld “God Loves Beauty », un festival di arte e musica interre-
ligiososa tenuto in diversi luoghi sacri negli Stati Uniti - conferma il potenziale dell’arte a unire e riavvicinare. Ogni opera collettiva è il frutto di un’interazione grafica spontanea, rivela qualcosa di nuovo e inedito, è unica e il più delle volte sorprendente, a volte potente. I laboratori sono stati esperienze entusiasmanti, spirituali, liberatorie, piene di emozione costruttiva: « dipingendo insieme la com-
In ogni atelier una trentina di persone di diversa appartenenza religiosa dipingono in piccoli gruppi su un supporto circolare La gran parte dei partecipanti non ha mai preso in mano un pennello e si trova quindi a giocare su un terreno nuovo e ludico. L’emulazione all’interno di un cerchio libera la creatività personale e collettiva.
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plessità è diventata armoniosa e abbiamo capito che nulla è mai perduto, abbiamo disimparato a programmare e imparato a improvvisare lasciandoci reciprocamente spazio » hanno sintetizzato i partecipanti. Il metodo funziona bene anche per connettere credenti e non credenti, includendo la società civile o rappresentanti di una spiritulità più ampia.
di religione “va in qualche modo tradotto” nelle varie culture e religioni attraverso un percorso contestualizzato. In molte parti del mondo musulmano, anche dove è riconosciuto dalla legge, questo diritto di fatto è limitato alla libertà di seguire e praticare un’altra religione. La libertà di non credere è socialmente inaccettabile, per molti “inammissibile”.
Dialogo e libertà di coscienza
Qualsiasi forma di dialogo implica, secondo il contesto, una “certa” apertura verso il cambiamento che a sua volta richiede una “certa” libertà di coscienza e di pensiero. Promuovere la libertà di coscienza è quindi un investimento necessario anche per la pace e la cooperazione tra religioni. Come sintetizza Panikkar, il dialogo ha bisogno di emergere dall’accettazione del pluralismo all’interno di ogni comunità : “tutte le religioni sono chiamate a convertirsi, ogni comunità deve aprirsi al diverso cominciando dal suo interno”. Creando spazi di libertà al suo interno. Questa considerazione ci porta a trattare della dimensione donna nel mondo della religione e anche nel dialogo interreligioso. La voce delle donne è di per sé una voce nuova e foriera di una possibile conversione interna.
La ricerca, la storia, la curiosità, il rispetto, l’amore, la creatività sono tutti fattori importanti, ma non bastano. Come ha detto Azza Karam nel suo primo discorso da Segretaria Generale di Religions for Peace nel 2019, possiamo costruire la fiducia e l’amore, ma prima di tutto dobbiamo costruire la libertà. L’apertura al dialogo per essere serena e completa implica l’accettazione della libertà di coscienza. Il diritto alla libertà di coscienza, di pensiero, di religione - sancito dall’articolo 18 della Dichiarazione dei Diritti Umani – è un diritto fondamentale poco conosciuto, sotto utilizzato, anche sul piano internazionale. Mal compreso perfino tra gli esperti dei diritti umani, soprattutto nella sua dimensione sociale, per come si relaziona con gli altri diritti, con la libertà di espressione e, in alcuni contesti con l’uguaglianza di genere e le sue frequenti violazioni. L’alfabetizzazione a questo diritto è tanto urgente quanto si sono rivelate drammatiche le conseguenze dell’ignorarlo o delle sue interpretazioni scorrette. E’ urgente coltivarlo nel mondo della religione, come un valore sociale condiviso. Ma non può essere imposto dall’alto, ogni religione ha una tripla dimensione : credere, appartenere e comportarsi. La dimensione dell’’appartenenza è determinante e spesso si scontra con la dimensione individualistica dei diritti umani. Il diritto alla libertà
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La voce delle donne La voce delle donne nel dialogo interreligioso è marginale, rispecchiando la loro relativa assenza nella leadership religiosa. Ho assistito a molti incontri di dialogo popolati quasi completamente da uomini. In certi ambienti la presenza femminile sta crescendo, ma non è mai da dare per scontata. Va promossa con determinazione innanzitutto perché le donne sono più di metà della popolazione. E anche perché questa presenza ha una sua specificità e direi può avere un valore aggiunto Quando riesce a farsi sentire, la voce femminile è fertile, portatri-
ce di apertura, all’interno delle comunità e tra comunità diverse. Per le donne che partecipano a queste iniziative è un’opportunità di esercitare la loro capacità di conciliare appartenenza religiosa e libertà. E così rafforzare la loro voce nella loro comunità. Religione e uguaglianza di genere sono temi caldi in gran parte del mondo, specie dove c’è tensione o guerra contro queste politiche. Sono affascinata dal mondo delle cosiddette “religious feminists”. Un impegno che comporta rischi a volte estremi. Ne ho incontrate in molti paesi, in Sudan penso al SIHA Journal – Women in Islam, in Malesia penso a Sisters of Islam, in Indonesia a Musawah, in Sud Africa al Circle of Concerned African WomenTheologians. Si fanno sentire nei dibattiti del CEDAW, rileggono il Corano riconciliando diritti umani e religione. Dimostrano che è possibile conciliare religione e libertà di interpretazione e pensiero. Questo lavoro intra-confessionale fatto dalle donne è una sorta di palestra per un dialogo più articolato e allargato alle altre religioni. Molte organizzazioni e ONG ad ispirazione religiosa sono impegnate sulla giustizia di genere, oggi ri-esplorano le loro radici religiose, quasi dimenticate rispondendo alle esigenze dei finanziatori del mondo laico. Così facendo stimolano un dibattito importante, che è in sé un’esperienza di libertà. Quella stessa libertà di cui ha bisogno l’incontro interreligioso. La cooperazione interreligiosa può a sua volta contribuire all’uguaglianza di genere appunto perché si fonda sul rispetto per la diversità e lo stimola.
Inter-cultura e inter-religione Gli italiani all’estero stanno spesso tra loro e così i mussulmani o gli hindu in Italia. Siamo “quasi” tutti più facilmente attratti
da chi parla e mangia come noi. La comunicazione interreligiosa può essere vista come una forma di comunicazione interculturale. Come quest’ultima è per certi versi “innaturale”, non si auto-genera, richiede di essere promossa, va trattata con cura e professionalità. Il campo della comunicazione interculturale è ricco di esperienze e metodi e può offrire varie piste adattabili alla dimensione interreligiosa. Ho imparato da Milton Bennett6 che le differenze non vanno sotto-valutate o minimizzate, vanno accettate, scandagliate. Solo guardandole in faccia possono essere gestite e valorizzate. Solo affrontandole si può generare una relazione sostenibile e generatrice di innovazione Oggi è urgente e necessario fare un investimento massiccio per creare occasioni e piattaforme di dialogo. Ci vuole una volontà chiara e una forte intenzionalità, perché questo investimento riesca. Il potenziale è grande, la religione è una risorsa sotto-utilizzata in un mondo che, appena usciamo dall’Europa, laico non è. Ed è importante facilitare l’incontro tra la cultura diciamo laica, di chi non crede o di chi vive la sua fede solo nello spazio privato e la cultura di chi crede e per cui la fede definisce vari aspetti della vita in società. Le popolazioni emigrate in Italia – spesso religiose possono portare del nuovo in una società italiana spesso depressa, avvilita o arrabbiata, dove c’è tanto da reinventare. Cito un’ultima volta Panikkar : “il dialogo non è solo importante, urgente e inevitabile, è anche sconvolgente e purificante. Per tutti”.
Per concludere, l’iniziativa di ALGEBAR per costruire uno spazio permanente di dialogo interreligioso a Genova mi pare importante e promettente. Mi auguro che a Genova si possa fare strada un’iniziativa socialmente utile, connessa con quello che succede altrove e d’ispirazione per altri. Viviamo in un mondo digitale dove i gesti e le misure islamofobe in Europa risuonano immediatamente anche molto lontano, e provocano magari risposte anticristiane. Come ha riassunto un grande imam in Pakistan ”siamo sulla stessa barca, noi soffriamo di westofobia e voi di islamofobia, tutto quello che succede da voi riecheggia
qui il giorno dopo”. Genova con le sue navi, affacciata su questo Mediterraneo così tragicamente sofferente, mare arabo, musulmano, ebreo, cattolico, ortodosso e altro, può essere uno spazio fertile per la sperimentazione di una nuova relazione tra culture e religioni.
Il mondo a Genova o viceversa « Power and Care. A Mind and Life Dialogue with his Holiness the dalai Lama « Settemre 2016 – BOZAR - https://www.bozar.be/en/activities/107920-power-care 2 Il filosofo Jan-Luc Nancy cosi’ riflette sul suo trapianto del cuore. 3 E. Ronchi - Le nude domande del Vangelo. Meditazioni proposte a Papa Francesco e alla Curia romana, San Paolo Edizioni 2016 4 www.blaisepatrix.com 5 Vedi video su due laboratori: EMOUNA Belgique, iniziato dall’Università di Sciences Politiques di Parigi, https://www.youtube.com/channel/UCf8KKxCdQFpnpzUzY6eU4WA e Parcours d’Artistes de Saint Gilles, 2021 : https://www.youtube.com/watch?v=xjf9f43aU2k 6 Milton Bennett - https://www.idrinstitute.org 1
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La voce delle donne nel dialogo Le interviste di Virginia Manzitti a: Azza Karam, Nayla Tabbara, Ani Zonneveld
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Le Domande 1. Oggi il dialogo interreligioso sembra urgente e inevitabile. Ma non è ancora facile. Cosa lo rende più o meno possibile / fattibile rispetto a ieri e perché? Today interreligious dialogue seems urgent and inevitable. But still not easy. What makes it more or less possible/ doable than yesterday and why? 2. Quali sono gli ingredienti indispensabili per costruire uno spazio interreligioso di successo in un paese europeo, in una città come Genova (caratterizzata da una forte popolazione cattolica ma anche sede di nuove comunità...)? What are the indispensable ingredients to construct a successful interreligious space in an European country, in a town like Genoa ( featuring a strong catholic population but also home to new communities...)? 3. Che cosa è necessario per rendere un dialogo interreligioso più profondo e autentico (al di là di kiss and go) compatibile con il principio della sacra verità religiosa? What is needed to make a deeper and authentic interreligious dialogue (beyond kiss and go ) compatible with the principle of sacred religious truth? 4. Cosa possono portare le «donne nella fede» a questi processi finora piuttosto incentrati sugli uomini? La cooperazione interreligiosa è un vettore per la giustizia di genere e l’innovazione sociale? What can « women in faith » bring to these processes so far quite men-centered? Is interreligious cooperation a vector for gender justice and social innovation?
Immagini a cura di Blaise Patrix
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Le risposte Azza Karam Azza Karam is the Secretary General of Religions for Peace International, and Professor of Religion and Development at the Vrije Universiteit in Amsterdam, The Netherlands. Previously, she served as the Senior Advisor on Culture at the United Nations Population Fund (UNFPA); Coordinator/chair of the United Nations Inter-Agency Task Force on Religion and Development; Senior Policy Advisor at the United Nations Development Program (UNDP)’s Regional Bureau for Arab States; and President of the Committee of Religious NGOs at the United Nations. She was the Lead Facilitator for the United Nations’ Strategic Learning Exchanges on Religion, Development and Diplomacy, building on a legacy of serving as a trainer cum Mediator on intercultural leadership and management in the Arab region as well as in Europe, Africa, and Central Asia.
1 Dal crollo del muro di Berlino, siamo alla ricerca di un senso per spiegare il tessuto politico, sociale, culturale e finanziario delle nostre vite. La mia generazione è cresciuta durante la guerra fredda nel conflitto tra socialismo e capitalismo. Tutto questo si è disintegrato con il crollo di ogni mattone del muro di Berlino. Ricordo l’arroganza del “capitalismo trionfante” che sembrava determinare così tanto la visione del mondo occidentale in quel periodo. Naturalmente il capitalismo è caduto in disgrazia con il crollo finanziario del 2008, ma ciò è avvenuto dopo che si sono verificati importanti sviluppi all’interno e intorno alla religione a livello globale. Il Mediterraneo arabo non ha mai ceduto del tutto al capitalismo o al socialismo. La culla delle tre più grandi religioni monoteiste ha continuato a vedere il mondo e se stesso, attraverso il prisma della religione e il pensiero di ispirazione religiosa. La guerra fredda è stata la geopolitica globale “là fuori”, ma le nostre vite quotidiane negli oltre 20 paesi di lingua araba, sono sempre state intimamente legate
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alla religione o alla fede. Il nostro linguaggio di tutti i giorni contiene mille modi di menzionare Dio (grazie a Dio, a Dio piacendo, Dio lo sa, Dio mi o ci perdoni, Dio mi o ci o li aiuti ecc.). Sono parole di tutti i giorni. Non ci si pensa, fanno parte della sintassi del nostro sistema nervoso. La tristezza o la gioia, l’anticipazione o la paura sono state tutte emozioni riferite, comprese e immaginate in termini religiosi: Dio dentro e fuori. Eppure i nostri vicini europei sulle sponde del Mediterraneo, sembravano pensare e credere che la religione non facesse più parte della loro narrativa o spazio pubblico. Nella migliore delle ipotesi, era solo un problema personale. Questa dicotomia di pensiero è stata sconvolta l’11 settembre 2001. La religione è diventata una questione pubblica che marcava i discorsi e le percezioni dei politici europei e nordamericani. Parlare di “Islam e Occidente” del cosiddetto “scontro di civiltà” è diventato normale nei circoli politici e governativi. I responsabili degli attacchi dell’11 settembre sono stati identificati principalmente come “musulma-
ni”, e la coscienza pubblica occidentale è stata di nuovo, dopo la rivoluzione iraniana e la crisi degli ostaggi del 1979, segnata da una connessione automatica tra Islam- Musulmano - Terrorista - Fondamentalista, creando un continuum di paura e ignoranza dell’“altro”. Nel frattempo, mentre gli occhi del cosiddetto “occidente secolare” si aprivano alla realtà delle dinamiche religiose, ci si rese conto che il cristianesimo evangelico stava facendo passi da gigante in Africa e in America Latina, che i partiti politici ebrei stavano influenzando fortemente i risultati delle elezioni in Israele e svolgendo anche un ruolo importante nella politica degli Stati Uniti, che il pensiero politico suprematista indù stava vivendo una rinascita politica nella più grande e diversificata democrazia del mondo e che alcune comunità buddiste dell’Asia orientale non erano sempre silenziose e amanti della pace, ma avevano retorica e attività simil guerriere. Improvvisamente, la religione è diventata una componente della nostra vita.
Se questo sia stato davvero improvviso o uno sviluppo graduale è discutibile. Sostengo che la religione ha sempre fatto parte del tessuto della coscienza in tutto il mondo eccetto che in Europa occidentale. Eppure, per qualche motivo, era la visione del mondo dell’Europa occidentale (ex entità coloniali) che sembrava colorare la nostra comprensione del resto del mondo. La religione non è mai andata via. Alcuni di noi non la vedevano. Ora la vediamo, in modi diversi. La domanda a cui ora sto cercando di rispondere è “Cosa rende possibile questo dialogo oggi più di ieri e perché?” È davvero così complicato capire che se vedo, sento e credo in qualcosa, questo fa parte della mia comprensione di me stesso e influenza anche il modo in cui ti vedo? In altre parole, se credo in Dio, o nel Divino, come parte della mia esistenza, perché sarebbe difficile vederlo nella persona di fronte a me, nelle foglie su un albero, nel vento, nel mare, nei semi della terra? E se vedo o sento il Divino intorno e dentro di me, non è naturale che io veda anche questo Divino come parte di te? Cosa significherebbe vedere il Divino in me e in te e persino nella natura intorno a noi? Richiederebbe un’accettazione della propria insignificanza e dell’inevitabile interconnessione. Ci renderebbe umani e umili sul serio. Ci costringerebbe a vedere che nel cercare di controllare la natura, facciamo del male a noi stessi e nel cercare di controllare le vite degli altri, facciamo del male a tutti. La comprensione interreligiosa non è qualcosa che accade al di fuori di noi, si tratta di comprendere noi stessi: la nostra stessa umanità e interconnessione con tutto e tutti. La comprensione interreligiosa è una forma di coscienza, di sé e degli altri. Tutto questo è difficile da capire? Sì, è difficile se il modello
che seguiamo è quello di forgiare la nostra coscienza, noi stessi, come creature autoritarie, dominanti, che dettano come la natura dovrebbe servirci. Non è difficile se ci fa capire i nostri limiti, esseri umani dipendenti da un pianeta e l’uno dall’altro, per sopravvivere. In effetti, la comprensione interreligiosa, come forma di coscienza, è liberatrice. Come conosciamo i nostri limiti, così conosciamo i nostri punti di forza. Siamo più forti come specie quando siamo collegati gli uni agli altri e al nostro ambiente. Sopravviviamo bene quando siamo interdipendenti e resilienti e grati gli uni agli altri. Da soli siamo indigenti e distruttivi. Questa stessa coscienza è il nostro mezzo per sopravvivere e prosperare. La comprensione interreligiosa non è più o meno importante dell’auto-coscienza. Il mezzo più efficace e diretto per la cooperazione interreligiosa è sempre stato quello dell’incontro, vedere e stare con gli altri. Il Covid ci sta costringendo a incontrarci virtualmente e questo muta la percezione di sé, sullo schermo ci guardiamo mentre guardiamo la persona con cui parliamo . Questo è affascinante perché ci fa riflettere su noi stessi mentre comunichiamo con l’altro. Gli incontri faccia a faccia non ci danno l’ opportunità di vedere come ci vedono gli altri. Lo schermo di un computer ci rimanda la nostra immagine, come quella delle persone che stiamo incontrando. Pensiamoci, quali sono le implicazioni di tutto questo? Siamo costretti a vederci con più chiarezza negli occhi dell’altro? Questa forma di incontro potrebbe in sé essere una forma di collaborazione interreligiosa? Credo di sì. Mentre ti incontro, in qualsiasi situazione, su qualunque questione, mi connetto anche con la coscienza. E per me, come credente, mi sto collegando con e attraverso la fede. La nostra connessione è il
nostro incontro interreligioso, è la nostra coscienza che sta cambiando noi e il nostro ambiente giorno per giorno. Non abbiamo bisogno di inventare nuove modalità di dialogo, dobbiamo capire che gli incontri tra sé stessi e gli altri sono la nostra connessione interreligiosa. Non lasciamo noi stessi fuori dalle porte dei nostri uffici né ci lasciamo fuori dallo schermo del computer. Il nostro incontro interreligioso è una realtà quotidiana. Since the collapse of the Berlin wall, we seem to be in search of meaning to explain the political, social, cultural, financial fabric of our lives. My generation grew up during the cold war and the conflict between socialism and capitalism. But this seemed to disintegrate with every block of the Berlin wall collapsing. I remember the hubris of ‘triumphant capitalism’ which seemed to define so much of western worldview around that time. Of course capitalism fell from grace with the financial collapse of 2008, but this came after some important developments in and around religion took place, globally. The Arab Mediterranean had never fully succumbed to either capitalism or socialism. The cradle of the three largest monotheistic religions (Judaism, Christianity and Islam) continued to see the world, and itself, through the prism of religion and religiously inspired thinking. The cold war was global geopolitics ‘out there’, but our daily lives in the 20+ Arab speaking countries, was always intricated connected to religion, or faith. Our daily language would involve a thousand and one ways of mentioning God (thank God, God willing, God knows, God forgive me/us, God help me/ them/us, etc.) as everyday words. They are not thought about, they are part of the syntax of our nerves. Sadness or joy or anticipation or fear were all referred to and understood and imagined in religious terms – God withing and without. And yet our European neighbors on the other sides of the Mediterranean, seemed to think and believe that religion was not part of their public narrative or
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space. At best, it is/was a personal issue. This dichotomy of thinking was given a shock on September 11, 2001. Religion became a public matter informing European and North American politicians’ discourses and perceptions. Talk about “Islam and the West” and the so-called “clash of civilisations” became normal in policy/government circles. The perpetrators of the September 11 attacks were identified primarily as “Muslims”, and western public consciousness was once again (since the Iranian revolution and hostage crisis of 1979) filled with a loose linking of Islam/Muslim/terrorist/ fundamentalist creating a continuum of fear, ignorance, and ‘othering’. Meanwhile, as the eyes of the so-called ‘secular west’ opened to the reality of religious dynamics, there was a realization that Evangelical Christianity was making great strides across Africa and Latin America, that Jewish political parties were strongly influencing the outcomes of elections in Israel and also playing an important role in United States politics, that Hindu supremacist political thinking was witnessing a political resurgence in the world’s largest and most diverse democracy (India), and that some Buddhist monks were not always a silent and peace loving community, but some had distinctly warrior-like rhetoric and activities, in parts of East Asia. Suddenly, it would seem, religion was definitely a factor in our lives! Whether this was indeed sudden or a recent development is questionable. I argue that religion always was part of the fabric of consciousness everywhere in the world but for western Europe. And yet for some reason, it was the worldview of western Europe ( former colonial entities) that seemed to color our understanding of the rest of the world. Religion never went away. Some of us just did not see it. Now we do, in varying degrees. And the question I am now trying to answer is that “interreligious understanding and cooperation seem urgent and inevitable. But still not easy. What makes it more or less possible/ doable more than yesterday, and why?”. What a complica-
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ted question! Is it really so complicated to understand that if I see and feel and believe in something, it would be part of my understanding of myself, and it would also influence the way I see you? Put differently, if I believe in God, or the Divine, as part of my existence, why would it be difficult to see it in the person in front of me, in the leaves on a tree, in the wind, in the sea, in the seeds in the earth? And if I see – or feel – the Divine around and inside me, then is it not natural that I also see this Divine as part of you? What would it mean to see the Divine in me and you and even in nature around us? It would require an appreciation of one’s own insignificance and inevitable interconnectedness. It would seriously humanize and humble us. It would force us to see that in seeking to control nature, we hurt ourselves, and in seeking to control one another’s lives, we hurt all. Interreligious understanding is not something that happens outside of us, it is about understanding ourselves: our own humanity and interconnectedness with everything and everyone. Interreligious understanding is a form of consciousness, of self and of others. Is that difficult? Yes, it is difficult if the attempt is to mould our consciousness, our selves, into controlling, dominating, authoritarian creatures that dictate how nature should serve us. It is not difficult if it makes us realise our limitations – as humans dependent on a planet and on one another, for survival. In fact, interreligious understanding, as a form of consciousness, is liberating. As we know our limits, so we know our strengths. We are stronger as a species when we are connected to one another and to our environment. We survive well when we are interdependent and resilient with and because of one another. Alone we are destitute and destructive. This very consciousness is our means to survive, and to thrive. Interreligious understanding is no more - or less - important than self consciousness. The most effective and direct means of interreligious cooperation is in the encounter - seeing and being with one another. Covid is forcing us to realise
that we can encounter virtually even as we are constrained physically. As we wonder about how we encounter through a computer screen, our own self perceptions are changing, for on the screen we can see ourselves as we see the person we speak with – how fascinating that we can reflect on ourselves as we engage the other! Regular face to face encounters do not offer this opportunity to see how the others see us. And here is a screen on a computer that reflects us back to us, as it reflects the person(s) we are encountering back to us. Think about that… what are the implications of this? Are we forced to see ourselves more clearly in the eyes of the other? Is this form of encounter on a computer screen – in which we can even be talking of the most technical of things completely unrelated to ourselves or our conscience – could this be a form of interreligious collaboration? I believe it can be. It is. As I encounter you, in whatever situation, on whatever issue, I am connecting with conscience too. And for me, as a believer, I am connecting with and through my faith. Our connection is our interreligious encounter, it is our conscience, and it is changing us, and our environment, second by second, day by day. We do not need to reinvent new ways of interrelilgious dialogue as much as we need to accept that self-other encounters are our interreligious connection. We do not leave our selves outside the doors to our offices (whatever and wherever they are), nor do we leave ourselves outside the computer screen as we connect with one another. Our interrelilgious encounter is a daily reality.
2 Quali sono gli ingredienti indispensabili per costruire uno spazio interreligioso di successo in un paese europeo, in una città come Genova. La mia risposta è semplice: l’umiltà. Mentre riconosco i miei limiti, faccio spazio nella mia coscienza per vederti meglio, di più. Mentre riduco l’attenzione su me
stesso, ti accolgo. Grazie a questa umiltà abbiamo creato uno dentro l’altro lo spazio per ‘essere’ insieme. Se sono troppo concentrato su me stesso, non vedrò la tua bellezza. Se ti evito del tutto, evito una parte di me. Se credo fermamente che la mia religione sia la verità ultima, ti concederò solo un minimo di credibilità, non solo nella tua fede, ma nella tua stessa coscienza, in te stesso. Se accetto di non avere tutta la verità, creo spazio per ascoltare la tua verità. E se entrambi, o tutti, lo facciamo insieme, apriamo la nostra coscienza - la nostra interreligiosità - l’uno all’altro. Quindi gli ingredienti indispensabili sono l’umiltà e il coraggio che serve per essere umili. So this brings us to the other questions which I see as intimately interconnected: “what are the indispensable ingredients to construct a successful interreligious space in an European country, in a town like Genoa ( featuring a strong catholic population but also home to new communities... what is needed to make a deeper and authentic interreligious dialogue (beyond kiss and go ) compatible with the principle of sacred religious truth?” My answer to this is simple: humility. As I acknowledge my own limitations I make room in my consciousness to see you more. As I lessen my focus on myself, I allow you into my consciousness. In this form of humility in the encounter, we have created within each other, a space to ‘be’ together. If I am overly focused on myself, I will miss the expanse of beauty of you. If I avoid you altogether, I avoid part of me. If I believe strongly that my religion is the ultimate truth, I will only allow you a minimum of credibility- not just credibility in your faith, but in your consciousness, in yourself. If I accept that I may not have all the truth, I create the welcome opening to hear your truth. And if we both, or all, do that together, we are opening our consciousness – our interreligiousness – to one another. Thus the indispensable ingredients are humility, and the courage it takes to be humble.
3 Questo non è facile. Viviamo le nostre vite cercando di controllare le nostre emozioni, le nostre reazioni, le nostre famiglie, le nostre relazioni, la nostra sicurezza, le nostre carriere, la nostra salute ecc. Eppure il messaggio centrale inerente a tutte le fedi è questo: come esseri umani, la nostra via non è il controllo del destino, ma l’umiltà di abbandonare questo bisogno di controllo. Il coraggio di accettare che non possiamo controllare, determinare o sapere tutto. Piuttosto, essere umili. This is not easy. We live our lives trying to learn how to control our emotions, each other, our reactions, our families, our relationships, our children, our security, our money/incomes, our careers, our health etc…And yet the simple message inherent in all faiths is this: as humans, ours is not the control of fate, but the humility to let go of this need to control. The courage to accept that we cannot control or determine or even know it all. Rather, to be humble.
4 Cosa possono portare le donne in questo spazio di coscienza, in questo spazio interreligioso? La matrice diciamo biologica delle donne le dota di una naturale disposizione a coltivare. Questa riflessione non vuole essere anti-femminista o radicale in alcun modo. Il corpo femminile ha la capacità di nutrire la vita. Non tutte le donne hanno figli. Ma il fatto che i corpi siano “predisposti” per essere in grado di farlo, significa che alcune cose nel nostro DNA, i nostri ormoni, il nostro stato naturale, ci predispongono a nutrire la vita. E questo cosa implica? Difficile generalizzare. Ogni donna ha una storia di vita diversa. Ma credo che si possa dire che il “multi-tasking” – il fare più cose contemporaneamente - è
probabilmente qualcosa che molte donne possono fare bene e per molte non e’ una scelta. Questa capacità posiziona favorevolmente le donne nello spazio interreligioso. Perché? Il mondo stesso della religione è molto più grande e molto più diversificato dello spazio detto laico. Questo significa che le donne di fede devono prima interagire tra loro, all’interno della loro fede, e poi con altre religioni. Questo richiede molto lavoro. ci vogliono tempo ed energie, anche per collegarsi anche con attori del mondo dei diritti delle donne che hanno una mentalità diversa. probabilmente sono più capaci di armonizzare obbiettivi diversi, costruire i ponti. La fame di potere e dominio, la volontà di usare la forza, ecc. non sono esclusivamente caratteristiche maschili. Forse ciò che può e fa la differenza è che quando le donne cercano di stabilire connessioni nel mezzo di tutte le altre responsabilità, il fare da sole spesso non è un’opzione. Lavorare in modo collaborativo è qualcosa che richiede non solo abilità, ma la volontà di scendere a compromessi, e di minimizzare l’alienazione e l’emarginazione. Molte donne di fede hanno cercato di servire le loro comunità e di guidarle. La maggior parte delle ONG religiose dipende dalla prestazione di servizi fornita dalle donne. Allo stesso tempo, la maggior parte delle donne in tutto il mondo condivide ancora la realtà di essere relativamente meno privilegiate rispetto agli uomini (economicamente, politicamente, finanziariamente, socialmente). Ciò significa che il vettore delle realtà condivise tra le donne è ampio. Quando tutte queste caratteristiche si sovrappongono, la condivisione di realtà comuni, la capacità di multitasking e la presenza predominante nei settori dei servizi, tutto ciò colloca le donne in una
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posizione favorevole nella gestione dell’incontro interreligioso, la coscienza. What can women bring to this consciousness, to this interreligious space? Women’s biological make up provide them with as close to a natural disposition to nurture. This is not to be anti-feminist or radical in any way. A female body is created with a capacity to nurture life. Fact. Not every single woman bears child, for sure. But the fact that the bodies are “wired”, so to speak, in principle, to be able to do so, means that some things in our DNA, our hormones, our natural state, etc. predisposes us to nurturing life. What does that imply? Difficult to generalize. Each woman has a different life story so there is absolutely no way to predict what “women” bring anything. But I do believe one can say that ‘multi-tasking’ – doing several things at once – is probably something many women can do well – and many may not even have a choice about. Rhetorical question: how normal is it for women anywhere in the world, to be pregnant and working full time and taking care of children and a home and serving communities? Answer: for many women, it is very normal. I tend to think that this ability to multi-task positions women
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favorably in the interreligious space. Why? The world of religion itself is much bigger and much more diverse than the secular space. This also means that religiously inspired women need to first engage with one another, in their own religious spaces -ie. intra-faith, as well as across their respective faith traditions, or interfaith (eg Christian-Muslim-Jewish-Hindu-Buddhist-etc). This is a lot of work. So it takes more effort, time and energy to also link up with secular-minded women’s rights actors. Women’s tendency to try to multi-task means they are likely to be more able to combine many ends at once – build the bridges of the interrelationships even as they are paving their own discursive and practical roads in their own families, communities and contexts. I do not believe that all women want all good for all people. Women are as susceptible to vulnerabilities as men. Hunger for power and dominance, willingness to use force, etc. are not exclusively male characteristics. Perhaps what can and does make a difference is that as women reach out to make the connections in the middle of all the other responsibilities they face, the tendency to go it alone may be less of an option. Working collaboratively is something that requires not only ability,
but a willingness to defer, to compromise, to minimize alienation and marginalization. History attests to many women of faith who reached out to heal and serve their communities, and to lead and guide them. Most religious NGOs depend on the actual service provision provided by women. At the same time, most women around the world still share a reality of being relatively less privileged than men (economically, politically, financially, socially). This means the vector of shared realities among women is wide. When all these features add up -sharing common realities, ability to multitask, and predominant presence in service sectors – they may well position women favorably to manage the interreligious encounter – the consciousness.
Nayla Tabbara Dr. Nayla Tabbara is the Chairperson and founding member of Adyan, Foundation for Diversity, Solidarity and Human Dignity. She is also a co-president of Religions for Peace. She holds a PhD in Science of Religions from Ecole Pratique des Hautes Etudes (Sorbonne-Paris) and Saint Joseph University (Beirut) and is a university professor in Religious and Islamic Studies. She is also a muslim woman theologian and has publications in the fields of Islamic theology of other religions, Islamic Feminism, Education on interreligious and intercultural diversity, Qur’anic exegesis and Sufism. She works on curricula development ( formal and non-formal) on multifaith education, inclusive citizenship and FoRB. She has received the Gold Medal of the French Renaissance Award and the Special Jury award of the Fr. Jacques Hamel Prize, the Ecritures et Spiritualités Award and the Academie des Sciences d’Outre mer award for her book L’islam pensé par une femme (Bayard, 2018).
1 Di recente il dialogo interreligioso sta evolvendo rapidamente verso varie forme di cooperazione interreligiosa. Dopo una serie di incontri interreligiosi, soprattutto nella seconda parte del ventesimo secolo, iniziati principalmente dai cristiani, e dopo un primo decennio del ventunesimo secolo caratterizzato da una proliferazione di iniziative musulmane come reazione all’orrore del 9/11, nel secondo decennio del 21° secolo è emerso un interesse condiviso ad andare oltre il dialogo verso un impegno interreligioso su questioni locali, regionali o universali. Tali questioni riguardano la dignità umana, i diritti umani, la cittadinanza, i cambiamenti climatici. Ad Adyan, Fondazione per la diversità, la solidarietà e la dignità umana con sede in Libano, negli ultimi anni abbiamo sviluppato il concetto di “Responsabilità sociale religiosa”, per promuovere la responsabilità delle religioni a lavorare per il bene comune e per il bene della creazione e non limitarsi al benessere dei soli aderenti. Oltre a includere i valori della responsabilità sociale religiosa nel discorso religioso e nell’educazione religiosa, sia cristiana che
musulmana, Adyan ha lavorato con il Forum per la promozione della pace nelle società musulmane, Wilton Park e quattordici organizzazioni religiose nel MENA (musulmane, cristiane, izidis) su una “Carta della cittadinanza inclusiva” basata sulla fede nei paesi arabi. A un livello più ampio, la rete internazionale multi-religiosa di “Religioni per la Pace” riunisce religioni e spiritualità a livello mondiale per sostenere la costruzione della pace, la giustizia di transizione, lo sviluppo sociale ed economico e i cambiamenti climatici, tra altre importanti questioni. Ciò è possibile oggi perché tutta la storia del dialogo, che a volte sembrava ridondante, elitaria o senza incidenza reale, ha creato un clima di fiducia e impegno nella leadership religiosa. Ciò è possibile anche grazie alle dichiarazioni promulgate dalle autorità religiose nei decenni precedenti. In contesti cristiani, documenti come Nostra Aetate e i discorsi di Papa Giovanni Paolo II e Francesco hanno aiutato molto il dialogo e la collaborazione interreligiosa. Nell’Islam, le dichiarazioni
promulgate negli ultimi anni da Al Azhar, dal “Forum per la promozione della pace nelle società musulmane” e da altri, incentrate sulla libertà religiosa, sulla parità di cittadinanza tra cristiani e musulmani, sui valori dei diritti umani come fondamenta per gli Stati, per il rifiuto dell’estremismo e del fanatismo hanno aiutato molto a far avanzare questa responsabilità comune. Questi testi e posizioni sono culminate nel documento della Fraternità umana co-firmato da Sua Santità Papa Francesco e da il Grand Imam di Al Azhar Shaykh Ahmad al Tayib nel 2019, e sebbene alcuni considerino questi come semplici testi, rappresentano comunque una solida base per rafforzare le relazioni interreligiose e la cooperazione. Recently, interreligious dialogue is moving more and more towards interreligious cooperation. After a history of interreligious encounters especially in the second part of the 20th century, mainly at the initiative of Christians, and after a first decade of the 21st century marked by a proliferation of Muslim initiatives for dialogue as a reaction to the horror of 9/11, the second decade of the 21st century witnes-
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sed an interest to go beyond dialogue towards an interreligious commitment for local, regional or universal issues. These issues range from human dignity and human rights, to citizenship, to climate change. At Adyan, a Foundation for diversity, solidarity and human dignity based in Lebanon, we have been working for the past few years, under the title of “Religious Social Responsibility”, on promoting the responsibility of religions to work for the common good and for the good of creation, and not to limit themselves to the wellbeing of their own adherents only. Besides including the values of Religious Social Responsibility in religious discourse and religious education, both Christian and Muslim, Adyan has been working with the Forum for Promoting Peace in Muslim Societies, Wilton Park and 14 religious organizations in the MENA (Muslim, Christian, Ezidi) on a faith-based Charter for Inclusive Citizenship in Arab countries. On a wider level, the international multifaith network of Religions for Peace also brings world religions and spiritualities together to stand for peacebuilding, transitional justice, social and economic development and climate change, among other important issues. This is possible today because all of the history of dialogue, that sometimes felt redundant, elitist or without read incidence, but that has built a climate of trust and engagement among religious leadership. This is also possible because of declarations promulgated by religious authorities in the previous decades. In Christian settings, documents such as Nostra Aetate as well as discourses of Popes John Paul II and Francis have greatly aided dialogue and interfaith collaboration. Islamically, declarations promulgated by Al Azhar and the Forum for Promoting Peace in Muslim Societies and others in the recent years, focusing on religious freedom, equal citizenship between christians and muslims, values of human rights as being the foundations of states, refusal of extremism and fanaticism, have helped a lot to advance this common responsibility. These two hi-
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stories of texts and positions culminated in the Human Fraternity document co-signed by His Holiness Pope Francis and the Grand Imam of Al Azhar Shaykh Ahmad al Tayib in 2019, and although some consider those as just texts, they nonetheless represent a firm foundation for interreligious relations and cooperation.
2 Ogni paese e ogni città ha il suo contesto e i suoi ingredienti. A volte tutti i diversi gruppi di una città sono abitanti storici e talvolta i gruppi di minoranza sono nuovi arrivati. Al fine di costruire spazi interreligiosi e interculturali sostenibili e di successo, gli incontri di dialogo devono concentrarsi su questioni come l’identità, ciò che l’integrazione comporta, le speranze e le paure di ciascun gruppo o comunità, nonché strade di collaborazione per il bene comune. Nella mia esperienza, ho imparato che l’ingrediente più importante per il dialogo in qualsiasi luogo è il riconoscimento: il riconoscimento dell’altro, ma anche il riconoscimento delle speranze e delle paure dell’altro e delle ferite passate di cui soffre ancora. Each country and each city has its own context, and its own ingredients. Sometimes all the diverse groups of a city are historic inhabitants, and sometimes the minority groups are newcomers. In order to build sustainable and successful interreligious and intercultural spaces, encounters of dialogue need to focus on issues such as identity, what integration entails, hopes and fears of each group or community, as well as avenues of collaboration for the common good. In my experience, I have learned that the most important ingredient for dialogue anywhere is recognition: recognition of the other, but also recognition of the hopes and fears of the other, and of the past injuries that the other still suffers from.
3 Ciò che è necessario per un dialogo interreligioso profondo e autentico è una nuova relazione con il concetto di verità. Teologicamente, quando la verità è equiparata al dogma, allora ognuno di noi ha le proprie verità che sono inconciliabili con quelle degli altri e che sono messe in pericolo dagli altri. Quando comprendiamo che la verità è al di là del dogma, che la verità è il divino che non possiamo possedere ma per cui possiamo solo lottare, allora possiamo iniziare a vederci non come concorrenti, possessori di verità opposte, ma come co-viaggiatori sulla via verso il divino o verso valori più alti. Allora ci apriamo alle nostre reciproche esperienze spirituali e lungo il cammino possiamo ispirarci l’un l’altro. Anche sul piano politico e storico ogni comunità ha una sua verità, una sua narrazione storica e una sua memoria collettiva. Anche qui dobbiamo condividere le nostre narrazioni storiche e ascoltarci a vicenda, per capire che ognuno di noi vede una sola prospettiva e che nessuno di noi detiene tutta la verità. What is needed for a deep and authentic interreligious dialogue is a new relation to the concept of truth. Theologically, when truth is equated with dogma, then each of us have their own truths that are irreconcilable with those of others and that are endangered by others. When we understand that truth is beyond dogma, that truth is the divine that we cannot possess but strive for, then we can start seeing each other not as competitors, possessors of opposing truths, but as co-travelers on the path towards the divine or towards higher values. We then open up to the spiritual experiences of each other and emulate each other on the path. Politically and historically also, our
different communities have their own truths, their own historical narratives and collective memories. Here too we need to share our historical narratives and listen to each other, to understand that we each see one perspective, and that none of us holds the whole truth.
loro comunità. Quindi, in un certo senso, il dialogo interreligioso nella maggior parte dei paesi ha contribuito in una certa misura a integrare la presenza delle donne all’interno della loro comunità religiosa.
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C’è ancora molta strada da fare per la giustizia di genere, nella maggior parte, se non in tutte, le religioni del mondo. Personalmente penso che dopo quest’ultimo decennio in cui il lavoro interreligioso si è focalizzato sulle questioni della cittadinanza e della libertà religiosa, in questo nuovo decennio abbiamo bisogno di concentrarlo sui temi della dignità umana e della giustizia di genere.
Oggi è fondamentale ascoltare le donne di fede, non solo in contesti interreligiosi ma all’interno delle loro comunità religiose. Nella maggior parte delle religioni, l’interpretazione dei testi sacri è stata una prerogativa degli uomini, e questo fino a poco tempo fa, quando le donne hanno iniziato a rivendicare la loro voce e il loro ruolo nella leadership religiosa e nell’interpretazione dei testi sacri. Il dialogo interreligioso ha effettivamente aiutato le donne negli ultimi decenni a rivendicare tale posizione. Quando le donne di fede, le donne teologhe, le donne religiose hanno iniziato a essere invitate negli incontri interreligiosi e quando è stata a loro conferita la stessa legittimità dei leader religiosi a parlare in nome della loro fede o sulla loro fede, questo ha rafforzato la loro posizione al di fuori della cerchia del dialogo interreligioso e all’interno della
about or for their faith, this strengthened their position outside of the circle of interreligious dialogue and inside their own religious groups. So in a certain way, the interreligious dialogue scene, in most countries, has helped mainstream the presence of women in the religious scene to a certain extent. There is still a long way to go for gender justice, in most, if not all, world religions. I personally think that after a decade of focusing interfaith meetings on Citizenship and Religious Freedom, we need in this decade to focus interreligious encounters on Human Dignity and Gender Justice.
Today it is fundamental to listen to women of faith, not only in interreligious settings but in their own religious settings. In most world religions, religious interpretation has been the prerogative of men, until very recently, when women have started reclaiming their voice and role in religious leadership and in religious interpretation. Interreligious dialogue settings have actually helped women in the last decades to reclaim such a position. When women of faith, women theologians, women religious leaders, started being invited to interreligious encounters and given the same legitimacy as established male religious leaders in speaking
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Ani Zonneveld Ani is a writer, singer/songwriter, founder and President of Muslims for Progressive Values (MPV), an international human rights organization that advocates for social justice and equality for all, a strong supporter of freedom of expression and of conscience, women’s rights and as an ally, LGBTQ rights. Ani promotes these values at the United Nations. Since its inception in 2007, Ani has presided over MPV’s expansion to include chapters and affiliates in 12 countries and 19 cities, founded Alliance of Inclusive Muslims, and to securing consultative status at the United Nations. Recently, Ani completed an Inclusive Islam Curriculum Rooted in Human Rights for children ages 4-7. As a Grammy certified winning songwriter, she utilizes the power of music and the arts in countering radicalism as she speaks-sings her message of social justice and peace from a progressive Muslim woman’s perspective.
1 Nel nostro attuale clima di divisione e demonizzazione dell’altro, gli eventi interreligiosi sono più importanti che mai nel riunire e nel tirare fuori il meglio della nostra umanità. Tuttavia, gli eventi interreligiosi sono troppo spesso superficiali, nel migliore dei casi convocano quelli al comando: i maschi. Ciò che viene spesso escluso sono le donne e i giovani, che sono importanti nella costruzione di relazioni comuni, che in virtù della loro demografia, diversificano la portata e il contenuto della programmazione, che sono, più “terreni” e riconoscibili. La religione informa e modella la nostra cultura. La religione cristiana ha una ricca storia delle arti, della musica e della sua influenza sulla tradizione. Anche l’Islam lo fa. Sebbene la maggior parte dei musulmani creda che le raffigurazioni del profeta Muhammad (o di uno qualsiasi dei profeti) siano blasfeme, molti musulmani e non musulmani ignorano le meravigliose figure del profeta Muhammad nei dipinti appesi in molti musei del mondo.
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Comprendere le reciproche culture è la base per una convivenza pacifica, ma prima di tutto aiuta a conoscere la propria cultura. Dall’11 settembre sono stato attiva nelle attività interreligiose. È stato il raduno di leader religiosi, in particolare quelli delle tradizioni cristiane che difendono i diritti dei musulmani in un’America post 11 settembre, che mi ha ricordato la bellezza dell’umanità. Nelle nostre primissime riunioni settimanali, troppo spesso la sala era dominata dai capi religiosi maschi, mentre donne e giovani erano assenti. In our current climate of division and demonizing of “the other,” interfaith events are more important than ever in bringing together, and bringing out the best of our humanity. However, interfaith events are too often superficial, at best convening those in leadership: males. What is often excluded is women and youth, who are important in the communal relationship building, which by virtue of their demography, diversifies the scope and the content of programming, which are, well, more “earthly” and relatable.
Religion informs and shapes our culture. The Christian religion has a rich history of the arts, music, and its influence on tradition. Islam does too. Although most Muslims believe depictions of Prophet Muhammad (or any of the prophets) are blasphemous, many Muslim and non-Muslims are ignorant of the beautifully drawn figurines of Prophet Muhammad in paintings hung in many museums of the world. Understanding of each other’s’ cultures is the foundation for peaceful co-existence, but first, it helps to know your own culture. Since 9/11, I have been proactive in interfaith activities. It was the gathering of religious leaders, especially those of Christian traditions standing up for Muslim rights in a post 9/11 America, who reminded me of the beauty of humanity. At our very early weekly gatherings, too often the room was dominated by the male religious leaders, while women and the youth were absent.
2 Come caso di studio di un’attività di relazione interreligiosa di successo, condividerò la mia esperienza nell’organizzazione di God Loves Beauty, un festival annuale interreligioso di arte e musica. God Loves Beauty è una frase trovata nel Corano dell’Islam e nei testi sacri di molte fedi. La ragione per organizzare un simile festival è stata quella di riunire membri di comunità religiose partner per lavorare insieme verso un compito comune: un evento che ha favorito l’apprendimento e le relazioni. Quando lavori insieme, costruisci relazioni significative e potenzialmente durature, cosa che ha fatto per me. Con le relazioni che avevo instaurato con i leader religiosi maschi di varie istituzioni a Los Angeles, sono stata in grado di sollecitare il loro sostegno e i volontari delle loro comunità per organizzare questo evento annuale che si è tenuto per due fine settimana. Dal momento che le moschee tradizionali hanno un rapporto problematico con la musica, ho organizzato eventi musicali in chiese e sinagoghe, dato che quegli edifici hanno un’acustica meravigliosa, per non parlare dei buoni sistemi audio e delle aree sceniche elevate. Alle moschee organizzavo mostre di arte visiva. As a case study of successful interfaith relationship activity, I will share my experience in organizing God Loves Beauty, an annual interfaith arts and music festival. God Loves Beauty is a phrase found in Islam’s Quran and in sacred texts of many faiths. The reason for organizing such a festival was to gather members of partnering faith communities to work together toward a common task: an event that nurtured learning and
relationships. When you work together, you build meaningful and potentially lasting relationships, which it did for me. With the relationships I had established with male religious leaders of various institutions in Los Angeles, I was able to solicit their support and volunteers from their communities toward organizing this annual event held over two weekends. Since traditional mosques mistakenly frown upon music, I organized the musical events at churches and synagogues, as those buildings have beautiful acoustics, not to mention good sound systems and elevated stage areas. At the mosques I would organize the visual art exhibits.
3 Di norma, tutti gli argomenti di questo evento, siano essi spettacoli visivi, musicali o teatrali, dovevano essere fondati spiritualmente. Come comitato organizzatore, eravamo composti da uomini, donne e giovani e talvolta coinvolgevamo bambini. Ai nostri eventi hanno partecipato non solo i membri della comunità delle istituzioni religiose organizzatrici, ma anche quelli delle più grandi comunità interreligiose che li hanno promossi. Questa dimostrazione di collaborazione ha reso più semplice l’organizzazione in luoghi alternativi per gli anni successivi, diffondendo così l’idea e ampliando la partecipazione artistica. Oltre alle arti visive e dello spettacolo, abbiamo anche organizzato forum educativi sull’arte religiosa. Per la comunità musulmana, la comprensione della ricchezza dell’arte cristiana e del suo significato aiutano a capire il contesto in cui vive la maggior parte della comunità cristiana. Ai non musulmani, apprendendo i calcoli matematici dietro i disegni geo-
metrici islamici o l’importazione dei mestieri artistici dal mondo musulmano permette di comprendere il contributo dei musulmani alla cultura cristiana. As a rule, all the subject matter at this event, be it visual, musical or theatrical performances, had to be spiritually grounding. As an organizing committee, we were made up of men, women and youth and sometimes involving children. Our events were attended not just by the community members of the organizing religious institutions, but also promoted and attended by the larger interfaith communities. This display of collaboration made it easier to organize at alternative locations for subsequent years, therefore spreading the idea and broadening artistic participation. Besides visual and performing arts, we also organized educational forums on religious art. For the Muslim community, understanding the richness of Christian art and its meaning gives context to the majority Christian society they live in. To non-Muslims, learning about the mathematical calculations behind Islamic geometrical designs or the importation of the artistic crafts from the Muslim world gives a new respect of the contribution by Muslims to Christian culture.
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Per le donne musulmane che cantano, come me, è difficile trovare uno spazio spirituale ma musicalmente accogliente. Nonostante i secoli di interpreti femminili nella storia islamica, l’attuale rigida tradizione sunnita proibisce la voce cantante di una donna mestruata. Un ambiente interreligioso offre quindi alle donne musulmane il respiro per esprimere la loro forma d’arte, rompendo gli stereotipi del pubblico non musulmano e dei musulmani alla ricerca di una nuova tradizione islamica e occidentale.
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È importante per le donne di tutte le fedi essere visibili, organizzarsi, collaborare e negoziare questi spazi spirituali artistici temporanei con le istituzioni piu ortodosse. Ciò rende queste istituzioni più accoglienti e meno alienanti. E non dimenticare, soprattutto, alla cerimonia di chiusura quando tutti i “grazie” sono stati detti, per favore non permettere agli uomini di prendersi il merito per tutto il duro lavoro! For Muslim women who sing, such as myself, it is hard to find a spiritual yet musically welcoming space. Despite the centuries of female performers in Islamic history, the current strict Sunni tradition prohibits a menstruating woman’s singing voice. An interfaith setting therefore gives Muslim women breathing room to express their art form, breaking stereotypes to the non-Muslim audience and to Muslims hungry for a new Islamic and Western tradition. It is important for women of all faiths to be visible, to organize, to collaborate and to negotiate these temporary artistic spiritual spaces with orthodox institutions. It makes these institutions more welcoming and less alienating. But don’t forget, and most importantly, at the closing ceremony when all “thank you’s” are being said, please don’t allow the men to take credit for all the hard work!
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La dignità della differenza. Note sull’imprescindibilità del dialogo interreligioso nel nostro tempo
Roberto Celada Ballanti Roberto Celada Ballanti è professore ordinario di Filosofia della religione e di Filosofia del dialogo interreligioso presso il Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia (DAFIST) dell’Università di Genova. È traduttore e curatore di opere di Leibniz, Marcel, Jaspers, Karl Barth, Benjamin Constant.
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1. Lo scenario geopolitico e le religioni Siamo entrati, ormai da molti decenni, in una fase nuova della modernità che viene trasformando la nostra visione del mondo, le identità dei soggetti, singoli e collettivi. Processi di globalizzazione vengono estenuando l’autonomia delle culture, modificando i confini identitari, diffondendo modelli di società, di convivenza, di economia, sempre più omologanti. Immensi spostamenti di confine tra ricchezza e povertà, determinati dalla penetrazione dell’economia di mercato in nuovi Paesi, dalla liberalizzazione dei commerci internazionali, dalle nuove tecnologie di comunicazione che annullano le distanze, ridisegnano in profondità gli assetti planetari. La multiculturalità determina relazioni sempre più strette tra etnie, Weltanschauungen, fedi, imponendo un confronto e un dialogo, che spesso divengono scontro. Ora, dentro a questi immani processi, inequivocabili indizi testimoniano ciò che a molti è apparso, ed è stato definito, come un ritorno del religioso, una riscoperta del sacro, secondo una vasta fenomenologia che comprende lo sviluppo di nuovi movimenti spirituali, l’ascesa di correnti carismatiche in seno alle Chiese, la diffusione in Occidente dell’Islam e di altre religioni orientali. Evidenza che ha finito per scuotere, presso tanti osservatori, il tenace assunto della fine della religione nel mondo moderno: come se dentro i processi di secolarizzazione, dentro il disincanto del mondo, dentro la «gabbia d’acciaio» descritta da Max Weber, dentro il nichilismo, non cessasse – non avesse, in realtà, mai cessato – di pulsare l’inquietudine religiosa dell’uomo. La religione, in questo senso, contraddicendo tante sentenze di morte, lungi dall’eclissarsi, ha recuperato vigore e visibilità, parallelamente all’implodere delle
ideologie (o delle religioni) secolari, giungendo a problematizzare i consolidati rapporti tra politica e religione, tra Stati e istituzioni ecclesiastiche. Quasi, in questo senso, gli antichi confini tra religione e spazio pubblico chiedessero oggi, di fronte a tante metamorfosi del sacro e alla sua rinnovata centralità pubblica, di essere ridisegnati nel segno di una nuova laicità. Quando si rifiuti la diagnosi del mondo contemporaneo come di un mondo irreligioso e lo si veda piuttosto segnato da una religiosità aporeticamente, tragicamente intensa, il problema del rapporto tra religione e società moderna muta radicalmente. Occorrerebbe, forse, addirittura, capovolgere il celebre paradigma weberiano: Weber analizzò le conseguenze economiche dell’ansia di salvezza indotta religiosamente durante le fasi iniziali del capitalismo, mentre nel nostro mondo globalizzato dobbiamo confrontarci con un’ansia di sopravvivenza, con una istanza religiosa indotta economicamente, a cui le religioni vengono in soccorso. È, in questo senso, nei vuoti, nei bianchi, nelle smagliature dei processi di secolarizzazione che la dimensione religiosa si è mostrata capace di riorganizzarsi, di ricomporsi, in uno spazio radicalmente mutato, ma anche in grado di propiziare nel presente una rilegittimazione del religioso. In tale quadro, a ben vedere, il religioso non ritorna, perché in realtà non se ne è mai andato: più semplicemente, per effetto dei complessi rapporti tra modernità e religione, è stato sottoposto a continue metamorfosi, tanto che oggi solo concetti come diaspora del sacro, meticciato, bricolage o puzzle religioso, dispersione delle credenze, mobilità delle appartenenze, paiono atti a definire adeguatamente lo stato di fluidità, l’esplosione dei dinamismi rizomatici che segnano la Babele religiosa tardo-moderna.
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2. L’istanza ineludibile del dialogo interreligioso È nel contesto descritto, dai tratti fortemente plurali, che si pone come ineludibile l’urgenza di un dialogo tra le religioni. È invalso, anche nel nostro tempo, un deteriore illluminismo, che vorrebbe, in nome dell’universalità o dell’ideale della fratellanza universale, abolire le differenze proprie delle tradizioni religiose in vista di sincretismi o di olismi religiosi. Sono invece convinto che le differenze non vadano annullate ma attraversate in direzione dell’universalità. Occorre cioè che le differenze religiose diventino il veicolo dell’universalità presente in esse. Aprirsi un varco dentro le differenze significa trovare dei punti in comune, delle vie, dei passaggi che legano. In questo senso, le differenze non sono destini immutabili a cui restare inchiodati, ma cerniere, ponti tra particolare e universale, spunti prospettici in vista dell’incontro con l’altro. Si legge nel racconto del teologo e pastore protestante keniota di Losanna Shafique Keshavjee, Il Re, il Saggio e il Buffone, sorta di apologo sul dialogo interreligioso, non lontano per ispirazione a Nathan il Saggio di Lessing: Slegare e collegare, unificazione e differenziazione, distacco e attaccamento, morte e resurrezione, è questo il dinamismo dello Spirito. Purtroppo però, nella maggior parte delle tradizioni religiose e dei destini umani, questo moto si è fermato, anzi bloccato... Non c’è nulla di più pericoloso che un legame immobile. Possono, si diceva, le differenze, essere attraversate – non eliminate, non rimosse – in direzione di un’universalità che connette senza appiattire, omologare. L’universale non nega il particolare, abita in esso ed è chiamato ad aprirsi un varco, così da non soffocarvi ma da emergere come
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luce di grazia. Lo sottolinea, a suo modo, Simone Weil, affermando che la contraddizione che unisce universale e particolare, riguardo alla verità, lungi dall’essere un errore, rappresenta una di quelle «porte sul trascendente [...] alle quali bisogna bussare ripetutamente, perché infine si apriranno»: Noi sappiamo per esperienza – scrive ancora nei suoi Cahiers la grande pensatrice francese – che la verità è esclusivamente universale, e che la realtà è esclusivamente particolare, e tuttavia esse sono inseparabili, anzi sono una cosa sola. Non possiamo sfuggirvi. È, qui, mi pare, alluso, un vasto plesso problematico, quanto mai oggi degno di essere pensato: il plesso a cui alludo è quello relativo al rapporto tra universale e particolare. Ridefinire criticamente tale relazione equivale a rimodulare l’universalità religiosa sciogliendola dal modello della ordinatio ad unum e ricategorizzandola muovendo dalla scoperta del plurale (si potrebbe dire con Pier Cesare Bori: «universalismo come pluralità delle vie»), riformulando dunque tale universalità nei termini di una ordinatio ad plura et ad plures, o, anche, di un universalismo pluriprospettivistico, ben diverso dal relativismo con cui così spesso lo si confonde. Oggi più che mai occorre promuovere un’ermeneutica, un’autocomprensione delle religioni come distinti recanti in sé la verità che lega, il Logos che complica in sé tutti i logoi, tutte le forme. La risposta al pluralismo religioso, dunque, non consiste nell’annullare le differenze, nell’appiattirle secondo un criterio di neutralità etica, ma nel mettere in dialogo le differenze nell’affermazione di principi positivi di reciprocità, incontro con l’altro, dialogo.
3. Per una nuova laicità In questo orizzonte si pone l’idea di una laicità interculturale e interreligiosa. Laicità non allude, qui, a un contenuto filosofico o ideologico, ma a un metodo di convivenza, a un ethos, a un habitus, a un’attitudine critica consistente nella capacità di distinguere e separare ambiti e domini iuxta propria principia. Laicità, si potrebbe dire, è l’uso razionale di una norma regolativa secondo cui è dovere di tutti stare nel dialogo, cercare la verità secondo vie inevitabilmente diverse, onorare, si potrebbe ancora dire, quella serie di regole o criteri procedurali (autonomia, pluralismo, criticità) senza cui non c’è dialogo, libera e proficua vita in comune. Rispetto allo Stato simile laicità, come spirito delle distinzioni, metodo di coesistenza, di valorizzazione e di dialogo, si configura come imparzialità pubblica rispetto a ogni istanza o posizione rappresentante una verità religiosa, dove imparzialità non equivale né a indifferenza né a neutralità. Uno Stato autenticamente laico è uno Stato interessato a valorizzare il patrimonio delle tradizioni religiose, oggi sempre più plurale, che si affermano nella società. Esso non vive di una vuota, geometrica equidistanza tra le diverse posizioni, ha bisogno di essere alimentato da una società ricca di risorse culturali, ideali, religiose, oggi sempre più plurali e bisognose di uno spazio pubblico entro cui confrontarsi in spirito di tolleranza. Abbandonate le componenti anticlericali e anti-ecclesiastiche, rifiutata la laicità come ideologia della neutralizzazione delle identità religiose, della loro esclusione dagli spazi pubblici e mutata quell’idea in metodo inclusivo di dialogo, di riconoscimento tra identità ed ermeneutiche diverse, occorre oggi, come sempre più si dichiara, un nuovo progetto di
laicità. Entro cui, innanzitutto, è necessario sciogliere il malinteso legato alla coincidenza tra sfera privata e sfera intima, che, in realtà, non si corrispondono affatto. Che le religioni siano chiamate a incorporare lo spirito della retta laicità, non equivale per nulla a chiuderle nell’intimità. Cosa impedisce di pensare che, muovendo dallo spazio soggettivo, o privato, invece che dalla pretesa di organizzare normativamente la realtà socio-politica, esse possano investire la sfera pubblica, intesa come luogo e struttura di comunicazione e interscambio, in veste di componenti e risorse della società che accettano la sfida del pluralismo e lo spirito di distinzione proprio della laicità? Secolarizzazione non significa scomparsa di fedi e istituzioni religiose, ma presa di coscienza che è definitivamente mutato lo statuto del loro rapporto con la realtà socio-politica. Cercare nell’a-
gone dinamico, pluralistico delle fedi una risposta alla domanda di senso che segna l’esistere, non equivale a riaffermare la religione come sistema normativo per la società. È dunque possibile pensare a una prassi politica attraverso cui le diverse tradizioni religiose si installano nello spazio pubblico accettandone la dinamica plurale, inscrivendosi in esso come libere prospettive, restando del tutto separate dal principio che fonda l’autorità pubblica. Se il religioso, nel corso della modernità europea, ha “virato” verso l’interno, non è detto dunque che, muovendo da questa fonte, esso non possa ripartire per investire la società da una posizione che accetta la relazione, il pluralismo, il dialogo. Ciò non deve approdare alla riaffermazione di una religio civilis in posizione dominante, ma piuttosto a una sfera pubblica plurale e religiosamente connotata, a un pacifico agone di proposte di-
stinte, nel comune rispetto delle leggi e dei princìpi costituzionali, ossia a una laicità di relazione. Mi pare, tuttavia, che tale senso della laicità, la stessa accettazione dell’agone pluralistico, costringano le religioni a ripensarsi in profondità come singolarità che legittimamente aspirano a universalizzarsi secondo un movimento virtuoso che va dal particolare all’universale e che depone la pretesa all’universalità de iure. Occorre, in vista di ciò, che esse si aprano a un interno processo ermeneutico capace di rinvenire nella propria storicità l’universalità, dunque la possibilità di un incontro tra le differenze le quali, come osservato, vanno attraversate, non abbandonate. Sapranno le Chiese svolgere o portare fino in fondo questo ineludibile processo ermeneutico al loro interno?
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Dialogo interreligioso e processi migratori: uno sguardo dalla ricerca Francesca Lagomarsino Professore associato in Sociologia presso il Disfor, Università degli Studi di Genova, dove insegna Sociologia dell’Educazione e Sociologia della Famiglia. Da anni si occupa di processi migratori internazionali con particolare attenzione ai flussi femminili e alle migrazioni familiari, argomenti su cui ha scritto numerosi saggi.
Andrea T. Torre Dirige il “Centro Studi Medì-Migrazioni nel Mediterraneo” di Genova; è condirettore di “Mondi MigrantiRivista di Studi e ricerche sulle migrazioni internazionali” edita da Franco Angeli. Membro della Redazione del Dossier Statistico Immigrazione IDOS. Membro del Comitato Scientifico de “Il Caffè Geopolitico”.
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La riflessione sul dialogo interreligioso non può oggi prescindere dalla presenza in Italia degli immigrati. La società che si va formando è infatti sempre più caratterizzata da una pluralità di culture, dove non spicca solo la dimensione delle diverse nazionalità, della lingua, delle differenze sociali e politiche ma anche delle specificità religiose (Passarelli 2016) che costituiscono un importante elemento di auto ed etero riconoscimento. Quando oggi si parla di religioni degli immigrati, l’attenzione va subito al caso dei musulmani (Ambrosini, Ricucci 2020) quando invece la maggior parte degli stranieri appartiene a diverse confessioni religiose, cristiane e non. La migrazione diventa un’occasione per dare maggiore visibilità ad un fenomeno (quello della presenza di religioni o confessioni religiose molteplici) esistente nel nostro paese ma precedentemente poco evidente e visibile (Barbarella 2020). In questo senso è molto interessante riflettere su come i processi migratori siano anche occasione per ripensare i fenomeni religiosi e le pratiche interreligiose in relazione ai processi di inserimento, integrazione e inclusione sociale nel nostro paese. Come sostiene Seppilli (2020:90) non è irrilevante il fatto che “queste religioni entrano in rapporto fra di loro in seguito a un processo migratorio e quindi non è solo un rapporto interreligioso, è un rapporto interculturale”. La pluralità religiosa può essere infatti un importante fattore di integrazione in quanto consente di superare le barriere al dialogo e alla conoscenza reciproca, partendo dal tema centrale che è quello del riconoscimento dell’altro, del riconoscere che nonostante le diversità anche nell’altro c’è qualcosa in cui mi posso riconoscere. Il dialogo interreligioso può essere pensato come un comune
percorso di costruzione di spazi di negoziazione ed interazione tra differenti significati religiosi e culturali. In questo senso la riflessione del poeta martinicano Glissant sul concetto di opacità sembra rilevante; non tutto deve essere chiaro, capito ed esplicitato ma è possibile convivere anche a partire da ciò che non si condivide pienamente: «È vero, io rivendico il diritto all’opacità. La troppa definizione, la trasparenza portano all’apartheid: di qua i neri di là i bianchi, “Non ci capiamo” – si dice – e allora viviamo separati. No, io dico, non ci capiamo completamente ma possiamo convivere (Glissant cit. in Aime 1999)». Le riflessioni che qui proponiamo fanno parte di una ricerca dal titolo La pratica religiosa come risorsa per l’integrazione sociale dei migranti, svolta a Genova tra ottobre 2018 e giugno 2019, dal Centro Studi Medì. La ricerca si è svolta prendendo in considerazione diversi luoghi di culto appartenenti a tre diverse confessioni religiose. Una chiesa cattolica, caratterizzata dalla presenza di un gruppo significativo di immigrati latinoamericani (soprattutto ecuadoriani e peruviani), due chiese evangeliche di diverso orientamento (una metodista-valdese e una evangelica pentecostale) a cui afferiscono un numero elevato di immigrati in particolare latinoamericani e infine 4 centri culturali islamici. È stata utilizzata una metodologia qualitativa; abbiamo svolto nei diversi contesti momenti di osservazione partecipante, focus group e interviste qualitative sia a fedeli che frequentano questi luoghi di culto, sia a testimoni privilegiati, scelti tra i sacerdoti, pastori, imam e responsabili di specifiche attività svolte all’interno delle diverse realtà religiose. Quando parliamo di culture non possiamo trascurare il fatto che la dimensione religiosa, delle
credenze e delle pratiche, sia una componente fondamentale delle culture stesse. In questo senso il ruolo svolto dalla religione nel processo di costruzione di una nuova identità nel paese di immigrazione ha un peso importante e i luoghi di culto, oltre ad essere spazi di accoglienza possono rappresentare un ponte sicuro fra paesi e culture. Le pratiche religiose riflettono inoltre i processi di costruzione sociale dell’identità che agiscono fra paese di arrivo e paese di origine, interconnettendo i due contesti in una dimensione transnazionale che vede attivi gli scambi tra i diversi luoghi di origine, destino e transito (Menjivar 2001; Scrinzi 2016; Ambrosini, Naso, Paravati 2019). Sono anche luoghi in cui i migranti e autoctoni hanno l’opportunità di “conoscersi facendo”; la partecipazione alle attività delle chiese o delle moschee (funzioni religiose, cammini di fede, feste patronali, centri estivi per minori, eccetera) sono occasioni in cui non ci si limita a parlare o confrontarsi da un punto di vista teorico, ma si fanno attività insieme e quindi si è “trascinati” a spostare la relazione su un piano personale, superando stereotipi e semplificazioni. I luoghi di culto sono in primis percepiti come un’ambiente familiare che ricorda la madre patria, accoglienti e amichevoli, sono spazi di aggregazione, per ritrovarsi fra gente che proviene da uno stesso luogo, parla la stessa lingua, ha codici comuni. La metafora della famiglia è sempre presente nelle testimonianze delle persone migranti inserite nelle comunità: la chiesa o la sala di preghiera rappresenta una seconda famiglia, un luogo di incontro e scambio, in cui ci si può sentire, almeno per poche ore “a casa”. Al tempo stesso però dalle interviste raccolte e dalle note di campo, è anche evidente che tramite la partecipazione religiosa si sviluppa un senso di comunità che
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supera i confini nazionali. Più che essere provenienti da una stessa zona geografica quello che conta è la condivisione dei momenti di vita comunitaria (di preghiera o di socialità) ed essere accomunati dalla stessa fede. In alcuni casi, ad esempio, come emerge dalle parole di una fedele volontaria dell’Ecuador, si dà per scontato il fatto che persone provenienti da Paesi un tempo nemici, come Ecuador e Perù, si ritrovino nello stesso luogo e svolgano servizio insieme: I. come è cambiata la sua vita attraverso l’esperienza di Santa Caterina, in particolare, grazie ai legami creati con i membri della comunità? Sì sì, in un certo modo è cambiata perché noi come popolo abbiamo avuto tanti conflitti con il Perù e la Colombia con quei due paesi limitrofi. Invece…là c’è un’idea stupida, che dicono: questi qua per tanti anni ci hanno fatto guerra e quindi sono i nostri nemici. E invece arrivando qua ho visto… e anche quello è stato uno shock…ho visto tutti insieme, tutti felici, tutti, colombiani, ecuadoriani, peruviani. Ma cosa mi son persa!? […] Tanti, per dire qua la maggior parte dei miei amici, sono peruviani, la prima persona che mi ha dato la mano era peruviana, era proprio quella che era responsabile della lectio. Vedi piano piano capisci che l’idea che ti hanno venduto è sbagliata. Quando andavo alla comunità di là né lo confermavano né lo smentivano invece stando qua proprio la realtà è un’altra. Così la mia prospettiva è cambiata qua, a messa vado un po’ meno ma partecipo alla comunità più di prima (donna, ecuadoriana, fedele). Per i migranti arrivati da poco, le chiese e i centri culturali islamici offrono inoltre servizi e risorse materiali e simboliche che assumono un ruolo socio-economico fondamentale: assistenza materiale (generi alimentari, vestiti,
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ricerca del lavoro ecc..), conforto spirituale e una base solida per lo sviluppo di reti di relazioni, legami di amicizia ma anche relazioni sentimentali. La migrazione implica infatti un allontanarsi da tutto ciò che è proprio e familiare e spesso si avverte la necessità di ricreare dei legami che si sentono lontani. Le istituzioni religiose si mostrano così capaci di accogliere ed offrire possibilità di scambio e di sostegno, cosa che le politiche sociali formali spesso non riescono a fare e in alcuni casi nemmeno si prefiggono di fare (Menjivar 2003, Jackson e Passarelli 2008) . Se dalla dimensione materiale ci spostiamo su quella culturale dalla nostra ricerca emerge che le chiese migranti si caratterizzano come luoghi in cui le norme culturali sono rielaborate e l’appartenenza culturale può essere continuamente affermata, contestata e rinegoziata (Ambrosini, Naso, Paravati 2019; Romizi 2014) e non necessariamente come comunità chiuse, segregate e segreganti: “man mano che sviluppavo la mia ricerca, aggirando con la mia “nave etnografica” le “imbarcazioni” dei migranti, vedevo che questo bagaglio non seguiva incarnando, come pensavo, l’effigie cristallizzata del tutto culturale tayloriano e del corrispondente organismo sociale localmente ubicato. Vedevo che i migranti, aprendo la loro “valigia” e tirando fuori il loro Dio non ricordavano semplicemente quello che erano stati “lì”, ripetendolo in loco, piuttosto cercavano di costruire, in modo nuovo, quello che sarebbero stati “qui” […] vedevo che stavano improvvisando nuove strade” (Romizi 2014: 14). Si fa strada e si inizia a delineare ciò che Passarelli (2016), parlando nello specifico delle chiese evangeliche, definisce come “essere chiesa insieme”, dove prevale l’idea di un modello di , piuttosto che singole comunità nazionali chiuse. Al centro della riflessio-
ne c’è in fondo la domanda centrale che coinvolge, in modo più o meno consapevole, i processi migratori ossia la questione della coesione sociale. Le espressioni di religiosità collettiva dei migranti, con le loro pratiche, tradizioni, concezioni rituali, “con questo “Dio” che si portano nella valigia” (Romizi 2014) sono dunque un’espressione del desiderio di ricostruire “il proprio” in una immigrazione che genera chiusura? O invece sono forme di rimodulazione e ripensamento di pratiche conosciute che mutano e si mescolano con le specificità dei contesti di arrivo? In questo senso le diverse forme di devozione cristiana o musulmana in contesti diasporici potrebbero essere forme di sincretismo e di interculturalismo di matrice ecumenica. A partire dalle diverse situazioni incontrate abbiamo cercato di interrogarci sulla capacità delle reti religiose di creare diversi tipi di legami: all’interno della comunità migrante tra i suoi membri, tra i migranti che frequentano i luoghi di culto e la società di arrivo, fra i migranti e la società di origine. Le chiese integrate potrebbero essere interessanti esempi del tentativo di trovare una terza via (Passarelli 2016) tra l’assimilazione e l’esclusione, offrendo a tutti i fedeli un’occasione di ripensare la partecipazione religiosa con uno sguardo alla matrice ecumenica che, in particolare per le chiese cristiane, rappresenta l’essenza stessa del cristianesimo: “Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (San Paolo, Lettera ai Galati 3,26-29).
Bibliografia Aime M., (2004), Eccessi di culture, Torino, Einaudi. Ambrosini, M., Naso, P., Paravati, C., (2019), Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione, Bologna, Il Mulino Ambrosini M., Ricucci R., (2020), Introduzione. Fedi in movimento. Luoghi, aggregazioni e identità religiose in emigrazione, in “Mondi Migranti”, 1/2020 Barbarella C., (2018), Introduzione. in Aliseicoop (a cura di) Il Dialogo Interreligioso. Coesione sociale e governo del territorio, Progetto FAMI “Immigrati e integrazione. Per tanti solo un miraggio?” [Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione 2014-2020] Menjivar, C. (2001), Latino Immigrants and their Perceptions of
Religious Institutions: Cubans, Salvadorans and Guatemalans in Phoenix, Arizona. Migr. Inter [online]. 2001, vol.1, n.1 Romizi F. (2014), El Dios en la maleta. Los caminos de la significación mítica de los ecuatorianos católicos en Barcelona y Nueva York, Tarragona, Publicacions Univeritat de Rovira y Virgili Passarelli A. Immigrazione ed integrazione nelle chiese pro- testanti in Irlanda ed in Italia. Modelli di «essere chiesa insieme» a confronto, in Annese A. (a cura di) Protestantesimo e sfide della contemporaneità. Percorsi inediti di scienze delle religioni, QUADERNI DI STUDI E MATERIALI DI STORIA DELLE RELIGIONI Supplemento al n. 82 (2/2016) di «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» Jackson D., Passarelli A., (2008)
Mapping migration mapping churches’ responses. Europe study. Eds. Churches’ commission for migrants in Europe world council of churches Seppilli T., (2018), Il rispetto reciproco, condizione della pace in un mondo globalizzato in Aliseicoop ( a cura di) Il Dialogo Interreligioso. Coesione sociale e governo del territorio, Progetto FAMI “Immigrati e integrazione. Per tanti solo un miraggio?” [Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione 2014-2020] Scrinzi F. (2016), Migrazioni e chiese evangeliche in Italia. I latinoamericani evangelici e il lavoro di cura, in D. Ferrari (a cura di), Le minoranze religiose tra passato e futuro, Torino. Claudiana
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Il Marocco e La sfida religiosa dei nuovi flussi migratori Mauro Spotorno Mauro Spotorno è professore Ordinario di Geografia politico economica presso il dipartimento di Scienze Politiche (DISPO) dell’Università di Genova, dove è docente dei corsi di “Popolazioni e migrazioni” e “Dinamiche territoriali e sviluppo sostenibile” ed è Presidente dell’Osservatorio sui Fenomeni Migratori e Religiosi del medesimo dipartimento.
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Ogni migrazione ridisegna inevitabilmente l’identità religiosa ed il paesaggio culturale dei paesi interessati. D’altra parte è anche vero che la globalizzazione del fenomeno migratorio si accompagna all’emergere di problematiche non solo sociali, culturali e giuridiche anche in paesi che usualmente vengono considerati “di emigrazione”, ma che sono divenuti in tempi recenti anche di transito e di immigrazione. É questo il caso del Marocco, le cui rilevanti trasformazioni politiche, economiche, sociali e delle proprie posizioni e strategie geopolitiche nel contesto africano si riflettono sul suo panorama migratorio e religioso. Ciò pone il Paese dinnanzi a problemi sino a non molto tempo fa del tutto inattesi e non dissimili da quelli vissuti da molti paesi Europei, ancorché per certi versi simmetrici. Qui si tratta infatti dell’integrazione di immigrati non mussulmani in un paese di tradizione e cultura islamica e nel quale il Sovrano è capo dello Stato e “guida dei credenti” (Amir al Mouminine). Inoltre, se è vero che l’Islam è da tempo la religione pressoché esclusiva del regno Scheriffiano, è anche vero che con l’indipendenza questa situazione è stata costituzionalizzata con immediati riflessi sullo statuto giuridico delle religioni non islamiche. La prima Costituzione del Marocco indipendente, promulgata nel 1962, all’art. 6 stabiliva che “l’Islam est la religion de l’État” precisando tuttavia che lo Stato avrebbe garantito “à tous le libre exercice des cultes”. Due principi che saranno riconfermati dalla riforma costituzionale del 2011, con la quale all’art 1 si stabilisce che “l’Islam est la religion de l’ètat” (art. 3) e che “La Nation s’appuie dans sa vie collective sur des constantes fédératrices, en l’occurrence la religion musulmane modéré”. Questi presupposti sono peraltro mitigati, all’art. 3, dalla rinnovata
affermazione secondo la quale lo Stato “garantit à tous le libre exercice des cultes”, sia pure secondo le modalità precisate dalla legislazione ordinaria. Si tratta tuttavia di una libertà che trova non pochi ostacoli, anche giuridici. Ad esempio, ma altri ancora potremmo citarne, sebbene l’apostasia non sia più perseguita per legge (recentemente il Consiglio degli Ulema ha decretato a maggioranza il venir meno dell’obbligatorietà della pena capitale), l’art. 220 del codice penale vieta qualsiasi forma di proselitismo punendola con la reclusione da tre mesi a sei anni ed un’ammenda. Tale situazione giuridico-istituzionale appare però confliggente con i cambiamenti sociali imposti dalla recente evoluzione del quadro migratorio. Con l’indipendenza si assistette al rientro in patria della maggior parte dei residenti di origine europea ed alla conseguente drastica riduzione dei non musulmani presenti nel paese. Nell’ultimo quindicennio però il fenomeno si è arrestato e contemporaneamente è aumentata la varietà dei paesi d’origine. Il fenomeno è correlato al fatto che il Marocco da paese d’emigrazione è divenuto dapprima paese di transito dall’Africa all’Europa e poi di destinazione di contingenti di migranti provenienti da paesi sub sahariani. Tre le determinanti principali di questo processo : le politiche poste in campo dall’U.E. e da singoli paesi per arginare i flussi migratori in ingresso dall’Africa, il divario tra le condizioni economiche e sociali del Marocco e quelle dei paesi francofoni dell’Africa sub sahariana, a tutto vantaggio del primo ed infine i mutamenti intervenuti nella proiezione del paese sul quadrante geopolitico dell’Africa francofona. Il primo di questi punti non necessita approfondimenti. Il miglioramento della posizione del Marocco rispetto ai principali paesi di
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provenienza degli immigrati appare evidente se si considera che tra il 1990 ed il 2017 la differenza tra il valore dell’Indice di sviluppo umano del primo e quello medio dei secondi passa da 0,141 a 0,167 (+ 18%) a tutto vantaggio del Marocco. Quanto alla sua proiezione internazionale essa è contrassegnata dalla crescente incidenza del suo soft power sulla scena politica africana, il che si esprime anche nella disponibilità di borse di studio per svolgere in Marocco gli studi universitari e più in generale nella possibilità di entrare nel paese da alcuni di quei paesi per motivi di studio e/o lavoro venendo assoggettati a formalità assai poco stringenti. I dati relativi all’entità ed all’origine dei flussi sono incerti viste le condizioni di clandestinità nella quale vive la maggior parte degli immigrati. Dagli studi condotti sul terreno dal nostro gruppo di lavoro è emerso tuttavia uno spettro dei paesi di provenienza assai ampio, che comprende tutti i paesi dell’Africa francofona oltre a Mozambico e Somalia. La loro popolazione, se considerata nel suo
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insieme, è per il 55% cristiana, per un quarto musulmana e per la restante parte animista od atea. I dati raccolti nelle principali località nelle quali si concentra la presenza dei migranti confermano questa distribuzione : i cristiani (di varie confessioni) sono il 61% del totale, i musulmani il 29 e gli aderenti a religioni tradizionali il 10. Dai nostri studi risulta però che i motivi alla base della scelta di entrare in Marocco differiscono in misura significativa a seconda dell’appartenenza religiosa. Infatti, mentre per il 50% dei cristiani la motivazione principale dell’ingresso nel paese è ravvisabile nella possibilità di proseguire gli studi e solo per il 32% nel desiderio di trovare un impiego, per l’80% degli immigrati musulmani prevale quest’ultima motivazione o comunque è riconducibile ad esigenze di carattere economico. Di conseguenza la percentuale di coloro che considerano il Marocco come area di transito lungo il viaggio verso l’Europa è pari al 74% tra i migranti mussulmani ma scende al 39% tra i cristiani. D’altra parte differiscono anche le difficoltà incontrate (e percepi-
te) dai due gruppi durante la permanenza nel paese maghrebino: mentre per lo più i cristiani dichiarano che per loro il problema principale è costituito dalle forme di razzismo di cui si sentono vittime, per il 90% di quelli di religione islamica le difficoltà considerate più rilevanti sono di carattere economico. Tutto ciò pone il regno Alawita dinanzi a sfide assai impegnative. Sempre più il paese dovrà prestare attenzione, in una prospettiva non solo securitaria, alla questione dei migranti irregolari o di chi corre il rischio di diventarlo entrando nel paese per svolgervi gli studi universitari o in forza di accordi con i paesi d’origine ma poi vi si ferma visti i migliori standard socio – sanitari ed economici rispetto a quelli dei paesi di provenienza. L’afflusso di migranti porrà però anche altre due questioni. La prima è connessa alla presenza di migranti aderenti a confessioni cristiane che aggirano il divieto di proselitismo grazie ai nuovi mezzi di comunicazione elettronica e che sono contraddistinte dalla diffusione di “chiese domestiche”
legate ad un “pastore” che fisicamente continua a risiedere in un altro paese africano. La seconda consiste nella diffusione di un “nomadismo religioso” in virtù del quale le appartenenze sono instabili e funzionali ai benefit che di volta in volta si rendono disponibili con la “conversione” ed il passaggio (anche circolare) a differenti religioni o confessioni. D’altra parte, una situazione così complessa e dinamica impone sfide non meno rilevanti alle comunità religiose cui appartengono i migranti: le due cristiane ufficialmente riconosciute (Cattolica ed Evangelica – EEAM), quella islamica sunnita malekita predominante e le confessioni islamiche minoritarie quali la Sciita o le confraternite (ad es. Qādiriyya, Tijāniyya e Muridiyya) legate al sufismo e connesse all’immigrazione da paesi sub sahariani prevalentemente musulmani (in primo luogo dal Senegal, ma anche da Mali, Mauritania, Niger o Ciad). Mentre nel secondo caso s’impone la necessità di sviluppare il dialogo interreligioso ed una attenta revisione del principio del takf īr (apostasia ), per quanto riguarda
le confessioni cristiane, che come abbiamo visto sono maggioritarie tra i migranti sub sahariani, la prima esigenza che emerge con forza è quella di proseguire sulla strada dell’ecumenismo. É significativo che la nostra ricerca sul terreno abbia rilevato come non di rado, stanti le difficoltà sopra menzionate, un medesimo luogo di culto sia condiviso tra le due confessioni e talora accade (è il caso di Oujda) che il parroco cattolico sia coadiuvato da un giovane immigrato africano di confessione anglicana. Un segno significativo e positivo sul piano del dialogo sia ecumenico sia interreligioso sul quale ritengo opportuno porre l’attenzione è offerto dalla costituzione dell’Institut Al Mowafaqa, avvenuta nel 2012 a Rabat. Il suo obiettivo prioritario è di “Promouvoir le dialogue interculturelet interreligieux”, anche mediante la formazione di guide spirituali (pastori e sacerdoti) destinate ad operare in terra d’Africa, attraverso un percorso “de formation et de dialogue œcuménique, interreligieux et interculturel”. L’Istituto costituisce peraltro un interes-
sante modello, che meriterebbe di essere ripreso in ambito italiano, anche dal punto di vista della sua struttura organizzativa. Essa infatti è contraddistinta da una presidenza congiunta dell’arcivescovo e del pastore protestante di Rabat, da un direttore scientifico protestante, un vice cattolico ed un corpo docente che vede la cooperazione di insegnanti musulmani, protestanti e cattolici. In definitiva quello marocchino è non solo un interessante caso di studio di inediti aspetti della relazione tra migrazioni e religioni ma offre anche interessanti spunti di riflessione sul piano del dialogo interreligioso. In particolare si può ritenere che in alcuni casi la situazione marocchina costituisca un esempio di “œcuménisme par le bas”, un’espressione mutuata da Alain Tarrius a proposito del rapporto tra globalizzazione e migrazioni.
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DIALOGO INTERRELIGIOSO e VALORI COSTITUZIONALI Opere di Claudio Tagliamacco Nel 2019 si é diplomato in pittura presso, l’accademia Ligustica di Belle Arti, ha avuto numerose esperienze nel campo dell’educazione e dell’insegnamento di discipline artistiche per ragazzi di scuole medie e superiori. Attualmente porta avanti la sua ricerca artistica e lavora come restauratore.
Aristide Canepa Aristide Canepa è professore associato di Diritto Costituzionale nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Genova. In tale ambito, fa parte dell’Osservatorio sui Fenomeni Religiosi e Migratori.
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Il dialogo interreligioso può essere esaminato attraverso diversi prismi e vorrei qui utilizzarne uno poco frequentato eppure importante, cioè l’apporto che esso può offrire all’ancoraggio della nostra società ai principi e ai valori della Costituzione repubblicana. L’approccio può stupire ma sorge proprio dal contenuto di alcuni dei principi basilari del costituzionalismo democratico, come interpretati dalla Costituzione italiana.
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Partiamo dall’art. 2 Cost., là dove afferma che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Il superamento della diffidenza verso i corpi sociali intermedi tra individuo e Stato (tipica delle costituzioni liberali) ha portato a una nuova configurazione dei diritti dell’uomo: egli ne è titolare sia come individuo, sia in quanto aggregato e organizzato con altri in formazioni sociali, essenziali quanto i poteri pubblici per lo svolgimento della sua personalità. Si può quindi affermare che, attraverso i diritti degli uomini che le compongono, si concretizzino anche veri e propri diritti delle formazioni sociali. Orbene, tali diritti, come quelli dei singoli, sono “riconosc[iuti] e garanti[ti]”, non istituiti e concessi, dalla Repubblica, che li può disciplinare, ma non così da giungere alla loro negazione sostanziale, secondo una prospettiva giusnaturalistica che, oltre a far parte del bagaglio culturale di parte dei costituenti, conosceva all’epoca una risorgenza a livello internazionale (v. la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948). Su questa base, per es., partiti e sindacati, imprese, scuole, università e confessioni religiose trovano nel testo costituzionale la salvaguardia delle rispettive autonomie, pur col necessario intervento normativo dello Stato. Peraltro, delle formazioni sociali esistenti, le confessioni religiose sono quelle che più vedono esaltata la propria autonomia nella Costituzione. Per diversi fattori: in
primo luogo, la loro pre-esistenza rispetto allo Stato stesso, al pari della persona e della famiglia; in secondo luogo, l’essere comunità non riconducibili all’ambito statale, ma diffuse trans-nazionalmente; in terzo luogo, il tradizionale riconoscimento della personalità giuridica di diritto internazionale alla S. Sede, anche senza un territorio statale sotto il suo governo (come tra il 1870 e il 1929). Elementi tutti che spingono il costituente a recepire una prospettiva dialogica nelle relazioni tra Stato e confessioni religiose e ad estendere, tramite l’art. 8, il modello pattizio di origine concordataria, sia pur attenuato, anche alle confessioni diverse dalla cattolica. Opzione dialogica che ben si rileva, ai sensi del concordato e degli accordi, nell’azione congiunta di Stato e confessioni religiose in campi di interesse comune come tutela del patrimonio artistico, educazione, ecc. Tale disegno può esser implementato anche dove manchi ogni forma di dialogo interreligioso, a condizione che lo Stato si conformi ferreamente al divieto di discriminazione per motivi religiosi (art. 3 Cost.) e all’uguaglianza delle confessioni religiose innanzi alla legge (art. 8 Cost.). Tuttavia, un fecondo dialogo interreligioso ne può favorire la realizzazione, per es. agevolando l’identificazione, da parte dell’interlocutore statale, di temi e sensibilità comuni alle diverse confessioni religiose e consentendo a queste di coordinare richieste, proposte ed interventi.
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Tra le funzioni che le costituzioni democratiche sono chiamate a svolgere, appare fondamentale quella di integrazione. Poiché tutte le componenti della cittadinanza (e non più solo la borghesia, come in epoca liberale) sono chiamate a partecipare alla vita dell’ordinamento statale, la Costituzione si pone come elemento di compromesso tra le diverse scale valoriali presenti nel tessuto sociale. Deve quindi conformare il proprio spettro di opzioni in modo che il maggior numero di consociati possa percepirla come la “casa comune” in cui i propri valori non trovano magari pieno dispiegamento, devono accordarsi con altri valori (anche potenzialmente confliggenti), ma sono comunque sufficientemente tutelati da poter essere almeno in parte realizzati da una maggioranza politica che li condivida e da non poter essere totalmente soppressi da una maggioranza politica di altro segno. Orbene, perché l’integrazione nei valori costituzionali funzioni è necessario che la relazione con l’altro – sul piano politico ma non solo – non si fondi sulla logica schmittiana della contrapposizione amico/nemico, bensì sulla logica kelseniana del compromesso quale essenza della democrazia. Su questo piano, il dialogo interreligioso può avere una notevole funzione pedagogica, specie se sa allargarsi al dialogo con il mondo ateo od agnostico. Non nel senso che si debbano cercare compromessi tra le confessioni religiose in un’ottica sincretistica, ma nel senso che il dialogo volto alla comprensione reciproca permette di identificare nell’altro non solo le differenze, ma anche gli elementi comuni che lo mettono in condizione di convivere con noi, presupposto necessario per ogni forma di integrazione. Ed ancor più nel senso di de-solidarizzare le religioni dai tentativi di strumentalizzazione ad opera di leader-
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ship politiche (talvolta neppure credenti) che, nel solco della tradizione dei processi di formazione degli stati nazionali (dalla notte di S. Bartolomeo alla distruzione di chiese e moschee nella ex Jugoslavia), fanno dell’identità religiosa solo uno strumento di omogeneizzazione culturale, escludente e finalizzato all’idolatria della nazione (comunque concepita) e alla concentrazione del potere.
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Tra i valori che caratterizzano la maggior parte degli ordinamenti costituzionali di matrice europea, la laicità dello Stato è uno dei più distintivi rispetto ad altre tradizioni culturali. È però anche uno dei più polisemici: la laicità statunitense, quella francese e quella turca (di Atatürk), per es., pur sussunte sotto lo stesso vocabolo, hanno contenuti giuridico-filosofici molto differenti. Ma ancora diverso è il concetto di laicità elaborato dalla Corte costituzionale italiana alla luce dei principi del testo costituzionale e che lo ha avvicinato all’esperienza tedesca e spagnola (v. sent. n. 203/1989). Nell’ordinamento italiano, la laicità non è ostilità (come nella Turchia del XX sec.) né indifferenza (come nel modello francese) dello Stato verso la dimensione religiosa, bensì neutralità benevola come nel caso statunitense ma, a differenza di esso, suscettibile di collaborazione attiva nel quadro di un rapporto di tipo dialogico, come già accennato sopra. La Repubblica coopera e dialoga con le confessioni religiose, ma è la casa comune di tutti i cittadini, quali ne siano le opzioni religiose. Non può pertanto stabilire trattamenti discriminatori a favore di una confessione religiosa, neppure di quella maggioritaria. In questa prospettiva il dialogo interreligioso, se – come auspicabile – sfocia nella comprensione e nel rispetto dell’altro e – nuovamente – sa allargarsi al dialogo
con il mondo ateo od agnostico, può costituire un opportuno allenamento alle esigenze della laicità e, forse, aiutare a preservare le confessioni numericamente più importanti dalla tentazione di utilizzare la propria capacità di pressione per lucrare trattamenti di favore da parte delle autorità civili. Tra l’altro, in un contesto sempre più secolarizzato come l’Europa, in cui già oggi la maggioranza dei cittadini non è religiosa o lo è in modo prevalentemente sganciato dai dettami di una specifica religione, la versione italiana della laicità costituisce anche una tutela delle stesse confessioni religiose verso la possibilità che la Repubblica faccia ufficialmente proprie opzioni filosofiche a- o anti-religiose.
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Last but not least, la Repubblica “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.) e opera per “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 Cost.): la solidarietà dovrebbe quindi costituire un valore di riferimento per l’azione non solo dei poteri pubblici, ma di ognuno, sul piano interno e su quello internazionale. È forse su questi temi che il dialogo interreligioso può, da un lato, offrire i propri frutti migliori, nel riconoscimento e nella pratica che solidarietà e compassione, così come l’aspirazione alla pace e alla giustizia, costituiscono un patrimonio comune di tutte le tradizioni religiose (e di una parte importante del pensiero laico) e quindi un campo sul quale si può attivamente collaborare. E, d’altro lato, può diffondersi dal livello delle élite religiose ed intellettuali a quello della vita quotidiana, elemento essenziale perché i principi (religiosi e costituzionali) di solidarietà, pace e giustizia escano dall’empireo della speculazione e acquistino concretezza per tutti. Gli esempi potenziali sono innu-
merevoli, nella collaborazione tra confessioni cristiane e tra religioni. Vorrei però, proprio per sottolineare l’importanza pedagogica della concretezza, citare un’esperienza “sul terreno”, una testimonianza del vescovo cattolico di Créteil M. Santier all’Incontro Interreligioso “Strade di Pace” (Münster, 2017): “durante l’estate, diamo vita ad un’operazione che si chiama “Agosto Soccorso Alimentare” … Il primo anno, i volontari, che prima di distribuire i pasti vivevano un momento di condivisione evangelica, hanno distribuito 30.000 pasti (quest’anno … più di 100.000). Tra i beneficiari si trovavano numerosi musulmani …, ma
anche delle famiglie cristiane. Allora ci siamo recati a incontrare l’imam … e gli abbiamo proposto di metterci insieme a distribuire i pasti ai più indigenti, poiché tra di essi si trovavano delle famiglie musulmane. Il diacono permanente responsabile dell’attività mi ha detto di aver inteso dei commenti negativi quando … delle giovani donne musulmane sono venute a distribuire i pasti. Ma alla fine del mese … le stesse persone sono tornate dal diacono per scusarsi e hanno detto che queste … erano molto simpatiche … Quando ne ho parlato all’imam … mi ha detto: “Anche quando alla moschea abbiamo chiesto che delle volontarie venissero a distribuire i pasti ai più indigenti, ci sono stati
dei commenti: con dei cristiani!” Alla fine del mese … hanno detto: “Non guarderemo più i cristiani allo stesso modo”. Un piccolo esempio per dire come dalla solidarietà nasca il dialogo, da questo il rispetto dell’altro, che porta come frutto una migliore integrazione ed una maggiore giustizia, propedeutiche alla pace sociale e, in altri casi, internazionale. Tutti – per inciso – valori portanti della Costituzione italiana e del costituzionalismo democratico in genere…
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Coronavirus e religioni: un tentativo (provvisorio) di riflessione Daniele Ferrari Daniele Ferrari è dottore di ricerca in Studi costituzionalistici italiani, europei e transnazionali all’Università di Genova, ricercatore associato presso il CNRS, Groupe Sociétés, Religions, Laïcités (GSRL),EPHE-CNRS, di Parigi e membro associato alle ricerche in diritto e religione del centro di ricerca Droit, religion, entreprise et société (DRES) presso l’Università di Strasburgo. I suoi interessi di ricerca si focalizzano sul rapporto tra diritto e religione a livello nazionale, europeo e internazionale. Autore di numerosi contributi di carattere scientifico, ha partecipato a numerosi convegni, in Italia e all’estero ed è, attualmente, membro di progetti di ricerca europei e nazionali.
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L’emergenza sanitaria e il suo diffondersi a livello globale sembrano aver prodotto cambiamenti epocali, seppur emersi nel giro di pochi mesi, con riguardo a numerose categorie e dinamiche che, dal piano sociale a quello politico e istituzionale, erano percepite come costanti delle nostre esistenze. Così l’idea di un mondo globalizzato e accessibile è pian piano entrata in crisi, l’immagine dell’individuo padrone della propria esistenza e libero di scegliere si è a poco a poco appannata, parole come pandemia, distanziamento sociale e contagio si sono affacciate un po’ in tutte le lingue parlate a livello mondiale. Un nemico invisibile e micidiale ha colonizzato, progressivamente, il discorso pubblico, limitato i nostri spazi e i nostri spostamenti, dettato le regole della separazione tra i corpi, coperto i nostri volti con maschere, divenendo il protagonista di una narrazione politica e istituzionale che, in termini non sempre trasparenti e intellegibili, ha identificato nella scienza il nuovo pilastro dell’equilibrio mondiale. Virologi e scienziati, da figure non proprio all’attenzione del grande pubblico e spesso ignorate dalla politica, son divenuti i nuovi detentori di una verità che, sebbene provvisoria e tutt’altro che chiara, sembra avere le carte in regola per imporsi quale nuova grande ideologia di questo millennio. La sicurezza del corpo e la salute sono apparsi come valori non negoziabili, assoluti, a tratti dogmatici, la cui fenomenologia fatta di grafici e numeri, astrae la nostra immagine del mondo, riducendola a delle curve strette tra un’ascissa e un’ordinata. Allo stesso tempo l’emergenza sanitaria cambia la percezione dell’altro e del diverso da noi. Se prima del Virus, ad esempio in Italia, il nemico della sicurezza, sulla base di certe narrazioni, era il migrante che veniva da lontano per trasformarsi in un parassita
del nostro sistema sociale, oggi anche un residente in Lombardia, durante una villeggiatura in Liguria, può essere percepito come una minaccia. Il virus genera nuovi nemici e, inevitabilmente, nuove discriminazioni e avvicina l’esperienza di un richiedente asilo gambiano a quella di un libero professionista residente a Milano. Rispetto al descritto fenomeno, le religioni hanno dovuto fare i conti con la nuova malattia e ridefinire i propri ruoli proprio a partire dal significato da attribuire al virus. Il COVID-19 sembra, infatti, unire tutta l’umanità nelle opposte dinamiche della sua trasmissione e delle misure individuali che ciascuno deve assumere, per limitarne la propagazione e proteggere gli altri. Tali nuove regole di vita si sono sovrapposte, in molti casi, alle orto-prassi e alle pratiche di culto, creando la necessità per gli attori religiosi, fedeli e ministri di culto, di ripensare il proprio ruolo e le proprie azioni davanti al COVID-19. In questa luce, l’esperienza della pandemia sottopone le religioni ad esperienze simili: riflessioni teologiche sul significato del virus; divieti riguardanti le pratiche di culto collettive; chiusura dei luoghi di preghiera; uso della tecnologia nelle nuove relazioni a distanza tra fedeli e ministri di culto. Guardando al significato del virus, alcuni esponenti delle religioni abramitiche lo hanno rappresentato come la manifestazione della volontà di Dio, in quanto punizione divina contro alcune aberrazioni, che funestano il mondo contemporaneo, prima fra queste l’omosessualità. Filaret Denysenko, patriarca della Chiesa ortodossa di Kiev, ha sostenuto che la pandemia è un castigo di Dio per i peccati dell’umanità, tra i quali il primo è l’unione tra persone dello stesso genere1. Nella stessa direzione, il pastore Ralph Drollinger,
leader del “Gruppo di studio biblico della Casa Bianca”, ha dichiarato che la pandemia è la conseguenza dell’ira di Dio contro l’omosessualità e le cerimonie dello stesso sesso2. L’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha affermato che il virus è espressione dello “sdegno di Dio” rispetto ad alcuni gravi peccati, tra cui “l’orrore del cosiddetto matrimonio omosessuale, la celebrazione della sodomia e delle peggiori perversioni”3. Il Times di Israele ha riportato le dichiarazioni del rabbino Meir Mazuz, a parere del quale il virus è una punizione per le nazioni che autorizzano le parate dell’orgoglio LGBTQ. Mazuz ha detto che il gay-pride è “una parata contro la natura e quando qualcuno va contro la natura, colui che ha creato la natura si vendica di lui”. Come prova delle sue affermazioni, Mazuz ha sostenuto che le nazioni afflitte dal coronavirus sono quelle che sostengono l’uguaglianza LGBTQ, mentre i “paesi arabi che non hanno questa inclinazione malvagia” ne sono immuni. Questi orientamenti sono stati esaminati dagli esperti in materia di diritti umani delle Nazioni Unite, che, in un recente rapporto, hanno osservato che:” The pandemic has also created a context conducive to increased persecution. Some States have enacted measures which intentionally target LGBT persons under the guise of public health, including proposing legislation to deny transgender and gender diverse persons of their legal recognition. Hate speech explicitly or implicitly inciting violence against LGBT persons has been on the rise, including discourse by prominent political or religious leaders blaming the pandemic on the existence of LGBT persons in the community”4. Guardando alla Chiesa cattolica, le pratiche di culto si sono trasformate da una dimensione collettiva a nuove forme individuali che, grazie all’uso della tecnologia e dei
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media, hanno permesso, in molti casi, al ministro di culto di restare “connesso” con i fedeli, seppure con modalità virtuale. Il ricorso a luoghi e, quindi, pratiche di culto virtuali è emerso in modo evidente durante lo scorso mese di marzo. Papa Francesco, in un videomessaggio del 12 marzo 2020 diffuso su tv2000, ha pregato per l’intercessione di San Giuseppe, custode di ogni famiglia, e ha invitato tutti i fedeli ad unirsi a lui nella preghiera5. Tre giorni dopo, era il 15 marzo, Bergoglio ha attraversato a piedi una Roma resa deserta dal virus, recandosi prima nella Basilica di Santa Maria Maggiore e poi nella Chiesa di San Marcello al Corso. Questo pellegrinaggio davanti all’immagine della Salus populi romani, nella basilica di Santa Maria Maggiore, e poi nella Chiesa di San Marcello al Corso ha avuto un forte impatto simbolico rispetto al ruolo della Chiesa di Roma davanti alla gravità dell’emergenza. Nella Chiesa di San Marcello, il Papa ha “implorato la guarigione per i tanti malati” davanti al Crocifisso miracoloso, che nel Cinquecento salvò Roma dalla peste. L’immagine di Francesco solo in Piazza San Pietro trasmessa in mondo visione il 27 marzo, venerdì di Quaresima, si inserisce in una nuova fenomenologia della Chiesa distanziata dal popolo dei fedeli. La preghiera non solo si è articolata in un momento di ascolto della Bibbia, di una supplica «in questo tempo di prova», nell’adorazione eucaristica, concludendosi con una benedizione Urbi et Orbi, ma è stata prevista la possibilità di ricevere l’indulgenza plenaria. In tempi di pandemia e morte di migliaia di persone, il Vescovo di Roma ha deciso infatti
di ricorrere alla misericordia attraverso tale indulgenza, per rimettere totalmente le pene che sono state maturate con i peccati dai malati di coronavirus, dagli operatori sanitari, dai familiari e da tutti coloro che si prendono cura di chi soffre per il virus6. Passando all’Islam, le pratiche di culto sono state interessate da nuove interpretazioni e interdizioni sollecitate dal rischio pandemico. Il virus è stato, infatti, la causa di specifiche esegesi delle fonti scritturali e divieto di alcune pratiche legate alla celebrazione del Ramadan. Ad esempio, in Medio Oriente e nel Magreb le moschee sono rimaste chiuse e così anche tre luoghi sacri dell’Islam (La Mecca – la Ka’ba, Medina – la Moschea del Profeta e Il Nobile Santuario di Al-Haram al-Sharif)7 . All’interno dell’Islam sciita, alcuni leader religiosi hanno sostenuto che i pazienti contagiati dal coronavirus non fossero tenuti ad osservare il digiuno. Così il leader sciita iracheno, l’ayatollah Sistani, e il ministero della Sanità iraniano, hanno chiarito che la sharia non costringe al digiuno chi è positivo al virus. In senso opposto, altri rappresentanti del mondo islamico, dall’Indonesia al Pakistan, hanno contestato i divieti imposti dai governi ai pellegrinaggi finalizzati al ricongiungimento familiare o di accesso alle moschee, ottenendo in taluni casi l’apertura dei luoghi di culto seppur nel rispetto di precise prescrizioni anti-contagio. Il virus interroga le religioni, porta taluni leader a cercare dei colpevoli, mentre altri esponenti confessionali chiedono l’intercessione celeste per arrestare l’epidemia.
Tutto questo, dal piano fenomenologico a quello giuridico, si riflette sullo stesso concetto di libertà religiosa, nei termini, talora conflittuali, di una nuova dialettica tra vita e fede e tra diritto, scienza e religione. La salute del corpo non sempre si concilia con la salute dell’anima, eppure, non per tutti i credenti è sufficiente partecipare alla preghiera attraverso uno schermo oppure intravedere il ministro di culto dalla finestra, mentre serve messa sul tetto di un palazzo. Così, in Francia, ad esempio, molte associazioni cattoliche, temendo di ripiombare in un anticlericalismo di rivoluzionaria memoria, si sono rivolte al Consiglio di Stato, ottenendo la riapertura delle loro chiese8, mentre in Italia le deroghe al Concordato con la Santa Sede in materia di libertà di culto sembrano aver suscitato più la reazione dei cultori di diritto ecclesiastico9 che della Chiesa cattolica. In conclusione, se e come le nuove emozioni e dinamiche sociali e istituzionali prodotte dal COVID-19 trasformeranno le religioni è difficile stabilirlo oggi. L’idea di comunità è continuamente frastagliata dall’evolversi del fenomeno pandemico, dalla percezione quotidiana del virus e da un sapere scientifico in continua evoluzione, la cui provvisorietà sembra richiedere, più che una comprensione razionale di dati oggettivi, un atto di fede, che interroga giorno dopo giorno credenti e non credenti. Oltre a credere o non credere nell’esistenza di Dio, oggi siamo chiamati a decidere se credere nell’esistenza del virus nelle forme descritte dai virologi oppure negarla, com’è avvenuto di recente in Italia.
Il video dell’intervista è disponibile in https://4channel.com.ua/takyj-tomos-nam-ne-potriben-mene-oshukaly-patriarkh-filaret/. R. DROLLINGER, Is God Judging America Today?, in https://capmin.org/is-god-judging-america-today/, 21 march 2020. 3 Il testo dell’intervista è disponibile in https://www.corrispondenzaromana.it/il-coronavirus-e-la-mano-di-dio-intervista-allarcivescovo-carlo-maria-vigano/. 4 V. COVID-19: The suffering and resilience of LGBT persons must be visible and inform the actions of States. Statement by human rights experts on the International Day against Homophobia, Transphobia and Biphobia, 17 May 2020 5 Videomessaggio del Santo Padre Francesco in occasione del momento di preghiera promosso per tutto il paese dalla Conferenza Episcopale Italiana nel giorno della festa di San Giuseppe, 19 marzo 2020, in http://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2020/documents/papa francesco_20200319_videomessaggio-rosario-cei. html. 6 Decreto della Penitenzieria Apostolica circa la concessione di speciali Indulgenze ai fedeli nell’attuale situazione di pandemia, 20.03.2020, in https://press.vatican.va/content/ salastampa/it/bollettino/pubblico/2020/03/20/0170/00378.html 7 ROSSANA MIRANDA, Ramadan ai tempi del coronavirus. La ribellione dell’Islam radicale, in https://formiche.net/2020/04/ramadan-coronavirus-islam/. 8 C.E., ordonnances, 18 mai 2020, nn. 440366 e seguenti, nn. 440361-440511, n. 440512, n. 440519. 9 VINCENZO PACILLO, La libertà di culto al tempo del coronavirus: una risposta alle critiche, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, Rivista telematica (https://www.statoechiese.it), fascicolo n. 8, 2020, pp. 1-10; NICOLA COLAIANNI, La libertà di culto al tempo del coronavirus, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, Rivista telematica (https:// www.statoechiese.it), fascicolo n. 7, 2020, pp. 1-16. 1 2
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SPIRITUALITà E DIALOGO INTER-RELIGIOSO Cesare Viel - “Infinita ricomposizione” 2015-2019, PAC Milano. Foto di Nico Covre Cesare Viel, nato a Chivasso (TO) nel 1964, vive e lavora a Genova, dove insegna all’Accademia Ligustica di Belle Arti. Espone in Italia e all’estero dalla fine degli anni Ottanta in gallerie private, musei e Fondazioni. La sua ricerca artistica gravita intorno alle pratiche dell’installazione e della performance e intreccia diversi mezzi espressivi come il video, la fotografia, il disegno, la scrittura, l’oralità.
Matteo Manzitti Matteo Manzitti, Compositore, Direttore D’Orchestra, Didatta ed Epistemologo. Ha approfondito, partendo dalla musica, la multimedialità e la transdisciplinarietà. E’ autore di musiche eseguite in tutto il mondo, ha al suo attivo diverse incisioni discografiche ed è inoltre ideatore di diversi progetti culturali a sfondo sociale. Studioso di Spiritualità, ha girato “Per una Laica Spiritualità”, nel 2015, un breve docufilm sull’esperienza spirituale alternativa ai culti religiosi tradizionali.
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Da diversi decenni si solleva il tema del dialogo inter-religioso. L’urgenza di questo confronto tra le varie religioni deriva da una semplice constatazione: la religione è ancora uno degli elementi di maggiore costruzione dell’identità per la maggior parte degli esseri umani di questo pianeta. Certo, il processo di secolarizzazione delle società occidentali meriterebbe un distinguo, ma anche nelle nostre società, che hanno subito un processo di laicizzazione ormai secolare, la religione sopravvive spesso come inconscio sociale, come forza sotterranea, oltre che come cultura diffusa e modello etico. Inoltre, è evidente che la diminuzione degli osservanti religiosi che si registra ormai da decenni nella partecipazione alle attività cultuali della Chiesa Cattolica per esempio, non corrisponda ad una diminuzione dell’appello ad una dimensione spirituale, all’esperienza “dell’altro e dell’oltre” che alberga in ciascuno di noi: ne è prova l’esistenza di tantissime pratiche e percorsi di ricerca alternativi ai culti religiosi. Osserviamo infatti un fenomeno interessante: quanto più l’economia procede in senso accumulativo (e mai come oggi ci troviamo davanti ad un’esplosione della produzione mondiale di beni di consumo) tanto più sorge nell’umanità la domanda di una pienezza interiore non raggiungibile attraverso l’effimero godimento occasionale o il possesso di beni. Ma come orientare questa spinta e questa domanda, e come instaurare un dialogo produttivo tra le religioni e la varietà di percorsi spirituali per far evolvere congiuntamente la consapevolezza dell’intera specie umana? Credo che una relazione dialogica proficua non possa svolgersi fuori da alcune premesse e da alcuni contenuti di fondo, e proverò umilmente ad indicarli attraverso
delle parole ed espressioni chiave, da immaginare come porte d’ingresso a una pluralità di significati. La prima è la parola ricerca: se non vi è un desiderio di ricerca, il dialogo si costituisce solo come uno scambio di informazioni tra mondi auto-sufficienti, che si incontrano per buona coscienza o buon vicinato, ma non sono realmente disposti ad un mutamento reciproco. Questo bisogno di ricerca e di mutamento si nutre quindi di una mancanza, termine facilmente fraintendibile, soprattutto nel lessico della spiritualità contemporanea. Il “senso” della mancanza che si fa ricerca è però il motore più grande dello spirito, necessario perfino per svelare gli aspetti illusori della mancanza stessa. Un credente, si obietterà, non dovrebbe però nutrire nel suo animo questo sentimento: questa convinzione si appoggia ancora ad una visione della fede obsoleta, che è necessario discutere, una visione cioè de-responsabilizzante e “gregaria”. Il credente, al pari del ricercatore, dovrebbe oggi invece vivere la propria fede in un senso rinnovato, come inizio di un percorso, come conversione graduale e necessaria da una condizione “egoica” a una “relazionale e sistemica”. L’appartenenza e l’espletamento dei propri doveri di osservante non garantisce questa trasformazione, a cui la vita sta chiamando tutti i suoi abitanti. Una delle più grandi questioni che interroga lo “spirito” umano, oggi, è infatti quella relativa al superamento dell’antropocentrismo, alla responsabilità, che ciascuno di noi ha, di cambiare il rapporto con l’ambiente, con il cibo, e con i resti del nostro lavoro. Le religioni hanno generalmente nutrito l’antropocentrismo, e la sua visione de-responsabilizzante verso la natura e le altre specie animali, e ora hanno davanti un compito importante: cambiare la cornice spirituale di fondo. Se la politica e la scienza possono agire
sul piano informativo, legislativo e anche culturale, è di una nuova cornice spirituale infatti che abbiamo bisogno per dare un senso al mutamento necessario del nostro agire. Come, però, effettuare questo cambiamento di cornice? Chiaramente le istituzioni religiose e i loro rappresentanti/vicari hanno una grande responsabilità nell’esempio che danno e nel contenuto del loro discorso pubblico, ma vorrei che fosse chiaro che questo mutamento di cornice avviene soprattutto attraverso una distribuzione orizzontale del potere, perché la presa in carico di una maggiore responsabilità individuale non può che appoggiarsi ad una fiducia di fondo nella nostra capacità creativa. Il potere non è qui inteso come esercizio di forza, ma come potere d’organizzazione, condivisione, creazione. E’ il necessario superamento di quel coefficiente di passività spesso intrinsecamente presente in chi appartiene a gruppi “guidati”. Ma a cosa dev’essere rivolta invece la ricerca comune? Verso quale direzione sarebbe importante volgere lo sguardo? La violenza di cui sono capaci da secoli le religioni, soprattutto quelle monoteiste, solleva molti temi interessanti. Spesso si è presa una strada per disinnescare quest’aggressività: la ricerca delle radici comuni, dei punti di raccordo, delle figure trasversali e dei “valori” universali. Si tratta di un lavoro infinito, che sicuramente ha dato i suoi frutti, ma che forse non corrisponde più in pieno alla sfida più profonda, allo snodo centrale, anche perché insieme alle comunanze persistono e persisteranno sempre le differenze e sarà sempre possibile porre l’accento su queste ultime per costruire muri e innescare conflitti. Vi è un’altra strada che può essere percorsa, più difficile, in un certo senso analoga a quella suddetta, ma più sottile. Un incontro possi-
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bile e reale potrà avvenire al termine di una vera e profonda genealogia. Questo termine, di derivazione nietzschiana, può essere inteso in vari modi, ma quello qui proposto attiene ad un percorso che camminando a ritroso lungo le varie differenze di scrittura (parliamo generalmente delle “Religioni del Libro”) si spinga a punti ancora insondati, quali ad esempio l’invenzione stessa della pratica alfabetica. Invenzione peculiarmente greca nelle sue infinite conseguenze e nella creazione di una “mente capace di astrazione”. Il credente, senza ovviamente rinnegare la sua fede nell’esistenza della dimensione divina, dovrà pur riconoscere che il Divino si è espresso e manifestato attraverso un linguaggio che poteva essere compreso, e che era il frutto di operazioni umane. Solo che gli esseri umani tendono a dimenticarsi le loro operazioni fondative, i loro frutti e i loro limiti. L’identificazione assoluta tra le parole e le cose, la mente concettuale e astratta sono per noi oggi gesti e strumenti su cui non dubitiamo, sono il filtro sul mondo che ci dimentichiamo di avere. Ed è lì che si forma nel tempo la “carica” aggressiva di una cultura incapace di riflettere su se stessa e di riconoscere la propria “culturalità”, di guardare per esempio le parole che la costituiscono e il loro percorso. Riconoscere la componente storica e culturale della propria fede è un grande lavoro genealogico che potrebbe interessare reciprocamente i culti religiosi. E questo, forse, ci avvicinerebbe davvero a quello che ci accomuna, a quel “resto” vivente, che va oltre al sapere e alle forme specifiche del nostro pensiero, a quella regione dell’anima dove il sentimento dell’unità del mondo e della vita risulta chiaro e presente prima di portarlo alla parola.
“Al di là di ciò che è che giusto o sbagliato c'è un giardino, là ci incontreremo”
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Jalâluddin Rumi
“Il giardino di mio padre” Cesare Viel, PAC Milano 2019 Foto di Nico Covre
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L’umanità è una, di essa fanno parte religione e irreligione. Per credenti e non credenti è comunque possibile la via della spiritualità. È possibile la vita interiore profonda, la creazione di bellezza tra gli uomini. Enzo Bianchi
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