Giovanni Secco Suardo (1798-1873) - Fonti, strumenti, materiali di ricerca.

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GIOVANNI SECCO SUARDO. LA VITA LE OPERE I RESTAURI di Cristina Giannini

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BIOGRAFIA DI UN NOBILE ARTIGIANO

“qualora nel dipinto vi manchi il colore è forza rimetterlo... e se il male trovasi nelle ombre….” Giuseppe Guizzardi

Riscoperta dei primitivi, collezionismo borghese, restauro amatoriale, falso e mercato, il dilettantismo e l’edizione degli scritti di Giovanni Morelli, di Crowe e di Cavalcaselle, le nuove leggi per la tutela del patrimonio arti stico, sono solo alcuni degli aspetti che fanno dell’Ottocento un periodo intrigante quanto sfuggente. Poco dopo la metà del secolo un gentiluomo bergamasco faceva stampare a Milano un volume dal titolo, non molto accattivante, di “Manuale ragionato per l a parte meccanica dell’arte del Ristauratore di dipinti”. Quattrocento pagine fitte fitte e una tiratura di 500 copie; a pochi mesi dalla sua edizione il “Ristauratore di dipinti” era già esaurito. Alla fine dell’Ottocento il lavoro del conte Giovanni Secco Suardo fu ristampato nella sua integrità a cura degli eredi: da allora i due volumetti, la cui fortuna edito riale fu veramente notevole, sono stati identificati col nome del loro autore 1. Il “Secco Suardo” è stato, per più di mezzo secolo, solo il primo manuale di restauro italiano …. La storia del suo autore è rimasta del tutto ignorata. Il conte Giovanni era nato a Lurano, nei pressi di Treviglio, il 23 agosto del 1798 2. Proveniva da un’ antica famiglia bergamasca, il cui capostipite “Lazarus Suar dus” figlio di “Lanfrancus” era stato Giudice di Sacro Palazzo, detto appunto Suardo: una carica che è testimoniata a Bergamo fino dal XII secolo. In epoca comunale i Suardo ebbero consoli e podestà di parte ghibellina, ma solo nella prima metà del Cinquecento un Ludovico Suardo, sposatosi con Maria Secco, aveva dato origine al ramo Secco-Suardo, i cui esponenti furono personaggi di primo piano della storia cittadina, come testimoniano i numerosi ritratti che ancora oggi si conservano: il cavaliere Pietro Secco Suardo di Giovan Battista Moroni degli Uffizi, i Suardo di Carlo Ceresa, il Girolamo e il Giovanni dell’ Accademia Carrara di Bergamo, il Galeazzo di recente acquisito dal Louvre, tutti di Fra’ Galgario 3. Giovanni, figlio di Girolamo e pronipote del Giovanni reso famoso dallo straordinario ritratto del Ghislandi, era secondogenito di tre fratelli; il più anziano, Bartolomeo, fu uno dei più apprezzati poeti bergamaschi della metà del secolo scorso. Raffinato erudito, dedicò gran parte della sua vita alla stesura del primo inventario sistematico del fondo manoscritti della Biblioteca Civica, che fu redatto fra il 1844 e il 1865; il più giovane, Giulio, che è altra persona da Giulio Cesare, il figlio di Giovanni noto per essere stato il primo tradutto re di Heinrich Heine, aveva invece intrapreso la carriera di magistrato 4.

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Un profondo interesse umanistico ed uno stretto legame con la propria città ave vano da sempre caratterizzato la storia della famiglia, che contava, fra i suoi ante nati, la poetessa Giulia Paolina Secco Suardo Grismondi, nota in Arcadia come Lesbia Cidonia, di cui si conserva ancora a Lurano il carteggio col Pindemonte. E infatti, alla fine dell’Ottocento, alla città di Bergamo sarebbero andati, per lascito testamentario, anche i disegni e i dipinti della quadreria di famiglia, la biblioteca e i manoscritti del Secco Suardo. Il conte Giovanni fu indirizzato dal padre agli studi giuridici, e si laureò con una tesi dal titolo “Sulla legge della stampa e non sulla libertà di parol e e di pensiero”, il cui manoscritto, purtroppo senza data, si conserva nell’archivio di famiglia. Ma la sua unica passione fu, “fin dall’infanzia”, la pittura, come avrebbe scritto all’amico Gerolamo d’Adda in occasione della stampa del suo primo lavoro sulle tecniche pittoriche 5. Nel gennaio del 1820 il conte sposò a Bergamo Teresa Ragazzoni 6, che proveniva da una famiglia di discrete disponibilità, proprietaria, fra l’altro, di una notevole collezione di dipinti, e dall’ inizio del 1831, nominato Deput ato della città di Bergamo presso la Congregazione Centrale del capoluogo lombardo, in qualità di “nobile possidente”, si trasferì con la famiglia a Milano 7. L’incarico, che era stato istituito nel 1814, dopo l’aggregazione delle Provincie Lombarde all’ Austria, consisteva in una consulenza finanziaria e amministrativa; gli fu rinnovato a più riprese: l’ultimo documento ufficiale che riguarda la sua nomina risale all’aprile del 1858, ma il conte lasciò Milano non prima del 1860. Alla fine del 1859 Giuseppe Fumagalli gli inviava ancora la corrispondenza presso la residenza milanese della Contrada della Passione. Da Milano il conte Secco Suardo si spostava di frequente a Firenze, a Roma e a Venezia. Durante l’estate soggiornava sul lago di Corno, dove si incontrava con l’amico Giovanni Morelli, oppure a Lurano, l’antica tenuta di famiglia. La proprietà, acquisita dai Secco Suardo alla metà del XVI secolo, era stata mante nuta in un primo tempo come tenuta agricola e residenza estiva, ma dal Settecento in poi, in seguito alla decadenza economica della famiglia, ne era divenuta la prin cipale residenza. Il castello, in origine un vasto complesso fortificato che compren deva tutto il paese e il territorio di Lurano, conserva solo in parte le tracce dell’an tica costruzione. Nel Settecento l’edificio fu ridotto ad una struttura più modesta, corrispondente al corpo centrale del complesso più antico, che oggi è più esatto definire come una villa. Rimasero inglobate nella struttura, di origine quattrocentesca, le due torri che delimitavano la costruzione: l’una all’estremità destra del porticato d’ingresso e l’altra al termine dello sviluppo del corpo di fabbrica. L’insieme, ancora intatto nell’aspet to esterno, fu ampiamente rimodernato all’interno sul finire del XVIII secolo, come attestano le decorazioni degli ambienti del piano nobile, e adattato alle nuove esigenze domestiche 8. Fu a Lurano che il conte Giovanni si ritirò negli ultimi anni della sua vita, portando con sé la propria biblioteca, ciò che restava della sua collezione, gli attrezzi da restauratore, ed una parte delle proprie carte. Proveniente da una famiglia di colti e appassionati collezionisti, il Secco Suardo dedicò il tempo libero dagli impegni

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diplomatici alla pittura. E infatti, pittura, disegno e tecniche artistiche rimasero i suoi interessi principali. A Milano, fu introdotto dall’amico Girolamo D’Adda, di cui frequentava la casa e la ricchissima biblioteca 9, negli ambienti di Brera, dell’ Ambrosiana e della con noisseurship lombarda, conobbe il Morelli e Giuseppe Mongeri, cominciò a frequentare i cenacoli del collezionismo: soprattutto lo studio di Giuseppe Molteni 10. In breve, come si conveniva ad ogni “amateur”, entrò in contatto con i più rinomati ateliérs di pittura e di restauro. Il manuale del gentiluomo bergamasco, che Alessandro Conti amava definire il “vademecum” del restauro amatoriale, fu costruito fra Bergamo e Milano, con la pazienza, la curiosità e la tenacia un po’ desuete di un conoscitore del primo Ottocento. Lo stretto rapporto che intercorre fra collezionare, intuire la qualità di un pezzo ed il bisogno di conoscerlo fisicamente, è ben noto. L’educazione di ogni collezionista passava, per forza di cose, attraverso la frequentazione delle botteghe dei restauratori, poiché essi erano in genere buoni conoscitori, consumati nell’ esercizio delle tecniche artistiche e delle loro imitazioni: patine e velature, vernici e segreti per l’invecchiamento. Nelle botteghe si restaurava, ma si facevano anche una quantità di lavori a rtigianali, dalla fabbricazione delle comici, alla doratura,e si trovavano quasi sempre dipinti “in visione”. Ai restauratori facevano riferimento mercanti, antiquari e privati che volevano vendere senza esporsi; e d’altra parte chi restaurava aveva liber o accesso alle collezioni private, faceva le perizie sui dipinti, ne conosceva la provenienza e la storia conservativa 11. Le botteghe che godevano di maggior credito, o il loro retrobottega, erano uno dei “luoghi” ideali del mercato antiquario. Il restauratore recepiva una percentuale sulle vendite e curava poi il “maquillage” dei dipinti, aumentando progressivamente la cerchia delle sue conoscenze e della sua clientela. Satura di odori e di segreti, la bottega finì col diventare un luogo di seduzione. E tale fu anche per il Secco Suardo, che, dedicatosi dapprima a ricerche, per così dire accademiche, ben presto comincìò a frequentare pittori, restauratori e mercanti. Del resto anche i grandi collezionisti avevano spesso un restauratore di fiducia, che diventava, col tempo, il partner indispensabile dei loro acquisti. Per restare nell’ambiente del Secco Suardo (ma si tratta di una tradizione più an tica e più estesa geograficamente) ricordo Bartolomeo Borsetti per Giacomo Carrara, Alessandro Brisson per Guglielmo Lochis - quasi la controfigura mila- nese dello scaltro collezionista - Giuseppe Molteni per Giovanni Morelli, per Giangiacomo Poldi Pezzoli, Charles Eastlake, e Otto Mündler 12. Alessandro Brisson e il Molteni a Milano, Bortolo e Giuseppe Fumagall i a Bergamo (ma anche Giovanni Mora e l’anziano Marco Deleidi), il Gallizioli a Brescia, il vecchio Guizzardi di Bologna (che era stato il maestro del Molteni), furono i restauratori e gli informatori del conte Secco Suardo. Ma in realtà essi si scambiavano reciprocamente ricette e opinioni, provavano insieme nuovi pigmenti, discutevano sulla qualità delle lacche e dei pennelli, e, quando il Secco Suardo si appassionò al restauro al punto di diventare egli stesso

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un restauratore consumato, lavorarono insieme. Solo più tardi, in una fase diversa e più matura della sua vita, il conte avrebbe elaborato, raccolto e discusso queste esperienze in un volume che ha solo in parte un taglio amatoriale, giacchè il suo manuale è anche, ma non solo, il “vademecum” di un “amateur”. Ma andiamo per ordine... Giovanni Secco Suardo non fu un grande collezionista, forse più per mancanza di mezzi che per carenza di intuito o di introduzioni, e infatti, cosa rara per l’epoca, collezionava disegni. Uomo di gusto, aveva una una spiccata predilezione per la pittura olandese del Sei e del Settecento: Jacob Ruysdael, Nicolas Berchem, Jean van Huysum, Jan de Heem, Adriaen van der Werff, Gerard Dou, Franz van Mieris, oltre, naturalmente, a Holbein e Rembrandt. Discreto conoscitore della pittura lombarda e veneta del XVI e del XVII secolo, apprezzava tutta la produzione tosco-romana ed emiliana, ma non fu mai un amante dei primitivi, non riuscì ad invaghirsi del Settecento, e rifuggiva addirittura la pittu ra romantica. Certamente non era un conoscitore alla maniera di Giovanni Morelli. Pur non potendo viaggiare come avrebbe voluto, alternò all’attività milanese brevi soggiorni di studio a Roma, a Venezia e a Firenze, dove entrò in contatto con Giovan Battista Niccolini, Jacopo Cavallucci e Paolo Feroni. Dell’ amicizia con il Niccolini non restano tracce nella corrispondenza del conte Giovanni, ma i legami con i Secco Suardo sono testimoniati dal carteggio del fra tello Bartolomeo. E’ proprio in una lettera scritta da Bartolomeo nel gennaio del 1842 che si allude per la prima volta all’amicizia cordiale e affettuosa del conte con il giovane Giovanni Morelli, appena rientrato in Italia dopo la permanenza in Germania e l’esperienza francese 13. Come il Morelli, anche il Secco Suardo era entrato in contatto con la Firenze colta degli anni Quaranta; il gentiluomo bergamasco, il cui nome ricorre nella corrispon denza Morelli-Capponi, era legato da un profondo rapporto di stima a Camillo Jacopo Cavallucci e, per suo tramite, aveva conosciuto Luca Bourbon del Monte e Paolo Feroni 14. Erudito, esperto conoscitore degli archivi fiorentini, appassionato di pittura con temporanea -dai quadri di storia al paesaggio- sensibile ai problemi della conservazione del patrimonio locale, il Cavallucci aveva introdotto il Secco Suardo nella cerchia delle sue più squisite conoscenze: conoscitori come il Bourbon del Monte e il marchese Feroni, Niccolò Antinori e Carlo Milanesi, artisti e restauratori come Ulisse Forni e Carlo Pini, editori come il Gaspero Barbera, con cui il conte si sarebbe di nuovo messo in contatto all’epoca della stesura del Manuale 15. Forse attraverso il Cavallucci lo stesso Giovan Battista Cavalcaselle avrebbe esami nato i restauri eseguiti dal Secco Suardo in Lombardia. Lo storico dell’ arte era, infatti, assiduo corrispondente dell’ erudito fiorentino, cui si rivolgeva per ottenere quelle informazioni documentarie che potevano confermare le sue ipotesi attributive. O forse per il tramite del Morelli, prima della rottura dei rapporti col Cavalcaselle, avvenuta all’indomani della notissima redazione dell’ “Inventario delle Marche e dell’Umbria” 16.

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Di certo sappiamo che, ancora nel 1867, poco dopo la pubblicazione del Manuale, il Cavallucci scriveva al Secco Suardo riferendogli di aver sentito con piacere “le relazioni di un suo amico intelligentissimo, il Cavalcaselle, il quale lodava i belli e felici trasporti da lui eseguiti in Lombardia” 17. E’ probabile che proprio l’amicizia fra il Secco Suardo e il Morelli abbia impedito, o continuamente rimandato, ogni contatto diretto del conte con lo storico dell’arte, tanto impegnato nei problemi della conservazione del patrimonio artistico italiano. Il restauro amatoriale e le sue patine, così apprezzato dal Morelli, non potevano accordarsi con la concezione dell’opera d’arte come documento storico, che fu, fin dall’inizio, tanto cara al Cavalcaselle. Eppure a questa idea doveva lentamente avvicinarsi lo stesso conte Giovanni. Dei legami fiorentini, il Secco Suardo avrebbe mantenuto in vi ta quello col marchese Feroni che, succeduto a Luca Bourbon del Monte nella direzione delle Regie Gallerie di Firenze, doveva ospitare, nel 1864, il corso sul trasporto dei dipinti 18, e quello col Cavallucci, che all’inizio degli anni Settanta pubblicò du e lavori sui restauri di Gaetano Bianchi e di Guglielmi Botti 19. Al Morelli il conte Giovanni rimase legato per il resto della vita. Avevano caratteri diversissimi: il giovane connoisseur era anche piacevole conver satore, capace di animare i salotti mondani, scrittore vivace, abile collezionista e mercante, era dotato di una grande apertura verso l’arte contemporanea e di una comprovata abilità politica. Il Secco Suardo era più chiuso, la sua cultura provinciale, non aveva viaggiato, conosceva solo la lingua francese. Ciò nonostante i loro legami personali e la loro attività professionale si incrociano continuamente 20. Non è casuale che siano di poco successivi all’incontro col Morelli i viaggi di studio del conte Giovanni nelle più importanti gallerie europee. Il Secco Suardo visitò le Fiandre e, fra il 1844 e il 1850, Monaco, Vienna, Dresda, Lipsia e Berlino, seguendo un itinerario che ricalca, come sarebbe accaduto nel 1851 per Niccolò Antinori, quelli universitari e post -universitari dell’amico. Questi soggiorni, il secondo dei quali non fu più ripetuto in seguito, dovevano orientarlo definitivamente verso le ricerche sulle tecniche artistiche, in particolare su quelle dei fiamminghi, e sul restauro dei dipinti. A questo periodo appartengono anche le sue prime riflessioni sulla conservazione del patrimonio artistico, sui criteri espositivi, sul museo come edificio. Pensieri che si allontanano progressivamente dalla fruizione squisitamente edonistica del collezionismo borghese. Di qui ai suoi interventi per la tutela del patrimonio artistico il passo sarà relativamente breve. Dei viaggi nelle Fiandre resta una sola testimonianza in una lettera scritta nel 1869 dal conte al figlio Giulio Cesare, in viaggio fra Amsterdam e Anversa. Ho accennato alla passione di Giovanni per i fiamminghi. In Italia il conte aveva acquistato una tavola di Ruggero di Bruges, (o creduta tale, giacché quasi tutti i pezzi della sua collezione sono andati dispersi e non siamo in grado di verificarne l’attribuzione), per la quale voleva far fare una cornice. Ma, scrive, “quando fui nella galleria di Anversa, dove sono molti quadri di Memling e suoi contemporanei circondati da una cornice di una forma particolare e

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caratteristica... non ne cavai il disegno. Ora... mi trov o imbarazzato principalmente per la cimasa, ossia per il finimento in alto. Se quindi ne potessi copiare una mi faresti un vero regalo, perché su quel modello farei accomodare il mio” 21. Non è da escludere che anche nell’occasione del viaggio nelle Fiandre il Secco Suardo avesse preso appunti, annotazioni, e, forse, tratto qualche disegno. Ma si tratta solo di supposizioni, perché niente di questo materiale si è conservato. Viceversa il viaggio in Germania, una sorta di “grand tour” rovesciato come dire zione, è documentato con straordinaria vivacità da un diario che si è conservato fra le carte del conte. Il taccuino, purtroppo incompleto, descrive tre delle cinque tappe del viaggio: Dresda, Lipsia e Berlino. Ma i continui riferimenti e confronti con i dipinti e gli oggetti delle collezioni di Monaco e di Vienna permettono di ricostruire per intero l’itinerario seguito e le gallerie visitate dal conte 22. Dal testo, scritto con la grafia minuta e compressa di Giovanni, sappiamo solamente che il Secco Suardo era partito da Milano nel mese di ottobre, e che non era solo. Tuttavia, fra le tante descrizioni di edifici storici, compare, ed è uno straordinario documento, quella della Semper Oper di Dresda, che andò, come è noto, distrutta nel disastroso incendio del 1869. Gottfried Semper aveva portato a termine il suo teatro nel 1841. Ecco il primo ter mine “post quem”. D’altra parte, la collezione degli Elettori Palatini, così come viene descritta da Giovanni, corrisponde all’allestimento che i dipinti aveva no quando erano ancora conservati nello Jüdenhof di Dresda. Solo nel 1843 Federico Augusto stabilì la costruzione di un nuovo edificio e il progetto fu affidato a Semper, che lo realizzò fra il 1847 e il 1849. Il Secco Suardo aveva visitato Dresda prima del 1850 e dopo il 1841. Ancora, fra le opere descritte dal conte all’ Altes Museum di Berlino, compaiono 1’ “Adorazione dei pastori” del Moretto, che era stata acquistata dalla collezione bresciana del conte Teodoro Lechi nel 1842, ed una “Toilette” di Va n Mieris, acquistata a Berlino nel 1843. Il che riduce gli estremi cronologici fra l’ottobre del 1844 e quello del 1850. E per molti aspetti il soggiorno tedesco del Secco Suardo ha ancora un sapore “gio vanile”; non sappiamo niente dei suoi due compagni, ma certamente essi non appartenevano a quella élite colta con cui era già in contatto il Morelli. Il conte Giovanni viaggiava ancora come un turista, non inesperto, ma neppure introdotto negli ambienti della connoisseurship locale. Lo rivelano certe annotazioni minute - il fatto che sedeva da solo a tavola, che non riceveva inviti - il modo stesso con cui visitava e descriveva le città. Prima gli esterni; a Dresda la passeggiata al Neu markt, l’Augustusbrücke, i giardini sull’Elba e lo Japanisches Palais; poi la Hofkirche, la Frauenkirche e il teatro. A Berlino la passeggiata lungo l’Unter den Linden, dalla porta di Brandeburgo all’isola sulla Spree: in un secondo tempo le gallerie. Le sue descrizioni non sono quelle rapide e corsive di Morelli, che po stillava i cataloghi già più volte letti e studiati; sono lunghe pagine nelle quali il conte si abbandona anche alla curiosità. Il mercato, il pesce fresco e l’odore del carbone, il cibo, il sapore delle prugne e quello del brodo caldo bevuto in piedi sul binario, le

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abitudini locali, i prezzi, la strada ferrata, i paesaggi, la camera dell’ albergo, i modi di una cameriera e la sua carnagione... Anche in queste digressioni risiede il fascino del diario. Inguaribile appassionato di musica, il conte Secco Suardo si reca a teatro, sia a Dresda che a Lipsia. Ma se della Semper Oper ci dà una descrizione dettagliata, curiosa e sorpresa, se non entusiasta, della quale non posso fare a meno di sottoli neare lo straordinario interesse documentario (otto pagine f itte di annotazioni, dalla pianta, alla struttura interna, alle nicchie, ai pilastri, alle decorazioni delle gallerie), all’architettura del teatro di Lipsia, oggi scomparso, dedica solo due righe. “Modernissimo, semplice all’esterno, con un pronao alla facciata, ed abbastanza ben decorato all’interno, però senza sfarzo e senza alcuna pretesa”; e invece si dilunga, e sembra che si diverta, a descrivere la rappresentazione del Don Giovanni di Mozart, certe caratteristiche del basso, certi atteggiamenti del p ubblico. Ma non voglio privare il lettore del piacere di sfogliare le pagine... Il Secco Suardo del viaggio in Germania è per certi aspetti ancora un “amateur”: la sua curiosità è notevole, la sua cultura ancora circoscritta. Non conosce, per esempio, i nomi degli artisti che avevano progettato e decorato gli edifici che descrive; né il Gaetano Chiaveri della Hofkirche, né il Johan Schmid e il gruppo degli architetti cui si deve l’immagine della Dresda neoclassica; eppure si informa sui costi della costruzione; conosce Mengs, anche se non lo ammira, e, curiosamente, i lavori di Gottfried Silbermann, ma ignora addirittura le opere di Permoser. Non conosce l’autore della Semper Oper, anche se ne individua facil mente le fonti archeologiche e classiche, per quanto forse non ne apprezzi appieno l’originalità dell’ interpretazione. E tuttavia, per quanto il suo linguaggio manchi della purezza e della sintesi dello storico, dimostra un’estrema sensibilità nell’anticipare il pensiero che Gustavo Frizzoni doveva meglio esprimere di lì a quarant’anni:“fra tutte le costruzioni civili, quella che più sarebbe chiamata ad appagare il nostro senso estetico dovrebbe esse re il teatro, stante che in esso si avrebbe a riscontrare il migliore accordo fra quello ch’è per se stesso e quello per cui deve servire, come luogo di geniale convegno” 23. Il Secco Suardo mostra una discreta erudizione storica quando racconta, non senza un velo di ironia, la sfortunata vicenda del Maresciallo Poniatowski, e un’ insospet tabile interesse per l’ingegneria ferroviaria, e tuttavia la sua delusione di fronte alla Berlino dello Schinkel è davvero profonda, né compensata dall’apprezzamento dei lavori di Rauch: “l’idea è romantica”, scrive infatti, “ma assai ben espressa in ogni dettaglio perché Rauch è assolutamente ottimo artista”. Neppure riesce a nascondere la profonda delusione di fronte alle opere di Cornelius, “confusa e strana trovando la composizione, pessimo e stonato il colorito, tutto piombaceo e nero. Il qual diffetto pare che sia abitu ale di Cornelius, avendolo visionato anche ne’ suoi dipinti di Monaco”. Ora, se riflettiamo all’entuasiasmo del Morelli per Cornelius, che fu anche il suo ritrattista, per Bonaventura Genelli, o per Adolf Mende, che, spesso suo ospite, ne condivise gli entusiasmi politici nel 1848, oppure sulle amicizie tedesche del cono scitore, da Waagen a Ritter 24, non si può non avvertire la distanza fra le esperienze culturali dei due amici. E tuttavia il Secco Suardo rivela, accanto a certe ingenuità, legate, ricordiamolo,

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alla sua provenienza e alla sua formazione, una ricchezza e varietà di interessi, ed una capacità di analisi, che sono ancor più notevoli se valutate in relazione ai suoi mezzi. Pittura e disegno, ma non solo: nel diario sono descritte armi, gioielli , arazzi, lavori di oreficeria e in pietra dura, in ferro battuto. A Dresda il conte Secco Suardo visita 1’ “Armeria”, l’antica “Rüstkammer” degli Elettori Palatini, che negli anni Quaranta del secolo scorso era già stata separata dalla “Kunstkammer” e rappresentava un vero e proprio museo specializzato. Egli la sente e la descrive come un luogo di meraviglie, totalmente sedotto dalla varietà tipologica e stilistica delle armature, delle lance, delle sciabole e delle pistole. Analogamente, le pagine scritte dopo la visita alla “Grünes Gewölbe", lasciano trapelare curiosità ed entusiasmo soprattutto per il virtuosismo della lavorazione. Di fronte all’abilità tecnica, il Secco Suardo supera anche la primitiva ostilità per il tardo Barocco ed il Rococò. E per quanto egli non dimostri di conoscere le manifatture o gli autori dei singoli oggetti, non gli sfuggono certi pezzi di squisita fattura (tanto che dalle sue descrizioni possiamo identificarli senza troppa fatica), come un boccale di Norimberga della metà del Cinquecento “di cristallo di rocca in forma di anfora con guarnizioni in oro e smalto... che per manubrio havvi un serpente che è un vero capolavoro”, o il famosissimo gruppo del Gran Mogol di J. M. Dinglinger. La scultura, viceversa, ha sempre un posto secondario; della Skulpturesammlung di Dresda, il cui ordinamento, come è noto, era stato affidato a Winkelmann, scrive che non è affatto confrontabile “con la ricchezza della Pinacoteca”, e dopo la visita all’Altes Museum di Berlino annota: “seguendo l’ordine naturale noi dovevamo incominciare dal museo delle statue, come quello che occupa il piano inferiore; ma secondo il nostro costume è forza che facciamo un salto, salendo alla Pinacoteca, per discendere poi al Museo”. In realtà è alla Gemäldegalerie di Dresda e alla collezione di dipinti del museo ber linese che il conte dedica la maggior parte del suo tempo; nel suo diario sono appuntati e commentati più di 200 quadri. Ma più che nelle attribuzioni, è nelle osservazioni sugli allestimenti, sui restauri e sullo stato di conservazione delle opere che il gentiluomo bergamasco dimostra di avere opinioni precise e che, per l’epoca, possono essere considerate relativamente moderne. Giovanni Secco Suardo sorprende subito per alcune osservazioni decise e puntuali: “il locale della Pinacoteca di Dresda non ha niente di bello... oltre al non esser bello quel fabbricato è anche poco oportuno e ristretto assai... non so poi se da tale ristrettezza derivi la cattiva distribuzione de’ quadri, poiché v’ ha un tal pasticcio di scuole e di autori, che veramente mi disgusta”. E ancora: “io non son punto persuaso del sistema fin qui tenuto dalle grandi pinaco teche di distribuire gli autori secondo le scuole... poiché spessissimo accade che un pittore per esempio veneto abbracci lo stile romano...” Accanto al piacere, squisitamente edonistico, di osservare un quadro, o di assapo rare i colori e le velature di un pezzo unico, di confrontarlo con opere già viste e in qualche caso anche possedute, c’è, nel conte Secco Suardo, una chiara attenzione

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per il museo come luogo di esposizione. Qualcosa che sorprende, e quasi dispiace, a quanti di noi hanno riscoperto il gusto dei vecchi allestimenti, il fascino della quadreria. Il conte Secco Suardo non possedeva i cataloghi dei musei che visitava, viaggiava portandosi dietro il bagaglio delle sue letture milanesi; parla del museo come di un luogo che deve “illuminare” il visitatore, e dove il visitatore possa essere idealmen te guidato. Nella Pinacoteca di Dresda che, scrive, “cederà a quella di Firenze rispetto ai pittori italiani e a quella di Monaco per la copia dei Rubens, ma presa in complesso è la prima che io abbia mai visto”, nota con rammarico che i quadri sono ancora distribuiti come quelli di una collezione privata; di ciascun dipinto è indicato solo il nome dell’autore. Niente di più logico sotto il profilo della museologia. Ma per il Secco Suardo il museo aveva un compito più impegnativo: doveva esporre le opere piuttosto secondo un criterio di analogia stilistica che di provenienza geografica, e, oltre al nome del presunto autore, ne doveva indicare gli estremi crono logici e topografici. Infatti, sembra riflettere mentre scrive, “qual rassomiglianza ha il Mantegna con Leonardo? Quale fra Rubens e Wouwermann? Fra Rembrandt e Dou, suo allievo?”. Di lì a poco Federico Augusto di Sassonia avrebbe affidato a Gottfried Semper l’ in carico di progettare, per le collezioni della casa reale, un edificio più vasto e razio nale; Giovanni Morelli e Gustavo Frizzoni avrebbero optato per la soluzione del criterio espositivo per scuole 25; nel 1830 a Berlino era stato inaugurato l’ Altes Museum, che viene considerato il primo esempio di museo in senso moderno. Gli appunti stesi dal Secco Suardo all’indomani della visita alla pinacoteca berlinese, i cui locali erano stati progettati da Karl Friedrick Schinkel, sono anche più sor prendenti. Le sale del piano superiore, destinate ad accogliere le collezioni di pittura, erano state articolate con tramezzi montati ai lati delle finestre, che, pur formando dei piani chiusi, permettevano di godere l’effetto complessivo delle sale. “La Pinacoteca”, scrive il Secco Suardo, “massime per esser recente, è rimarcabi lissima” (e quel “massime” gli va perdonato perché si è det to che il conte non era un ammiratore dello Schinkel); “entrati poi che si sia, trovasi un’ anticamera sem plicissima, dalla quale si passa alle sale de’ quadri, divise da molte intramezzature di legno, in modo che ad ogni cella corrisponda una delle fin estre... Per tal modo sia ha una luce buona, ma v’ ha sempre l’inconveniente, in confronto alle sale illu minate dalla volta, che se ponno acquistare alcuni quadri collocati sulle pareti late rali, discapitano immensamente quelli di fronte alla finestra , e perdesi poi del tutto la parete occupata dalla finestra medesima. lo per me sto per la luce dall’alto!” Modernità di vedute; la soluzione a luce spiovente prevista dallo Schinkel non era stata realizzata solo per motivi di costo. Ancora: uno dei meriti dell’architetto era stato quello di dosare con grande sobrietà le decorazioni delle pareti delle sale, per conservare intatte, come avrebbe commentato lo stesso Waagen, direttore del museo, “l’ efficacia delle opere d’arte, pro tagoniste assolute dell’ edificio”.

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Il Secco Suardo capisce subito la voluta funzionalità degli ambienti, e sottolinea “la giustezza di quelle celle, a fondo rosso cupo con volta semplicissima, e quasi spoglie d’ornamenti” che “giova moltissimo ai dipinti, non distraendo l’occhio ”. Proprio nel 1844 Waagen scriveva che, nell’ allestimento della Pinacoteca, “l’archi tetto ha dimostrato che non gli importava impressionare i visitatori sfruttando lo splendore delle sale, a scapito di una buona visibilità dei singoli quadri” 26. Viaggia con uno spirito non solo amatoriale: sente che il museo deve rispondere alle esigenze di un pubblico più vasto di quello delle “classes supérieurs” o dei “voyageurs étrangeres” che, fino dal Settecento, avevano visitato le collezioni reali grazie ad un “bon pourboire”. Così come avverte la necessità di quel lavoro di revi sione attributiva che di lì a pochi anni sarebbe stato svolto dal Morelli, e di ricostru zione storica cui sarebbero arrivati Crowe e Cavalcaselle. Il suo approccio con gli oggetti è lontanissimo da quello delle postille morelliane; quello che interessa al conte Giovanni non è tanto l’attribuzione, quanto il rapporto fra la qualità di un dipinto e la sua conservazione. Certo egli dimostra ancora un’ indulgenza tutta ottocentesca per i val ori cromatici delle patine, per i colori ambrati dei quadri, ed anche per un “discreto maquillage”, fermo restando il rispetto per i valori figurativi dei dipinti. E infatti non polemizza, come avrebbe fatto nel 1853 il Cavalcaselle, sull’inter vento pittorico eseguito da Pietro Palmaroli sulla “Madonna di San Sisto” di Raffaello 27. Piuttosto lo disturbano le puliture, le svelature, i dilavamenti; così, per esempio, del “Cristo della Moneta” annota: “è di una finezza straordinaria, e deve essere stato assai bello, ciò che non si può dire attualmente vista l’ opera benigna dei cosiddetti restauratori”. E di fronte alla “Notte” del Correggio esprime un’ amara delusione: “della Notte, poi, di quel quadro così. universalmente celebrato, poco ora rimane da dirsi. Il magnifico pensiero e la felicità di esecuzione del cavar la luce dal bambino sono note; ma quell’ effetto abbagliante di colorito, che tanto lodavasi per lo addie tro, più non esiste dopo l’ultima restaurazione”. E conclude: “poveri quadri, a quanti guai andate soggetti!”. Il Secco Suardo degli anni Quaranta rivela un gusto ed una curiosità ancora amato riali, ma non va dimenticato che i suoi restauratori erano Guizzardi, Molteni, Fumagalli. Pretendere di leggerlo come un antesignano del Cavalcaselle s arebbe un errore, come un errore sarebbe il ridurre il suo manuale ad una semplice raccolta di ricette, un po’ alla maniera di Ulisse Forni. E anche questo è solo in parte vero 28. Fu un uomo di transizione, come il periodo che viveva, debitore ad un passato ancora settecentesco, ma con alcune intuizioni di grande attualità. Il conte Giovanni sbaglia, ma annota sempre quando e se i quadri sono ben conser vati, dà una grande importanza alla “vivacità” e alla “freschezza delle tinte”, rico nosce che è impossibile tentare un’ attribuzione se un dipinto è “troppo guasto e dilavato”; ammette con serenità che un abile restauro pittorico può restituire al dipinto la propria godibilità. Così della “Venere” di Guido Reni di Dresda, scrive: “questo quadro al primo colpo d’ occhio non fa un grande effetto, pel motivo che non solo è della maniera chiaris sima ed a luce sparsa, ma sofferse qualche dilavamento massime negli accessorj e

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nelle ombre principali. Ma se si osserva con qualche attenzione, e specialmente poi se si raccoglie la luce, diventa un gioiello”. E aggiunge, reciso: “potrebbe con pochissima operazione ridurre meravigliosa del tutto, rimettendo alcune poche velature smarrite”. D’ altra parte lo sguardo del conte Giovanni era anche quello del collezionista, s icché egli non può fare a meno di appuntare, dopo aver sostato a lungo di fronte al “Ratto di Ganimede” di Rembrandt, che sarebbe “uno dei quadri più appetibili anche per una piccola raccolta”; e, di un quadretto di Franz Mieris, di cui ci dà una descrizione davvero intrigante, “che se da questo si tagliasse il solo pezzo che con tiene il tappeto, si avrebbe tuttavia un quadro di inestimabile valore”. Del resto il Secco Suardo era un amante del genere, giacché, dopo il rientro a Milano, avrebbe acquistato le due “Nature” del Bettera con strumenti musicali dipinti su raffinati tappeti da tavolo, oggi all’ Accademia Carrara di Bergamo. Tornato in Italia, il conte aveva ormai due soli desideri: continuare a studiare i fiamminghi, di cui era così invaghito, e se possibile ad acquistarne; raccogliere e sperimentare tutto il materiale possibile sul restauro dei dipinti, poiché “non havvi forse altro genere di oggetti che sia stato costantemente sottoposto a tutti i capricci e le stravaganze degli uomini, quanto i poveri quadri, che tutti pretesero di pulire, verniciare, ristaurare...” Di lì a poco avrebbe cominciato a restaurare. Alla fine del 1849 il Secco Suardo stava sperimentando, nel piccolo laboratorio allestito a Milano, il cosiddetto “beverone”, l’ultima moda degli ateliers milanesi per “ravvivare” i dipinti. Il “beverone” era una vecchia ricetta di origine francese, composta di olio cotto, ossido di piombo, grasso animale e sostanze resinose, che veniva applicata a caldo sul verso dei dipinti ad olio, ai cui colori restituiva una eccezionale freschezza. Ma poiché a distanza di pochi mesi ne procurava anche l’annerimento e l’essicca zione, ben presto si era smesso di utilizzarlo. La parola rimase, però, nel gergo dei restauratori ad indicare tutte quelle so stanze protettive che si applicavano ai dipinti ad olio 29. All’inizio dell’Ottocento il conte Teodoro Lechi, abile collezionista e proprietario di una raffinata quadreria, assiduo frequentatore e corrispondente del Guizzardi, aveva messo a punto un nuovo tipo di beverone 30. La ricetta, nota come “acqua”o “acquetta Lechi”, divenne in breve di gran moda nei circuiti del restauro amatoriale. Il conte Giovanni ne avrebbe parlato, non senza una vena di polemica, nel Manuale, ma nel 1849 la sua preoccupazione era ancora quella di procurarsi la ricetta originale e di sperimentarla di persona. Sicché aveva chiesto all'amico Fumagalli di confidargli gli ingredienti usati nella sua bottega, e di far di tutto per procurarsi le informazioni su quelli del Lechi. Giuseppe Fumagalli, figlio del più noto Bortolo, raffinato pittore neoclassico e pro prietario di una accreditata bottega di restauro a Bergamo 31, aveva ereditato la clientela paterna: il conte Guglielmo Lochis, Aurelio Carrara, Prospero Arrigoni, i Suardo, i Regazzoni…Ben introdotto nella cerchia dell’ Accademia Carrara, lavo rava per la pinacoteca bergamasca come restauratore e consulente; dalla sua bottega passavano tutte le informazioni sul mercato antiquario della città 32.

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Il legame fra Giuseppe Fumagalli e il conte Secco Suardo è documentato dal carteggio, di cui si conservano una sessantina di lettere, che va dal 1849 alla morte del conte. Ma se dopo il Sessanta, al rientro del Secco Suardo a Bergamo, la corrispondenza si fa più saltuaria, giacché i due vecchi amici si incontravano in bottega, in Accademia e a Lurano, negli anni milanesi di Giovanni, doveva essere quasi quotidiana. Il Fumagalli non era solo il suo restauratore di fiducia; lo teneva aggiornato su tutto ciò che accadeva a Bergamo, gli segnalava gli acquisti fatti dai collezionisti (non mancano mai, nelle sue lettere, i pettegolezzi sul Lochis e Prospero Arrigoni), gli suggeriva gli oggetti da comprare e gli faceva da mediatore. Solo in un rapporto di questo tipo si può spiegare la disponibilità con cui confidava al conte Giovanni la ricetta da sempre usata nella bottega patema: “noi (babbo ed io) usiamo applicarvi l’acqua di allume di feccia al rovescio del quadro, questa piuttosto forte quando però la tela sia ben fitta...”. E continua: “la ricetta dell’ acqua Lechi ce la riporto al suo originale qui appiedi” 33. Alle ricette seguono sempre le notizie antiquarie. Un esempio: nell’autunno del 1849 a Bergamo si faceva un gran parlare di un Van Dyck “per niente corrispon dente a tale classico pennello” e di dubbia provenienza; il conte Lochis aveva offerto cento lire austriache e via di seguito. Il Fumagalli era anche il suo mediatore; nel gennaio del 1850 seguiva le trattative di un dipinto romano e intanto teneva in bottega un “Paoletto ” da restaurare; gli procura o gli fabbrica le vernici, e a sua volta gli chiede informazioni sul mercato milanese; soprattutto per ciò che riguarda disegni e incisioni, di cui il conte era un appassionato collezionista. Da Milano il Secco Suardo invia all’amico i materiali più pregiati: inchiostri speciali, lacche e pigmenti; un verde inalterabile di cui si era invaghito “anche il Gritti pittore”, che lo usava per i suoi affreschi, l’azzuro vero di Francia, la lacca verde, la lacca gialla, “che a Bergamo si trova solo di mediocre qualità”, il “ritrovato dell’o lio”, i pennelli, di quelli che servono per le sfumature, le “arcelle” di oro macinato , o l’olio di essenza. A volte è Giovanni Morelli che fa da corriere. C’è un che di magico in questo continuo scambio di ricette e di colori che si avvicenda alle notizie sugli acquisti, alle confidenze sui prezzi, alle informazioni sui segreti. Come quando il Fumagalli gli racconta dei suoi esperimenti per togliere le vernici vecchie dai dipinti fiamminghi, con la vernice diluita con l’acqua ragia; e lo avverte di fare attenzione a sperimentare la ricetta sulle tempere… Ma quello che il carteggio rivela, settimana dopo settimana, è che, se il conte lasciava alla consumata abilità del Fumagalli e talvolta del Guiz zardi il restauro di pennello dei dipinti che acquistava, amava fare da solo tutte le altre operazioni: puliture, verniciature, risarciture. All’inizio del 1850 il conte Giovanni restaurava le due “Nature” del Bettera da poco acquistate a Milano. I dipinti, “fradici” di umidità, dovevano essere foderati, ma il problema più grave era quello di nascondere i fori che avevano lacerato la parte inferiore di entrambe le tele. Il Secco Suardo aveva il suo sistema; una volta preparato lo stucco, lo spianava con il brunitoio, avendo cura di applicare sulla

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punta dello strumento un frammento di tela simile a quella originale, dimodoché, sullo stucco rimanesse l’ impronta del tessuto. “l’inganno”, ci spiega, “riuscirà tanto più felice, quanto più la tela di cui vi servirete sarà simile all’originale...”. Un lavoro da vero maestro, dove l’integrazione è fatta con misura, con gusto, soprattutto con riservatezza. E a proposito di integrazione e riservatezza sono davvero avvincenti i resoconti degli esperimenti e dei restauri celati nella. Corrispondenza fra il Secco Suardo e i suoi restauratori. Il conte studiava e raccoglieva ricette per l’invecchiamento e la falsificazione: le vernici, gli olii, e “i vari modi di prepararli, all’ intento di ottenere de’ dipinti i quali appena fatti presentino quello smalto che producono i secoli”. E intanto seguiva giorno per giorno il lavoro sui dipinti che mandava a restaurare. Di solito affidava i quadri più danneggiati a Giuseppe Guizzardi, la cui abilità nel ridipingere una testa del Domenichino o di Guido, ingannando anche l’ occhio più esercitato, era notissima 34. Ma in qualche caso le loro condizioni erano così disastrose da superare anche le risorse dell’anziano maestro; in una lettera scritta dal Guizzardi nell’aprile del 1852 si legge: “lei dirà d’ aver ricevuto la cassettina contenen te il miserabile avanzo di una vita che fu. E veramente rattrista per un amatore ed un’ artista, veder così mise ramente ridotti in rovina gli oggetti d’arte, così preziosi, così come quello ch’ ella m’ ha fatto vedere... Avrei desiderato al pari di lei che l’ arte avesse potuto suggerirmi un qualche mezzo per riparare inqualche guisa a tanto guasto, ma purtroppo sopra quella tela non ho potuto che sognare...” 35. Se lo sfortunato quadro, o quanto ne rimaneva, non fu mai restaurato, la corrispondenza fra Milano e Bologna continua, e nelle lettere del Guizzardi non manca mai qualche consiglio sul modo di preparare olii e pigmenti, giacché, ammaestra il conte, “qualora nel dipinto vi sia l’ imprimitura, ma vi manchi il colore, è forza rimetterlo, di corpo se il guasto si verifica nelle parti chiare, e di trasparenza se il male trovasi nelle ombre” 36. Al Fumagalli spettava, di frequente, il restauro dei dipinti per i quali aveva fatto da mediatore. Fra i tanti episodi che lo legarono al conte Giovanni merita di essere ricordata la storia di una tavola di Andrea Previtali, con San Gerolamo e San Giovanni Battista, che il restauratore aveva acquistato su incarico del Suardo. Le prime notizie sul dipinto, che apparteneva alla collezione del vescovo di Bergamo, arrivarono a Milano fra il febbraio e il marzo del 1853: “il maggior male -è il Fumagalli che scrive- è nel San Giovanni, ossia nella testa, che essendo tutta coperta non si può giudicare bene della sua originalità. Ancora il bambino è di molto riparato, ma così in questo che nelle altre parti rinfrescate lascia intravedere la bella tinta e lo smalto di originalità. La composizione è di quella semplicità belli nesca tanto simpatica, la sua dimensione bella perché non grande...” 37. Il conte pagò la tavola 250 lire austriache e la lasciò al Fumagalli perché ne curasse il restauro. Quasi contemporaneamente inviava nello studio del Guizzardi un quadro creduto del Pinturicchio. Entrambi i dipinti furono sottoposti ad un accurato maquillage, la corrispondenza fra Bergamo, Milano e Bologna si fa sempre più fitta; sulla tavola del Previtali il Fumagalli appose perfino la firma ed il “millesimo” 38.

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Ma il Secco Suardo rimase deluso da entrambi i lavori, sicché si dice va risoluto a ripulire con l’acqua ragia le troppo abbondanti pennellate che avevano ricoperto i dipinti. Intanto, dalla fine degli anni Quaranta, il conte andava maturando l’ idea, che lo avrebbe reso famoso, o meglio che avrebbe reso famoso il suo manual e, di elaborare un nuovo sistema per il trasporto dei dipinti e degli affreschi. Nel primo Ottocento le tecniche di trasporto, derivate dal “rentoylage” francese, la cui straordinaria fortuna si deve ai trasporti eseguiti a Parigi da Robert Picault 39, erano relativamente diffuse anche in Italia, dove si erano formati operatori specia lizzati in questo genere di lavori. I cosiddetti estrattisti, si limitavano ad eseguire lo “stacco”, cio è il trasferimento di un dipinto su di un supporto diverso da quello originale, lasciando al peintre-restaurateur il compito di portare a termine il restauro. Alla metà del secolo scorso, i più ricercati in questo genere di lavori erano Bemardo Gallizioli in Lombardia, Giovanni Rizzoli in Emilia e Gaetano Bianchi a Firenze40. Tuttavia i distacchi venivano ancora guardati con un certo sospetto, considerati interventi “straordinari”, pericolosi, da farsi con estrema cautela. E ancora molti collezionisti italiani preferivano inviare a Parigi i loro dipinti, poiché i francesi venivano considerati i più abili in questo genere di operazioni. Il Secco Suardo si era prefisso lo scopo di studiare un sistema di trasporto, applica bile indifferentemente alle tavole, alle tele e agli affreschi. Esso si basava sullo strappo della sola pellicola pittorica. Aveva studiato tutta la bibliografia disponibile, cominciato gli esperimenti sulle colle, che erano il segreto di tutta l’ operazione, visitato gli studi dei restauratori italiani, e si era spinto fino a Parigi per incontrare il notiss imo Paul Kiewert 41. Ma rompere la consegna del segreto professionale non era cosa facile. L’incremento del mercato antiquario e del collezionismo borghese avevano trasfor mato l’ attività del restauratore in una professione emergente. E poiché il frequentatore “medio” delle botteghe non era il connoisseur, ma piutto sto quello che i francesi definivano, con una punta di maliziosa ironia, l’ “amateur novice”, il restauratore amava circondarsi di quell’aria di mistero che ne aumentava il carisma. Finché i suoi metodi di lavoro fossero rimasti segreti, egli avrebbe solo aumentato il numero dei suoi clienti. Per questo non sempre il Secco Suardo riuscì ad avere le informazioni che cercava, pur offrendo in cambio le proprie. Aveva chiesto l’ aiuto del Fumagall i, che non essendo specializzato nei trasporti non poteva essere considerato un concorrente; ma nel settembre del 1852, l’amico gli scriveva, con rammarico: “per quanto ella desiderava sapere ed avere qualche lume sul metodo di levare gli affreschi dal muro, io procurai averne, ma da nessuno non ne potei avere; anche il Mora dice che quando visitava il Gallizioli sul posto delle sue operazioni, non potette mai vedere nulla di quello che adoperava, solo non vedeva che molta colla tedesca” 42. Il Secco Suardo incontrò un’ analoga diffidenza a Parigi, nello studio di Paul Kiewert. L’abile restauratore, che riceveva ancora molte commissioni dall’ Italia ricordo fra i suoi clienti il conte Giangiacomo Poldi Pezzoli - non volle confidare al

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Secco Suardo gli ingredienti della sua colla “pour rentoyler”, replicando alle insi stenze del conte, che aveva già rifiutato di pubblicare i suoi sistemi nel volume di Theodore Lejeune 43. Credo che sia proprio in questo periodo, e in seguito a tante amare esperie nze, che il Secco Suardo maturò l’ idea di scrivere il manuale, un lavoro che fosse di aiuto a chi intraprendeva il mestiere, ma anche al collezionista che volesse conoscere il destino dei propri dipinti. La sua vicenda personale spiega perché nel libro convivono la figura dell’amateur, del restauratore dilettante e dell’ erudito, restauro amatoriale e una prima idea di quello che sarebbe diventato il restauro conservativo. La curiosità del conte Secco Suardo era condivisa da molti restauratori ai quali n on sfuggivano, soprattutto nel momento della riscoperta dei primitivi, i vantaggi eco nomici che una specializzazione nel trasporto avrebbe loro portato. Strappati e arrotolati, dipinti a tempera e ad olio, frammenti di affreschi, ma anche intere stanze affrescate, potevano essere facilmente essere fatte circolare sul merca to antiquario. Se l’interesse del Secco Suardo aveva una natura del tutto originale, poiché egli vedeva nel trasporto un metodo per salvare le opere destinate ad un rapido degrado, e lo conferma il fatto che egli non era un innamorato dei primitivi, il risvolto più concretamente economico che avrebbero potuto avere le sue ricerche fu subito intuito da Alessandro Brisson. Il Brisson era uno dei più ricercati restauratori di pennello attivi a Milano. Come tanti colleghi aveva iniziato la propria carriera come pittore; ma ben presto si era costruito uno straordinario patrimonio di conoscenze che ne aveva fatto uno dei più ricercati mediatori del primo Ottocento lombardo. Egli deve gran parte della sua fortuna al rapporto che lo legò al conte Guglielmo Lochis, che lo introdusse presso i collezionisti bergamaschi e gli fece ottenere un gran numero di lavori su commissione dell’ Accademia Carrara, della cui gestazione egli fu uno dei principali protagonisti insieme al conte Marenzi 44. Il Secco Suardo frequentava lo studio del Brisson, il Brisson la casa milanese del conte Giovanni; si incontravano quasi quotidianamente, e infatti cominciarono a scriversi solo dopo il rientro del conte a Lurano. I loro rapporti erano così assidui che spesso il Fumagalli si rivolgeva al Secco Suardo per avere informazioni sui dipinti che lo scaltro mercante teneva sempre nel retrobottega. Verso la metà degli anni Cinquanta, il conte aveva eseguito il suo primo esperimento di “strappo” su un frammento di affresco della sua collezione. Il dipinto, che rappresenta il salvataggio di una fanciulla, un raro brano di pittura cavalleresca bergamasca databile fra il 1360 e il 70, fa parte di un ciclo la cui vicenda è stata di recente ricostruita 45. Il risultato dell’intervento fu più che soddisfacente (la qualità dei pigmenti è ancora intatta) sicché il Brisson, entusiasta, propose al conte di cominciare a lavorare insieme. Ed essi costituirono una piccola società, alla quale si aggregarono anche Luigi Marzorati, il doratore di fiducia del Brisson, e il Professor Brambilla, un medico appassionato di belle arti.

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Il conte Secco Suardo era convinto che il “cartonnage”, da sempre usato in Francia nell’ esecuzione dei trasporti, potesse essere sostituito da un supporto di tela che, applicato con una colla facilmente solubile alla superficie dei dipinti, fosse capace di sostenere la pellicola cromatica senza sottoporla ai movimenti igrometrici provo cati dalla carta 46. Dopo aver fatto un certo numero di esperimenti, nel 1857, il conte ebbe l’ incarico di eseguire il trasporto di un dipinto di Cima da Conegliano della Pinacoteca di Brera. L’opera, che rappresenta San Pietro in trono con i Santi Giovanni Battista e Paolo 47, era stata trasferita dalla tavola originale sulla tela nella prima metà del secolo, ma il risultato dell’ intervento era del tutto insoddisfacente. Il dipinto, le cui considerevoli dimensioni aumentavano la difficoltà del lavoro, fu trasportato nell’ abitazione del Secco Suardo, che ne eseguì il distacco con l’ aiuto di Alessandro Brisson. Nel 1863 il restauro del Cima fu presentato al Concorso del Regio Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti, bandito “per l’introduzione in Italia di una nuova industria”, ed ottenne la medaglia d’ argento, nonché una certa risonanza sulla stampa locale 48. Ma, se lo scopo dell’ aristocratico bergamasco era quello di dimostrare la serietà e la competenza della scuola di restauro italiana, da sempre considerata tributaria delle botteghe d’ oltralpe, quello del Brisson era ben più concreto. Egli sperava di veder aumentare in breve tempo il numero delle sue commissioni e il volume della sua clientela. E infatti, quando, nell’ aprile del 1864, il Secco Suardo ottenne dal Ministero della Pubblica Istruzione l’ incarico di recarsi a Firenze per tenere un corso di lezioni sul trasporto di dipinti e degli affreschi, che avrebbe rese pubbliche le sue scoperte, fra i due scoppiò una violenta polemica. La “querelle”, che si può ancora leggere sulle pagine de “La Lombardia” 49, provocò la rottura dei rapporti fra il Secco Suardo e il suo collaboratore e divise il pubblico dei conoscitori. D’ altra parte essa era, per così dire, prevedibile. Finché il conte Giovanni si era dilettato nel restaurare, come tanti, forse la maggior parte dei collezionisti del suo tempo, aveva trovato aperte le porte delle botteghe, per le quali egli rappresentava un potenziale cliente. Con i restauratori aveva instaurato quel rapporto di complicità che si fondava su di un tacito accordo: mantenere il segreto sui propri esperimenti. Ciò che conveniva, del resto, anche al col lezionista, come ci ricorda la vicenda del restauro del Previtali che fu “firmato e datato” da Giuseppe Fumagalli. Il Secco Suardo aveva ormai acquisito l’ abilità di un restauratore consumato; dopo aver vissuto tutte le esperienze dell’ amateur, frequentato i restauratori più raffinati di Milano, conosceva tecniche e segreti per l’ invecchiamento e la falsificazione, e il volto più spregiudicato del mercato dell’ arte. Ma col passare degli anni si era convinto che l’ arte di restaurare quadri poteva diventare un mestiere eseguito su basi scientifiche, un mezzo per la tutela del patri monio artistico. E del resto il conte Giovanni era un vecchio ari stocratico illuminato, per cui era naturale dare agli amici, come Giovanni Morelli o Gian Giacomo Poldi Pezzoli, quei consigli che in una bottega avrebbero avuto un valore economi co preciso, offrirsi di eseguire un trasporto per il semplice piacere di salvare un

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dipinto dimenticato, insegnare i propri segreti ai giovani per i quali provava stima e fiducia. Così, alla fine degli anni Cinquanta, con lo scadere del suo mandato politico, egli si ritira dalla scena del mercato, ed anzi, dona le opere più preziose della sua collezione alla propria città natale. Gli anni compresi fra il 1857 ed il 1866 sono dedicati alla ricerca, alla scrittura, agli interventi per la salvaguardia del patrimonio artistico locale. Nel 1858 esce il risultato delle sue ricerche giovanili sulle tecniche pittoriche dei fiamminghi. La “Scoperta ed introduzione in Italia dell’ odierno sistema di dipinge re ad olio”, che dimostra la consuetudine con le fonti, da Teofilo a Cennini, e la conoscenza degli studi critici più aggiornati, da Waagen, a Cavalcaselle, all’Eastlake, ottenne delle ottime critiche sulla stampa italiana e francese, anche se a Milano, incontrò l’opposizione di Giuseppe Mongeri. Nel 1860 lo studioso milanese pubblicò un saggio su “La pittura ad olio” dove con futava le ipotesi del Secco Suardo sullo stesso argomento, e il conte gli rispose con un breve scritto, steso in forma di lettera all’ amico Gerolamo D’Adda, che denun ciava le imprecisioni del Mongeri. La sofisticata disputa fra i due eruditi non fu colmata neppure dalla comune amicizia per Giovanni Morelli, tanto che, nel 1864, quando scoppiò la polemica fra il Secco Suardo ed il Brisson, il Mongeri pubblicò un articolo su “La Perseveranza” nel quale appoggiava apertamente il restauratore milanese 50. Furono anni di amarezze e di soddisfazioni. Ritiratosi nella residenza di Lurano, il conte aveva ripreso a frequentare la cerchia della Carrara; Giovanni Brentani, Giovan Battista Camozzi Vertova, Paolo Vimercati Sozzi, Guglielmo Lochis, Giuseppe Fumagalli, che era ormai divenuto il principale consulente della pinacoteca in materia di restauro. A Bergamo Giovanni Brentani, che conosceva i suoi trasporti milanesi, lo pregò di eseguire il restauro di alcuni dipinti che dovevano confluire in Accademia. Il conte aveva sperimentato la sua tecnica di trasporto anche sugli affreschi. Fra il 1860 e il 1863 eseguì lo strappo di un “Compianto” della chiesa di Santa Marta a Monza, della “Madonna con i Santi Caterina e Francesco” e della “Vergine con Bartolomeo e Caterina” della chiesa di San Francesco di Bergamo, e di due affreschi con “Le nozze mistiche di Santa Caterina” e la “Madonna col Bambino”, in origine dipinti sull’absidiola esterna della chiesa di Santa Maria Maggiore, in città alta 51. Erano dipinti destinati alla dispersione, per difficoltà economiche e per ragioni di gusto, che senza il generoso contributo del Suardo nessun restauratore si sarebbe impegnato a salvare. Il risultato di questi interventi, fatta eccezione per qualche “sgranatura” della pellicola pittorica, è ancora soddisfacente. Ancora, nel 1863, il gentiluomo trasporta la “Madonna col Bambino” di Antonio Maria da Carpi, confluita in pinacoteca con il lascito Carrara del 1796, e già restau rata dal Brisson nel 1835. L’ allarmante stato di conservazione della tavola era stato segnalato dal Fumagalli. Il distacco fu eseguito, come voleva la tradizione dell’ Accademia, nei locali del museo, e, nel 1867, l’opera fu inviata all’ Esposizione Universale di Parigi per esse re esposta nella sezione dedicata alle Arti Industriali 52.

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Ormai anziano, il conte Giovanni desiderava trasmettere ad altri le proprie scoperte. Ma la bottega dell’ amico Fumagalli era fin troppo conosciuta e specializzata nelle puliture e nel restauro di pennello, sicché toccò ad un giovane praticante dell’amico di ereditare il patrimonio tecnico che il conte aveva raccolto in quarant’ anni di ricerche. Antonio Zanchi era entrato giovanissimo nella bottega del Fumagalli a “far pratica di tele e di tavole dipinte”. Cominciò a frequentare il laboratorio allestito dal conte a Lurano e ad aiutarlo nei suoi lavori; in breve divenne un abile estrattista, ed iniziò a lavorare per il Morelli, per i Frizzoni, per Giangiacomo Poldi Pezzoli 53. Amici di vecchia data del Secco Suardo, legati da una estra zione comune, dalla consuetudine dei soggiorni sul lago di Como, dall’ amore per le discussioni attribu tive e per gli itinerari sconosciuti, accadeva spesso che essi chiedessero il consiglio dell’ amico, prima di affidare un quadro ad uno dei loro restau ratori abituali. Nella primavera del 1864 il Morelli volle che il conte seguisse di persona il restau ro di una tavola della sua collezione attribuita ad Andrea del Sarto, che fu traspor tata dallo Zanchi e ritoccata dal Fumagalli 54; in agosto, durante uno degli abituali soggiorni sul lago di Como in compagnia di Otto Mündler, dell’ Eastlake e di Gustavo Frizzoni, gli scriveva di fare il possibile per salvare la pala gaudenziana che il conte Federico aveva donato all’ ex chiesa arcipretale di San Giovanni Battista di Bellagio. Il Secco Suardo conosceva bene la passione morelliana per Guadenzio, ed anche lo stretto legame che legava il conoscitore al giovane Gustavo, e nel mese di ottobre la pala con il “Cristo Risorto” veniva trasportata su una nuova tela dallo Zanchi, che era ormai diventato il suo assistente di fiducia 55. D’ altra parte, fino dagli anni milanesi, il Morelli aveva preso l’abitudine di discute re col Suardo dei suoi acquisti, e di quelli dei suoi amici più stretti; e infatti il c onte conosceva il famoso frammento di Gerolamo dai Libri con “La Vergine, il Bambino e Sant’ Anna” della National Gallery di Londra, acquistato dall’ Eastlake a Verona, le due tavole di Andrea Solario con San Giovanni Battista e Santa Caterina d’ Alessandria che il Morelli aveva acquistato attorno al 1856 a Bergamo, poi con fluite nella collezione Poldi Pezzoli 56. In questi, e in tanti altri casi spettò al Secco Suardo dare un giudizio sulla conserva zione dei dipinti, sul tipo di intervento da eseguire, sul restauratore da consigliare. E tutto questo spiega anche il suo legame con il giovane Luigi Cavenaghi, che sarebbe diventato uno dei restauratori di Morelli, e perché lo Zanchi sia divenuto l’estrattista di fiducia della cerchia morelliana. Ma gli interessi del gentiluomo bergamasco andavano al di là del restauro amato riale, del collezionismo borghese. Era consapevole che c’era un patrimonio che andava degradandosi ogni giorno di più, ed egli sperava che le sue ricerche sul distacco avrebbero potuto contribuire a salvarne qualche frammento. Solo alla sua “ostinazione” si deve il recupero del ciclo di affreschi con “Storie di Ulisse” dipinti da Giovan Battista Castello in una residenza patrizia di Gorlago. L’opera, un raro documento della cultura figurativa di derivazione romano-raffaellesca in Lombardia, è anche il più importante lavoro lasciato dall’ artista nel suo paese di origine, poiché gli affreschi eseguiti nella cappella Colleoni er ano stati distrutti nel 1700 per far posto ai dipinti del Tiepolo.

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Il ciclo, che in origine decorava un salone di villa Lanzi, aveva goduto di una certa fama fino alla fine del XVIII secolo; poi la proprietà subì una sorte comune a tante residenze di campagna. Fu ridotta “a colonici usi” e il salone adibito “a collocarvi biade, fieno, instrumenti rurali” e bachi da seta 57. Il Secco Suardo, che non conosceva di persona il nuovo proprietario della villa di Gorlago, Andrea Giovannelli, si rivolse all’amico Gerolamo D’ Adda e, per suo tramite, fino dal 1857, al Principe, chiedendogli di donare gli affreschi alla città di Bergamo 58. Egli si diceva certo che l’ intero ciclo potesse essere trasportato su supporti di tela e ricollocato in un ambiente adatto a valorizzarne l’ eccezionale qualità stilistica. Giovanni Secco Suardo riuscì ad ottenere la donazione dei dipinti nel 1865, quando Gorlago passò, per via testamentaria, al Principe Giuseppe; gli affreschi furono staccati dallo Zanchi e trasferiti nel palazzo della Prefettura di Bergamo. Il conte aveva suggerito di ricollocare gli affreschi nella sala dell’ Accademia Carrara, che doveva essere costruita per accogliere la collezione Lochis, poiché l’adattamento del ciclo ad un ambiente diverso da quello o riginale, rischiava di snaturarne l’ impostazione, e avrebbe comunque comportato un intervento di restauro integrativo. L’iniziativa del conte incontrò l’opposizione di Paolo Vimercati Sozzi, membro della Commissione Conservativa di Belle Arti, che faceva presente in tono accorato i rischi del trasporto e i pericoli dell’intera operazione; egli avrebbe preferito senz’altro lasciare gli affreschi a Gorlago, nell’attesa che un privato si assumesse l’onere della loro manutenzione. Dopo un lungo dibattito, di cui restano anche alcune testimonianze a stampa 59, prevalse il partito di accettare il dono, ma il ciclo fu sistemato in un ambiente del nuovo palazzo della Prefettura. Questa sistemazione, come aveva avvertito il Secco Suardo, provoc ò di necessità alcuni adattamenti, infatti, per ovviare alle lacune derivate dalle diverse dimensioni della sala, lo scenografo Carlo Rota fu incaricato di eseguire la parte ornamentale di collegamento sulla volta e sulle pareti. Certo, oggi gli affreschi risultano modificati rispetto alla loro identità originale, ma è difficile dire cose ne sarebbe stato senza l’intervento del Secco Suardo. A distanza di più di un secolo, quello del distacco si propone sempre come proble ma etico; si tratta di scelte dolorose, e tuttavia spesso necessarie. Lo dimostra la vicenda degli affreschi del Pordenone nel chiostro di Santo Stefano a Venezia, a favore del cui trasporto erano intervenuti, nel 1865, Giovanni Morelli, il Secco Suardo e Nicolò Barazzi, allora direttore dei Musei Civici della città lagu nare. Il trasporto non fu mai eseguito, per paura, cautela, tradizionalismo, diffidenza, e i dipinti sono stati lentamente distrutti dall’umidità 60. E’ vero che la distanza cronologica ci permette di considerare queste vicende con maggiore serenità, e oggi sappiamo che lo strappo della pellicola pittorica non è sempre il mezzo ideale per eseguire un trasporto: conservare qualche millimetro di intonaco o di imprimitura significa lasciare alla pittura, l e sue vibrazioni, le irregolarità della superficie, certe screpolature che la rendono viva. Ma non sempre questo è tecnicamente possibile; e neppure è sempre verosimile lasciare le opere nei luoghi per i quali erano state create, se il rischio del nostr o

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rispetto è, alla fine, quello della perdita. E’ allora comprensibile che, alla metà del secolo scorso, il conte Secco Suardo fosse un entusiasta dei trasporti, vedesse solo gli aspetti positivi della tecnica dello strappo, cercasse di divulgare le sue s coperte, di vincere la diffidenza ancora così diffusa. E che trovasse l’appoggio e la stima di quanti, nell’ ambiente dei conoscitori, condividevano la sua sensibilità per la con servazione del patrimonio artistico, come il Cavallucci e il Cavalcaselle, o ppure avevano una esperienza ed una cultura più internazionali, se si vuole più spregiudi cata, come il Morelli e l'Eastlake. Fu in questo periodo che il Secco Suardo maturò l’idea, poi concretamente appog giata dal Morelli, di organizzare a Firenze un corso di lezioni sul trasporto, durante il quale avrebbe svolto lezioni teoriche ed esperimenti pratici. Firenze era la capitale del regno, sede di un vivacissimo mercato antiquario, di un fiorente artigianato artistico; le sue botteghe esportavano in Eu ropa e in America, era la città delle colonie straniere, dei primitivi poco riscoperti. La scuola di restauro fiorentina, di tradizione settecentesca, si era sviluppata all’interno della Galleria delle Statue e della Palatina, e in città lavoravano restau ratori notissimi, come Antonio Marini e Gaetano Bianchi 61. D’altra parte la cerchia dei conoscitori fiorentini, con cui era in contatto il Secco Suardo, aveva, in materia di conservazione (il Morelli ne doveva essere ben consa pevole) un atteggiamento piuttosto tradizionalista. L’idea di invitare a Firenze i più importanti restauratori italiani che lavoravano per gallerie “pubbliche” e di offrire loro quello che oggi verrebbe definito un corso di aggiornamento, tenuto da un maestro che non era un restauratore di professione, ma un aristocratico dilettante, accompagnato da un unico aiuto, non fu accettato senza difficoltà. Spirito di campanilismo, tutela della propria professionalità e di una immagine fati cosamente costruita, provocarono, fin dall’ inizio una certa riluttanza ad accettare la lezione di uno “straniero”. Questo atteggiamento trapela dal carteggio fra il mar chese Feroni, che in veste di direttore delle Regie Gallerie fiorentine avrebbe ospi tato la scuola, il Morelli, il Secco Suardo, e lo stesso Ministro della Pubblica Istruzione. D’ altra parte era innegabile che verso le nuove tecniche di trasporto vi fosse anche una fortissima curiosità; per la prima volta ricette e segreti sui collanti, sulle vernici e sui solventi sarebbero state esposte senza trucchi. Il Morelli, già eletto al Parlamento, incaricato dell’Inventario degli oggetti d’arte delle Marche e dell’Umbria insieme al Cavalcaselle, e, proprio nel 1864, nominato membro della commissione che doveva formulare un progetto di leg ge sulla conservazione degli oggetti d’arte 62, appoggiò la proposta del Secco Suardo presso il Ministero e il Feroni, amico di vecchia data. Il 18 marzo del 1864 Giulio Rezasco approvò ufficialmente il corso di lezioni che si sarebbe svolto dall’11 maggio al 20 giugno dello stesso anno 63. Il primo problema da affrontare fu la scelta di coloro che avrebbero dovuto assistere alle lezioni. Nell’intento originario la scuola doveva divulgare le tecniche di tra sporto in tutte le regioni italiane. Ma i due pittori napoletani invitati, Gustavo Mancinelli e Raffaello Tancredi, abbandonarono la scuola dopo le prime lezioni; dall’Emilia Romagna, dove peraltro il trasporto dei dipinti veniva praticato fino dal

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Settecento, venne sono l’anziano Eugenio Buccinelli, infine il pubblico del Secco Suardo si ridusse a quello dei restauratori fiorentini: Ulisse Forni, Pietro Pezzati, Pietro Tanagli, Ferdinando Rondoni (che copriva la carica di ispettore comparti mentale), Giuseppe Stipetti e Oreste Cambi 64. Un “team” numericamente modesto, quanto professionale. Il Secco Suardo si trovò a lavorare in un ambiente non impreparato, ma scettico e soprattutto poco propenso ad ammettere l’inferiorità dei propri sistemi. La gelosa difesa dei primati locali, comune anche ad altri aspetti della vita culturale fiorentina, è testimoniata, oltre che dal silenzio della stampa locale, dalle espresioni del marchese Feroni, che in una lettera al Ministro precisava: “... per quanto sia da noi ben cognita la maniera dello stacco de gli affreschi dal muro e non si ignori il modo del trasporto dalla tavola e dalla tela delle pitture anti che, benché di questo non si sia fatto esperimento, mentre si ritiene non debba porsi in opera se non in casi specialissimi, e cioè quando per una pittura in tavola altro rimedio non vi sia che trasportarla in tela”. In Toscana si usava da sempre il “trasporto a massello” che consisteva nell’ asporta zione di tutto l’intonaco dal muro, oppure quello “sull’incannicciato”, che era la specialità di Gaetano Bianchi 65. L’unico straniero che aveva avuto commissioni analoghe in città era stato Giovanni Rizzoli, cui era stato allogato il trasporto delle figure equestri di Santa Maria del Fiore e della serie degli “Uomini Illustri” di Andrea del Castagno. Ma anche il Rizzoli conservava sempre l’intonaco originale, che poi assottigliava, fino a rendere flessibile la superficie cromatica. Gli affreschi staccati a questo modo conservano in certi punti anche 7 o 8 mm. di arriccio. Il gruppo dei fiorentini era dunque preparato a sperimentare qualcosa di veramente “diabolico”! La scuola del Secco Suardo fece parlare di sé: “credo che questo egregio signore”, scriveva un quotidiano torinese, “esporrà pubblicamente il risultato dei suoi studi... e farà bene per chetare le bocche maligne che, senza aver veduto ciò che può farsi con i suoi metodi, lo screditano di già, e tagliano la giubba addosso al marchese Feroni... quasi avesse commesso un “crimen lese” di archeologia, porgendogli il modo di esporre i suoi sistemi sopra certi quadracci che in mano a chiunque non varrebbero uno scudo, perché in cattivissimo stato di conservazione, e perché copie, o meno che mediocri lavori di imitatori di buoni maestri...” 66. Certo, i dipinti che, dopo molte discussioni, furono affidati al Secco Suardo, non erano dei capi d’opera, e solo i migliori sono identificabili: una “Madonna col Bambino”, di scuola umbra della fine del Quattrocento, il “Ritratto di Piero de’ Medici detto il Gottoso”, ed una “Sacra Famiglia” che rec a una vecchia attribuzione a Francesco del Brina, dispersa, della quale rimase solo una fotografia otto centesca 67. Ma c’erano anche un “dipinto su tavola tarlata, stato eseguito per metà”, “una scuo la veneta antica, preparato a tempera, poi velato e finito ad olio, eseguito sopra sottili tavole di ontano, contorta in vari sensi, fessa in due luoghi e tutta tarlata”, un “dipinto a tempera della scuola del Lippi il di cui colore sollevato cadeva a squa me”, una “tempera sopra una tavola di albero tarlato”, un “olio eseguito sopra rozza tela, e avente alcuni ritocchi che lo deturpavano”, e una “tela che per eccessiva sec-

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chezza erasi spezzata e incartocciata” 68. Se l’intenzione era quella di mettere il Secco Suardo in difficoltà, l’elenco dei pezzi da restaurare è quanto mai eloquente. Al di là della qualità dei dipinti, era lo stato di conservazione a renderli difficilmen te recuperabili. La “Sacra Famiglia” peruginesca, annota il Rondoni, era coperta di “sgonfiature e screpolature che muovonsi dalla sommità del diametro e scendono fino alla metà della testa della Vergine, indi seguono sul petto, poi sulle mani e sul manto della stessa Immagine, fino al piano stesso in cui sta genuflessa”; nonostante ciò il tra sporto riuscì bene, ed anzi, ha probabilmente salvato il dipinto, che presenta ancora una superficie cromatica compatta e aderente alla tela. Il “Ritratto” mediceo, che replica quello del Bronzino della National Gallery di Londra, costellato di “piccole fessure, stuccature e ritocchi antichi ”, è in discrete condizioni, e anche per la “Madonna” del Brina abbiamo la testimonianza positiva del Feroni in una lettera al Ministro. E in effetti il Feroni, al di là dell’ antica consuetudine che lo legava al gentiluomo bergamasco, aveva finito per riporre una certa fiducia nel suo sistema, perché pro pose di affidargli il trasporto degli affreschi di Andrea del Castagno del Monastero di Santa Maria degli Angioli. Le due Crocifissioni, opera giovanile del maestro, erano state scoperte nel 1854, in occasione dei lavori di manutenzione effettuati nel monastero, e i padri camaldo lensi ne avevano chiesto subito il permesso di alienazione. Il problema era scottante; concedere il permesso di vendita per due dipinti di Andrea, avrebbe fatto scandalo, e d’altra parte il monastero non era in grado di sostenere le spese del restauro. Il Feroni aveva pensato di risolvere la questione affidando l’intervento al Secco Suardo, e tenendo poi gli affreschi in deposito in Galleria, ma non riuscì a realizzare l’astuto progetto e i dipinti, conservati nella Sala della Presidenza dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova e al Cenacolo di Sant’ Apollonia, furono restaurati solo nella prima metà del Novecento. Il marchese ebbe maggior successo con i monaci della Badia fiorentina: i tondi con mezze figure del fregio sottostante le lunette, e l’affresco del Bronzino con “San Benedetto penitente e in estasi”, databile al 1525, del Chiostro degli Aranci, furono affidati alle cure del conte. D’altra parte, in clima di riscoperta dei primitivi, rischiare lo stacco di un Bronzino era ancora possibile, quello di un Andrea del Castagno troppo azzardato. Anche in questo caso non si trattava di interventi facili; lo strappo dei tondi, rinve nuti attorno al 1950 da Umberto Baldini in un magazzino della Galleria degli Uffizi, riuscì perfettamente, tanto che un saggio fu esposto in occasione della “Mostra di affreschi staccati” del 1957, “a mostrare lo stato ancora sano in cui si trova la superficie dipinta, non appesantita e scurita dalle vernici” 69. Ma il San Benedetto era in condizioni allarmanti: “tre sbrecciature del colore pres so il collo del Santo nudo”, e poi “spacchi e intronature dell’intonaco, uno dei quali”, segnalava il pignolissimo Rondoni, “si parte in mezzo a i piede del Santo nudo e di quello vestito, tagliando prima la veste di quest’ ultimo, di poi il volto e l’occhio sinistro del medesimo” 70. Il Secco Suardo, che come sempre lavorava con l’aiuto dello Zanchi, usò le cautele di sempre: applicò sulla superficie dell’ affresco tre strati di stoffa di cotone, in

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pezzi non più grandi di 80 cm., che voleva vecchi, lavati e stirati più volte per evitare le contrazioni della pellicola cromatica. Li fece aderire al dipinto con la “colla forte”, che era solubile nell’acqua e facile da rimuovere ad operazione conclusa. Poi applicò le pezze di cotonina l’una sull’altra, variando con cura la posizione della stoffa, per evitare lacerazioni del colore. Una volta montato l’intelaggio, lo lasciò seccare, finché esso s i staccò da solo dall’intonaco, portandosi dietro il colore. La riuscita un po’ meno felice dello strappo del Bronzino, fu dovuta ad un eccesso di zelo; le tele di cotonina appositamente fatte venire da Bologna a Firenze erano nuove, anziché, come voleva l’esperienza del conte, consumatissime, e la stoffa, cruda e ruvida lacerò le zone dove i pigmenti erano più compromessi. Quando lasciò Firenze, il Secco Suardo non portò con sé la gratitudine e l’entusia smo che forse si aspettava, ma aveva raggiunto uno dei suoi scopi: e cioé quello di stimolare un dibattito vivacissimo sulle nuove tecniche di restauro in tutta la città. E che in fondo i suoi metodi avessero convinto anche i restauratori toscani è dimo strato dal fatto che Ulisse Forni, ormai arrivato all’apice della carriera, non volle mai ammettere di essere stato un suo allievo. Il Forni e il Secco Suardo diventarono “nemici per caso”. Nel 1866 vennero stampati, quasi contemporantamente, due volumi sul restauro: quello “ragionato” del Secco Suardo, e il “Manuale del pittore-restauratore” di Ulisse Forni. Essi sono l’espressione di un diverso “vissuto”. Quando era entrato nell’organico della Galleria degli Uffizi, nel 1845, il Forni era già stimato nell’ ambiente del Purismo fiorentino e senese, aveva conoscenze influenti, era apprezzato per la sua abilità artistica e per la padronanza delle tecni che dei primitivi 71. Formatosi come “peintre-restaurateur”, eseguiva interventi di pennello di buon livello tecnico, ma sempre improntati ad una certa discrezione; prudente nelle puliture, raramente sverniciava o spatinava per timore di intaccare le velature originali, e quando aveva qualche perplessità sui risultati, preferiva astenersi dall’intervenire: era insomma il perfetto interprete delle consuetudini fiorentine. Ideale rappresentante di quella “tranche” di cultura italiana che, sentendosi deposi taria di una grande tradizione, diffidava di ogni novità tecnica, Ulisse Forni impo stò il suo manuale sul principio, tradizionalissimo, dell’iden tità di pittore e restauratore. Proprio il titolo dell’ opera ripropone, in una parola, la fisionomia settecentesca del “peintre-restaurateur”, con tutta l’ambiguità delle sue competenze. “Per riuscire valente restauratore bisogna prima di tutto esser p ittore”: in questo incipit Ulisse Forni tradiva non solo la sua esperienza personale, ma i limiti di una mentalità che per secoli aveva confuso conservazione, restauro, arte e contraffa zione. Il volume del Secco Suardo, cui il conte aveva dato gli ulti mi ritocchi al rientro da Firenze, e già pronto all’inizio del 1865, era diversissimo per impostazione e contenuti. Il libro, fu pubblicato nel 1866 poiché il gentiluomo non trovò un editore disposto ad investire nel suo lavoro, e lo dovette stampare a sue spese. Forse anche per questo egli mandò in tipografia solo la metà di quanto aveva scritto; i capitoli sulla

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“risarcitura”, sul “trasporto” delle tavole e delle tele, sul “distacco dei freschi”, sulla “foderatura”. Il ricettario pubblicato in calce al volume è limitato agli ingredienti necessari alle operazioni descritte. Dunque, la coincidenza delle date, che tanto amareggiò il Forni e il Secco Suardo, non è affatto significativa. Per il gusto del tempo, l’opera del conte Giovanni, scar na, tecnica, diretta, poteva essere confusa per un manuale di falegnameria. Ma furono proprio i suoi contenuti, quel termine “meccanico” inserito nel titolo, con la sua allusione a tecniche ancora poco conosciute, ad attrarre la curiosità di tanti restauratori; sicché il libro andò in breve tempo esaurito. Esso è una preziosa raccolta di tecniche, minutamente descritte insieme agli ingre dienti, alle ricette e agli strumenti necessari alla loro applicazione; è anche il primo tentativo di individuare un metodo, un principio per la conservazione dei dipinti 72. L’opera, dedicata a Giovanni Morelli, si apre con una serie di considerazioni sull’idea del restauro, la sua necessità, i suoi limiti, le ragioni che avevano provo cato la diffidenza verso le pratiche in uso nelle botteghe: “a scorticare un quadro con gli alcali bastano pochi secondi, a pulirlo completamente senza cagionargli un guasto assoluto potrà occorrere un paio d’ore, a pulirlo moderatamente, senza peri colo di intaccare le velature... non basta un giorno. ecco i frutti della fretta e quelli della pazienza: la prima sciupa, la seconda conserva”. Superata la seducente immagine del “peintre-restaurateur”, nel manuale del conte Giovanni, pittore e restauratore acquistano due fisionomie distinte, r appresentano due diverse categorie professionali. Il Secco Suardo voleva scrivere un testo nuovo: chiaro e semplice, organico, facil mente consultabile per il conoscitore, e di concreto aiuto per il restauratore. Sul mercato non esisteva niente di simile. Lo distinguono dal manuale del Forni e dalle pubblicazioni non italiane che circolavano negli ambienti amatoriali, e ne determinarono la fortuna editoriale, la sua trasparenza, la sua precisione, anche una certa pignoleria nel descrivere ogni intervento caso per caso, ogni operazione minuto per minuto, gesto dopo gesto. “Tele il cui colore staccasi dalla mestica, tele dalle quali il colore cade polverizzan dosi, tele che abbandonate si arricciarono, tele che si essiccarono, freschi ripassati a secco, freschi imbrattati di untume, freschi invasi dal nitro...”, recita il manuale; in un’ epoca in cui si usavano ancora senza tante distinzioni olio di lino e acqua ragia, o si consumavano liberamente i “beveroni” alla moda, gli insegnamenti del Secco Suardo rappresentarono una concreta novità. Il che non significa che l’autore non abbia i suoi cedimenti, e non sia l’erede di una tradizione in parte amatoriale; anche per il conte Giovanni il restauro di pennello è una necessità, e ne insegna le tecniche, dalle più sagge alle più scaltre, ma aveva ben chiaro il senso del limite, della misura dell’integrazione, in fondo, del gusto. Ma, a differenza degli amici restauratori, anche i più colti e raffinati, il Secco Suardo era convinto che restaurare un quadro non significava mettere una toppa al suo degrado, renderlo godibile ancora per una generazione, piuttosto fare un intervento studiato per la sua conservazione nel tempo. Fu anche per questo che egli dedicò tanta pazienza alla diffusione del suo lavoro. Gli anni trascorsi a Lurano, tra il 1864 e il 1873, data della sua morte, furono in gran parte passati alla scrivania, a scrivere, a studiare, a riflettere.

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La sua corrispondenza col Morelli, col Fumagalli, con gli amici fiorentini e lom bardi, certo meno piccante di quella degli anni del collezionismo, rivela, da ambo le parti, una minore curiosità, ma acquista un sapore profondamente umano. Il linguaggio delle lettere si fa semplice, familiare; racconta al Morelli di aver deci so di “lasciarsi scorticare dai librai”, e di aver anticipato 77 franchi per la stampa del Manuale, e l’amico gli scrive lamentandosi delle insidie e della corruzione che incontra nell’ambiente politico. Al Brentani e a Gerolamo D’Adda, il conte confida la sua amarezza per l’atteggiamento del Brisson e del Mongeri: nelle parole degli amici si leggono stima e solidarietà, non solo formali. Gli anni.del collezionismo, dei viaggi, degli esperimenti, sono ormai lontani. Nel 1865 il conte Giovanni dona all’ Accademia Carrara i più importanti fra i disegni della sua raccolta, 200 fogli di “architetture” di Giacomo Quarenghi, e una decina di pezzi minori, pregando il Brentani di “scegliere quelli che in qualche guisa ponno essere utili ad una Accademia”. Vende quanto rimane della sua collezione di dipinti, ad eccezione delle “Nature” del Bettera e dei ritratti di famiglia, ed investe tutto nella pubblicazione del suo libro. Ma anche a stesura finita, prosegue i suoi studi: nell’inverno del 1864, poco pr ima di recarsi a Firenze, abbozza un saggio sui primi estrattisti francesi e italiani: Robert Picault, François Louis Colins, Paul Kiewert, Giacomo Succi, Antonio Contri, Giovanni Rizzoli. Un prezioso inedito di storia del restauro, rimasto mano scritto fra i suoi appunti. Nel 1865 incontra a Milano Carl Vogt per vedere di persona i risultati degli esperi menti eseguiti con la “Pettenkofersche Regenerierverfahren”, che aveva fatto tanto scalpore a Monaco di Baviera e a Londra 73. Anche gli appunti stesi dopo l’incontro col Vogt, e le succesive discussioni col Morelli, incaricato di presiedere la commissione convocata a Firenze per valutare l’esito degli esperimenti eseguiti dal chimico tedesco agli Uffizi, rimasero mano scritti. Furono pubblicati nel 1894, nell’edizione completa del Manuale, a tre anni di distanza dalla prima traduzione italiana del volume dello studioso bavarese 74. Il conte Giovanni riprende gli studi giovanili sulle tecniche pittoriche, e nel 1870 e nel 1872 pubblica due saggi sulla rivista “L’Arte in Italia” 75, ma la maggior parte del suo tempo è dedicata alla diffusione del Manuale. Sinceramente convinto che le tecniche di restauro vecchie e nuove dovessero diventare un patrimonio comune, essere conosciute, sperimentate e discusse dalle nuove generazioni di restauratori, egli ne scrive agli amici e ai conoscenti. Eruditi, restauratori, collezionisti e bibliofili: Giulio Arrivabene, Carlo di Belgioioso, Eugenio Buccinelli, Paul Kiewert, Giorgio Campani, Serapione Colombini, Carlo Goldoni, Michelangelo Gualandi, Stepan Aleksandrovic Gedeonov. Il conte Secco Suardo ottenne i riconoscimenti che si devono ad un gentiluomo, la nomina a Cavaliere dell’Ordine mauriziano, di Socio Onorario delle Accademie di Urbino, Torino e Milano, e tuttavia la sua morte, nel 1873, passò quasi inosservata. Anche il suo lascito, in apparenza modesto, non fece scalpore; alla Biblioteca Civica di Bergamo andarono i suoi manoscritti, gli appunti, le carte, i disegni, la biblioteca, all’Accademia Carrara i quadri più importanti della sua collezione, al

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giovane Luigi Cavenaghi la sua cassetta di colori. La sua memoria rimane nella tra dizione che ha lasciato nella propria cittĂ , una scuola che, attraverso Antonio Zanchi, Giuseppe Steffanoni e i figli Attilio e Francesco ha fatto dei restauratori bergamaschi i maestri del trasporto degli affreschi.

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NOTE

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Il Manuale ragionato per la parte meccanica dell'Arte del Ristauratore di dipinti fu stampato nel 1866 dalla tipografia milanese di Pietro Agnelli. L’opera fu pubblicata a spese dell’autore in una versione ridotta rispetto all’originale, conservato presso la Biblioteca Civica A. Mai di Bergarno, cui andò per lascito testamentario. Al manoscritto, che reca il titolo Precetti sull’ arte del Ristauratore di dipinti, sono allegati disegni di strumenti, ricettari e minute. Comprende, oltre ai capitoli relativi al trasporto, al risarcimento, alla parchettatura e alla foderatura dei dipinti, pubblicati nel 1866, anche le parti sulla pulitura e sul restauro pittorico. L’opera fu ristampata per intero solo nel 1884, per volontà degli eredi di Giovanni Secco Suardo, col più agile titolo de Il Ristauratore di dipinti. Testo unico nel suo genere, il Manuale è stato ristampato dalla Hoepli nel 1918, nel 1927, nel 1979 e nel 1992. La stessa casa editrice nel 1961 pubblicò il volume, curato da Gino Piva, L’arte del Restauro, che contiene una sintesi dei metodi di restauro del Secco Suardo. Nessuna di queste edizioni è accompagnata da un apparato ciritco-filologico. 2

Cfr. Fede di nascita di Giovanni Secco Secco suardo, 23.8.1798. Lurano, Archivio Secco Suardo (da ora in poi A.S.S.). La gran parte dei documenti relativi alla vita e all’attività del nobiluomo bergamasco sono conservati presso l’ archivio privato della famiglia, per il quale rimando al capitolo “Le fonti manoscritte”, in questo stesso volume. Quando non segnalato diversamente si tratta di originali autografi, inediti. 3

Giovan Battista Moroni (1520-1578), Ritratto del cavaliere Pietro Secco Suardo, (datato 1563, Firenze, Uffizi, n. 906); cfr. M. Gregori, Giovan Battista Moroni, in I Pittori Bergamaschi. Il Cinquecento, III, Bergamo 1979, p. 259, n. 103. Carlo Ceresa (1609-1679): Il conte e cavaliere Galeazzo Il Secco Suardo di Moasca a tre anni, (datato 1653, già Lurano, collezione Secco Suardo); Il conte e cavaliere Giovanni Secco Suardo di Moasca, (già Lurano, collezione Secco Suardo); Ritratto di giovinetta Secco Suardo, (già Lurano, collezione Secco Suardo); Il conte e cavaliere Galeazzo Secco Suardo signore di Moasca a 10 anni (Milano, collezione privata) per i quali cfr. L. Vertova, Carlo Ceresa, in I Pittori Bergamaschi. Il Seicento, II, Bergamo 1984, pp. 584-585, 589 . Fra’ Galgario (1655-1743): Ritratto del conte Giovanni Secco Suardo col servitore (Bergamo, Accademia Carrara n. 38/758); Ritratto del conte Girolamo Secco Suardo (Bergamo, Accademia Carrara, n.47/759); Ritratto di Galeazzo Secco Suardo (già Bergamo, collezione privata, acquistato dal Museo del Louvre nel 1994); Ritratto di un conte Secco Suardo (Milano, collezione privata), Ritratto di un conte Secco Suardo (Milano, collezione privata); Ritratto di un conte Secco Suardo (Milano, colle-zione privata); Ritratto di Laura Camilla Secco Suardo in abito maschile (Roma, collezione privata) cfr. M. C. Gozzoli, Vittore Ghislandi detto Fra’ Galgario, in I Pittori Bergamaschi. Il Settecento, I, Bergamo 1981, pp. 102, 104, 106-107, 121, 125. 4

Per le vicende della famiglia Suardo e del ramo Secco Suardo cfr. M. Lupo, Genealogia della nobile famiglia Suardi di Bergamo (1770-1789), ms. Lurano, A.S.S.; nell’archivio sono conservati anche alcuni alberi genealogici della famiglia. Per Bartolomeo Secco Suardo (1796-1862), autore del “Catalogo generale della pubblica Biblioteca Comunale della regia Città di Bergamo compilato per studio e fatica del conte Bartolomeo Secco Suardo”, nonché di odi e carmi di matrice romantica e la raccolta di poesie, Il mio secolo (Milano 1841) che ispirò al Porta il notissimo sonetto A un contin bergamaschin, cfr. G. Donati Petteni, Eruditi e letterati minori dell’Ottocento bergamasco, in “La Rivista di Bergamo”, 1928, pp. 3 sgg.; M. E. Manca, Microstoria di un manoscritto, in Guida di Bergamo del conte Girolamo Marenzi, Bergarno, 1985, pp. 36-37; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, VII, Bergamo 1989, pp. 80, 82, 85-86, 86 n., 151 n., 164, 171. Di Giulio Cesare, in particolare, si ricorda la traduzione delle Poesie complete (con cenni biografici) di Heinrich Heine (Torino, ed. Casanova 1886).

38


Cfr. G. Secco Suardo, Sulla scoperta ed introduzione in Italia dell’odierno sistema di dipingere ad olio, Milano, tipo Bernardoni, 1858; il lavoro è preceduto da una dedica al marchese Gerolamo D’Adda datata 15 ottobre 1858. 5

6

Cfr. Rogito di Sponsali, 29 gennaio 1828. Lurano, A. S. S. Faldone V, Patti nuziali, c. 35.

7

Cfr. Incarico di Deputato della città di Bergamo presso la Congregazione Centrale di Milano, 24 gen-naio 1831; 16 luglio 1831; 9 ottobre 1842; aprile 1858. Lurano, A.S.S. 8

Cfr. C. Perogalli, Guida ai venti castelli lombardi, Roma, 1965; C. Perogalli, M. G. Sandri, Le ville delle province di Bergamo e Brescia, Milano, 1963. La residenza di Lurano è in attesa di una ricognizio-ne più approfondita. Lo stretto legame che unì Giovanni Secco Suardo al marchese Gerolamo D’Adda, collezionista, bibliofilo e conoscitore, legato a Morelli, e a Giuseppe Mongeri, è testimoniato dal fatto che il conte Giovanni gli dedicò i suoi primi studi. Della loro amicizia non è rimasta quasi testimonianza epistolare, come accade per tutti coloro che il Secco Suardo frequentava quotidianamente a Milano. Tuttavia, quando dopo il suo rientro a Bergamo il conte si adoperò per salvare gli affreschi di Giovan Battista Castello esistenti in una proprietà del Principe Andrea Giovannelli, fu il marchese Gerolamo a metterlo in contatto con l’anziano aristocratico, e, alla sua morte, con il figlio, Principe Giuseppe. 9

10

Per la figura di Giuseppe Molteni e la bibliografia relativa rimando ai saggi di A. Conti, A. Mottola Molfino, A. Morandotti, pubblicati in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Bergamo, 1993. Cfr. anche C. Giannini, Lessico del restauro, Firenze, 1992, pp. 53 sgg. 11

Cfr. C. Giannini, cit., 1992.

12

Cfr. C. Giannini, cit., 1992, pp. 53 sgg.; Id., Giovanni Morelli e il conte Secco Suardo; restauro, conservazione e connoisseurship nel secondo Ottocento lombardo, in Giovanni Morelli..., 1993, pp. 199-220. 13

Lettera di Bartolomeo Secco Suardo a Giovan Battista Niccolini, 3.1.1842. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, vari 66. 168. Cfr. C. Giannini, cit., in Giovanni Morelli..., 1993, pp. 199-220. 14

Lettera di Giovanni Morelli a Gino Capponi, 3.12.1842. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Raccolta Capponi, X, 7-8; pubbl. in Lettere di Gino Capponi, vol. Il, 1863, n. 170, pp. 143-145. 15

Per la figura di C. J. Cavallucci cfr. C. Giannini, cit.., in Giovanni Morelli..., 1993, pp. 215-216 e la bibliografia relativa. Per l’ambiente fiorentino cfr. C. Giannini, cit., 1992. 16

Per i rapporti fra Giovanni Morelli e Giovan Battista Cavalcaselle rimando ai lavori di Giacomo Agosti e di Donata Levi. D. Levi, L’officina di Crowe e Cavalcaselle, in “Prospettiva”, 26, 1981, pp. 174 sgg.; G. Agosti, Giovanni Morelli corrispondente di Niccolò Antinori, in Studi e Ricerche di collezionismo e museografia, Pisa, 1985, p. 7; D. Levi, Cavalcaselle, Torino, 1988. Per i diversi orientamenti di Morelli e Cavalcaselle nel campo della tutela cfr. A. Conti, Giovanni Morelli e il restauro amatoriale, in Giovanni Morelli..., 1993, pp. 157-177. 17

Lettera di C. Jacopo Cavallucci a Giovanni Secco Suardo, 4.6.1867. Lurano, A.S.S.; cfr. C. Giannini, Giovanni Secco Suardo restauratore e teorico. Appunti per una prima ricostruzione dei lavori eseguiti in ambiente lombardo, in “Paragone”, 437, 1986, pp. 68-75. 18

Cfr. C. Giannini, Note sul restauro italiano del secondo Ottocento. La scuola fiorentina di Giovanni Secco Suardo e il Morelli, in “Paragone”, 391, 1982, pp. 44-55. C. J. Cavallucci, De’ restauri operati nella chiesa di Santa Croce in Firenze, in “L’Arte in Italia”, III, 1871, pp. 54 sgg; Id., Distacco dell’ affresco rappresentante il Giudizio Universale dipinto da Baccio della Porta e Mariotto Albertinelli operato dal cav. G. Botti di Pisa, ivi, IV, 1872, pp. 11 sgg. 19

20

Cfr. C. Giannini, cit.., in Giovanni Morelli..., 1994, pp. 199-220.

21

Lettera di Giovanni Secco Suardo al figlio Giulio Cesare, 24.8.1869. Lurano, A.S.S.

39


22

Il diario di viaggio di Giovanni Secco Suardo è costituito da uno stralcio di quaderno acefalo, composto di 56 fogli manoscritti, che si conserva presso l’archivio di Lurano. Il ms., preziosissimo per l’abbondanza di informazioni sui singoli oggetti, sulle collezioni, e sugli edifici visitati dal Secco suardo, oggi in gran parte distrutti, rappresenta la seconda parte di questo volume. Al testo originale, all’apparato di note e ai saggi introduttivi, rimando per una lettura critica più dettagliata di questo vivacissimo documento. 23

Cfr. G. Frizzoni, I due successivi prospetti del Teatro Reale di Dresda, in "Emporium", II, 1895, pp. 138-140. 24

Cfr. G. Agosti, cit.., 1985, pp. 6-7.

25

Per quanto riguarda i criteri espositivi, le idee abbozzate dal Secco Suardo negli anni Quaranta coinci- dono con gli orientamenti più tardi espressi da Giovanni Morelli. Si rileggano le pagine dedicate da Matteo Panzeri all’ allestimento delle sale dell’Accademia Carrara di Bergamo, dove fu collocata la collezione Morelli da Gustavo Frizzoni, che si fece interprete del pensiero dell’amico, con il quale aveva condiviso la propria esperienza di connoisseur. Cfr. M. Panzeri, La raccolta Morelli nell’Accademia Carrara di Bergamo: un’ ipotesi ricostruttiva del primo allestimento, in “Archivio Storico Bergamasco”, n. 5, 1985, pp. 76-69. Cfr. Karl Friedrich Schinkel als Mensch und als Kunstler, cit. in 1781/-1841 Schinkel l’architetto del Principe. Catalogo della mostra, Venezia 1982. 26

27

Al Palmaroli era stata affidata la revisione dei quadri della galleria di Dresda fra il 1826 e il 1827. Con questo lavoro il restauratore raggiunse una fama europea, ma divenne anche uno dei bersagli polemici delle nuove generazioni di conoscitori. Cfr. A. Conti, Storia del restauro, Milano, 1988, pp. 228, 229, 233. 28

Cfr. C. Giannini, cit.., 1992, pp. 113-123.

29

Per la ricetta del beverone, le sue applicazioni e le sue varianti cfr. C. Giannini, cit.., 1992, pp. 7071. 30

Per la figura del conte Teodoro Lechi cfr, C. Giannini, Contributo per una storia del restauro ottocentesco: il Manuale di Giovanni Secco Suardo, in “Archivio Storico Bergamasco”, 13, 1987, pp. 236-37 e la bibliografia relativa. Per Bortolo Fumagalli cfr. C. Giannini, Bortolo Fumagalli, in I pittori Bergamaschi dell’ Ottocento, I, Bergamo, 1993, pp.198-205; Id., Restauratori a Bergamo nel primo Ottocento. Bortolo Fumagalli e la sua bottega, ivi, II, pp. 15-19 31

32

Per Giuseppe Fumagalli cfr. C. Giannini, Giuseppe Fumagalli 1863: restauri in Accademia Carrara, in “Osservatorio delle Arti”, 4, 1990, pp. 102-107; Id., cit.., 1992, pp. 53 sgg. 33

Lettera di Giuseppe Fumagalli a Giovanni Secco Suardo, 20.10.1949. Lurano, A. S. S.

34

Per Giuseppe Guizzardi, cfr. A. Conti, cit.., 1988, p. 237.

35

Lettera di Giuseppe Guizzardi a Giovanni Secco Suardo, 20.4.1852. Lurano, A. S. S.

36

Lettera di Giuseppe Guizzardi a Giovanni Secco Suardo, 13.2.1853. Lurano, A. S. S.

37

Lettera di Giuseppe Fumagalli a Giovanni Secco Suardo, marzo 1853. Lurano, A. S. S.

38

Lettere di Giuseppe Fumagalli a Giovanni Secco Suardo, 22 e 28.3. 1855. Lurano, A. S. S. L’episodio è ricordato da Alessandro Conti, che cita un brano della lettera di Giuseppe Fumagalli; cfr. A. Conti, cit.., in Giovanni Morelli..., 1993, p. 160. Per l’origine e la storia delle tecniche di trasporto cfr. A. Conti, cit.., 1988, pp. 119 sgg.; C. Giannini, Aspetti del lessico tecnico del Sei e Settecento nel Manuale di restauro del conte Secco Suardo, in Convegno Nazionale di Studi sui lessici tecnici del Sei e Settecento, Pisa, 1980, pp. 421443. 39

40

Cfr. C. Giannini, cit.., 1992, pp. 53 sgg. e la bibliografia relativa.

40


41

Cfr. C. Giannini, Frammenti di diario, lettere e restauri di un connoisseur, in “Kermes”, 13, 1992,

pp. 53-59 42

Lettera di Giuseppe Fumagalli a Giovanni Secco Suardo, settembre 1852. Lurano, A.S.S.

Cfr. T. Lejeune, Guide théorique et pratique de l’ amateur des tableaux, Paris, 1863; per la manualistica francese cfr. C. Giannini, cit.., 1992, pp. 85 sgg. 43

44

Per Alessandro Brisson cfr. C. Giannini, cit.., 1988, pp. 74-95; Id., cit.., 1992, pp. 54 sgg.

45

M. G. Recanati, in I Pittori Bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Le Origini, Bergamo 1992, pp. 324- 332. 46

Per un confronto fra le tecniche usate in Francia e in Italia cfr. C. Giannini, cit..,1980, pp. 421-443; Id., cit.., 1992, pp. 103, 134, 170. 47

Il dipinto è identificabile con il San Pietro in trono con i Santi Giovanni Battista e Paolo, di Cima da Coneg1iano della Pinacoteca di Brera (inv. nap. 373; inv. gen. 189; reg. cron. 292). Cfr. P. A. Curti, Del trasporto dei dipinti antichi, in “Politecnico”, XXI, 1864, pp. 353-369; A. Conti,cit.., 1988, p. 354, nota 44; C. Giannini, cit.., 1987, p. 247; P. Humprey, in AA.VV., Pinacoteca di Brera. Scuola Veneta, Milano, 1990, p. 118, scheda 59. Conferimento di una medaglia d’argento del Regio Istituto Lombardo di Scienze Lettere ed Arti, Milano, 9.8. 1863. Lurano, A. S. S. 48

49

Cfr. “La Lombardia”, n. 11, 20.4.1864; n. 114, 23.4.1864.

50

Cfr. Della trasposizione delle pitture antiche, (siglato M.G.) in “La Perseveranza”, 12.5.1864

51

Per i trasporti eseguiti dal Secco Suardo in Lombardia cfr. C. Giannini, cit.., 1986; Id., cit..,1987, pp. 230-231 e la bibliografia relativa. 52

Cfr. C. Giannini, cit.., 1990, pp. 102-107; Commissaria Carrara di Belle Arti di Bergamo, Protocollo di Consiglio, 7.1.1863; 21.3.1864; lettera di Giovanni Secco Suardo a Giovanni Brentani, 14.1.1867. Lurano, A.S.S. 53

Per Antonio Zanchi cfr. M. Panzeri, Teoria e prassi del restauro bergamasco tra secondo Ottocento e primo Novecento, in l Pittori Bergamaschi dell’ Ottocento, III, Bergamo, 1993. 54

Lettera di A. Zanchi a G. Fumagalli, s.d. (ma ante dicembre 1865); lettera di G. Secco Suardo a G. Fumagalli, s.d. (ma ante dicembre 1865), in Precetti sull’ Arte del Ristauratore dei dipinti, ms., 186465, cc. 35-48. Bergamo, Bibl. Civ. A. Mai. 55

Per la donazione e il restauro della tavola gaudenziana cfr. Lettera di Giovanni Morelli a Giovanni Secco Suardo, 26.8.1864. Lurano, A. S. S. Per la ricostruzione dell’ intera vicenda cfr. C. Giannini, cit.., in Giovanni Morelli..., 1993, pp. 205, 209-10 e note 35, 56, 57. 56

57

Per gli affreschi di G. B. Castello cfr. A. Pasta, Le pitture notabili di Bergamo, Bergamo, 1775, p. 108; F. M. Tassi, Vite dei Pittori, Scultori e Architetti Bergamaschi, Bergamo, 1793, p. 156; G. Be1tramel1i, Postille alle ‘Vite’ del Tassi, ms. Bergamo, 1797-1814 ca., c. 32; ed. a cura di Franco Mazzini, Milano 1969, p. 149; G. Suardi, Trescore e il suo distretto, Bergamo, 1853. Per le vicende conservative del ciclo cfr. Lettera di Gerolamo D’Adda a Giovanni Secco Suardo, 5.5.1865; lettera di Giovanni Secco Suardo a Giuseppe Giovanne1li, 19.2.1867. Lurano, A.S.S. Lettera di Giovanni Secco Suardo a Andrea Giovannelli, dicembre 1865, Bergamo, Bib1. Civ. A. Mai. 58

G. Rosso Del Brenna, Giovan Battista Castello, in I Pittori Bergamaschi. Il Cinquecento, II, Bergamo, 1976. Cfr. P. Vimercati Sozzi, Un’opinione spontaneamente subordinata al giudizio del pubblico imparziale, letta ed approvata nèlla seduta del 29 marzo della Commissione provinciale per la Conservazione dei Monumenti di Belle Arti, Bergamo, 1866; G. Secco Suardo, Osservazioni ad una opinione di Paolo Vimercati Sozzi, Milano, tip, Agnelli, 1866. 59

41


60

Lettera di Niccolò Barazzi a Giovanni Secco Suardo, 13.2.1868; minuta di Giovanni Secco Suardo a Niccolò Barazzi, 16.2.1868. 61

Per la tradizione fiorentina e la tutela del patrimonio artistico in Toscana cfr. C. Giannini, Restauro e direzione museale a Firenze fra amministrazione lorenese e sabauda (1849-1864), in “Critica d’Arte”, 19, 1989, pp. 87-93; Id., Accenni sulle influenze straniere in alcuni episodi di restauro fiorentino, in L’ Idea di Firenze. Temi e interpretazioni nell’ arte straniera dell’ Ottocento, Firenze, 1989, pp. 139-141 Per l’attività politica di G. Morel1i cfr. C. Fenili, Note sull’attività politico-parlamentare di Giovanni Morelli, in La figura e l’opera di Giovanni Morelli. Materiali di ricerca, “Bergomum”, LXXXII, n. 2, 1987, pp. 51-61. 62

63

Cfr. C. Giannini, cit., 1982, e la bib1iografia relativa, per le fonti documentarie.

64

Per Ferdinando Rondoni cfr. C. Giannini, I restauri ottocenteschi della Collegiata di Empoli. Appunti per una ricostruzione storica, in “Bollettino Storico Empolese”, VIII, 7-8, 1986, pp. 373-395 65

Cfr. C. Giannini, cit.., 1992, pp. 61, 80,121.

66

Cfr. “Gazzetta di Torino” 15.6. 1864.

67

Scuola umbra, Sacra Famiglia, Firenze, Galleria Palatina inv. 1890/5049; replica da Agnolo Bronzino, Ritratto di Piero de’ Medici detto il Gottoso, Firenze, Galleria Palatina inv. 1890/2122. Elenco delle opere esposte al pubblico dopo aver subito l’operazione di trasporto durante il corso di lezioni tenuto a Firenze dal conte Giovanni Secco Suardo, Firenze, giugno 1864. Firenze, Archivio Soprintendenza Gallerie (da ora in poi A.S.G.), 1864, n. 64. 68

69

Cfr. Mostra di affreschi staccati. Catalogo a cura di U. Baldini e L. Berti, Firenze, 1957, I, p. 70.

70

Per lo stato di conservazione dei dipinti che furono affidati al Secco Suardo cfr. Rapporto presentato al marchese Paolo Feroni. Firmato: Carlo Milanesi, Ettore Franchi, Ferdinando Rondoni, Ulisse Forni, Giovanni Secco Suardo. Firenze, A. S. G.; 1864, n. 64. 71

Cfr. C. Giannini, cit.., 1992, pp. 113 sgg.

72

Cfr. C. Giannini, cit.. 1987; Id., cit.., 1992, p. 124 sgg.

73

Per Maximilian Pettenkofer cfr. H. Althoefer, Max von Pettenkofer, in Das 19. Jahrhundert und die Restaurierung. Beitrage zur Malerei, Maltechnik und Konservierung, München, 1987, pp. 305-307; M. Voets, Das Pettenkofersche Regenierverfahren, ivi, pp. 308-310. 74

Cfr. U. Valentinis, La riparazione dei dipinti secondo il metodo Pettenkofer, Udine, 1891.

Cfr. G. Secco Suardo, Pensieri sulla pittura ad encausto, ad olio e a tempera, in “L’Arte in Italia”, Torino, 1870; Id., Nuovi studi sulla pittura degli antichi, ivi, 1872. 75

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INDICE DEI RESTAURI

B ARTOLOMEO BETTERA (Bergamo, 1639 - Milano, post 1668) Strumenti musicali con astrolabio Bergamo, Accademia Carrara n. 760 Restauri: risarcitura e restauro di pennello, 1850 ca. Bibl.: G. Secco Suardo, 1894, I, 223-224; A. Locatelli Milesi, 1917, pp. 29-31; F. Rossi, 1979, pp. 295-296; G. Giannini, 1982, p. 71; F. Rossi, 1989, p.26 B ARTOLOMEO BETTERA (Bergamo, 1639 - Milano, post 1668) Strumenti musicali Bergamo, Accademia Carrara n. 761 Restauri: risarcitura e restauro di pennello, 1850 ca. Bibl.: come sopra C IMA DA C ONEGLIANO (Conegliano, 1459/60 - 1517/18) San Pietro in trono con i Santi Giovanni Battista e Paolo Milano, Pinacoteca di Brera, inv. nap. 373; inv. gen. 189; reg. cron. 292 Restauri: olio su tavola, già trasportato su tela, nuovamentre sottoposto a trasporto nel 1857. Lavoro eseguito in collaborazione con Alessandro Brisson. Bibl. : P. A. Curti, 1864; A. Conti, ed. 1988, p. 354, nota 44; C. Giannini, 1987, p. 247; P. Humprey, in AA.VV., Pinacoteca di Brera. Scuola Veneta, Milano, ,1990, p. 118, scheda 59. M AESTRO DELL’ ADORAZIONE D EI MAGI (ambito) 1360-1370 ca. Salvataggio di una fanciulla dal pozzo Frammento di un ciclo affrescato, da una casa di città alta in Bergamo. Lurano, coll. Secco Suardo Restauri: strappo, 1855 ca. C. Giannini, 1986, p. 71; 1987, p. 247; M. G. Recanati, 1992, pp.324 -332 G IOVANNI S TEFANO S COTTI (Milano, 1485-1520 ca.) Compianto su Cristo morto Bergamo, Accademia Carrara n. 757 Restauri: strappato dalla chiesa di Santa Marta a Monza, 1860 ca. Bibl.: A. Locatelli Milesi, 1917, pp. 29-31; F. Rossi, 1979, p. 87; C. Giannini, 1986, p. 71; 1987, p. 247; F. Rossi, 1988, p. 284. M AESTRO D I SAN FRANCESCO (fine sec. XIV) Madonna in trono con i Santi Caterina e Francesco e due offerent Bergamo, Accademia Carrara n. 748 Restauri: strappo, 1860 ca. Bibl.: F. Rossi, 1979, p. 26; C. Giannini, 1986, p. 71; 1987, p. 247

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M AESTRO DI SAN FRANCESCO (fine sec. XIV) Madonna in trono coi Santi Bartolomeo, Caterina e due offerenti Bergamo, Accademia Carrara n. 749 Restauri: strappo, 1860 ca. Bibl.: come sopra P ALMA IL G IOVANE (Venezia, 1548 ca. - 1628) Cristo e la Maddalena Milano, Accademia di Belle Arti Restauri: trasportato su tela, 1862. Lavoro eseguito in collaborazione con Alessandro Brisson. Bibl.: P. A. Curti, 1864 V ITTORE GHISLANDI detto FRA ’ G ALGARIO (Bergamo, 1655-1743) Ritratto del Conte Giovanni Secco Suardo col servitore Bergamo, Accademia Carrara n. 758 Restauri: pulitura, prima del 1864 Bibl.: G. Secco Suardo, 1894, Il, p. 42; F. Rossi, 1979, p. 350; C. Giannini, 1986, p. 71; 1987, p. 247; F. Rossi, 1989, p.91 A NTONIO M ARIA DA C ARPI (sec. XV) Madonna col Bambino Bergamo, Accademia Carrara n. 186 Restauri: trasportato su supporto in tela, 1863; già restaurato da A. Brisson nel 1835 Esposizioni: Esposizione Universale di Parigi, 1867 Bibli.: G. Secco Suardo, 1894, I, pp. 80-83; F. Rossi, 1979, p. 73; G. Giannini, 1986, p. 71; 1987, p. 247; 1988, p. 84 V ITTORE GHISLANDI detto FRA ’ G ALGARIO (Bergamo, 1655-1743) Ritratto del Conte Bartolomeo Secco Suardo Collezione privata Restauri: intelatura, prima del 1865 M AESTRO DI S. N ICOLO’ AI CELESTINI (sec. XIV) Madonna col Bambino Bergamo, Accademia Carrara n. D/1 Restauri: strappato dall’ absidiola esterna della chiesa di Santa Maria Maggiore a Bergamo, 1864 Bibl.: F. Rossi, 1979, pp. 26-27; C. Giannini, 1986, p. 71; 1987, p. 248; M. G. Recanati, 19992, p. 440, n. 25. M AESTRO DELLE N OZZE M ISTICHE (sec. XIV) Nozze mistiche di Santa Caterina e un devoto Bergamo, Accademia Carrara n. D/3 Restauri: strappato dalla chiesa di Santa Maria Maggiore a Bergamo, 1864 Bibl.: F. Rossi, 1979, pp. 26-27; C. Giannini, 1986, p. 71; 1987, p. 248; M. G. Recanati, 1992, p. 430, n. 21.

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FRANCESCO DEL B RINA E AIUTI (fine sec. XVI) Sacra Famiglia Disperso; già Firenze, Galleria degli Uffizi, depositi Restauri: trasportato su supporto in tela, 1864 Bibl.: C. Giannini, 1982; 1987, p. 248 S CUOLA UMBRA (fine sec. XV) Sacra Famiglia Firenze, Galleria Palatina inv. 1890/5049 Restauri: trasportato da tavola in tela, 1864 Bibl.: come sopra S CUOLA DI AGNOLO BRONZINO (sec. XVI) Ritratto di Piero de’ Medici detto il Gottoso Firenze, Galleria Palatina inv. 1890/2122 Restauri: trasportato da tavola in tela, 1864 Bib1.: come sopra AGNOLO B RONZINO (Firenze, 1503 -1572) San Benedetto fra le spine e in estasi Firenze, Badia Fiorentina Chiostro degli Aranci Restauri: strappo, 1864 Bib1.: A. Conti, 1982; C. Giannini, 1982; 1987, p. 248; 1992, p. 130 M AESTRO DEL CHIOSTRO DEGLI A RANCI ( sec. XV) Frammenti del fregio affrescato sottostante le lunette del chiostro Firenze, Badia Fiorentina Chiostro degli Aranci Restauri: strappo, 1864 Esposizioni: Mostra di affreschi strappati, Firenze, 1957 Bib1.: Mostra di affreschi staccati. Catalogo della mostra a cura di U. Baldini e di L. Berti, Firenze, 1957; C. Giannini, 1982; 1987, p. 248

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INDICE DEGLI SCRITTI

G. Secco Suardo, Sulla scoperta ed introduzione in Italia dell’ odierno sistema di dipingere ad olio, tip. G. Bernardoni, Milano 1858 Id., Lettera del conte Giovanni Secco Suardo relativa all’opuscolo del signor Giuseppe Mongeri intitolato della pittura ad olio, tip. G. Bernardoni, Milano 1860 Id., Manuale ragionato per la parte meccanica dell’ Arte del Ristauratore di d ipinti, tip. P. Agnelli, Milano 1866 Id., Nota, estratto dal Manuale ragionato per la parte meccanica dell’Arte del Ristauratore di dipinti, tip. P. Agnelli, Milano 1866 Id., Osservazioni ad una opinione di Paolo Vimercati Sozzi, tip. P. Agnelli, Milano 1866 Id., Pensieri sulla pittura ad encausto, ad olio e a tempera , in “L’Arte in Italia”, Torino 1870 Id., Alcune idee sulla pittura degli antichi, in “L’Arte in Italia”, Torino 1872 Id., Il Ristauratore di dipinti, Milano, Hoepli 1894; (rist. Hoepli, Milano 1918, 1927, 1979, 1992)

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BIBLIOGRAFIA

P. A. Curti, Del trasporto dei dipinti antichi, in “Politecnico”, XXI, giugno 1864, pp. 353-369 A. Locatelli Milesi, Il Maestro dell’ arte del restauro: il conte Giovanni Secco Suardo, in “Bollettino della Civica Biblioteca di Bergamo”, 1917, pp. 29 -31 A. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, Milano 1940 B. Belotti, Gli eccellenti bergamaschi, Bergamo 1956 Mostra di affreschi staccati. Catalogo della mostra a cura di U. Baldini e di L. Berti, Firenze 1957 G. Piva, L’arte del restauro. Il restauro dei dipinti antichi nel sistema antico e moderno, Milano 1961 F. Lechi, I quadri della collezione Lechi in Brescia, Firenze 1968 E. Samaga, G. Secco Suardo (un bergamasco perfezionò il metodo di staccare gli affreschi dai muri), in “L’Eco di Bergamo”, 14.2.1970 Firenze Restaura. Catalogo della mostra a cura di U. Baldini e P. Dal Poggetto, Firenze, 1972 C. Giannini, Giovanni Secco Suardo nella storia del restauro pittorico, tesi di laurea (relatore Prof. M. Gregori), Università degli Studi di Firenze, a. a. 1979 -80. A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, I ed. Venezia 1973, II ed., Milano 1988 G. Rosso Del Brenna, Giovanni Battista Castello, in I Pittori Bergamaschi dal Xll al XIX secolo. Il Cinquecento, Bergamo 1975 C. Giannini, Aspetti dell’evoluzione del lessico tecnico del Sei e Settecento nel manuale di restauro del conte Secco Suardo, in Convegno Nazionale sui lessici tecnici del Sei e Settecento, Pisa 1980 A. Conti, Vicende e cultura del restauro, in “Storia dell’ Arte Italiana”, X, Torino 1981 Id., Fra conservazione e restauro amatoriale, in La grande vetrata di San Giovanni e Paolo. Catalogo della mostra, Venezia 1982 C. Giannini, Note sul restauro italiano del secondo Ottocento. La scuola fiorentina di Giovanni Secco Suardo e il Morelli, in “Paragone”, 391, 1982 pp. 44-55

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P. Butali, Il manuale del.Secco Suardo alla luce delle moderne teorie di restauro , tesi di laurea, (relatore Prof. M. Gregori), Università degli Studi di Firenze, a.a. 1982-83 C. Sarteanesi, Il manuale di Giovanni Secco Suardo e le moderne tecniche di restauro, tesi di laurea, (relatore Prof. M.Gregori), Università degli Studi di Firenze, a.a. 1982-83 C. Giannini, Giovanni Secco Suardo restauratore e teorico. Appunti per una rico struzione dei lavori eseguiti in ambiente lombardo, in “Paragone”, 437, 1986 pp. 6875 Id., Contributo per una storia del restauro ottocentesco: il Manuale di Giovanni Secco Suardo, in “Archivio Storico Bergamasco”, 13, II, 1987 pp. 215-267 Id. Accademia Carrara: Restauri 1835-1838, in “Osservatorio delle Arti”, 1988, pp. 74-95 F. Rossi, Accademia Carrara Bergamo/ 1, Catalogo dei dipinti: sec. XV-XVI, Milano 1988. C. Giannini, Accenni sulle influenze straniere in alcuni episodi di restauro fioren tino, in L’ Idea di Firenze. Temi e interpretazioni nell’ arte straniera dell’ Ottocento, a cura di M. Bossi e L. Tonini, Firenze 1989 F. Rossi, Accademia Carrara Bergamo/ 2. Catalogo dei dipinti: s ec. XVII-XVIII, Bergamo 1989 C. Giannini, Frammenti di diario, lettere e restauri di un connoisseur, in “Kermes”, 13, 1992 pp. 53-59 A. P. Torresi, Appunti su un inedito ricettario del Conte Giovanni Secco Suardo , in “Kermes”, 13, 1992 pp. 60-66 G. Secco Suardo, Ricette pittoriche e varie, a cura di A. P. Torresi, Ferrara 1991 C. Giannini, Lessico del restauro, Firenze 1992 M. G. Recanati, in I Pittori Bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Le Origini, Bergamo 1992, pp. 324-332 M. Panzeri, Teoria e prassi del restauro bergamasco tra secondo Ottocento e primo Novecento, in I Pittori Bergamaschi dell’Ottocento, III, Bergamo 1993, pp.3-8. A. Conti, Giovanni Morelli ed il restauro amatoriale, in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Bergamo 1993, pp.159-180. C. Giannini, Giovanni Morelli e il conte Suardo. Restauro, conservazione e con noisseurship nel secondo Ottocento lombardo, in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Bergamo 1993, pp. 199-220.

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LE FONTI MANOSCRITTE di Cristina Giannini

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LE FONTI MANOSCRITTE

I corrispondenti Ridurre ad un indice fogli, buste, frammenti manoscritti, lettere e minute di un archivio privato, dove si sono con pazienza e curiosità ricostruiti i fili e i dialoghi di una storia, ha qualcosa di deludente. Le carte mescolate e confuse, si riorganizzano, trasformandosi in un utile strumento di servizio, e perdono parte della loro seduzione. Duecento lettere, escluse le familiari, sono state lette e datate, per un totale di 70 corrispondenti; poi ci sono le altre carte, fogli che non rientrano nella corrispondenza, talvolta semplici frammenti, ricevute, indirizzi, appunti. Fanno parte della storia, e a volte, nonostante la loro apparente quotidianità, diventano tasselli preziosi per la ricostruzione di un ambiente, o di uno stile di vita. I corrispondenti di Giovanni Secco Suardo furono certamente di più dei 70 che abbiamo segnalato; i loro nomi compaiono, indirettamente, nei carteggi importanti, protratti nel tempo, o semplicemente in quelli che si sono conservati. Spesso erano personaggi qualunque, di cui non si conservava la scarna corrispondenza, come Giovanni Mora, o Paolo Martegani. Eppure dietro questi nomi c’è un mondo artigianale tutto da ricostruire; doratori, corniciai, artigiani, che lavoravano per i collezionisti, per i restauratori, per i mer canti, e che tenevano sempre in bottega qualche oggetto in conto vendita. Magari cose di poco conto, come un ex-voto o una Via Crucis. Altre volte erano personaggi che si conoscevano benissimo, ma che preferivano non scriversi, se non per motivi ufficiali, come il conte Guglielmo Lochis. Il nome dell’ aristocratico collezionista ricorre quasi in tutte le lettere (più di 70) inviate da Giuseppe Fumagalli al conte Giovanni; o perché aveva fatto un’offerta molto alta per un dipinto, o perché lo aveva ignorato, o quando lo aveva fatto acquistare da altri. Protagonista assoluto del mercato antiquario bergamasc o, i pettegolezzi su di lui e sulla sua collezione erano quasi irrinunciabili; il conte ne conosceva ogni mossa, e credo si possa supporre un viceversa. Nella corrispondenza fra il Lochis e il suo restauratore di fiducia, Alessandro Brisson, si possono leggere le notizie sulla vita antiquaria milanese. Eppure la corrispondenza diretta fra i due gentiluomini bergamaschi si limita ad una lettera ufficiale, sottoscritta dal conte Guglielmo in qualità di presidente della Commissaria dell’ Accademia Carrara, nel 1867. Spesso l’esistenza o meno di un carteggio è legata a semplici vicende domiciliari; quando viveva a Milano, il conte Secco Suardo non aveva bisogno di scrivere al Brisson, né al marchese Gerolamo d’Adda, né a Giuseppe Molteni; essi si incontravano tutti i giorni, conversavano quotidianamente; il patrimonio delle loro frequentazioni è andato perduto. Qualche traccia di corrispondenza compare negli anni Sessanta, quando il Secco Suardo, spostatosi a Bergamo, prende a scrivere agli amici milanesi.

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Ma si tratta di frammenti, che danno per scontato un “vissuto” che possiamo solo immaginare, supporre. Analogamente, per le lettere provenienti da Bergamo; così, mentre per tutti gli anni Cinquanta dalla corrispondenza fra il conte Secco Suardo e il Fu magalli emerge uno spaccato della vita antiquaria bergamasca, con nomi, cognomi e prezzi, dal Sessanta in poi le notizie finiscono; i due vecchi amici e collaboratori si incontravano in città. Con un’ abitudine tutta ottocentesca, il conte Giovanni scrive va le sue minute sul verso degli appunti di lavoro e dei materiali di ricerca; perciò la brutta copia delle sue lettere ci aiuta e ci indirizza, quando non si sono conservate le risposte. Accade anche che un carteggio sia sottinteso, o testimoniato da uno o due pezzi. Resta la curiosità di sapere qualcosa di più del rapporto che legò il gentiluomo bergamasco con Giovanni Maria Benzoni, del quale rimane solo una lettera del 1856, ma il cui tono presuppone una consuetudine, un’ amicizia abbastanza importante. E ancora, dove e come il conte Secco Suardo avesse conosciuto Michele Ridolfi, che gli dimostra amicizia, stima e confidenza; come fossero iniziati e quando fini - rono, e perché, i rapporti con Giuseppe Guizzardi. Molte pagine della vita del Secco Suardo restano nell’ ombra; accade che i corrispondenti scompaiano: “la materia che serve di legame ai colori del dipinto è di natura grassa, ma non mi fu possibile rinvenire se olio o altro. Nell’ intonaco trovai molte piccole quantità di rame, forse proveniente dal vaso nel quale fu liquefatta la cera... Io parto per Londra...”. Il breve, succinto testo dell’unica lettera scritta da Antonio de Kramer al conte, risale al maggio del 1851; l’oggetto della descrizione è il Cenacolo di Leonardo, poi, il restauratore sembra scomparire del tutto dalla vita del conte. Resta, come sempre, molta della corrispondenza ufficiale; lettere e minute che spesso si ripetono e che, rispetto alla consistenza archivistica, ci danno un numero di informazioni più ridotte. Si tratta dei rapporti con le istituzioni, come è il caso della Carrara, della Biblioteca Civica di Bergamo, delle Accademie, di Milano, di Torino, di Urbino, di Parigi. Lettere e comunicazioni. Il tipo di rapporti personali che veramente esisteva tra le parti non è mai abbastanza chiaro, o comunque va decifrato con estrema attenzione. I due carteggi forse più “facili” da interpretare sono quello con Giuseppe Fumagalli e con Giovanni Morelli. Il primo ricco, e cronologicamente abbastanza omogeneo, il secondo pi ù saltuario, ma così pregnante, da far intuire facilmente l’itinerario di un’amicizia, fatta di stima e di interessi comuni, ma anche di conversazioni familiari, di piccoli, reciproci favori. Per l’attività del conte Secco Suardo la documentazione più ricc a, in qualche caso addirittura sovrabbondante, è quella conservata presso la Soprintendenza delle Gallerie di Firenze, e prodotta in occasione del corso di lezioni tenuto dal conte nella città toscana. La ragione di tanta attenzione è da riconoscere in una certa necessaria burocrazia, nella cautela, anche nella diffidenza con cui il gentiluomo fu accolto a Fir enze; dal punto di vista della ricerca, la storia della scuola, con i suoi risvolti personali, pro-

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fessionali, diplomatici, può essere ricostruita quasi giorno per giorno. Certamente di tanti dei corrispondenti del conte Giovanni vorremmo sapere di più; e soprattutto dei suoi non corrispondenti: Otto Mündler, Charles Eastlake, Gustavo Frizzoni, Giuseppe Molteni, Gerolamo D’Adda, Michelangelo Gualand i, Ulisse Forni, Giuseppe Molteni, Luigi Cavenaghi, Paul Kiewert, Giangiacomo Poldi Pezzoli, Maximilian Pettenkofer. Anche per questo, l’indice dei corrispondenti che segue vuole essere una traccia, come direbbe Ginzburg, un indizio.

Topografia e consistenza dei fondi epistolari Come accade per l’attività di molti amatori, collezionisti, connoisseurs, artisti e artigiani, anche la gran parte della vita e degli interessi del conte Giovanni Secco Secco Su ardo - la formazione, le frequentazioni, i viaggi, la collezione, gli studi, gli esperimenti di restauro - possono essere ricostruiti solo attraverso la ricerca sulle fonti documentarie. L’archivio privato dei Secco Suardo, fortunatamente sopravvissuto alle alterne vicende della famiglia bergamasca, e conservato presso la residenza di Lurano, rappresenta la prima e più importante fonte di materiali. Si tratta di una imponente raccolta documentaria, composta da un fondo diplomatico e da uno cartaceo, che testimonia le vicende della famiglia dal X secolo al secondo dopoguerra, insieme ad una pagina economico-sociale di storia lombardo-veneta. Per ciò che riguarda l’Ottocento, ed in particolare la figura di Giovanni Secco Suardo, tutti i documenti direttamente legati alla sua attività, che erano ancora mescolati con gli appunti, i ricettari, i ferri da stiro, i raschini, i pennelli, le vernici e i colori, sono stati identificati ed enucleati fisicamente. Almeno, quelli che si sono conservati, poiché non va dimenticato che il conte è vissuto quasi sempre a Milano, e si ritirò nella tenuta bergamasca solo attorno al 1860, sicché una parte della sua corrispondenza privata è andata dispersa. Di questa è stato fatto un primo spoglio sistematico al fine di ricostruire un indice dei corrispondenti che, se non esaustivo (poiché la ricerca fra i faldoni potrebbe riservare nuovi recuperi), può essere considerato sostanzialmente indicativo della rete dei corrispondenti, in gran parte, ma non solo lombardi, del conte Giovanni. Mentre i carteggi relativi alle attività del Secco Suardo sono stati già parzialmente utilizzati ai fini della ricerca e pubblicati in forma di regesto, rimane da fare il lavoro di spoglio sulle lettere familiari 1. Fra queste, ci sembra utile segnalare la presenza di un cospicuo nucleo di minute inviate ai figli Giulio Cesare e Federico, insieme alla corrispondenza privata fra il conte e la moglie, Teresa Regazzoni. Questo il fondo documentario più ricco per quantità di pezzi, e più interessante per la qualità delle informazioni sul Secco Suardo, sull’ambiente collezionistico e amatoriale, sul mercato e sui restauratori con cui egli fu sempre in contatto. A questa documentazione si aggiungono quella conservata presso l’Archivio della

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Soprintendenza alle Gallerie di Firenze, relativa al corso di lezioni sulle tecniche di trasporto degli affreschi e dei dipinti in tavola e in tela, tenuto nella città toscana nella primavera del 1864; quella conservata presso l’archivio dell’ Accademia Carrara di Bergamo, inerente alle prove di restauro eseguite dal Secco Suardo presso la galleria, e alla sua donazione; infine un gruppo di minute che si trovano presso la sezione manoscritti della Biblioteca Civica A. Mai di Bergamo. Queste sono allegate ad uno dei manoscritti originali del manuale di restauro pu bblicato nel 1866, che il conte lasciò, insieme ad una parte della sua biblioteca privata, alla Civica. Una ricognizione incrociata presso le Istituzioni non bergamasche con le quali il gentiluomo fu in contatto potrà, in futuro, dare nuovi contributi, per quanto il lavoro fino ad oggi svolto indica, ancora una volta, nei carteggi non ufficiali, scritti di getto, l’esistenza dei materiali più preziosi. curiosi. quasi piccanti. Carte che si trovano, di solito, solo negli archivi privati, purtroppo in g ran parte dispersi, quando non siano stati prodotti da personaggi di provenienza nobile. Per ciò che riguarda l’indice dei corrispondenti (più di 200 lettere, escluse le fami liari, ed una settantina di nomi fra mittenti e destinatari) abbiamo privilegia to i criterio topografico, per rendere più agile la ricerca. Un’indicazione archivistica precisa non può ancora essere data per le carte conser vate a Lurano, poiché l’ordinamento dell’archivio, pur essendo in una fase già avanzata, non è ancora concluso. Tuttavia, i documenti relativi a Giovanni Secco Suardo sono facilmente identificabili e consultabili. All’interno di ciascun fondo archivistico i corrispondenti sono elencati in ordine alfabetico; di seguito sono indicate il numero delle lettere di cui furono mittenti e/o destinatari e gli estremi cronologici. Una sezione a parte è stata riservata ad un nucleo di documenti che non fanno parte della corrispondenza in senso stretto - dal rogito di sponsali, ai diplomi - ma che sono importanti per ricostruire alcuni nodi della vita del conte. Un’ultima avvertenza va fatta per le carte conservate presso l’Archivio delle Gallerie di Firenze e quello dell’Accademia Carrara di Bergamo. La documentazione fiorentina, conservata in filze, e facilmente consultabi le per tutto l’Ottocento, contiene, oltre alle lettere autografe del conte Secco Suardo e alle minute a lui indirizzate, (di cui diamo conto nell’indice), 40 pezzi fra lettere, relazioni di restauro, elenchi di opere e materiali, che sono inerenti all’ organizzazione del corso tenuto a Firenze e alla sua attività di docente. La documentazione conservata in Accademia Carrara, relativa ai restauri e alle donazioni, è rintracciabile all’ interno dei “Protocolli di Consiglio della Commissaria Carrara di belle Arti in Bergamo”, alla voce Gallerie, IV, Sudd. l; 4; fasc. l0 e 14.

1

Il regesto di alcuni fra i principali documenti relativi alla vita di Gio vanni Secco Suardo è pubblicato in

C. Giannini, cit., 1987, Appendice documentaria .

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INDICE TOPOGRAFICO DEI CORRISPONDENTI

BERGAMO B IBLIOTECA C IVICA A. M AI, sez. manoscritti in G. Secco Suardo, Precetti sull’ Arte del Ristauratore dei dipinti, cod. cart., fasc. e fogli in vario formato, 1864-65, cc. 35-48 BRIGOLA G AETANO (dest.) 2 dicembre 1865 FUMAGALLI G IUSEPPE (dest.) I autunno 1865 G IOVANNELLI A NDREA (dest.) 1 dicembre 1865 M UNICIPIO D I BERGAMO (dest.) 1 gennaio 1866 Z ANCHI A NTONIO (mitt.) 1 autunno 1865

FIRENZE

A RCHIVIO S OPRINTENDENZA G ALLERIE Filza 1864, inc. 64 FERONI PAOLO (dest.) 3 (rnitt.) 5 25 marzo- 10 giugno 1864

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LURANO A RCHIVIO S ECCO SUARDO A CCADEMIA A LBERTINA D I BELLE A RTI TORINO (mitt.) 3 I. 21 marzo 1868-2 agosto 1873 A CCADEMIA ARTISTICA RAFFAELLO URBINO (mitt.) 3 21 agosto-27 settembre 1869 A CCADEMIA D I BELLE ARTI M ILANO (mitt.) 3 (dest.) 3 12 settembre 1866-1 aprile 1867 A CADEMIE NATIONALE AGRICOLE M ANIFACTURIERE COMMERCIALE P ARIS (mitt.) 3 30 gennaio-26 maggio 1868 AGNELLI P IETRO (mitt.) 4 12 dicembre 1865-17 luglio 1866 A RRIVABENE G IULIO (dest.) 1 28 novembre 1866 B ARAZZI N ICCOLÃ’ (mitt.) 1 (dest.) 1 13-16 febbraio 1868 B ARBERA G IUSEPPE (mitt.) 1 30 agosto 1865 B ELGIOIOSO CARLO D I (mitt.)2 (dest.) 1 10 gennaio- 3 aprile 1867 B ENZONI G IOVANNI MARIA (mitt.) 1 28 novembre 1856

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B ERNARDONI G IUSEPPE (mitt.) 5 (dest.) 1 26 maggio 1860-8 gennaio 1866; B IBLIOTECA A MBROSIANA M ILANO (dest.) 1 29 dicembre 1866 B ONGHI RUGGERO (dest.) 1 17 dicembre 1866 B OSIS G IOVANNI (mitt.) 1 28 dicembre 1866 BRENTANI G IOVANNI (mitt.) 3 (dest. 2) 29 aprile 1864-14 gennaio 1867 BRESSION A YMAR P. (dest.) 1 febbraio 1868 BRISSON A LESSANDRO (mitt.) 2 29 agosto- 1 settembre 1864 B UCCINELLI E UGENIO (mitt.) 1 14 giugno 1864 C AMPANI G IORGIO (dest.) 1 26 dicembre 1865 C AVALLUCCI J ACOPO (mitt.) 1 4 giugno 1867 C HERUBINI GABRIELLO (dest.) l 13 gennaio 1867

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C IVICA B IBLIOTECA D I BERGAMO (dest.) 1 23 dicembre 1866 C OLOMBINI S ERAPIONE (mitt.) 1 (dest.) 1 14 giugno 1864- 14 1uglio 1866 C OMITATO PER IL M ONUMENTO A LLE ARMI ITALIANE (mitt.) 1 30 aprile 1865 C OMMISSARIA C ARRARA D I BELLE A RTI B ERGAMO (mitt.) 8 (dest.) 2 7 gennaio 1863- 13 giugno 1873 C OMMISSIONE ITALIANA P ER L’ ESPOSIZIONE U NIVERSALE D I PARIGI (dest.) 2 gennaio- l settembre 1867 C ONGREGAZIONE CENTRALE D I M ILANO (mitt.) 2 11 ottobre 1842-16 1uglio 1858 C ONGREGAZIONE M UNICIPALE DELLA C ITTA D I BERGAMO (mitt.) 2 1 febbraio 1831- 4 ottobre 1842 C ONSORZIO N AZIONALE C OMITATO D I M ILANO (mitt.) 2 (dest.) 1 23 marzo-26 aprile 1866 D’ ADDA G EROLAMO (mitt.) 2 5 maggio 1865-29 aprile 1870 D EPUTAZIONE PROVINCIALE BERGAMO (mitt.) 1 1 aprile 1868 D E KRAMER ANTONIO (mitt.) 1 10 maggio 1851

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FARUFFINI FEDERICO (dest.) 1 17 1ug1io 1867 FERONI PAOLO (mitt.) 5 (dest.) 2 maggio- 4 agosto 1864 FUMAGALLI G IUSEPPE (mitt.) 53 20 ottobre 1849-20 dicembre 1870 frammenti pubblicati in A. Conti, Giovanni Morelli e il restauro amatoriale, in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori, Atti del Convegno, I, 1993, p. 160 G AITI B ERNARDO (mitt.) 1 3 gennaio 1867 G AVAZZENI A LESSANDRO (mitt.) 1 22 maggio 1871 G EDEONOV S TEPAN A LEKSANDROVIC (dest.) 1 15 gennaio 1867 pubblicata in C. Giannini, Giovanni Secco Suardo: connoisseur o restauratore?, in “Kermes”, I, 1992, p. 59 G IOVANNELLI G IUSEPPE (dest.) 1 19 febbraio 1867 G OLDONI CARLO (dest.) 1 14 1ug1io 1866 G UALANDI M ICHELANGELO (dest.) 1 7 dicembre 1866 G UIZZARDI G IUSEPPE (mitt.) 8 20 aprile 1852- 171ug1io 1855

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H OMBERG , A. M. (dest.) 1 10 dicembre 1866 KIEWERT P AUL (dest.) 1 aprile 1867 pubblicata in C. Giannini, cit., 1992, pp. 58-59 ISTITUTO D I B ELLE ARTI D ELLE M ARCHE URBINO (mitt.) 2 11- 12 novembre 1867 ISTITUTO LOMBARDO D I SCIENZE LETTERE ED ARTI (mitt.) 2 2 agosto-9 agosto 1863 LOCHIS C ARLO (mitt.) 1 9 gennaio 1867 M ARTEGANI P AOLO (mitt.) 1 2 settembre 1862 M INISTERO D ELLA PUBBLICA ISTRUZIONE (mitt.) 4 (dest.) 2 18 marzo 1864- 24 febbraio 1869 M ORA P IETRO (dest.) 1 28 aprile 1864 M ORELLI G IOVANNI (mitt.) 8 27 maggio 1864-28 aprile 1870 M UNICIPIO D I BOLOGNA (dest.) 1 agosto 1864 P ADOVANO FRANCESCO (mitt.) 1 14 giugno 1864

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P ERICOLI G IOVAN BALTISTA (dest.) 1 31 dicembre 1867 P EZZATI P IETRO (mitt.) 1 14 giugno 1864 P REFETTURA D ELLA P ROVINCIA D I B ERGAMO (mitt.) 1 1 agosto 1864 P REFETTURA D ELLA P ROVINCIA D I M ILANO (dest.) 1 (mitt.) 1 9-31 luglio 1866 R EZASCO G IULIO (mitt.) 1 3 settembre 1864 R IDOLFI M ICHELE (mitt.) 2 (dest.) 23 ottobre 1853- 9 maggio 1854 R OMAGNOLI G AETANO (dest.) 1 12 dicembre 1866 R OVANI G IUSEPPE (dest.) 1 19 dicembre 1866 S INDACO D I B OLOGNA (mitt.) 1 5 agosto 1864 S OTTOCOMMISSIONE DI M ILANO PER L’ESPOSIZIONE UNIVERSALE DI P ARIGI (dest.) 1 gennaio 1867 V ERTOVA G. (mitt.) 1 17 febbraio 1866

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INDICE ALFABETICO DEI CORRISPONDENTI A CCADEMIA ALBERTINA DI BELLE ARTI TORINO A CCADEMIA ARTISTICA RAFFAELLO URBINO ACCADEMIA DI BELLE ARTI MILANO A CADEMIE NATIONALE AGRICOLE MANIFACTURIERE COMMERCIALE PARIS AGNELLI PIETRO A RCHIVIO SOPRINTENDENZA GALLERIE A RRIVABENE GIULIO B ARAZZI NICCOLÃ’ B ARBERA GIUSEPPE B ELGIOIOSO CARLO DI B ENZONI GIOVANNI MARIA B ERNARDONI GIUSEPPE B IBLIOTECA AMBROSIANA MILANO B IBLIOTECA CIVICA A . M AI BERGAMO B ONGHI RUGGERO B OSIS GIOVANNI BRENTANI GIOVANNI BRESSION AYMAR P . BRIGOLA GAETANO BRISSON ALESSANDRO B UCCINELLI EUGENIO

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C AMPANI G IORGIO C AVALLUCCI J ACOPO C HERUBINI GABRIELLO C OLOMBINI S ERAPIONE C OMITATO PER IL M ONUMENTO A LLE ARMI ITALIANE C OMMISSARIA C ARRARA D I BELLE A RTI B ERGAMO C OMMISSIONE ITALIANA P ER L’ ESPOSIZIONE U NIVERSALE D I PARIGI C ONGREGAZIONE CENTRALE D I M ILANO C ONGREGAZIONE M UNICIPALE DELLA C ITTÀ D I BERGAMO CONSORZIO NAZIONALE C OMITATO D I M ILANO D'ADDA G EROLAMO D EPUTAZIONE PROVINCIALE BERGAMO DE KRAMER ANTONIO FARUFFINI FEDERICO FERONI PAOLO FUMAGALLI G IUSEPPE G ATTI B ERNARDO G AVAZZENI A LESSANDRO , G EDEONOV S TEPAN A LEKSANDROVIC G IOVANNELLI A NDREA G IOVANNELLI G IUSEPPE G OLDONI CARLO G UALANDI M ICHELANGELO G UIZZARDI G IUSEPPE

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H OMBERG , A. M. KIEWERT P AUL ISTITUTO D I B ELLE ARTI D ELLE M ARCHE URBINO ISTITUTO LOMBARDO D I SCIENZE LE 1 TERE E D A RTI LOCHIS C ARLO M ARTEGANI P AOLO M INISTERO D ELLA PUBBLICA ISTRUZIONE M ORA P IETRO M ORELLI G IOVANNI M UNICIPIO D I BERGAMO M UNICIPIO D I BOLOGNA P ADOVANO FRANCESCO P ERICOLI G IOVAN BATTISTA P EZZATI P IETRO P REFETTURA D ELLA P ROVINCIA D I B ERGAMO P REFETTURA D ELLA P ROVINCIA D I M ILANO R EZASCO G IULIO R IDOLFI M ICHELE R OMAGNOLI G AETANO R OVANI G IUSEPPE S INDACO D I B OLOGNA S OTTOCOMMISSIONE D I M ILANO P ER L’ ESPOSIZIONE UNIVERSALE D I P ARIGI V ERTOVA G. Z ANCHI A NTONIO

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APPENDICE DOCUMENTARIA

Documenti Fede di nascita di Giovanni Secco Suardo 23 agosto 1798 Lurano, A.S.S., Faldone IV, Fedi di nascita, c. 25 Rogito di sponsali 29 gennaio 1828 Lurano, A. S. S., Faldone V, Patti nuziali, c. 35 Incarico di Deputato della città di Bergamo presso la Congregazione Centrale di Milano 24 gennaio 1831 (prima elezione) 16 luglio 1831 (conferma) 9 ottobre 1842 (conferma) aprile 1858 (conferma) Lurano, A. S. S. Diploma di Socio Onorario della R. Accademia Albertina delle Belle Arti in Torino 1 agosto 1860 Lurano, A.S.S. Conferimento di una medaglia d’argento del R. Istituto Lombardo di Scienze Lettere ed Arti 9 agosto 1863 Lurano, A.S.S. Diploma di Ufficiale dell’ Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro 20 luglio 1864 Lurano, A.S.S. Diploma di Socio Onorario della R. Accademia di Belle Arti in Milano 1 aprile 1867 Lurano, A.S.S. Diploma di Socio Onorario dell’ Istituto di Belle Arti delle Marche in Urbino 20 novembre 1867 Lurano, A.S.S.

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Diploma di Socio corrispondente dell’Accademia Artistica Raffaello di Urbino 27 settembre 1869 Lurano, A.S.S. Diplome de l’ Académie Nationale Agricole Manifacturière et Commerciale de Paris 26 febbraio 1868 Lurano, A.S.S. Testamento di Giovanni Secco Suardo 9 giungo 1873 Lurano, A.S.S.

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IL FONDO SECCO SUARDO PRESSO LA BIBLIOTECA CIVICA DI BERGAMO di Maria Elisabetta Manca

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IL FONDO SECCO SUARDO PRESSO LA BIBLIOTECA CIVICA DI BERGAMO

[...] Alla Biblioteca Comunale di Bergamo lascio i miei manoscritti e tutti quelli tra i miei libri dei quali non è già provveduta1

La donazione delle opere a stampa e dei preziosi manoscritti del Manuale appartenuti a Giovanni Secco Suardo alla Biblioteca Civica di Bergamo, comunicata dal figlio Giovanni all’ allora bibliotecario civico Antonio Alessandri, venne perfezionata con l’ accoglimento da parte della Amministrazione Comunale il 1 maggio 1874 2. Il controllo e la selezione dei titoli da acquisire vennero condotti dallo stesso Alessandri sulla base dell’ Elenco di opere d’arte che appartennero all’Ill. Sig. Conte Cavaliere Giovanni Secco Suardo 3 e si conclusero con l’arrivo alla Biblioteca di quaranta delle novantotto opere indicate nell’ Elenco Secco Suardo benché dalla lettera inviata dall’ Alessandri ad Alessandro Secco Suardo in data 18 luglio 1873 risultassero prescelti ben cinquantanove volumi. La spiegazione di tale differenza va forse individuata nelle parole stesse del bibliotecario il quale, nell’inviare al donatore la lista, lamenta la lacunosità dei dati bibliogr afici forniti dall’Elenco e la fretta con cui ha dovuto operare “per le circostanze della sua famiglia” e garantisce al Secco Suardo che “se qualche libro ci capitasse che per la fretta della ricerca cre dessimo di non possedere e possedessimo sarà nostro dovere di rimandarlo quando coi libri sott’occhio e con maggior agio avremo potuto far meglio” 4. I volumi a stampa pervenuti alla Civica Biblioteca vennero collocati in successione nella Sala 2 D 8 retro e segnalati nel Catalogo topografico con la specifi ca Legato Alessandro Secco Suardo: la collocazione originaria si è mantenuta sino ad oggi con l’eccezione della Storia pittorica di Luigi Lanzi, che appartenendo alla collezione dei Classici Italiani è stata unita agli altri testi della stessa serie nella Sala 1, e delle opere di Ranalli e Villot spostate in epoca successiva nella Sala 2 loggia. Al fondo donato da Alessandro Secco Suardo in esecuzione del mandato testamentario del padre, sono state aggiunte le copie degli opuscoli pubblicati da Giovanni e da lui donati con dedica alla Biblioteca della sua città, e due copie del Manuale anch’esse dono dell’autore. Di particolare rilevanza è naturalmente il lascito dei manoscritti che comprendono oltre alla copia del primo volume del Manuale completa di tutte le necessarie annotazioni per il tipografo che ne curò la stampa, le minute dei Precetti sull’arte del restauratore 5, il Manoscritto originale del discorso di prolusione letto a Firenze alla apertura delle lezioni teorico pratiche sull’arte di trasp ortare gli antichi dipinti dalla tavola, dalla tela e dal muro il giorno 16 maggio 1864, ed un piccolo taccuino - purtroppo non datato - su cui sono registrate a matita e a penna, in modo un

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pò disordinato, diverse spese di viaggio sostenute in Italia centrale (Viterbo, Montefiascone, Pesaro) oltre ad annotazioni e citazioni di opere d’arte, nomi di pittori e sintetiche descrizioni di palazzi e chiese, che rappresenta la piccola curiosità del corpus 6. Come si è detto soltanto una parte dei libri di Gio vanni è pervenuta alla Biblioteca Civica, tuttavia le opere che qui si conservano - soprattutto se messe in relazione con quelle citate nell’ Elenco - offrono un efficace spaccato di quella che dovette essere la sua biblioteca di lavoro e del modo in cui s i venne a formare negli anni che videro il nobile bergamasco compiere i suoi viaggi attraverso l e Gallerie d’Italia e d’Europa 7. Pure non dovette mancare nel Conte una certa attenzione da bibliofilo nel selezionare le opere da donare alla Biblioteca cittad ina visto che si tratta di opere importanti per la storia dell’ arte e la tecnica artistica, tutte in edizione curata ed in perfetto stato di conservazione, mentre tra ciò che rimase nella libreria di famiglia sono da segnalare le molte guide delle città che egli visitò, oggi preziosa testimonianza documentaria della sua formazione e del suo percorso di conoscenza diretta delle opere d’arte. L’attenzione per la Biblioteca Civica fu del resto manifestata più volte da Giovanni Secco Suardo attraverso il dono di ogni sua opera pubblicata ed in particolare attraverso quello della prima edizione del Manuale, offerto e dedicato con la specifica che “in questa qualità di carta vennero furono impressi sei soli esemplari”. Ma l’aspetto senza dubbio più significativo rivestito dalla raccolta ed evidenziato dall’indagine condotta sui volumi della “Mai” è che quella di Giovanni Secco Suardo fu una biblioteca di lavoro, costruita attorno alla letteratura più aggiornata negli ambiti di indagine prediletti - la pittura ad olio, la storia dell’ arte fiamminga, i manuali di restauro - e alimentata nel suo formarsi dalla pratica della visione diretta delle opere d’arte tipica del conoscitore. Di straordinario interesse l’esame delle annotazioni che egli appose con costanza e precisione su quasi tutti i testi posseduti. Se in questo senso non stupiscono le specifiche tecniche apposte al Manuel des jeunes artistes et amateurs en peinture di Pierre Bouvier o le confutazioni e precisazioni che abbondano nel famoso volume di Merimée De la peinture a l’huile [...], meritano invece attenzione particolare le preziose osservazioni aggiunte ai cataloghi dei musei visitati od alle monografie sugli artisti fiamminghi e messinesi. Le note di Secco Suardo spaziano cosi dalle precisazioni sulle datazioni di alcune opere dei Van Eyck ritrovate sulla traduzione italiana delle Notizie e pensieri sopra la storia della pittura ad olio di C. L. Eastlake, alle indicazioni sulla dispersione del polittico di Gand citato da Crowe e Cavalcaselle nel loro Les anciens peintres Flamandes, sino alle correzioni apportate al volume Memorie degli artisti messinesi e degli esteri che in Messina fiorirono dal secolo XII sino al secolo XIX nelle parti relative alla vita e alle opere di Antonello ed ai suoi rappo rti con la cultura fiamminga. Né andranno dimenticate le riflessioni sulla pittura veneta ed in partico lare su Cima da Conegliano e Giovanni Bellini annotate nel secondo volume della Reale Galleria di Firenze illustrata o, sempre sullo stesso volume, le osservazioni che, muovendo dalla scheda dedicata nel catalogo alla “Vergine addolorata” di Sassoferrato, egli dedica al tema della iconografia della Madonna riportando anche esempi meno noti e notizie sul mercato e sul collezionismo delle opere di questo artista.

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Una vera impostazione da conoscitore dunque, che raggiunge la massima espres sione di originalità nei giudizi lapidari e talvolta irriverenti riservati al commento dei dipinti descritti nel catalogo del Louvre di Frédéric Villot (Notice des tableaux exposés dans les Galeries du Musée Imperial du Louvre). Il ponderoso volume è infatti ricco di annotazioni relative in particolare ad artisti francesi attivi tra Sei e Settecento ma soprattutto contemporanei al Secco Suardo ai quali sono riservati i giudizi più sferzanti, ma non mancano anche in questo testo interessanti segnalazioni di opere di conservazione di molti dipinti segnati. Essendo impossibile, anche se assai suggestivo, riportare in questa sede tutte le tra scrizioni delle postille di Giovanni, si è deciso di segnalarne in modo sintetico il contenuto in margine alle schede di ciascun volume, schede che si sono volutamente mantenute nei canoni della migliore leggibilità attraverso una catalogazione estre mamente semplificata anche se molto analitica soprattutto per quanto riguarda la restituzione dei frontespizi delle opere, spesso fonte primaria di informazione sugli autori, traduttori o commentatori dei testi. Per questa ragione si sono limitate al minimo le abbreviazioni (ms. per manoscritto, cart. per cartaceo, cc. per carte, vol. per volume/i), come pure si è scelto di fornire, tranne che nel caso di un’opera in dieci volumi, la numerazione analitica – contenuta tra parentesi – delle opere in più volumi. Per la normalizzazione delle intestazioni si è scelto di attenersi a quelle indicate dal catalogo della British Library 8. L’ordine assegnato è quello topografico, che rispetta pertanto la collocazione fisica dei libri nella Biblioteca Civica, della Sala 2 con le eccezioni già indicate.

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NOTE

1 Testamento di Giovanni Secco Suardo, copia autentica del notaio Alessandro Porta di Milano, Archivio Secco Suardo, Lurano, 2 Archivio Storico del Comune di Bergamo, Atti del Consiglio Comunale, l maggio 1874, p, 47, Biblioteca Civica, Bergamo. 3 Biblioteca Civica, Bergamo Ms. AB 208. 4 Lettera di Antonio Alessandri ad Alessandro Secco Suardo, Bergamo, 18 luglio 1873, n. 78. Archivio Secco Suardo, Lurano. 5 Sulle vicende relative alla pubblicazione della prima parte del Manuale nel 1866, e sull’edizione postuma del 1894 si rimanda ai diversi interventi di Cristina Giannini ed in particolare al suo contributo: Giovanni Morelli e il conte Suardo: conservazione. restauro e connoisseurship nel secondo Ottocento lombardo, in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori. Atti del Convegno Internazionale, Bergamo, 4-7 giugno 1987, a cura di Giacomo Agosti, Maria Elisabetta Manca, Matteo Panzeri, con il coordinamento scientifico di Marisa Dalai Emiliani, Bergamo, 1993, vol. I, pp. 199-220. 6 I manoscritti di Giovanni Secco Suardo conservati presso la Biblioteca Civica di Bergamo alla segnatura MMB 721-722 sono due grossi volumi il primo dei quali raccoglie il testo del Manuale nella legatura originale, mentre il secondo raggruppa gli altri scritti del Conte legati in un solo volume nonostante le differenti dimensioni delle carte. 7

Sui tempi e modi della formazione artistica di Giovanni Secco Suardo nel panorama della connoisseurship europea si rimanda al giĂ citato saggio di Cristina Giannini. 7 Sui tempi e modi della formazione artistica di Giovanni Secco Suardo nel panorama della connoisseurship europea si rimanda al giĂ citato saggio di Cristina Giannini. 8 The British Library General Catalogue of Printed Books to 1975, London, Bingley-Saur, 1979-1987.

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ELENCO DI OPERE D'ARTE CHE APPARTENNERO ALL'ILL. SIG. CONTE CAVALIERE GIOVANNI SECCO SUARDO (*)

l. Biografia degli artisti. Venezia 2. Vite de’ più eccelsi pittori, Scultori e Architetti scritte da Giorgio Vasari. Roma MDCCLIX 3. Illustri Bergamaschi di Pasino Locatelli. Bergamo 1869 4. Saggi dell’antica arte dei Greci e dei Romani Pittori. Abate D. Vincenzo Requero. Venezia. MDCCLXXXIV 5. Storia della vita e delle opere di Raffaello Sanzio del Quatremere. Milano MDCCCXXIX 6. Descrizione Torino. Pomba 1840 7. Les anciens peintres Flamands leur vie et leur oeuvres par. J. Crowe.

Bruxelles 1861

9. [sic] Milano e il suo territorio. 10. Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze. Napoli 1845 l1. Descrizione di Genova e del genovesato. Genova MDCCCXLVI 12. Venezia e la sua laguna. Venezia 1847 13. Vite dei Pittori Vecelli da Cadore di Stefano Ticozzi. Milano 14. Dizionario degli Architetti, scultori, pittori, intagliatori in pietra ed in rame ecc. di Stefano Ticozzi. Milano 15. Abecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi Bolognese. Venezia MDCCLIII 16. Vite dei pittori scultori, architetti Bergamaschi del Conte Tassi 17. Fra Giovanni da Verona e delle sue opere cenni di Giacomo Verona 1863 18. Storia e descrizione del Duomo di Milano esposte da G. Franchetti. Milano 1821

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19. Le pitture notabili di Bergamo esposte da Andrea Pasta. Bergamo MDCCLXXV 20. Notizie istoriche de’ pittori, scultori e architetti cremonesi di G. B. Zaist. Cremona MDCCLXXIV 21. Dictionaire historique des peintres de tous les ecoles par Adolph Siret. Bruxelles 1848 22. Dictionnaire des momogrames, marques, figures ecc. par Francois Brulliot. Munich 1832 23. Vocabolario universale della lingua italiana. Mantova 1845 24. Grand dictionnaire Francais ltalien par Francois d’Alberto. Milan 1840 25. Histoire de l’ecole Flamande depeinture du quinquiéme siecle par M. Theris. Bruxelles 1856 27. [ sic] Raccolta N. 60 stampe dei celebri pittori di Verona 28. Vite de’pittori e scultori che lavorarono in Roma dal 1641 al 1673 di G. B. Passoni pittore e poeta. Roma MDCCLXXll 29. Storia dell’Accademia Clementina di Bologna. Lelio dalla Volpe. Bologna MDCCXXXIX 30. Vite dei pittori, scultori e architetti di Giorgio Vasari. Firenze 1846 31. Lettere sulle belle lettere Trevigliane del Cav. Lorenzo Crico. Treviso MDCCXXXIII 32. Memorie trevigiane sulle opere di legno del Federici. Venezia 17 33. Il ritratto di Milano di Carlo Torre. Milano MDCLXXIV 34. Studii sulla storia delle arti di Descheselle. Venezia 1834 35. Memorie dei pittori messinesi. Messina 1821 36. Storia delle belle arti in Italia di Ferdinando Ranalli. Firenze

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37. Il riposo. Raffaello Borghini. Milano 1807 38. Le ricche miniere della pittura veneta di Marco Boschini. Venezia MDCLXXIX 39. Della pittura veneziana. Sansovino. Venezia MDCCLXXX 40. Descrizione di Venezia. Sansovino. Venezia MDCIII 41. La carta del navigar pittoresco di Marco Boschini. Venezia MDCLX 42. Della pittura e de’ veneziani maestri. Venezia MDCCLXXI 43. Vita di Benvenuto Cellini di Palamede Carpani. Milano 1806 44. Ritratti di celebri pittori del secolo XVII di Ottavio Lioni. Roma 1731 45. Opere di Antonio Raffaello Mengs. Bassano MDCCLXXXIII 46. Histoire de la peinture Flamande et Hollandaise par Alfred Michiels 47. Reale Galleria di Firenze MDCCCVII 48. Lettere di Giusto Liebig sulla chimica. Torino 1853 49. Firenze antica e moderna. Firenze 50. Manuel des jeunes artistes et amateurs par M . Bouvier. Paris 51. Gallerie Imperial et Royale de Florence. 1846 52. Pisa illustrata da Alessandro Morrona. Livorno 1812 53. Pitture e sculture di Brescia 54. Storia delle belle arti friulane di Fabio da Maniago. Udine MDCC 55. Notizie dei pittori, scultori ed intagliatori di Basssano di Gio. Banerci. Venezia MDCCLXXV 56. Viaggio da Milano ai tre laghi di Carlo Amoretti. Milano 57. Itinerario istruttivo di Roma antica e moderna di Mariano N. Roma MDCCCXVI 58. Giorgio Vasari sopra i suoi dipinti in Firenze. MDLXXXVII

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59. Vite dei pittori veneti del Cav. Carlo Ridolfi. Padova MDCCXXXXII 60. Vita di Michelangelo Buonarroti di Ascanio Condivi. Firenze 1736 61. Usi e costumi della Sardegna descritti e dipinti in 26 tavole. Torino 62. Descrizione della Spagna e sue cose spettanti alle arti belle di A. Coma. Parma 63. Dictionnaire des peintres espagnols par F. Quilliet. Paris 1816 64. Documenti per la storia dell’arte senese del Dott. Gaetano Milanesi. Siena 1854 65. Materiale per servire alla storia dell’incisione in rame ed in legno di Pietro Zeni Fiorentino. Parma. MDCCCII 66. Notizie inedite della sagrestia pistoiese del Professor Ciampi. Firenze MDCCCX 67. Histoire P. P. Rubens par Andrè Von Messet. Bruxelles 1840 68. Trattato della pittura di Leonardo da Vinci. Milano 1804 69. Vie des peintres flamands et Hollandaise par Descamps. Marsiglia 1840 70. Felsina pittrice del Conte Cesare Malvasia. Bologna 1841 71. Orsini. Memorie dei pittori Perugini. 1806 72. Delle vite de’ pittori, scultori ed architetti genovesi di Cav. Giuseppe Ratti. Genova MDCCLX1X 73. Guide historique et pratique de l’amateur des tableaux par Pierre Lejune. Paris 74. De preclaris Mediolani edificij da Pietro Gratiolo Bononniense. Mediolani MDCCXXXV 75. Pinacoteca pontificia bolognese. Bologna 1857 76. Anciens peintres Gantois. Gand 1819 77. Notizie sopra la pittura ad olio di G. l. Gasthak dall’ inglese. Milano 1849

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78. Trattato della pittura di Cennino Cennini. Roma 1821 79. Notizie d’opere di disegno nella prima metà del secolo XV1. Jacopo Morelli. Bassano 80. Memoire sur la peinture a l’encaustique et a la cire par M . Le Compte de Caylus. Geneve MDCCLV 81. De la peinture a l’hoile par Merimée. Paris 1830 82. Storia pittorica d’Italia di Luigi Lanzi. Milano 83. Memorie dei pittori, scultori ed architetti domenicani del P. Vincenzo Marchese. Firenze 1854 84. Musées de la Hollande. Amsterdam et la Havre par Burge. Paris. 1858 85. Notice des tableaux de musée Imperial du Louvre par Frederic Villiot. Paris. 1855 86. Manuel du museum Francais. Paris 1802 87. Catalogue des tableaux de la Gallerie du Cardinal Fesch par George 88. Manuale del pittore restauratore per Ulisse Forni. Firenze 1866 89. Manuel de l’ histoire de la peinture, ecoles Allemande, Flamande et Hollandaise par G.F. Waagen. Paris, 1863 90. Cherubini Vocabolario Milanese Italiano. Milano 1839 91. Fonilles sur le Palatin dans lesjardins Farnesis decuvert dans le mois dt? mai 1869 92. Notice sur le cheff d’ ouvre des freres Van Eyck par le de Bast. Gand 1825 93. Saggi sul ristabilimento dell’antica arte dei greci e dei Romani pittori dell’A. Vin. Requero. Venzia MDCCLXXXIV 94 Traite historique et pratique des connoissanes nècessaires a tout amateur des tableaux ecc. par Francois Xavier de Burtin. Valenciennes 1846 95. Biografia universale antica e moderna 96. Lettere pittoriche di Gio. Bottari. Milano 1829

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97. Recueil de tous les costumes des ordres Religieux et militaires. Paris. 1708 98. Architettura di Marco Vitruvio. Siena MDCCXX 99. Pittura cremonese del C. Bar. de Soresina. Milano 1821

(*) Il testo dell’Elenco è stato trascritto con tutte le imperfezioni ed imprecisioni, sia di numerazione che linguistiche, presenti nell’ originale. Le date di pubblica-zione delle opere sono riportate così come si trovano sull’originale talvolta in numeri arabi altra in romani

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OPERE MANOSCRITTE S ECCO S UARDO G IOVANNI Manuale ragionato della parte meccanica dell'arte del ristauratore dei dipinti redat -to per cura del Conte Giovanni Secco Suardo ufficiale dell'ordine Mauriziano [...]. ' Ms. cart., 1865, cc. 280, 30 cm. MMB 721 Si tratta della stesura definitiva del primo volume del Manuale completo di tutte le annotazioni necessarie al tipografo per la realizzazione dell' edizione a stampa.

S ECCO SUARDO GIOVANNI Manoscritto originale del discorso di prolusione letto a Firenze alla apertura delle lezioni teorico pratiche sull'arte di trasposrtare gli antichi dipinti dalla tavola, dalla tela e dal muro il giorno 16 maggio 1864. Ms. cart., cc. 10, cm. 28 MMB 722

S ECCO SUARDO GIOVANNI Precetti sull'arte del ristauratore dei dipinti. Ms. cart., (non datato), cc. 339, formati diversi. MMB 722 Su diverse carte di questo testo compare un cartellino della "Prima Espo. Naz. di I storia della scienza - Firenze 1929". Segni a matita rossa e la sigla R tracciata su molti fogli a testimonianza del lavoro degli eredi per la pubblicazione dell'intera opera nel 1894.

S ECCO SUARDO GIOVANNI Piccolo taccuino in cui sono registrate spese di viaggio ed annotazioni su artisti, dipinti, palazzi e chiese visitati. Ms. cart., (non datato), cc. 8, cm. 15. MMB 722

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OPERE A STAMPA

LANZI LUIGI Storia pittorica della Italia dal risorgimento delle belle arti fin presso la fine del secolo del XVIII secolo di Luigi Lanzi. Milano, Classici italiani, 1824-1825. 4 vol. (XXIV, 437 p.; 395 p.; 595 p.; 571 p.), ritratto dell'autore nell'antiporta, 21 cm. Sala 1 M 1 28-31 R ANALLI FERDINANDO Storia delle Belle Arti in Italia di Ferdinando Ranalli. Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1845. 1282 p., 24 cm. Sala 2 loggia C . 6 . 7 V ILLOT FRÉDÉRIC Notice des tableaux exposés dans les Galeries du Musée Imperial du Louvre ,° par Frédéric Villot Conservateur des peintures. Il Edition. Paris, Vinchon, 1855 3 parti rilegate in unico volume (LVIII, 324 p. ; VII, 345 p.; X, 455 p.) Sala 2 loggia L. 4 . 10 Il volume è ricco di annotazioni a matita e penna di mano di Giovanni Secco Suardo, in particolare per le voci di artisti olandesi, fiamminghi e francesi. B ERTOLOTTI DAVIDE Descrizione di Torino, Torino, G. Pomba, 1840 XII, 470 p.; ill.; 1 pianta topografica, 24 cm. Sala 2 D 8 retro 2 Sul foglio di guardia la scritta a penna: "Dalla Sig.ra Brey" D ECHAZELLE PIERRE T OUSSAINT Studi sulla storia delle arti ossia quadro dei progressi e della decadenza della scultura e della pittura presso gli antichi durante le rivoluzioni che agitarono la Grecia e l'Italia opera di P. T. Dechazelle antico membro della Camera di commercio e del Conservatorio delle arti di Lione. Prima versione italiana. Venezia, Paolo Lampato, 1834-1835 2 vol. (354,415 p), 23 cm. Sala 2 D 8 retro 3-4 E ASTLAKE CHARLES L OCKE Notizie e pensieri sopra la storia della pittura ad olio di C. L. Eastlake, Membro della Reale Accademia, della Società Reale e dell' Archeologica di Londra, ecc. tradotti dall'inglese da Giovanni A. Bezzi. Livorno - Londra, Pietro Rolandi, 1849.

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VIII, 399 p., 23 Sala 2 D 8 retro 5 Annotazioni in margine al Capitolo settimo intitolato Di quanto scrisse il Vasari '" sopra il metodo di dipingere ad olio usato da Van Eyck. In queste note Giovanni Secco Suardo confuta le datazioni proposte da Eastlake in relazione ad alcune opere di Van Eyck con argomentazioni di tipo stilistico o con richiami alla verifica dei dati documentari. In altre parti l'intervento del Secco Suardo è invece limitato alla specifica tecnica di termini o spiegazioni non perfettamente resi dal traduttore. CROWE J OSEPH A RCHIBALD - C AVALCASELLE G IOVAN BATNSTA Les anciens peintres Flamands, leur vie et leur oeuvres par J. A. Crowe et G. B. Cavalcaselle. Traduit de l'anglais par O. Delepierre; annoté et augmenté de documents inédits par Alex. Pinchart et Ch. Ruelens. Tome I. Bruxelles, F. Heussner, 1862. XVII, 152, CCCXXXIV, 17 p., tav., 23 cm. Sala 2 D 8 retro 6 Brevi annotazioni a p. 72, laddove Crowe e Cavalcaselle citano la dispersione a Gand e Berlino delle parti del polittico di Gand, Giovanni Secco Suardo specifica: "le due imposte con Adamo ed Eva veggonsi ora (1864) nel Museo R. di Bruxelles". CONGNET H ENRI Soldat et Pretre ou le modéle de la vie sacerdotale et militaire dans le récit et l' exposé des actions et des sentiments de l'Abbé Timothée Marprez par Henri Congnet. Paris, Parmantier - Périsse, [s.a.]. XI, 416 p., 22 cm. Sala 2 D 8 retro 7 M ICHIELS ALFRED Histoire de la peinture flamande et hollandaise, par Alfred Michiel. Bruxelles, A. Vandale, 1845-1849. 4 tomi legati in 2 volumi (XII, 414 p.; 420 p.; 427 p.; 399 p., 46 p.), 22 cm. Sala 2 D 8 retro 8-9 Ricche annotazioni alle pp. 10,20,21,26,27 e 44 del Il tomo dedicato alla Scuola di Bruges ed ai fratelli Van Eyck con specifiche importanti sia sulle biografie degli artisti che sulle particolarità delle innovazioni tecniche nell'uso della pittura ad olio supportate anche dal riferimento alla letteratura più aggiornata sull' argomento. A p. 44 riporta, completando quanto pubblicato da Michiels, i versi latini dedicati da Lampsonius nel 1572 a Jan Van Eyck. Reale Galleria di Firenze illustrata. Firenze, G. Molini e Comp., 1817-1824. Il volumi, tav., 22 cm. Sala 2 D 8 retro 10-20 Nel Il volume della I serie intitolato Quadri di storia, meritano particolare attenzione le ricche annotazioni apposte alla descrizione della Sacra conversazione di Cima

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da Conegliano, alla Vergine addolorata del Sassoferrato e alla Maddalena di Carlo Dolci. Su ciascuna delle tre opere Giovanni Secco Suardo si sofferma a lungo con osservazioni di carattere stilistico, critiche formali e notizie sui collezionisti o musei che posseggono opere degli stessi artisti. Le osservazioni sono datate 1854.

BOUVIER P IERRE LOUIS Manuel des jeunes artistes et amateurs en peinture par M. P. L. Bouvier, peintre, membre de la Société des Arts de Genève, ancien élève de l'Académie de Paris. 3.e Edition. Paris - Strasbourg, Berger- Levrault, [s. a.]. LII, 656 p., tav., 22 cm. " Sala 2 D 8 retro 21 A p. 631 dell'appendice L'art de restaurer et de conserver les vieux tableaux una breve nota a margine per confutare la validità delle misture di sali alcalini e materie grasse per la pulitura dei dipinti. In questa ed alle pagine seguenti rimandi alle opere di Merimee e Burtin.

Memorie de' pittori messinesi e degli esteri che in messina fiorirono dal secolo XII sino al secolo X/X ornate di ritratti. Messina, Presso Giuseppe Pappalardo, 1821. XXVI, 240 p., tav., 22 cm. Sala 2 D 8 retro 22 Note di mano di Giovanni Secco Suardo a penna e matita alle pagine 6, 7, 9, lO, Il, 13, 14, 15, 20 dedicate ad Antqnello da Messina: si tratta di correzioni di diverse imprecisioni contenute nel testo sia per quanto riguarda l'artista siciliano e le sue opere, sia per quanto erronemente riferito all'attività dei maestri fiamminghi contemporanei di Antonello.

H ASSELTANDRE CONSTANT VAN Histoire de P. P. Rubens suivie du catalogue général et raisonné de ses tableaux, esquisses, dessins et vignettes avec l'indication des lieux où ils se trouvent et des artistes qui les ont gravés par André Van Hasselt. Bruxelles, Imprimerie de la Societé des Beaux-Arts, 1840. 394 p., tav., 22 cm. Ritratto di P.P. Rubens nell'antiporta Sala 2 D 8 retro 23

O RSINI BALDASSARRE Memorie de' pittori perugini del secolo XVII/ copilate con accuratezza e con verità da Baldassarre Orsini nell'anno /802. Perugia, Nella stamperia Cam. e Vesc. di Carlo Baduel, 1806. 93 p., 21 cm. Sala 2 D 8 retro 28

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S ECCO S UARDO G IOVANNI Sulla scoperta ed introduzione in Italia dell'odierno sistema di dipingere ad olio. Memoria del Conte Giovanni Secco Suardo. Milano, Giuseppe Bemardoni, 1858. 180 p., 21 cm Sala " D 8 retro 29(1) Al verso del frontespizio dedica autografa: "Alla pubblica Biblioteca di Bergamo l'Autore" S ECCO SUARDO GIOVANNI Lettera del Conte Giovanni Secco-Suardo relativa all'opuscolo del Signor Giuseppe Mongeri intitolato Della pittura ad olio. Milano, G. Bemardoni, 1860. 20 p., 20 cm. Sala 2 D 8 retro 29(2) Sulla copertina dedica autografa: "Alla Biblioteca comunale di Bergamo l'Autore". S ECCO SUARDO GIOVANNI Pensieri sulla pittura ad encausto ad olio ed a tempera. Torino, Unione TipograficoEditrice, 1870. (Estratto dall' Arte in Italia. Rivista mensile di Belle Arti) 40 p., 18 cm. , Sala 2 D 8 retro 29(3) Sul frontespizio dedica autografa: "Alla Biblioteca comunale di Bergamo sua Patria l'Autore" S ECCO SUARDO GIOVANNI Alcune idee sulla pittura degli antichi. Torino, Stamperia dell'Unione Tipografico Editrice, 1872. (Estratto dall'Arte in Italia. Rivista mensile di Belle Arti) 37 p., 18 cm. Sala 2 D 8 retro 29(4) Sul frontespizio dedica autografa: "Alla Biblioteca comunale di Bergamo omaggio dell' Autore" S ECCO SUARDO GIOVANNI Osservazioni di Giovanni Secco Suardo ad un'opinione di Paolo Vimercati Sozzi. Milano, Pietrò Agnelli, 1866. 12 p., 20 cm. Sala 2 D 8 retro 29(5) W A AGEN G USTA V FRIEDRICH Manuel de rhistoire de la peinture. Ecoles allemande, flamande et hollandaise par G. F. Waagen Directeur de la Galerie Royale de tableaux a Berlin. Traduction par MM. Hymans et J. Petit. Avec un grand nombre d'illustrations. Bruxelles, Leipzig, Gand, Paris, C. Muquardt, G. Bossange, J. Renouard, 1863-1864. 3 vol. (XXVI, 258 p.; 312 p.; 354 p.), tav., 21 cm. Sala 2 D 8 retro 30-32

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MERIMEE J EAN FRANÇOIS LEONOR De la peinture a l' huile ou des procédés matériels employés dans ce genre de peintu re, depuis Hubert et Jean Van-Eyck jusqu' a nos jours par J. F. L. Mérimée Secrétaire perpétuel de l'Ecole Royale des Beaux-Arts. Paris, Huzard, 1830. XXIII, 323 p., 21 cm. Sala " D 8 retro 33 Il testo è copiosamente e minuziosamente annotato per mano di Giovanni Secco Suardo con precisazioni, traduzioni, specificazioni tecniche e storiche. Q UILLIET F REDERIC Dictionnaire des peintres espagnols par F. Quilliet. Paris, Chez l' Auteur, 1816. XXXVII, 407 p., 20 cm. Sala 2 D 8 34 T UBIERES DE GRLMOARD D E P ESTE ~S D E L EVIS Anne Claude Philippe de (Comte de Caylus) - M AJAULT MICHEL J OSEPH Memoire sur la peinture a l' encaustique et sur la peinture a la ci re par M. le Comte de Caylus de l'Académie des Belles-Lettres et M. Majault Docteur de la Faculté de Médecine en l'Université de Paris & ancien Médecin des Armées du Roi. Geneve, Pissot, 1755. Sala 2 D 8 retro 35 [8], 133 p., antiporta illustrato, tav., 20 cm Nell'ultima carta di guardia per mano di Giovanni Secco Suardo, a penna, un riassunto della parte prima e degli esperimenti descrittivi. Nel piatto inferiore della copertina una nota di possesso ad inchiostro bruno: "Sig. Con. Gio. Giacomo De Carlis" S ECCO S UARDO G IOVANNI Manuale ragionato per la parte meccanica dell'arte del ristauratore di dipinti del Conte Giovanni Secco Suardo ufficiale dell'ordine mauriziano. Contiene il risarcimento delle tavole e delle lamine, il trasporto dei dipinti dalla tela, dalle tavole e dal muro e la foderatura delle tele dipinte. Milano, P. Agnelli, 1866. 400 p., 6 tav., 19 cm. Sala 2 D 8 retro 37 Sulla prima carta di guardia etichetta a stampa "Prima Espo. Naz. di Storia della Scienza - Firenze 1929 - Inventario n. 1945". Sulla seconda carta di guardia nota manoscritta "N. B. In questa qualità di carta furono impressi sei soli esemplari. G. Secco Suardo". Al verso della stessa carta: "Alla Biblioteca Comunale di Bergamo sua Patria offre l'Autore". Nell'antiporta fotografia originale dell'autore firmata da lui stesso "Gio. Secco Suardo"

Altra copia del Manuale in cattivo stato di conservazione con sulla copertina il timbro circolare del "Municipio di Bergamo" Sala 2 D 8 retro 38

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BURGER WILLEM Musées de la Holland. Amsterdam et La Haye études sur l' école hollandaise par W. Burger. Paris, J. Renouard, 1858. XVII, 332 p. , 18 p. Sala 2 D 8 retro 39 D ELLA P ITTURA V ENEZIANA . Trattato in cui osservasi l'ordine del Busching e si conserva la dottrina e le definizioni del Zanetti. Coll'aggiunta della descrizione de' musaici della Chiesa di S. Marco, che manca negli autori suddetti, e delle pitture posteriori al tempo del Zanetti. Venezia, Presso Francesco Tosi, 1797. 2 tomi legati in 1 volume (VII, 145 p.; 256 p.), antiporta illustrati, 16 cm. Sala 2 D 8 retro 40

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“NE’ UN PROFESSORE NE’ UN RICCO MECENATE” GIOVANNI SECCO SUARDO E L’ACCADEMIA CARRARA di Maria Cristina Rodeschini Galati

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“NE’ UN PROFESSORE NE’ UN RICCO MECENATE” GIOVANNI SECCO SUARDO E L’ACCADEMIA CARRARA 2


“La predilezione efficacemente dimostrata in replicate circostanze” verso “il patrio stabilimento di Belle Arti”1, costituisce uno dei motivi principali del debito di riconoscenza della Commissaria dell’ Accademia Carrara verso Giovanni Secco Suardo. I legami del nobiluomo bergamasco con il museo cittadino furono d’altra parte intensi ed articolati, sviluppandosi nell’ arco di tutta una vita durante la quale crebbe un rapporto fondato su una sempre più salda reciprocità di interessi culturali, scientifici e collezionistici. Le donazioni a favore della Carrara che scandiscono l’ultimo decennio di vita del Secco Suardo se in prima battuta possono sembrare disomogenee, in realtà individuano con esattezza il profilo del rapporto che nel caso del conte Giovanni va ben oltre la tradizionale affezione portata dalla nobiltà bergamasca alla principale istituzione artistica cittadina. Le motivazioni sottese ai lasciti suggeriscono infatti le molteplici articolazioni di questo rapporto. Aiuta a meglio comprendere la bella lettera del marzo 18712 con la quale Giovanni Secco Suardo, dopo il dono di alcuni anni prima di oltre duecento disegni di Giacomo Quarenghi 3, manifesta la volontà di assegnare alla Carrara due opere di pittura. La lettera affaccia in una prosa distesa le ragioni culturali ed insieme affettive che animano la decisione. Il ricco tracciato informativo sulla natura delle opere, la loro provenienza, il loro stato di conservazione si conclude infatti con la motivazione più naturale: il profondo legame con l’istituzione per averla frequentata sin da giovane. Non paia marginale questa considerazione che nella scarsità di notizie sulla formazione del Secco Suardo introduce un nuovo elemento di valutazione. Pur non conoscendo, trattandosi di un breve cenno, l’esatta natura di questa giovanile frequentazione, rimane il fatto che egli avesse potuto contare non solo su una educazione giuridica, ma anche di carattere artistico. Il Secco Suardo che con modestia si dichiarava “né un professore, né un ricco mecenate, ma un semplice privato il quale [...] fu portato ad amare e studiare le Belle Arti ed a consacrare ad esse la maggior parte della propria vita” 4, ebbe modo di sviluppare specifiche attitudini attraverso accurate visite ai musei europei, il costante aggiornamento sulla pubblicistica in materia, la frequentazione di collezionisti ed intenditori dei quali seppe conquistarsi l’amicizia e la stima 5. Il paziente e “lungo rovistare per trovare capi d’arte abbandonati e sconosciuti”, pratica esercitata dal conoscitore di ogni tempo, sta all’origine del rinvenimento dei dipinti attribuiti al Sandrart ed al Bramantino – l’uno scoperto a Venezia e l’altro recuperato a Monza - donati nel 1871 all’ Accademia Carrara 6. Il motivo che guida il Secco Suardo nel recupero è il valore culturale delle due opere, intrinsecamente connesso alloro stato di conservazione. Sotto questo profilo i dipinti, dato il campo privilegiato d’interesse del Secco Suardo, restituiscono in effetti due situazioni conservative esemplari, anche perché tra loro opposte: “intattissimo” il Sandrart; molto provato per aver “subito tutti gli strazi immaginabili” il presunto affresco del Bramantino.

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Questa casistica sintetizza per il Secco Suardo i termini concreti entro i quali debba sapersi districare chiunque voglia accostarsi con competenza a manufatti artistici, sia essa la “gioventù studiosa” che, a maggior ragione, il vero conoscitore. A questa data il tema della imprescindibile valutazione delle condizioni di conservazione degli oggetti d'arte è a tutti gli effetti il nodo della ricerca sia pratica che teorica di Giovanni Secco Suardo, consegnata nelle pagine del suo Manuale del Ristauratore di dipinti 7 . La centralità della questione verrà pienamente condivisa da una figura di riferimento della connoisseurship internazionale come Giovanni Morelli - cui il Secco Suardo dedica il suo testo -, venendo a costituire uno dei poli del dibattito artistico europeo del secondo Ottocento. Il dono delle due opere alla Carrara assume per le considerazioni portate dal Secco Suardo un chiaro significato dimostrativo: l’uno è un testo utile al riconoscimento di “quella franchezza di pennello di cui tanto si discute”; l'altro, un affresco salvato dalla distruzione grazie alla tecnica dello strappo felicemente collaudata dal conte Giovanni, introduce il tema altrettanto importante della messa in atto di strategie per tutelare il patrimonio artistico nazionale. L’Accademia Carrara in particolare negli anni ‘60 aveva offerto al Secco Suardo più di una occasione nella quale dimostrare le proprie competenze in materia di conservazione: è il caso del dipinto attribuito a Cima da Conegliano in realtà di Antonio Maria da Carpi trasportato dalla tavola sulla tela nel 18648. E la gratitudine del conte Giovanni verso l’istituzione dovette essere grande quando la Carrara al rifiuto di Brera, dove pure lì egli aveva esercitato nel campo del restauro, contrappose il proprio assenso al prestito del dipinto, con il quale Giovanni Secco Suardo poté presentare i propri risultati a una ribalta internazionale come l’Esposizione Universale di Parigi del 18679. Egli aveva piena consapevolezza del fatto che dimostrando di aver operato con successo sul patrimonio di una istituzione pubblica avrebbe accreditato la propria opera con maggiore efficacia. Consapevolezza di ruolo che in occasione della donazione alla Carrara del 1871 si coniugherà apertamente al concetto di pubblica utilità. Giovanni Secco Suardo d’altra parte non manca di sottolineare che affidando la custodia del patrimonio di una “piccola raccolta di un ancor più piccolo privato” ad una galleria pubblica, se ne aumenta il potenziale informativo. Oltre ad essere un’importante consegna d’ordine materiale, la donazione configurava dunque il museo come luogo deputato alla custodia dei risultati di un’esperienza culturale, cresciuta grazie a reciproche disponibilità. Negli anni ‘60 il Secco Suardo, facilitato nelle relazioni con la Carrara dalla familiarità con Giuseppe Brentani, membro della Commissaria dal 1858, offriva come si è detto la propria consulenza sulla conservazione delle opere del museo. Sono anni di intensa attività sia teorica che pratica: egli attende alla stesura del manuale e tra il 1863 ed il 1867 compie una serie di decisivi interventi sul patrimonio del museo cittadino, guidando anche importanti lavori di restauro al di fuori dell’istituto: dallo strappo di un affresco attribuito a Pacino de’ Nova dall’esterno di S. Maria Maggiore poi depositato all’ Accademia Carrara (1964) 10, alla gestione della complessa operazione del trasferimento della decorazione di

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Giovan Battista Castello dalla residenza del principe Giovanelli alla nuova sede della Prefettura di Bergamo (1866)11. La bontà dei risultati accreditano il Secco Suardo prima a Bergamo che altrove, in un crescente rapporto di fiducia con le istituzioni, sancito dal prestito per l’Esposizione Universale di Parigi. E nel fare testamento Giovanni Secco Suardo non dimentica la Carrara, onorandola con un lascito di tutto rilievo. Il legato integra il patrimonio del museo con importanti lavori di artisti bergamaschi - due Nature morte musicali di Bartolomeo Bettera, due Ritratti di famiglia di Fra’ Galgario, ed un disegno di Giovan Battista Dell’Era 12 - ma insieme testimonia la validità della tecnica perfezionata dal Secco Suardo in primo luogo su opere di sua proprietà. I due Bettera vengono orgogliosamente portati ad esempio nel Manuale di come si possano risarcire alla perfezione i danni provocati dall'umidità attraverso operazioni di foderatura della tela. Nell'interessante passo, che informa con esattezza sulla data dell'acquisto e del coincidente intervento di restauro (1850), il Secco Suardo dà ancora una volta prova della propria cultura da conoscitore. Egli individua la paternità dei due dipinti e li accosta ad un altro pendant conservato in collezione Trivulzio a Milano, del quale non esita a specificare la vicenda collezionistica più recente, compreso il particolare del prezzo d’acquisto, ed a documentare con precisione lo stato di conservazione13. Altra è la storia dei due ritratti di Fra’ Galgario donati alla Carrara nella stessa occasione. La quadreria di famiglia disponeva infatti di una vera e propria galleria di ritratti del pittore bergamasco per essere stata la principale committente dell’artista14 sin dagli esordi. La volontà di incrementare il patrimonio del museo con due capi d’opera di uno dei più famosi ritrattisti bergamaschi e contemporaneamente di lasciare memoria della storia familiare attraverso due immagini tra loro opposte – l’una, quella di Girolamo, ufficiale e rappresentativa dello status di appartenenza; l’altra, del figlio Giovanni, più domestica e privata - è inseparabile ancora una volta dal desiderio di trasmettere un metodo di lavoro nell’ambito del restauro. Il Ritratto di Giovanni era infatti stato terreno di prova della tecnica del Secco Suardo, tanto da venire menzionato nel Manuale come ben riuscito esempio di pulitura nel capitolo dedicato ai rimedi da adottare nel caso di alterazioni delle tele per insudiciamento 15. E’ comunque difficile dalla consistenza dei lasciti alla Carrara derivare il profilo collezionistico di Giovanni Secco Suardo che pure non nega di possedere una piccola raccolta. Dai rari cenni che di essa rimangono si intuisce tuttavia il probabile filo conduttore del suo costituirsi: il progressivo affinarsi delle capacità del Secco Suardo, grazie al maturare delle sue competenze in materia di restauro, nel riconoscere la qualità di un’ opera nonostante fosse temporaneamente celata ad occhi inesperti dal cattivo stato di conservazione. I risultati dell’esercizio di una simile dote sono evidenti ed andarono con buona approssimazione non solo a vantaggio della collezione personale, ma al servizio della costituzione di altri nuclei collezionistici attraverso preziose consulenze.

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Anche a proposito della collezione è utile fonte il Manuale che segnala, oltre a opere di Bartolomeo Bettera e di Fra’ Galgario la presenza nella raccolta di Giovanni Secco Suardo di un Convito degli dei di Giulio Romano16. La citazione si riconnette, come nei casi precedenti, ad un riuscito intervento di restauro, confermando sotto il profilo collezionistico l’interesse nell’acquisto di opere in cattivo stato di conservazione da poter risarcire. Qualche spunto sugli incrementi collezionistici del Secco Suardo si desume dalla corrispondenza intercorsa con i restauratori ed in particolare nel carteggio con Giuseppe Fumagalli tra il 1849 ed il 186017. Dichiarato è il ruolo di quest’ultimo come mediatore nel 1853 nel corso di una trattativa per l’acquisto di una tavola di Andrea Previtali, proveniente dalla collezione di monsignor Morlacchi 18. Sempre in questi anni Giovanni Secco Suardo dispone di un Ruggero di Bruges 19, e può acquisire un Pinturicchio, un modelletto del Tiepolo, un non meglio precisato ‘capriccio’, dovendo comunque conciliare offerta e risorse economiche personali, in un delicato equilibrio che probabilmente vedeva sopravanzare le occasioni su una circoscritta disponibilità di mezzi. Nei casi in questione viene spesso dichiarato il precario stato di conservazione delle opere che tuttavia il Secco Suardo è persuaso di riuscire a restaurare. Ancora un cenno alla raccolta personale viene affacciato in una nota manoscritta a commento del catalogo degli Uffizi che figura tra i titoli della biblioteca di studio del conte Giovanni20: si tratta di una Madonna del Sassoferrato (G. B. Salvi) appartenente alla propria collezione che egli è in grado di accostare, con competenza, ad un’ opera conservata nel museo fiorentino. Una considerazione a parte meritano infine gli interessi del Secco Suardo per la grafica, ambito collezionistico più accessibile quanto a risorse, ma per competenze anche più impervio della pittura. Ben informato su quanto si muoveva a Bergamo, all’inizio degli anni ‘50 egli si dichiarava disponibile a provvedere all’acquisto di disegni offerti sul mercato antiquario della città 21. La non casualità dell’interesse collezionistico verrà confermata d’altra parte a distanza di anni sia dal primo lascito a favore dell’ Accademia Carrara, con il quale garantiva alle raccolte dell’istituto gli oltre duecento disegni di Giacomo Quarenghi, sia dal generoso legato testamentario. L’importanza e la qualità del foglio con la Competizione equestre del raro Giovan Battista Dell’Era22 non era sfuggita al conte Giovanni che nel farne dono alla Carrara era consapevole di arricchire degnamente il patrimonio dell’istituzione come nel caso del Quarenghi23.

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NOTE 8


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Dalla lettera del presidente dell’ Accademia Carrara Nicola Alborghetti ad Alessandro Secco Suardo, figlio di Giovanni, Bergamo, 13 giugno 1873, Bergamo, Archivio dell'Accademia Carrara (da ora in avanti AAC), Gallerie IV, suddivisione IV, Legati e doni di dipinti dal 1828 al 1905, Doni del conte Giovanni Secco Suardo dal 1864 al 1873.

2 AAC, Gallerie IV, suddivisione IV, Legati e doni di dipinti dal 1828 al 1905, Giovanni Secco Suardo, Dono dei quadri del Bramantino e di Gioachino Sandrart, 1871, Lettera di Giovanni Secco Suardo a Francesco Baglioni, Milano, 10 marzo 1871. Si veda qui di seguito la trascrizione del documento.

3 Si veda il rimando archivistico alla nota n. 1. Il Secco Suardo nel giugno 1865 donava all’Accademia Carrara 208 disegni di architettura, di cui 200 di mano del Quarenghi, e 13 titoli - 11 dei quali libri illustrati - censiti in un elenco autografo.

4 Dalla lettera di Giovanni Secco Suardo al professor Giovanni Pericoli presidente del corpo accademico dell’Istituto di Belle Arti di Urbino, Milano, 31 dicembre 1867, Lurano, Archivio Secco Suardo. Devo questa e altre preziose indicazioni di carattere documentario sull’Archivio Secco Suardo di Lurano alla cortesia di Lanfranco Secco Suardo e di Cristina Giannini.

5

A questo proposito si vedano il contributo di C. Giannini, Giovanni Morelli e il conte Suardo: conservazione, restauro e connoisseurship nel secondo Ottocento lombardo in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori, Atti del convegno internazionale, Bergamo 4-7 giugno 1987, Bergamo 1993, vol. I, pp. 199-211; ed in questo volume i contributi di M. Elisabetta Manca, Enrico De Pascale e Cristina Giannini.

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I due dipinti figurano nell’inventario dell’Accademia Carrara ai nn. 756 e 757. Rispettivamente attribuiti a Joachin Sandrart, con qualche riserva, ed a Scuola lombarda dell’inizio del XVI secolo (cfr. F. Rossi, Accademia Carrara Bergamo, Catalogo dei dipinti, Bergamo, 1979, pp. 87, 278); studi recenti hanno rettificato le due attribuzioni rispettivamente in copia da Giovan Battista Langetti (cfr. C. Klemm, Joachin von Sandrart, Berlino, 1986, p. 319) ed in Giovanni Stefano Scotti (cfr. F. Rossi, Restauro: Dipinti in “Osservatorio delle Arti”, 1988, n. 1, p. 113): la restituzione allo Scotti si deve a M. Teresa Binaghi Olivari in occasione del recente restauro del dipinto a cura di Antonio Benigni.

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Per questa ricognizione si sono consultate le seguenti edizioni: Giovanni Secco Suardo, Manuale ragionato per la parte meccanica dell’arte del Ristauratore dei dipinti, Milano, 1866; Giovanni Secco Suardo, Il restauratore dei dipinti, Milano, 1927, quarta edizione

8 Nell’inventario dell’ Accademia Carrara al n. 186; cfr. F. Rossi cit., 1979, p. 73; C. Giannini, Giovanni Secco Suardo restauratore e teorico. Appunti per una prima ricostruzione dei lavori eseguiti in ambiente lombardo in “Paragone”, n. 437, luglio 1986, p. 71

9 Sulla partecipazione del Secco Suardo all’Esposizione Universale di Parigi si conservano nell’ Archivio Secco Suardo di Lurano diverse minute relative sia all’infruttuoso rapporto con Brera, sia con la Carrara. L’intera vicenda è sintetizzata dallo stesso Secco Suardo in una lettera a Federico Faruffini, del 17 giugno 1867, inviata a Parigi. Come è noto la partecipazione dell’artista all’Esposizione Universale del ‘67 con il dipinto Cesare Borgia e Machiavelli veniva premiata con la medaglia d'oro.

10 Nell’inventario dell’ Accademia Carrara al n. D/1, Pacino de’ Nova, Madonna col Bambino (cfr. F. Rossi, cito 1979, p. 27 e C. Giannini, Contributi per una storia del restauro ottocentesco: il manuale di Giovanni Secco Suardo in “Archivio Storico Bergamasco” n. 13, 1987, p. 248, n. 10; si vedano in quest’ultimo studio alle pagine 247-248 gli altri restauri del Secco Suardo sul patrimonio della Carrara e in questo volume il contributo sull’argomento di Enrico De Pascale e Cristina Giannini.

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Si veda la Lettera di Giovanni Secco Suardo al principe Andrea Giovanelli, Milano, dicembre 1865, Lurano, Archivio Secco Suardo. Sul ciclo affrescato cfr. G. Rosso Del Brenna, G. Battista Castello in I Pittori Bergamaschi (da ora in avanti PB), II Cinquecento, II, Bergamo, 1976, pp. 443-444.

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Si veda il Testamento del conte Giovanni Secco Suardo, Erba, 1 gennaio 1872, conservato a Lurano, Archivio Secco Suardo; per l’accoglimento del legato cfr. AAC, Protocollo di consiglio della Commissaria dell’Accademia Carrara, 26 giugno 1873. Le opere donate figurano nell’inventario della Carrara ai seguenti numeri: Strumenti musicali di Bartolomeo Bettera, n. 760; il pendant, n. 761; Ritratto di Girolamo Secco Suardo di Vittore Ghislandi, Fra’ Galgario, n. 759; Ritratto di Giovanni Secco Suardo con altra figura, di Vittore Ghislandi, Fra’ Galgario, n. 758; Competizione equestre di Giovan Battista Dell’Era, inventario disegni n. 2041.

13 Si veda nella prima edizione del Manuale, Milano 1866, alle pagine 310 e 311. Sulle due Nature morte a soggetto musicale cfr. M. Rosci, Bartolomeo e Bonaventura Bettera in PB, Il Seicento, III, Bergamo, 1985, p. 163, n. 1 a, b.

14 Cfr. M. Cristina Gozzoli, Vittore Ghislandi detto Fra’ Galgario in PB, Il Settecento, I, Bergamo, 1982, pp. 6, 102, n. 13; p. 104, n. 21

15 Cfr. l’edizione del Manuale, Milano 1927 (quarta edizione), pp. 358-359. 16 Si veda nell’edizione del Manuale del 1927 (quarta edizione), alla pagina 418 17 Devo questa segnalazione alla cortesia di Cristina Giannini 18

Sulla trattativa e l’acquisto si vedano le lettere di Giuseppe Fumagalli a Giovanni Secco Suardo del 27 febbraio, 12 marzo, 23 marzo 1853, Lurano, Archivio Secco Suardo. Si legga a proposito del restauro dell’opera A. Conti, Giovanni Morelli e il restauro amatoriale in Giovanni Morelli e la cultura dei conoscitori cit., vol. I, p. 160.

19 Il dipinto è menzionato nella lettera di Giovanni Secco Suardo al figlio Giulio Cesare del 24 agosto 1869 (Lurano, Archivio Secco Suardo) nella quale il conte Giovanni ricorda un suo viaggio ad Anversa nel 1863.

20 Si veda in questo volume il contributo di M. Elisabetta Manca, cui devo questa informazione. 21

Si tratta di tre disegni acquarellati: Achille col centauro, Danza di puttini e Baccanti acquistati a Bergamo nel 1850: si veda la lettera di Giuseppe Fumagalli al conte Giovanni del 27 novembre 1850, Lurano, Archivio Secco Suardo; devo la segnalazione alla cortesia di Cristina Giannini.

22 Cfr. F. Buonincontri - M. Cristina Rodeschini Galati, Giovan Battista Dell’Era in PB, Il Settecento, IV, in corso di pubblicazione.


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Cfr. N. Sacchi, I disegni di Giacomo Quarenghi nella raccolta dell’Accademia Carrara in “Rivista di Bergamo”, aprile 1967, pp. 5-12. Il nucleo grafico è stato integralmente censito da Vanni Zanella in S. Angelini, V. Piljavski, V. Zanella, Giacomo Quarenghi, Bergamo, 1984, pp. 391-401, nn. 713920


LETTERA DI GIOVANNI SECCO SUARDO A FRANCESCO BAGLIONI, PRESIDENTE DELL’ ACCADEMIA CARRARA Milano 10 marzo 1871 (Bergamo Archivio dell’ Accademia Carrara, Gallerie VI, suddivisione IV, Legati e doni di dipinti dal 1828 al 1905). Onorevole sign. Presidente Nel lungo suo rovistare per trovare capi d’arte abbandonati e sconosciuti riuscì al sottoscritto di scoprire in Venezia un’opera intattissima di quel grande maestro che, con la penna non meno che con col pennello, illustrò la storia pittorica dell’Olanda sua patria, vale a dire di Gioachino Sandrart. E’ questo un quadro ad olio sulla tela, alto m. 2,07, largo m. 2,30, compresa la cornice che è di m. 0,15, il quale, con figure fin oltre al ginocchio e grandi forse più del vero, pare che rappresenti la parabola del buon samaritano. Dicesi pare perché, nel mentre il Vangelo non ne accenna che tre, qui ne figurano cinque. D’egual maniera, or son pochi anni, ottenne egli la facoltà di staccare dai muri di una antica chiesa in Monza, stata soppressa e venduta sino dal decorso secolo, una lunetta larga m. 1,81, alta m. 1,16 dipintavi a buon fresco da quel Bartolomeo Suardi soprannominato il Bramantino, intorno al quale disputarono tanto e disputano ancora i biografi, la quale rappresenta un Cristo morto appena staccato dalla croce, sorretto dalla madre e circondato da altre otto figure grandi circa due terzi del vero. Abbenché quel povero dipinto avesse subito tutti gli strazi immaginabili a motivo dei vari usi cui venne destinato il luogo dove giaceva, terminando in una bottega da erbivendola, pure il distacco riuscì meglio che non avrebbesi pensato, essendo staccate benissimo persino le aureole dorate che circondano le teste delle figure. Di maniera che, mediante pochi ristauri per risarcire quei luoghi ove de’ chiodi e degli arpioni infittivi avevan fatto cadere l’intonaco, riuscì ancor tale da poter somministrare una esatta idea della decantata valentia del maestro che la eseguì. Solamente la parte inferiore del Cristo, e segnatamente i piedi, svanì di molto a motivo della umidità ascendente dal suolo, dal quale distava meno di due metri e delle […] cui andò soggetta in causa di una scala costruttagli accanto. Tuttavia quelle parti ancora si distinguono abbastanza bene, per cui il sottoscritto reputò miglior consiglio il lasciarle come ora si trovano anzicché farle restaurare con pericolo di svisarle. Ma come la S.V. può rilevare da quanto fu qui detto, entrambe quelle opere, tuttoché pregevoli, pure sia per le dimensioni loro, sia pel soggetto che rappresentano, non sono molto adatte alla piccola raccolta di un ancor più piccolo privato, laddove si addirebbero assai bene ad una pubblica galleria. Riflettendo adunque il sottoscritto che la Pinacoteca della Commissaria Carrara non possiede opere sia di Sandrart nè del Bramantino e che per un di più, il quadro del primo potrebbe essere di non poca utilità alla Gioventù studiosa mostrando ad essa come deve essere interpretata quella franchezza di pennello, della quale a dì nostri tanto si parla e sì poco si comprende, essendocché in quell’ opera ad una prodigiosa

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facilità di pennello va unita la più scrupolosa diligenza, non essendovi mai ripetuto il tocco nè mai trascurato il più piccolo accidente, pensò di far dono alla Pinacoteca medesima di ambedue quelle opere. Il fresco non manca che di cornice; il quadro all’opposto ne ha una opportunissima. Ma essendo stato mal foderato or son circa vent’ anni, avrà bisogno di qualche carezza del valentissimo maestro Zanchi onde far disparire la traccia delle commes- sure nella tela, e forse ancor del diligente Fumagalli ove accadesse qualche scrosta- tura. Di ciò abbandona egli le cure alle SS.LL., e di più esprime il vivo suo deside- rio che il quadro del Sandrart sia posto in buona luce e basso abbastanza da potersi con tutto l’agio, non solamente vedere, ma analizzare, poiché in esso la parte mec- canica è quella che maggiormente merita di essere osservata. Nella lusinga che gli onorevoli Rettori di quello stabilimento che nella sua gioventù fu da lui pure frequentato vogliano di buon animo accettare l’attestato di affezione che ancora gli porta il qui sottoscritto, ed in attenzione di un analogo riscontro, ha l’onore di assegnare i sensi del suo rispetto. Secco Suardo C.C. Giovanni Milano 10 marzo 1871.

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LA “KUNSTREISE” DI UN AMATORE. INTRODUZIONE AL “TACCUINO DI VIAGGIO” di Enrico De Pascale e Cristina Giannini

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LA “KUNSTREISE” DI UN AMATORE. INTRODUZIONE AL “TACCUINO DI VIAGGIO”

“allorquando un amatore spregiudicato, che giudica i quadri cogli occhi e non col catalogo...” Giovanni Secco Suardo

Per gli amatori del Sette e dell’ Ottocento le grandi gallerie straniere furono sempre una palestra dove esercitare l’occhio; lo furono quelle italiane per gli stranieri, quelle straniere per gli italiani che amavano collezionare, o più semplicemente trovarsi a contatto diretto con gli oggetti che conoscevano attraverso le incisioni, le fonti, le conversazioni. Il “grand tour” e la “Kunstreise” erano un episodio importante della vita di quella società colta e raffinata, che pur rimanendo ai margini del mondo ristretto della ‘connoisseurship’, esprimeva un certo tipo di gusto, rappresentava il pubblico degli editori d’arte, la clientela degli antiquari e dei mercanti. Di solito i viaggiatori amavano descrivere le proprie esperienze; taccuini, diari, appunti, postille. Alcune di queste memorie furono rielaborate e pubblicate 1, altre rimasero manoscritte. Anche tra le carte di Giovanni Secco Suardo è rimasto un diario; un quaderno, acefalo, scritto con una grafia minutissima, che registra le tappe di un viaggio a Vienna, Monaco, Dresda, Lipsia e Berlino. Impressioni e curiosità, ma soprattutto una straordinaria testimonianza descrittiva del tessuto urbano delle città, delle chiese e dei teatri, delle collezioni di dipinti, di sculture, di armi, di ‘meraviglie’. Le pagine scritte a Monaco e a Vienna sono andate perdute, ma il ricordo delle due capitali riaffiora spesso durante le visite alla Gemäldegalerie di Dresda e all’ Altes Museum di Berlino; dipinti messi a confronto, considerazioni iconografiche, sul mercato, sulla qualità, perplessità attributive. Il viaggio del conte Giovanni in Germania é collocabile fra l’ottobre del 1844 e quello del 1850. Dal manoscritto sappiamo solamente che il Secco Suardo era a Lipsia un 19 di ottobre; ma la sua descrizione dell’Opera di Dresda corrisponde esattamente alla fisionomia originale dell’ edificio progettato da Gottfried Semper nel 1841; i dipinti della Gemaldegalerie erano ancora collocati nelle gallerie “exterieure” ed “interieure” dello Jüdenhof; infine, alcuni dei quadri descritti dal Secco Suardo a Berlino erano stati acquisiti dall’ Altes Museum solo nel 18432. Le immagini che il taccuino ci restituisce sono quelle di città ed edifici in gran parte distrutti, di un tessuto urbano in seguito più volte modificato; una Dresda ancora priva della nuova Galleria dello Zwinger e la Berlino immaginata e progettata da Friedrich Schinkel, con l’ Altes Museum da poco terminato ed aperto al pubblico.

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Il manoscritto appartiene agli anni “giovanili” del Secco Suardo “conoscitore”, al periodo del collezionismo, dei primi esperimenti di restauro, degli studi sui fiamminghi. Le sue annotazioni, che non sono quelle di un intenditore in senso stretto, esprimono una sensibilità ancora settecentesca, ma anche un gusto deciso, in qualche caso conservatore, non per questo privo di raffinatezza. Lo sguardo del conoscitore dilettante cerca ancora, nel dipinto, l’evocazione di un pensiero, delle proprie emozioni, anche il semplice, appagante, godimento estetico. In questo senso il diario del conte Secco Suardo si inserisce idealmente nella tradizione, squisitamente tedesca, del taccuino di viaggio: elenchi di dipinti e di oggetti con appunti e impressioni, che si alternano ad inserti storici e talvolta mondani. E’ insomma ancora lontano dal taccuino inteso come “strumento di lavoro” dello storico dell’ arte di metà Ottocento3. D’altra parte il Secco Suardo non era stato indirizzato come Ruskin o Cavalcaselle alla pratica disegnativa, conosceva solo la lingua francese, sicché le sue letture erano per forza di cose limitate; all’inizio degli anni Quaranta aveva da poco cominciato a frequentare la cerchia del più colto collezionismo milanese, aveva appena conosciuto il giovane Morelli. Era in tutto un autodidatta 4. Viaggia senza “introduzioni”, senza inviti, non ha la possibilità di visitare le grandi residenze private e le loro collezioni, di accedere alla cerchia più esclusiva del collezionismo internazionale. Eppure il taccuino è una pagina avvincente, nella sua semplicità, nella sua lingua a volte faticosa e antiquata, e nelle sue “cadute”, di un modo di guardare, che si muove parallelamente a quello dei “Kunstwerke und Ktinstler” di Waagen, dei “Drey Reisen” di von Rumohr5. L’ idea del viaggio e la scelta dell’itinerario, il significato storico-ideale della visita a Dresda, l’approccio alle città e alle collezioni, il tempo e le parole dedicate ad ogni singolo oggetto, le opere e gli artisti che non vengono ricordati, le considerazioni sullo stile, il modo di guardare, i riferimenti al mercato antiquario. È difficile scegliere fra questi percorsi, che lo spazio tipografico impone, come sempre, di selezionare. Quello del gusto è forse uno dei più intriganti; cercare fra le pagine quel filo che lega fra di loro oggetti anche terribilmente diversi, e ne esclude altri, importanti, famosi, di conclamata qualità. Quel filo, che come sempre nella personalità di un collezionista, è la libertà di trascurare un Veronese, e di innamorarsi di un Cignani. Che è poi quanto accade al Secco Suardo di fronte al “Giuseppe con la moglie di Putifarre” di Dresda. Lo straordinario dipinto ottagono, dove il maestro sposta la composizione verso il centro, concentrando la luce sui gesti, e sulle opposte volontà, dell’attrazione e della fuga, apre l’elenco dei dipinti segnati dal conte sul taccuino. “La bellezza dei volti, la verità delle tinte, l’effetto di chiaroscuro, l’espressione delle teste, il disegno, la fusione”, che convivono nella tela, lo seducono fino a fargli scrivere che, per assurdo, un Cignani può essere migliore di un Michelangelo. Prima del nome e dell’epoca il Secco Suardo cerca la qualità; e con un’attenzione squisitamente collezionistica annota che i prezzi del Seicento bolognese erano ancora relativamente bassi. Per farsi un’ idea del gusto del gentiluomo bergamasco basta scorrere le prime

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pagine del manoscritto; l’interno della Hotkirche di Dresda gli appare, dopo l’esuberanza decorativa dell’esterno, eccessivamente nudo, austero: senza marmi, senza stucchi, decisamente grigio. E’ un tipo di contrasto che non riesce ad apprezzare. Anche il percorso da un altare all’altro, alla ricerca di qualche dipinto d’eccezione, lo lascia deluso: niente di straordinario, scrive, trovasi neppure nell’ “Ascensione” dipinta da Mengs sopra l’altar maggiore, “la quale dai dresdesi vien considerata un capo d’opera”. Fermo restando il rispetto per i grandi maestri, il suo sguardo è catalizzato dal Cinquecento e il Seicento veneto, bolognese e lombardo, con qualche concessione alla scuola romana di Raffaello. Il conte Giovanni non era un amante dei primitivi, del Settecento e del Romanticismo in genere. I dipinti che lo attraggono sono legati dal filo del classicismo e del naturalismo. Alla Gemaldegalerie di Dresda il Secco guardo cerca i pezzi del Correggio, i “magnifici Paoli”, “i Tiziani e i Guidi”. Si ferma a lungo, e torna più volte di fronte alla “Semiramide” di Guido Reni; alle tele del Guercino, che lo attrae per quel modo di trattare le teste maschili, che sembrano tratte da un modello; ma dedica molto spazio anche a Gerolamo da Santacroce, a Palma il Vecchio, a Cima da Conegliano. E per quanto osservi che “i veneti peccano spesso nel disegno”, non è particolarmente attratto dalla pittura fiorentina; nessuna menzione dei primitivi, (anche se è vero che la “Sacra Famiglia” e la predella con “Storie di San Zanobi” di Sandro Botticelli non erano ancora entrate in galleria), e nemmeno dei ‘grandi’ del Cinquecento: il Franciabigio, il Bachiacca, il Bronzino, Andrea del Sarto. La sua predilezione per la scuola veneta è così forte, che di fronte alla “Madonna di San Sisto” di Raffaello scrive: “il piviale del santo par dipinto da Paolo Veronese”. Quando la qualità è eccezionale non mancano le concessioni; per il Seicento fiorentino è la “Santa Cecilia” del Dolci: un altro dipinto ottagono, e di dimensioni relativamente piccole, adattissimo ad una collezione privata. L’opera piace al Secco Suardo perché “il colorito non è, come d’ordinario si suole nel Dolci, sì esasperato ne’ lividi”; e, nonostante il soggetto, non c’é, nella “Santa Cecilia” di Dresda, quel manierismo, quell’esasperazione del pathos, tipica degli “Ecce Homo”. Infine, è sempe la qualità a prevalere sul soggetto, e sul maestro: “quando si giunge alla perfezione del quadro seguente”, scnve il Secco Suardo, “ogni maniera è buona”. In genere il conte Giovanni non ama il Barocco; trova Rubens decisamente troppo originale e Luca Giordano assolutamente ‘bizzarro’, anche se, in fondo, la sua abilità, - ricordiamo, fra gli altri, la tela con “Perseo e Andromeda” - gli fa dimenticare le eccessive stravaganze del maestro. E’ interessante la passione del conte per il primo Giulio Romano, di cui possedeva un “Baccanale”; la “Madonna del catino”, “fatta all’ombra di Raffaello, prima che il maestro indurisse lo stile”, è uno dei dipinti che lo affascinano maggiormente. E infatti, per quanto Giulio abbia già trasfonnato la composizione classica in una scena di genere (le due madri con i rispettivi figli) nel dipinto, databile al 1525, non compaiono ancora le forme sconvolte ed enfatizzate del periodo mantovano. Sono questi gli aspetti della maniera che il Secco Suardo non apprezzava: in Giulio, per esempio, “il tipo forte e poco gentile delle figure... e quel far duro e crudo che

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andò spiegando di poi”. Un gusto che trova una precisa rispondenza anche nella predilezione per alcuni generi; dalla lettura del manoscritto emerge la preferenza per il soggetto religioso, il paesaggio e la natura. Le vedute sono segnalate raramente; manca per esempio la serie dei Canaletto di Dresda, mentre sono annotate le due vedute di Verona del Bellotto . Il soggetto allegorico, di genere, gli interni di gusto popolare, il ritratto, restano spesso in secondo piano. Il conte condivideva con molti “amateurs” del suo tempo la passione per Claude. Le opere di Lorrain erano ormai introvabili sul mercato, tanto che alcune botteghe parigine si erano specializzate nella produzione di “tableaux à tournure”, che non erano copie, ma dipinti di maestri minori camuffati e trasformati in “autografi”. Nei lavori dell’artista il Secco Suardo vedeva idealmente coniugate l’analisi quasi molecolare della realtà e il classicismo della scuola bolognese. La pittura come espressione di naturalismo, come imitazione pura degli oggetti, come osservazione lenticolare della realtà: anche da questo nasce la passione per i maestri fiamminghi e olandesi del Seicento, di cui le collezioni tedesche erano ricchissime. La scuola di Harleem, di Utrecht, di Amsterdam, di Leida; Gerard Ter Borch, Gabriel Metsu, Gerard Dou, Franz van Mieris, Caspar Netscher. Di questi maestri il Secco Suardo ama la ricerca cromatica, lo smalto scintillante dei colori, il naturalismo, uniti alle dimensioni, che facevano di questi dipinti, dei pezzi ricercatissimi dal collezionismo privato non solo italiano. Nel taccuino sono annotati e descritti la straordinaria tavoletta di Gerard Dou con l’autoritratto dell’artista, con il globo, il violino e il quaderno per le annotazioni, simboli del mondo conosciuto e dell’ armonia fra arte e natura, dove “la verità gareggia con una finitezza microscopica”, la “Natura morta con candeliere”, con i suoi accessori, che sono trattati “con una finitezza da far sbalordire”, l’ “Ora di musica” di Franz Mieris, con il “prodigioso tappeto che copre la tavola”. Lo sguardo del conte seziona il dipinto e si ferma sui particolari: “infiniti tappeti ho veduto dipinti dai più celebrati pittori in questo genere, ma nessuno s’avvicina alla bellezza e verità di questo”. E aggiunge, con una punta di desiderio: “ove da questo quadro si tagliasse il sol pezzo che contiene il tappeto, si avrebbe tuttavia un quadro d’inestimabile valore”. La lettura del taccuino rivela un gusto decisamente orientato verso la pittura di Ari de Vois, di Ferdinand Bol, di Adriaen e Pieter van der Werff, autori di scene di genere e pastorali ricercatissime sul mercato tedesco per la grazia della composizione e la raffinatezza del tratto. Più difficile il rapporto con ogni forma di espressionismo pittorico o di esasperazione del dato naturale. Jacob van Ruisdael, per esempio, con il suo forte tonalismo che tende ad una interpretazione altamente emotiva del paesaggio, o il van Ostade dei dipinti più caricati in senso popolaresco sono già ai margini del gusto del Secco Suardo. E analogamente David Teniers, proprio per il suo eclettismo, “perché invece di copiare la natura la contraffà, non ci presenta che delle caricature, quali in natura non vi sono, o vi sono rarissime... proporzioni contro natura, atteggiamenti esagerati, bocche sterminate, nasi e menti lunghi un palmo, occhi invisibili o spalancati”. Si autoescludono dal taccuino del Secco Suardo artisti come Jacob

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Joardaens, tutti i primitivi, con una eccezione per “L’adorazione nella foresta” di Fra’ Filippo Lippi di Berlino, e la pittura tedesca in genere. Vale la pena di spendere ancora due parole sul rapporto di Giovanni Secco Suardo con Rembrandt e con Holbein. La “Holbeinstreit” scoppiò qualche anno dopo il soggiorno del conte a Dresda, quando, certamente anche grazie alla consuetudine con Giovanni Morelli, il gentiluomo, aveva allargato i confini delle sue preferenze ed era ormai un sostenitore del metodo morelliano6. Di fronte al “Ritratto de Morette” della Gemaldegalerie di Dresda, che recava ancora la vecchia attribuzione a Leonardo, il conte Giovanni non ha dubbi. L’equilibrio formale, la meticolosità illusiva, l’osservazione distaccata erano quelle di Holbein; in Leonardo è diversa la “craquelure”. Viceversa, nella “Madonna del Borgomastro”, il conte non vede il falso d’epoca. E’ uno di quei “cedimenti” che non possiamo non rilevare; anche se non è tanto nell’errore attributivo, quanto piuttosto nella lettura filologica ancora labile, che si avverte la distanza fra il taccuino dell’ amatore e quello dello storico dell’ arte. D’altra parte il Secco Suardo sapeva di non essere un attribuzionista, e la pubblicazione del suo diario non vuole avere questo significato. Vuole documentare una pagina di storia e di gusto, nella quale non mancano le intuizioni, anche acute e brillanti. L’ultima notazione su Rembrandt. I contrasti luministici, gli effetti teatrali, la stesura pittorica sciolta e libera, le libertà fantastiche dell’ artista non rientravano idealmente nel gusto del Secco Suardo; ciò nonostante al maestro olandese sono dedicate intere pagine del taccuino; la serie dei ritratti di Dresda, per la loro introspezione psicologica, ma soprattutto “Il ratto, di Ganimede” (“tutti gli idealisti che trattarono questo fatto impossibile lo resero ancor più inverosimile”) di cui oltre ogni cosa sono lodate la verosimiglianza e la credibilità dell’invenzione. Per il Secco Suardo il dipinto, (che il Morelli, anni più tardi, definirà “triviale”anche se “di un chiaroscuro mirabile”) “è uno de’ quadri di Rembrandt che più mi sorpresero; uno de’ più appetibili anche per una limitata raccolta; è grande al vero”. E sono proprio la non convenzionalità con cui è trattato il soggetto, l’ironia e il realismo di quel Ganimede “che è il robusto tiglio di qualche mandriano” e dell’ aquila che “ha un pò del pollo d’India” a sedurre il collezionista. Di Rembrandt il conte accettava anche “l'incoerenza de’ costumi” e quel suo vestire i personaggi “parte all’olandese, parte alla turca”. L’approccio all’opera d’arte, come si é già rilevato, risulta del tutto soggettivo, privilegiando essenzialmente la ricerca e la “degustazione” delle qualità seduttive e squisitamente pittoriche, nei limiti di un’esplorazione che lo stesso Secco Suardo non trascura di circoscrivere con lucida consapevolezza laddove annota: “Avverto colui che per avventura avesse a leggere questi miei scarabocchi, che col riportare, come vado a fare, un centinaio di quadri [della pinacoteca di Dresda], non intendo già accennare i migliori né quelli che meritevoli son di lode, ma unicamente quelli che, rispettivamente nelle loro scuole, mi fecero maggiore impressione” e ancora “oltre a che, allorquando un amatore spregiudicato, che giudica i quadri cogli occhi e non col catalogo, e quindi non dà retta alla origine loro, trovasi in un emporio così abbondante, talvolta fermasi sopra un quadro anche mediocre perché attrattovi

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da qualche particolarità”. A proposito della figura di Venere nel “Giudizio di Paride” di Van der Werff, “di una tal meraviglia da non potersi descrivere” - e la cui “mirabile purgatezza” é paragonata alla Venere Medici nonché alla “celebre Grazia (...) della Farnesina” di Raffaello - il Secco Suardo si spinge ad affermare che “eccita assolutamente più la vista di questa donna dipinta che quella d’una bellissima viva. Tiziano non ottenne mai tanto con le sue famose veneri”. In questo contesto si inserisce anche l’apprezzamento del conte Giovanni per i “paesi” di Hermann Swanevelt, “finito e diligente al pari di Claudio, al quale non cedeva nella sfumatura e nella delicatezza”, che é anche spunto per una polemica digressione nei confronti “di questi quadristi milanesi (che) pongono il nome di Swanewelt a certi quadracci duri, strapazzati di tinte terree” e del restauratore Brisson, reo di aver venduto come Swanevelt un dipinto del Conte Rinaldo Belgiojoso “di tinte giallognole, e di tocco strapazzato sia nel frondeggio, sia nel celo [sic], sia nelle macchiette...”. L’analisi delle opere, anche se con criteri “amatoriali”, procede in modo metodico e coerente alla ricerca dei requisiti considerati più significativi e delle suggestioni più intense. Ancorché poco incline ad addentrarsi nelle questioni di natura attributiva, di cui percepisce con lucidità le insidie e le difficoltà, il conte Giovanni mostra di avere sull’ argomento idee sufficientemente chiare. Davanti al “Vertumno e Pomona” del museo di Berlino, attribuito in catalogo a Francesco Melzi, annota: “Per decidere ragionevolmente che un quadro sia di un dato autore conviene o che ne porti il nome, o che lo si sappia istoricamente, o che risulti dal confronto con altre opere che si sappia con certezza essere di quell’ autore. Ciò posto, come potrà dirsi che un quadro sia di Francesco Melzi se non se ne conosce neppure un solo istoricamente certo?” Le competenze storico-artistiche del conte, quale é dato di capire dalla lettura del taccuino, testimoniano di una puntuale conoscenza di fonti, biografie, studi e trattati della letteratura artistica (frequenti sono i richiami al Vasari, al De Boni, al Boschini, al Ticozzi, al Ridolfi, al Malvasia ecc.) che risulta confermata anche dalla ricchezza e dalla varietà della sua biblioteca di lavoro, (ove figurano numerose guide e cataloghi dei principali musei europei, annotati e postillati) nonché dai ripetuti richiami alla saggistica contemporanea di settore. Com’era consuetidine nell’educazione dei colti viaggiatori del tempo, anche il conte Giovanni mostra di non giungere impreparato agli appuntamenti culturali più attesi. Molte delle opere incontrate ed ammirate nei suoi itinerari alla Gemäldegalerie di Dresda e all’ Altes Museum di Berlino, e commentate nel taccuino, gli erano infatti già note per il tramite delle incisioni, di cui riconosce ad ogni pié sospinto le intrinseche ed autonome qualità formali nonché l’insostituibile ruolo di essenziali strumenti di studio e di lavoro per il conoscitore; così è a proposito della “Leda” e della “Madonna di S.Giorgio” di Correggio o della “Madonna Sistina” di Raffaello, in merito alla quale può affermare: “Chi non conosce quel quadro specialmente dopo la stupenda incisione del Mülller? Non la descriverò dunque...” Alla descrizione iconografica dell’opera segue, con regolare frequenza, l’annotazione del formato e delle misure, la specificazione della grandezza delle figure (“figura grande al vero”, “ figura grande al vero mezza figura” ecc.), nonché l’analisi dei valori compositivi e formali: la felicità dell’invenzione, “la correzione

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del disegno”, l’intonazione delle tinte, la grazia, il naturalismo (la “finitezza microscopica” nel caso dei fiamminghi), la verità e la verosimiglianza, l’espressività, la leggerezza. Le osservazioni sulla conservazione delle opere e sugli interventi di pulitura e restauro, pur non frequentissime, hanno invariabilmente toni critici e polemici, specie in relazione al pregiudizio che tali interventi sembrano aver arrecato alla corretta lettura dei dipinti. Interessante valutare, a tale proposito, i mutamenti delle condizioni di conservazione di tal une opere-chiave nel confronto con i giudizi dell’amico Giovanni Morelli, in visita alla galleria di Dresda alcuni anni più tardi ma successivamente a talune discusse campagne di restauro che avevano interessato dipinti importanti quali il cosiddetto “Medico” già attribuito a Correggio, la “Madonna e Santi” e le “Tre sorelle” di Palma il Vecchio, la “Madonna di S. Giorgio” ancora del Correggio e, soprattutto, la “Madonna Sistina” di Raffaello, che il conte Giovanni poté ancora valutare come “talmente fresco di tinte e così ben conservato, che sembra fatto ieri”, laddove il Morelli rileverà mestamente che “fa quasi l’effetto di un acquarello talmente é ripulito”7. La sequela di polemiche constatazioni prosegue, nelle parole del conte Secco Suardo, a proposito de “La Notte” di Correggio: “quell’effetto abbagliante di colorito che tanto lodavasi per lo addietro più non esiste dopo l’ultima restaurazione, Poveri quadri, a quanti guai andate soggetti!”, de “Il Cristo della moneta” attribuito a Tiziano “di una finitezza straordinaria, e deve essere stato assai bello, ciò che non si può più dire attualmente vista l’opera benigna dei cosiddetti restauratori”, e della “Venere e Amore” di Guido Reni che “sofferse qualche dilavamento, massime negli accessori e nelle ombre principali(...). Potrebbe si con pochissima operazione ridurre meravigliosa del tutto rimettendo alcune poche velature smarrite”.

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NOTE

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1

Oltre alla bibliografia sul “grand tour” si veda il volume Viaggi in Europa. Secoli XVI-XIX. Catalogo del Fondo ‘Fiammetta Olschki’, Gabinetto G.P. Vieusseux-Leo S. Olschki

Editore, Firenze, 1989. Un particolare ringraziamento per la cortese collaborazione e gli utili consigli va a Francesco Rossi, direttore dell’ Accademia Carrara di Bergamo e a Giulio Orazio Bravi della Biblioteca A. Mai di Bergamo 2

Per le questioni relative alle date presunte del viaggio di Giovanni Secco Suardo in Germania, cfr. anche in questo stesso volume il capitolo dedicato alla sua biografia, a cura di C. Giannini. 3

Cfr. D. Levi, Fortuna di Morelli: appunti sui rapporti fra storiografia artistica tedesca e inglese, in Giovanni Morelli. Studi e Ricerche, Bergamo, 1987; Id., Cavalcaselle, Torino, 1988, pp. 42 sgg. 4

Per la formazione di Giovanni Secco Suardo e ulteriori notizie sul viaggio in Germania si ri.manda alla biografia pubblicata in questo volume e alle note esplicative in calce al manoscritto. L’abitudine del Secco Suardo a commentare e a prendere nota delle proprie valutazioni di fronte alle opere d’arte è confermata anche dalla ricchezza di note manoscritte apposte in calce ai cataloghi dei musei visitati prima e dopo il viaggio in Germania, di cui si trova testimonianza nei libri donati dal conte alla Biblioteca Civica di Bergamo: cfr. in questo stesso volume il saggio di M. Elisabetta Manca. 5

Cfr. K. F. Rumohr, Drey Reisen nach Italien, Leipzig, 1843. G. F. Waagen, Kunstwerke und Künstler in Deutschland, Leipzig, 1843

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Cfr. C. Giannini, Note sul restauro italiano del secondo Ottocento. La scuola fiorentina di Giovanni Secco Suardo e il Morelli, in “Paragone”, 391, 1982, pp. 44-55.

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E. De Pascale, M. C. Rodeschini Galati, Le annotazioni di Morelli ai cataloghi della Galleria degli Uffizi a Firenze e Gemäldegalerie di Dresda, in Giovanni Morelli. Materiali di ricerca, a cura di M. Panzeri e G. O. Bravi, Bergamo 1987, pp. 205-348.


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GIOVANNI SECCO SUARDO. TACCUINO DI VIAGGIO: DRESDA, LIPSIA, BERLINO a cura di Enrico De Pascale e Cristina Giannini

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Descrizione codicologica Quaderno di 94 carte non numerate, composto da 8 fascicoli tutti di 12 carte ad eccezione del primo che è di 10; mm. 230x170; scritto a tutta pagina con inchiostro blu; 27 linee, rigatura con inchiostro bruno chiaro, tracciata al recto e al verso dei fogli prima che fossero piegati e fascicolati; leggero margine sulla parte destra di ogni pagina, dove la stessa mano, ma con inchiostro rosso, annota in scrittura verticale, nomi di luoghi e monumenti citati nel testo e, sporadicamente, schizzi; il testo, acefalo, arriva sino a c. 58v.; le carte 59r.-94v. bianche; legatura in cartoncino, visibile al dorso la cucitura dei fascicoli (Archivio Secco Suardo, Lurano). Avvertenza Il Taccuino è composto da pagine prive di numerazione; pertanto nella trascrizione il cambio pagina è stato indicato con il segno / e con il salto alla riga sottostante. Tra parentesi quadre sono segnalate le integrazioni dei curatori laddove il significato delle parole poteva risultare incomprensibile, per esempio nelle abbreviazioni. I punti tra parentesi quadre [...] indicano le parole rivelatesi illeggibili.

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GIOVANNI SECCO SUARDO. TACCUINO DI UN VIAGGIO: DRESDA, LIPSIA, BERLINO

DRESDA, ARMERIA1

...antiche e relative armature, la quale occupa il piano superiore, ed armi da fuoco, che sta al piano terreno. Basta far mente alla vastità di quel luogo, e pensare che tutto è pieno zeppo, per comprendere quale sia lo sterminato numero degli oggetti ivi raccolti. La distribuzione vi è fatta per epoche e per scuole e quindi dalle armi greche e Romane si giunge a gradi a gradi fino all’attual capsula fulminante. Vi si vedono le armi né diversi tempi usate da tutti i popoli conosciuti, antichi e moderni, europei, asiatici, affricani ed americani, e quindi anche da questo lato offresi la più gradevole variazione. Oltre di che in appositi armadi vedonsi altri oggetti ancora, i quali apparterrebbero piuttosto ad un museo di curiosità, che ad una raccolta d’ armi, ma che pure non distonano, essendo convenientissimamente collocati e distribuiti2. Fra questi vuolsi rammentare un cappello che appartenne a Federico Il di Prussia, un paio di stivali usati da Napoleone ed una numerosissima raccolta, regolarmente distribuita per epoche, degli abiti comunemente usati tanto dagli uomini che dalle donne./ La qual cosa è piacevolissima, presentando tutte le varietà e le modificazioni che subì la moda, sì nelle foggie come nelle stoffe. Se qui accingermi volessi a descrivere, od anche solo ad enumerare quella immensa quantità di oggetti, converrebbe che scrivessi dei volumi. lo quindi mi limito ad osservare che nei tempi cavallereschi, acciò rendersi atti al peso enorme di quelle armature, cominciavano ad assuefarvisi fin da ragazzi. Del che si ha una incontrastabile prova nella quantità delle armature da fanciullo di tutte le età, cominciando dagli anni 10 all’incirca: e che non si devono ritenere baje3 le istorie di donne valorose in armi, dal momento che vedansi tante armature femminine. Notisi però che queste assai facilmente si distinguono dalle maschili a cagione delle loro proporzioni, e segnatamente della larghezza e profondità de’ fianchi, ma che è falso che nella corazza vi fosse l’impronta rilevata delle mammelle, come dipinsero i nostri pittori, mentre anche nelle armature femminili la corazza è di forma uguale alle maschili, e solo si osserva appena al/ quanto più convessa ai lati appunto per non comprimere soverchiamente quel naturale ornamento muliebre. Del rimanente non diversificano punto dalle altre, e sono esse pure assi pesanti. Ne v’ha poi alcuna fra le maschili d’un peso esorbitante e che pare impossibile potesse sostenersi. Fra le altre cose mi si fanno osservare alcuni spadoni di un tal peso che appena poteva alzarli: delle balestre sì pesanti e robuste che nessuno adesso è capace di tirare la corda alla metà della via per poterla inarcare ( e notisi che non son di quelle che si caricavano mediante una macchinetta) e così pure degli archi che a nessuno ora è dato di piegare: ed un elmo di ferro battuto e vagamente lavorato, nel quale vedonsi le impronte di parecchi colpi d’arma da taglio, il quale pesa oltre a tre rubbi4. I capi che più mi colpirono sono: 1° una pistola che dicesi essere la prima stata costruita. Questa consiste in un pezzo di

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randello con legatovi sopra una canna di ferro battuto, informe, non trapanata o ripulita e male saldata: ove finisce la canna vi è fermata una catena: di ferro con in cima una specie di molla per fermare un pezzo di carbone/ acceso col quale appiccare il fuoco alla polvere che riponevasi in una specie di scodellino incurvato nel legno e corrispondente al terminare della canna, la quale essendo stata col martello schiacciata e battuta al suo finire, non presenta che un foro ristretto. Quale contrasto con le eleganti pistole a capsula d’oggidì, ad una a due, a quattro e persino a sei canne! 2° Alcune armi persiane d’un lavoro inestimabile. 3° Due armature complete d’uomo e cavallo già appartenenti agli Estensi, l’una a riporti dorati, l’altra a bassorilievi d’argento. Ambedue sono un lavoro italiano ed appartenenti al secolo XIV. Quella in riporti dorati è anteriore e di gusto più puro. 4° Tre bardature di cavallo, una guarnita in oro con rubini e smalto, l’altra pure in oro con perle e diamanti, e la terza egualmente in oro con ismeraldi e granati orientali. In tutte e tre la preziosità della materia è vinta dal lavoro, ma principalmente nella prima che è di stile strettamente cellinesco. 5° Un vastissimo padiglione tutto sfolgorante d’oro e d’un lavoro immenso sia nelle antenne, sia nella serica stoffa che appartenne a Mustafà III./ Prima di passare ad altre cose parmi oportuno accennare in che cosa consistessero le armi che usavansi dai Paladini, cosa che appieno vedesi in questa stupenda raccolta, e che difficilmente si potrebbe rimarcare altrove. Esse erano: 1° una lancia formata di legno d’abete, e munita di punte di ferro alle due estremità; 2° una grande sciabola, ossia spadone pendente alla sinistra del Cavaliere; 3° una altro spadone consimile, ma di dimensioni alquanto minori, che pendevagli alla diritta di una mazza che pendeva dall’ arcione mediante un pezzetto di catena fermata alla estremità del manico, per mezzo della quale attaccavasi ad un rampino infisso nell’ arcione; 4° un pugnale lungo che pendeva dalla parete opposta alla mazza, cioé alla sinistra; 5° un altro pugnale più corto che pendeva dalla cinta del cavaliere. E poiché ho accennato le lancie, credo opportuno di rimarcare la diversità che passava fra quelle da torneo e quelle da guerra. Le prime erano d’abete, ma d’un pezzo tolto da un albero grosso, cosicché riescivano leggerissime. Alla sommità avevano circa tre quarti d’oncia di diametro il quale gradatamente si aumentava sino ad un oncia/ e mezzo circa, fino a che giungeva a quasi un braccio di distanza dal punto ove s’impugnava, prendeva la forma di cono a linee curve ingrossando fino ad oncie quattro di diametro. Ivi restringevasi tutto ad un tratto e formava una impugnatura di oncie quattro circa di larghezza e poco più di una di grossezza, finita la quale incominciava un cono come suaccennato, il quale però finiva tosto in punta, non essendo lungo che circa un braccio. In compenso avevano la larghezza di oltre a cinque braccia. [disegno a margine] Quelle da guerra invece erano formate da una pianticella d’abete e talvolta anche di larice, il che le rendeva assai più pesanti e robustissime: avevano superiormente ed inferiormente alla mano, ove naturalmente erano assottigliate acciò poter essere impugnate, il diametro di due once e mezzo all’incirca e di là diminuivansi verso le due estremità per modo che alla sommità avevano ancora più di un’ oncia e mezzo di diametro. Eravi un forte anello di ferro che serviva ad assicurare una grossa punta d’acciajo del

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diametro, alla base, di una mezz’oncia e della lunghezza di quasi mezzo braccio. Ognuno da ciò comprenderà/ che la frase “rompere una lancia” era benissimo appropriata ai tornei, ove adoperavansi lancie leggeris sime e sì fragili che al primo urto dovevano andare in ischeggie; ma che ben diversa era la cosa in guerra, mentre impossibile sarebbe stato lo spezzare lancie di quella robustezza. Unite ad alcune armature quasi gigantesche mi venne fatto di osservarne alcune del diametro fra le due e le quattro oncie, il che equivale ad una piccola trave.

DRESDA. CATTEDRALE CATTOLICA5

Dopo lo Zwinger il fabbricato più importante è la chiesa cattolica, a tre navate, vasta, altissima, e tutta di pietra tagliata, con una gran torre, ossia campanile sopra la porta principale, il quale essendo tutto sagomato e larghissimo alla base, costituisce una specie d’atrio all’ingresso del tempio. L’architettura di questo tempio appartiene al secolo XVIII e mostra lo sforzo d’un artista che provava di divincolarsi dall’orribile barrocchismo che allora dominava. E’ uno stile che mal potrebbesi appellare, ma che tende al buono. La forma è oblunga e semicircolare alle due estremità. Esteriormente è decorata da due ordini compositi di lesene binate con cornice risaltata./ Il primo ordine comprende l’intera periferia ed anche il campanile; il secondo serve a coprire il rialzo della volta e quindi si restringe. L’inferiore è coronato da una balaustra, il superiore da uno zoccolo; e ad a mbedue sono sovrapposte tante statue isolate quanti sono i binati. I finestroni che illuminano la volta sono armati, e nell’esterno l’ archivolto corrisponde a due colonnette isolate. Il campanile è quadrato ad angoli smuzzati ed è decorato da altri tre ordini oltre quello che, come dissi, è comune al tempio. Ad ognuno si restringe, e termina con una cupola di rame di forma quasi turca. Da tutto ciò comprenderassi che, essendo di vaste dimensioni, poteva dare un effetto imponente assai. Infatti è reputato uno dei templi principali della Germania6. Ma quanto è ricco l’esterno, altrettanto è nudo e negletto l’interno. Non dorature, non dipinti, non marmi, non istucchi; tutto è pietra nuda e muratura greggia, di maniera che lo spettatore, il quale dalla ricchezza dell’ esterno aveva molto argomentato anche per l’interno, trovasi affatto deluso. T uttavia la grandezza delle proporzioni e la forma non comune le danno un certo che/ di teatrale, e specialmente quel bizzarro ingresso sottoposto alla gran torre e costituito da un intreccio di archi. Diversa affatto ne è la forma, ma nel complesso, specialmente dello stile, richiama un poco l’idea della basilica di S. Lorenzo in Milano. Farebbe certamente migliore effetto se i pilastri fossero meno voluminosi7. Nulla di rimarcabile negli altari: ricco è l’organo, lodatissima opera di Silbermann8. Niente di straordinario trovasi neppure nell’ Ascensione dipinta da

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Ant. Raph. Mengs al dissopra dell’altar maggiore, la quale dai Dresdesi vien considerata un capo d’opera. Hanno però ragione: Mengs era nativo di Dresda9. Dopo la chiesa cattolica tien presso la protestante, detta di S. Maria.

S. MARIA. PROTESTANTE10

Questo tempio è poco distante dall’altro ed ha l’ingresso dalla piazza del mercato. Esso pure è tutto di pietra tagliata. E’ di forma rotonda con cappelle fondate semicircolari. Ai quattro gran piloni, che dividono le cappelle e sostengono la cupola, sono sovrapposte quattro aguglie o specie di campaniletti, però senza campane, i quali sono di una forma bizzarra ed il cui basamento, all’ esterno ha un piccolo aggetto; nel complesso è di forma molto svelta, e la/ gran cupola, a doppia parete, è di forma ellittica. Nel complesso delle proporzioni questo tempio potrebbe paragonarsi a quello di Superga presso Torino11, ma lo stile è affatto diverso, e nell’interno è tutt’affatto liscio, senza decorazione alcuna. Solo vi sono molti ordini di logge sorrette da mensole, cui i fedeli si recano pei divini ufficij col mezzo di commode scale situate nell’interno dei quattro citati piloni. Una di queste, progredendo, dà accesso allo spazio fra le due pareti della cupola, pel quale si ascende al cupolino molto alto e con quattro arcate, da dove godesi il magnifico panorama di tutta la città e suoi contorni. Dai relativi custodi si assicura apparire dai registri che le spese di costruzione di questo tempio assommano a circa 300/m zecchini sassoni, cioé 3 milioni e 900.000 lire austriache, e quelle per la chiesa cattolica a 906955, cioè undici milioni 790mila lire, escluso l’organo e tutti gli altari non meno che i sacri arredi. Tali somme a me sembrano un pò eccessive. Tuttavia egli è certo che molto devono aver costato12. Questa ed il gran ponte di tredici archi, sem/ plice ma di meravigliosa robustezza ed imponenza13, sono le opere che più mi colpirono fra le antiche; e fra le moderne sono il Teatro dell’opera e la custodia degli agrumi, ambedue di una tal ricchezza e buon gusto da far sbalordire. Entrambe queste fabbriche sono oltr’Elba; ove trovasi anche il cosiddetto Palazzo Chinese, perché contiene le raccolte d’oggetti chinesi e specialmente delle porcellane, il quale pure è un veramente magnifico palazzo.

DRESDA. TEATRO14

Il Teatro è isolato nel mezzo di una vasta piazza, come prudentemente si usa oggidì, acciò gli incendj che fatalmente sono il destino de’ teatri, non. abbiano a divorare anche le contigue abitazioni. E noto che fuori d’ Italia più non si usano ne’ teatri, né i palchetti separati, né i relativi camerini; ciò posto la costruzione di un teatro diventa più semplice; ed ove si osserva l’uso di assegnare ad ogni spettatore un posto fisso in teatro, e quindi la mancanza di tutti quegli abbonati che fra di noi recansi al teatro per passeggiare e chiacchierare, deve necessariamente diminuire il numero dei concorrenti; vedesi facilmente che minore assai è il bisogno di/ utilizzare spazio acciò il teatro contenga il maggior numero possibile di spettatori.

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Dal che ne deriva che l’architetto non è sì vincolato come fra di noi, né relativamente alla pianta, né rispetto alla decorazione15. Di questo vantaggio molto opportunamente si prevalse l’architetto del nuovo teatro di Dresda, nel quale non si curò tanto di preparare il luogo a qualche centinaio di spettatori di più, quanto di far le cose bene e belle. La forma della platea è nelle proporzioni molto simile a quella del teatro Re[ale] in Milano16. Un semicircolo con due bracci allungati quanto occorre acciò la lunghezza sia pari alla larghezza, cosicché si può coprire esattamente un circolo; e circolare appunto è lo scomparto della decorazione del soffitto. La decorazione poi della parete è sommamente ricca, ma alquanto bizzarra, e di stile fra il michelangiolesco e il bramantesco. Un ordine di basse colonne di forma pressocché pestale, con architrave liscio e cornice fantastica senza fregio costituisce il pianterreno, il quale, come usasi né teatri di Germania, è quasi del tutto coperto dai sedili della platea disposti ad arena, né vedesi per intero se non vicino alla bocca d’opera. Il / qual ordine è coronato da un davanzale di forma singolarissima, che, poggiando quasi alla estremità della cornice, rientra curvandosi, poscia si rizza per mezzo di parecchie modanature, e termina con un cuscino descrivendo in tal modo due curve della forma che qui vedesi [disegno a margine]. Per la qual cosa gli spettatori ponno appoggiarsi al davanzale ed allungare le gambe nello spazio lasciato libero dalla curva inferiore. Non v’ha dubbio che quella curva riesca commoda all’uso, ma è certo del pari che produce un brutto effetto alla vista. Sopra un tal ordine ve ne è un altro di gran nicchioni con archi volto, e siccome i piedritti che dividono quegli archi o nicchioni, ove si spingessero fino a piombo delle sottostanti colonne, impedirebbero il libero passaggio, così si sono tenuti qualche braccio indietro. Il che tutto produce ai miei occhi un pessimo effetto, vedendo una mole compatta e apparentemente pesantissima, fingendo essere di marmo bianco con ornati in bronzo, la quale poggia tutta per intiero sul falso. Il voltino di quelle nicchie, in ciascheduna delle quali ponno capire otto o dieci spettatori, è decorata da una gran conchiglia alla cinquecentistica. Alla imposta dell’ arco sporge un medaglione sostenuto da/ una mensola, sul qual medaglione poggia l’ archivolto, e quindi la parete piana, ossia la vela fra gli archi, come pure il voltino che dall’archivolto si spinge interamente a botte fino all’altro archivolto che continua la linea dei piedritti alquanto risaltati ai lati, e chiude l’accennata conchiglia. Al di sopra dell’archivolto esteriore suaccennato non v’ha che una cornice non molto alta, ma sporgente e sostenuta da altre mensole che sorgono dalla parete nei triangoli delle vele. Ad ogni pedritto e quindi ad ognuna delle citate mensole corrisponde un pilastrino decorato da un puttino ad alto rilievo, fra i quali pilastrini vi è una incarpettatura, il che terminando con una cimasa, forma il parapetto o davanzale del secondo ordine. Sopra di esso trovane un altro, pur di nicchioni quasi affatto eguale, che termina con una completa trabeazione, in luogo di una semplice cornice, sopra la quale corre una balaustra a colonnette non mai interrotta da pilastrini. E dopo tali due ordini d’archi (idea veramente bizarra!) havvi un altr’ordine di colonne all’incirca come quello del pian terreno, ma più sottili e più basse, cosicché appena si/ vedono stando in platea. Quest’ordine pure è coronato da una balaustra senza pilastrini. Qui vi dovrebbe essere il quinto ordine: ma l’architetto, amante più di una novità che di logica artistica, vi lasciò uno spazio vuoto capace a potervi stare

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comodamente un uomo in piedi, poscia fece correre una leggera cornice sostenuta solo dall’arco, sulla quale poggia niente meno che la gran volta di tutta la sala. E noti si che lo sfondo fra la cornice su cui poggia apparentemente la gran volta e la parete vera e solida, che in realtà deve sorreggere il tutto, è assai riflessibile poiché le colonne dell’ultimo ordine sono a piombo con quella del pian terreno (e quindi poggiate sopra i già accennati medaglioni, perché i piedritti delle nicchie restino alcun braccio più indietro) e la detta cornice è a piombo dell’ultima balaustra, la quale è sostenuta da medaglioni sporgenti dalla cornice dell’ultimo ordine. La volta è decorata da stucchi e dipinti, e la bocca d’opera da un binato con palchetti frammezzo e ricche decorazioni. Non v’ha dubbio che per chi non sa d’architettura l’aspetto interno/ di quella sala è imponentissimo sì per la grandiosità delle sue proporzioni, e sì per la somma ricchezza delle sue decorazioni: ma se alcun architetto avvisasse di fare altrettanto qui da noi, misericordia! è appiccato all’istante. Infatti va bene trovare dei partiti che facciano bella mostra, ma il vedere una fabbrica intiera tutta composta di bugie, e tale che non può sostenersi se non a forza di contrafforti di ferro nascosti, è cosa che assolutamente offende. L’architetto di quel teatro, che mi si disse francese, non tornò in tutto ai tempi ne quali facevasi consistere il bello nel far tutto al rovescio di ciò che c’indica la natura, ma vi stette assai poco lontano. Non così nella pianta, circa la quale s’attenne alla logica più assai che nol facciano i nostri architetti . La platea, nel lato opposto al palcoscenico descrive un semicerchio; semicircolare adunque ha fatto anche l’esterno. Viceversa il palco non può essere che rettilineo; e rettilineo si adattò l’esterno. Ma il teatro non è formato solo dalla platea e dal palco scenico: ci vogliono la galleria a disimpegno delle loggie interne, ci vogliono/ i camerini per gli attori, ci vuole il guardaroba, ci vogliono i magazzini etc. etc.. Le gallerie adunque sono state surrogate da due magnifiche, aventi archi vetriati i quali formano una superba decorazione, e per gli altri locali introdusse due corpi avanzati ai lati del palco scenico, con ingressi separati. Così nel centro del semicerchio esteriore una magnifica gradinata porta alla prima galleria, corrispondente al primo ordine di nicchioni nell’interno, dalla quale o si discende nella platea, ovvero per mezzo di magnifiche scale si ascende alla galleria superiore e da quella al terzo ordine; e così tutti gli addetti al teatro vanno e vengono senza imbarazzar punto l’ingresso degli spettatori, perché platea e palco compresa l’orchestra che riesce nello spessore della bocca d’opera, formano due cose affatto distinte. Quanto bizzarra è la decorazione interna, altrettanto bella e maestosa l’esterna. Oltre al basamento a bugne, che corrisponde al pianterreno dell’interno, e nel quale sonvi molte porte minori a sfogo della moltitudine in caso d’incendio o simili, vi/ sono due ordini d’intercolonni ed archi, il primo dorico, jonico il secondo. Sopra quest’ultimo, nella parte nuova, corre una terrazza con balaustra, indi un ordine di lesene composite, e finalmente un ricco attico. La parete rettilinea non ha terrazza e vi corrono gli indicati ordini ma a lesene. L’esterno, come accennai, è tutto di pietra tagliata. In quattro intercolonni per ognuno dei due ordini di logge vi sono dei nicchioni con statue sorretti in parte da mensolotti alla gotica; ed il fondo degli intercolonnj del terzo ordine, quello che riesce superiore alla terrazza, è tutto intagliato ad ornati di gusto michelangiolesco, e degli ornati corrispondono ad ogni pilastrino dell’attico. La parte posteriore ha due ali ai lati,essendo rettilinea finiscono in un frontone il cui fondo è ornato da bassirilievi.

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DRESDA. SERRA DEGLI AGRUMI17.

La custodia degli agrumi altro non è che una serra per difenderli nella fredda stagione. Questa è del medesimo stile del teatro ove descritto. Non ha che un sol piano rialzato parecchi gradini: verso mezzodì presenta una fila di archi lunga ben 500 e più passi, ai fianchi e nel lato posteriore degli intercolonni con lesene./ I fianchi sono decorati da due intercolonni semplici ed uno arcuato nel mezzo. Nei semplici vi sono delle porte, che conducono in una stanzetta, il quale serve come di anticamera, e comunica tanto con la serra quanto con il giardino. Quivi, utilizzando parte dell’altezza, è collocata l’abitazione del custode. Il pensiero è semplicissimo ma l’esecuzione è quella che rende meraviglioso quel fabbricato, perché è tutto di pietra tagliata, e non solamente sono intagliati i capitelli e le comici, ma incassettonato e ripieno d’ornati anche tutto il fondo degl’intercolunnj. Avanti a quel fabbricato vi sta un giardino quadrato, ove si espongono nella buona stagione. Nulla di rimarcabile vi era nel giardino, ma, invece di essere circondato da un muro, come di’ solito, è cinto da una cancellata di ferro fuso di una tal ricchezza che sarebbe degna di chiudere il più ricco palazzo reale. Essa poggia sopra uno zoccolo di pietra ed ogni quattro braccia all’incirca vi è un candelabro ricchissimo che fa le veci di pilastrino, frammezzo ai quali corre, non un rastrello ad asta come s’usa comunemente, ma un ornato, tutto a caulicoli, a foglie d’acanto, ad altri ornati consimili, di una/ bellezza e ricchezza veramente somma. L’altezza di questa cancellata sarà di circa 4 braccia oltre lo zoccolo in pietra. Tali sono le fabbriche che più mi colpirono: ove passerò ad accennare di volo le principali raccolte, marcando quei capi che in esse più mi sorpresero. E per primo comincerò dalla Galleria de’ quadri.

DRESDA. PINACOTECA18

Il locale della Pinacoteca, posto in un angolo della piazza nel mercato dell’antica Dresda, non ha nulla di bello. Al piano terreno vi ha un ordine rustico, e sopra nove gran finestroni arcuati, dei quali i tre di mezzo formanti un corpo alquanto sporgente, ornato da quattro meschinissime lesene senza capitello o base e da un analogo frontoncino. Vi si accede pel mezzo di una gradinata esterna a tre rampe per cadauna parte. La qual cosa deve indubbiamente riuscir molto incommoda nella stagione delle nevi. Oltre al non esser bello quel fabbricato è anche poco opportuno e ristretto assai di maniera che non havvi nemmeno un atrio od anticamera; di maniera che d’un sol passo transitate dalla piazza alla sala dove trovansi i quadri di Courtoi, di Poussin, di Gelée, che è la sala d’ingresso. Non/ so poi se da tale ristrettezza, o dal poco buon gusto di chi ne ebbe la incombenza, derivi la cattiva distribuzione de’quadri, poiché v’ha un tal pasticcio di scuole e d’autori, che veramente mi disgusta19. Per esempio i quadri di Van der Werff sono disposti in due sale distantissime l’una dall’altra, quelli di Wouwermans in cinque luoghi, Bloemen, nato in Anversa e che studiò e mori a Roma, è collocato alternativamente ora fra gli italiani, ora fra i fiamminghi, ed ora fra i francesi. Tra gli spagnoli trovasi Antonio Moro, nato a Utrecht e morto a Bruxelles, e nelle sale de’ pittori italiani, non solo vedonsi parecchi stranieri, ma accanto a Leonardo

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vedesi Luca Giordano, accanto a Pierin del Vaga Giuseppe Chiari, accanto al Correggio Domenico Feti, accanto a Raffaello, Michelangelo delle bambocciate20. lo non sono punto persuaso del sistema fin qui tenuto nelle grandi pinacoteche di distribuire gli autori facendo le scuole. È vero che le scuole principali hanno una certa maniera cadauna loro propria, ma spessissimo accade che un pittore per esempio veneto abbracci lo stile romano, e così via, ma se da un canto si ha il vantaggio di veder riunito in complesso gli autori di una tal data maniera, si ha poi dall’altro il disagio di dover accozzare ogni epoca e tradire la storia. Oltre di che anche il vantaggio di aver sottocchio una tal maniera non lo si ha che imperfettamente. Per esempio qual relazione hanno i dipinti di Giovanni Bellini con quelli di Paolo Veronese? Qual rassomiglianza ha il Mantegna con Leonardo? Quale fra Rubens21 e Wouvermans? Fra Rembrandt e Dow, suo allievo! lo sono d’avviso che il miglior sistema di distribuire una grande pinacoteca come la presente, composta di 2033 quadri., appartenenti a 496 autori, sarebbe quello di procedere cronologicamente epoca per epoca di anni 50 cadauna, procurando poi di tener divise le scuole, od almeno aggiungendo al quadro un cartello indicante la patria dell’ autore ed il paese ove ha fiorito, oltre l’anno della nascita e quel della morte. In tal modo incominciando dagli autori bizantini, e procedendo fino ai giorni nostri, si avrebbe costantemente sott’occhio un confronto di ciò che in ogni epoca facevasi nei singoli paesi/ ed una palpabile storia dei progressi e decadimenti dell’arte di ogni paese. Dai quali confronti il conoscitore erudito potrebbe ricavare assai facilmente utilissime conseguenze a vantaggio dell’arte, svelando il fatto quali furono i motivi principali degli avanzamenti e dei decadimenti... Ma io, poveraccio, non sono in situazione di fare nulla di tutto ciò, e quindi conviene che mi accontenti di osservare i bei quadri come sono, compiangen do la bonarietà di chi continua a lasciarli come li dispose il compagno di Balaam. La Pinacoteca di Dresda è senza dubbio una delle primissime esistenti. Cederà a quella di Firenze rispetto ai pittori italiani, a quella del principe Esztherhazij pei pittori spagnoli, a quella di Monaco per la copia de i Rubens, ma presa in complesso è la prima che io abbia mai veduto, poiché comprende con sufficiente ricchezza, tutte le scuole ed è poi sorprendentemente ricca nella fiamminga, olandese e tedesca. E circa l’italiana ha tutti i capiscuola ed i nomi più celebrati, ne ha quanto basta, ed ha opere stupendissime. Di Raffaello non ne ha/ che uno, ma quello è il migliore che esista per bellezza e conservazione: di Leonardo pure ne ha uno solo, e questo ancora combattuto, ma è un quadro di bellezza somma, ed è poi ampiamente compensata da niente meno che sei pezzi del Correggio, tutti indubitati e di primissimo ordine, dai magnifici Paoli, dai bei Tiziani e dai Guidi, dei quali il Nino con Semiramide22 ritengo che sia il capolavoro di quel maestro. Non si parli poi delle scuole fiamminghe etc. delle quali vi sono a dozzine cose da far girare il capo. La Madonna del Borgomastro di Holbein, la Nuotatrice di Avij De Voijs, il Giudizio di Paride di Van der Werke, il ratto di Ganimede di Rembrandt etc., sono capi inapprezzabili. Avverto colui che per avventura avesse a leggere questi miei scarabocchi che col riportare, come vado a fare, un centinajo di quadri, non intendo già di accennare i migliori, né quelli

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che meritevoli son di lode, ma unicamente quelli che, rispettivamente nelle loro scuole, mi fecero maggiore impressione. Ciò ritenuto mi si compatirà se dimentico per esempio Paolo Veronese, ed accenno/ invece un Cignani. De Paoli ne ho veduti d’altrettanto belli anche altrove, ma dei Cignani pari alla Moglie di Putifarre con Giuseppe, credo non ve ne sarà un altro al mondo; e quindi l’ho marcato anche per far vedere che talvolta una felice ispirazione solleva i mezzani ingegni ancora a far opere prodigiose23. Si renderebbe al certo sommamente ridicolo chi avvisasse di fare un confronto fra il Buonarrotti e il Cignani: eppure con buona pace de’ Puristi, la Putifarre di Dresda è miglior quadro che le Parche della galleria Pitti di Firenze24; abbenché queste abbiano in commercio un valor centuplo di quello. Oltre a che, allorquando un amatore spregiudicato, che giudica i quadri cogli occhi e non col catalogo, e quindi non dà retta alla origine loro, trovasi in un emporio così abbondante, talvolta fermasi sopra un quadro anche mediocre perché attrattovi da qualche particolarità. Dunque incominciamo25. 115. Sanzio Raffaello. La Madonna detta di S. Sisto. Chi non conosce quel quadro specialmente dopo la stupenda incisione del Müller? Non lo descriverò dunque e mi limiterò a dire che mentre è della più bella e grandiosa maniera dell’urbinate, e che è toccato con un fare largo/ e più che la Madonna di Foligno e la Trasfigurazione, è talmente fresco di tinte e così ben conservato, che sembra fatto jeri. E’ della larghezza di circa Br. 2,5 per l. ed è riparato da un magnifico cristallo d’un sol pezzo, appositamente fuso e molato. Supera in freschezza lo Sposalizio di Brera, né mi sovviene d’aveme veduto altro toccato con tanta speditezza. Il piviale del Santo par fatto da Paolo Veronese!26 116. Raibolini Francesco, detto il Francia. L’Adorazione dei magi. Fu un gentil mago anche chi la dipinse27. 117. Pippi Giulio, detto Giulio Romano. Sacra Famiglia detta La Madonna del catino. In fatti sopra un tavolo sta un catino entro cui è posto il B. che viene lavato dalla M. mentre il S. Gio. B. gli versa addosso dell’acqua, e S. M. Elis. è pronta per asciugarlo. I Santi Giuseppe e Gioachino sono indietro. Basta riflettere al pensiero di questa composizione per comprendere che quest’opera venne eseguita prima della mancanza del gran maestro, e quindi prima che Giulio indurisse il suo stile28. 118. Raimondi Marco Antonio. L’Adorazione dei Magi entro la capanna d’un pastore. Lo stile della composizione e del disegno si/ appalesa chiaramente raffaellesco: ma la maniera del dipingere è ignota. Siccome poi quel dipinto porta le lettere M.R. e l’anno 1504, così supponesi opera di Marcantonio Raimondi, il celebre incisore compagnone di Giulio Romano, appoggiandosi all’autorità del Malvasia, che asserisce essere il Raimondi stato bravissimo per eseguire dei quadri sopra disegni di Raffaello. Checché ne sia, quel che è certo è che è bello29. 119. Franciabigio Marcantonio. Bellissimo quadretto oblungo trasversalmente, rappresentante l’istoria d’Uria. In un luogo vedesi Uria addormentato disteso sopra una balaustra che circonda il suo palazzo, e David che dall’alto di un portico adocchia Betsabea nel bagno; in un altro luogo vedesi Uria a tavola e sotto il sopraccitato portico, in un terzo vedesi il buon marito in atto di ricevere dall’ingannatore David la celebre lettera che doveva perderlo. Anche questo quadro

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è contrastato, anzi il Vasari lo attribuirebbe ad Andrea del Sarto. Ma a ciò si oppongono le cifre esistenti sul quadro stesso cioè A.S. 1523 F B le quali si spiegherebbero per Anno salutatis 1523. Franciabigio, mentre il monogramma d’Andrea era [disegno del monogramma]. Più che la cifra poi parla il dipinto in cui non vedesi il pennello d’ Andrea30/ 120. Tisio Benvenuto, da Garoffalo. Quadro allegorico in onore di Andrea Doria. In esso il Doria è rappresentato sotto forma di Nettuno, accanto alla Pace. Fra quanti ne vidi di questo autore, è quello che tutti li supera per forza e vaghezza di colorito31. 121. Il Bambino Gesù che dorme, ed a cui dagli angeli son presentati, come in sogno, gli emblemi della passione c’avrà a poco portare. Graziosissima cosetta. Ciò che non posso comprendere sono le parole APENI scritte sovra una pietra ai piedi del B32. 122. Vecelli Tiziano. I Farisei che chiedono a Cristo se debbansi o no pagare i tributi a Cesare. Questo quadro celebratissimo è conosciuto sotto il nome di Cristo della Moneta. Sono parecchie figure aggruppate assai strettamente, che vedonsi fino alla cintola. E’ di una finezza straordinaria, e deve essere stato assai bello, ciò che non si può più dire attualmente vista l’opera benigna dei cosiddetti restauratori33. 123. Detto. La B. V. il B. e S.G.B. Avanti ad essi una giovane con gli occhi chinati e i S.S. Giovanni e Girolamo. E’ degno di Tiziano34. 124. Santa Croce (da) Gerolamo bergamasco. La B. V./ e San Gius. che adorano il neonato Bambino. La scena è in una capanna: due angeli stanno accanto al B. mentre altri in alto stanno cantando il Gloria, ed altri portano gli emblemi della passione. Distinguesi da tutti per una sorprendente vivacità di tinte e grazia di fisionomia. Qual piacere è per un povero bergamasco il vedere che nelle più distinte gallerie i pittori suoi compatriotti si distinguono sempre! Eppure quel caro signor Vasari dimenticò di accogliere tra i pittori del buon secolo il Santacroce, il quale non so se per ignoranza o per riottaggine venne dimenticato anche dal Boschini, e fu negletto e trascurato dal Ridolfi. Povera gente!35 125. Cima Gio. Batta da Conegliano. La Presentazione al tempio. Stupenda cosa36. 126. Robusti Giacomo, detto il Tintoretto. Il monte Parnaso. Qual peccato che un artista capace di fare quadri come il presente, come l’Adultera della galleria Eszterhazij, come il miracolo di San Marco dell’ Accademia di Venezia e qualchedun altro, abbia a parer mio, rovinato l’arte abusando del proprio ingegno e della facilità sua! Questo, sia per la composizione, sia per tutto il rimanente è un vero capolavoro, quantunque però, con buona pace de’signori tintorettiani, anche in questo come in/ tutti gli altri siamo ben lontani dalla splendidezza del colorito d’un Tiziano, d’un Giorgione, d’un Pordenone, d’un Palma, d’un Lotto e d’altri pittoroni della scuola veneta37. 127. Palma Giacomo il giovane. La B. V. seduta col B. sulle ginocchia: S. Gio. Batta. e S. Caterina d’Alessandria le stanno ai lati. 128. D[ett]° Tre belle giovani stanno formando de’mazzi di rose. Grande al vero, ma qui gli amatori contrastano nello interpretare il soggetto, che non vien indicato da alcun emblema. Si sa però che quella bionda che sta nel mezzo è la celebre Violante figlia del pittore: perché dunque non si potrà ritenere che le altre due

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siano le di lei sorelle, e che questo sia un quadro di famiglia? Tutto, specialmente la foggia degli abiti quali osservasi ai tempi del Palma induce in questa credenza. E’ inutile lodare la verità ed il brio di tinte di tali due graziosissime opere38. 129. Cagliari Paolo. L’Adorazione dei Magi. Degno di lui39. D.° Soggetto capriccioso40. 130. La B. V. sta in piedi dietro ad una balaustra fra S. Gio. Batta e S. Girolamo, e presenta il Figlio all’Adorazione della famiglia Coccina (nobile veneta) che si prostema avanti ad Essa, condotta dalle virtù Fede, Speranza e Carità. Se il gruppo della/ M. con i due S.S. fosse pari in bellezza al rimanente, questo sarebbe uno dei primissimi capolavori di quello sterminato artista, tanta è la verità e la bellezza e la vivacità che vi domina!41 131. Anonimo di scuola veneta. Venere giacente nuda sopra un letto con biancheria, tenendo il braccio sinistro appoggiato sopra la testa. Se questa venere non è di Tiziano certo sta al pari delle più belle per la vivacità e morbidezza delle carni e l’armonia di tutto il dipinto: solo ha la coscia e la gamba sinistra alquanto peccanti nel disegno, cosa frequentissima a trovarsi nei veneti42. 132. Da Vinci Leonardo. Ritratto creduto del Duca Francesco Sforza di Milano al v[ero] m[ezza] f[igura]. Egli è vestito d’un abito nero con un bonetto piatto ornato di bottoni d’oro. Con la sinistra stringe un pugnale a guaina d’oro che pendegli dalla cinta, nella destra tiene un guanto. Checché ne sia dell’autore, quest’è un’ opera insigne sì per la finitezza che per la condotta e la verità. lo però non vi trovo il vero fare lionardesco, e specialmente quelle screpolature cui andarono soggetti i suoi dipinti, e mi associo quindi a quelli che il ritengono piuttosto una stupenda cosa d’Holbein43./ 133. Da S. Geminiano Vincenzo. La B. V. col B. che abbraccia teneramente il S.G. Batta44. 134. Barbieri Francesco, detto il Guercino. Lot e le figlie. Una di queste rammenta l’Agar di Brera, anzi può assicurarsi che entrambe sieno ritratte dal medesimo modello, il di cui tipo scorgesi sovente nelle opere del Guercino. Qual grazia in quelle testa!45 135. D.° La regina Tomiri che rigetta con indignazione le proposte di matrimonio rinnovellate da Ciro dopo la defezione del di lei figlio. Entrambe queste opere sono di una bellezza insigne, e, quel che è più raro, pochissimo cresciute di tinte. Gli occhi di Tomiri spiran fuoco46. 137. Allegri Antonio da Correggio. La M. di S. Francesco47. D.° 138 La M. di S. Sebastiano48. D.° 139 La Maddalena49. D.° 140 La notte, ossia il presepio50. D.° 141 La M. di S Giorgio. E’ inutile descrivere questa opera già da tutti conosciutissima col mezzo delle incisioni. Solo farò osservare che mentre tutte cinque sono indubbiamente del Correggio, conoscendosene perfettamente la provenienza, pure tutte son dipinte con un fare l’uno diverso dall’altro. Il che prova la grande versa/ tilità dell’ingegno di quel sommo artista. Il S. Francesco ha uno stile che tiene d’Andrea del Sarto, ed il santo propriamente ha persino del Morone: tanto è rilevato, vero, ma modesto. Il san Giorgio invece ha un buio di tinte come uno de’

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più splendidi veneziani, mentre il S. Sebastiano è opaco e di tinte monotone. La Maddalena pure si stacca dagli altri, ma, a parer mio, è quella forse che tien di più alla più consueta sua maniera. Della Notte, poi, di quel quadro sì universalmente celebrato, poco ora rimane a dirsi. Il magnifico pensiero e la felicità di esecuzione del cavar la luce dal bambino sono note; ma quell’effetto abbagliante di colorito che tanto lodavasi per lo addietro più non esiste dopo l’ultima restaurazione. Poveri quadri, a quanti guai andate soggetti!51 142. D.° Un ritratto, che credesi del suo medico gr[ande] v[ero] m[ezza] f[igura] Bellissimo pel rilievo e l’espressione, rarissimo per essere l’unico ritratto conosciuto di man del Correggio52. 143. Caracci Annibale. M. col B. in trono con Santi ai piedi ed angeli in alto. Assai bello53. 144. Reni Guido. Bacco fanciullo ignudo, che stando appoggiato ad un tino, tracanna del/ vin rosso da una bottiglia, e al tempo stesso piscia allegramente. Prezioso quadretto in cui veggonsi congiunte la vivacità di Rubens e la grazia di Guido54. 145. D.° Venere nuda sdraiata sopra un letto, che presenta una freccia ad amore. Questo quadro al primo colpo d’occhio non fa grande effetto pel motivo che, non solo è della maniera chiarissima ed a luce sparsa, ma sofferse qualche dilavamento, massime negli accessorj e nelle ombre principali. Ma se si osserva con qualche attenzione, e specialmente poi se si raccoglie la luce, diventa un gioiello. La bellezza delle forme, la verità delle tinte, la freschezza delle carni, il rilievo, la grazia vi sono riunite in grado eminentissimo. E’ veramente una Dea. Potrebbesi con pochissima operazione ridurre meravigliosa del tutto rimettendo alcune poche velature smarrite55. 146. D.° Nino e Semiramide. Entrambi sono in trono e Semiramide sta per porsi la corona in capo. Nessun quadro di questo autore fu da me veduto che lo agguagli in dignità, forza di colorito e vivacità di tinte. Lo riterrei il suo capolavoro. F[igura] gr[ande] V[ero]56 147. Albano Francesco. Venere seduta nella sua conchiglia tirata da delfini. 148. D.° Galatea circondata da Genj. Sta assisa sopra un carro in forma di conchiglia, tirata da delfini. Ambedue fra i belli e ben conservati57. 149. Dolci Carlo. S. Cecilia che suona l’organo. Gr[ande] V[ero] m[ezza] f[igura]. Credo aver già accennato che il Dolci non è un pittore molto simpatico per me, e che anzi in alcune opere, essenzialmente negli Ecce homo, mi spiace pel suo manierismo. Ma quando si giunge alla perfezione del quadro presente, ogni maniera è buona. Non si può dare né un miglior tipo di fisionomia, né maggior grazia di movenza e d’espressione, né più morbidezza, fusione ed armonia di colorito, il quale non è, come d’ordinario suole il Dolci, sì esaperato nei lividi. lo preferisco questa S. Cecilia alla celebre Copia di casa Corsini58. 150. Amerighi Michelangelo, detto il Caravaggio. Due giocatori alle carte, ed un terzo che standosi in piedi dietro il più giovane ne indica le carte all’altro facendogli segni con le dita. Assai bello e d’un magico effetto59. 151. Ribera Giuseppe, detto lo Spagnoletto. S. Maria Egiziaca, nuda e coperta solo dalla sua capigliatura. Sta genuflessa nel deserto accanto/ alla fossa da lei medesima scavata. Semplicissimo nel concetto e nella esecuzione,

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ma havvi una tal luce, e tanta espressione in tutta quella figura, che vi danno un effetto prodigioso. È del genere caravaggesco60. 152. Giordano Luca. Le nozze di Perseo e d’Andromeda. E’ diviso in due scene: avanti vede si Perseo che presentando loro il capo di Medusa converte i suoi nemici in pietra; nel fondo vedesi la tavola nuziale con i brilli convitati. L’idea è bizzarra, ma la vivacità con la quale è dipinta fa dimenticar tutto61. 153. Passarotti Bartolomeo. Il pittore con la propria famiglia. Bellissimo62. 154. Luti Benedetto. Una B. V. a mani giunte. Vero tipo63. 155. Rossi Pasquale, detto Pasqualino. L’Adorazione dei pastori64. 156. Battoni Pompeo. S. Maria Maddalena nel deserto. Accenno questo quadro perché è rinomato, avendo voluto emulare quello del Correggio. E, per verità, è anche un buon quadro, abbenché immensamente inferiore alla Maddalena dell’ Allegri. Prova ne sia che non isfigura, quantunque collocato nella sala medesima, e posto quasi frammezzo alla M. di San Sisto ed al S. Francesco dello stesso Correggio65. 157. Gennari Benedetto. L’unione del disegno e del colo/ rito. Quadro allegorico. Una giovane donna mentre sta dipingendo un amore, volgesi ad un vecchio, che stando assiso ad una tavola, tiene in mano il disegno del quadro ch’essa ha incominciato. Grande verità, grazia e leggiadria66. 158. Cignani Carlo. Giuseppe che s’invola dagli abbracciamenti della moglie di Putifarre. Fi[gure] gr[andi] v[ero] m[ezza] f[igura]. Tali sono la bellezza dei volti, la verità delle tinte, l’effetto del chiaroscuro, l’espressione delle teste, il disegno, la fusione, l’armonia, che questo quadro, abbenché sortito da un pennello poco celebrato, è uno dei più piacevoli di quella grande galleria. Se il Cignani avesse dipinto sempre a questo modo, verrebbe annoverato fra i più grandi pittori67. 159. Bellotto Bemardo. Due vedute di Verona. Sono di tal bellezza che mi piacciono più di quelle del Canale68. 160. Murillo Bartolomeo. La B. V. col B. sulle ginocchia. Il tipo della M. tiene un pò dell’ affricano nelle forme e specialmente della bocca: ma vi domina una tal quiete e verità unita a magico effetto, e l’espressione della fisionomia, massime nel girar degli occhi al cielo è tale, che si resta come incantati al veder quella/ tela. E’ di grandezza poco men del vero, ed è una delle più belle opere di Murillo che io n’abbia vedute, senonché questa supera forse l’altra (la B.V. che distribuisce pani ai missionarj della galleria Eszterhazij) per la sublime espressione del volto. Che bel pittore!69 161. Gelée Claudio, detto il Lorenese. Tramonto di sole. Una vasta pianura è attraversata da un fiumicello che forma una piccola caduta. In lontano collinette, fabbricati etc.: in avanti all’ombra d’un gruppo d’alberi la Sacra Famiglia in viaggio. E’ inutile che descriva le qualità che rendon preziosi sopra d’ogni altro i quadri del Lorenese: dirò solo che il presente è uno dei più sublimi di quell’autore, ed il più bello che n’abbia veduto dopo i celebratissimi di Roma. 162. D.° Soggetto analogo al precedente, animato dalla danza d’alcuni pastori. Sorprendente questo pure benché non illuda tanto, quanto il sopraaccennato. In entrambi vi è la vera natura ridotta in piccole dimensioni senza alterazione alcuna70. 163. Courtois Giacomo. Un armata disposta in ordine di battaglia nel piano d’una vasta vallata. Si per la bella composizione che per l’anima che vi domina, e per la

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freschezza del/ le tinte niente sormontate è il più bel Borgognone che io m’abbia veduto71 164. Poussin Nicola. Venere dormiente sdraiata sopra una drapperia bianca, con fondo a paese72. 165. Rubens Pietro Paolo. S. Girolamo nel deserto avanti ad un crocifisso. Il leone gli sta accanto dormendo. Grande effetto73. 166. D.° Il ritratto de’suoi due figli. Ripetizione di quello della gall. Lichtestein. 167. D.° Ercole ubriaco sostenuto da una baccante e da un satiro. Questo è uno dei più sorprendenti. 168. D.° Il giudizio finale. Schizzo finito del celebre quadro della gall. di Monaco74. 169. D.° Il Giudizio di Paride. Questo quadro, oltre al solito brio di tinte, è rimarcabile per il caratteristico del bizzarro genio di Rubens. Paride è vestito, non alla frigia, ma alla fiamminga, e le sue Dee sono altrettante paffute servette. Che originale!75 D.° La caccia del Leone76. D.° L’amor punito; ed il giardino d’amore. 171. Un convegno d’uomini e donne riccamente vestiti alla fiamminga trovasi in un giardino accanto ad un fabbricato con colonne, statue etc. Una fra le donne tiene sulle sue ginocchia Amore, e lo difende/ da una altra che vorrebbe batterlo con una verza. Gli altri in varie attitudini stanno osservando. Non si può veder nulla di più gaio e gentile di questo preziosissimo quadretto, che è eziandio d’una finitezza straordinaria in Rubens. Le statue che qui vedonsi giustificano le osservazioni da me fatte circa il ritratto d’Elena Forman seconda moglie di Rubens, esistente nella gall. di Belvedere a Vienna v. n.777. 172. Van Dick Antonio. Ritratto d’uomo in abito nero con un guanto in mano. 173. D.° Ritratto d’Enrichetta Maria di Francia, moglie di Carlo I d’Inghilterra. vestita di raso bianco. 174. D.° Simile di Carlo I. Con la mano destra tiene il cappello ed appoggiasi ad un tavolo coperto d’un tappeto; nella sinistra tiene i guanti. [175.] D.° Il ritratto dei figliuoletti dei precedenti, cioé Carlo II Giacomo ed Anna Maria. Tutti questi ritratti son belli, bellissimo poi quello di Carlo I. Quelli de’ figli sono inferiori a quelli de’medesimi della gall. di Torino78. 176. Gonzalvo Coques. Il ritratto di Carlo I e quel d’Enrichetta Maria sua moglie. Figure grandi due terzi del vero. Ambedue sono finitissimi e di un colorito piuttosto languido: ma vi domina tanta grazia, armonia e verità, che non se ne può staccar gli occhi. Nulla di più patetico ed espressivo del bello e simpatico volto di Carlo79. [177.] Moro Antonio. Ritratto d’uomo in corazza riccamente ornata d’oro, col Toson d’oro al collo. Gran verità e purezza di stile. Vedesi che studiò a Roma80. 178. Ruisdael Giacomo. Paesaggio montuoso con cascata d’acqua. 179. D.° la caccia del cervo. La scena accade in un bosco attraversato da un ruscello. Le figure e gli animali sono dipinti da Van den Velde Adriano. Questo celebre quadro é riputato il migliore fra quelli di Oresda, ed è bello veramente. A me però spiace in Ruisdael l’eccessivo verde81. 180. Berchem Nicola. Paesaggio sparso di rocce. Sull’ avanti vedesi come uno stagno e due uomini con armenti. Poco ma bene82.

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181. Dujardin Carlo. Sopra un rialzo una vacca, un montone e qualche capra: nel fondo un ragazzo con un cane. Stupenda cosa83. 182. Van Huijsum Giovanni. Mazzo di fiori entro un vaso di terra cotta ornato da bassirilievi, a’piè del quale sta un nido d’uccelli con entro le uova. Chi può immaginare cosa più vaga, che/ trattar la natura con maggior verità, chi maneggiare il pennello con intelligenza e leggerezza maggiore? Quelle pennacce poi che sono sparse sul nido, alcune delle quali furon come dall’ aria innalzate e sparse su pei fiori, sono di tanta leggerezza e verità, che pare abbiano a volar via al solo appressarsi dell’alito. Oh, quando le cose sono fatte a questo modo, tutti i generi son buoni!84 183. De Hoem Giovan David. Sopra un tavolo di marmo trovansi delle frutta, ed un paniere con dei fiori e ramoscelli d’albero. Da un lato vedesi un nido d’uccelli presso cui sta una cardellina morta, e sopra un ramoscello sporgente il cardellino maschio in atto di contemplare l’orrendo caso del suo nido e della sua compagna. Parecchi insetti di vario genere ed alcune farfalle sono sparsi su pei rami e per la frutta. Veramente degno di stare accanto al precedente. Fiori, frutta, foglie, insetti, penne volanti, che tutto vi è fatto con tal finitezza, leggerezza e verità, che non par vero esser dato a mano umana di far tanto. Il cardellino poi è così espressivo in tutto, che far non si potrebbe di più con figura umana85./ 184. Terburg Gherardo. Una giovane vestita di raso bianco lavasi le mani in un catino sistemato da una servente. Volge quasi il tergo al riguardante. 185. Una signora egualmente vestita di raso bianco sta avanti ad una tavola volgendo il tergo allo spettatore. La biondissima capigliatura e la paffuta e poco pittorica fisionomia mostrano che anche per questi il pittore si servì del solito suo modello, che era la propria figlia. Tutto è bello in questi due preziosi quadretti, ma chi non ha veduto il raso ond'è vestita la donna ivi ritratta, non può farsi un'idea di quanto col pennello si possa imitare la natura. Ecco come Terburg si è reso immortale mercé una cosa dagli altri tenuta per accessoria86. 186. Van der Werff Adriano. La Maddalena. E’ buona cosa, ma inferiore ad altre opere di quel sommo pittore. Ve n'è una simile a Berlino, ed un’altra grande al vero a Monaco. Da ciò forse proviene che è fredda non solamente di tinte, ma d’espressione. La ho marcata perché è conosciutissima a cagione dell’incisioni che se ne fecero. E’ un’ altra emula infelice di quella del Correggio. 187. D. Abramo che ripudia Agar. Moltissima verità e bellezza di forme./ Van der Werff Adriano. Il giudizio di Paride. Il pastorello sta seduto sopra un sasso all’ombra di alcuni alberi, alla sinistra del riguardante. Nel mezzo in prima linea è Venere in piedi perfettamente nuda. Con la mano destra tiene il pomo d’oro, con la sinistra prende un lembo d’un panno azzurro che Amore le vien presentando. Gira il capo verso Paride come in atto di ringraziarlo. Indietro, al lato destro, precedute da Mercurio, Pallade e Giunone partono frettolose, gettando uno sguardo d’ira alla rivale. Pochi soggetti vi sono che siano stati trattati tante volte e da tanti pittori come il Giudizio di Paride: ma crederei che nessuno trattato l'abbia con tanta dignità e grazia come questo. Tutto vi è bello, ben inteso, ben disposto, ma la Venere è tal meraviglia da non potersi descrivere. Dalle biografie non ho potuto rilevare se il Van der Werff abbia studiato anche in Italia: indubitato si é ch’egli abbandonando il genere e la maniera de’suoi compatrioti (olandesi) adottò uno stile sì [...] che par vissuto a Roma nell’aureo secolo, mentre nacque presso Roterdam nel 1659, ove morì/

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anche nel 1722. La qual cosa tanto più sorprendente riesce, in quanto che a quell’epoca anche in Italia lo stile era già stato corrottissimo. In questo quadro poi la purgatezza è mirabile, somma oltre ogni dire nella venere, che ricorda quella de’Medici, e la celebre Grazia in uno dei triangoli delle volte della gran sala della Famesina a Roma, l’unica figura ivi tutta dipinta da Raffaello, e che da tutte le altre si eleva. E’ impossibile immaginare una cosa più bella, più vera, più gentile, più seducente, in tutte le sue parti, dal capo ai piedi, mosse più dolci e voluttuose. La fisionomia poi di una prodigiosa bellezza di forme ha un tale incanto d’espressione che non si può definire. Eccita assolutamente più la vista di questa donna dipinta, che quella d’una bellissima viva. Tiziano non ottenne mai tanto con le sue famose veneri. E sì che quella di Van der Werff è di piccolissime dimensioni, non essendo alta più di 3 o 4 oncie. Ma è d’una finitezza meravigliosa, poiché non ha nulla del leccato. Già lo dissi: questo è un vero miracolo dell’arte. Il solo Amore non corrisponde alla bellezza del rimanente essendo un pò goffo87. 189. Van der Werff Pietro, fratello ed allievo d’Adriano. Due uomini a tavola. L’uno di essi è sul punto/ di bere da una bottiglia. Tutto mostra che Pietro seguiva Adriano nella maniera. Questo è tutt’altro soggetto, ma è bellissimo per la sua grazia88. 190. Dow Gherardo. Una giovane, avente in mano un candelino acceso, mostra ad un garzone un sorcio preso in una trappola che ha in mano. 191. D.° Ritratto dell’autore nel proprio studio, che sta seduto disegnando sopra un libbro. Fra gli oggetti vari che adornano la scena merita particolare attenzione un globo o mappamondo attesa la meravigliosa finitezza con la quale è eseguito. Chi non conosce Dow? Non dirò altro adunque se non che queste sono due delle più belle sue produzioni, in cui la verità gareggia con una finitezza microscopica. 192. D.° Soggetto morto, cioé: un orologio appeso ad un nastro azzurro; un candeliere cesellato, una pipa e del tabacco sopra una pietra. Questo non è il suo genere, e diffatti non so d’aver veduto altri soggetti simili trattati da Dow. Ma siccome egli è solito trattar meravigliosamente tutti gli accessorij, così trattò questi ancora con una verità da far sbalordire. Della finitezza e diligenza è inutile discorrere. È Dow che dipinge e basta89. / 193. De Voij Enrico, detto Arij. La nuotatrice.. In un paesaggio con rocce, alberi etc. un gruppo coperto d’erba si sporge a guIsa dI penIsola entro un acqua. Una donna vestita sta sdraiata dormendo col capo appoggiato ad un tronco d’albero divelto; una seconda sporge dietro al gruppo fino ai fianchi ed è in atto di salirvi, aggrappandosi. È nuda ed indica sortire dall’acqua. Una terza, parimenti nuda, sta ritta in piedi voltando il tergo allo spettatore, e con un panno bianco che tiene nella destra si asciuga sotto l’ascella sinistra, alzando il braccio. Ai piedi di essa vedonsi le sue vesti, e sopra tutto si fa rimarcare un cappello di paglia per la estrema sua finitezza. Parlando della galleria Schoenborn a Vienna, accennai esservi un quadretto di De Voijs attribuito a Poelemburg, il quale par fatto appositamente per essere accoppiato a questo; ed accennando ai capi d’opera di questa immensa Pinacoteca, vi compresi pure il quadretto presente. Infatti la verità, la semplicità, il buon gusto, la correzione del disegno, la grazia, la finitezza, la lucentezza ed intonazione delle tinte, la morbidezza del pennello sono tali che io/ reputo questo quadretto un vero miracolo dell’ingegno umano. Chi mai potrebbe

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attentarsi ad esprimere in una figuretta alta non più d’un oncia e mezzo, tutte le più piccole muscolature, chi in un cappello di corrispondente grandezza tutti gli intrecci della paglia, e far ciò con una morbidezza, una verità, una fusione qual si potrebbe pretendere in una figura grande al vero dipinta da Tiziano? Chi non ha veduto quel quadretto non può formarsi un'adeguata idea della potenza dell’ ingegno umano in fatto di pittura, e chi non lo apprezza come si merita è indegno di porre il piede in quel santuario della pittura90. 194. Teniers David juniore. Festa villereccia. Un circolo di contadini d’ambo i sessi son presso a ballare, ed un paesano, col suo berretto rosso in mano, invita a danzar seco una delle signore che stanno osservando quella festa, ciò che peraltro pare sia dalle dame rifiutato91. 195. D.° Interno d’una bottega. Alcuni paesani avanti ad un desco stanno calcolando il loro scotto. Un d’essi alzato si e preso un pezzo di carbone fa, a quest’ intento, dei segni sul muro, mentre alcuni altri stanno in fondo alla stanza attorno al camino, ove l’ostessa s’affaccenda a friggere qualche cosa./ 196. D.° Il cavadenti. Una specie di cerretano sta avanti ad una tavola verde, tenendo in mano e mostrando come in aria di trionfo un dente che cavò ad un contadino che gli sta presso. Generalmente parlando io sono poco amico dei quadri di Teniers pel motivo che d'ordinario, invece di copiare la natura come è, la contraffà, la esagera, in modo che in luogo di presentarci un prospetto di verità, non ci rappresenta che delle caricature quali in natura non vi sono, o vi sono rarissime. Proporzioni contro natura, atteggiamenti esagerati, bocche sterminate, nasi e menti lunghi un palmo, occhi o invisibili o spalancati etc.. Ma come seppi far pace con il negligente e strapazzato Tintoretto allorché mi presentò de’quadri ben condotti, come per esempio il Pamaso qui retro nominato, e con Carlo Dolci, lo stentato, allorché mi mostrò la Santa Cecilia, la Poesia, etc., così convienne che mi pacificassi anche con Teniers a vedere i tre quadri succitati, nei quali usò parsimonia, e fece sì che le belle qualità che gli son proprie, come l'immaginazione, e la facilità e la buona distribuzione, non fossero soverchiate dalla goffa e triviale esagerazione. Belli tutti e due!92/ 198. De Hooghe Pietro. Una giovane alla finestra che legge una lettera. Semplice ma vero e quindi bello93. 199. Sperling Cristiano. Pomona e Vertunno. Buona cosa assai. Ha del fare italiano94. 200. Vanloo Carlo. Paride ed Amore. Mentre questa è assi sa ai piè d’un albero con una corona di fiori in mano, Paride incide il di lei nome nell'albero stesso95. 201. Bol Ferdinando. David dal suo trono consegna ad Uria l’insidiosa lettera da consegnarsi a Gioabbo. Piccolo ma bello e molto espressivo96. 202. Engelbrecht Cornelio. L’Adorazione de’ Magi, con S. Domenico e S. Luca Evang. Questo quadro che dai più viene attribuito ad Engelbrecht, da alcuni credesi di Gio. Gossaert detto Mabuse, ed altri lo vogliono di Gio. Calcar. E’ duretto, piatto, e di poco rilievo, ma ha bellissime teste, e la finitezza sua non leccata lo rendono interessante assai. [nota in calce] S. Domenico tiene un libbro in mano e S. Luca disegna il ritratto della Madonna97 203. Messis Quintino, detto il Marescalco d’Anversa a motivo della professione che egli esercitò per molti anni. Un banchiere al suo tavolo sul quale vedesi un libro aperto ed alcuni pacchetti di denaro. Sembra questionare con un uomo che gli

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sta presso, mentre una giovane bene abbigliata parla con una vecchia contadina che le offre una gal/ lina e delle uova, ed un ragazzo giuoca con un uovo. In fondo, vicino alla porta, un accattone col suo garzone riceve l’elemosina. Strana è la composizione di questo quadro, totalmente priva di prospettiva aerea che le figure pajono ritagliate ed incollate sopra la tavola. Ma con tutto questo vi domina tanta diligenza, tanta verità d’espressione, tanta vivacità di tinte, che nel suo genere è un quadro rimarcabilissimo98. 204. Scuola di Luca Sunder, detto di Cranach. S. Barnaba con un calice in mano. Militano a favore del presente le prerogative del sopraindicato99. 205. Farneez Luca, detto Luca D’Olanda. L’Adorazione dei Magi sotto un portico in mina. Non è ben certo che sia proprio di Luca, trovandovi tutta la relazione con altro consimile del Museo Borbonico di Napoli, mentre quello di casa Gmmelli a Bergamo, proveniente da casa Pallavicino, si teneva per una Luca, io credo fermamente sia invece una bellissima cosa di Gio. van Heijk. Comunque siano le cose, questo è di una rara bellezza100. 206. Amburger Cristofano. Marcato col nome e col millesimo (1563). Ritratto d’uomo in abito nero con/ i guanti in mano. E’ bello assai, ma non ha però quel tipo veneto che impronta l’altro da me accennato al N.°53101. 207. Holbein Giovanni juniore. Ritratto di donna in abito nero con maniche rosse. Porta la data 1548. 208. D.° La M. detta del Borgomastro. La B. V. sta seduta sopra un trono in una abside, mentre la famiglia del borgomastro Giacomo Meijer di Basilea è inginocchiata avanti ad Essa in atto di adorazione. Ma ciò che rendesi inesplicabile a chi non conosce l’istoria del fatto si è il vedere due Bambini, l’uno in grembo alla M., l’altro per terra fra le braccia d’un giovanotto facente parte della famiglia Meijer. Al borgomastro morì un figlio in età d’anni tre circa, ed avendo commesso un quadro votivo ad Holbein, questi rappresentò il figlioletto estinto in braccio alla B. V., sorridendo ed invitando i suoi ad avere confidenza nella intercessione di Lei e nella Sua preghiera a pre’ de’ loro, mentre il Figlio di Maria, disceso dal trono, invita ed anima la famiglia Meijer, cioè i mortali, ad accorrere e confidare nella Madre delle Grazie, ed in certa guisa Egli stesso glieli presenta. Graziosissimo pensiero! Trattato con una maestria di pennello da far sbalordire. Qui non v’è purismo,/ non classicismo, non idealismo: tutto vi è tratto dalla nuda e semplice natura: le teste della famiglia Meijer son ritratti, da qualche donna di Basilea è tolto il tipo della B. V., ma la natura vi è riportata con tanta precisione ed intelligenza, il disegno è sì corretto, il colorito sì robusto e vero, sì naturali gli accessorij, il tutto trattato con tanta finitezza, intelligenza, morbidezza e facilità di pennello, che questo quadro è meritamente considerato come una delle più preziose opere di quella ricca Pinacoteca. Holbein di solito è piatto e mancante di rilievo: in questo quadro ed anche nel ritratto sopraindicato, è rilevato quanto occorre affatto. lo confesso ch’ era costretto a fermarmi ogni volta che passava avanti a lui, e che non ho provato minor diletto ad osservare questo Holbein, di quello ch’abbia provato all’aspetto della M. di S. Sisto di Raffaello o della Notte del Correggio. Anzi talvolta mi divertivo pormi in un angolo della sala da dove poter vedere contemporaneamente e questo e quel di Raffaello, ed era sempre in forse quale dei due mi desse maggiore piacere. In uno ammirava la sublimità del genio nel cercare forme verossimili, nell'altro la

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forza dell'ingegno nel riportare tanto precisamente la/ natura. Convengo che ognuno, ed io con essi, preferirebbe d’esser un altro Raffaello anziché un altro Holbein, ma ognuno mi concederà che per giungere all’apice cui questi è giunto nel quadro presente conviene avere un ingegno straordinario102. 209. Maniera d’Holbein. Ritratto di giovane donna con collana d’oro103. 210. Incognito di maniera analoga a quella dell’Holbein. Ritratto d’uomo con barba rossa, abito bruno e berretto nero. Ambedue questi ritratti sono osservabili per la finitezza della esecuzione e l’espressione delle fisionomie104. 211. Rembrandt Paolo. La festa d’ Assuero. Ester coronata e riccamente abbigliata sta nel mezzo. Quadretto apprezzabile per le molte figure, l’effetto e la varietà delle teste. E’ inutile accennare la incoerenza de’ costumi, essendoché è notorio che Rembrandt vestiva sempre i suoi personaggi, parte all’olandese e parte alla turca. 212. D.° Ritratto della figlia del Pittore con un garofalo in mano. 213. D.° Ritratto d’una giovane vestita di velluto rosso con un cappello simile ornato d’una piuma bianca, la quale ride in faccia al riguardante. 214. D.° Il ratto di Ganimede. Tutti gli idealisti che trattarono questo fatto impossibile, lo resero/ ancor più inverosimile rappresentando costantemente l’aquila che abbranca con gli artigli il giovane Ganimede d’ambo le parti, e lo trasporta in aria, quasiché sia la cosa, non dirò probabile, ma nemmeno possibile, il trasportare in aria un fanciullo a quel modo senza per lo meno conficcargli gli artiglj fra le coste in modo d’ucciderlo. Il solo Rembrandt trovò il modo di rappresentare quel fatto in maniera verossimile. L’aquila co’suoi artigli non prende già il fanciullo, ma la di lui camicia per di dietro. Questo, serratiglisi al corpo, è naturalmente fermato dalle braccia, e quindi per mezzo di quelle il fanciullo viene innalzato. Vede si dunque il povero Ganimede sollevato in questo modo, il quale dimena braccia e gambe, grida a tutta gola per lo spavento e (cosa pur naturalissima in un ragazzo) per la pancia lascia scappar l’urina. Ganimede è un robusto figlio di qualche mandriano, e l’aquila ha un po’ del pollo d’India: ma tutto è si ben dipinto, l’espression del fanciullo è tale che non si può passarvi avanti senza rimanerne sorpresi e sentirsi eccitato al viso delle naturalissime contorsioni di quello spaventato fanciullo. E’ uno de’ quadri di Rembrandt che più mi sorpresero, uno de’più appetibili anche per una limitata raccolta. E’grande al vero105./ 215. Mieris Francesco seniore. Il magnano, ossia calderajo. Egli avanti alla sua bottega o capanna sta esaminando un vecchio caldajo, il cui proprietario sta attendendone la decisione. Dietro a lui, poco distante un suo garzone, e due ragazzi che stan preparando una gabbia a trappola per prendere degli uccelli. Sul davanti vedesi un tino e varj utensili da cucina. La finitezza e la verità di questo quadretto sono mirabili; ed è rimarcabile perché il Mieris non è solito trattar soggetti sì triviali. 216. D.° Una dama assisa accanto al suo cavaliere sta suonando il liuto. Tutto è bello in questo quadretto, ma ciò che è prodigioso è un tappeto col quale è coperta la tavola. Infiniti tappeti ho veduto dipinti da’più celebrati pittori in questo genere, ma nessuno s’avvicina alla bellezza, finitezza e verità di questo. Ove da questo quadro si tagliasse il solo pezzo che contiene il tappeto, si avrebbe tuttavia un quadro d’inestimabile valore106.

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217. Netscher Gasparo. In una sala magnificamente decorata una dama vestita di raso bianco suona il clavicembalo, un cavaliere, con la carta in mano, canta, ed una signora seduta li sta scoltando, mentre un valletto porta una tazza d’acqua sopra un piatto. Sul davanti/ un tavolo è coperto d’un tappeto. 218. D.° Una giovane signora ammalata sta seduta nella sua poltrona con una mano sul cuore rivolgendo lo sguardo al Medico, il quale osserva con grande attenzione un liquido contenuto in un bicchiere. Ambedue questi quadretti sono stupendi ed hanno molto del fare di Dow. Ma il tappeto accennato nel primo non sta al confronto con quello citato al N.° 216 107. 219. Van Ostade Adriano. Interno d’una bottega Olandese. Parecchi uomini sono attorno ad una tavola rotonda, bevendo e fumando. In fondo una donna versa dell’acquavite a degli altri. L’abilità dell’Ostade in simili soggetti, e la leggerezza del suo pennello, e la verità poco esagerata delle sue figure, sono cose note. Dirò dunque solo che questo è uno de’belli108. 220. Metzu Gabriele. Una mercantessa di selvaggina, ed una cuciniera che mercanteggia una lepre. Un garzone sta dietro a questa. Pregevole assai per la finitezza, la leggerezza e naturalezza in tutto 109. 221. Van Tol D... Una vecchia dietro una finestra sta dividendo del filo. E’ viva 110. 222. Tiljus I ... Una giovanotta avanti ad un lavoro intenta a cucire. Ambedue questi quadretti sono stimabili per la verità, la quiete l’armonia unita a finitezza e leggerezza111./ 223. Mieris Guglielmo, figlio ed allievo di Francesco. Una giovane signora porge una moneta a un giovane che l’astrologò. Un ragazzo le sta appresso. Vedesi la scuola del maestro112. 224. Wouwermann Filippo. Interno d’una scuderia, d’un osteria di campagna. Qualche forestiere sta per partire coi loro cavalli, più lontano due se ne stanno ripulendo. 225. D.° Alcuni cavalieri a cavallo stanno bevendo presso la tenda d’una vivandiera, mentre il trombetto suona. 226. D.° Altro di diversi cavalieri, alcuni de’ quali stanno giocando alle carte, altri riposansi a qualche distanza dai loro cavalli legati agli alberi. 227. D.° Parecchi uomini e donne coi loro ragazzi s’apparecchiano a passare un fiumicello, ed alcuni a cavallo già lo stanno guadando. 228. D.° La caccia dell’airone. I cacciatori sboccano da un bosco. Un cavaliere è disceso dal proprio cavallo mentre quello d’una dama. 229. D.° La predicazione di S. Gio. Batta. nel deserto. Fra gli evangelisti vi sono due cavalieri in armatura. La galleria di Dresda possiede niente meno che 62 quadri di questo insigne autore, ciascheduno de’ quali vale una grossa somma; e fra questi molte battaglie anche/ grandi, parecchie delle quali certamente non inferiori di merito a quella detta della Birocca della galleria reale di Torino [nota a piè di pagina: per questo quadro vennero al Duca di Savoia più volte offerti trecentomila franchi ... e a Dresda ve ne sono 62!!!] ma con tutto ciò io non marcai che de’ piccoli soggettini, perché a parer mio in questi più assai che in qualunque altro spicca il genio grazioso di Wouwermans. Infatti, trattandosi anche di cavalli, io non saprei additare alcun quadro che eguagliar possa il merito

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specialmente dei due cadenti sotto i N. 224 e 226, ma del primo specialmente, che io ritengo uno dei primi suoi capolavori. Nei quali soggetti risalta anche quel tono ordinariamente un pò freddo, e quel modo così forbito che lo distingue, il quale non troppo bene si confà con le battaglie. Uno solo di questi basterebbe a render pregievole un gabinetto di quadri 113. 230. Van den Velde Adriano. Tre buoi e qualche pecora alla pastura presso un tronco disseccato. 231.D.° Paesaggio d’inverno. Vedesi parte delle mura d’un villaggio circondato da ghiacci, presso cui uomini, donne e fanciulli si divertono a pattinare. Ambedue questi quadretti sono rimarcabili per vività e facilità114. Questi sono fra i quadri quelli che più ferirono la mia fantasia: ma, lo ripeto, non intendo di dire che questi solamente sono i buoni, e nem/ meno che siano i migliori. Altrettanto farò dunque delle sculture.

DRESDA. MUSEO STATUE115

Il Museo delle statue ha un buon locale, occupando un’ ala terrena del palazzo Chinese: non v’ha però proporzione fra la ricchezza della Pinacoteca e quella del Museo. L’una primeggerebbe in qualunque luogo, l’altra non è osservabile che in via affatto secondaria. Tuttavia non manca però d’alcuni buoni pezzi. Fra questi trovasi degni di menzione una Clizia. Essa è grande metà del vero, è seduta, ha il torso ignudo, il braccio destro appoggiato sul ginocchio. Fissa attentamente il Sole girando alquanto il capo alla sinistra. Dal suo stile parmi greca de’buoni tempi. Anche il basamento triangolare di un gran candelabro di marmo bianco, con bassirilievi parmi meritar d’essere menzionato. Io lo reputo etrusco. Nessun altro capo mi fermò.

GABINETTO VERDE116

La raccolta degli oggetti preziosi e di curiosità è in un appartamento del palazzo reale, una specie di mezzanino a volta, e quindi basso e non bello. Essa è conosciuta sotto il nome di gabinetto verde. All’inizio della stanza sono collocati dei tavoli e delle mensole, su cui son disposti infiniti oggetti rari e capricciosi. Fra questi rimarcabili sono moltissimi vasi d’onice/ orientale, d’agata, di lapislazuli, di cristallo di rocca etc. molti de’quali con legatura in oro di gran lavoro, e parecchi anche con jsmalti e gioje. Fra questi mi colpì un vasetto piccino d’un onice di singolare bellezza, avente de’cerchietti d’oro lavorati a smalto con rubini alla celiniana d’un lavoro squisitissimo, ed un altro di cristallo di rocca in forma d’anfora con guarnizioni pure in oro e smalto, che dicesi lavorato realmente dal Cellini. Per manubrio havvi un serpente che è un vero capolavoro117.

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In tal genere è pure rimarcabilissimo un pezzo d’onice di forma ellittica e del diametro di circa centimetri 15 per 30, avente uno spessore di circa cent. 4, il quale è a tre strati perfettamente piani e di tinta distintissima. Siccome questo potrebbe servire meravigliosamente per un qualche gran cammeo, così è d’un sommo pregio, essendo estremamente difficile il rinvenire pietre sì regolari. Una delle ricchezze di quel gabinetto consta da una straordinaria quantità di grossissime perle di forma bizzarra ed irregolare, dalle quali si ha cavato partito per comporre mediante opportune legature in oro e smalto, una immensa quantità di figurine. Fra queste mi colpirono principalmente due figure alte all’incirca due oncie e rappresentanti/ due affricani che offrono delle perle. Il capo di queste, le mani ed i piedi san formati da pietra bruna del Labrador: il torso consta di una sola gran perla di color piombino, e di due perle cadauna del medesimo colore son formate le braccia e le gambe. Le quali perle poi sono fra di loro unite con pezzi d’oro smaltato molto oportunamente lavorati, cosicché a prima vista nessuno s’accorge che le perle mostruose costituiscono la materia principale. Le dette figure poi tengono in mano un bacile cadauno, il quale non è che un pezzo di madreperla, sulla quale sono ancora attaccate tante piccole perle, cosicché par proprio che offrano un bacile di perle. Il tutto poi vi è combinato con una bravura ed un ingegno sorprendente. E della figuretta combinata in simil guisa ve ne ha più centinaia, avendo in esse utilizzato con molto garbo perle di ogni grandezza e forma. Anche una figuretta rappresentante Esopo è di una rara bellezza, e le perle inferiori vi sono sì ben disposte ed utilizzate che paiono fatte apposta. Nè solo si formarono delle figure isolate, ma si combinarono eziandio dei gruppi, e spesse volte allo smalto si innestarono delle gioje, come diamanti, rubini, smeraldi etc.. Il principale di questi gruppi di figure composte di perle è quello chiamato il monte della/ gioia. Questo rappresenta uno scoglio del diametro di circa C. 8 e dell’ altezza di C. 6 ed è composto con la matrice d’ogni qualità di gioia dalla quale esse sbuccano come sono in natura. In un luogo da una finta rupe vidi spuntare i prismi naturali del diamante, in un altro quelli dello smeraldo. Qui vidi rosseggiare i rubini attaccati alla loro matrice, là lo zaffiro mostra il suo bell’azzurro, e più sotto un’altra roccia composta da opali naturali, né ancor lavorati ti presenta le varietà dell’iride. La scena poi è animata da venti e più figure composte di perle, come ho accennato, e variamente atteggiate, ed in atto, quali di cavare, quali di trasportare, e quali di riporre le gioje di cui abbonda quel monte. E acciò tutto sia propriamente prezioso quelle figurine sono nelle parti che legano la perla tempestate di gioje. Altri gruppi vi sono poi, rappresentanti scene immaginarie, e composti tutti di metalli preziosi. Fra questi si distinguono: La festa del gran Mogol118. Questo gruppo è del diametro di oltre un braccio e mezzo per due braccia di stondo. La parte avanzata rappresenta una gran piazza, cui succedono gradinate, balaustre, fontane, porticati, ed infine in alto il gran tempio. Tutto ciò è d’argento e le parti nobili, come balaustre, colonne/ fontane, le statue e simili (cose tutte a rilievo isolato) sono dorate. La scena poi è animata da oltre a cento figurine alte circa un oncia ed un quarto con cavalli, cammelli, elefanti, lettighe, palanchini, insegne sacre e militari, ed altre infinite cose il tutto d’oro con ismalto e gioje. Il Gruppo Chinese, consistente in una specie di scoglio, con piedistalli, caffeaus, torri, fontane, pagode etc., il tutto pure d’argento con figure d’oro, ed ove occorre smalto.

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Il Gruppo Egiziano, rappresentante un tempio sormontato da un obelisco, animato da molti gruppi di sacerdoti e devoti intenti a varie specie di sacrificj. Tutta questa scena è composta di pietre dure espressamente lavorate sul gusto egiziano la cui legatura è d’argento. Le figure poi sono al solito d’oro e smalto con gioje. Una scacchiera del diametro di circa un braccio e mezzo. La legatura è d’argento dorato: i quadrati son di lapislazzuli ed agata, i pezzi sono d’oro e smalto, e rappresentano tante figure isolate e complete. Più avanti vi sono degli armadi con cristallo entro cui vedonsi moltissimi armi antiche guarnite in oro finissimamente lavorato e tempestate di gioje, fra le quali primeggiano alcune turche. Tutte poi le supera una spada persiana, con tutta l’impugnatura completa di calcedonio orientale tutto ornato di bellissimi diamanti/ color di rosa disposti in linee regolari i quali dalla loro forma mostrano evidentemente che furon molati espressamente per ornare quell’arma. Ve ne ha molti della grandezza qui in margine indicata [disegno a margine]. Pensi adunque ognuno qual difficoltà deve aver costato il radunare tanti diamanti rosa di quella grosse zza, e quindi qual valore abbia quell’ arma. Viene finalmente la vetrina delle gioje. In essa son custoditi più di cento brillanti che oltrepassano i quaranta grani, ed in buon numero di quelli dai 70 agli 80 nonché una fornitura di bottoni composti d’un brillante ciascheduno di color d’oro perfettamente. Ma tutto è superato dal magnifico diamante verde. Questo credesi unico al mondo ed è d’un vivacissimo color verde chiaro. Nella forma e nella grossezza rassomiglia moltissimo al Fiorentino del Tesoro di Vienna, né le cede a quello in perfezione sott’ogni rapporto; e ciò che più è da rimarcarsi si è che la tinta verde, anziché togliergli vivacità, pare gliene abbia aggiunta. Se quello di Vienna, come si assicura, pesa 139,5 caratti, questo non dovrebbe certamente pesarne meno di 120 circa. Oltre a questi poi vi è un gran numero di decorazioni, massime del toson d’oro, taluna con/ immensi smeraldi, altre con zaffiri, altre con grossissimi rubini e altre con grandi e bellissimi opale. Solo la guarnizione di perle non stava in proporzione per grandezza e bellezza col rimanente delle gioje. Le perle dell’ Archinto per esempio non hanno invidia alcuna di quelle. Il Tesoro di Vienna, calcolate solo le gioje, è forse più immenso di questo, ma questo supera quello per la varietà e la bellezza degli oggetti. E’ il più ricco ch’io m’abbia veduto.

TAPPETI

La raccolta dei tappeti è, come accennai, in un apposito fabbricato lungo l’Elba su quel resto di bastione che chiamasi la Terrazza119. Sono del genere di que’che si conservano in Vaticano, eseguiti sui disegni di Raffaello. Avendo parlato della gentilezza naturale degli abitanti di Dresda credo opportuno accennare la sorpresa che provai la prima mattina della mia dimora in quella Città, quando affacciandomi accidentalmente alla finestra della mia cameretta che guardava sulla gran piazza m’accorsi che v’era un mercato. Tutta quella vasta, piazza era piena zeppa di tavole, di cesti con verdura, frutta, selvaggina, ed ogni altro oggetto da cucina e da casa, ma tale era la quiete che vi dominava, ch'io stando nella mia cella, non mi sarei/ accorto giammaiche là vi fosse un’adunanza di gente. Quale contrasto con

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l’ondeggiare irrequieto de’nostri mercati, col frastuono e le grida assordanti de’ nostri mercantazzi! Fra gli oggetti posti in vendita mi colpirono i pesci, che invece d’esser apposti sui tavoli morti, e talvolta anche puzzolenti come s’usa fra noi, si conservavano vivi in gran tini pieni d’acqua, da cui si estraevano per venderli. In tal guisa non v’ha dubbio sulla freschezza loro; e così pure merita menzione l’uso di condurre giornalmente in città il latte in fiaschi di latta posti sopra delle carrette tirate da due cani, e di far tirare dai cani in apposite carrettelle anche il carbon fossile che offresi in vendita in un angolo dell’ anzidetta piazza. Le carrettelle del carbone sono tirate ordinariamente da tre o quattro cani d’una razza fra il corso ed il bracco, attaccati con finimenti in tutto simili a quelli de’cavalli, e vi si caricano dai trenta ai quaranta pezzi di carbone ed anche più. L’ultima osservazione che mi resta da fare per mostrare la relazione fra Dresda e Firenze120 è la sobrietà nel mangiare e nel bere. lo non vidi mai un ubbriaco, ed avendone chiesto, mi fu risposto essere caso rarissimo, e dalle informazioni che mi ebbi, quei di Dresda son si economici intorno al man/ giare come lo sono i fiorentini. Io, dal canto mio, potrei attestarlo, poiché nel mentre la tavola rotonda a cui sedeva era assolutamente ben servita, le porzioni erano in quella sì limitata dose che noi sogliam chiamare alla fiorentina. Pagava mezzo tallero prussiano (F. 2.25) senza il vino come a Berlino, ma eravi da mangiare poco più della metà. Mi serviva un bel giovanotto il quale parlava sufficientemente l’italiano, non essendo mai stato in Italia ed avendo solo preso delle lezioni da un maestro di lingua. A tavola ebbe egli la diligenza di porrni vicino ad un toscano, musico addetto alla Cappella Reale. Il giorno 18 Ottobre alle ore tre pomeridiane mi posi in viaggio per Lipsia in compagnia dell’ottimo Vilhelmij sulla strada ferrata, poiché l’altro compagno, il De Coenich non erasi trattenuto a Dresda che una sola notte; ed alle sette della sera stessa giungeva in quella città che si rese sì celebre nelle guerre napoleoniche, e specialmente per la grande battaglia che si combatté sotto alle sue mura. Tutti converranno che quella non era certamente la stagione di viaggiare in quei climi, pure il tempo fu costantemente sì bello, sì temperata l’aria, che io girava per le vie di Lipsia e di Berlino con un abito da mez/ za stagione quale avrebbe potuto convenirsi al dolcissimo clima d’Italia, ove seppi invece che le acque e le bufere fecero danni immensi.

LIPSIA

Lipsia è piccola città, ma pure racchiude 50/m abitanti. Come già ho accennato era cinta da vecchie mura, le quali furono distrutte, e vi si sostituì un giro di giardini e passeggi. Al nord specialmente, ove eravi un avvallamento si cavò partito per piantarvi un amenissimo boschetto alla inglese, sulle cui piante e specialmente sopra alcuni altissimi pioppi svolazzavano più migliaia di corvi, la maggior parte di quei cenericci da noi volgarmente dette tache od anche cornacchie. Nulla di straordinario vi ho osservato, se non una grande contrada che tutta attraversa la città. Tuttavia sonvi molti fabbricati antichi abbastanza ricchi e d’un gusto poi che si eleva affatto da quello delle altre città da me visitate. In Lipsia soltanto ho

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veduto l’antico gusto dell’ architettura germanica, e quale si osserva in alcune vedute di Colonia e città vicine. Mi vien detto però che il vero tipo di quel gusto è Norimberga, ove avea fissato d’andare ma nol potei. Il caratteristico principale di quello stile consiste nello introdurre nella mezzeria delle/ facciate e spesso anche agli angoli, dei corpi sporgenti sostenuti da mensole e formati da pilastrini chiusi da vetrate. Smontammo all’ albergo di Roma che è distante un centinajo di passi dalla stazione della strada ferrata, e fuori dal recinto della città, ed accommodate le cose nostre c’inviammo al teatro. Era appena terminata la celebre fiera annuale che si tiene in quella città, la quale consiste principalmente in pelliccie provenienti dalla Polonia e dalla Prussia e correvano ancora i pochi giorni dall’uso concessi pel pagamento degli oggetti comprati. Eravi quindi molto moto ed un buono spettacolo teatrale. Il teatro è modernissimo, semplice nell’ esterno, con un pronao alla facciata, ed abbastanza ben decorato nell’interno, però senza sfarzo e senza alcuna pretesa121. E’ tutt’altra cosa che quel di Dresda, ed eccettuato la costruzione a loggie anziché a palchetti, sarebbe paragonabilissimo ai nostri usuali teatri d’Italia. Lo spettacolo che vi si rappresentava era il D. Giovanni di Mozzart tradotto in tedesco. Abbastanza buoni erano gli artisti, buona proprio la prima donna, eccellente e famoso in Germania il basso (D. Gio.). E qui giova osservare una particolarità del gusto di quei paesi. L’opera/ D. Gio. è la loro prediletta sopra ogni altra, ma poiché il protagonista piaccia, bisogna che abbia non solo buona voce e buon polmone, ma eziandio buon ventricolo, poiché la principale indispensabile qualità ch’aver deve il D. Gio. si è quella di tracannare sul palco, alla vista di tutti una gran quantità di vino. Vedete quali stranezze! Il D. Gio. c’ho veduto io era famoso per questa sua particolarità; ed infatti quando nell’atto III D. Gio. ode gli Spiriti infernali, e cerca nel vino il coraggio a resistervi, in pochi minuti si tracannò tre grandi e piene bottiglie di sciampagna, ponendo tanto tempo fra un bicchiere e l’altro quanto ne occorreva a versarlo ed a recitare alcune interrotte frasi. Ed il colto e dotto popolo germano, ad ogni vuotar di bicchiere scoppiava in un fragoroso applauso gridando: bravo! E qui notarsi deve ancora che le parole bravo, bravissimo e bene sono adottate anche dai tedeschi, con la diversità che appo di loro sono indeclinabili, per cui gridano bravo e bravissimo tanto ad un uomo solo che a molti, come ad una e più donne. A due attrici che cantino bene un duetto, essi gridano bravo e bravissimo; e così, ove accadesse, anche ad un coro di sole donne./ Alla mattina, avendo stabilito di partire alle undici per Berlino, ci ponemmo in giro presto per vedere la città: ma nulla, come dissi, ci fermò, eccettuato il cosiddetto giardino Poniatowskij. Tutti sanno che il Maresciallo Poniatowskij, quando l’esercito di Napoleone fu volto alla battaglia di Lipsia, fu quello che con la sua divisione sostenne lunga pezza l’impeto del nemico e protesse la ritirata dell’esercito. Essendo rimasto degli ultimi, ed essendo stato fortemente caricato dalla cavalleria Russa e Prussiana, non trovò altro scampo che nella fuga. Si diresse quindi verso la città, entro la quale fu inseguito, cosicché fu costretto ad attraversarla tutta a gran carriera, e prendere la campagna dalla parte opposta. Ma a un trecento passi dalla città un piccolo ramo dell’Istrio scorre in via trasversale a quella da lui percorsa,

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cosicché, inseguito com’ era alle reni dai cosacchi, si gettò nel fiumicello per passarlo a guado. Ma l’ora sua era scoccata, ed essendo si il cavallo affondato nel pantano, egli cadde e s’affogò. A chi vide quel fosso (che certamente non merita il nome di fiume) largo non più di otto o nove passi e pochissimo profondo, parve impossibile che egli vi si sia/ affogato: ma chi legge la iscrizione incisa sul monumento stato innalzato sul luogo della di lui caduta, comprende subito il motivo dell’affogamento di quel valorosissimo generale, scorgendo da quella che era trapassato da tre ferite mortali122. Quel semplicissimo monumento in marmo cinericcio, non so di qual provenienza, e della forma marcata qui in margine [disegno a margine], porta la seguente iscrizione: Hic in mundis Elijstri, Josephus Poniatowski Princeps, summus exercitus Polonorum prefectus, Imperii gallici Maresciallus, tribus vulneribus latiferis acceptis, ultimus ex acie decedens dum receptum magni gallorum exercitus tuetur, vita, gloria et Patriae sacrata functus est. Die XIX Octobris A. 1813, anno etatis impleto 52. Populares, populari Duci, miles hoc monumentum, lacrijmis suis irrigatum, posuit. Ora tutto quel tratto che riesce fra quel ramo dell’Istrio e la città venne recinto da un certo Gerhard e ridotto ad uso di giardino nel quale concede l’ingresso ai forestieri mercé il pagamento di cinque grossi (T. 75). Null’altro però vi è di bello o meritevole di attenzione, eccettuato una specie di tempietto poco distante dal monumento nel/ quale conservansi due ritratti del Poniatowski, l’uno in marmo l’altro in dipinto, entrambi fatti lui vivente, la sella di velluto cremise, ed una pistola ch’ avea quando s’affogò, più alcune lettere da lui scritte. Dai detti ritratti e dalla iscrizione dalla quale appare ch’avea quasi 52 anni si rileva quanto ipotetica sia la notissima incisione francese che lo rappresenta nell’ atto di gettarsi con il cavallo in un gran fiume, nella quale è ritratto come un bellissimo giovane dai 20 ai 25 anni, mentre n’avea più del doppio ed era bruttissimo123. E singolare fu la combinazione di visitare io quella tomba l’anniversario preciso della sua morte cioè il di 19 di Ottobre. Povero polacco, qual triste compenso ebbero la tua fede e il tuo valore! non è per nulla che l’Italia e la Polonia simpatizzano tanto, ed ambedue s’ebbero ad un dì presso la medesima sorte. Ambedue in quella sciaguratissima guerra difesero coi loro petti e protessero la ritirata del grande esercito, ed ambedue s’ebbero in premiò abbandono e catene! Alle undici antimeridiane partimmo per Berlino. A Lipsia pongon capo le due distinte compagnie di strade ferrate, l’una verso Dresda,/ l’altra per Berlino, le quali hanno la propria stazione l’una a fianco all’altra a pochi passi di distanza. E perché non combinarsi a fame una sola? Ciò avrebbe risparmiato denari agli azionisti e disturbi ai passeggeri, evitando loro la briga di trasportare i proprj oggetti da una stazione all’altra. La stazione appartenente alla compagnia di Dresda non ha nulla di rimarcabile; in quella di Berlino merita osservazione il luogo d’approdo, per valermi di questo termine. Il fabbricato è diviso in due parti: in una vi sono le sale pei viaggiatori, il caffè, gli ufficj di ricevimento della mercanzia etc., nell’altro il rimanente degli uffici della compagnia ed i magazzeni; e fra l’uno e l’altro fabbricato vi è il luogo d’approdo con cinque binati di spranghe, oltre una specie di terrazza d’ambe le parti, corrispondente nel livello al piano dei fabbricati ed a quello dei vagoni. In tal modo

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si entra e si sorte dai vagoni senza fare nemmeno un gradino, il che evita molte disgrazie. Tutto quel vastissimo sito è poi coperto da lamine di ferro cilindrato e stagnato, sostenute da grandi spranghe di ferro curvato ad arco. La semplicità e leggerezza di quel tetto è mirabile ed incantevole ne è l’effetto. Io poi sono d’av/ viso che quel sistema di costruzione sia anche il più economico. E poiché parlo di strade ferrate colgo l’occasione per fare alcune riflessioni. Primariamente osserverò che in tutte le stazioni, anche lungo la via, vi è sempre un palco su cui agiatamente si ascende e dal qual senza far gradini si passa nei vagoni. Questi poi in tutta la linea da Vienna a Brünn e da Dresda a Berlino sono di costruzione analoga a quelli di Monza, vale a dire a guisa di grandi carrozze unite a tre a tre, con sedili larghi e soffici e schienale pendente indietro ed imbottito, cosicché vi si adagia assai comodamente, e vi si potrebbe dormire a tutt’agio. E notisi che parlo di quelli sempre di seconda classe. Un’altra buona cosa pei viaggiatori è la quantiità di oggetti commestibili che dai terrazzoni si offrono ai viaggiatori ad ogni fermata. Non appena vedesi il convoglio arrivare, che due schiere di ragazze e giovanotti si dispongono ai lati. Chi vi offre pere, chi prugne, chi fette di pane col burro, e lo presciutto, o l’acciuga frammezzo, chi la birra, chi vini navigati, chi caffè, e finalmente chi chicchere di brodo. Il che tutto è tariffato, cosicché in due minuti il viaggiatore può provvedersi di tutto ciò che al momento può occorrergli./ Alle stazioni poi che riescono a metà strada, come a Riesa e a Koeten, in una grande sala trovansi molte tavole preparate per quattro persone, e già pronti dei piatti con bistecche, quarti di pollo, porzioni d’arrosto di vitello, prosciutto, pappa etc., nonché vino e birra e pane. Ciascheduno siede ove gli piace e mangia e beve ciò che più gli accomoda, ché, prima della partenza, delle giovanotte percorrono le tavole chiedendo ai singoli avventori che cosa hanno preso e riscuotendo il relativo prezzo. Il che tutto si fa sulla buona fede e sulla semplice dichiarazione del viaggiatore, di maniera che se vi fosse un tristo, potrebbe con tutto l’agio andar via senza pagare, ciò che molti e molti, convien dirlo con nostro rossore, farebbero qui da noi, se in alcun luogo si attivasse un tal sistema. lo pure a Koeten, ove si ferma per venti minuti, ho pranzato abbastanza bene mangiando un’ ottima bistecca, una grappa e qualc’altra cosa, e ciò in un batter d’occhio e spendendo ventitré grossi, compreso il pane ed un bicchier di bordeaux. La qual cosa non può dirsi né cara, né a buon mercato. Nel ritorno, invece, da uno di quei venditori girovaghi che offrono, come dissi, commestibili ai viaggiatori, mi toccò pagare cinque grossi (T. 75) una chicchera/ di brodo. I frutti, invece, belli ed eccellenti, si pagavano pochissimo. E circa il modo di costruzione parmi che si stessero attivando sulla medesima linea, da Lipsia a Berlino diversi sistemi all’oggetto di istituire i relativi confronti. Infatti per qualche tratto i cuscinetti erano fermati sopra travi conficcate nel terreno, in altra sopra travi adagiate in via longitudinale in modo che comprendessero tre distanze fra’ cuscinetti, con un traverso alle estremità acciò mantenerle sempre equi distanti. Questo sistema debb’essere naturalmente il più economico impiegando una assai minor quantità di legname, ma ritengo che sia poco plausibile, essendo assai difficile il mantenere l’equidistanza fra le guide. Quello poi dei cunei di travi conficcati nel terreno lo reputo peggiore ancora, essendo nota la facilità con la quale ei pendono dall’una parte o dall’altra a seconda che il terreno si è più o meno

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compatto. Infatti lungo i tratti in tal guisa costretti il vagone balzava continuamente da destra a manca con un gravissimo incommodo de’viaggiatori atteso l’urto continuo che ricevono alle reni, ed anche non senza qualche pericolo che alcuna ruota, balzando continuamente quà e là non esca dalle rotaje./ Ho accennato che, allorquando giunsi a Lipsia, era da pochi dì terminata la fiera di San Michele (poiché l’altra, quella de’libbri, vi si tiene a Pasqua) e quindi eravi gran moto di forestieri. A ciò aggiungasi che in quell’anno cadeva in Berlino il turno quinquennale per cui erano esposti i concorsi tanto per le belle Arti, quanto per gli oggetti d’industria de’quali parlerò in appresso, la qual cosa pure cagionava una grande affluenza verso Berlino. Quindi il convoglio con cui siamo partiti noi era costituito da due locomotive, l’una delle quali traeva fino a 19 vagoni, l’altra 21. Calcolando quindi che ciascheduna di queste contenesse 30 persone, ne risulta che eravamo 1200 persone che viaggiavano tutt’alla medesima volta. Ciò non ostante incontrammo una locomotiva con 19 vagoni (circa 370 persone) e poco oltre Koeten passammo avanti a due locomotive dirette verso Berlino, le quali in quel momento stavano ferme, e trascinavano ben 23 carri di bestiame, buoi, pecore e maiali, ed un altro convoglio simile, di 19 carri lo vedemmo più avanti, il quale però era carico quasi per intiero di mercanzia. Ecco come in quei paesi si utilizzano le strade ferrate, ciò che/ non si è ancor fatto presso di noi. La tratta che percorre quella strada non potrebbe essere più oportuna attesa che trascorre in un terreno quasi totalmente piano, e che non presenta alcuna difficoltà. Solo poco oltre Dresda si attraversa una linea di quelle piccole collinette coltivate che trovansi frequente in quei dintorni, per cui si è dovuto per qualche tratto approfondare la strada press’appoco come in vicinanza alla Muzza presso Cassano, ed in un punto si è dovuto anche formare un breve tunnel. E qui giova osservare che anche su quella linea si è commesso un grave errore nel quale cascò (forse per scimmiottaggine) quel caro Ing. Milani nella linea Padova e Mestre, voglio dire di tenere i fabbricati adjacenti alla strada eccessivamente vicini alla ruotaje, cosicché è pocchissimo, anzi minimo, lo spazio che rimane fra il fianco d’un vagone ed il fabbricato. La qual cosa, oltre al togliere la possibilità che in avvenire i vagoni possano costruirsi alquanto più larghi, è causa eziandio di gravi e frequenti disastri. Sul veneto parecchi s’infransero le braccia che inavvedutamente tenevano sporgenti dalle finestruole, e presso a Dresda,/ al passaggio d’un ponte che sorregge una strada poco prima arrivare all’accennato tunnel, un capitano d’artiglieria perdette la vita. Quel disgraziato, non pensando alla prossimità di quel ponte, né alla strettezza del medesimo, si sporse fuori da una delle finestruole per chiamare un suo amico che era in un vagone dopo di lui, ed essendo giunti al ponte mentre era in quella posizione, e non essendosene avveduto poiché vi voltava il tergo, batté contro la spalla del ponte stesso in guisa che n’ebbe tronco il capo. Ciò avvenne poche settimane prima ch’io vi passassi. Dopo quel tunnel non s’incontra più alcuna difficoltà di suolo, se non che poco oltre Dessau si passa sopra un buon ponte la Molda, non grosso fiume, e quindi quasi immediatamente l’Elba sopra un sontuoso ponte di pietra, molto opportunamente di doppia larghezza acciò sul medesimo vi scorra e la strada ferrata e la strada postale, divise l’una dall’altra da un muricciolo, acciò i cavalli

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che per avventura vi fossero, non abbiano a spaventarsi dell’arrivo della locomotiva. Ho accennato che in Moravia le strade postali sono per lo più fiancheggiate da piante frutti/ fere come anche in Boemia e così pure che la frutta in Germania costa poco. Di ciò ne è cagione la grande quantità delle piantagioni di frutti, massime pomi e prugne. Appena passato l’accennato ponte sull’Elba, a sinistra del nostro cammino, osservai un’immensa pianura di molte e molte miglia in ogni senso, tutta piantumata d’alberi di prugne posti in linea e alla distanza di sette od otto passi l’uno dall’altro. Giudichi ognuno lo sterminato numero di questi alberi ed il relativo prodotto di frutti. Di questi una porzione si mangia fresca, dell’altro si scelgono i migliori e si fanno essiccare, il rimanente si mette in tini, si lascia fermentare, si pigia, si lambicca e se ne estrae dell’acquavite della quale sono ghiottissimi tutti i popoli nordici. Quelle prugne rassomigliano assai nella forma alle nostre prugne nere, dette volgarmente Brugnotti, ma la polpa anziché essere molle e succosissima come quella, ha del carnoso in sul fare di quella delle nostre verdaccie, ed anche più. Convien che sieno ben mature, e quando impassiscono sull’albero sono veramente eccellenti. Io ne mangiava in gran quantità, che mi piacevano assai, ed era un cibo assai economico, giacché con un carantano ne aveva un paio di dozzine. Uno dei mo/ tivi di tali piantagioni credo che sia l’ingratitudine del terreno, che come ho già accennato va sempre peggiorando quanto più si procede. Non so donde abbia avuto origine il nome di Sassonia che anche in latino dicesi Saxonia, e che par derivato da saxa, sassi: ciò che so è che sarebbe assai più conveniente per quel paese il nome di Sabbionia, giacché tutto il suo suolo non è che minuta sabbia, d’un color giallognolo, né vi si trova un sasso anche piccolo. La qual sabbia, quanto più si procede, fassi minuta. Nei contorni di Berlino e di Postdam, se si approfonda l’aratro un palmo solo, trovasi un letto di minutissima avena giallognola, precisamente come il risultante del nostro tufo arenario se vien pestato. Misera vi è quindi la vegetazione, per cui gli abitanti sono costretti attenersi a quei vegetali che meglio si confanno con quel terreno, fra i quali fortunatamente vi sono gli anzidetti frutti, ed il Pinus germanicus, che è quello che somministra la massima parte della legna per uso domestico. Anche la quercia vi alligna, ma povera e intisichita, né se ne fa grande uso crederei appunto per tal motivo.

BERLINO

Giungemmo felicemente a Berlino il giorno 18 in sul far della notte: giudichi ognuno qual razza/ di parapiglia vi dovesse essere alla stazione nella quale smontavano in un sol punto ben 1200 forestieri, quale la furia d’incappar subito tutti i fiacre e le droske124, benché ve ne fosse più d’un centinajo, e quale sarebbe stato l’imbarazzo mio se mi fossi trovato solo. Ma il buon Wilhelmij mi ajutò a meraviglia. Lasciata ogni cosa alla stazione, egli non perdé tempo con le droske appostate vicino alla stazione, le quali erano già tutte incaparrate, ma corse avanti ed incaparratane una mi condusse all’ Albergo di Londra125, di cui conosceva il padrone, sperando che desso mi avrebbe in qualche modo alloggiato non ostante la grande difficoltà di trovare

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alloggi a cagione della straordinaria affluenza di forestieri. In fatti replicatamente dichiarò essere nella impossibilità di alloggi armi perché tutto pieno avea l’albergo, né fu che dietro le vive jstanze dell’amico che mi offrì una stanzuccia, asserendo che offerta prima non l’ avea, perché la reputava indecente. Ma io che conosco l’ assioma essere il poco meglio del nulla, l’accettai subito senza complimenti. Per verità non avea tutti i torti nemmeno l’albergatore, giacché era così in diminutivo che pareva quasi una parodia in confronto alla mia figura. Ma tutto ha qualche compenso a questo mondo, e se la stan/ za era cattiva e così stretta da esservi appena un lettuccio sì corto che le mie gambe vi avanzavano per quasi un braccio, un cassone ed una sedia, per cui non mi fu dato nemmeno poter svolgere la mia valigia, ebbi il vantaggio d’esser servito da una delle più belle ragazze che mi abbia veduto, la quale mostrava denudate fino alla spalla due braccia delle quali non si ha quasi idea ne’nostri paesi. Anche dessa s’attentò d‘allestirmi il letto sul fare di Vienna, ponendo la coperta entro una foderetta di tela grande quanto il letto, ma non fu poi si dura come la brutta servente viennese, e comprese subito che io voleva un lenzuolo grande anche sopra, e volò a prenderlo. Berlino, la vasta capitale della Prussia, distinguesi in due parti principali, cioè Berlino vecchio e Berlino nuovo, quantunque sia diviso in tre dalla Sprea, non grosso fiume, ma navigabile, che le scorre frammezzo, diviso in due rami. L’antica Berlino esisteva nel XII secolo: la nuova deve il suo splendore e la massima parte della sua fondazione a Federico II. Essa è quasi perfettamente piana, la qual cosa le torna di gravissimo pregiudizio, non essendo ancora riusciti a trovare il modo di scaricare convenientemente le pluviali. Nella parte antica è, come di solito, formata di contrade anguste e bistorte, nella nuova invece presenta contrade sì diritte, sì lunghe e sì larghe, che non so se ve ne siano di simili in altra città. lo certamente non ne vidi, né saprei contrapporvi se non la via Ludovica di Monaco di Baviera, la quale però è di gran lunga più corta di quella di Berlino. Supera per altro tutte queste per la sontuosità de’suoi fabbricati. Più e più contrade di Berlino lo dividono quale per intiero, quale per una gran parte; essendo poi della larghezza del corso di Porta orientale a Milano: la via Federica poi, mettendo capo a due porte della città è lunga circa tre miglia italiane, in linea retta, e larga una volta e mezza come le altre126. Generalmente si predica che l’ampiezza della contrada giova immensamente alla città: a Berlino però ho dovuto convincermi che la moderazione è necessaria anche in ciò, poiché ho veduto che la massima larghezza di quelle contrade rende come deserta quella città, essendo impossibile riempirle di gente, e facendo sì che chi sta da un lato quasi non conosce chi passa sull’ opposto. Acciò le contrade di Berlino e le immense sue piazze avessero da figurare, converrebbe che in luogo di 170.000 abitanti ne contenesse un milione. A render deserto Berlino due o tre circostanze concorrono, cioè 1° che la massima parte dei mercanti, in luogo di tenere bottega/ aperta sulla pubblica via, vendono le loro mercanzie in locali interni ed ai piani superiori, limitandosi ad esporre da una finestra un cartello che indichi là esservi il tale o il tal’ altro negozio; 2°che il centro del commercio d’ogni genere con le poche botteghe visibili trovansi nel Berlino vecchio, brutto quartiere che sembra un ghetto. La contrada principale, è, come dissi, la Federica: la più larga però, e più frequentata, è quella detta Unter den Linden, cioè sotto i tigli, che dalla porta di

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Brandeburgo mette al palazzo reale. Questa è di sì smodata larghezza, che, la parte fra i due larghissimi marciapiedi ai lati è divisa in cinque zone, tre delle quali, cioè quella di centro e le due estreme, sono ad uso di strada pei cavalli e volanti, e le altre due sono ad uso dei pedoni, ed hanno quattro fila di tigli cadauna. Ognuno comprenderà quindi da ciò che chi sta sopra un marciapiede non vede chi passeggia sull’altro e che per animare tanto spazio abbisognerebbe una quantità tripla di carrozze e quadrupla di pedoni, poiché ciascheduna di dette zone è vasta come un’ ampia contrada. Ma ciò che più di tutto deturpa le contrade di Berlino è, a parer mio, la conseguenza del livello troppo piano di quella città. Non sapendo come scaricare le pluviali/ le raccolgono in due fossetti scoperti fra la contrada e il marciapiede, e siccome essi soggetti non han la pendenza necessaria per iscaricare l’acqua che vi defluisce, così essa vi siferma e vi s’ infracida con grandissimo danno alla vista e all’odorato di chi è costretto passeggiarvi accanto. Oh, quale inconveniente è mai quello! Quale schifosità! Eppure io son d’avviso che non debba essere impossibile supplirvi con dei canali sotterranei. Dagli ingegneri prussiani si ritiene impossibile scaricare le pluviali perché vedono che l’acqua ivi cadente vi stagna. Io però, nel mentre convengo esservi delle difficoltà, non lo ritengo impossibile avendo osservato che la Sprea 1° scorre lentamente, sì, ma scorre, né staziona mai, anzi in vicinanza del palazzo reale dà moto ad alcuni mulini, ciò che prova avere della cadenza, 2° ha il pelo dell’acqua ad un livello molto più basso del suolo della città. Dalle quali osservazioni ne viene che qualche tratto dopo aver traversato Berlino il pelo della medesima sarà di molto inferiore al livello della città, per cui scavando dei fossi sotterranei, i quali comincino dall’ avere la profondità appena necessaria, e proseguano con una sola livelletta fino all’incontro dell Sprea alcun miglio fuo/ ri della città, si potrà ottenere una pendenza sufficiente poiché le acque abbiano il necessario scolo e finiscano nel fiume. Siccome poi la pendenza di tali cavi sarebbe ancor sempre assai mite, così, acciò i canali si mantengano sgombri, oltre a delle leggi in proposito che vietino l’introdurvi immondezze e corpi pesanti, si potrebbero introdurre di frequente pozzi ed adottare il sistema di un frequente aspurgo; e di più costruire alcun manufatto all’oggetto d’innalzare un corpo d’acqua tolto dalla Sprea prima che entri in città, il quale, mediante le oportune chiaviche, di tratto, in tratto entri precipitoso nei canali sotterranei e li espurghi. Io scommetto che con tal sistema si dee poter riparare al maggiore degli inconvenienti di quella magnifica città. Berlino, in confronto alle altre città che io vidi, presenta alcune singolarità che s’accordano con i costumi di quel paese. A Milano, p.e. ed a Vienna, havvi la passion per le carrozze, e ve ne ha un numero sterminato. Quindi non vi ha, si può dir, casa che non abbia un portone ed un cortile per entrarvi in carrozza. A Berlino, invece, pochissimi son quelli che abbiano carrozza, servendosi quasi tutti dei fiacre e delle droske, che son legnetti ad un sol cavallo. Ciò posto che/ tali vetture, che hanno i loro emporj fuori di città, ivi si trovino in grandissimo numero, a buonissimo prezzo e benissimo tenute, e che quasi nessuna casa abbia portone e cortile, se si accettano alcuni alberghi. Vi basti sapere che tutti i Ministri ed i fratelli del Re sono costretti a montare e smontare dalle loro carrozze sulla pubblica via. La Berlino nuova fu fondata con un impianto gigantesco, come il comprovano le sue contrade, ma le sue case erano per la massima parte ad un sol

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piano. Da ciò ne deriva adunque che molti palazzi hanno il piano terreno alto due ed anche tre braccia sopra il livello della strada, per cui per accedervi hanno avanti uno sporto a doppia rampa, pel quale le carrozze ascendono da una parte e discendono dall’altra, dopo aver caricato o scaricato i padroni alla porta, che riesce al piano del centro di tale sporto. Anche il palazzo del Principe di Prussia (l’erede presuntivo) ha un tale sporto, coperto però da un padiglione di ferro dipinto. Un’altra singolarità è pure il vedere come in una città sì vasta e nella quale la popolazione è scarsa proporzionalmente alla sua vastità, si cerchi con tanta cura di utilizzare ogni locale. Per esempio in vita mia io non vidi mai impiegati i sotterranei/ dei palazzi se non ad uso di cantina, legnaja e simili,e solo in Milano vi vidi tutt’al più qualche fucina da fabbro e fonditore. In Berlino invece pressocché tutti i portinai abitano interamente sotterra, come le marmotte e le talpe. Non saprei esprimere la sensazione di doloroso stupore che mi faceva al mirar dalle finestre prospicenti sulla strada que’sotterranei ridotti assai decentemente ad uso di abitazione, ed il vedere le belle portinaje ascendere una scaletta per venire in portineria, che d’ordinario è piccolissima. Convien però dire che la sabbia da cui consta il suolo di Berlino sia di tal natura che non trattenga l’umidità, poiché presso di noi sarebbe assolutamente impossibile l’abitare nei sotterranei, ed altronde l’aspetto florido e salubre di chi abita a Berlino fa troppo contrasto col macilento e rachitico di que’meschini che presso di noi sono costretti abitare in luoghi non arrivati dal bacio animatore del sole ed in qualsiasi altro modo umidi. Dissi che le singolarità di Berlino s’annodano con i costumi di quel paese, ora aggiungerò anche con l’indole di quegli abitanti; chi gira per Berlino subito s’avvede d’essere in mezzo ad un popolo d’indole bellicosa. Non solo la quantità de’militari, ma il volto/ e l’aria marziale di quegli abitanti il dimostrano. Da ciò deriva forse il poco amore al lusso delle botteghe, mentre agevolissimo sarebbe l’introdurvelo a similitudine della accuratissima Vienna. La via de’ Tigli (Unter den Linden) come la più frequentata, sarebbe la più oportuna per introdurvi le botteghe di lusso, e la grande piazza che riesce fra i due ponti della Sprea, cioé a tergo del palazzo reale, potrebbe con ogni facilità e molto oportunamente venir circondata da sontuosi portici, e ridotta ad uso di un vero Bazar. Ivi collocandosi le botteghe di giojellieri, orefici, argentieri, bijouttieri, mercanti di stampe ed altre del genere il più elevato, ed aprendosi alcuna bottega da caffè alla italiana, cioè dove si possa mangiare, bere e ciarlare, naturalmente vi affluirebbe tutto il bel mondo, e dietro ad esso vi verrebbero i curiosi, poi gli scioperati ed infingardi che abbisognano di una spinta per decidersi a piegare a destra piuttosto che a manca, e si otterrebbe con ciò un centro di affluenza, che è quanto manca a Berlino. Quella piazza in tal guisa formata, i cui portici fossero muniti di buone vetrate per l’inverno, diverrebbe come la veneta piazza di San Marco ed una vera delizia, poiché vi si accede per mezzo di una contrada=giardino come è/ quella de’tiglj, ed, attraversandosi il palazzo reale, il cui atrio è sempre a porte, si riesce tosto sulla piazza piantumata detta giardino di delizie, che riesce fra il palazzo reale e quello, sontuosissimo della pinacoteca, museo etc.127 .Tale operazione parmi di esito infallibile, tanto in poi se nell’interno si costruisse 150


qualche stabilimento di divertimento, come per un teatro d’inverno, uno per ispetacoli variati, e sopratutto poi un giardino copribile nell’inverno, nel quale alla sera vi fosse musica, e comunque con qualche grande attrattiva. Oh, la sì che vi sarebbe ben altro concorso che al vasto e sontuosissimo salone detto giardino d’inverno, perché decorato internamente con vasi di sempreverdi, il quale deve riuscire di una estrema incomodità nell’inverno e durante la cattiva stagione, essendo più di mezzo miglio fuori dalla porta di Brandeburgo. Anche di questo ne parleremo a suo tempo al pari che di tutti gli altri oggetti che a noi parvero degni di particolare attenzione, ma ci convien prima cedere all’istinto che ci predomina e far precedere a tutto la enumerazione de’capi d’arte che più ci colpirono nelle varie raccolte che, benché di volo, accenneremo. E prima di tutto cominceremo dalla Pinacoteca, la quale, massime per esser recente, è rimarcabilissima./ Il locale che contiene simultaneamente la pinacoteca ed il Museo è uno de’più sontuosi che dar si possano, e costruito con un principio totalmente diverso da quel di Monaco128. Esso è un vasto quadrilatero il cui centro è occupato da una vasta sala rotonda. Il suo piano è rialzato e vi siaccede per mezzo di una immensa gradinata, la quale mette ad un portico di diciotto colonne d’ordine jonico con collarino, di dimensioni colossali. Ai capi della gradinata havvi, all’usanza greca, due piedistalli che la racchiudono, e due statue equestri di bronzo sopra di essi. Tali statue furono modellate da Rauch129, scultore prussiano ed uno de’buoni artisti d’oggidì, e rappresentano due amazzoni, una delle quali è assalita da una tigre che, slanciandosi, afferra e vi si aggrappa, il collo del destriero che s’impenna. Lo spavento del cavallo, l’orrore della donna che con la lancia mira la fiera, sono assai bene espressi. L’idea è romantica, ma assai ben espressa in ogni dettaglio perché Rauch è assolutamente ottimo artista. Anche la sua compagna non manca di merito, ma sia come non è che in atto di domare un destriero ardente, concetto già le mille volte ripetuto, così manca d’interesse/ a fronte dell’ altra. Sopra la trabeazione non vi hanno che delle antefisse corrispondenti a ciascheduna colonna, ma all’estremità sopra le ante, ossia a pilastri che chiudono, i quali hanno circa un diametro e mezzo vi è un piedistallo con sopra una statua muliebre sedente. Il quadrato poi, entro il quale è inscritta la già accennata sala rotonda, si eleva al dissopra dell’ordine, coprendo la volta emisferica della sala, ed il gran rettilineo che forma è decorato da una cornice sormontata da una balaustra, ai cui angoli stanno de’ piedistalli con sopra de’ colossi di bronzo rappresentando uomini che fermano de’ cavalli ad imitazione de’ celeberrimi di Fidia e di Prassitele rappresentanti Castore e Polluce, i quali tolti alla Grecia ornavano i bagni di Costantino, ed ora abbelliscono la piazza del Quirinale a Roma. Questi però sono di marmo. Le quali cose tutte, prese in cumulo, costituiscono un fabbricato assai imponente, benché propriamente bello dir non si possa, mancando di quello stile puro e di quelle armoniche proporzioni che a ciò sono indispensabili. Dal detto porticato che, come dissi, è chiuso ai lati, si passa ad una specie di vestibolo, che meglio forse potrebbe chiamarsi il/ ripiano della scala, poiché, se nel centro havvi la porta, che mette nella gran sala rotonda, ai lati incominciano tosto i gradini della doppia scala, la quale si raggiunge di un bel nuovo al piano superiore. Tale partito ha molta analogia con

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quello delle grandi scale del Palazzo di Brera in Milano, ma non raggiunge la grandiosità di esse forse perché le berlinesi sono racchiuse da muri, mentre le milanesi sono totalmente aperte; del resto si assomigliano assai e l’accennato ingresso alla gran sala rotonda riesce appunto dove a Brera vi è la fontana, mentre a quello della Pinacoteca, cioé al piano superiore corrispondente a quello della Biblioteca di Brera. Le quali scale sono illuminate dall’ alto, poiché le pareti del portico sono liscie e dipinte a fresco. Quando noi visitammo quel santuario delle belle arti era appunto stata scoperta alla vista del pubblico la parete a sinistra del riguardante. Essa era stata dipinta da quel Cornelius tanto decantato nei paesi nordici, e rappresentava l’istoria di Prometeo130. Duolmi però il dover dire che io vi trovai ben poco da lodare, confusa e strana trovando la composizione, pessimo e stonato il colorito, tutto piombaceo e nero. Il qual/ diffetto pare che sia abituale di Cornelius avendolo visionato anche ne’ suoi dipinti di Monaco131. Seguendo l’ordine naturale noi dovevamo incominciare dal Museo delle statue, come quello che occupa il piano inferiore, ma secondo il nostro costume è forza che facciamo un salto, salendo alla Pinacoteca, per discendere poi al Museo. L’ingresso alle sale dei quadri è un po’singolare, per non dire stravagante. Dopo quella sterminata gradinata esteriore, si entra ma dove?... in una ringhiera sostenuta dalle colonne che decorano all’inizio la sala rotonda. Siccome tale ringhiera è formata dallo sporto del cornicione dell’ordine interno della sala, e siccome quell’ordine non arriva in complesso che al piano della Pinacoteca, per cui non è molto alto, così ne viene per necessaria conseguenza che la ringhiera si presenta non molto sporgente potendo esser la cornice, essendoché le colonne sono bensì isolate, ma appoggiate al muro. E tale ringhiera è forza percorrerla per un semicerchio, poiché l’ingresso alle sale è di fronte a quello pel quale dalla scala si entra nella ringhiera. Entrati poi che si sia, trovasi un’anticamera/ semplicissima dalla quale si passa alle sale de’ quadri, disposte parte a destra e parte a sinistra di essa. Ma esse non sono vere sale, bensì tre vasti corridoi per ciascuna parte, il primo de’ quali occupa quella porzione del lato opposto al porticato, che non è occupato dall’anticamera, il secondo occupa per intiero il lato destro e sinistro, ed il terzo quella porzione del portico che non è occupata dallo scalone. Tali corridoi, i quali hanno il volto a botte, sono divisi da molte intramezzature di legno, che arrivano fino alla cornice d’imposta della volta e sopra le quali ricorre la cornice stessa, e ciò in modo che ad ogni cella formata da tali tramezzature corrisponda una delle finestre, le quali sono assai vaste ed hanno il davanzale alto assai. Per tal modo si ha una luce buona; ma v’ha sempre l’inconveniente, in confronto alle sale illuminate dalla volta, che, se ponno acquistare alcuni quadri collocati sulle pareti laterali, discapitano immensamente quelli di fronte alla finestra, e perdesi poi del tutto la parete occupata dalla finestra medesima132. Io per me sto per la luce dall’ alto. Nonostante i quadri della Pinacoteca di Berlino/ sono collocati tutto quel bene che si poteva adottando quel sistema; e la giustezza di quelle celle, a fondo rosso cupo e con volta semplicissima e quasi spoglie d’ornamenti, se non dà l’idea della magnificenza, giova però moltissimo ai dipinti, non distraendo l’occhio. Ora che abbiamo dato un’idea del contenente, passiamo anche al contenuto, marcando que’pezzi che più mi colpirono, o ci parvero meritevoli di annotazioni. Eccoli133.

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232. Lippi fra Filippo. Maria che adora il B. ai lati le stanno i SS. Gio. e Domenico, ed in alto vedesi il Padre Eterno e lo Spirito Santo. 233. Lo stesso. Cristo in croce, avente ai lati Maria ed un frate, e contornato da alcuni angeli. Fondo dorato. Sublime cosa! Quanto discosta è la maniera de dì d’ oggi dall’aurea semplicità e dall’espressione angelica di questi quadri!134 234. Sanzio Raffaele da Urbino. Mad. col B. E’ sì guasto e dilavato che non si può giudicare se realmente sia dell’Urbinate135. 235. Pippi Giulio, romano. Atalanta e Meleagro sopra un letto. Gruppo poco decente abbenché vi sia stato aggiunto un panno il quale non permette che si veda che cosa stia facendo a Meleagro una mano di Atalanta. È grande al vero, ben conservato, e parmi/ indubbiamente di Giulio, dichiarandolo la sconcezza del soggetto, il disegno, il colorito, e soprattutto il tipo forte e poco gentile delle due figure. La crederei un’ opera fatta a Mantova, parecchi anni dopo lasciata la scuola di Raffaello, quando indurita aveva la sua maniera, mentre il baccanale, ossia le nozze di Venere e Marte da me posseduto spira ancora tutta la grazia raffaellesca, né vi si vedono se non i germi di quel far duro e crudo che andò spiegando di poi136. 236. Raibolini Francesco, bolognese, detto il Francia. S. Gio. e altro Santo, che vien indicato per S. Steffano, il quale tiene in mano un messale con sopra alcuni frutti. F. Francia fu l’orafo137. 237. Raibolini Giacomo, figlio di Francesco, detto esso pure Francia. Mad. con Santi138. 238. Vannucchi Andrea, detto del Sarto. Mad. Santi139. 239. Luciano, fra’ Sebastiano, detto del Piombo. La Deposizione, m[ezze] f[igure] colossali. Credo sia quello che faceva parte della galleria Calderara in Milano. Stupenda cosa140. 240. Venusti Marcello. E’l’identica cosa che accennai ai N.ri 95 e... E siccome la composizione è michelangiolesca affatto, ma d’altronde nè quel del Conte Czernin al Vienna è di Fra’ Sebastiano, nè quel di Monaco è del Bonaroto, così non è fuor di luogo il ritenere che tutti siano lavori sopra disegno di Michelangelo, e quindi che quella del Venusti meriti la preferenza essendo più probabilmente sua davvero. Del resto tutti e tre sono belli, né saprei quale prescegliere141. 241. Mantegna Andrea. Cristo morto con due angeli. Stupendissima cosa!142 242. Allegri Antonio da Correggio. Giove che bacia Io. Replica o più probabilmente primo originale di quello esistente nella galleria di Belvedere a Vienna (V. il N° 34). Io, tutta nuda, sta seduta sopra un sasso volgendo il dorso al riguardante, e davanti ad essa vedesi una massa di nuvole che nascondono Giove, del quale non traspare che la testa in atto di baciare la bella Ninfa, che ripiega il capo verso sinistra. Singolare è la storia di questo quadro. Esso appartenne dapprima ai duchi di Mantova ai quali fu tolto nel sacco dato dai tedeschi nel 1705 e portato in germania, unitamente a quello della Leda, di cui vado a parlare. Andarono ambedue smarriti, e dopo molti anni si rinvennero a Norimberga, ove entrambi servivano a riparare il sole alla finestra d’una scuderia. Fece alcuni passaggi, finché capitò alle ma ni del Duca d’Orleans, uomo bigotto che, atterrito dalla straordinaria seducenza di quel quadro, stabilì di bruciarlo. Era presso di lui fortunatamente l’italiano

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pittore il quale con ogni maniera di preghiere s’interpose acciò un malinteso rigorismo non privasse l’arte di uno de’suoi capolavori, ma non fu appagato che in parte, poiché il Duca donogli il quadro, ma ne tagliò prima la testa, che volle distruggere. Infatti nella testa specialmente sta la estrema voluttà. Ma convien dire che l’accorto pittore abbia trovato il modo di ritardare la distruzione di quella testa, tanto da poterne trar copia, e fors’anche scambiare una di suo pennello con l’originale, poiché, portato in Italia il quadro, v’innestò nuovamente la testa, la quale, non solamente corrisponde perfettissimamente alla primitiva, come può vedersi col confronto di quella di Vienna, ma eguaglia perfettamente tutto il restante nelle tinte, nel pennelleggiare etc., e di più ha una tale espressione, e spira tanta voluttà, che pare cosa assolutamente impossibile abbiasi potuto ottenere tutto ciò d’altra mano che dalla magica dell’ Allegri. Il perché io non du/ bito che il buon pittore abbia santamente ingannato lo stupendo Duca, dandogli ad abbruciare una copia fatta da lui e ritenendo per sé l’originale, che poi ripose al suo posto. Con la quale fortunata astuzia salvò all’arte uno di que’capolavori, di cui non è possibile formarsi un’idea senza vederli. Vedi la nota in fine della enumerazione143. 243. D.° Il bagno di Leda. Chi desidera un’idea di questo quadro veda la stampa incisa da (...) tratta da una replica del medesimo esistente a Londra presso Lord. (...). Devesi però avvertire che quel di Berlino è più ricco di figure che non quel di Londra, imperciocché a destra del riguardante, estendesi lo stagno formando come una nuova sinuosità, entro la quale stanno parecchie Ninfe che giuocano e scherzano, fra le quali due si spruzzano scambievolmente d’acqua con le mani. Il qual gruppo, che è accessorio al soggetto, diventa la parte principale perché è quello che di gran lunga supera in bellezza il rimanente. Infatti, mentre la Leda che se la gode col cigno, è fredda e mancante di espressione, le accennate Ninfe sono di una prodigiosa bellezza ed anima. Quella poi che si presenta quasi di fronte e che, mentre s’abbassa a tuffar le mani nell’acqua per/ ispruzzame la compagna, alza la testa fissando due occhietti di maliziosa in faccia al riguardante, e sorridendo, è uno di quei miracoli dell’ arte che solo il Correggio sapea immaginare144. 244. Melzi Francesco. Vertumno e Pomona. Che sia di scuola lombarda e sommamente bello non v’ha dubbio: che poi sia realmente del Melzi chi lo potrà sostenere? Per decidere ragionevolmente che un quadro sia d’un dato autore conviene o che ne porti il nome, o che lo si sappia istoricamente, o che risulti dal confronto con altre opere che si sappia con certezza essere di quell’autore. Ciò posto, come potrà dirsi che un quadro sia di Francesco Melzi se non se ne conosce neppure un solo istoricamente certo? Relativamente poi a questo, altra difficoltà si oppone a crederlo realmente del Melzi, quella cioè della somma bellezza del quadro stesso, la quale non è presumibile di trovarla nelle opere di un ricco patrizio che non esercitava l’arte, ma solo se ne occupava per suo diletto. Per riuscire a tanta eccellenza non basta avere dello ingegno, ma bisogna lavorare e studiare assai! Per ritenere adun/ que che sia del Melzi, converrebbe ritenere del pari che l’amico e maestro suo Leonardo lo avesse non solamente diretto, ma ultimato, giacché di ben poco cede alle opere di esso in alcune cose, e le eguaglia in altre145. 245. Solario Andrea. Cristo con la croce. m[ezza] f[igura].

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Se è realmente del Solario, questo quadro giustifica l’ opinion di quelli che il vogliono allievo di Leonardo, essendo esso leonardesco al sommo146. 246. Ferrari Gaudenzio. Il Presepio147. 247. Basaiti Marco. S. Sebastiano con le frecce in mano. m[ezza] f[igura]. Porta il nome dell’autore. 248. D°. Ancona in tre compartimenti a mezzaluna che tutti li comprende. In questa vi è effigiata la Mad. col B. avente ai lati S. Anna e S. Veronica, ed i compartimenti rappresentano l’uno S. Girolamo, l’altro S. Gio. Batta, ed il terzo S. Francesco. Stupendissimo lavoro148. 250. Vecellio Tiziano. Una fruttivendola. Se questo è realmente di Tiziano, egli è l’unico quadro ch’io mi abbia veduto rappresentante soggetti triviali alla fiamminga, e sarebbe perciò pregevole perché raro. Ad ogni modo è un bel quadro149. 251. Cagliari Paolo Veronese. Giove e Giunone. Bello150. 252. Robusti Giacomo, d° il Tintoretto. Una Diana delle sue più belle cose151. 253. Bordone Paris, ossia Paride. Mad. in trono con Santi152. 254. Santa Croce (da) Francesco (cioè F. Rizzo) Bergamasco. La Epifania. Terzo di f[igura] gr[ande] al vero. E’ sì bello che mi corre il dubbio sia invece di Girolamo Rizzo da Santa Croce, suo compatriota e fors’anco suo parente ed allievo, ed a lui superiore in valentia pittorica. N.B. Santa Croce è un piccolo paesino nella valle Brembana153. 254. Fogolino Marcello. Mad. in trono con varj S.S. gr[ande] al vero. Sul trono in forma di piedistallo sta scritto a grandi lettere il nome dell’ Autore. Di sì gran pittore dell’aureo secolo altro non so, se non ch’è vicentino, e che le di lui opere conosciute non mi fu dato trovarne cognizioni sufficienti in nessun dizionario. Delle sue opere io ne ho vedute sei, cioè la presente, che è la più ragguardevole perché porta sette figure grandi al vero, tre nel palazzo municipale di Vicenza, di molte figure, ma in piccole dimensioni, una parimenti in Vicenza presso un chirurgo, di cui non ricordo il nome, piccola cosa, e la sesta la vidi in Bergamo presso un mercantazzo di quadri milanese./ Questa rappresentava un S. Bernardo nel deserto. Era un piccolo quadretto che mi venne offerto per sei zecchini sotto il nome di Gio. Bellino; non so come avea varie parti guaste, né mi pareva del Bellino, ed ancora non conosceva la marcatissima maniera del Fogolino, così non lo comperai. Ma essendo andato poche settimane dopo a Vicenza, ed avendovi veduto le sopraindicate opere, non tardai a pentirmi di non averlo comperato, che vane tornaronmi tutte le pratiche tentate presso il mercante che lo vendé, il quale non sapeva a chi lo avesse venduto. E’ tale il pregio in che son tenute le sue opere, che l’Accademia di Venezia, presieduta dal celebre Cicognara, essendone priva, ne richiese una alla città di Vicenza, offrendole in compenso la facoltà di scegliere dalla veneta Pinacoteca quel quadro che più le piacesse, esclusa solo l’Assunta del Tiziano, la quale opera, se è forse la più celebrata per la sua grandezza e vivacità delle tinte, non è però certamente la migliore del Vecellio che si conservi in quella Accademia: e Vicenza rifiutò l’offerta. Eppure, ad unta di tutto ciò, né il Vasari si fa caso a nominare il Fogolino nelle sue opere, né il De Boni lo accolse nella sua Biografia degli artisti/ stampata a Venezia, quantunque ambedue abbiano dato ricetto a tante mediocrità. E così pure l’inesattissimo Ticozzi. Quanto siamo indietro ancora in questo

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interessantissimo ramo d’erudizione! (vedi la nota abbasso). Nota al n. 254. Il De Boni l’accenna, non si sa il perché, sotto il nome di Gio. Batta Figolino, quantunque confessi che si sottoscrivesse sulle proprie opere Marcello Fogolino, e così il Ticozzi154 255. Buonvicini Andrea, d° il Moretto da Brescia. Presepio con gloria di angeli. Gran pala. Magnifico. Questo quadro, insieme ad altre quattro dello stesso autore, decorava una cappella privata a Verona. Nella rivoluzione vennero levati dal proprietario, e nel 1815 venduti tutti e cinque per soli 500 franchi in monte al generale Teodoro Lechi, che, nel 1842 ne diede tre al Dott. Waagen incaricato dal Re di Prussia per settantamila franchi. Così vanno le cose a questo mondo155. 256. Sabattini Lorenzo. Mad. con Santi156. 257. Amerighi Michelangelo da Caravaggio. San Luca. Veramente magnifico! 258. Il sud°. La deposizione di Cristo. Egualmente157. 259. Zampieri Domenico, d° Domenichino. Ritratto d’uomo. E’ vivo!158 260. Reni Guido. Gran pala rappresentante S. Paolo e S. Antonio nella parte inferiore, e Maria con gloria d’angeli nella alta159. 261. Salvi Gio. Batta da Sassoferrato. S. Giuseppe col Bambino in braccio./ 262. Il medesimo. La deposizione di G. C. Opera di1igentata ma fredda secondo il solito di questo autore allorché staccasi dal suo prediletto argomento, ciè dalle Madonne. Il solo quadro di sua composizione ch’io m’abbia veduto stare a pareggio con le madonne era un piccolo quadro rappresentante la Mad. col B. il quale poneva l’anello di sposo in dito a S. Caterina. Questo, perché di piccole dimensioni (circa br. 10 per 12) e non aveva che una sola figura più del suo consueto eragli riuscito una stupenda cosa. Non erano però che mezze figure160. 263. Morales (de) Luigi detto il Divino, di Bajadoz in Spagna. La Mad. col B. m[ezza] f[igura]. Lo accennai perché d’un autore che porta uno specialissimo sopranome, le cui opere sono assai rare presso di noi, ma del resto non è gran cosa. Mancano di questo autore la galleria di Monaco, quella di Firenze, e persino quella del Pr. Esterhazij a Vienna, che è sì ricca in autori spagnoli; e quella di Dresda non ha che una testa del Redentore coronata di spine161. 264. Le Brun Carlo. I ritratti della famiglia del banchiere Jabach aggruppati in un sol quadro. Assai belli162. 265. Gelée Claudio lorenese. Paese, le cui macchiette rappresentano un baccanale. Per essere di Claudio/ é poca cosa poiché é monotono di tinte e secco163. 266. Swanevelt Ermanno. Paese. Questo autore, nato, non si sa in quale città delle Fiandre circa il 1620 dopo aver studiato sotto Gherardo Dow, venne in Italia, ove ancor giovanetto, entrò nella scuola di Claudio lorenese, del quale imitò assai la maniera, e col quale stette finché visse, dipingendo talvolta le figure sui quadri di Claudio che in questo genere superava. Più che i paesi a frondeggio egli amava dipingere monumenti antichi che con arte mirabile intrecciava nelle sue composizioni a paese, ed era finito e diligente al pari di Claudio, al quale non cedeva nella sfumatura e delicatezza. Ciò posto, come mai questi quadristi milanesi pongono il nome di Swanevelt a certi quadracci scuri, duri, strapazzati di tinte terree, mentre anche in Erman dominano le oltremarine come in Claudio? lo non so comprendere, fra le altre, come il restauratore Brisson, uomo d’altronde abbastanza conoscitore,

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abbia potuto dare il nome di Ermanno ad un paese di sua proprietà dell’ ora fu Conte Rinaldo Belgioioso, di tinte giallognole, e di tocco strapazzato sia nel frondeggio, sia nel cielo, sia nelle macchiette, mentre poco prima resta/ urato aveva un bellissimo Ermanno, uno Ermanno che B. Vitaliano Crivelli comprò per due lire da un povero falegname. Che cosa accadde della sua memoria, che aveva fatto di suoi occhi, se non poté distinguere la immensa diversità di quei due dipinti? Quanto miseri sono codesti nostri battezzatori di quadri!164 267. Vernet Giuseppe. Paese. Grande forza e verità165. 268. Eijck (van) Uberto e Giovanni. Quadretto oblungo verticalmente rappresentante vari giovani che cantano166. 269. Gli stessi autori. Altro quadretto simile, rappresentante S. Cecilia che suona ed un uomo col violino, ed altre figure dietro ad essi. Ambedue in tavola a tempera. Questi fratelli lavorarono molto in società abbenché Gio. l’ inventore del dipingere a olio, minore di età, fosse superiore assai di merito. Queste però non sono delle migliori loro opere e le accennai perché fatte prima della scoperta del dipingere ad olio. Le opere veramente insigni son quelle fatte dal solo Gio. dopo l’accennata scoperta e fra questi quelle della galleria di Monaco indicate ai n…… e quella ancora in tre compartimenti rappresentante l’Epifania esistente in casa Grumelli a Bergamo come dissi al n. 205167/ 270. Weijde (van der) Ruggero. La deposizione di G. C. lO f[igure] gr[andi] al v[ero]. Questo quadro viene citato anche dal De Boni come uno dei capolavori di quel maestro168. 271. Sunder Luca di Cranach juniore. La fontana della gioventù. Quadro in tavola molto oblungo trasversalmente, di molte ma piccole figure. In realtà non può dirsi che sia veramente bello, ma è un quadro che attrae la vista di chicchessia e diletta molto per la sua bizzarria. La scena rappresenta una fontana in forma di conca nel mezzo di un giardino, la cui acqua ha la facoltà di ringiovanire chi ne beve. A gara dunque vi accorrono i vecchi d'ambo i sessi che ne scendono giovani e belli. Molti e svariatissimi sono i gruppi, fra i quali meritano particolare attenzione per la verità della espressione alcuni di femmine ringiovanite che ritornano a certi giovanili sollazzi ed altri di uomini e donne sedenti a gioviale banchetto, ai quali l’acqua miracolosa restituì la gioventù e la forza, e gli spirituosi liquori ridestarono la sopita, voluttà ed il gelato amore. Anche questo quadro è citato dal De Boni169. 272. Holbein Gio. juniore. Il ritratto di un ban/ chiere che sta aprendo una lettera. E’ parlante! Quale incanto esercitano sopra di me le opere di questo insigne maestro! Egli è vero che nelle sue opere non vi è alcun idealismo, che d’ordinario è un pò duretto e sempre mancante di rilievo: ma la verità che spira dalle sue opere, ma la fusione e lo smalto del suo colorito, ma la maestria del suo pennelleggiare e la spontanea finitezza, formano agli occhi miei un vivo incanto170. 273. Cuijp Giovanni. Ritratto d’una vecchia matrona. E’ parlante, ma sarà di Cuijp o Huijs, come altri scrivono? Per quanto abbia cercato io non rinvenni mai citati altri Cujp o Kuijp che Giacomo Gerits padre, ed Alberto, figlio, né è presumibile che sia nato equivoco fra Giovanni e Giacomo, poiché sì Giacomo che Alberto, per quanto a me consta, non dipinsero mai ritratti, ma si attennero ai così detti quadri di maniera, dipingendo in piccole dimensioni paesetti con belle macchiette di cavalli, bestiami ed altri animali. Sarà dunque di chi lo fece171.

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274. Rubens Pietro Paolo. Perseo ed Andromeda172. 274. D.° Tre ritratti a cavallo. In uno di essi riconoscesi a colpo d’occhio la mossa di quello del Moncada dipinto da Van Dick suo scolaro173./ 275. Rembrandt Paolo. Un cavaliere in una stanza, ch’ha l’aspetto di prigione, il quale con aria irata minaccia un pugno ad un vecchio che sporge il capo nella stanza per mezzo d’una piccola finestruola nell'alto d'una parete. Non conosco il soggetto che il pittore intese di rappresentare, ma so che questo quadro (2/3 di f[igure] gr[andi] al v[ero]) per forza e vivacità di tinte e per espressione è uno de’più insigni lavori ch’io m’abbia veduto di quel sorprendente ingegno174. 276. Mieris (van) Francesco. Una dama alla toeletta. Non è gran fatto cresciuta di tinte come purtroppo avviene di sovente nei quadri di Mieris, ed è degno di lui. Ciò basti per sua lode175. Nota al N. 242. Giacché ho parlato di due originali di questo quadro (la ninfa lo del Correggio) esistenti uno a Vienna, l’altro a Berlino, mi si permetta accennare anche il terzo ch’esiste a Milano presso il Sig. Antonio Bozzotti. Questo è, secondo ogni apparenza, il primo modello, ossia schizzo di questo quadro: ma invece di esservi effigiata una donna vi è un uomo. Pare che l’Allegri, il quale come sa chiunque conosca la sua vita, era studiosissimo/ nè cessava dal cercar modi acciò le opere sue riuscissero perfette, pare, dico, che invece di servirsi del primo modello di una donna, abbia messo in posizione un giovanotto, forse uno de’suoi scolari, e l’abbia copiato tale e quale era, riservandosi poi a trasformarlo in donna allorquando avrebbe fatto il quadro in grande. Ed a convalidare questa opinione concorre il riflesso della difficoltà d’ottenervi che una donna stia lungamente in una sì forzata e faticosa posizione, non meno che la quantità delle varianti che riscontransi fra il quadro grande e tale schizzo. La figura, come già dissi, è volta in jschiena, ed essendo in atto di ricevere da messer Giove non solamente un bacio, ma uno di quei fruttiferi abbracci che quella buona lana d’un Deo compiacevasi dare alle belle ragazze, cade indietro molto oportunamente, spintovi dalla faccia di Giove che comprime la sua, e sostenuta ad un tempo dal braccio destro dello stesso seduttore che, passando sotto il sinistro della Ninfa, appoggia la mano allargata al di lei dorso. La posizione adunque, essendo fuori d’equilibrio, deve riuscire faticosissima per chi deve permanervi qualche tempo. Infatti, per diminuirne alquanto lo sforzo, mentre nel quadro non vedesi/ sotto al braccio sinistro della ninfa, ch’ essa tiene alzata, che una colonna di nuvole, dalla quale sbocciò la mano dell’ Altitonante, nello schizzo vedesi invece un guanciale, il qual serve a tenere alzato il braccio suddetto. Sì nello schizzo, come nel quadro, vedesi una specie di stagno che bagna la base del sedile, il vaso di terra e la testa d’un daino che beve ma il sedile è diverso, ché in uno è un semplice rialzo di terra con de’cespugli, mentre nell’altro è un sasso; ma lo stagno in uno estendesi per tutta la larghezza del quadro, mentre nell’altro non ne occupa che una metà; e diversissimo è poi il rimanente del fondo, il quale nel quadro rappresenta una pianura boscosa e nello schizzo una grotta. Le quali cose tutte, aggiunte al modo nel quale quello schizzo è trattato, lo chiariscono per opera del grande Allegri. Esso è in tavola di circa b[raccia] 16 per 14 e di maniera abbastanza finita. Il Bozzotti l’ebbe in cambio da un cavaliere torinese176.

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NOTE

1

La Rüstkammer di Dresda, chiamata Museo Storico fino dal 1832, e conservata dal 1960 nell’ala est dello Zwinger, contiene circa 10.000 oggetti fra anni e armature da parata dal Medioevo al XVIII secolo, e anni, gioielli orientali e vesti cerimoniali del XVI-XVIII secolo. Fra questi, il corredo cerimoniale del Principe Elettore Federico Augusto I e la Corona di Polonia del 1697. L’inizio della raccolta non può essere datato con esattezza, ma gli oggetti iniziarono ad essere accumulati prima del 1425. All’inizio essi erano distribuiti nei castelli di Wittemberg, Torgau e Dresda, le tre residenze principali dei Duchi di Sassonia. Divenute una collezione sistematica alla metà del XVI secolo, le raccolte furono trasferite nello Sclöß di Dresda, ed ebbero il loro primo curatore. Con lo sviluppo delle acquisizioni l’Elettore Cristiano I volle che al palazzo fosse aggiunta una nuova ala: la Stallhof (scuderia) in stile rinascimentale. Vi furono trasferite la Rüstkammer e la Harnischkammer (armature), mentre la Kunstkammer rimase nella sede interna del palazzo reale. Il XVI secolo è caratterizzato dal prevalere dell’interesse scientifico, mentre, a partire dal 1700 le raccolte furono considerate con minore interesse. Rüstkammer e Hamischkammer furono allora sistemate al piano superiore delle scuderie. Nel 1720 Augusto il Forte fece ingrandire la Stallhof per dare spazio anche alla Galleria dei quadri; essa fu collegata al palazzo da un nuovo corridoio, la Stallgebäude sulla Judenhof. Cfr. The Splendor of Dresden. Five Centuries of Art Collecting, National Gallery of Art, Washington 1978, pp. 111 sgg. 2

La Rüstkammer visitata dal conte Secco Suardo rappresenta già un museo specializzato, rispetto alla Kunstkammer degli Elettori Sassoni. Come in altri centri artistici d’Europa, il nucleo originario delle collezioni di Dresda comprendeva infatti curiosità, gioielli, oggetti pertinenti alle scienze naturali, grandi libri in folio, ed anche quadri 3

fandonie

4

rubbo: unità di peso per granaglie e misure di superficie, corrispondente a 8,5 chilogrammi circa. L'oncia corrisponde a circa 2,5 cm.; il braccio a 60 cm. circa. 5

Giovanni Secco Suardo si riferisce alla Hofkirche, costruita nel 1739-55 su progetto di Gaetano Chiaveri nelle forme del barocco romano per essere chiesa cattolica della corte. La chiesa, che ha una torre alta 83 m., è ornata nelle nicchie e sui parapetti, da 78 statue di santi e Principi Elettori, eseguite da Lorenzo Mattielli fra il 1738 e il 1746. L’interno è di forma ovale, con 4 cappelle agli angoli, sagrestia dietro l’altare e doppie gallerie processionali intorno alla navata centrale. Richiama il modello della chiesa di corte di Versailles. 6

Difficile parlare di competenza architettonica; il vocabolario del conte é molto ricco, ma la descrizione minuziosa, attenta e precisa, manca di sintesi. Naturalmente nel caso di edifici che oggi sono in gran parte distrutti la sua testimonianza si trasforma in un documento preziosissimo. Convincente il confronto con le vedute settecentesche e con le incisioni. Per la Hofkirche si veda, tra l’altro, l’incisione di Johann Esaias Nilson raffigurante Augusto III di Sassonia e Federico Cristiano Leopoldo, alla cui destra l’artista ha disegnato la sagoma della Frauenkirche (Cfr. München, Staatliche Graphische Sammlung, Inv. Us 153637). J.E.Nilson, miniatore, incisore, acquarellista (1721-1788), fu uno dei migliori interpreti del Rococò tedesco. La sua attività é testimoniata in tutta la Germania; famoso per la produzione di ritratti in miniatura. 7

Il passaggio dall’esterno ricco di decorazioni ad un interno assolutamente spoglio, rappresenta, per il connoisseur, una profonda delusione e non sembra sortire nessuna efficacia; anzi, la possente volumetria dei pilastri ha un effetto deludente. Frequenti i confronti con le architetture italiane. Da notare che il Secco Suardo ignora completamente il pulpito eseguito da Balthasar Permoser nel 1722 collocato nella navata centrale della chiesa. 8

L’organo, collocato sopra l’ingresso, è opera di Gottfried Silbermann (Kleinbobritzsch 1683-Dresda 1753), eseguita fra il 1750 e il 1753.

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9

A.R. Mengs, nato ad Aussig nel 1728, si era formato a Dresda con il padre Ismael, pittore e miniatore alla corte degli Elettori di Sassonia. L’ “Ascensione” della Hofkirche è concordemente datata 1751, risale cioè al periodo del rientro dell’artista in patria dopo il primo soggiorno romano (1746-49). Nel 1752 Mengs si trasferì definitivamente in Italia 10

Si tratta della Frauenkirche, edificata su progetto di George Bahr tra il 1726 e il 1734 e completata da J.G. Schmid nel 1743. Cfr. F. Loffler, Die Frauenkirche in Dresden, Dresden, 1991. La sua silhouette caratterizza molte vedute settecentesche della città. La cupola é andata distrutta nel 1945. “Indagare come avvenga che alcune nazioni d’Europa godano di una prosperità che appare anche più invidiabile se paragonata alla nostra miseria, sarebbe quesito di profondo studio... Belgio, Inghilterra, Francia, Germania accumulano ricchezze private e pubbliche che consentono allo Stato e alle singole città di innalzare opere sontuose. Dresda è città cara al cuore degli italiani. Giovanni di Sassonia fu il più italiano fra i principi tedeschi. Nel suo rinnovamento edilizio Dresda si è ispirata alla nostra antica grandezza. Oltre allo Zwinger, modello insuperato dello stile Rococò, possiede la bellissima chiesa cattolica di corte, e la chiesa evangelica di Nostra Signora, dalla cupola maestosa, inferiore solo a quella di San Paolo a Londra, di San Pietro a Roma e di Santa Maria del Fiore a Firenze. Vi ha lavorato Cornelius insieme a Rauk, grande maestro della pittura tedesca”, cfr. “Emporium”, I, 1895, pp. 87 sgg. 11

E’ la celebre basilica eretta da Filippo Juvara nel 1715 nei pressi di Torino in memoria della vittoria sui francesi (1706). 12

Bizzarra la considerazione sui costi, così precisa. Si può forse spiegare con il fatto che gli edifici rappresentavano i due maggiori esempi di architettura religiosa della città (cfr. J. Ekkenstein, Guide de la Ville de Dresde ou Tableau Topographique de la Capitale de Saxe et Voyage Pittoresque des ses Environs, Dresde et Leipzig, Chez Arnold Libraire 1832 pp.37-38). 13

Si riferisce all’ Augustusbriicke, il ponte, noto fino dal 1275, che unisce la Altstadt con la Neustadt. Fu rifatto nel 1727-31 da Poppelmann e modernizzato nel 1907. L’Augustusbriicke è stato completamente ricostruito dopo il secondo conflitto mondiale. 14

Identificabile con la Semper-Oper, il primo teatro costruito da Gottfried Semper (Amburgo 1803- Roma 1879) fra il 1838 e il 1841. Semper è considerato uno dei principali esponenti dello storicismo eclettico, si orienta sui modelli del rinascimento italiano, con riferimenti agli stili orientali e classici. A lui si deve anche la Pinacoteca di Dresda, eseguita fra il 1847 e il 1854. La Semper-Oper, bruciata nel 1869, fu ricostruita dal figlio Manfred nel 1871-78 in forme tardo rinascimentali italiane; cfr. G. Frizzoni, / due successivi prospetti del Teatro Reale di Dresda, in “Emporium”, II 1895, pp. 138-140: “Fra tutte le costruzioni civili, quella che più sarebbe chiamata ad appagare il nostro senso estetico dovrebbe essere il teatro, stante che in esso si avrebbe a riscontrare il migliore accordo fra quello ch’è per se stesso e quello per cui deve servire, come luogo di geniale convegno. La maggior parte degli architetti si ispirarono al Colosseo, e fra questi anche G. Semper, che ebbe dal Governo Sassone l’incarico di costruire il nuovo Teatro dell’Opera di Dresda”. Cita il teatro dell’opera di Francoforte, Monaco, Parigi. Correttezza classica delle linee; motivi desunti dal Teatro Marcello. Facciata a forma semicircolare (novità) che imprime un carattere di monumentalità romana all’edificio e cerca di coniugare l’involucro esterno con la forma interna. Due piani di loggiati sovrapposti, ordine toscano il primo, ionico il secondo. I due loggiati fanno una curva che corrisponde esattamente a quella dei palchi disposti attorno alla platea e davano ai palchi medesimi uno sfogo graditissimo di un ampio e arioso ambulatorio. Altri ridotti più propriamente detti a forma quadrangolare erano praticati nei corpi di fabbrica che formavano per ciascun lato la chiusura dell’emiciclo. Profilo esterno con gradazione di linee molto piacevole. Nobilmente decorato a graffito era l’emiciclo superiore che dava sulla terrazza coronante i due piani a portici. Era completato in alto da una specie di attica con finestrini bifori, che si distinguevano per la squisitezza delle loro modanature. Il fuoco non arrivò al vicino, ma non attiguo palazzo della Pinacoteca. Nella ricostruzione del figlio di Semper, sempre nella piazza dove sorge anche la cattedrale cattolica, il gusto castigato di Semper che si ispira agli architetti toscani, cede a quello più libero del rinascimento maturo, che i tedeschi chiamano Hochrenaissance. Cfr. H. Magirus, Gottfried Semper. Zweites Dresdner Hoftheate1; in Tendenzen in Theaterbau des 19° Jahrhunderts. Die Theaterbau Gottfried Sempe1; Leipzig 1985. 15

E’ interessante notare come Giovanni Secco Suardo condivida con Gustavo Frizzoni la convinzione che il teatro sia un edificio tanto importante, quanto diverso dagli altri. L’argomento è stato trascurato.

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Il teatro ottocentesco di Lipsia, cui il Secco Suardo farà in seguito riferimento, è distrutto; si conserva quello, straordinario, della “Residenz” di Monaco. 16

Il riferimento è al Teatro della Scala, costruito da Giuseppe Piermarini nel 1775-78 sull’area della chiesa di Santa Maria della Scala. Facciata neoclassica sormontata sull’ atrio da un timpano con il carro di Apollo. 17

L’edificio é da identificare con l’Orange Garten situato sulla Ostra Allee, vicino allo Zwinger. La sua fama era legata ai giardini detti “degli aranci” o anche “della Duchessa”. Creati dal giardiniere di corte Seidel e da suo figlio Charles August nel corso del XVIII secolo costituivano un luogo di grande richiamo e interesse per botanici e viaggiatori a causa del gran numero di piante esotiche, tra cui i rari fichi della Palestina; cfr.J.Ekkenstein, Guide de la Ville de Dresde ou Tableau Topographique de la Capitale de Saxe et Voyage Pittoresque des ses Environs, Dresde et Leipzig, 1832 p.70. 18

Al tempo del viaggio di Giovanni Secco Suardo, databile fra il 1844 e il 1850, la Pinacoteca era collocata nell’attuale Johanneum, palazzo rinascimentale costruito come scuderia del castello alla fine del XVI secolo da Paul Buchner, e poi trasformato, nel 1729-44, per essere adibito a galleria di pittura. La piazza cui il conte si riferisce è la Neumarkt, un tempio un grandioso complesso barocco-rococò. I dipinti erano stati trasferiti dallo Schloß (dove rimase la Kunstkammer) nello Jüdenhof nel 1722. Nel 1744 la collezione dei dipinti fu trasportata dalla Stallgebäude al Japanische Palais, mentre si procedeva alla risistemazione dell’edificio situato nella piazza dello Jüdenhof. E’ probabile che i due piani siano stati trasformati in uno solo, e di conseguenza le finestre, per dare più luce all’edificio. Nel 1746 tutte le pitture vi furono di nuovo trasferite, e l’anno successivo, dopo l’acquisizione della collezione di Modena, ne fu modificato l’allestimento. Attorno al 1840 la completa insufficienza dei locali era stata notata dai conoscitori locali e stranieri cfr. J. G. De Quandt, Sur l’etat de la Galerie Royale des Tableaux de Dresde, Leipzig, 1842. Nel 1843 Federico Augusto stabilì la costruzione di un nuovo edificio e si decise per la piazza dello Zwinger, che fu completata grazie alla costruzione progettata da Gottfried Semper, direttore della scuola di Architettura di Dresda. Il progetto, del 1847-49, fu portato a termine nel 1851; cfr. Catalogue de la Galerie Royale de Dresde par Julius Hübner, trad. da J. Graugier, Dresde, 1868, I ed. 1863, III ed. 1868. Il primo inventario del pinacoteca è del 1722-28, e fu redatto dall’ispettore Steinhäiser, sotto la supervisione del barone Raymond Le Plat, architetto del re e primo Direttore della Gemäldegalerie. I primi due cataloghi della galleria furono pubblicati in francese per soddisfare la curiosità dei viaggiatori colti che venivano da tutta l’Europa. Essi uscirono a distanza di pochi anni; il primo, del 1765, si deve a Jean Antoine Riedel, allora Ispettore della galleria di Pittura, e a Chretien Frederich Wenzel, Ispettore del Gabinetto di Disegni e Stampe, il secondo, del 1782, a Roger de Piles. Mentre il primo è un catalogo vero e proprio, che segue l'ordine di collocazione dei dipinti, divisi fra “Gallerie Exterieure” e “Gallerie Interieure”, il secondo riunisce le scuole in ordine cronologico, dà, chiari menti sui dipinti di maggiore importanza, sulla vita degli artisti, ed anticipa alcune nozioni sulla conoscenza dei disegni e dei dipinti. Si tratta, insomma, di un volume destinato all’amateur, più che di un semplice catalogo. In entrambi le opere hanno lo stesso numero di inventario. cfr. J .A.Riedel, C.F. Wenzel, Catalogue des Tableaux de la Galerie Electorale à Dresde, Dresde 1765, de l’lmprimerie de Chretien Henri Hagenmuller; R. De Piles, Abrègé de la vie des peintres, dont les tableaux composent la Galerie Electorale de Dresde, avec le Détail des tous les Tableaux de certe collection e des Eclaircissemens historique sur ces chefs-d’ouevre de la peinture, Dresde 1782, chez ces Freres Walther, Libraires Imprimeurs de la Cour. 19

Cortoi sta per Courtois Jacques, detto il Borgognone (Besançon 1621 - Roma 1675).

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Michelangelo Cerquozzi (Roma 1602-1660).

21

Il riferimento per Firenze è alla Galleria degli Uffizi, per Monaco alla Alte Pinakothek. La collezione del Principe Estherhazy, insieme a quella dei Liechtenstein, degli Czernin, degli Schonborn, era una delle più ricche e prestigiose raccolte private d'arte di Vienna. il nucleo originario della collezione fu costituito alla fine del XVIII secolo dal nobile ungherese Miklos Esterhazy "lo Splendido". Dopo di lui, il nipote Duca Miklos proseguì nella politica di acquisizione facendo confluire le opere nelle raccolte dei castelli di Frakno, Kismartoin, Esterhaza (Fertöd). Durante le guerre napoleoniche la pinacoteca, che contava già più di un centinaio di dipinti, venne portata da un castello all’altro sinché nel 1814 approdò a Vienna nell' ex palazzo Kaunitz. Qui divenne accessibile al pubblico che poteva visitarla due volte alla settimana. Tra il 1819 e il 1821 il Duca Miklos Esterhazy acquisì la collezione Burke e, pochi anni più tardi, alcuni pezzi importanti della collezione Kaunitz (tra cui la “Madonna col Bambino e S. Giovannino” di Raffaello, nota come “Madonna Esterhazy”, attualmente nel Museo di Belle Arti di Budapest) che andarono ad arricchire il già straordinario nucleo di dipinti spagnoli (Murillo, Ribera, Goya), fiamminghi, olandesi, francesi, italiani. La prestigiosa raccolta, ricca di 637 dipinti, 4000 disegni e migliaia di incisioni, é stata acquisita dallo Stato

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ungherese nel 1870 (K. Garas, Opere famose nella Pinacoteca Antica. Museo delle Belle Arti di Budapest, Budapest 1970, p.6). 22

Guido Reni, “Semiramide riceve la corona da Nino”, già Dresda Gemäldegalerie, dalla collezione dei marchesi Tanari a Bologna; migrò a Dresda nel 1752; fu distrutta durante il secondo conflitto mondiale. 23

Carlo Cignani (Bologna 1628-Forlì 1719), “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, attraverso il Guarienti da casa Contarini a Venezia, a Dresda nel 1749, (cat.1977, n. 387). 24

Il riferimento è alle “Tre Parche” della Galleria Palatina di Palazzo Pitti (Inv. n.113), di Francesco Salviati (Francesco Rossi) già attribuito a Michelangelo o a Rosso Fiorentino (La Galleria Palatina nel Palazzo Pitti a Firenze, a cura di N. Cipriani, Firenze 1966, p.53). 25

I numeri che compaiono nel testo accanto alle opere descritte e commentate dal conte Giovanni non sono quelli dell’inventario del museo; si tratta di una numerazione progressiva adottata dal Secco Suardo a proprio uso e per sua praticità. L’elenco inizia dal numero 115 in quanto i numeri dall'1 al 114 dovevano indicare i dipinti annotati dal conte nelle visite alle gallerie di Monaco e Vienna, le due tappe del suo viaggio precedenti il soggiorno a Dresda, la cui descrizione era compresa nel taccuino che doveva precedere il presente e che, sfortunatamente, é ancora irreperibile. 26

E’ sembrato utile tentare l’identificazione di ciascun dipinto con riferimento al primo catalogo a stampa della Gemäldegalerie di Dresda, cfr. J,.A.Riedel, C. F. Wenzel, Catalogue des Tableaux de la Galerie Electorale à Dresde, Dresde 1765, de l’Imprimerie de Chretien Henri Hagenmuller (d’ora in avanti cat. 1765 G.I.) per dare un’idea delle attribuzioni con cui erano esposte le opere al tempo della visita del conte (esemplare il caso della “Madonna del Borgomastro” di Holbein. Di seguito si riporta, quando possibile, anche l’identificazione rispetto al catalogo più aggiornato: Galerie de Tableaux de Dresde. Le Maitres Anciens, Dresde, 1977 (d’ora in avanti cat.1977). Quando non segnalato diversamente l'attribuzione si intende confermata. Per il dipinto di Raffaello, Cat. 1765, G.I. (Gallerie Interieure), n. 254; cat. 1977, n. 93. Quando, anni più tardi, Giovanni Morelli visiterà la Galleria di Dresda, troverà il dipinto di Raffaello in condizioni ben diverse, privo di velature e “slavato” a causa di un drastico intervento di restauro, cfr. E. De Pascale - M. C. Rodeschini Ga1ati, Le annotazioni di Giovanni Morelli ai cataloghi della Galleria degli Uffizi e Gemäldegalerie di Dresda, in G. Morelli. Materiali dì Ricerca, a cura di M. Panzeri e O. Bravi, Bergamo 1987, p. 313 n. 251. 27

Non risulta come Raibolini nei cataloghi settecenteschi. Erano invece attribuiti al Francia il “Battesimo di Gesù” e un “Principe Doria nelle vesti di Nettuno”. Cat. 1977, n. 49 come Francesco Raibolini; ivi, anche il “Battesimo”, n. 48. 28

Cat. 1765,G.I.,n.221.Cat.1977, n. 103.

29

Non risultano attribuzioni a Marcantonio Raimondi neppure nei cataloghi più recenti. C. C. Malvasia, Felsina Pittrice, Bologna 1678. 30

Non risulta né come Franciabigio, né come Andrea del Sarto nel catalogo del 1765. Cat. 1977, come Franciabigio “La lettera di Uria”, iscr. A. S. MDXXIII e FRACR per Francesco Cristofani. 31

Cat. 1765, G.I.n. 146; cat.1977 n.132.

32

Forse identificabile con il dipinto attribuito al Garofalo, cat. 1765, G.I., n. 273, raffigurante un “Gesù dormiente, adorato dalla Vergine, da un angelo guardiano che tiene la corona di spine e il sudario. Gloria di angeli con i misteri della passione”. 33

Cat. 1765, G.I., n. 208. Ma la descrizione iconografica non corrisponde a quella del dipinto noto come “Cristo della moneta” (cat.1977 n.169). 34

Cat. 1765,. G.I., n. 123; attr. con certezza a Tiziano. Cat. 1977, n. 168.

35

Cat. 1765, non id.; cat. 1977, n. 55. M. Boschini, Carta del navegar pitoresco. Venezia 1660; C. Ridolfi, Meraviglie dell’arte. Venezia 1648. 36

Cat. 1765, non id.; cat. 1977, n. 63.

164


37

Cat. 1765, G.I, n. 30; cat.1977 n.265 (col titolo “Donne musicanti”).

38

Cat.1765, non id.; cat. 1977, n. 188, 189, ambedue attribuite a Palma il Vecchio.

Per Giovanni Morelli le opere di Palma il Vecchio “goffamente ridipinte”, e “sciupate” dal restauro; cfr. E. De Pascale - M. C. Rodeschini Oalati, cit. 1987, p. 318 nn. 226-226 bis. 39

Cat. 1765, G.I., n. 203; cat. 1977, n. 225.

40

Non id.

41

Cat. 1765, G.I., n. 240; cat. 1977, n. 224.

42

Non id.

43

Cat. 1765, G.I., n. 245, come “Ritratto di un Duca di Milano”, attribuite a Leonardo da Vinci. Cat. 1977, n. 1890, come Hans Holbein. Provienente dalla Galleria Ducale di Modena con un’antica attribuzione a Leonardo. 44

Come Vincenzo Tamagni in Vereichniss der Königlichen Gemälde-Gallerie zu Dresden. Auf Hohe Veranlassung veifasst von Julius Hübner, Dresden 1867, n.100; cat. 1977, n.194A come Lorenzo Lotto. 45

Cat. 1765, G.I., n. 189.

46

Non id.

47

Cat. 1765, G.I., n. 125; cat. 1977, n. 150.

48

Cat. 1765, G.I., n. 278; cat. 1977, n. 151.

49

Cat. 1765, G.I., n. 183.

50

Cat. 1765, G.I.,n.220; cat. 1977, n. 152.

51

Cat. 1765, G.I., n. 170; cat. 1977, n. 153. La “Maddalena” successivamente declassata a copia del XVII secolo. 52

Cat. 1765, G.I., n. 284; cat.1977 n.242 (come Anonimo dell’Italia Settentrionale, 1530 ca.).

53

Cat. 1765, G.I., n. 178; cat. 1977, n.303 (“Madonna di S. Matteo”).

54

Cat. 1765, G.I., n. 159; cat. 1977, n. 327.

55

Non id. ; Cat. 1977, n. 324.

56

Cat. 1765, G.I., n. 188.

57

Cat. 1765, G.I., nn. 297, 292; cat. 1977, n. 340.

58

Cat.1765, G.I., n. 201; cat. 1977,309.

59

Cat. 1765, G.I., n. 147.

60

Cat. 1765, G.I., n. 143; cat. 1977, n.683 (come S. Agnese)

61

Cat. 1765, G.I., n. 48.

62

Cat. 1765, G.I., n. 296.

63

Cat. 1765, G.I., n. 154.

64

Non id.

165


65

Cat. 1765, G.I., n. 25.

66

Cat. 1765, G.I., n. 23.

67

Cat. 1765, G.I., n. 224; cat. 1977, n. 387.

68

Non id. 1765; cat. 1977, n. 605.

69

Cat. 1765, G.E., n. 726; cat.1977, n.705. I dipinti italiani erano quasi tutti esposti nella Ga1erie Interieure, le altre scuole nella Exterieure. Il dipinto Esterhazy di Murillo è “La Madonna con il Bambino che distribuisce i pani ai pellegrini”, eseguito per l’Ospedale dei Venerabili di Siviglia e acquisito alla collezione Esterhazy di Vienna nel 1822. Attualmente si conserva nel Museo di Belle Arti di Budapest, confluitovi con il resto della raccolta nel 1870. 70

Non id. Sono descritti due soggetti di Claude, ma i soggetti non corrispondono. Cat. 1977, n. 730, il primo.

71

Cat. 1765, G.E., n. 7 ?

72

Non id.; cat. 1977, n.721.

73

Cat. 1765, G.E., n. 462. Cat. 1977, n. 955.

74

Cat. 1765, G.E., nn. 462, 436 (e cat. 1977 n. 957 o 987) e 514.

75

Non id.; cat. 1977, n.962b. Per il “Ritratto dei due figli” di Rubens, il riferimento è alla collezione Lichtenstein di Vienna. 76

Cat. 1765, G.E., n. 112. Cat. 1977, n. 962.

77

Entrambi non id.. Il riferimento è al ritratto della sedicenne Hélène Fourment, (figlia del mercante di arazzi e tessuti Daniel Fourment) che Rubens sposò in seconde nozze il 6 dicembre 1630. 78

Cat. 1765, G.E., nn. 117, 50 (Regina Enrichetta Maria di Inghilterra, sposa di); 51 e 27. Cat. 1977, n. 1023c il primo; n. 1033 il quarto (come “bottega di”); il secondo declassato a opera di bottega, cat. 1930, n. 1034. Il terzo, dal 1887 riconosciuto come opera di Sir Peter Lely (Soest 1618 - Londra 1680) da un originale di Van Dyck. 79

Cat. 1765, G.E., nn. 310-311. Coques, Gonzales (Anversa 1618-1684). Ritratti di Carlo I e Maria Enrichetta di Inghilterra, sua moglie 80

Non id.

81

Cat. 1765, G.E., nn. 124, 196. Ruysdael, Jacob Isaacksz van ( 1628/29 Harlem – Amsterdam ? 1682) “Caccia al cervo”, cat. 1977, n. 1492 e 1495 (“Paesaggio con cascata”). 82

Cat. 1765, G.E., n. 151. Berchem, Nico1as Pieterzs (Harlem 1620 - Amsterdam 1683).

83

Non id. ma Du Jardin Karel (Amsterdam 1622 - Venezia 1678).

84

Cat. 1765, G.E., n. 357. Huysum, Jean van (Amsterdam 1682- 1749)

85

Non id. 1765; Cat. 1977, n. 1261, come Heem, Jan Davidsz de, (Utrecht 1606- Anversa, 1683/84).

86

Cat. 1765, G.E., n. 130 ‚. Terburg o Terborch, Gerard (Zwo11e, 1617-Deventer 1681) Anche come

Terboch o Borch Ter, Gerard. Cat. 1977, n. 1830 il primo; il secondo n. 1832, “Dama in abito di raso bianco davanti alletto” come Gerard Terborch (?) 87

Non id., ma Van der Werff, Adriaen (Kralingen 1659-Rotterdam 1722); ebbe fra i suoi collaboratori anche il fratello Pieter (Rotterdam 1665ca-1722), che esegui numerose copie delle sue composizioni più famose. Autore di piccole scene di genere, dal 1685 cominciò a dipingere anche tele di soggetto religioso e pastorale.

166


“Sara, Abramo e Agar” del Louvre; la grazia delle sue composizioni e la finitezza levigata dell’esecuzione ne fecero un artista ricercatissimo dal collezionismo tedesco 88

Non id.

89

Geard Dou (Leida 1613-1680). Nell’ordine: Cat. 1765, G.E., n. 129. Cat. 1765, G.E., n.158; cat. 1977, n.1704. Cat. 1765, G.E., n. 225; cat. 1977, n. 1708 90

Cat. 1765, G.E., n. 508. Vois, Ari de (Leida 1641- 1680).

91

Cat. 1765, G.E., n. 115, altro a Teniers, David padre (Anversa 1582-1649); caro 1977, n.1083?

92

Non id. nel cat. 1765. Caro 1977, Teniers Le Jeune, David (Anversa 1610- Bruxelles 1690) “Il cavadenti”, n. 1080. “Cerretano” sta per ciarlatano. 93

Non id. ma De Hooch Pieter (Rotterdam 1629-1684?).

94

Non id. ma Sperling Christian (Halle a. d. Saale 1688 - Ansbach 1741).

95

Non id. ma Van Loo Jacob (Sluis 1614-Parigi 1670).

96

Non id., ma Bol Ferdinand (Dodrecht 1616- Amsterdam 1680).

97

Cat. 1977, n. 809 A, come opera di Van Cleve, Joos (Cleve 1480/85 - Anversa 1540).

98

“L’esattore delle imposte”, cat. 1765, G.E., n. 434 ; cat. 1977, n. 804 come Jan Massys {Anversa 15091575). 99

Non id. (il santo non é Barnaba ma S.Barbara, cfr. Vereichniss der Königlichen Gemälde-Gallerie zu Dresden. Auf Hohe Veranlassung verfasst von Julius Hübner, Dresden 1867, n.1906 F) 100

Non id. (ma Luca di Leyda). Per il dipinto di casa Grumelli a Bergamo cfr. Guida di Bergamo 1824 del conte Girolamo Marenzi, Bergamo 1985, p. 97 101

Non id. ma Amberger, Christoph (? 1500-Augusta 1562): noto come autore di ritratti di pungente caratterizzazione con suggestioni cromatiche venete. 102

Il primo dipinto non id. Hans, Ho1bein il giovane (Augusta 1497/98-Londra 1543), copia della “Madonna del Borgomastro”, Cat. 1765, G.E., n. 437, con attribuzione a Holbein; cat. 1977, n. 1892. L’originale si trova a Darrnstadt, collezione Principi d’Assia. Quella di Dresda è una copia dipinta da Barthelemy Saburgh (1590-dopo il 1637) ad Amsterdam. La copia fu eseguita attorno al 1637. Proprietà del Delfino di Venezia, fu venduta a Dresda attraverso la mediazione dell’Algarotti. Fino al 1871, anno in cui la Gemäldegalerie di Dresda organizzò un’ esposizione dedicata ad Holbein, l’opera fu creduta un originale dell’artista. Poi scoppiò la polemica sulla sua autenticità. 103

Cat. 1765, G.E., n. 369, come Jean Holbein

104

Non id

105

Cat. 1765, G.E., n. 342; cat. 1977 n. 1560 come “Le nozze di Sansone”. Cat. 1765, G.E., n. 194 e cat. 1977, n. 1562 (“Ritratto di Saskia van Uylenburgh”); il terzo non id.; cat. 1765, G.E., n. 106 e cat. 1977, n. 1558. 106

Mieris il vecchio, Franz van (Leida 1635-1681). Il primo dipinto non identificato; il secondo: “La lezione di musica”, cat.1977, n.1743. 107

Caspar Netscher (Heidelberg 1635/36-La Hague 1684). Cat. 1765, G.E., n. 558 (?); il secondo non id.

108

Ostade, Adrian van (Lubecca 1610-Amsterdam 1685). Cat. 1765, G.E., n. 795 (?); cat. 1977, n.1396.

109

Non id.; cat.1977, n.1734.

167


110

Non id. ma Tol Van, Dominicus (Bodegraven 1631-42-Leida 1676).

111

Non id. ma Tilius Ian (Hilvarenbeek,?- Londra 1694).

112

Non id

113

L’artista è Philiph Wouwermann (Harlem 1620-1668); i primi tre dipinti non sono id., i numeri 227 e 228 descritti dal Secco Suardo potrebbero essere in Cat. 1765, G.E., nn. 796 e 460. Nessun riferimento ad una “Predicazione” ascrivibile al maestro o alla sua scuola. L’artista era famoso per i quadri di cavalli con scene di caccia e di battaglia ambientati entro luminosi paesaggi all’italiana. Gran parte dei dipinti di Wouvermann sono andati distrutti nell’ultimo conflitto mondiale. Nel catalogo della Gemäldegalerie del 1930, a cura di H. Posse, se ne contavano ancora sessanta, di cui otto come opere di bottega o copie, cfr. Katalog der Staatlichen Gemälde - Galerie zu Dresden. Die Alte Meistet; Dresden-Berlin 1930, pp. 235-239 114

Non id. al 1765; Cat. 1977 nn. 1655 e 1659? come Adrien Van de Velde.

115

Il Japanisches Palais, costruito fra il 1726 e il 1737 da Pöppelmann, Zacharias Longuelune, Knöffel e Jean de Bodt, i principali architetti del tempo, che introdussero a Dresda il classicismo barocco francese. Ha una struttura quadrilatera la cui facciata richiama il fronte orientale del Louvre. Dal 1782 vi furono trasferiti il medagliere, la collezione di sculture e la biblioteca. Lo Skulpturensammlung di Dresda, raccolta da Federico Augusto I, fu affidata a Winkelmann. Comprende plastica egizia, minoica, greca, romana e calchi. 116

La formazione della “Grünes Gewölbe” (Galleria Verde), custodita nel castello settecentesco, si deve a Federico Augusto I il Forte. Comprende 3000 pezzi fra gioielli, avori bizantini, e capolavori della scuola di oreficeria di Dresda del XVIII secolo. Al suo fondatore, Johann Melchior Dinglinger, il “Benvenuto Cellini della Sassia” attivo nei primi decenni del Settecento, si deve il gruppo “Palazzo Reale di Dehli nel compleanno del Gran Mogul”. 117

Boccale, manifattura di Norimberga, 1530 -1540, (h. 29 cm). Cfr. Einfürung in das Grüne Gewölbe, Staatliche Kunstsammlungen Dresden, Dresden 1979, p. 23. 118

“Il Palazzo Reale di Dehli in occasione del compleanno del Gran Mogol”, opera di J.M. Dinglinger e dei suoi fratelli (Dresda, 1701-1708) eseguita in oro, argento, smalti e pietre preziose e comprendente 132 figure mobili. Cfr. Einfürung..., Dresden ,1979, pp. 104-105 119

Si tratta della Brühlsche Terrasse, antico belvedere ideato dal conte Einrich von Brühl (1700-1763) primo ministro del Principe Elettore Federico Augusto III, e suo consulente per l’acquisto di quadri, come parco privato, sopra le fortificazioni che si affacciavano sull’Elba. Nel 1814 il governatore russo aprì il giardino al pubblico che divenne per la sua suggestiva posizione uno dei luoghi di passeggio più frequentati. 120

Per quanto non prive di un loro interesse, è evidente che le annotazioni del conte Secco Suardo sulla vita della città non sono che un espediente per sottolineare il legame, ben più evidente, che legava alla capitale toscana la “Firenze sull’Elba”. Entrambe città di fiume, idealmente radicate nel paesaggio che le circonda, Firenze e Dresda rappresentano quell’incontro fra arte e natura tanto caro a Goethe. Anche per ciò che riguarda la formazione delle collezioni d’arte, nate dal mecenatismo e dal gusto dei regnanti, le due città hanno una storia parallela: dal complesso unitario delle raccolte principesche sono nati i musei specializzati. Così la “Grünes Gewölbe” può essere paragonata alla “Galleria degli Argenti”, la “Gemäldegalerie Neue Meister” alla “Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti”, lo “Historisches Museum” al “Bargello”. Le relazioni fra le due città sono state studiate in occasione della mostra “Dresda sull’ Arno”, allestita a Firenze nel 1982 grazie al gemellaggio fra la Provincia di Firenze e Bezirk di Dresda. cfr. Dresda sull’ Arno, catalogo della mostra, Firenze 1982. 121

Nel tempo in cui venne visitata dal conte Secco Suardo, Lipsia, città di circa 50.000 abitanti, era uno dei centri commerciali più importanti della Germania (una grande fiera vi si teneva una volta all’anno, in settembre, il giorno di San Michele, attirando dai 30 ai 40 mila visitatori provenienti soprattutto dall’Est), nonché sede della Corte Suprema imperiale e di una delle più antiche e prestigiose università tedesche. Il suo principale interesse risiedeva tuttavia nell’attività libraria ed editoriale, potendo vantare più di 300 librerie e 60 stamperie che la qualificavano come il più importante centro di commercio librario della Germania; una grande fiera del libro e dell’editoria vi si svolgeva ogni anno in coincidenza della Pasqua. L’Hotel “Città di Roma” ove soggiornò il Secco Suardo si trovava presso la Stazione Dresda a nord della città, vicino alla Schützenhaus. Il “modernissimo” Teatro cui si riferisce il conte é l’Altes Stadttheater o Gewandhaus che

168


sorgeva nella parte nord-occidentale della città, nella Theaterplatz, a breve distanza dalla riva della Pleisse. L’edificio, costruito su progetto dell’architetto J. C. F. Dauthe, venne inaugurato nel 1781. Nel 1842, pochissimi anni prima del soggiorno del Secco Suardo, la Gewandhaus fu oggetto di un’importante ristrutturazione che comportò, tra l’altro, l’incremento del numero dei posti per gli spettatori e l’introduzione dell’illuminazione a gas. Cfr. R. Skoda, Das Gewandhaus Leipzig, Berlin 1986, pp. 182-183. Un nuovo teatro, il Neues Stadttheater, verrà eretto in stile neoclassico tra il 1864 e il 1867, nei pressi dell’ Augustusplatz, ad opera dell’architetto Langhans. A Lipsia il conte Secco Suardo non potè visitare musei. Un museo-pinacoteca venne inaugurato solo nel 1858, in un edificio costruito dall’architetto Lange sulla Augustusplatz. Cfr. Leipzig und sein Bauten zur X. Vanderversammlung des Verbandes Deutscher Architekten und Ingenieur Vereine, Leipzig 1892, p.238. 122

Giuseppe Antonio Poniatowski (Varsavia 7.7.1763- Lipsia 19.10.1813), figlio di Andrea, Feldmaresciallo dell’Impero d’Austria, e fratello del Re di Polonia, Stanislao Augusto. Fece una brillante carriera militare al servizio dell’ Austria e, quando nel 1729 la Russia dichiarò guerra alla Polonia, si mise al servizio della propria patria. Nel 1798 si stabilì nei propri possedimenti sulla Vistola. Dopo la battaglia di Jena del 1806 ottenne da Napoleone il comando di una divisione polacca e la direzione del Ministero della Guerra. Nel 1813, alla vigilia della battaglia di Lipsia, Napoleone lo nominò Maresciallo francese contro la coalizione alleata. Morì a Lipsia il 19 ottobre 1813 al comando dei polacchi di parte francese. Cfr. A. Busiri Vici, I Poniatowski a Roma, Firenze, 1971, pp. 240-243. 123

I due ritratti di Giuseppe Poniatowski cui fa riferimento Giovanni Secco Suardo sono andati dispersi. Il tempietto commemorativo si trovava nei pressi della Elsterstrasse. Del polacco restano il busto di Berthel Thorwaldsen (Copenaghen, 1770-1844), e una replica in gesso del monumento equestre eseguito dall’artista in memoria del maresciallo Poniatowski, che è anche la sua ultima opera commemorativa squisitamente neoclassica. La figura equestre, eseguita a Roma nel 1819, è riconoscibile nel dipinto di Hans Ditlev Christian Martens con “Leone XII nello studio romano dello scultore danese”. Tanto le sculture che il dipinto sono conservate presso il Thorwaldsen Museum di Copenaghen. L’Istrio cui fa riferimento il conte é il fiume Elster, sulla cui confluenza con i fiumi Pleisse e Parthe sorge la città di Lipsia. Il giardino é il Gerhards Garten compreso tra l’Elster e la Fleischerp1atz a nord-ovest della città. 124

Vetture di piazza.

125

l’hotel “Città di Londra” al N.36 della Jerusalemstrasse, nei pressi della Dönhofsplatz. In questi anni, Berlino contava più di 630.000 abitanti. 126

E’ noto che, dopo il saccheggio svedese del 1640, il Principe Elettore Federico Guglielmo il Grande (1640-1688) intraprese la ricostruzione di Berlino; la città fu cinta di mura e fu iniziata la costruzione dell’Unter den Linden. Il viale, lungo l km. e 200 m. e largo 600 m., collegava la porta di Brandeburgo con l’isola sulla Spree. La Friedrichstrasse, con direzione nord-sud, un tempo la via del passeggio elegante, era uno degli assi ortogonali che definivano l’antico centro storico, sorto per volere di Federico I nel XVIII secolo. Per Monaco di Baviera il riferimento è alla Ludwigstrasse, la scenografica strada neoclassica iniziata nel 1817 da Leo von Klenze e Friedrich von Gärtner. Per la storia urbanistica di Berlino si rimanda ai saggi pubblicati in occasione della mostra su Schinkel. Cfr. 1781-1841. Schinkel l’architetto del Principe, catalogo della mostra a cura di F. Reiman, Venezia, 1982. 127

L’antica Schloßplatz, o “Lustgarten”, la piazza che comunicava con l’Unter den Linden attraverso lo Scloßbrücke, ricostruito da K.F.Schinkel nel 1824 al posto del vecchio Hundebrücke. Sulla piazza sorgeva il castello, che dal 1451 al 1918 fu la residenza degli Hohenzollern. Già gravemente danneggiato dalla guerra esso fu distrutto nel 1951. 128

Fino dai primi anni dell’Ottocento a Berlino si era cominciato a pensare alla fondazione di un museo che raccogliesse le collezioni reali. Nel 1815 il rientro da Parigi dei pezzi del tesoro della corona, le notizie sui nuovi allestimenti della capitale francese, l’acquisizione della collezione Giustiniani e, nel 1821, della collezione Solly, decisero il Re Federico Guglielmo III ad affidare a Friedrich Schinkel il progetto dell’edificio. L’Altes Museum di Berlino, eretto al Luftgarten, fra il 1824 e il 1826, e parzialmente incendiato durante il secondo conflitto mondiale, fu concepito dall’architetto come “pendant” longitudinale del castello, mentre in altezza si misurava con l’Arsenale, sull’antistante riva della Spree. Stilisticamente si contrapponeva al fasto barocco dell’ Arsenale. L’edificio aveva infatti un portico frontale con un unico ordine gigante, privo di frontone, con architrave e cornice. La rotonda centrale si ispirava, nella volta, a quella del Pantheon; era mascherata all’esterno da un attico, mentre la scalinata al piano superiore della sala non era chiusa da pareti.

169


La descrizione di Giovanni Secco Suardo corrisponde esattamente alla struttura dell’edificio originale, e dà alcune informazioni dirette sulle decorazioni dell’interno e sull’allestimento. 129

Schinkel concepì fin dall’inizio l’esterno della costruzione con opere plastiche ornamentali. Ai lati della scalinata erano le due statue equestri di Federico Guglielmo III e del figlio, futuro Federico Guglielmo IV di Prussia. In corrispondenza degli angoli dell’edificio principale furono realizzate 4 figure femminili inginocchiate che reggono dei candelieri su modelli di Wichmann. Nel 1839 venne eseguita un’ amazzone combattente, in bronzo, su modello di August Kiss. La proposta di Schinkel di affidare l’esecuzione delle sculture a Rauch non fu accettata, e la statua del “Lottatore con il leone” disegnata da Rauch nel 1829, fu realizzata solo più tardi dal suo allievo Albert Wolff. Le due statue equestri di bronzo descritte dal Secco Suardo sui piedistalli ai lati della gradinata sono quelle degli Imperatori, le “statue muliebri sedenti” sono le figure di Wichmann, mentre risulta difficile identificare le due amazzoni. Il riferimento a Rauch è comprensibile, perché l’artista fu effettivamente chiamato a Berlino su suggerimento dello Schinkel nel 1841 e collaborò al progetto della decorazione plastica e pittorica del museo, oltre che al suo allestimento. 130

Schinkel aveva pensato alla decorazione del piano terreno del museo con un vasto ciclo pittorico che doveva rappresentare a sinistra “Il mondo delle origini” e a destra “La morte terrena”; i dipinti dovevano essere eseguiti da Rauch. Il primo progetto non fu approvato, e la decorazione dell’ Altes Museum iniziò solo nel 1841, dopo l’ascesa al trono di Federico Guglielmo IV. L’idea del ciclo, con affreschi di soggetto cosmologico a sinistra dell’ingresso, e di soggetto antropologico a destra, si deve a Schinkel e Rauch. Essi furono eseguiti da Carl Heinrich Hermann e da K. Stuurmer, K. Eggers, F. Schadow ed altri. La parete sinistra fu terminata nel 1844. 131

Peter von Cornelius aveva eseguito, fra l’altro, a Monaco di Baviera gli affreschi per la Gliptoteca di von Klenze con “Storie di Esiodo e di Omero”, e gli interni della Ludwigkirche. Poiché questi lavori lo avevano reso famoso, si ritiene che il Secco Suardofaccia riferimento a questi cicli pittorici. 132

Le sale del piano superiore del museo, destinate ad accogliere la Pinacoteca, vennero articolate tramite tramezzi montati ai lati delle finestre che, formando dei vani chiusi, permettevano di godere l’effetto complessivo delle sale. La prevista soluzione a luce spiovente non fu realizzata per motivi di costo. Nel 1829 la commissione per l’allestimento del Museo, creata da Aloys Hirt e presieduta da Wilhelm von Humboldt (ne facevano parte anche Rauch, i pittori tedeschi Wach e Däling e Karl von Rurnhor) aveva proposto una sistemazione dei materiali ordinati per scuole secondo il criterio storico-artistico K. G. Waagen fu il primo direttore della Pinacoteca. 133

Anche per i dipinti dell’ Altes Museum abbiamo tentato una prima identificazione con un catalogo ottocentesco e con quello più recente. Cfr. Koenigliche Museen. Gemälde Galerie. Beschreibendes Verzeichniss der Gemälde von Dr. Julius Meyer (Direktor) und Dr. Wilhelm Bode (Assistenten), Berlin, Verlag von C. Berg und von Holten, 1878 (con pianta della galleria). Picture Gallery. Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz Berlin. Catalogue oJ Painting. 13th-18th Century, Berlin-Dahlem 1978. 134

Cat. 1878, n. 69, Solly, 1821; cat. 1978, n.69. Il secondo dipinto può essere il n. 96, e cioè il “Cristo in croce con Maria e Francesco”, tempera su fondo oro, di Filippino Lippi, sempre dalla coll. Solly. Il conte Secco Suardo potrebbe averli confusi in quanto la sua conoscenza dei primitivi era indubbiamente limitata. 135

catalogo del 1878 esistono tre “Madonne” con attribuzione a Raffaello, ma la descrizione non consente di identificare il dipinto. 136

Non id.

137

Cat. 1878, n. 127, come Scuola bolognese, copia da F. Francia.

138

Cat. 1878, n. 281, come Giacomo Francia.

139

Cat. 1878, n. 246, da Parigi.

140

Cat. 1878, n. 237 (?).

141

Non id.

142

Non id.

170


143

Cat. 1878, n. 216, come copia da Correggio. L’originale alla galleria del Belvedere di Vienna, "Io e Jupiter". 144

Cat. 1878, n. 218; cat. 1978, n.218. La storia dei dipinti è nota; fanno parte di una serie rappresentante le avventure amorose di Giove e le sue trasformazioni. Correggio eseguì il ciclo su commissione del Duca di Mantova, Federico II Gonzaga, tra il 1530 e il 1531. Oltre alla “Leda”, gli altri tre dipinti erano le “Danae” della Galleria Borghese di Roma e due dipinti di formato verticale: “Il ratto di Ganimede” e “Io e Jupiter” ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. 145

Cat. 1878, n. 222. Nel catalogo si segnala che il disegno originale è nella collezione di Windsor.

146

Cat. 1878, n. 211; come Scuola lombarda, copia da Andrea Solario. Solly, 1821.

147

Non id.

148

Cat. 1878, n. 37, il primo; non id. il secondo.

149

Cat. 1878, n. 166, attr. a Tiziano. “La figlia dell’artista Lavinia”, acquistato a Firenze nel 1832. Cat. 1978, n.166 (Tiziano) 150

Nel catalogo del 1878 non sono segnalati dipinti del Veronese, ma “copie da”; tra questi un “Apollo e Giunone” con il n. 311. 151

Non id.

152

Non id.

153

Cat. 1878, n. 22. Come Francesco Rizzo da Santa Croce “Adorazione dei Magi”, Solly, 1821. Il dipinto è andato distrutto nel 1945 durante il conflitto mondiale. Era firmato “Francisco de Santa † F.”, probabilmente opera di Francesco di Simone da Santacroce, cfr. B. Della Chiesa, I pittori da Santa Croce, in I Pittori Bergamaschi. Il Cinquecento, 1975, p. 497. 154

Non id. S. Ticozzi, Dizionario degli architetti. scultori, pittori..., 4 tomi, Milano (1820-1833); F. De Boni, Emporeo biografico metodico. overo biografia universale ordinata per classi (...). Classe decima. Biografia degli artisti. Venezia 1840. 155

Cat. 1878, n. 187, “Adorazione dei pastori”, acquistato in Italia nel 1841-42; cat.1978, n.187.

156

Non id.

157

Non id. il primo; cat. 1878, n. 353, dalla collezione Giustiniani (1815) il secondo.

158

Cat. 1878, n.375. “Ritratto di Vincenzo Squamozzi”, acquisto Rumhor, 1829.

159

Non id.

160

Non id. il primo. Il secondo cat.1878, n.420; cat. 1978, n.420.

161

Morales, Luis de (Badajoz 1509/1520 - ?). Cat. 1878 n.412; cat. 1978, n.412.

162

Cat.1878, n.471. Charles Le Brun, “Ritratto del banchiere Eberhard Jabach di Colonia con la sua famiglia”. Acquisto 1837. 163

Non id.

164

Non id.

165

Cat.1878, n. 2/75; calo 1978, n. 2/75.

166

Non id

171


167

Non id. Nessun trittico attribuito ai fratelli Van Eyck figura nella raccolta Grumelli di Bergamo secondo quanto riportato in Guida di Bergamo 1824 del conte Girolamo Marenzi, Bergamo, 1985, p. 94. 168

Cat. 1878, n. 534. Copia da Rogier van der Weyden “Deposizione di Cristo”; cat.1978, n.526A.

169

Cat. 1878, n. 593; cat. 1978, n. 593. Si tratta de “La fontana della giovinezza”: una volta attribuita al figlio, oggi viene considerata piuttosto un’opera tarda del padre. 170

Cat. 1878, n. 586, “Ritratto del mercante Georg Gisze”, Solly, 1821; cat. 1978, n. 586.

171

Non id. ma Cujp Aalbert (Dordrecht 1620-1691).

172

Cat.1878, n.785; cat.1978, n.785.

173

Non id

174

Cat. 1878, n. 802, “Sansone minaccia suo suocero”. Cat. 1978, n. 802. Il soggetto biblico è tratto da Giudici (15,1-4). 175

Cat. 1878, n. 838; acquistato a Berlino ne11843. Cat.1978, n. 838.

176

Cfr. note nn.143-144.

172


173


174


PROVINCIA DI BERGAMO CENTRO DOCUMENTAZIONE BENI CULTURALI PUBBLICAZIONI • Fonti per lo studio del territorio bergamasco I.

Lelio Pagani, Documenti della prima fase di realizzazione del Catasto Teresiano (1718-1733). Le comunità bergamasche dello Stato di Milano. Bergamo, 1982.

II.

La presenza dei Benedettini a Bergamo e nella Bergamasca. Bergamo, 1982. Mariarosa Cortesi, Statuti rurali e statuti di valle. La provincia di Bergamo nei secoli XIII-XVIII. Bergamo, 1983.

III. IV. V.

Contributi in occasione della mostra «La presenza dei Benedettini a Bergamo e nella Bergamasca». Bergamo, 1984. Statuti rurali e statuti di valle. Atti del Convegno. Bergamo 5 marzo 1983. A cura di Mariarosa Cortesi. Bergamo, 1984.

VI.

I reperti altomedievali nel Civico Museo Archeologico di Bergamo. A cura del Museo Civico Archeologico. Bergamo, 1988.

VII.

Giovanni Da Lezze, Descrizione di Bergamo e suo territorio. A cura di Vincenzo Marchetti e Lelio Pagani. Bergamo, 1989.

VIII.

Le pergamene degli archivi di Bergamo, a. 740-1000. A cura di Mariarosa Cortesi. Bergamo, 1988.

IX.

Marino Anesa e Mario Rondi, «Sotto il ponte passa l’acqua». Canzoni popolari raccolte nel Bergamasco. Bergamo, 1989.

X.

Giovanni Cappelluzzo, Lo «Statuto del Podestà» di Bergamo. Commissione dogale per Lorenzo Bragadin, 1559. Bergamo, 1992.

XI.

Le visite «Ad limina Apostolorum» dei vescovi di Bergamo (1590-1697). A cura di Ermenegildo Camozzi. Bergamo, 1992.

• Fonti per lo studio del territorio bergamasco. Statuti I.

Statuto di Costa Volpino, 1488. Trascrizione e note storiche a cura di Oreste Belotti e Paolo Oscar, prefazione di Lelio Pagani, introduzione di Antonino Piscitello. Bergamo, 1994.

II.

Gli statuti della Valle Brembana superiore del 1468. A cura di Mariarosa Cortesi, saggio introduttivo di Gian Maria Varanini. Bergamo, 1994.

175


• Contributi allo studio del territorio bergamasco I.

Bergamo/Restauri 1982. Interventi di restauro eseguiti nella provincia di Bergamo. A cura di Paolo Venturoli. Bergamo, 1985. II. Il Parco dei Colli di Bergamo. Introduzione alla conoscenza del territorio. A cura di Lelio Pagani. Bergamo, 1986. III. Documenti della prima fase di realizzazione del Catasto Teresiano (17181733). Le comunità bergamasche dello Stato di Milano. Atti del Seminario, aprile 1982. A cura di Lelio Pagani. Bergamo, 1989. IV. Bergamo/Restauri 1983. Interventi di restauro eseguiti nella provincia di Bergamo. A cura di Paolo Venturoli. Bergamo, 1989. V. L’area di Bergamo: trentasette comuni una città? Atti del Corso. Bergamo, ottobre-novembre 1986. A cura di Lelio Pagani. Bergamo, 1990. VI. Restauri 1984-1989. Repertorio. A cura di Omella Previtali. Bergamo, 1990. VII. I segni dell’uomo e del tempo. Affreschi esterni nell’Alta Valle Brembana. Atti del Convegno, Averara 29 giugno 1985. A cura di Vincenzo Marchetti e OmelIa Previtali. Repertorio degli affreschi. A cura di Domenico Belotti e Eliseo Locatelli. Bergamo, 1990. VIII. Bergamo e il suo territorio nei documenti altomedievali. Atti del Convegno, Bergamo 7-8 aprile 1989. A cura di Mariarosa Cortesi. Bergamo, 1991. IX. X. XI.

Il fiume Serio. Atti del Corso, Romano di Lombardia, Albino, Clusone, settembre-novembre 1987. A cura di Lelio Pagani. Bergamo, 1991. Chiesa, istituzioni e territorio. Atti del Corso, Bergamo, ottobre-dicembre 1988. A cura di Lelio Pagani e Vincenzo Marchetti. Bergamo, 1991. Il fiume Brembo. Beni culturali e ambientali nell’area brembana. Atti del Corso. Zogno, Ponte S. Pietro, novembre-dicembre 1991. A cura di Lelio Pagani. Bergamo, 1994.

XII. Il Monastero di Pontida tra Medioevo e Rinascimento. Atti della Giornata di studio. Pontida 16 novembre 1991. A cura di Giovanni Spinelli OSB. Bergamo, 1994. XIII. Giovanni Secco Suardo (1798-1873). Fonti, strumenti, materiali di ricerca. A cura di Enrico De Pascale e Cristina Giannini. Bergamo, 1994.

• Quaderni I.

Lungo i fiumi e sui laghi. Aspetti del rapporto uomo ambiente nella prima metà dell’Ottocento. Archivio di Stato di Bergamo. A cura di Juanita Schiavini Trezzi. Bergamo, 1988.

II.

Bartolomeo Colleoni e la politica delle acque. Luogo Pio Colleoni. A cura di Vincenzo Marchetti. Bergamo, 1988.

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III. IV. VI VI.

La Roggia Morlana. Dalla medioevale «Societas et universitas Seriolae Murgulanae» ad oggi. A cura di Vincenzo Marchetti. Bergamo, 1989. Giovanni Battista Angelini. Erudito Bergamasco del Settecento. Antologia di scritti a cura di Vincenzo Marchetti. Bergamo, 1991. La Buca del Corno di Entratico. Antologia di scritti a cura di Giuseppe Zambaiti. Bergamo, 1991. Fare la storia. 1 documenti d’archivio tra i banchi di scuola. Un’esperienza didattica in collaborazione tra Archivio di Stato e Scuola elementare di Colognola, classe VA, anno scolastico 1990-1991. A cura di Juanita Schiavini Trezzi e Margherita Lilli Eynard. Bergamo, 1994.

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Finito di stampare Presso Tipolito Montello Febbraio 1995

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