La condizione umana

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SANT’AGOSTINO

BLAISE PASCAL

METTELIANA

LA CONDIZIONE UMANA

LA CONDIZIONE UMANA a cura di

CLAUDIA METTEL

METTELIANA 2012






A Carlo Carena, studioso illustre delle letterature d’ogni tempo e luogo, insigne traduttore dei classici latini, greci e francesi, consigliere sapiente per tutte le mie pubblicazioni, con affetto antico di privilegiato suo allievo negli studi giovanili dedico felice e con animo grato questa nuova, impegnativa e affascinante impresa editoriale.



LA CONDIZIONE UMANA



SANT’AGOSTINO

BLAISE PASCAL

LA CONDIZIONE UMANA a cura di CLAUDIA METTEL

Prefazione di GIOVANNI REALE Due note di ARMANDO TORNO Traduzioni di CARLO CARENA Acquerello di PIETRO PAOLO TARASCO

METTELIANA 2012


In copertina: Pietro Paolo Tarasco, La condizione umana, il Bene e il Male, particolare. (Didascalia pag. 219)

© 2012 TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941



Pietro Paolo Tarasco La condizione umana, il Bene e il Male

Acquerello e gouache, 56x76 cm, Matera 2012


AGOSTINO E PASCAL OGGI di Giovanni Reale

1. Perché Agostino e Pascal sono attuali. Nel leggere i testi di Agostino e di Pascal qui presentati, alcuni lettori, di primo acchito, potrebbero trarre l’impressione che, data la loro totale distonia rispetto al pensiero che oggi predomina fra gli uomini, siano da considerare fuori tempo, e quindi inattuali. E invece essi sono di una straordinaria attualità, proprio per il loro dirompente contrasto con le convinzioni di molti uomini di oggi. Infatti, il contrario richiama di necessità e inevitabilmente il proprio contrario, soprattutto quando si è toccato il fondo, come le concezioni sulla natura e sulla condizione dell’uomo hanno oggi ormai raggiunto. In effetti, queste pagine di Agostino e di Pascal contengono un antidoto veramente cospicuo e una terapia assai forte contro le errate concezioni dell’uomo che imperversano, di cui dobbiamo parlare, proprio per comprendere il senso della loro «attualità». Ma si può dire anche di più: i testi di Agostino e di Pascal sono «attuali», in quanto contengono verità eterne che trascendono i tempi, o meglio che, proprio perché sono eterne, valgono per tutti i tempi.

2. Per un ricupero del senso e della portata del valore dell’uomo. L’uomo di oggi ha smarrito in modo impressionante il senso della vita e soprattutto quello della morte, e una delle conseguenze di questo consiste nello smarrimento del senso sacrale del cadavere e l’importanza della sua sepoltura.


Si sta discutendo infatti da varie parti se, in sostituzione dell’antica cerimonia del funerale e di tutto ciò che esso comporta ormai in contrasto con la impostazione e la dinamica della vita moderna, il cadavere dell’uomo per ragioni funzionali e più adeguate alla vita di oggi, non debba essere eliminato in modo razionale con una cremazione e una eliminazione delle ceneri. Gli organi del morto potrebbero essere proficuamente «reimpiegati», mentre ciò che rimane del cadavere potrebbe essere «smaltito» con la cremazione. Umberto Galimberti – che è stato il primo a sollevare il problema in Italia sul quotidiano la Repubblica, riprendendo una discussione aperta su organi di stampa americani e francesi – ha fatto, in merito, alcuni rilievi assai pertinenti, mettendo in evidenza alcune agghiaccianti analogie fra questo trattamento proposto per i cadaveri con il trattamento dei rifiuti. Mentre alle antiche discariche – egli dice – si stanno via via sostituendo «inceneritori» e «raccolte differenziate» dei rifiuti per un loro riciclaggio, alle antiche tombe nei cimiteri si propone di sostituire una cremazione («smaltimento»!) dei cadaveri e una riutilizzazione («riciclaggio»!) degli organi. Lo studioso scrive: «Le soluzioni prospettate per lo smaltimento dei rifiuti indicavano un progressivo abbandono delle discariche a favore degli inceneritori o meglio ancora della raccolta differenziata per il riciclaggio. Il parallelismo con la sorte dei cadaveri è difficilmente occultabile: progressivo abbandono della sepoltura nei cimiteri a favore della cremazione o meglio ancora di quella raccolta differenziata che è il prelievo degli organi per i trapianti, che un recente dispositivo di legge, salvo esplicito dissenso, ha esteso in Italia a ogni corpo umano. Le intenzioni sono nobilissime, ma questo non ci impedisce di scorgere ad esse sottesa quella insidiosa filosofia che concepisce l’uomo come merce e il cadavere come resto da riciclare e incenerire». Lo stesso Galimberti giustamente rileva che le tradizionali immagini religiose e filosofiche dell’uomo sono state pressoché del tutto distrutte, e che l’uomo è diventato cosa e materia. Il senso della morte viene, in tal modo, completamente vanificato, e quindi rimosso: «Spogliato dei suoi valori religiosi, metafisici e simbolici non ospitati dallo scenario tecnologico, la morte oggi giun-


ge con un tratto più disadorno, più nudo, più privo di significato, quasi uno scarto di produzione della vita, un residuo inutile, l’assoluto straniero in un mondo frenetico e affaccendato non per raggiungere una vera o presunta finalità come era nello sguardo religioso o umanistico, ma con nessun altro scopo se non quello di esorcizzare la morte segregandola, separandola, nascondendola nel deposito dei rifiuti, nello scarico dell’oblio». Risulta di per sé evidente, sulla base di quanto detto, che l’uomo di oggi, nella dimensione della ragione scientistico-tecnologica, non comprende più il senso ultimativo della morte considerandola come un puro «scarto di vita», e questo perché ha ormai smarrito il vero senso dell’uomo e il suo effettivo valore. Sono veramente emblematici i pensieri di Pascal sulla grandezza dell’uomo a motivo della sua intelligenza: «Con lo spazio l’universo mi comprende e m’inghiottisce come un punto; col pensiero io lo comprendo». «L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per stritolarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo stritolasse, l’uomo sarebbe anche allora più nobile di ciò che l’uccide, poiché egli sa di morire e la superiorità che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla». «Tutta la dignità dell’uomo sta nel pensiero». Ma il pensiero può essere anche vile e basso (come per esempio quello sopra esaminato), e può essere tale proprio perché, di per sé, è qualcosa di grande. Può essere pessima, infatti, solo la corruzione di ciò che di per sé è ottimo (diceva una antica massima: corruptio optimi essima). Agostino va anche oltre. Spiegando il significato dell’affermazione della Genesi secondo cui Dio ha fatto l’uomo a propria immagine e somiglianza, dice che l’uomo «è immagine di Dio come Trinità»: l’uomo, come immagine di Dio, diventa immagine della Trinità. Nelle Confessioni Agostino esprime questo concetto nel libro tredicesimo, in un passo di una straordinaria profondità (opportuna-


mente riportato al cap. I): «Perciò tu non dici: “Sia fatto l’uomo”, bensì “Facciamo”; non dici: “Secondo la sua specie”, bensì: “a nostra immagine e somiglianza”. Chi, rinnovato nel cuore, contempla e comprende la tua verità, non ha bisogno delle indicazione di altri uomini per imitare la propria specie, ma con le tue indicazioni riconosce da se stesso quale sia la tua volontà, che è buona, gradevole e perfetta. Tu gli insegni, poiché ormai ne è capace, a vedere la trinità dell’Unità e l’unità della Trinità. Quindi è detto al plurale: “Facciamo l’uomo”, e poi aggiunto al singolare: “e fece Dio l’uomo”; è detto al plurale “a nostra immagine”, e aggiunto al singolare: “a immagine di Dio”. Così l’uomo si rinnova, nella conoscenza di Dio secondo l’immagine del suo creatore e, divenuto spirituale, giudica tutte le cose… ». Dio, in altri termini, parla al singolare come «Unità della Trinità», e al plurale come «Trinità dell’Unità», ossia secondo quel nesso dinamico-relazionale dell’Uno-Molti che costituisce Dio come Trinità. Questi concetti metafisici risultano ancora più chiari, se considerati nell’ottica dell’«amore» in senso cristiano. Agostino stesso che ce lo dice in modo mirabile nel De Trinitate, dove afferma che, siccome «Dio è amore» (e la Trinità è un rapporto di amore), «chi vede l’amore vede la Trinità». Ben si spiega, quindi, come Agostino affermi senza mezzi termini che l’uomo «è il miracolo più grande».

3. Per un ricupero del senso sacrale della morte. All’interno del paradigma scientistico-tecnicistico ci sono altre prese di posizioni in netta antitesi con quella del nichilismo sopra esaminata, che esprimono idee in senso esattamente opposto, ma altrettanto erronee. La posizione assunta per esempio da Aldo Schiavone (in Storia e destino) a questo riguardo mi pare particolarmente eloquente. La storia dell’umanità si è svolta passando attraverso tre fasi: la prima prodotta dalla rivoluzione dell’agricoltura, la seconda prodotta dal-


la rivoluzione industriale, la terza è quella dell’epoca in cui viviamo, prodotta dalla rivoluzione della tecnica. E in questa rivoluzione prodotta dalla tecnica ciò che è stato in larga misura ridimensionato, se non in certo qual modo eliminato, è proprio la morte, in quanto la «natura» è stata superata nella dimensione dell’«artificiale» che sarebbe giunto ben al di là della natura. Ecco le sue conclusioni: «Nel giro di qualche generazione avremo insomma una specie umana, che definirei “post-naturale”. Ed è ovvio che essa avrà un altro rapporto con la morte. In termini astratti possiamo anche dire che si realizzerà una sorta di immortalità (se vogliamo immaginare che questa parola – immortalità – continuerà ad avere senso, quando l’avremo trasferita dal mito alla storia), salvo poi vedere che cosa accadrà nel concreto delle singole esistenze, in ciascun progetto di vita, in rapporto alla socialità in cui esso è inserito. Credo perciò che la rivoluzione culturale cui dobbiamo prepararci sarà quella di trasportare la percezione della morte da evento affidato a una naturalità immodificabile, a evento entrato nel raggio delle nostre possibilità di decisione e di configurazione». E ancora: «… già non esistono più “morti naturali”, e tanto meno ne esisteranno in futuro, perché siamo ormai molto al di là della soglia nella naturalità, e in ogni morte non c’è più “la natura che fa il suo lavoro”, ma solo un provvisorio fallimento terapeutico. – La morte, insomma, in società tecnologicamente avanzate, è un’artificiosità tecnologicamente negoziata». Si tratta di una negazione ontologica della morte, che Emanuele Severino porta alle estreme conseguenze dal punto di vista teoretico. Severino, che è uno dei più grandi pensatori contemporanei, riprende il pensiero di fondo di Parmenide, e come lui nega che la morte sia. Le vicende della vita in questo mondo sarebbero solo un «apparenza» nella dimensione dell’«opinione» di ciò che è eterno, che non può venire e non può andare nel nulla, perché l’essere è, e il nulla non è. A suo avviso, quel «gigantesco evento» della morte, è una costruzione del pensiero dell’Occidente, e in particolare della sua «fede», ossia della sua credenza fallace, che le cose vadano nel nulla. Infatti,


a suo avviso, non c’è nulla che vada nel nulla, appunto perché, come abbiamo detto, il nulla non è, e, di conseguenza, quello che per l’Occidente è «la suprema evidenza», ossia l’esistenza della morte, per lui è «la suprema follia». E questa idea, che si oppone alla comune opinione, sarebbe «la verità autentica». Ecco quello che dice in un recente passo particolarmente significativo: «Siamo re che credono di essere mendicanti – prede del nulla. Quindi mendichiamo la salvezza dal nulla presso un Dio, o presso la Tecnica. E non sappiamo di essere re. Essere re vuol dire: siamo l’eterno apparire dell’eternità di tutte le cose. Ognuno di noi è questa dimensione che è più che essere Dio: ognuno di noi, che crede di essere mendicante, è (e in quanto mendicante non lo sa) l’eterno apparire dell’eternità di tutte le cose». La morte riguarda il male che più di ogni altro addolora l’uomo, e costituisce uno dei problemi più difficili da comprendere, e da sempre l’uomo ha tentato di risolverlo, ma invano con la sola ragione. Noi sappiamo che dobbiamo morire, ma non sappiamo per quale ragione dobbiamo morire, diceva Nietzsche. E le posizioni che sopra abbiamo illustrato che negano la natura e la portata ontologica della morte rappresentano un significativo tentativo di risolvere il problema con la «rimozione», veramente assurda da ogni punto di vista, della morte stessa. Il grande male viene spiegato con la negazione della sua esistenza. Ma la morte ha un significato, oltre che ontologico, religioso e teologico. La sola spiegazione radicale e totale di essa è fornita dal messaggio cristiano: con la morte e con la risurrezione di Cristo. Albert Camus, pur nell’ottica di un non-credente – nella sua opera L’uomo in rivolta –, ha perfettamente compreso un aspetto essenziale della passione di Cristo sulla croce, e scrive: «Cristo è venuto a risolvere due problemi principali, il male e la morte [...]. La sua soluzione è consistita innanzi tutto nell’assumerli in sé. Anche il

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dio uomo soffre, con pazienza. Né male né morte gli sono più assolutamente imputabili, perché è straziato e muore. La notte del Golgota ha tanta importanza nella storia degli uomini soltanto perché in quelle tenebre la divinità, abbandonando ostensibilmente i suoi privilegi tradizionali, ha vissuto fino in fondo, disperazione compresa, l’angoscia della morte. Si spiega così il Lamma sabactani e il dubbio tremendo del Cristo in agonia. L’agonia sarebbe lieve se fosse sostenuta dall’eterna speranza. Per essere uomo il dio deve disperare». Questo bel testo spiega, però, solo la metà della vittoria della Croce di Cristo sulla sofferenza e sulla morte: manca il momento successivo, che è quello determinante, ossia quello della «risurrezione» con la connessa «redenzione», incluse nella morte di Cristo, che costituisce il nucleo del mistero pasquale. Ma soffermiamoci sui testi agostiniani riportati in questo libro, che sono di per sé assai convincenti, anche rimanendo solamente sul piano antropologico e ontologico. La vita dell’uomo è sempre e in ogni momento strutturalmente connessa con la morte: «… da quando si comincia ad esistere in questo corpo votato alla morte, ogni atto in esso si compie affinché arrivi la morte. Questo è il prodotto del continuo mutare di questa vita, se ancora si può chiamare vita: l’arrivo alla morte. Nessuno, è chiaro, non si trova più vicino alla morte quest’anno rispetto all’altro anno, e domani più che oggi, e oggi più di ieri, e fra poco più di adesso, e adesso più di poco fa. Ogni attimo di vita è sottratto alla durata della vita e ogni giorno diminuisce sempre più il rimanente; per cui il tempo di questa vita non è che una carriera verso la morte, nella quale non è concesso a nessuno di fermarsi anche per un attimo o di rallentare un poco il passo; tutti sono incalzati allo stesso ritmo e una spinta uguale li avvicina alla meta». Si tratta di un passo che costituisce la più totale e radicale smentita del tentativo di rimuovere la morte mediante l’artificiale contro il naturale, come oggi da alcuni si cerca di fare. Ma la vera morte, per Agostino, non è quella fisica, che verrà eliminata con la risurrezione, ma è la morte nel peccato, che comporta come pena la morte eterna.

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Scrive Agostino in un passo veramente mirabile: «Lì […] gli uomini non saranno né prima né dopo la morte, ma sempre nella morte; quindi mai viventi, mai morti; ma interminabilmente morenti. Infatti all’uomo non potrà mai accadere niente di peggio nella morte, che una morte immortale».

4. L’uomo pensa, nell’ambito del paradigma scientistico-tecnicistico, di essere diventato come un dio se non addirittura Dio. Solo se riflettiamo a fondo su queste cose, potremo prendere coscienza di quali e quante siano le forze centrifughe che rendono difficile un ricupero di quelle energie spirituali che sono necessarie per affrontare e risolvere i problemi di cui stiamo discutendo. In effetti, le forze centrifughe più deleterie si sprigionano dal paradigma scientistico-tecnicistico, che rischiano di rinchiudere gli uomini come in una gabbia, nella caverna platonica, e, di conseguenza, di far loro dimenticare che si può e si deve guardare ciò che sta oltre, ossia il trascendente, se si vuol capire l’immanente, ossia che cos’è la vera vita e che cos’è la vera morte. Ma quello che più stupisce è il fatto che alcuni degli stessi scienziati e alcuni pensatori si sono identificati in vario modo con l’Assoluto, come una sorta di sua incarnazione. In effetti, la scienza e la tecnica, in molti casi, nella coscienza degli uomini hanno preso il posto della dimensione del religioso, nella convinzione, come abbiamo sopra spiegato, che la scienza ci offrirà tutta la verità e che la tecnica ci risolverà tutti i problemi. Robert Edward, padre della fecondazione in vitro, scienziato onorato del premio Nobel, sul quale la Chiesa ha sollevato (a giusta ragione) i suoi dubbi in quanto si sono ignorate le ragioni dell’etica, afferma senza mezzi termini rispetto ai risultati da lui raggiunti: «Fu un enorme successo che andò ben oltre il problema della fertilità. Riguardò anche l’etica del concepimento. Volevo scoprire chi fosse davvero al comando, se Dio stesso o gli scienziati. Ho dimostrato che noi eravamo al comando».

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Aldo Schiavone, nel suo libro Storia e destino, già sopra citato, interpreta la frase della Bibbia secondo la quale Dio ha fatto l’uomo «a sua immagine e somiglianza», nell’ottica del futuro della rivoluzione operata dalla tecnica, nel modo che segue: «… quando la Genesi stabilisce la rassomiglianza fra l’uomo e Dio, l’assimilazione non va attribuita a questa o a quella figura che l’uomo aveva o avrebbe assunto nel corso della sua storia evolutiva – non agli uomini che hanno scritto la Bibbia – ma all’umano come progettualità e come sviluppo […]. Somigliare a Dio non sarebbe insomma per l’uomo la condizione di partenza […], ma la stazione d’arrivo, da un certo momento in poi da noi stessi voluta e guadagnata: ciò che potremmo chiamare – se ci muovessimo su questo piano – non più laicamente nostro destino, ma religiosamente la nostra prospettiva escatologica». Queste parole suonano, a nostro avviso, come una impressionante eco delle parole dette dal demonio a Eva sul frutto proibito (che oggi sarebbe la scienza e la tecnica trasformate in idoli e divinizzate): «Dio sa che quando voi ne mangiaste vi si aprirebbero gli occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Ma l’uomo nello stesso momento è grande e miserabile. Pascal dice: «La grandezza dell’uomo è grande in quanto si conosce miserabile». La più forte e bella definizione dell’uomo – che, di per sé, risulta essere ben altro che un Dio –, e in particolare della sua grandezza e sua piccolezza, Pascal stesso l’ha data in uno dei pensieri, che a nostro avviso è uno dei più profondi (lo si veda nel suo contesto al capitolo II). Edgar Morin nel suo libro L’identità umana (edizione italiana Cortina 2002), lo ha ripreso come trama della sua trattazione, che conferma, per altre vie della psicologia, della sociologia e del pensiero filosofico contemporaneo, la verità incontrovertibile in esso espressa. Pascal dice: «Quale chimera è dunque l’uomo? Quale stranezza, quale mostruosità, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio, giudice di tutte le cose, debole verme di terra, depositario del vero, cloaca d’incertezza e di errore, gloria e rifiuto del-

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l’universo. […] Cercate dunque di conoscere, o superbo, quale paradosso siete per voi stessi! Umiliatevi, ragione impotente! Tacete, debole natura! Imparate che l’uomo supera infinitamente l’uomo e ascoltate dal vostro Maestro la vostra vera condizione, che ignorate. Prestate ascolto a Dio». Ma ascoltare Dio non basta. Occorre di più. Occorre ciò che Dio stesso ci ha dato, e che Agostino spiega in modo perfetto, come ora vedremo.

5. Necessità del «Mediatore». La salvezza dell’uomo è, per Agostino, Cristo stesso come «Mediatore». Il vero «Mediatore» non è un «dèmone» o un «intermedio» ontologico, a mezza strada fra l’umano e il divino, come pensavano i Greci, ma è Dio stesso, che mediante Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, ha conciliato il mondo con se medesimo. Il Logos o Verbo, che era presso Dio ed era Dio, facendosi carne, diventa quel nesso che lega il mondo con se stesso e a Dio, e garantisce una unità in senso globale. Il fulcro della salvezza, dunque, è Dio stesso e la sua incarnazione. Scrive Paolo: «E tutto viene da Dio che ci ha riconciliati a sé mediante Cristo..., in quanto Dio ha riconciliato con sé il mondo in Cristo» (Seconda Lettera ai Corinzi, 5, 18-19). E ancora: «Uno solo è Dio, e uno il Mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo» (Prima Lettera a Timoteo, 2, 5-6). Agostino mette questo tema perfettamente a fuoco in varie sue opere, e in particolare nel finale del libro decimo delle Confessioni e nella Città di Dio, in cui si legge (nel passo riportato al capitolo VIII della presente opera): «Se, secondo la tesi più attendibile e probabile, tutti gli uomini finché sono mortali sono anche inevitabilmente miserabili, bisogna ricercare un mediatore che non sia solo uomo ma anche Dio, capace con l’intervento della sua mortalità felice di condurre gli uomini dalla loro miseria mortale all’im-

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mortalità felice; e questo mediatore non doveva diventare né rimanere mortale». Cristo come Dio beato e beatificante, facendosi uomo, ossia «condividendo la nostra natura, ci offrì la sintesi con cui partecipare alla sua divinità. […] Così, scelse di entrare, per essere Mediatore, nella forma di uno schiavo, al di sotto degli angeli, rimanendo però al di sopra degli angeli nella forma di Dio. Via della vita nel mondo inferiore come Vita in quello superiore». E in modo assai forte nel Commento al Vangelo di Giovanni, approfondisce tale concetto in questa frase icastica: «Dio si è fatto uomo; che cosa dovrà diventare l’uomo, se, per lui, Dio si è fatto uomo?». E ancora, in modo altrettanto forte: «Rallegriamoci, dunque, e ringraziamo, perché noi non siamo divenuti soltanto Cristiani, ma siamo diventati Cristo! Comprendete, fratelli, comprendete la grazia che Dio ci ha concesso? Ammirate e gioite: siamo diventati Cristo! Se, infatti, Egli è la Testa e noi siamo le membra, l’uomo nella sua interezza è Lui e noi». Dunque, «nella sua interezza», l’uomo è «Cristo in noi», ossia è Dio che si unisce all’uomo mediante il Figlio incarnatosi, ossia mediante Cristo come «Mediatore». E proprio in questo, e non nel potere che gli deriva dalla scienza e dalla tecnica, sta la vera grandezza dell’uomo.

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Sant’Agostino LE CONFESSIONI



Alfred North Whitehead riteneva che la filosofia occidentale fosse una serie di note in margine a Platone. Non è azzardato parafrasarlo ricordando che la cultura cristiana assomiglia a tante chiose accanto agli scritti di Agostino. Del resto – chiamiamolo con il suo nome latino – Aurelius Augustinus di Ippona (354–430) si manifesta sempre nei momenti cruciali del pensiero. Rende Dio definitivamente rivelato e, allo stesso tempo, spiega all’uomo che c’è sempre un rapporto diretto con l’assoluto. È lui, pieno di domande, che suggerisce a Lutero, monaco agostiniano, le mosse per ribellarsi alla Chiesa di Roma; è ancora lui che ispira Giansenio, il vescovo che nel XVII secolo desidera purificare il cattolicesimo e mondarlo da ogni compromesso. Suggerisce agli opposti, dopo che Petrarca lo ha meditato per tutta la vita e quei viaggi interiori del sommo poeta ora ci sembrano esercizi spirituali agostiniani. È ancora lui, Agostino, che tormenta le congetture di Hegel e che torna alla ribalta quando Einstein e Heidegger pongono i grandi quesiti sul tempo all’inizio del Novecento. Aveva capito per primo, con un millennio e mezzo di anticipo, che tutte le grandi sfide passano da questo enigma: la concezione del tempo, appunto. Non lo considerò un fenomeno del mondo esterno, ma lo intese come qualcosa che l’anima filtra senza requie. Le leggi della meccanica e dello spazio ci dicono che il passato non c’è più, che il futuro non c’è ancora e che il presente sfugge come sabbia tra le dita; Agostino, semplicemente, mette in gioco la memoria che ricorda, trasforma quel che verrà in aspettazione e il presente in durata istantanea. Bergson gli è debitore. E, occorre aggiungere, Proust deve qualcosa a Bergson.

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Marsilio Ficino utilizza, alle soglie del mondo moderno, il suo nome per favorire Platone – ed escludere Aristotele – nel pensiero della Chiesa. Nascerà ancora una teologia platonica, questa volta con l’imprimatur di Agostino. Aiuterà infine Cartesio con il cogito: è possibile che io mi inganni su ogni cosa – diceva – meno che sul fatto che esisto, giacché se non esistessi, non potrei nemmeno ingannarmi. Ma allora non è vero che io non conosca nulla: almeno il mio essere lo conosco, e so quindi di poter sapere qualcosa.

Armando Torno

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I L’UOMO E DIO

Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere o invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come credere, se prima nessuno dà l’annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e t’invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. T’invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del tuo annunziatore.

Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C’è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla sarebbe di quanto è, avviene che

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quanto esiste ti comprende? E poiché anch’io sono così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora nelle profondità degli inferi, sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso all’inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se io non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così. Signore, è così. Dove dunque t’invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me il mio Dio, che disse: Cielo e terra io colmo?

Come si commettono delitti quando l’impulso spirituale che muove le nostre azioni è corrotto e si scatena con torbida arroganza; come si cade nel vizio quando l’anima non modera le inclinazioni di cui si alimentano i piaceri fisici, così gli errori e le opinioni false guastano la vita, se anche l’anima razionale è corrotta. Corrotta era la mia allora, poiché ignoravo che un’altra luce doveva illuminarla, se voleva godere della verità, poiché non era essa per sé l’essenza della verità. Tu infatti illuminerai la mia lucerna, Signore; tu Dio mio, illuminerai le mie tenebre. Tutti abbiamo attinto dalla tua pienezza; tu sei il vero lume, il quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo; perché non sei soggetto ad alterazione né ad ombra di mutamento.

Io tendevo però verso di te, e tu mi respingevi via da te per farmi assaporare la morte, poiché resisti ai superbi: e può esservi atto più superbo del mio, quando affermavo con demenza inaudita di essere per natura ciò che sei tu? Ero mutevole, e ben lo capivo dal desiderio appunto di sapere per divenire da peggiore migliore; eppure preferivo credere mutevole anche te, piuttosto che me diverso da ciò che tu sei. Di qui le tue ripulse, la tua resistenza di fronte alla mia tronfia testardaggine. Fissavo la mia immaginazione su forme corporee, ero carne e accusavo la carne, ero un soffio passeggero e ancora non tornavo a te, passavo passeggero fra cose inesistenti in te, in me, nella materia, non create per me dalla tua verità, ma dalla

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mia vanità immaginate secondo la materia. E dicevo ai tuoi piccoli, ai tuoi fedeli, ai miei concittadini, da cui ero a mia insaputa in lontano esilio, dicevo loro con sciocca petulanza: Perché dunque dovrebbe ingannarsi lo spirito, se creato da Dio?, e non volevo sentirmi rispondere: Perché dunque dovrebbe ingannarsi Dio. Preferivo sostenere che la tua sostanza immutabile è costretta ad errare, anziché riconoscere che la mia mutabile aveva deviato spontaneamente e per castigo errava.

Ecco dunque, Signore Dio nostro, creatore nostro, che quando i nostri affetti, causa per noi di morte per una mala vita, si saranno mortificati dall’amore del secolo, e la nostra anima comincerà ad essere davvero viva per una buona vita, e si sarà compiuta la tua parola, che dicesti per bocca del tuo Apostolo: Non uniformatevi a questo secolo; allora seguirà anche quanto aggiungesti subito dopo, dicendo: Riformatevi di vincere, rinnovando il vostro cuore, non però secondo la specie, quasi dovessimo imitare i nostri simili che ci precedettero, o vivere sul modello autorevole di un uomo più perfetto. Tu non dicesti: Sia fatto l’uomo secondo la sua specie, bensì: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», per farci riconoscere quale sia la tua volontà. Perciò quel tuo ministro, generando dei figli attraverso il Vangelo, per non averli sempre piccoli da nutrire, esclama: Riformatevi, rinnovando il vostro cuore, affinché possiate riconoscere da voi quale sia la volontà di Dio, che è buona, gradevole e perfetta. Perciò tu non dici: Sia fatto l’uomo, bensì: «Facciamo»; non dici: Secondo la sua specie, bensì: «a nostra immagine e somiglianza». Chi, rinnovato nel cuore, contempla e comprende la tua verità, non ha bisogno delle indicazioni di altri uomini per imitare la propria specie, ma con le tue indicazioni riconosce da se stesso quale sia la tua volontà, che è buona, gradevole e perfetta. Tu gli insegni, poiché ormai ne è capace, a vedere la trinità dell’Unità e l’unità della Trinità. Quindi è detto al plurale: Facciamo l’uomo, e poi aggiunto al singolare; e fece Dio l’uomo; è detto al plurale: a nostra immagine, e aggiunto al singolare: a immagine di

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Dio. Così l’uomo si rinnova, nella conoscenza di Dio, secondo l’immagine del suo creatore e, divenuto spirituale, giudica tutte le cose, quelle evidentemente che sono da giudicare, mentre egli non è giudicato da nessuno.

Le stesse considerazioni valgono per le offese al prossimo, ove opera la brama di nuocere con ingiuria o con danno, e in entrambi i casi o per vendicarsi, come avviene tra nemici; o per ottenere un bene altrui, come avviene al ladrone che assale un viandante; o per evitare un danno, come avviene per l’uomo che è temuto; oppure per invidia, come avviene al più povero verso chi è più fortunato, o a chi ebbe successo in qualcosa e teme o geme di avere un uguale; oppure per il semplice gusto del male altrui, come avviene agli spettatori degli incontri gladiatori o a chi deride e si beffa del prossimo. Queste le tre fonti dell’ingiustizia. Esse rampollano dalla libidine del potere, delle curiosità e del senso, ora da una sola, ora due, ora da tutte tre insieme. Allora si vive male, contro i primi tre e gli altri sette comandamenti, lo strumento a dieci corde, il tuo decalogo, Dio altissimo e dolcissimo. Quali vizi possono toccare a te, invece, che non sei soggetto a corruzione, quali delitti offendere te, cui nessuno può nuocere? Tu punisci le colpe che gli uomini commettono a proprio danno. Essi anche quando peccano contro di te agiscono spietatamente contro la propria anima, e la loro iniquità s’inganna, guastando e pervertendo la propria natura creata e ordinata da te; facendo un uso smoderato del lecito, oppure bramando ardentemente l’illecito per farne un uso contrario alla natura. Sono anche rei in cuor loro quanti imprecano contro di te e scalciano al tuo pungolo, oppure godono di aver infranto audacemente le barriere della società umana con private consorterie e rapine secondo i propri gusti e le proprie avversioni. Ciò avviene quando ti si abbandona, fonte della vita, unico vero creatore e regolatore dell’universo, amandone per orgoglio individuale una parziale falsa unità. E così si ritorna in te con la pietà umile, e tu ci purifichi dalla cattiva abitudine, indulgente verso i peccati che si confessano, incline ad ascoltare i gemiti di chi è inceppato ai piedi, ci sciogli dai lacci che ci siamo da

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noi stessi applicati, affinché non leviamo più contro di te le corna di una falsa libertà per ingordigia di possedere dell’altro e col pericolo di perdere tutto per colpa di un amore più grande verso il nostro bene particolare che verso te, bene universale.

Che amo dunque, allorché amo il mio Dio? Chi è costui, che sta sopra il vertice della mia anima? Proprio con l’aiuto della mia anima salirò fino a lui, trascenderò la mia forza che mi avvince al corpo e ne riempie l’organismo di vita. Non con questa forza potrei trovare il mio Dio; altrimenti anche un cavallo e un mulo, privi d’intelligenza, ma dotati della medesima forza, per cui hanno vita anche i loro corpi, potrebbero trovarlo. C’è un’altra forza, quella con cui rende non solo viva, ma anche sensitiva la mia carne, che mi fabbricò il Signore, prescrivendo all’occhio di non udire, all’orecchio di non vedere, ma all’uno di farmi vedere, all’altro di farmi udire, e così a ciascuno degli altri sensi prescrizioni proprie secondo le loro sedi e le loro attribuzioni; e così io, unico spirito, compio azioni diverse per loro mezzo. Trascenderò anche questa mia forza, poiché ne godono un cavallo e un mulo, che infatti hanno essi pure la sensibilità fisica.

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II I CAMPI DELLA MEMORIA

Trascenderò dunque anche questa forza della mia natura per salire gradatamente al mio Creatore. Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto. Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all’istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti. Alcune si precipitano a ondate e, mentre ne cerco e desidero altre, balzano in mezzo con l’aria di dire: «Non siamo noi per caso?», e io le scaccio con la mano dello spirito dal volto del ricordo, finché quella che cerco si snebbia e avanza dalle segrete al mio sguardo; altre sopravvengono docili, in gruppi ordinati, via via che le cerco, le prime che si ritirano davanti alle seconde e ritirandosi vanno a riporsi ove staranno, pronte a uscire di nuovo quando vorrò. Tutto ciò avviene, quando faccio un racconto a memoria.

Lì si conservano, distinte per specie, le cose che, ciascuna per il proprio accesso, vi furono introdotte: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi attraverso gli occhi; attraverso gli orecchi invece tutte le varietà dei suoni, e tutti gli odori per l’accesso delle nari, tutti i sapori per l’accesso della bocca, mentre per la sensibilità diffusa in tutto il corpo la durezza e la mollezza, il caldo e il freddo, il liscio o aspro, il pesante o leggero sia all’esterno sia all’interno del

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corpo stesso. Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e ineffabili, per richiamarle e rivederle all’occorrenza. Tutte vi entrano, ciascuna per la sua porta, e vi vengono riposte. Non le cose in sé, naturalmente, vi entrano; ma lì stanno, pronte al richiamo del pensiero che le ricordi, le immagini delle cose percepite. Nessuno sa dire come si siano formate queste immagini, benché siano visibili i sensi che le captano e le ripongono nel nostro interno. Anche immerso nelle tenebre e nel silenzio io posso, se voglio, estrarre nella mia memoria i colori, distinguere il bianco dal nero e da qualsiasi altro colore voglio; la mia considerazione delle immagini attinte per il tramite degli occhi non è disturbata dalle incursioni dei suoni, essi pure presenti, ma inavvertiti, come se fossero depositati in disparte. Ma quando li desidero e chiamo essi pure, si presentano immediatamente, e allora canto finché voglio senza muovere la lingua e con la gola tacita; e ora sono le immagini dei colori che, sebbene là presenti, non s’intromettono a interrompere l’azione che compio, di maneggiare l’altro tesoro, quello confluito dalle orecchie. Così per tutte le altre cose immesse e ammassate attraverso gli altri sensi: le ricordo a mio piacimento, distinguo la fragranza dei gigli dalle viole senza odorare nulla, preferisco il miele al mosto cotto, il liscio all’aspro senza nulla gustare o palpare al momento, ma col ricordo.

Sono tutte azioni che compio interiormente nell’enorme palazzo della mia memoria. Là dispongo di cielo e terra e mare insieme a tutte le sensazioni che potei avere da essi, tranne quelle dimenticate. Là incontro anche me stesso e mi ricordo negli atti che ho compiuto, nel tempo e nel luogo in cui li ho compiuti, nei sentimenti che ebbi compiendoli. Là stanno tutte le cose di cui serbo il ricordo, sperimentate di persona o udite da altri. Dalla stessa, copiosa riserva traggo via via sempre nuovi raffronti tra le cose sperimentate, o udite e sulla scorta dell’esperienza credute; non solo collegandole al passato, ma intessendo sopra di esse anche azioni, eventi e speranze future, e sempre a tutte pensando come a cose presenti: «Farò questa cosa, farò quell’altra», dico fra me appunto nell’immane grembo del mio spirito, popolato di tante immagini di tante cose; e l’una

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cosa e l’altra avviene. «Oh, se accadesse questa cosa, o quell’altra!», «Dio ci scampi da questa cosa, o da quell’altra!», dico fra me, e mentre lo dico ho innanzi le immagini di tutte le cose che dico, uscite dall’unico scrigno della memoria, e senza di cui non potrei nominarne una sola.

Grande è questa potenza della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo fondo? E tuttavia è una facoltà del mio spirito, connessa alla mia natura. In realtà io non riesco a comprendere tutto ciò che sono. Dunque lo spirito sarebbe troppo angusto per comprendere se stesso? E dove sarebbe quanto di se stesso non comprende? Fuori di se stesso anziché in se stesso? No. Come mai allora non lo comprende? Ciò mi riempie di gran meraviglia, lo sbigottimento mi afferra. Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi. Non li meraviglia ch’io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l’Oceano di cui sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali, ma le loro immagini, e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me.

Ma non è questo l’unico contenuto dell’immensa capacità della mia memoria. Vi si trovano anche tutte le nozioni apprese dall’insegnamento delle discipline liberali, che non ho ancora dimenticato. Esse stanno relegate, per così dire, in un luogo più interno, che non è un luogo, come non sono le loro immagini, ma le nozioni stesse, che porto. Cosa è la letteratura? E la dialettica? E quanti sono i tipi di problemi esistenti? Tutte le mie conoscenze in materia stanno nella mia memoria non quali immagini là trattenute, mentre ho lasciato fuori l’oggetto: non come un suono echeggiato e trascorso,

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come una voce, che imprime nell’orecchio un’orma che la fa ricordare quasi ancora echeggiasse, mentre ormai si tace; o come un odore, che nel passare e disperdersi al vento colpisce l’olfatto e trasmette così alla memoria una rappresentazione di sé, che la reminiscenza rievoca; o come un cibo, che certo nel ventre non si assapora più, eppure quasi lo si assapora nella memoria; o un oggetto, che percepiamo col tatto corporeo e che la nostra memoria immagina anche quando è separato da noi. In tutti questi casi non s’introducono nella memoria le cose, ma soltanto le loro immagini sono colte con una rapidità portentosa, riposte in una sorta di portentose cellette, ed estratte in modo portentoso dal ricordo. Quando però mi si dice: «Tre tipi di problemi vi sono: se una cosa sia, che cosa sia che qualità possieda», io afferro, sì, l’immagine dei suoni che queste parole compongono, so che passarono per l’aria risuonando e ora non esistono più; ma le cose in sé, che quei suoni indicano, non le toccai con nessuno dei sensi corporei, né le vidi fuori dallo spirito. Nella memoria riposi non già le loro immagini, bensì le cose stesse. Ma da dove entrarono in me? Lo dicano esse, se possono. Io, per quanto passi in rassegna tutte le porte della mia carne, non ne trovo una, per cui siano entrate. Gli occhi dichiarano: «Se hanno colore, le abbiamo trasmesse noi»; le orecchie dichiarano: «Se produssero suono, furono segnalate da noi»; le nari dichiarano: «Se avevano odore, sono passate da noi»; dichiara anche il senso del gusto: «Se non c’è sapore, non chiedere nulla a me»; il tatto dichiara: «Se non c’è corpo, non ho palpato, e se non ho palpato, non ho segnalato». Da dove, dunque, e per dove entrarono queste cose nella mia memoria? Non lo so. Le appresi non già affidandomi a un’intelligenza altrui, ma nella mia riconoscendole e apprezzandone la verità, per poi affidarle ad essa come a un deposito, da cui estrarle a mio piacere. Dunque là erano anche prima che le apprendessi; ma non erano nella memoria. Dove dunque, o perché al sentirne parlare le riconobbi e dissi: «È così, è vero?». Erano forse già nella memoria, però tanto remote e relegate, per così dire, in cavità segrete, di modo che forse non avrei potuto pensarle senza l’insegnamento di qualcuno, che le estraesse?

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III MISERIA E SPERANZA DELL’UOMO

Esiste infatti nell’anima, oltre la concupiscenza della carne, che risiede nella soddisfazione voluttuosa di tutti i sensi, cui si asserviscono rovinosamente quanti si allontanano da te, una diversa bramosia, che si trasmette per i medesimi sensi del corpo, ma tende, anziché al compiacimento della carne, all’esperienza mediante la carne. È la curiosità vana, ammantata del nome di cognizione e di scienza. Risiedendo nel desiderio di conoscere, ed essendo gli occhi, fra i sensi, lo strumento principe della conoscenza, l’oracolo divino la chiamò concupiscenza degli occhi. La vista infatti appartiene propriamente agli occhi, ma noi parliamo di vista anche per gli altri sensi, quando li usiamo per conoscere. Non diciamo: «Ascolta quanto luccica», oppure: «Odora come brilla», oppure: «Assapora come splende», oppure: «Tocca come rifulge»; in tutti questi casi si dice sempre: «Vedi». Non solo diciamo: «Vedi quanto riluce», per le sensazioni cioè che gli occhi soli possono avere; ma anche: «Vedi che suono, vedi che odore, vedi che sapore, vedi che ruvido». Perciò qualunque esperienza sensoriale viene chiamata, come dissi, concupiscenza degli occhi, perché l’ufficio di vedere, prerogativa degli occhi, viene usurpato anche dagli altri sensi per analogia, quando esplorano un oggetto per conoscerlo. Ora si può distinguere più chiaramente quale sia la parte del piacere, e quale della curiosità nell’azione dei sensi. Il piacere cerca la bellezza, l’armonia, la fragranza, il sapore, la levigatezza; la curiosità invece ricerca anche sensazioni opposte a queste, per saggiarle; non per affrontare un fastidio, ma per la bramosia di sperimentare e conoscere. Cos’ha di piacevole la visione di un cadavere dilaniato, che ti fa inorridire? Eppure, non appena se ne trova uno in terra,

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tutti accorrono ad affliggersi, a impallidire, e temono addirittura di rivederlo in sogno, quasi fossero costretti a vederlo da svegli, o fossero indotti dalla promessa di uno spettacolo ameno. La stessa cosa accade per gli altri sensi, ma sarebbe lunga la rassegna. Da questa perversione della curiosità derivano le esibizioni di ogni stravaganza negli spettacoli, le sortite per esplorare i segreti della natura fuori di noi, la cui conoscenza è per nulla utile, e in cui gli uomini cercano null’altro che il conoscere; e ancora le indagini per mezzo delle arti magiche, col medesimo fine di una scienza perversa; e ancora, nella stessa religione, l’atto di tentare Dio, quando gli si chiedono segni e prodigi, desiderati non per trarne qualche beneficio, ma soltanto per farne esperienza. In questa foresta immensa, disseminata di insidie e di pericoli, ecco, ho potuto sfrondare e spogliare molto il mio cuore: quanto tu, Dio della mia salvezza, mi hai dato da fare. Eppure quando oserei dire, fra i richiami fragorosi di tante sollecitazioni di questo genere, che assediano da ogni parte la nostra esistenza quotidiana, quando oserei dire che nessuna trattiene su di sé il mio sguardo e assorbe la mia vana curiosità? Certo non mi attirano più i teatri né mi curo di conoscere i passaggi degli astri, e mai l’anima mia ha cercato di conoscere i responsi delle ombre; detesto qualsiasi rito sacrilego. Ma quante macchinazioni non compie il nemico per suggestionarmi e spingermi a chiederti, Signore Dio mio, che devo servire in umiltà e semplicità, qualche segno! Ti supplico per il nostro Re, per la nostra semplice, pura patria, Gerusalemme, che il consenso a queste sollecitazioni, come è lontano da me oggi, così lo sia sempre, sempre più. Quando invece ti prego per la salute degli altri, il fine che mi propongo è ben diverso; perciò mi concedi e mi concederai di assecondare volentieri la tua opera, qualunque sia. Eppure chi può enumerare le moltissime miserie risibili che tentano ogni giorno la nostra curiosità, e le molte volte che cadiamo? Quanto spesso, partiti col tollerare un racconto futile per non offendere la debolezza altrui, a poco a poco vi tendiamo gradevolmente l’orecchio! Se non assisto più alle corse dei cani dietro la lepre nel circo, però in campagna, se vi passo per caso, mi distoglie forse anche da qualche riflessione grave e mi attira quella caccia; non mi

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costringe a deviare il corpo della mia cavalcatura, ma l’inclinazione del mio cuore sì; e se tu non mi ammonissi tosto con la mia già provata debolezza a staccarmi da quello spettacolo per elevarmi a te con altri pensieri, o a passare oltre sprezzantemente, resto là come un ebete vano. Che dico, se spesso mi attira, mentre siedo in casa, una tarantola che cattura le mosche, o un ragno che avvolge nelle sue reti gli insetti che vi incappano? Per il fatto che sono animali piccoli l’azione che si compie non è la medesima? Di là passo, sì, a lodare te, creatore mirabile, ordinatore di tutte le cose; ma non è questa la mia intenzione all’inizio. Altro è l’alzarsi prontamente, altro il non cadere. La mia vita pullula di episodi del genere, sicché l’unica mia speranza è la tua grandissima misericordia. Il nostro cuore diventa un covo di molti difetti di questo genere, porta dentro di sé fitte caverne di vanità, che spesso interrompono e disturbano le nostre stesse preghiere. Mentre sotto il tuo sguardo tentiamo di far giungere fino alle tue orecchie la voce del nostro cuore, l’irruzione, chissà da dove, di futili pensieri stronca un atto così grande.

Nulla mi riporta alla speranza, oltre la tua misericordia. Poiché tu hai avviato la mia conversione e tu sai fino a che punto l’hai condotta. Dapprima mi guarisci dalla voluttà di giustificarmi, per poi divenire generoso anche verso tutti gli altri miei peccati, per guarire tutte le mie debolezze, per riscattare dalla corruzione la mia vita, per incoronarmi di commiserazione e misericordia, per saziare nei beni il mio desiderio. Ispirandomi il tuo timore soffocasti la mia superbia, rendesti mansueta la mia cervice al tuo giogo. Ora lo porto, e mi è lieve, secondo la tua promessa tradotta in realtà. Era tale certamente anche prima, e non lo sapevo, quando temevo di addossarmelo. Ma davvero, Signore, che sei il solo a signoreggiare senza burbanza, perché sei il solo vero Signore senza signori, davvero mi sono liberato anche da questo terzo genere di tentazione, se mai si può esserne liberati in tutta questa vita: ossia dal desiderio di farsi temere e amare dagli uomini senza altro motivo, se non di trarne un godimento che non è godimento? Misera vita, lurida iattanza. Di qui

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soprattutto deriva l’assenza di amore e timore innocente per te, e quindi tu resisti ai superbi, mentre agli umili accordi favore; tuoni sulle ambizioni mondane, e tutte tremano le fondamenta delle montagne. Certi impegni del consorzio umano ci costringono a farci amare e temere dagli uomini; quindi l’avversario della nostra vera felicità incalza e dissemina ovunque i lacci dei «Bravo, bravo», per prenderci a nostra insaputa mentre li raccogliamo con avidità, per staccare la nostra gioia dalla tua verità e attaccarla alla menzogna degli uomini, per farci gustare l’amore e il timore non ottenuti in tuo nome, ma in tua vece, per averci, simili così a se stesso, con sé, non concordi nella carità, ma consorti nella pena. Decise di fissare la propria sede nell’aquilone, affinché gli uomini servissero questo tuo perverso e deforme imitatore in una gelida tenebra. Ma noi, Signore, siamo, ecco, il tuo piccolo gregge. Tienici dunque, stendi le tue ali, e ci rifugeremo sotto di esse. Sii tu la nostra gloria. Ci si ami per te, e in noi sia temuta la tua parola. Chi vuole la lode degli uomini col tuo biasimo, non sarà difeso dagli uomini al tuo giudizio né sottratto alla tua condanna. Quando non si loda un peccatore per le brame della sua anima e non si benedirà un ingiusto, bensì si loda un uomo per qualche dono ricevuto da te, se costui si rallegra della lode più del possesso del dono per cui è lodato, anche costui è lodato con tuo biasimo, ed è migliore chi loda di chi è lodato. Al primo piacque in un uomo il dono di Dio, al secondo piacque maggiormente il dono di un uomo che di Dio.

Queste le tentazioni che ci tentano quotidianamente, Signore, ci tentano senza tregua. Un crogiuolo quotidiano è per noi la lingua degli uomini. Tu ci comandi la mortificazione anche a questo proposito: ebbene, dà ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Conosci i gemiti del mio cuore a questo riguardo, e i fiumi dei miei occhi. Infatti non mi è facile capire fino a che punto io sia ben mondato da questa peste, e ho gran timore delle mie inclinazioni segrete, che i tuoi occhi conoscono, i miei invece no. Nelle altre specie di tentazioni riesco in una certa misura a esplorarmi; in questa quasi nulla. Vedo fino a che punto sia riuscito a contenere i piaceri della carne e

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le curiosità superflue del mio animo, allorché me ne privo volontariamente, o mi mancano: basta allora che m’interroghi per sapere quanto mi spiaccia non averli. E le ricchezze, che si cercano appunto per soddisfare uno di questi tre desideri o due o tutti, può essere che l’animo, finché le possiede, non riesca ad avvertire se le disprezza o meno; ma si può sempre licenziarle per metterlo alla prova. La lode invece, come privarsene per conoscere la nostra resistenza nei suoi confronti? Dovremmo forse condurre una vita malvagia, così perversa e disumana, che nessuno ci conosca senza detestarci? Si può dire o pensare follia maggiore? Se la lode suole e deve accompagnarsi a una vita onesta e ad opere oneste, non conviene abbandonare né la sua compagnia né la vita onesta. Però, per conoscere se l’assenza di un bene mi lascia indifferente o mi angustia, deve mancarmi. Cosa confessarti dunque, Signore, per questa specie di tentazione? Cos’altro, se non che mi compiaccio delle lodi? Però più della verità che delle lodi. Richiesto di scegliere fra uno stato di follia e di errori d’ogni genere, con la lode di tutti gli uomini, oppure di equilibrio e sicuro possesso della verità, con il biasimo di tutti, so quale scelta farei; però vorrei che l’approvazione di una bocca estranea non accrescesse neppure di poco il godimento che ogni bene mi procura. Invece, lo confesso, non solo l’approvazione lo accresce, ma il biasimo lo diminuisce. E mentre mi sento turbare da tanta miseria, s’insinua nella mia mente una giustificazione che tu sai, Dio, quanto vale; me, infatti, rende incerto. Tu ci hai comandato non solo la continenza, ossia di trattenerci dall’amore di alcune cose, ma anche la giustizia, ossia di concentrarlo su altre; e hai voluto che non amassimo soltanto te, ma anche il prossimo. Ora, sovente mi pare di rallegrarmi per i progressi o le buone speranze che rivela, il mio prossimo, quando mi rallegro di una lode intelligente; di rattristarmi viceversa per il suo errore, quando lo sento biasimare ciò che ignora o è un bene. Talvolta infatti mi rattristo, anche, delle lodi che mi vengono tributate, quando si loda in me una cosa che spiace a me stesso, oppure si stimano più del dovuto certi beni secondari e futili. Ma anche qui, come posso sapere se questo sentimento non nasce dalla mia contrarietà, perché chi mi loda ha di me stesso un’opi-

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nione diversa dalla mia, e quindi se mi scuoto per il suo bene, anziché per il piacere maggiore che mi danno le mie virtù se gradite, oltre che a me stesso, anche ad altri? In un certo senso non sono io lodato, quando la lode non corrisponde all’opinione che ho di me stesso, poiché allora si lodano cose che a me dispiacciono, o si lodano troppo cose che a me piacciono poco. Sono dunque incerto su me stesso per questo punto? Ma ecco che in te, Verità, vedo come le lodi che mi si tributano non debbano scuotermi per me stesso, ma per il bene del prossimo. Se io sia già da tanto, non lo so. Qui conosco me stesso meno di come conosco te. Ti scongiuro, Dio mio, di rivelarmi anche il mio animo, affinché possa confessare ai miei fratelli, da cui aspetto preghiere, le ferite che vi scoprirò. M’interrogherò di nuovo, con maggiore diligenza: se nelle lodi che mi vengono tributate è l’interesse del prossimo a scuotermi, perché mi scuote meno un biasimo ingiusto rivolto ad altri, che a me? Perché sono più sensibile al morso dell’offesa scagliata contro di me, che contro altri, e ugualmente a torto, davanti a me? Ignoro anche questo? Non rimane che una risposta: io m’inganno da solo e non rispetto la verità davanti a te nel mio cuore e con la mia lingua. Allontana da me una simile follia, Signore; affinché la mia bocca non sia per me l’olio del peccatore per ungere il mio capo.

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Sant’Agostino LA CITTÀ DI DIO



I GLI ANGELI E GLI UOMINI

Secondo la promessa fatta nel libro precedente, questo ultimo dell’intera opera conterrà una discussione sull’eterna felicità della Città di Dio. Eterna essa venne chiamata non perché si prolunghi per un grande numero di secoli, eppure sia destinata prima o poi a finire, bensì nel senso della frase evangelica: Il suo regno non avrà fine. Nemmeno vi sarà in essa una parvenza di perennità, non la scomparsa degli uni che muoiono e il succedere di altri che nascono, come nell’albero che, rivestendosi di un fogliame perenne, dà l’impressione di una verzura costante, mentre le foglie appassiscono e cadono: ma subito altre rinascono e conservano la bellezza dell’ombra. Al contrario, tutti i cittadini in quella Città saranno immortali, poiché anche gli uomini acquisiranno ciò che gli angeli non hanno mai perduto. Dio onnipotentissimo, suo fondatore, attuerà questa promessa; Egli non può mentire, e per coloro a cui voleva dare fiducia anche con questa promessa, attuò già molte cose che aveva promesso ed anche non promesso. È Lui infatti che creò all’inizio il mondo ricolmo di ogni cosa buona, visibile o comprensibile con l’intelletto; e fra queste cose nulla costituì più alto degli spiriti, cui diede l’intelligenza, che rese adatti e capaci di contemplare la sua Persona, e che legò in un’unica società, che noi chiamiamo la santa e superna Città. In essa Dio stesso è per loro la sostanza del loro sostentamento e della loro felicità; ne è la vita e il vitto comune. Egli attribuì a questa natura intellettuale un libero arbitrio, per cui se vuole può lasciare Dio, ossia la propria felicità, con l’immediata conseguenza della miseria; conobbe anticipatamente che alcuni angeli, desiderosi nella loro presunzione di bastare alla propria felicità, avrebbero lasciato quel

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grande bene; ma non li privò di questo potere, giudicando che fosse atto di maggior potenza e maggior bontà trarre un bene dai mali che impedire ch’essi fossero. Non vi sarebbero mai stati mali, se la natura mutevole, pur buona e costituita dal sommo Dio immutabilmente buono, che creò buone tutte le cose, non li avesse prodotti per se stessa. Il suo stesso peccato è una testimonianza che prova come la natura fosse stata creata buona. Se infatti non fosse stata anch’essa un grande bene, pur non pari al suo Creatore, l’abbandono di Dio, sua luce, non avrebbe potuto essere un male per lei. La cecità è un difetto dell’occhio e ciò stesso indica che l’occhio fu creato per vedere la luce; così, proprio col suo difetto si dimostra la parte del corpo più eccellente, quella in grado di percepire la luce; altrimenti non vi sarebbe motivo per cui la privazione della luce fosse per quella parte del corpo un difetto. Ugualmente la natura che godeva di Dio: essa dimostra la perfezione della sua creazione col suo difetto attuale, per cui è misera avendo perso il godimento di Dio. Dio dunque impose agli angeli per la loro volontaria caduta la pena dell’infelicità eterna, mentre agli altri, che rimasero fermi in quel sommo bene, accordò la certezza di rimanervi come premio per esservi rimasti. Anche l’uomo lo creò retto e dotato egli pure di libero arbitrio, animale terreno, certo, ma degno del cielo se unito al suo Creatore, e destinato anch’egli, se Lo avesse abbandonato, all’infelicità nella forma appropriata a quel genere di natura. Anche dell’uomo conosceva in anticipo che avrebbe peccato con la trasgressione della Legge di Dio e la diserzione di Dio; ma non per questo lo privò della disponibilità del libero arbitrio, prevedendo contemporaneamente il bene che dal male dell’uomo Egli avrebbe tratto. Dalla progenie umana, meritamente e giustamente condannata adunò per bontà sua un popolo immenso, con cui rinnovare e colmare la porzione decaduta degli angeli. Così a quella Città diletta e superna non sarebbe stata sottratta la sua completezza, anzi avrebbe anche potuto godere di un numero ancora più grande di cittadini.

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II IL MIRACOLO DELL’UOMO

Bisogna credere che tutti i miracoli che si verificano per il tramite degli angeli o in qualsiasi altro modo, sono divinamente voluti per inculcare il culto e la religione dell’unico Dio, in cui solo risiede la vita felice; dobbiamo credere che è Dio stesso a operarli e che sono veramente compiuti da o per il tramite di esseri che ci amano secondo la verità e la pietà. Non bisogna dar ascolto a chi afferma che Dio, invisibile, non opera miracoli visibili. Anche secondo costoro Dio stesso creò il mondo, innegabilmente visibile, e ogni miracolo che si produce in questo mondo è indubbiamente meno prodigioso del mondo intero, ossia cielo e terra con quanto contengono, creati certamente da Dio. Come però il Creatore stesso, così il modo della creazione è velato e incomprensibile all’uomo. I miracoli della natura visibile hanno perso valore per la frequenza con cui si vedono; sono pur tuttavia più grandi, se li osserviamo con intelligenza, dei più insoliti e rari. Di tutti i miracoli prodotti per mezzo dell’uomo il più grande infatti è l’uomo. Per cui Dio, che creò, visibili, cielo e terra, non disdegna di attuare miracoli visibili in cielo e in terra per destare l’anima ancora immersa nelle cose visibili ad adorare Lui invisibile. Dove e quando, ciò è immerso nel suo immutabile consiglio, nel cui disegno determinato tutto il futuro è già attuato. Egli muove le vicende del tempo senza muoversi nel tempo; conosce i fatti futuri non diversamente dai fatti passati ed esaudisce chi Lo invoca così come vede chi Lo invocherà. Infatti anche quando ci esaudiscono gli angeli, è Lui a esaudirci nella loro persona, suo tempio vero non fatto da mani, e nella persona dei suoi santi; e sono suoi comandi eterni nella prospettiva della sua Legge, attuati nel tempo.

Dio stabilì gli altri esseri animati solitari ed erranti in una loro solitudine, ossia piuttosto desiderosi di una vita solinga, come nel caso

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delle aquile e dei nibbi, dei leoni e dei lupi e dei loro simili; oppure sociali, con preferenza per la vita aggregata dei greggi, come nel caso dei colombi e degli storni, dei cervi, dei daini e dei loro simili; e di queste due specie propagò la razza non da un singolo esemplare, bensì facendone esistere più di uno contemporaneamente. Per l’uomo invece stabilì una natura, diciamo così, mediana fra gli angeli e le bestie; se si sottoporrà al suo Creatore come al suo vero padrone e ne osserverà i precetti con devota ubbidienza, egli passerà nella comunità degli angeli, conseguendo senza il transito della morte una felice e infinita immortalità; mentre l’offesa fatta al suo Signore e Dio con libera volontà e orgogliosa disubbidienza lo assoggetta alla morte e a una vita bestiale, lo farà servo delle passioni e lo destinerà a eterno supplizio dopo la morte. Perciò creò l’uomo unico e singolo, non certo per abbandonarlo alla solitudine senza una società di uomini, ma per inculcare più fortemente a lui l’unità di questa società umana e i vincoli dell’armonia mediante il legame non solo della somiglianza di natura bensì anche dell’affetto di parentela. Persino la donna, destinata a compagna dell’uomo, decise di non crearla come l’uomo stesso, ma dallo stesso uomo, affinché solo da un unico uomo si propagasse la razza umana.

Dio non ignorava che l’uomo avrebbe peccato e che, soggetto così alla morte, avrebbe generato una discendenza destinata a morire. Gli uomini, mortali, avrebbero raggiunto una tale dismisura nel peccato, che le bestie stesse prive di volontà razionale e germinate in più esemplari dalle acque e dalla terra vivrebbero più sicure e in pace fra loro nella loro specie che non gli uomini, la cui specie fu propagata da un unico progenitore per inculcare fra loro l’armonia. Infatti i leoni o i draghi non si sono mai combattuti fra loro come gli uomini. Dio però prevedeva pure che per sua grazia un popolo di giusti doveva essere chiamato alla sua adozione; rimessi i peccati, giustificato dallo Spirito Santo, quel popolo doveva essere associato agli angeli santi nella pace eterna, dopoché la morte, ultima nemica, fosse stata distrutta. E a quel popolo avrebbe giovato questa riflessione che Dio stabilì il genere umano partendo da un solo uomo, per inculcare in lui il suo grande compiacimento per l’unità nella pluralità.

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III L’UOMO NEL TEMPO

Che vi è di strano se, errando per questi cerchi, costoro non trovano né ingressi né uscite? Ignorano infatti quale inizio ebbero il genere umano e questa nostra condizione mortale, e quale fine la concluderà, poiché non sono in grado di penetrare nella profondità di Dio. Eterno Egli stesso e senza inizio, da un certo inizio diede pur avvio al tempo e creò nel tempo l’uomo, mai creato da Lui fino ad allora, senza un mutamento repentino ma secondo il Suo immutabile ed eterno disegno. Chi riuscirebbe a sondare questa profondità insondabile, a scrutare questa inscrutabile altezza, per cui Dio creò nel tempo, senza mutare la sua volontà, l’uomo temporale e moltiplicò da un uomo solo tutto il genere umano? Per cui il salmista, dopo aver premesso e detto: Tu, Signore, ci salverai e ci riparerai da questa generazione in eterno, replica a coloro che nella loro stolta ed empia dottrina non riservano all’anima la liberazione e la felicità eterna, aggiungendo immediatamente: Gli empi cammineranno in un cerchio. È come se chiedesse: cosa credi, cosa pensi, cosa capisci? Si può mai ritenere che Dio abbia deciso improvvisamente la creazione dell’uomo mai compiuta prima nell’infinita eternità anteriore, mentre non può intervenire nulla di nuovo in chi non subisce alcun mutamento? Per poi rispondere súbito, rivolgendosi a Dio stesso: Nel tuo profondo disegno moltiplicasti i figli degli uomini. Ossia dice: gli uomini pensino pure ciò che immaginano, coltivino le opinioni e le dispute che a loro piacciono; ma Tu nel tuo profondo disegno, inconoscibile per qualsiasi uomo, moltiplicasti i figli degli uomini. È davvero un abisso profondo l’essere sempre esistito e l’aver voluto creare a partire da un certo tempo un primo uomo mai creato fino ad allora, senza alterare il proprio disegno e la propria volontà.

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IV CORSI E RICORSI DELLA FELICITÀ E DELL’INFELICITÀ UMANA

Orecchie pie non saprebbero tollerare un discorso come questo: che, superata questa vita con tutte le sue numerose e gravi sventure, e pur ammesso che si possa definire vita questa morte piuttosto, morte così greve che per amore di questa morte temiamo la morte che ce ne libera; espiati e conclusi finalmente mali tanto gravi e numerosi e orridi, mediante la vera religione e sapienza, si giunge alla visione di Dio e si ottiene la felicità grazie alla contemplazione della luce incorporea mediante la partecipazione alla sua immutabile immortalità, ottenendo l’oggetto di un amore ardente; però un giorno si deve abbandonare questa luce e dopo abbandonata precipitare da quell’eternità, da quella verità, da quella felicità nella mortalità tartarea, impigliarsi ancora in una stupidità ignominiosa e in detestabili miserie; Dio è perso, la verità è in odio, la felicità ricercata mediante delitti immondi; e tutto ciò è avvenuto e avverrà sempre nello stesso modo, senza una fine né un prima né un poi, a determinati intervalli e spazi di ere. E il tutto affinché, nel passaggio e nel ritorno ininterrotto di questi cicli definiti, attraverso nostre false felicità e vere miserie, alterne ma sempiterne nel loro giro incessante, Dio possa conoscere le sue opere, poiché a Dio non è possibile né desistere dalla sua creazione né investigare con la sua scienza l’infinito! Chi starebbe ad ascoltare tali discorsi, chi vi presterebbe fede, chi li sopporterebbe? Se anche fossero veri, sarebbe più saggio tacere, anzi, per esprimere come meglio posso cosa intendo dire, sarebbe un saper di più l’ignorarli. Infatti, se il motivo della nostra felicità nell’altra vita sarà l’oblio di questi fatti, perché aggravare ulteriormente la nostra miseria in questa? Se invece là li conosceremo

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necessariamente, cerchiamo di ignorarli almeno qui, affinché sia qui più felice l’attesa che non là il conseguimento del bene supremo, dal momento che ciò che si attende qui è il raggiungimento di una vita eterna, mentre là si scopre che questa vita è felice ma non eterna, poiché ad un certo momento bisogna perderla. Se invece affermano che nessuno può giungere a quella felicità senza essere stato istruito in questa vita e aver conosciuto questi cicli, nei quali si alternano felicità e miseria, come possono sostenere che quanto più si ama Dio, tanto più facilmente si giunge alla felicità, mentre la loro dottrina sopisce questo amore? Chiunque sentirebbe cedere e intiepidirsi il proprio amore verso qualcuno che pensa di dover necessariamente abbandonare e dalla cui verità e sapienza dovrà dissentire, e ciò dopo averne raggiunto la conoscenza più piena consentita alla propria capacità, nella perfezione della felicità. Nemmeno un uomo a noi amico si può amare lealmente se si sa che ne diverremo nemici. Guai se fossero vere queste minacce di una durata infinita per la nostra vera miseria, solo interrotta spesso e infinitamente da intervalli di falsa felicità! Che più falso e ingannevole di una felicità dove ignoriamo, fra tanta luce di verità, la nostra infelicità futura, o la temiamo anche nel più munito vertice della beatitudine? Se saremo ignari, allora, della sventura che ci attende, la nostra miseria quaggiù è più sapiente, poiché sappiamo che la felicità ci attende; mentre se non ci sarà ignoto il disastro imminente, trascorrono più felicemente per l’anima questi tempi di miseria, passati i quali essa viene elevata alla felicità, che non quei tempi di felicità, passati i quali viene nuovamente sprofondata nella miseria. Così l’attesa della nostra infelicità è felice, e quella della felicità infelice; per cui, avendo quaggiù da patire mali presenti e là da temere mali incombenti, è più vero che saremo sempre infelici, che non qualche volta felici. Ma tutto ciò è falso. Lo proclama la religione, lo dimostra la verità. Noi abbiamo la promessa veritiera di una vera felicità, sicura e certa, conservata per sempre e mai interrotta da nessuna infelicità. Seguiamo la retta via, che è Cristo per noi; da Lui guidati e salvati, volgiamo il cammino della nostra fede e la nostra mente lontano dai vuoti e inconsistenti cerchi di quegli empi. Lo stesso Porfirio, il plato-

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nico, si rifiutò di seguire l’opinione dei suoi compagni e il sistema dei cicli in cui si alterna un incessante andirivieni. Disturbato dall’assurdità di tutto quel sistema, o rispettoso ormai dell’èra cristiana, preferì sostenere, come ho ricordato nel decimo libro, che l’anima è inviata nel mondo affinché conosca il male; e al suo ritorno al Padre liberata e purificata, non ne sia più soggetta. Quanto più dobbiamo detestare e scansare noi questa menzogna contraria alla fede cristiana! Svuotati e vanificati questi cicli, nulla ci costringe a pensare di necessità che la razza umana non ebbe nel tempo un principio in quanto per quei cicli, che non so cosa siano, nessuna circostanza è nuova ma o si è già verificata prima o si verificherà poi a determinati intervalli di tempo. Infatti, se l’anima viene liberata, per non ricadere più nella miseria, come non era mai stata liberata prima, accade in lei qualcosa mai accaduto prima, e una cosa non da poco, una felicità in eterno senza fine. E se accade in una natura immortale novità così grande, non ripetuta né ripetibile in cicli di tempo, come insistere che altrettanto non può accadere nelle cose mortali? Dicono che nell’anima la felicità non è un evento nuovo, poiché essa torna semplicemente nello stato felice di cui da sempre godeva; ma la liberazione almeno è una novità, poiché l’anima si libera dalla miseria che non fu mai il suo stato, ed anche la miseria che in lei si produsse è una novità, che non fu mai il suo stato. E se questa novità non sopravviene nel flusso ordinato delle cose, a cui presiede la Provvidenza divina, ma avviene piuttosto per caso, che ne è di quei cicli fissati e misurati, dove nulla è nuovo ma si ripete esattamente quanto già accaduto? E se anche questa novità non è esclusa dall’ordine provvidenziale, sia nel caso che l’anima venga immessa in questa vicenda, sia che vi cada per sua colpa, possono dunque avvenire dei fatti nuovi, non avvenuti prima, né estranei all’ordine delle cose. E se l’anima poté procurarsi con la propria insipienza una nuova miseria non imprevista dalla Provvidenza divina, tanto che include anch’essa nell’ordine delle cose e provvidamente ne libera l’anima, che temerità è la nostra, per cui, vani mortali, osiamo negare alla divinità il potere di creare cose nuove (nuove non per sé, ma per il mondo), mai prima da essa create eppure mai per essa impreviste?

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Forse diranno che sì, le anime sono liberate e non torneranno nella loro miseria; ma questo fatto non è un fatto nuovo, poiché sempre, in continuazione le anime sono state, sono e saranno liberate. Però, così, ammettono almeno questo, che vengono create nuove anime, a cui tocca una nuova miseria e una nuova liberazione. Dire che sono anime di tempi remoti addietro ed eterne quelle da cui si formano quotidianamente nuovi uomini e che si liberano dei loro corpi mediante una vita di saggezza, per non ricadere mai più nella miseria, equivale a dire che le anime sono infinite. Infatti anche il più grande numero finito di anime non basterebbe a garantire per gli infiniti secoli addietro l’avvento di sempre nuovi uomini, se le loro anime sono destinate alla liberazione da questa mortalità senza poi farvi mai più ritorno. In nessun modo potranno mai spiegare in che modo il numero delle anime sia infinito fra cose secondo loro finite, affinché Dio possa conoscerle. Così, ecco sgombrata la scena da questi loro cicli, per i quali si pensava ad un ritorno inevitabile dell’anima sempre alle stesse miserie. Null’altro rimane di più conveniente alla vera religiosità, che credere non impossibile a Dio sia la creazione di cose nuove mai prima create, sia mantenere immutata la sua volontà grazie alla sua inconcepibile prescienza. Come il numero delle anime liberate e destinate a non tornare mai più nella loro miseria possa continuamente crescere, a questo pensino coloro che discettano con tanta sottigliezza sul limite da porre all’infinità delle cose. Noi porremo termine al nostro ragionamento con un dilemma: se quel numero può crescere, perché negare la possibilità che si crei qualche cosa mai creata prima, visto che il numero delle anime liberate, prima inesistente, non fu costituito una volta ma continuerà ad esserlo? Se invece deve esservi un numero fisso di anime liberate, che mai torneranno alla loro miseria, né questo numero cresce ulteriormente, anche così, qualunque sia il numero, prima non esistette certamente mai; non sarebbe potuto, è chiaro, crescere e giungere alla sua dimensione finale senza aver avuto qualche inizio, inizio che, nello stesso modo, prima non esisteva affatto. Per far dunque che ci fosse questo inizio, fu creato un uomo, prima del quale non esistevano uomini.

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V I MALI DELLA VITA E DELLA SOCIETÀ UMANA

Se si chiedesse a noi quale sia la risposta della Città di Dio quando è interrogata su ognuno di questi punti, ed anzitutto quale sia la sua opinione sul bene e sul male supremo, essa risponderebbe così: il bene supremo è la vita eterna, e il male supremo la morte eterna; e per ottenere la prima ed evitare la seconda dobbiamo vivere rettamente. Perciò sta scritto: Il giusto vive di fede. Infatti non vediamo ancora il nostro bene, per cui dobbiamo cercarlo credendo; e nemmeno il condurre una vita retta ci viene da noi stessi, se non soccorre la nostra fede e le nostre preghiere Colui che ci diede la fede stessa che ci fa credere nella necessità del suo soccorso. Ma coloro che pensarono di trovare il bene e il male supremo in questa vita, facendo risiedere il bene supremo nel corpo o nell’anima o in entrambi, per spiegarmi più chiaramente: nel piacere o nella virtù o in entrambi, nella quiete o nella virtù o in entrambe, nell’unione del piacere e della quiete o nella virtù o in entrambe, nei beni naturali primordiali o nella virtù o in entrambi, in ogni caso cercarono la felicità quaggiù e pensarono di potersela procurare da se stessi. Strana follia! La Verità li schernì con le parole del profeta: Il Signore conosce i pensieri degli uomini; ovvero, come citò questo testo l’apostolo Paolo: Il Signore conosce che i pensieri dei sapienti sono vuoti. Chi sarebbe capace di dipanare anche con la più torrenziale eloquenza le miserie della vita umana? Cicerone ne ha fatto il lamento nella Consolazione per la morte della figlia, per quanto gli riuscì; ma quanto vi riuscì? Quelli che chiamiamo i beni naturali primordiali, quando, dove, come possono in questa vita essere così saldi, da non oscillare nel flusso incerto della sorte? Vi è qualche dolore, l’oppo-

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sto del piacere, qualche molestia, l’opposto della quiete, che non possa penetrare nell’involucro del saggio? L’amputazione o l’infermità delle membra priva l’uomo della sua integrità, la deformità lo priva della sua bellezza, la malattia della sua salute, la stanchezza delle sue forze, il languore o l’indolenza la sua mobilità; e quali di questi mali non può invadere la carne del saggio? Anche la stabilità e i movimenti del corpo, quando sono eleganti e armoniosi, vengono annoverati fra i doni primari della natura; ma, e se qualche malattia rende tremolanti gli arti? Se la spina dorsale si curva al punto di far giungere le mani a terra e di trasformare l’uomo in qualcosa di simile a un quadrupede? Non ne sarà sconvolta tutta la bellezza e la grazia di un corpo, immobile o in movimento? E gli stessi beni della mente, a cui viene dato il nome di ‘primigeni’? Quei due stessi che vengono collocati al di sopra di tutti poiché procurano la comprensione e la percezione della verità, ossia sensazione e intelligenza? Quale forma e quale capacità di sensazione rimane, se, per non dir altro, si diviene sordi e ciechi? A loro volta, la ragione e l’intelletto dove si ritirano, dove svaniscono se una malattia provoca una pazzia? Quando la follia fa dire e compiere assurdità spesso remote dalle buone intenzioni e dal carattere di un uomo, anzi contrarie alle sue buone intenzioni e al suo carattere; per cui al pensarvi e al vederle con i nostri occhi stentiamo e a volte non riusciamo a trattenere le lacrime? Che dire poi delle vittime degli assalti dei demoni? Dove si è ritirata o è sprofondata la loro intelligenza quando lo spirito maligno abusa della loro anima e del loro corpo a suo piacimento? E si può essere sicuri che ciò non possa accadere durante questa vita a un saggio? Infine, di quale forma e di quale misura può essere la percezione della verità mentre si è immersi nella carne, dove, secondo le parole che leggiamo nel libro veritiero della Sapienza, il corpo corruttibile grava sull’anima, e l’abitazione terrena opprime la mente e i suoi molti pensieri? Lo stesso impulso o trasporto per l’azione, se è giusto rendere così alla latina quella che i Greci chiamano hormé, e che viene assegnata essa pure ai beni naturali primordiali, non fa anche compiere agli insani i movimenti e le azioni che ci inorridiscono, quando la percezione è stravolta e la ragione assopita?

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E ancora, la virtù stessa, che non figura fra i doni primari della natura, poiché vi si aggiunge quando la introduce l’insegnamento, essa rivendica per sé, il primato su tutti i beni umani, ma che altro fa quaggiù, se non condurre una guerra continua con i vizi, non esterni ma interiori, non altrui ma chiaramente nostri e intimi? Ciò avviene soprattutto per la virtù che i Greci chiamano sophrosy@ne, i Latini temperantia, e che è il freno posto alle brame carnali per impedire che trascinino la mente, col suo consenso, in ogni specie di vergogna. Il vizio è sempre presente, poiché, come dice l’Apostolo, la carne contrasta con i suoi desideri lo spirito; ma al vizio si oppone la virtù, poiché, dice ancora l’Apostolo, lo spirito contrasta la carne. Infatti continua, i due si contrastano a vicenda, cosicché non ottenete ciò che vorreste. E cosa vorremmo, quando vogliamo ottenere la perfezione finale del bene supremo, se non la scomparsa del contrasto dei desideri della carne verso lo spirito e del vizio dentro di noi col quale sono in contrasto i desideri dello spirito? Questo bene, per quanto lo desideriamo, non siamo capaci di ottenerlo durante questa vita; ma almeno, con l’aiuto di Dio, otteniamo di non cedere, lasciando sconfiggere lo spirito, ai desideri della carne contrari a quelli dello spirito, e di non essere trascinati consenzienti a commettere il peccato. Guai se credessimo di aver già raggiunto la felicità, mentre ancora ci troviamo nel mezzo di questa guerra intestina. E chi si trova ad un grado di saggezza tale, da non avere assolutamente nessun conflitto da combattere contro le passioni? E la virtù cui viene dato il nome di prudenza? Non usa tutta la sua accortezza per distinguere i beni dai mali e impedire così che nella ricerca dei primi e nel nostro sforzo di evitare s’insinui l’errore? E con questo non prova essa stessa che siamo dentro ai mali e il male è dentro di noi? Infatti ci insegna esser male l’acconsentire alla passione che ci fa peccare. Ma per quanto la prudenza c’insegni a non acconsentire al male, e la temperanza faccia sì che non vi acconsentiamo, tuttavia né la prudenza né la temperanza lo eliminano da questa vita. E la giustizia? Non ha il compito di attribuire a ciascuno il suo, per cui nell’uomo stesso si crea, per così dire, un giusto ordine na-

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turale, ove l’anima è subordinata a Dio, la carne all’anima, e quindi anima e carne a Dio? E con ciò non dimostra di essere ancora impegnata a compiere quest’opera anziché riposare per averla ormai compiuta? L’anima, non v’è dubbio, è tanto meno subordinata a Dio quanto meno Dio sta nei suoi pensieri; e la carne è tanto meno subordinata all’anima quanto più i suoi desideri si oppongono allo spirito. Perciò finché esiste in noi questa debolezza, questa infezione, questa malattia, come ci arrischieremo a dirci ormai salvi o, se non ancora salvi, ormai beatificati dalla beatitudine definitiva? E la virtù che ha nome fortezza, anche unita alla più grande saggezza, è la prova più evidente dei mali umani, essendo costretta a sopportarli con paziente resistenza. Quando i filosofi stoici sostengono che questi mali non lo sono affatto, mi stupisco della loro impudenza. Essi non riconoscono che qualora il saggio non possa o non debba tollerarli per la loro enormità, ha l’obbligo di darsi la morte e di migrare da questa vita? È talmente stordito l’orgoglio di queste persone, convinte di avere in questa vita il bene supremo e di raggiungere da se soli la felicità, che il loro ‘saggio’, ossia il saggio tratteggiato dalla loro stupefacente idiozia, per quanto diventi cieco, sordo, muto, sfibrato nelle membra, tormentato dai dolori e assalito da quanti altri mali simili si riesca a enumerare o immaginare, per cui dovrebbe darsi la morte, ebbene, una vita immersa in questi mali non si vergogna di definirla felice. Felice davvero una vita che per finire chiede soccorso alla morte! Se felice, perché non rimanervi? E come non sarebbero mali questi, che sopraffanno il bene della fortezza e la costringono non solo a cedere, ma addirittura a sragionare, definendo felice quella vita, e insieme convincendo l’uomo del dovere di abbandonarla? Chi sarebbe così cieco da non vedere che, se fosse felice, non si dovrebbe abbandonarla? Ma essi ammettono che così va fatto con la loro aperta ammissione della sua debolezza. Perché dunque non ammettere anche, piegando la cervice orgogliosa, che è una vita infelice? Il famoso Catone, vi chiedo, si uccise per troppa o troppo poca resistenza? Non avrebbe compiuto quel gesto se non fosse stato incapace di tollerare la vittoria di Cesare. E dove finì la sua fortezza? Evidentemente

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fiaccata, evidentemente battuta, evidentemente sopraffatta al punto d’abbandonare, disertare, fuggire da una vita felice. O non era più felice? Dunque, miserabile. E come non erano mali quelli che rendevano la vita miserabile, degna di essere disertata? Per cui anche i discorsi di quei filosofi, i quali ammettono che questi sono mali, come ad esempio i peripatetici e gli accademici antichi, difesi da Varrone, sono più tollerabili. Però commettono anch’essi uno strano errore. Sono mali, e gravi, al punto che chi li soffre può ben sottrarsi ad essi col suicidio; eppure la vita è felice, sostengono. I tormenti e le afflizioni fisiche, dice Varrone, sono mali, e mali tanto peggiori quanto più gravi; per esserne esenti, si deve fuggire da questa vita. Quale vita, chiedo. Questa, risponde, gravata di tanti mali. Dunque questa vita è davvero felice, in mezzo a quegli stessi mali che ti fanno dire che si deve fuggire? Oppure la dici felice proprio perché ti è concesso di ritirarti da questi mali mediante la morte? Ma, e se un giudizio divino ti costringesse a restarvi e non ti fosse permesso di morire né concesso di vivere senza questi mali? Almeno allora definiresti certamente infelice una simile vita. Dunque non è infelice perché si può abbandonarla rapidamente; se fosse eterna, anche tu la giudicheresti infelice; quindi non la si deve considerare un’infelicità perché è breve; o, che è ancora più assurdo, poiché è un’infelicità breve, la si deve definire addirittura una felicità. Dev’esservi una grande forza in quei mali, per costringere un uomo, per di più saggio secondo quegli stessi filosofi, a privarsi del suo esser uomo, poiché dicono, e a ragione, che il primo e più alto proclama, se così possiamo chiamarlo, della natura, è che un uomo cerchi l’accordo con se stesso e perciò fugga d’istinto la morte; che sia amico di se stesso, desideri ardentemente e cerchi di sussistere come un essere animato e di vivere in questo nesso di corpo e di anima. Dev’esserci una grande forza in quei mali per sopraffare il sentimento naturale per cui in tutti i modi, con tutte le forze tentiamo di evitare la morte; sopraffarlo al punto che si desidera e cerca ciò che prima si evitava; e se non riesce a ottenerlo diversamente, l’uomo lo infligge a se stesso. Dev’esservi una grande forza in quei mali, che fanno della Fortezza un’omicida; se pur si può ancora chia-

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marla Fortezza, sopraffatta com’è da questi mali al punto di non riuscire a proteggere con la sua resistenza l’uomo affidato a lei, in quanto virtù, da reggere e da custodire; non solo, ma al punto di vedersi costretta addirittura a ucciderlo proprio lei. Certo il saggio deve sopportare con fermezza la morte, ma una morte che non gli viene da lui; mentre se, come pensano questi filosofi, è costretto a infliggersi la morte da se stesso, devono senza dubbio ammettere che questi non sono solo mali, ma anche mali intollerabili, che lo costringono a compiere questo atto. Una vita, dunque, oppressa dal peso o soggetta all’eventualità di mali così grandi e gravi, non verrebbe affatto definita felice se gli uomini che l’affermano, come si lasciano dominare dal peso dei mali e cedono all’infelicità quando si danno la morte, così si lasciassero dominare dalla certezza del ragionamento e nella ricerca di una vita felice accettassero di arrendersi alla verità e smettessero di pensare che il bene supremo e definitivo dev’essere goduto da loro in questa vita mortale. Le virtù stesse, certamente ciò che di meglio e di più utile si trovi quaggiù nell’uomo, se sono aiuti così potenti contro gli assalti dei pericoli, dei travagli, delle sofferenze, sono testimoni altrettanto fedeli delle nostre miserie. Le virtù, quando sono vere – e tali possono essere soltanto in chi nutre una pietà vera, – si dichiarano incapaci di evitare l’infelicità agli uomini che le possiedono: le vere virtù non sono menzognere, per cui possiamo dichiarare il contrario. Proclamano però che la vita umana, costretta all’infelicità dai molti e grandi mali del mondo presente, è resa felice dalla speranza del mondo futuro, e per essa anche salva. Come infatti sarebbe felice, senza essere ancora salva? Perciò anche l’apostolo Paolo dice degli uomini, non stolti e insofferenti, non intemperanti e ingiusti ma ispirati nella loro vita alla vera pietà e quindi dotati di virtù vere. Dalla speranza infatti siamo fatti salvi. Ma la speranza che si vede non è speranza, poiché ciò che uno vede come anche lo spera? Se invece speriamo ciò che non vediamo, aspettiamo pazientemente. Come dunque siamo fatti salvi dalla speranza, così dalla speranza siamo fatti felici; e come la salvezza, così la felicità non la possediamo già nel presente ma l’aspettiamo nel futuro; l’aspettiamo pa-

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zientemente perché siamo immersi nei mali, e dobbiamo sopportarli pazientemente finché raggiungeremo i beni tra cui vi sarà in modo indicibile ogni nostro diletto e più nessun peso da sopportare. Tale la salvezza che si attuerà nel tempo futuro; essa sarà pure la nostra felicità definitiva. Ad essa questi filosofi si rifiutano di credere poiché non la vedono; perciò si sforzano di costruirsi una felicità assolutamente illusoria, per mezzo di una virtù non meno bugiarda che superba.

Ma nella prova di questa condizione mortale quanti e quanto gravi non sono i mali che si riversano sulla società umana? Innumerevoli, inestimabili. Ascoltino questi filosofi cosa dice un uomo in una loro commedia, esprimendo un sentimento condiviso da tutti i suoi simili: «Presi moglie, e quanto divenni infelice! Nacquero figli, altri affanni!». E quelli che lo stesso Terenzio cita come i guai dell’amore: «ingiurie e sospetti, inimicizie e guerre, da capo la pace», non si estendono all’intera vita umana? Non entrano spesso anche nel nobile affetto degli amici? Non pervadono tutte le attività dell’uomo, dove «ingiurie e sospetti, inimicizie e guerre» sono percepibili, e mali sicuri, mentre la pace è un bene incerto, poiché il cuore di coloro con i quali vorremmo stabilirla ci è sconosciuto, e se anche potessimo conoscerlo oggi, ignoriamo comunque quale sarà domani? Chi di solito è, o dovrebbe essere più cordialmente amico di coloro che vivono fra le medesime pareti? E invece anche lì nessuno è sicuro; spesso dalle trame occulte dei familiari stessi si svilupparono mali tanto più amari, quanto più dolce era la pace che si considerava genuina, mentre era una finzione perfida. Non per nulla ci toccano tutti nell’intimo e ci strappano un gemito le parole di Cicerone: «Non vi è tradimento più insidioso di quelli nascosti sotto la finzione del dovere o il titolo di un legame di parentela. L’avversario aperto è facilmente evitabile, con la diffidenza; invece questo male occulto, interno a una famiglia, non solo si sviluppa ma anche ti annienta prima che tu possa prevederlo e scrutarlo». Perciò anche il detto divino: I nemici di un uomo sono i suoi familiari, quando risuo-

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na alle nostre orecchie ci stringe il cuore. Si può essere abbastanza forti per sostenere senza turbamento, o abbastanza vigili per parare con accortezza le trame di una finta amicizia; ma non si può, se si è buoni, non provare uno strazio profondo per la cattiveria dei perfidi, quando si scopre quanto sono malvagi, di una malvagità antica mentre si fingevano buoni, ovvero trasformati in malvagi da buoni che erano. Se dunque non è sicura una casa, il rifugio comune fra i mali che colpiscono il genere umano, che dire di una città? Quanto più è grande, tanto più il suo foro trabocca di liti civili e processi criminali anche quando sono sopite le sedizioni e le guerre civili, torbide e molto spesso anche sanguinose. Se le città sono talvolta immuni da queste vicende, non lo sono però mai dal loro rischio.

Dopo la città o agglomerato urbano segue il mondo intero, in cui i filosofi pongono il terzo livello della società umana: partendo dalla casa, passano alla città e di lì procedono fino al mondo. E il mondo, ovviamente, come gli ammassi d’acqua, quanto più è grande tanto più è pieno di pericoli. Lì anzitutto la diversità delle lingue estrania gli uomini l’uno dall’altro. Se due uomini s’incontrano e anziché proseguire sono costretti da qualche necessità a rimanere insieme, senza che l’uno conosca la lingua dell’altro, più facilmente si associano insieme due animali muti, anche di specie diversa, che non quei due, pur entrambi uomini. Nell’impossibilità di comunicarsi l’un l’altro i propri pensieri, a poco serve per stabilire un contatto umano l’uguaglianza naturale, di fronte a quell’unica differenza del linguaggio; tant’è che un uomo preferisce la compagnia del suo cane che di un uomo forestiero. Si obietterà che non mancarono gli sforzi perché la città imperiale imponesse alle nazioni vinte non solo il suo giogo, ma anche la sua lingua come un legame pacifico, non facendo mancare, anzi sovrabbondare gli interpreti. È vero; ma questo risultato quante guerre non richiese, e grandi, quali stragi di uomini, quale spargimento di sangue umano? Se queste guerre sono passate, non è finita tuttavia la miseria prodotta da tanto male. Non sono mai mancati né mancano i nemici fra le nazioni straniere, contro cui si è sempre combattuto e

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si combatte; ma anche l’estensione stessa dell’impero genera guerre di una specie ancora peggiore, quelle sociali e civili. Esse sono per il genere umano uno sconquasso anche peggiore, sia mentre si combattono con la speranza di farle cessare, sia quando si teme che ricomincino a divampare. La quantità e la varietà delle catastrofi, la durezza e l’asprezza delle circostanze, se si volesse esporle adeguatamente – ma non si potrebbe mai rispondere alle esigenze dell’argomento – impedirebbero di contenere in qualche misura il discorso. Ma il saggio, mi obietteranno, combatterà le guerre giuste. Non dovrebbe piuttosto soffrire, al ricordo di essere un uomo, della necessità in cui si trova di fare guerre giuste? Se non fossero giuste non dovrebbe condurle, e quindi il saggio non dovrebbe condurre nessuna guerra. Infatti impone al saggio di condurre una guerra giusta l’ingiustizia dell’avversario, e questa dovrebbe in ogni caso procurare dolore a un uomo poiché è ingiustizia di uomini, anche se non ne derivasse nessuna necessità di combattere. Questi mali sono così grandi, così orrendi, così crudeli, che chiunque vi rifletta soffrendo, deve riconoscerne la miseria; chiunque poi li patisce o li considera senza soffrirne dentro di sé, è ben più misero nel considerarsi felice, poiché ha perso ogni sentimento umano.

Se anche siamo esenti da un’ignoranza affine alla demenza, che pure ricorre spesso nella misera condizione di questa vita; e se quindi non crediamo amico chi ci è nemico o nemico chi ci è amico, quale altra consolazione abbiamo in questa società umana stracolma di errori e di affanni, se non una fede non finta e il reciproco affetto di amici veri e buoni? Ma quanti più ne abbiamo, e sparsi in molti luoghi, tanto più si dilata il nostro timore che li colga qualcuno dei tanti mali addensati in questo mondo. Non solo siamo nell’ansia che abbiamo a soffrire per la fame, le guerre, le malattie, la prigionia o la stessa schiavitù col suo seguito di sventure addirittura inimmaginabili; ma ci prende anche il timore molto più amaro che la loro amicizia si trasformi in inganno, malizia, viltà. E quando questo accade (tanto più spesso, evidentemente, quanto più gli amici

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sono numerosi), l’averne notizia è una frustata bruciante per il nostro cuore, quale conosce solo chi la prova. Preferiremmo udire che sono morti, sebbene non potremmo udire anche questo senza soffrire. La loro vita ci rallegrava con le consolazioni dell’amicizia: e come potrebbe la loro morte non procurarci nessuna mestizia? Ci si provi a bandirla: ma si dovrebbero bandire, se si riesce, anche le conversazioni amicali, interdire o interrompere l’affetto amicale, spezzare con brutale insensibilità i legami di tutti i rapporti umani, oppure stabilire che bisogna usarne senza che la loro dolcezza pervada il nostro cuore. Se ciò non è assolutamente possibile, come potrebbe avvenire che non sia amara la morte di un uomo di cui era dolce la vita? Perciò il lutto è per un cuore non disumano una specie di ferita o di piaga, che richiede l’impiego della consolazione per guarire. Infatti non è vero che non vi sia nulla da guarire perché quanto più il cuore è nobile tanto più è rapida e facile la cura. Dunque la vita dei mortali è afflitta, più lievemente o più aspramente, anche dalla morte di chi ci è più caro, soprattutto di chi è necessario per le sue funzioni alla società umana; eppure preferiremmo sapere o vedere morti coloro che amiamo, anziché caduti nell’incredulità o nell’immoralità, ossia morti nell’anima stessa. La terra è invasa dalla massa immensa di questi mali, e perciò sta scritto: Non è forse una prova la vita umana sulla terra? E il Signore stesso disse: Guai al mondo per questi inciampi! e ancora: Per il traboccare dell’iniquità la carità di molti si raffredderà. Perciò quando muore qualche amico che era buono ci felicitiamo e, sebbene la loro morte ci rattristi, essa stessa ci dà una consolazione più sicura poiché sono sfuggiti ai mali che in questa vita opprimono anche gli uomini buoni o li corrompono o li espongono a entrambi i rischi.

La società degli angeli santi, collocata ad un quarto livello dai filosofi che sostengono l’amicizia degli dèi per noi, arrivando, per così dire, all’universo dalla terra e in qualche modo comprendendo così anche il cielo, è tale da non farci affatto temere da tali amici di dover piangere né per la morte né per il loro pervertimento. Ma gli angeli non si mescolano con noi familiarmente come gli uomini (ed

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anche questa è di per sé un’angustia della nostra vita); inoltre Satana, come leggiamo nelle Scritture, talvolta si trasfigura in angelo di luce per tentare quegli uomini che hanno bisogno di essere istruiti o ai quali è necessario l’ammaestramento, ed è giusto il raggiro. Occorre quindi la grande misericordia di Dio per non supporre di avere come amici gli angeli buoni, mentre si ha per finti amici i demoni cattivi; per non subire la loro inimicizia, tanto più funesta quanto più sono astuti e falsi. E chi ha più bisogno di questa grande misericordia divina, che la grande miseria umana? Tanta ignoranza l’opprime, che facilmente viene illusa dall’impostura di questi spiriti. Proprio questi filosofi, che dissero di avere gli dèi per amici, è certissimo che nell’empia città incapparono nei demoni maligni, i quali di quella città sono i dominatori, e con i quali essa condividerà il supplizio eterno. Con i loro riti sacri o piuttosto sacrileghi, con cui ritennero di doverli venerare; con gli spettacoli immondi, con cui esaltarono i loro crimini ritenendo di poter ammansirli così, sollecitati e costretti a tali immani vergogne da quegli spiriti stessi, rivelano ben chiaro chi è l’oggetto del loro culto.

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VI MISERIE DEI CATTIVI E DEI BUONI

Quanto alla prima origine, la dannazione dell’intera discendenza dei mortali è provata da questa nostra stessa vita, se si può chiamare vita, tanti e tanto gravi sono i mali di cui trabocca. Di che altro è indizio l’orrido abisso dell’ignoranza, da cui deriva ogni errore che, per così dire, ha inghiottito nel suo grembo tenebroso tutti i figli di Adamo, e da cui l’uomo non può liberarsi senza fatica, pena e paura? E così l’amore stesso per tante cose vane e nocive, da cui derivano affanni acri, turbamenti, afflizioni, timori, godimenti insani, discordie, liti, guerre, tradimenti, collere, inimicizie, e l’inganno, l’adulazione, la frode, il furto, la rapina, la perfidia, l’orgoglio, l’ambizione, l’invidia, gli omicidi, i parricidi, la crudeltà, l’atrocità, l’abiezione, la lussuria, l’insolenza, l’impudenza, l’impudicizia, le fornicazioni, gli adulteri, gli incesti e tante immonde depravazioni dell’uno come dell’altro sesso, che è vergognoso persino nominare, i sacrilegi, le scissioni, gli spergiuri, le angherie, le calunnie, i raggiri, i soprusi, le false testimonianze, i giudizi iniqui, le violenze, i furti e tanti altri mali che non vengono alla mente e tuttavia non abbandonano mai questa vita umana. Questa è la realtà dell’uomo cattivo, proveniente da quella radice di errore e di amore perverso che è connaturata con ogni figlio di Adamo. Chi ignora quanto sia grande l’ignoranza della verità, già manifesta negli infanti, e quanti i vani desideri, evidenti inizialmente nei fanciulli, con cui l’uomo entra in questa vita? Cosicché, se gli fosse permesso di vivere come vuole e di fare ciò che vuole, l’uomo cadrebbe in tutti o almeno in molti dei delitti e dei peccati che non ho potuto citare. Ma la guida divina non abbandona del tutto l’uomo alla sua condanna; Dio non reprime nella sua ira la sua misericordia. Così i

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suoi divieti e le sue istruzioni vigilano nei sensi umani contro questi tenebrori connaturati con noi e contrastano con questi impulsi, pur essendo anch’essi fonte di fatiche e di pene. A che altro tendono le varie forme d’intimidazione che s’impiegano per reprimere i capricci dei bambini? E i pedagoghi, i maestri, le bacchette, le sferze, le verghe, e quella coercizione che secondo la Santa Scrittura deve colpire i fianchi di un figlio amato affinché non cresca ribelle, e quando non sia più docile si fatichi e forse non si riesca nemmeno più a domarlo? Cosa si cerca di ottenere con tutte queste punizioni, se non di sgominare l’ignoranza e di frenare il desiderio depravato, mali con cui entriamo in questo mondo? Come mai, infatti, si richiede uno sforzo per ricordare, nessuno per dimenticare? Uno sforzo per imparare, nessuno per ignorare? Uno sforzo per impegnarsi, nessuno per rimanere inoperosi? Non è chiaro da tutto questo a cosa tenda la nostra natura viziata, trascinata quasi da un peso verso il basso, e quanto aiuto le occorra per uscirne? Inerzia e indolenza, pigrizia e negligenza sono appunto i vizi per cui si evita la fatica, poiché la fatica, anche quando è utile, è di per se stessa un castigo. Ma oltre alle punizioni infantili, senza cui non si riesce a imparare ciò che gli adulti vogliono che s’impari (anche se ciò che vogliono raramente è utile), quante non sono, e gravi le pene da cui è agitato il genere umano! E nemmeno inerenti alla malvagità e all’abiezione dei cattivi, ma ad una comune condizione di miseria. Chi saprebbe elencarle in un discorso o abbracciarle col pensiero? Quanta apprensione, quante sventure derivano dalla perdita dei parenti e dai lutti, da danni e condanne subite, dai raggiri e dagli inganni della gente, dai falsi sospetti, da tutte le violenze e i delitti altrui! Dagli altri si subiscono rapine e prigionie, catene e carceri, esili e torture, amputazioni di arti e menomazione degli organi dei sensi, violenze fisiche per la soddisfazione dei desideri osceni dell’oppressore, ed altri molti e frequenti orrori. E poi i timori per le incalcolabili sciagure che possono toccare al nostro corpo dall’esterno, arsure e geli, uragani, piogge e alluvioni, lampi e tuoni, grandine e fulmini, sussulti e fenditure del terreno, crolli di macerie, aggressioni di animali impauriti o anche cattivi, avvelenamenti dai frutti e dalle acque,

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dall’atmosfera e dalle bestie, morsi di belve, dolorosi soltanto o addirittura mortali, la rabbia provocata da un cane idrofobo: talvolta anche un animale mite e devoto al suo padrone provoca una paura più violenta e aspra dei leoni e dei serpenti, e chi per caso viene morsicato, per effetto di quel contagio rovinoso è preso da una tale furia, che i genitori, la moglie, i figli lo temono peggio di qualsiasi bestia. Quali sciagure non subiscono i naviganti, quali i viaggiatori in terra ferma! Chi cammina, non importa dove, senza essere esposto a incidenti imprevisti? Uno torna a casa dal foro saldo sui piedi, inciampa, rompe un piede e in seguito alla frattura perde la vita. Chi, si direbbe, è più sicuro di uno seduto? Il sacerdote Eli cadde dalla sedia su cui era seduto, e morì. Gli agricoltori, anzi l’umanità intera non teme ogni specie di calamità per i raccolti dei campi, dal cielo e dalla terra o da animali infestanti? Tuttavia i grani, una volta raccolti e riposti, sono finalmente sicuri, di solito; eppure conosco qualcuno a cui un ottimo raccolto di grano fu gettato fuori dai granai e disperso dall’improvvisa piena di un fiume, mentre tutta la gente era in fuga. Contro le mille forme di attacchi dei demoni, chi confida nella propria innocenza? Per togliere ogni fiducia, a volte anche i pargoli appena battezzati, culmine dell’innocenza, vengono afflitti dai demoni, cosicché, col permesso di Dio, si ha in loro la più chiara dimostrazione di come questa vita sia una calamità deplorevole, e l’altra una felicità desiderabile. Quanto al corpo in se stesso, le malattie che vi si producono sono tante, da non essere nemmeno tutte comprese nei libri di medicina; e per molte di esse, se non per tutte, gli interventi stessi per curarle costituiscono altrettanti tormenti, cosicché gli uomini vengono sottratti a una fine penosa con soccorsi penosi. L’arsura eccessiva non ha indotto uomini assetati a bere persino urina umana, e addirittura la propria? E la fame non li ha ridotti all’incapacità di astenersi dalle carni umane, a divorare, non trovando uomini morti, uomini uccisi con le proprie mani, e nemmeno ignoti stranieri, ma addirittura i figli, soppressi e divorati dalle madri con ferocia incredibile, provocata da una fame furibonda? Lo stesso sonno infine, a cui pure si dà il nome di quiete, spesso è reso inquieto oltre ogni dire dalla visione di sogni, pervaso da grandi terrori, sia pure per cose

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immaginarie ma presentate e riprodotte, si può dire, in modo tale, che non si riesce a distinguerle dalle vere e la nostra misera mente e i nostri sensi ne risultano sconvolti. Le false visioni agitano ancora peggio nella veglia, in certe malattie e intossicazioni. È così multiforme la varietà delle frodi impiegate dalla malizia dei demoni, che a volte ingannano anche uomini sani con allucinazioni forse incapaci di attrarli dalla loro parte, con cui però si burlano dei loro sensi per il solo piacere di far credere il falso con qualsiasi mezzo.

Da questa vita di miserie, quasi paragonabile all’inferno, nulla ci libera se non la grazia del Salvatore, Cristo Dio e Signore nostro: un nome, Salvatore, che è appunto il nome di Gesù, poiché Gesù si traduce con Salvatore; ce ne libera, soprattutto affinché dopo questa non ci tocchi nemmeno una vita eternamente più misera, ma la morte. Infatti questa nostra vita riceve grande sollievo e rimedio da strumenti e uomini santi, però anche questi benefici non sempre vengono accordati a chi li chiede, affinché non si ricorra per questo alla religione; ad essa bisogna piuttosto ricorrere per l’altra vita, in cui non vi sarà assolutamente alcun male. La grazia soccorre tutti i buoni in mezzo a questi mali affinché sappiano sopportarli con cuore tanto più forte, quanto più ricco di fede. A ciò serve anche la filosofia, sostengono i sapienti di questo mondo, la vera filosofia che, a detta di Cicerone, gli dèi hanno concesso solo a pochi; ed è, soggiunge, il dono più grande che gli dèi abbiano dato o avrebbero potuto dare. Come si vede, anche i nostri avversari furono costretti ad ammettere in qualche modo la necessità della grazia divina per ottenere non una filosofia qualsiasi, ma la filosofia vera. Per cui, se dal cielo fu concesso a pochi uomini come unico soccorso contro le miserie di questa vita la vera filosofia, anche di qui traspare assai chiaramente la condanna del genere umano al castigo di queste afflizioni. Essendo questo, come ammettono, il più grande dei doni divini, si deve credere che non può essere accordato se non da quel Dio che gli stessi adoratori di una pluralità di dèi dicono superiore a tutti gli altri.

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In aggiunta a queste afflizioni comuni alla vita dei buoni e dei cattivi, i giusti hanno tribolazioni riservate a loro soli, proprie della loro lotta contro i vizi e delle tentazioni e pericoli in cui si svolge questa loro battaglia. Talvolta più eccitata, talvolta più calma, tuttavia la carne non cessa mai di contrastare con i suoi desideri lo spirito, e lo spirito la carne; per cui non facciamo ciò che vogliamo, non eliminiamo ogni desiderio cattivo, ma senza cedere, per quanto ci riesce con l’aiuto divino, lo soggioghiamo. Dobbiamo vigilare in continuo allarme per non cadere nell’inganno di false opinioni, nei raggiri dei discorsi astuti, nelle fosche tenebre di qualche errore; per non credere male il bene e bene il male, per non ritrarci per paura dal nostro dovere né gettarci per passione a compiere ciò che non dobbiamo; per non lasciar tramontare il sole sopra la nostra collera, né lasciarci indurre dall’astio a restituire male per male; per non essere inghiottiti da una tristezza indecorosa e smodata, per non essere impigriti dall’insensibilità nel condividere i nostri beni né inceppati nella condotta retta dalle maldicenze; per non essere ingannati da temerari sospetti sugli altri né depressi da falsi sospetti degli altri su di noi; perché il peccato non regni nel nostro corpo mortale, piegandolo ai suoi desideri, né le nostre membra si offrano come strumenti di iniquità al peccato; perché il nostro occhio non assecondi il desiderio, non prevalga la brama di vendetta né lo sguardo o il pensiero si soffermino su un male delizioso, l’orecchio non si compiaccia di ascoltare discorsi disonesti e indecenti; per non compiere atti illeciti anche se piacevoli; perché in tutta questa guerra colma di travagli e di pericoli non contiamo sulle nostre forze per conseguire la vittoria, né alle nostre forze ne attribuiamo il conseguimento, bensì alla grazia di Colui di cui dice l’Apostolo: Grazie a Dio, che ci concede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; e altrove: Abbiamo trionfato di tutto questo per mezzo di Colui che ci ha amato. E soprattutto, siamo consapevoli che, per quanto sia grande il valore con cui resistiamo ai vizi nel combattimento o addirittura li vinciamo e li domiamo, fino a che dura la nostra esistenza in questo corpo abbiamo sempre motivo di dire a Dio: Rimetti a noi i nostri debiti. Ma in quel regno, nel quale vivremo per sempre con corpi immortali, non avremo più lotte né debiti; e mai, in nessun luogo, ne avremmo avuti, se la nostra natura

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si fosse mantenuta nella rettitudine in cui fu creata. Questo è il motivo per cui il nostro stesso conflitto, nel quale siamo in pericolo e da cui bramiamo di essere liberati con la vittoria finale, appartiene ai mali di questa vita. La testimonianza di tanti e tanto grandi mali prova che è una vita di condanna.

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VII VITA E MORTE

In realtà, da quando si comincia ad esistere in questo corpo votato alla morte, ogni atto in esso si compie affinché arrivi la morte. Questo è il prodotto del continuo mutare di questa vita, se ancora si può chiamare vita: l’arrivo alla morte. Nessuno, è chiaro, non si trova più vicino alla morte quest’anno rispetto all’altro anno, e domani più che oggi, e oggi più di ieri, e fra poco più di adesso, e adesso più di poco fa. Ogni attimo di vita è sottratto alla durata della vita e ogni giorno diminuisce sempre più il rimanente; per cui il tempo di questa vita non è che una carriera verso la morte, nella quale non è concesso a nessuno di fermarsi anche per un attimo o di rallentare un poco il passo; tutti sono incalzati allo stesso ritmo e una spinta uguale li avvicina alla meta. Chi ebbe una vita breve non passò i suoi giorni più in fretta di chi l’ebbe lunga; attimi di uguale dimensione fuggirono a entrambi con uguale rapidità, anche se all’uno fu più vicina, all’altro più lontana la meta verso cui entrambi correvano alla stessa celerità. Vi è differenza fra l’aver percorso più strada e l’aver camminato più adagio. Chi cammina più a lungo per raggiungere la morte non procede più adagio ma percorre più strada. Dunque si comincia a morire, ovvero a trovarsi nella morte dal momento in cui si attua proprio la morte, ossia la sottrazione della vita – poiché terminata di sottrazione in sottrazione la vita, si è ormai dopo e non nella morte; – e dunque è chiaro che da quando si comincia ad essere in questo corpo, ci si trova nella morte. Infatti cos’altro si attua ogni giorno, ogni ora, ogni attimo? E alla fine, alla piena consumazione della morte che si andava attuando, non comincerà ormai il tempo posteriore alla morte, mentre prima, durante la sottrazione della vita, era il tempo della morte?

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L’uomo dunque non è mai in vita, da quando comincia ad essere in questo corpo morente più che vivente; infatti non si può essere contemporaneamente in vita e in morte. O sì, è in vita e in morte contemporaneamente? Nella vita in cui vive finché gli sia completamente sottratta, e nella morte perché già muore mentre gli viene sottratta la vita? Se infatti non è in vita, cosa gli viene sottratto fino all’esaurimento completo? E se è non nella morte, cos’è questa sottrazione della vita? Non è sciocco dire che si è ormai superata la morte quando la vita è stata del tutto sottratta al corpo, poiché la sottrazione della vita era la morte. Se un uomo, dopo che gli è stata sottratta la vita, non si trova nella morte ma dopo la morte, quando era nella morte, se non mentre gli era sottratta la vita?

D’altra parte sembra assurdo dire che un uomo è già nella morte prima di essere arrivato alla morte: come infatti si avvicinerebbe alla morte col trascorrere della vita, se già vi fosse? Soprattutto sembra molto strano dire che si è nel medesimo tempo viventi e morenti quando non si può essere nel medesimo tempo nemmeno svegli e addormentati. Prima che la morte sopraggiunga, non c’è un morente, ma un vivente; sopraggiunta la morte, ci sarà un morto, non un morente. Prima si è ancora prima della morte, dopo si è già dopo la morte. E quando si sarà nella morte? Perché è allora che si è morenti: infatti ai tre momenti definiti come prima della morte, nella morte e dopo la morte, corrispondono rispettivamente i tre stati del vivente, del morente e del morto. Per cui è molto difficile definire quando uno è morente, ossia nella morte, non vivo come prima della morte né morto come dopo la morte, ma morente ossia durante la morte. Finché l’anima si trova nel corpo, soprattutto se permane anche la sensibilità, non vi è dubbio che l’uomo vive, nel suo composto di anima e di corpo; perciò si dovrà allora definirlo prima di morte, non nella morte; quando invece l’anima se ne sarà andata, togliendo ogni sensibilità al corpo, lo si dice ormai dopo la morte, e morto. Scompare così l’intervallo fra i due momenti, quando si è morenti, o nella morte, poiché se si vive ancora si è prima della morte, se si cessa di vivere si è già dopo la morte. Perciò non si può mai esser

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colti nell’atto di morire, ossia nella morte. Nello stesso modo si cerca nel trascorrere del tempo il presente, senza trovarlo, poiché non vi è un intervallo di transito dal futuro al passato. Non occorrerà molta attenzione per non affermare in base a questo ragionamento che la morte fisica non esiste? Se infatti esiste, quando esiste? Non può trovarsi in nessuno, e nessuno può trovarsi in lei. Se si è vivi, non esiste ancora poiché si è prima della morte, non nella morte; e se si è ormai cessato di vivere, la morte non esiste più, perché anche ora si è dopo la morte, non nella morte. Ancor di più: se non c’è morte né prima né dopo, perché si dice prima o dopo la morte? Anche queste sono parole vuote, se non c’è una morte. Oh, se conducendo una vita buona nel paradiso avessimo ottenuto che non vi fosse davvero una morte! Ora invece non solo c’è, ma è un’angoscia che nessun discorso ci può spiegare, come nessun ragionamento ci può evitare. Esprimiamoci dunque secondo l’uso comune, non potendo diversamente; diciamo ‘prima della morte’ per il tempo anteriore all’avvento della morte, come nella Scrittura: Non lodare nessuno prima della sua morte. E poi, dopo avvenuta la morte, diciamo: Dopo la morte di quel tale accadde la tal cosa. Anche per il tempo presente esprimiamoci come possiamo, dicendo ad esempio: Morendo, fece testamento; o: Morendo lasciò questo e quello a questi e a quelli; e ciò anche se non avrebbe potuto farlo assolutamente, e lo fece prima della morte anziché durante la morte. Esprimiamoci come si esprime anche la Scrittura divina, la quale non esita a parlare di morti non dopo ma durante la morte, per cui dice: Poiché non vi è nessuno che si ricordi di te in morte. Infatti, finché tornino alla vita, è giusto dire che gli uomini sono nella morte, come si dice che si è nel sonno finché non ci si sveglia: anche se chi giace nel sonno diciamo che è un dormente, ma non possiamo dire analogamente morenti coloro che sono già morti, in quanto non sta morendo chi è orami separato dal corpo (è della morte del corpo che stiamo parlando). Ma è proprio questo il punto, come dissi, inesprimibile con qualsiasi locuzione: come dire che i moribondi vivono e i già morti, pur dopo la loro morte, sono ancora nella morte? Come: ‘dopo la morte’, se ancora durante la morte? Tanto più che non li diciamo

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morenti come diciamo dormenti durante il sonno, languenti in un languore, e certamente dolenti in un dolore, e viventi per chi è in vita. Però morti, prima della resurrezione, coloro che sono nella morte, senza possibilità di dirli morenti. Credo sia per questo, anche se probabilmente non per ingegno dell’uomo ma per decreto divino, che non a sproposito né senza coerenza i grammatici si trovarono nell’impossibilità di coniugare in latino appunto il verbo morior nella forma regolare della coniugazione verbale. Da oritur si forma il passato ortus est, e così per gli altri verbi simili, che si coniugano col participio passato. Ma da moritur, alla domanda: E il tempo passato? Si risponde sistematicamente: Mortuus est, con doppia u. Si dice mortuus come si dice fatuus, arduus, conspicuus e simili, che non sono participi passati ma forme nominali, quindi declinate senza indicazione di tempo. Per mortuus invece, cercando di declinare una parola che non può esserlo, si usa una forma nominale invece di un participio passato. È un bene dunque che nella parlata non si possa declinare il verbo con cui si esprime un’azione di cui nei fatti non si può declinare l’obbligo. Si può agire tuttavia, nella grazia del nostro Redentore, per declinare almeno la seconda morte, più grave, peggiore di tutti i mali. Essa non consiste nella separazione dell’anima dal corpo ma, peggio, nel vincolo di entrambi per una pena eterna. Lì, all’opposto, gli uomini non saranno né prima né dopo la morte, ma sempre nella morte; quindi mai viventi, mai morti; ma interminabilmente morenti. Infatti all’uomo non potrà mai accadere niente di peggio nella morte, che una morte immortale.

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VIII IL MEDIATORE

Se, secondo la tesi più attendibile e probabile, tutti gli uomini finché sono mortali sono anche inevitabilmente miserabili, bisogna ricercare un mediatore che non sia solo uomo ma anche Dio, capace con l’intervento della sua mortalità felice di condurre gli uomini dalla loro miseria mortale all’immortalità felice; e questo mediatore non doveva diventare né rimanere mortale. Fu fatto invero mortale ma senza infirmare la divinità del Verbo, semplicemente assumendo l’infermità della carne; né rimase mortale in questa carne, che risuscitò dai morti, poiché questo è il frutto della sua mediazione: che anche coloro per la cui liberazione fu fatto Mediatore, non rimanessero per sempre nella morte anche della carne. Così il Mediatore fra noi e Dio dovette avere una mortalità transeunte e una felicità permanente, per essere conforme a coloro che sono destinati a morire nell’elemento transeunte, e a quello permanente li trasferisse dopo morti. Gli angeli buoni dunque non possono essere mediatori fra i miseri mortali e i felici immortali, essendo anch’essi felici e immortali; potrebbero invece esserlo gli angeli cattivi, essendo immortali come gli uni e miserabili come gli altri. Diversissimo da loro il buon Mediatore, che in contrasto con l’immortalità e la miseria degli angeli cattivi volle essere mortale per un tempo e poté rimanere felice per l’eternità. Così a questi superbi immortali e miserabili malfattori con l’umiltà della sua morte e la generosità della sua beatitudine Egli impedì che travolgessero gli uomini nella miseria col vanto della loro immortalità e ne liberò i cuori purificandoli dalla loro impurissima tirannide. Perciò l’uomo, misero mortale, separato a così gran distanza dai felici immortali, quale mediatore sceglierà per unirsi alla felicità immortale? Ciò che potrebbe attrarlo nell’immortalità dei demoni

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non è che miseria; ciò che potrebbe disgustarlo nella mortalità di Cristo è ormai svanito. Là bisogna evitare una miseria eterna, qui non c’è da temere una morte che non poté essere eterna, mentre c’è da amare una felicità che lo è. Il mediatore immortale e miserabile qui s’interpone per impedire il passaggio all’immortalità beata, poiché permane l’ostacolo, la miseria stessa, mentre il Mediatore mortale e beato s’interpose per superare la mortalità e rendere i morti immortali, come mostrò nella sua risurrezione, e i miseri beati, nello stato che mai abbandonò. Diverso è il mediatore cattivo, che divide gli amici, dal buono, che riconcilia i nemici. Perciò sono molti i mediatori che dividono, poiché è la partecipazione all’unico Dio che rende beata la moltitudine degli angeli beati; e non più partecipe di Dio, la misera moltitudine degli angeli cattivi si oppone piuttosto, per impedire, anziché interporsi per favorire il conseguimento della beatitudine. La sua stessa massa assordante c’infesta per rendere impossibile il raggiungimento di quell’unico bene beatificante, per il quale ci occorrevano non molti, ma un unico Mediatore, lo stesso che con la sua partecipazione ci rende beati, ossia il Verbo di Dio increato, per cui tutto fu creato. E tuttavia non in quanto Verbo è Mediatore, poiché per la sua suprema immortalità e suprema beatitudine il Verbo è ben lontano dalla miseria dei mortali; è invece Mediatore in quanto uomo. Proprio con la sua umanità Egli indica che per conseguire quel bene non solo beato ma anche beatificante, non occorre la ricerca di altri mediatori, immaginare che ci erigano i gradini della nostra ascesa. Il Dio beato e beatificante, condividendo la nostra umanità, ci offrì la sintesi con cui partecipare alla sua divinità. Liberati dalla mortalità e dalla miseria, Egli non ci fa giungere tra gli angeli immortali e beati, affinché partecipando del loro stato anche noi diventiamo immortali e beati; ma a quella Trinità ci fa giungere, di cui anche gli angeli partecipano, e ne sono beati. Così, scelse di entrare, per essere Mediatore, nella forma di uno schiavo, al di sotto degli angeli, rimanendo però al di sopra degli angeli nella forma di Dio, Via della vita nel mondo inferiore come Vita in quello superiore.

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IX VITA DELL’UOMO SECONDO L’UOMO E SECONDO DIO

Quando dunque l’uomo vive in conformità con l’uomo e non con Dio, rassomiglia al diavolo. Persino l’angelo dovette vivere non in conformità con l’angelo ma con Dio per poter star saldo nella verità e dire la verità, proveniente da Dio, anziché una menzogna proveniente da lui stesso. Pure dell’uomo dice ancora l’Apostolo in un altro punto: Ma se attraverso la mia menzogna si riversò la verità di Dio. La menzogna è nostra, dice; la verità di Dio. Per cui, quando l’uomo vive in conformità con la verità, non vive in conformità con se stesso, ma con Dio. È Dio infatti che disse: Io sono la verità. Quando invece vive in conformità con se stesso, ossia con l’uomo e non con Dio, è chiaro che vive in conformità con la menzogna; non perché l’uomo sia in se stesso menzogna, essendo il suo autore e creatore Dio, e Dio non essendo certamente autore e creatore della menzogna; ma l’uomo fu creato retto affinché vivesse non in conformità con se stesso ma col suo Creatore, facendo la sua volontà anziché la propria. Per cui, non vivere secondo la vita per cui fu creato, ecco la menzogna. Certo l’uomo ricerca la felicità anche quando vive in un modo che gli impedisce di essere felice. E quale menzogna più grande di questa ricerca sbagliata? Per cui non è insensato dire che ogni peccato è menzogna; infatti si commette un peccato solo cercando di ottenere un bene o di evitare un male. Perciò il peccato è menzogna in quanto, commesso per ottenere un bene, ci procura invece un male, o commesso per ottenere un bene maggiore, ci procura un maggior male. Il motivo è uno solo: il bene può provenire all’uomo da Dio, ed egli Lo abbandona quando manca; non può provenire da se stesso, ed egli manca quando vive in conformità con se stesso.

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Ho già parlato dell’esistenza di due città diverse e opposte fra loro in quanto alcuni uomini vivono in conformità con la carne, altri con lo spirito. Ebbene, questo concetto può anche esprimersi così: alcuni uomini vivono in conformità con l’uomo, altri con Dio. Lo dice chiarissimamente Paolo scrivendo ai Corinti: Essendovi tra voi gelosia e contesa, non siete forse carnali e non camminate in conformità con l’uomo? Quindi camminare in conformità con l’uomo equivale a essere carnali, poiché con la carne, ossia una parte dell’uomo, s’intende l’uomo; e Paolo prima ha chiamato animali quelli che poi chiama carnali, dicendo: Chi fra gli uomini conosce ciò che è nell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche ciò che è in Dio, nessuno lo conosce, se non lo Spirito di Dio. Noi però – soggiunge – non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo spirito proveniente da Dio, cosicché conosciamo i doni ricevuti da Dio. Di essi, anche, parliamo, non con parole imparate dalla sapienza umana ma dallo Spirito, applicando a cose spirituali parole spirituali. Invece l’uomo animale non percepisce ciò che è proprio dello Spirito di Dio, poiché per lui è stoltezza.

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X UNIVERSALITÀ DELLA PACE

Ma nemmeno i santi e fedeli adoratori dell’unico vero Dio sono immuni dagli inganni e dalle multiformi tentazioni di questi demoni. In questa situazione di debolezza e in questi giorni di malizie anche questa apprensione non è inutile, per far ricercare con più fervente desiderio la condizione sicura dove si ha la pace più completa e più certa. Lì i doni della natura, ossia i doni dispensati alla nostra natura dal Creatore di tutte le nature, saranno non solo buoni, ma anche eterni, non solo nello spirito, che viene risanato dalla sapienza, ma anche nel corpo, che verrà rinnovato dalla risurrezione. Lì le virtù, non più in lotta contro ogni specie di vizio e di male, coglieranno come premio della vittoria la pace eterna, non turbata da nessun nemico. Questa è la benedizione ultima, il complemento finale, esente dalla consunzione di una fine. Certo, qui ci si chiama felici quando possediamo la pace, nella piccolissima misura concessa quaggiù in una vita buona; ma questa felicità, se paragonata a quella che chiamiamo finale, risulta essere niente più che miseria. Quando dunque per la rettitudine della nostra vita godiamo di questa pace, quale qui può toccare a uomini mortali in una realtà mortale, la virtù gode giustamente dei suoi beni; quando invece non la godiamo, la virtù usa per il bene anche i mali che l’uomo subisce. Ma è virtù vera quando riferisce tutti i beni di cui fa buon uso, e tutto ciò che fa nel buon uso dei beni e dei mali, ed anche se stessa, a quel fine, in cui la nostra pace sarà di tale natura e in tale misura, che non potrebbe diventare né migliore né peggiore.

Perciò potremmo dire della pace ciò che abbiamo detto della vita eterna: essa è il supremo fine dei nostri beni; tanto più per ciò che

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in un santo salmo si dice per la Città di Dio, tema di questa nostra laboriosissima discussione: Loda, o Gerusalemme, il Signore, loda il tuo Dio, o Sion. Egli ha stretto i serrami delle tue porte, ha benedetto i tuoi figli in te; ha posto i tuoi confini in pace. Stretti i serrami delle sue porte, nessuno più potrà entrare né uscire da quella Città; e i confini dobbiamo intenderli come quella pace, che desidero dimostrare ch’è la pace finale. Infatti anche il nome mistico di questa Città, Gerusalemme come ho già detto in precedenza, si traduce in Visione di pace. Ma il nome ‘pace’ si usa frequentemente anche nelle vicende di questo mondo mortale, dove certo la vita non è eterna; perciò ho preferito parlare di vita eterna piuttosto che di pace, come fine di questa Città dove essa troverà il suo bene supremo. Di questo fine l’Apostolo dice: Ora, che siete stati liberati dal peccato e siete diventati servitori di Dio, avete come frutto la santificazione e come fine la vita eterna. Ma per vita eterna chi non ha familiarità con le sante Scritture può anche intendere la vita dei cattivi; o, seguendo pure alcuni filosofi, motivarla con l’immortalità dell’anima, ed anche, seguendo la nostra fede, con le pene senza termine degli empi, i quali evidentemente non potrebbero subire un tormento eterno, se non avessero anche una vita eterna. Perciò l’epilogo di questa Città, in cui godrà del bene supremo, dovrà essere definito o come la pace in una vita eterna, o come la vita eterna in pace, se si vuole essere capiti più facilmente da tutti. Infatti il bene della pace è così grande, che anche nelle vicende terrene e nella condizione mortale nulla è più gradevole dell’ascolto, nulla più appetibile al desiderio, e nulla infine si può trovare di meglio. Se volessimo attardarci a parlarne un po’ più a lungo, credo che non saremmo di peso ai nostri lettori, non solo perché riguarda l’epilogo della Città di cui stiamo parlando, ma anche perché la pace è in sé così dolce, cara a tutti.

Chiunque osservi la realtà umana e la natura comune a noi tutti, concorderà con me su quanto ho detto; infatti non vi è nessuno che non desideri la gioia, e quindi nessuno che non voglia godere della pace. Anche chi desidera la guerra cerca di raggiungere una pace gloriosa. Che altro è la vittoria, se non la sottomissione degli avver-

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sari? Ottenuto questo, ecco la pace. Dunque anche le guerre si combattono con l’obiettivo della pace, persino da coloro che vogliono provare il proprio valore militare nel comandare e nel combattere. Per cui è assodato che la pace è il fine a cui aspira la guerra. Tutti anche con la guerra cercano la pace; nessuno con la pace cerca la guerra. Anche chi vuole turbare la pace in atto, non odia la pace ma desidera mutarla in un’altra di suo gradimento, non vuole che non vi sia pace, ma che sia quale lui la vuole. Persino chi si stacca dagli altri con una ribellione, non ottiene il suo scopo senza avere almeno una parvenza di pace verso i suoi cospiratori e congiurati. Ancora, gli stessi banditi per rendere più impetuosi e meno rischiosi i loro attacchi alla pace degli altri, desiderano aver pace con i loro complici. Ma immaginiamo anche un uomo solo, tanto preponderante di forze e sospettoso di qualsiasi complicità da non affidarsi a nessuno; per cui da solo ordisca i suoi raggiri e ottenga le sue vittorie, opprima e annienti e depredi quanti può; mantiene però una qualche parvenza di pace almeno verso coloro che non riesce a distruggere e a cui vuole nascondere le sue operazioni. In casa, con la moglie, con i figli, con quanti altri vi abitano, si studia certamente di essere in pace, prova senza dubbio piacere nel vedersi ubbidito ad un cenno. Se così non avviene, si sdegna, rimprovera, punisce e impone nella sua casa la pace, se occorre, anche con atti crudeli, convinto che essa non può sussistere se tutti gli altri membri di quella società domestica non sono soggetti a qualche governo: in casa sua, appunto lui. Se quindi gli si offrisse una servitù più numerosa, una città o una nazione pronte a servirlo come esigeva di essere servito in casa sua, non si nasconderebbe più da brigante nel suo covo ma si eleverebbe da re allo sguardo di tutti, senza perdere per questo la cupidigia e la malvagità. Dunque, tutti aspirano ad aver pace con chi sta loro intorno, desiderando che viva come a lui è gradito. Infatti anche dei nemici che combattono vorrebbero appropriarsi, se fosse possibile, per imporre loro, dopo averli assoggettati, le leggi della propria pace. Ma immaginiamo qualcuno, simile a un personaggio della poesia e del mito, che probabilmente per la sua stessa ferinità avversa al consorzio civile preferirono definire ‘semiuomo’ che uomo. Il suo

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regno era la solitudine di una spaventosa caverna, e la sua malvagità così eccezionale, che di lì gli trovarono il nome: in greco ‘malvagio’ si dice kakós, e così fu chiamato. Non aveva moglie con cui scambiare una parola dolce, non figli con cui giocare da piccolini e a cui comandare da grandicelli, non amici di cui godere i colloqui, e nemmeno colloqui col padre Vulcano, di cui fu più fortunato almeno in questo, e non è poco, che non generò a sua volta un mostro qual era egli stesso. Non dava nulla a nessuno, ma prendeva da chi poteva ciò che voleva, e quando poteva chi voleva. Ciò nonostante in quella sua spelonca solitaria dove, secondo la descrizione che ne viene fatta, sempre era la terra tiepida di recenti stragi, non desiderava altro che la pace, vivere non molestato da nessuno in una quiete non turbata da violenze e terrori. Soprattutto desiderava aver pace col suo corpo, e se l’aveva, stava bene. Sia quando riusciva a tenere membra ubbidienti ai suoi comandi, sia quando s’affrettava quanto più possibile a placare l’insurrezione della sua natura mortale in preda al bisogno e la ribellione della fame protesa a dissociare e ad espellere l’anima dal corpo, per cui rapiva, uccideva, divorava, sempre, disumano e feroce quanto si voglia, pur cercava di garantire la pace, per preservare la propria vita, in un modo disumano e feroce. Per cui, se avesse voluto stabilire anche con gli altri la pace che si adoperava di stabilire dentro la sua caverna e dentro di sé, nessuno l’avrebbe chiamato né malvagio né mostro né semiuomo. O se era l’aspetto del corpo e il vomito di nere fiamme dalla bocca a respingere da lui per paura la compagnia degli uomini, forse la sua crudeltà derivava non dal gusto di nuocere ma dalla necessità di sopravvivere. Ma dopo tutto, può essere che costui non sia esistito, o più probabilmente, che non fosse quale viene immaginato dalla poesia; infatti senza troppe accuse per Caco, poche sarebbero le lodi per Ercole. Per cui un tale uomo, o meglio, come dissi, semiuomo, si crede che non sia esistito, come molte invenzioni dei poeti. Infatti persino le fiere più crudeli, di cui Caco condivideva la ferocia (viene anche detto ‘semiferino’), preservarono la loro specie con qualche forma di pace, unendosi, generando, partorendo, vezzeggiando e nutrendo i piccoli, sebbene in generale non si associno ad altre e vaghino solitarie: non le pecore, naturalmente, o i cervi,

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le colombe, gli storni e le api, ma per esempio i leoni, i lupi, le volpi, le aquile, le civette. Quale tigre non ha un mite sussurro per i suoi figli, non ammansisce la sua ferocia per accarezzarli? Quale sparviero, il più solitario e rapace nei suoi lunghi voli, non trova una compagna, non costruisce un nido, non riscalda le uova, non nutre i piccini e non mantiene con la madre della sua famiglia un’associazione domestica quanto più pacifica gli è possibile? Quanto più è portato l’uomo, in qualche modo, dalle leggi della sua natura a stringere una società e a raggiungere, per quanto sta in lui, la pace con tutti gli altri uomini! Persino i malvagi fanno la guerra per aver pace fra loro, e se potessero vorrebbero assoggettarsi tutti gli uomini affinché tutti e tutto servissero ad uno solo: e come questo, se non col consenso di tutti alla sua pace, per amore o per timore? Così l’orgoglio imita in modo distorto Dio. Detesta di essere uguale ad altri sotto di Lui, e invece vuole imporre agli altri il proprio dominio in luogo del suo; quindi odia la pace giusta di Dio e ama la propria pace ingiusta. Tuttavia non può, assolutamente, non amare una pace, quale che sia. Nessuna aberrazione, anche la più contraria alla natura, non distrugge fino le infime tracce della natura stessa. Per questo la pace degli ingiusti, a confronto con quella dei giusti, non può chiamarsi pace; lo vede bene chi ha imparato ad anteporre il diritto alla perversità, ciò che è ordinato a ciò che è distorto. Ma anche una cosa distorta, essa pure, necessariamente dev’essere nella condizione di pace in qualche parte, o per qualche parte, o con qualche parte delle cose fra cui si trova o di cui consiste; altrimenti nemmeno esiste. Ad esempio, se ci si appende a testa in giù, la posizione del corpo e il sistema delle membra sono chiaramente distorti, poiché la parte che la natura richiede stia in alto, si trova in basso, e quella che la natura richiede stia in basso, è stata messa in alto. Questa distorsione ha turbato la pace della carne, e perciò è molesta. Tuttavia lo spirito è in pace col suo corpo e cerca di preservarlo; perciò lì vi è qualcuno che soffre. Ed anche quando lo spirito se ne esce dal corpo, espulso dalle sue sofferenze, finché permane la struttura delle membra, quel rimasuglio conserva a suo modo una pace fra le parti, per cui vi è ancora qualcuno che sta appeso. Il corpo terreno che spinge verso la terra e respinge il laccio

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a cui è sospeso, tende così verso l’ordine della sua pace e implora, se si può dire, con la voce del suo peso un luogo di quiete; ormai esanime, privo di qualsiasi sensibilità, tuttavia non abbandona la pace della sua collocazione naturale, sia quando la possiede, sia quando vi tende. Se poi si applicano al cadavere i balsami per la sua conservazione, che ne impediscono il dissolvimento e la decomposizione della forma, ancora qualcosa di simile alla pace ne tiene unite le parti e ne fissa al suolo l’intera massa in una posizione ad essa conveniente, perciò in pace. Se invece non si applica nessun trattamento conservativo e lo si abbandona al suo corso naturale, per un certo tempo si verifica nel corpo, in qualche modo, uno scontro di esalazioni discordi e sgradevoli ai nostri sensi (è il fetore della putrefazione); finché il corpo stesso si fonde con gli elementi del mondo e a poco a poco, particella per particella, si perde nella sua pace. Nulla tuttavia in quanto accade sfugge alle leggi del sommo Creatore e Ordinatore. Egli regola la pace dell’universo. Se anche dal cadavere di un animale più grande si producono animali minuti, per la medesima legge del Creatore anche tutti questi piccoli corpi servono le loro piccole anime nella pace che li preserva. E anche se le carni di animali morti vengono divorate da altri animali, dovunque siano portate, qualunque sia la sostanza a cui vengano unite e in cui vengano trasformate e mutate, trovano le medesime leggi diffuse in tutti gli elementi per la conservazione di ogni specie mortale, pacificatrici mediante l’armonia degli uni con gli altri.

Ecco dunque che la pace del corpo è l’ordinato contemperamento delle sue parti; la pace dell’anima irrazionale l’ordinato riposo dei suoi appetiti; la pace dell’anima razionale l’ordinato accordo del pensiero e dell’azione; la pace del corpo e dell’anima la vita ordinata e la salute dell’essere animato; la pace fra l’uomo e Dio l’obbedienza ordinata, nella fede, alla legge eterna; la pace fra gli uomini la concordia ordinata; la pace di una casa l’accordo ordinato di quanti vi coabitano sul comando e sull’obbedienza; la pace di una città l’accordo ordinato fra i cittadini sul comando e sull’obbedienza; la pace della Città celeste l’associazione col mas-

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simo ordine e con la massima concordia nel godimento di Dio e nel godimento vicendevole in Dio; la pace universale la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la collocazione di cose uguali e disuguali nel posto a ciascuna assegnato. Ne consegue che gli scellerati, poiché per la loro condizione miserabile non sono evidentemente in pace, mancano della tranquillità dell’ordine, dove nulla è perturbato. Tuttavia, essendo meritata e giusta, anche nella miseria non possono essere esclusi dall’ordine; certo non sono congiunti ai beati, ma, per la legge dell’ordine, nemmeno disgiunti da loro. In quanto non abbiano turbamenti, sono conformi alla condizione in cui si trovano, anche se con ben piccola armonia; perciò non manca loro una certa tranquillità propria dell’ordine, quindi una certa pace. Però sono pur sempre miserabili, poiché, se hanno qualche sicurezza per cui non soffrono, non sono tuttavia in tale sicurezza per cui non debbano soffrire; ma sono ancora più miserabili se non sono in pace con la stessa legge che governa l’ordine naturale. Nel soffrire, là dove soffrono avviene un turbamento della pace, mentre perdura la pace là dove la sofferenza non brucia e la loro struttura è dissolta. Come dunque esiste qualche vita senza sofferenza, ma non può sussistere una sofferenza senza qualche forma di vita, così vi è pace senza nessuna guerra, ma non guerra senza qualche forma di pace; non perché tale sia la guerra, ma perché è combattuta da o fra persone che sono esseri naturali; e non sarebbero affatto tali, se la loro esistenza non si fondasse su qualche forma di pace. Perciò esiste una natura in cui non si trova nessun male o addirittura nessun male è possibile; ma non può esistere una natura in cui non vi sia nessun bene. Persino la natura del diavolo, in quanto natura, non è un male; a renderla malvagia è la sua perversione. Per questo egli non stette saldo nella verità, ma non sfuggì al giudizio della verità; non rimase nella tranquillità dell’ordine, ma non per questo sfuggì al potere dell’Autore dell’ordine. Il bene dato da Dio, che egli possiede nella sua natura, non lo sottrae alla giustizia di Dio, che lo stabilisce nell’ordine mediante la pena. E con la pena Dio non condanna il bene creato da Lui, ma il male commesso dal diavolo. Non toglie infatti ciò che ha concesso alla natura, ma sottrae qualcosa e qualcosa lascia, affinché vi sia un essere che soffra di quanto ha per-

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duto. La sofferenza stessa è testimone della perdita di bene e del residuo di bene. Senza un residuo di bene non potrebbe soffrire per la perdita di bene. Infatti il peccatore è ancor peggiore se si rallegra della perdita di giustizia da lui subita, mentre, se ne prova tormento, pur non acquistando per questo del bene, soffre per la perdita della salvezza. E poiché giustizia e salvezza tutt’e due sono beni, e la perdita di un bene è motivo di sofferenza anziché di gioia (a meno che non sia compensata da un bene più grande, come la giustizia dello spirito, bene più grande della salute del corpo), ecco che la sofferenza dell’ingiusto nella sua punizione è più appropriata della sua gioia nella colpa. Come dunque la gioia per l’abbandono del bene nel peccato testimonia della cattiveria della volontà, così la sofferenza per la perdita del bene nella punizione testimonia della bontà della natura. Chi soffre infatti per aver perso la pace della sua natura, ne soffre per qualche residuo di quella pace, che rende una natura amica a se stessa. E nel supplizio è un atto di giustizia che gli iniqui e gli empi piangano nei tormenti la perdita dei beni propri della natura e si rendano conto che chi a loro li tolse con suprema ingiustizia è il Dio da loro disprezzato mentre li elargiva con suprema benevolenza. Dunque Dio, creatore sapientissimo e ordinatore giustissimo di tutte le nature, istituì la razza mortale degli uomini come l’ornamento più grande delle nature terrestri; e diede agli uomini alcuni beni convenienti a questa vita, ossia la pace temporale nella misura di una vita mortale e consistente nella salute e incolumità fisica e nel legame con la propria specie; quindi tutto ciò che è necessario per tutelarla e riacquistarla, ad esempio gli oggetti adeguati e convenientemente offerti ai nostri sensi, luce e voce, l’aria respirabile e l’acqua bevibile, e quanto serve a nutrire, coprire, curare e addobbare il corpo. Tutto ciò alla più equa delle condizioni: che qualunque mortale faccia un uso retto di questi beni disposti per la pace dei mortali, ne riceva di grandi e migliori, ossia la pace stessa dell’immortalità, la gloria e l’onore ad essa adeguati nella vita eterna, per godere di Dio e del proprio simile in Dio; mentre chi di quei beni fa un uso perverso, li perderà, e non riceverà quelli eterni.

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Dunque, ogni uso che si fa delle cose temporali è rapportato nella città terrena al godimento della pace terrena; nella Città celeste al godimento della pace eterna. Perciò, se fossimo animali irrazionali, non desidereremmo altro che l’ordinato equilibrio delle parti del corpo e la tranquillità dei desideri, ossia nient’altro che la tranquillità della carne e la disponibilità dei piaceri, affinché la pace del corpo contribuisca alla pace dell’anima. Infatti la mancanza di pace nel corpo è un impedimento anche per la pace dell’anima irrazionale, poiché questa non può ottenere la tranquillità dei desideri; mentre l’una e l’altra insieme contribuiscono alla pace dell’anima e del corpo, consistente in una vita ordinata e nella salute. Gli esseri animati dimostrano il loro amore per la pace del corpo nella fuga dal dolore, e per la pace dell’anima nella ricerca del piacere per soddisfare le esigenze dei desideri; e così nel rifuggire dalla morte rivelano assai bene la loro grande predilezione per la pace in cui anima e corpo trovano il loro accordo. Ma l’uomo possiede un’anima razionale, per cui tutto ciò che ha in comune con le bestie egli subordina alla pace dell’anima razionale, sicché ogni sua azione sia conforme alla visione della sua mente; così si attua per lui quell’ordinata concordanza di pensiero e azione da noi definita pace dell’anima razionale. A tale scopo egli deve volere né la molestia dei dolori né il turbamento dei desideri né la dissoluzione della morte, in modo da conseguire la conoscenza di qualcosa di utile e da conformare ad essa la sua vita e la sua condotta morale. Ma per non incorrere, anche in questo slancio verso la conoscenza, in qualche errore esiziale, a causa della debolezza della mente umana, gli occorre la guida di Dio, a cui obbedire risolutamente, e il suo soccorso, per obbedire liberamente. Ma, finché si trova in questo corpo mortale, l’uomo è un pellegrino lontano dal suo Signore; cammina con la fede, non con la visione. Perciò qualsiasi pace, del corpo o dell’anima o del corpo e dell’anima fra loro, è da lui rapportata a quella pace che si ha fra l’uomo mortale e Dio immortale, affinché la sua sia un’obbedienza nell’ordine con la fede, sotto la legge eterna. Ora, i precetti principali che ci insegna Dio nostro maestro, sono due, l’amore di Dio e l’amore del prossimo; e in essi l’uomo trova tre cose da amare: Dio, se stesso e il prossimo, né sbaglia ad amare se

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stesso chi ama Dio. Ne consegue che l’uomo deve preoccuparsi che il suo prossimo ami Dio, essendo l’ordine di amarlo come se stesso: e sarà la moglie, saranno i figli, saranno i familiari, ed anche tutti gli altri uomini, quanti sia possibile. Ciascuno vorrà poi che gli altri si preoccupino di lui, se ha bisogno. Quindi, per quanto dipende da lui, sarà in pace con tutti gli uomini nella pace fra gli uomini, l’ordinata armonia di cui questo è l’ordine: in primo luogo non far male a nessuno, poi giovare anche a chi si può. La prima preoccupazione di un uomo è dunque la tutela dei suoi cari, a cui ha più pronte e facili occasioni di provvedere sia nell’ordine della natura sia in quello della stessa società umana. Per cui l’Apostolo dice: Chi non provvede ai suoi, soprattutto a quelli di casa, rinnega la fede ed è peggiore di un infedele. Di qui nasce anche la pace domestica, ossia l’accordo ordinato di quanti coabitano sul comando e sull’obbedienza. Comandano coloro che provvedono agli altri, come il marito alla moglie, i genitori ai figli, i padroni ai servi; e obbediscono coloro ai quali altri provvedono, come le mogli ai mariti, i figli ai genitori, i servi ai padroni. Ma nella casa dell’uomo giusto che vive di fede e ancora pellegrino, lontano dalla Città celeste, anche chi comanda è servo di coloro a cui apparentemente comanda, poiché non comanda per brama di dominare ma per dovere di assistere; non per l’orgoglio del primato ma per la pietà del servizio.

Così vuole l’ordine naturale, e questa è la forma in cui Dio creò l’uomo. Disse infatti: Egli domini sui pesci del mare e sui volatili del cielo e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. Essere razionale, fatto a sua immagine, Dio volle che avesse il dominio solo sugli esseri irrazionali; non l’uomo sull’uomo, ma l’uomo sulle bestie. Perciò i primi uomini giusti furono stabiliti come pastori di greggi più che come re di uomini; anche così Dio suggerì cosa richiede l’ordine della natura e cosa esige la colpa dei peccatori, poiché si capisce bene che la condizione di schiavo è imposta al peccatore per giustizia. Nelle Scritture non s’incontra mai il nome di schiavo prima che Noè, uomo giusto, lo usi come punizione del peccato di suo figlio. La colpa dunque ha meritato questo nome, non la natura.

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Quanto all’origine del vocabolo latino, servus, sembra che derivi da coloro che secondo il diritto di guerra potevano essere uccisi e invece venivano conservati in vita dai vincitori e fatti schiavi, o servi, da ‘conservare’, ed anche ciò non avviene se non come retribuzione di un peccato. Infatti quando si sostiene una guerra giusta, la parte avversa combatte in difesa di una sua colpa; e ogni vittoria, anche quando tocca alla parte malvagia, umilia i vinti per giudizio divino, come correzione o punizione dei loro peccati. Ne è testimone un uomo di Dio, Daniele, il quale nella prigionia confessa a Dio i suoi peccati e quelli del popolo e riconosce con devoto dolore che sono la causa della sua prigionia. Il motivo primo della schiavitù è dunque il peccato, per cui l’uomo viene sottoposto a un altro uomo in una condizione vincolata. Ciò non avviene se non per giudizio di Dio, nel quale non vi è ingiustizia, distributore consapevole di pene diverse, quali meritano i peccatori. Ma, come dice il nostro Signore dei cieli, Chiunque commette peccato, è schiavo del peccato; perciò anche molti uomini pii sono schiavi di padroni iniqui ma non liberi, poiché quando si è vinti, si diventa schiavi del vincitore. Comunque è meglio essere schiavi di un uomo che di una passione; il più impietoso e devastante dei domini è quello esercitato sui cuori dei mortali, per non dir altro, proprio dalla passione del dominio. Invece nell’ordine della pace in cui gli uni sono soggetti agli altri, l’umiltà procura meriti a chi serve quanto la superbia danno a chi domina. Per natura, nella condizione in cui Dio creò inizialmente l’uomo, nessuno è schiavo di un altro uomo o del peccato; è vero tuttavia che anche la schiavitù come punizione sta nell’ordine di quella legge che impone la conservazione dell’ordine naturale e ne proibisce l’alterazione; infatti, se non si fosse fatto nulla di contrario a quella legge, non vi sarebbe stato nulla da correggere con la pena della schiavitù. Per questo l’Apostolo esorta anche gli schiavi alla sottomissione ai loro padroni e ad un servizio sincero e volenteroso. Così, se anche non riescono ad avere la libertà dai loro padroni, possono però rendere libera, in qualche modo, la loro schiavitù, servendo non con un timore infido ma con sincera devozione, finché l’ingiustizia scompaia ed ogni sovranità e potere umano sia svuotato, e Dio sia tutto in tutto.

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XI L’ETERNA FELICITÀ DEI SANTI

Il bene supremo della Città di Dio è dunque la pace eterna e perfetta; non quella per cui transitano i mortali, fra la nascita e la morte, ma quella in cui dimorano nell’immortalità, senza subire per nulla nessuna ostilità. E dunque chi potrà negare che sia estremamente felice quella vita, o giudicare che al suo confronto sia estremamente misera questa, vissuta qui anche con le massime doti dello spirito e del corpo e la massima abbondanza di beni esteriori? Tuttavia chi, in possesso di questa vita, la usa in rapporto e in vista dell’altra da lui amata col più grande ardore e sperata con la più salda fede, si può sensatamente definire felice anche ora, per la speranza del futuro se non per la realtà del presente. La realtà presente senza la speranza futura è una felicità falsa e una grande miseria. Non vi è impiego delle vere doti dello spirito, poiché non è vera sapienza quella che nei suoi prudenti giudizi, nelle sue vigorose azioni, nel suo ritegno controllato e nelle sue giuste assegnazioni non si orienta su quel fine dove Dio sarà tutto in tutto, in un’eternità garantita e in una pace perfetta.

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Blaise Pascal PENSIERI



Blaise Pascal (1623–1662) si è occupato di matematica, fisica, filosofia e teologia. In ognuna di queste discipline ha lasciato una traccia imperitura. Bambino prodigio, contribuì in modo determinante alla costruzione di calcolatori meccanici e allo studio dei fluidi; ha chiarito i concetti di pressione e vuoto, ampliando il lavoro di Evangelista Torricelli. A sedici anni scrisse un trattato di geometria proiettiva e, tra l’altro, lavorò con Pierre de Fermat sulla teoria delle probabilità, la medesima che influenzerà le moderne teorie economiche e le cosiddette scienze sociali. Dopo un’esperienza mistica, seguita a un incidente nel quale rischiò la vita, nel 1654, abbandonò matematica e fisica per dedicarsi alla religione e alla filosofia. Morì senza aver compiuto i quarant’anni, dopo una malattia che lo affliggeva dall’infanzia. In lui, come in nessun altro, si riflette il dramma del pensiero moderno: cercare una via per emancipare la ragione e accorgersi che senza Dio nulla di essenziale è spiegabile. Era ancora in vita quando Spinoza nel 1658 utilizzò il metodo geometrico nella sua Etica per parlare di Dio; ma lui, il coltissimo Pascal, non credeva più in questo procedimento. Ormai era convinto che la geometria, così come le scienze in genere, fosse destinata a un naufragio proprio alla soglia della conoscenza effettiva. L’infinito per questo giansenista, in altre parole, andava cercato altrove. Sarebbe bastata la sua “Scommessa”, quel “Pari” che tormenta da quattro secoli i lettori dei Pensieri, per renderlo immortale. Ha fatto di più, ricordandoci che a un certo punto della vita si scopre la

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sterilità delle scienze. Dio con il suo azzardo – credi e non hai nulla da perdere: se esiste un Essere Superiore, guadagni il premio; se non c’è, hai comunque vissuto in modo retto – ricorda al pensiero moderno e contemporaneo che la fede può nascere da uno scetticismo di base. Insomma, Lui, l’Altissimo, non va dimostrato ma cercato. E questo Pascal lo ricorda quando la ragione, in pieno XVII secolo, pensa di fare da sé. Del resto, egli aveva già risposto in anticipo a quanto progetterà Pierre Bayle nei Pensieri diversi sulla cometa del 1682: è possibile costruire una società senza Dio. Il giansenista matematico e scienziato vincerà la scommessa anche per i secoli successivi.

Armando Torno

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I GRANDEZZA DELL’UOMO

La distanza infinita esistente fra i corpi e l’intelletto raffigura la distanza infinitamente più infinita fra l’intelletto e la carità, poiché questa è soprannaturale. Tutto il fulgore delle grandezze materiali non ha nessun lustro per le persone occupate nelle ricerche intellettuali. La grandezza degli uomini spirituali è invisibile ai re, ai ricchi, ai generali, ai capitani, a tutti questi grandi della carne. La grandezza della saggezza, che è nulla se non da Dio, è invisibile agli uomini carnali e intellettuali. Sono ordini diversi di genere. I grandi geni hanno il loro impero, il loro fulgore, la loro grandezza, la loro vittoria, il loro lustro, e nessun bisogno delle grandezze carnali, con cui hanno rapporto. Sono veduti non dagli occhi ma dagli spiriti, e ciò è sufficiente. I santi hanno il loro impero, il loro fulgore, la loro vittoria, il loro lustro, e nessun bisogno delle grandezze carnali o intellettuali, senza alcun rapporto con loro poiché non vi aggiungono né tolgono. Essi sono visti da Dio e dagli angeli, non dai corpi né dalle menti curiose. Dio basta loro. Archimede, anche senza fulgori, sarebbe altrettanto venerato. Non dette battaglie, per gli occhi, ma offrì a tutte le menti le sue invenzioni. Oh come rifulse alle menti! Gesù Cristo, senza beni e senza alcuna produzione di scienza esteriore, è nel suo ordine di santità. Non inventò nulla, non regnò, ma fu umile, paziente, santo, santo, santo a Dio, terribile ai demoni, immune da peccato. Oh come venne in gran pompa e in prodigiosa magnificenza agli occhi del cuore, che scorgono la saggezza!

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Ad Archimede sarebbe stato inutile fare il principe nei suoi libri di geometria, sebbene lo fosse. Sarebbe stato inutile a Nostro Signore Gesù Cristo, per rifulgere nel suo regno di santità, venire da re. Venne però col fulgore del suo ordine. È ridicolo scandalizzarsi della bassezza di Gesù Cristo, come se tale bassezza fosse del medesimo ordine cui appartiene la grandezza che veniva a rivelare. Si consideri questa grandezza nella sua vita, nella sua passione, nella sua oscurità, nella sua morte, nella scelta dei suoi, nel loro abbandono, nella sua segreta risurrezione e nel resto. La si vedrà così grande che non vi sarà da scandalizzarsi di una bassezza che non c’è. C’è però chi sa ammirare solo le grandezze carnali, quasi non ve ne siano di intellettuali. Altri ammirano solo quelle intellettuali, quasi non ve ne fossero nella saggezza di infinitamente più elevate. Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi reami non valgono il più piccolo degli intelletti, poiché questo conosce tutto ciò, e se stesso, mentre i corpi nulla. Tutti i corpi insieme e tutti gli intelletti insieme e tutti i loro prodotti non valgono il minimo moto di carità. Questo è di un ordine infinitamente più elevato. Da tutti i corpi assieme non si saprebbe far uscire un piccolo pensiero: è impossibile, appartiene a un altro ordine. Da tutti i corpi e gli spiriti non si saprebbe trarre un moto di vera carità: è impossibile, appartiene a un altro ordine, soprannaturale.

La grandezza dell’uomo è grande in quanto si conosce miserabile. Un albero non si conosce miserabile. È dunque un essere miserabili il riconoscersi miserabili; ma è grande il conoscere di essere miserabili.

Tutte queste stesse miserie provano la sua grandezza. Sono miserie di gran signore, miserie di un re spodestato.

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LA GRANDEZZA DELL’UOMO La grandezza dell’uomo è così evidente, che la si deduce persino dalla sua miseria. Infatti ciò che negli animali è natura, noi nell’uomo la chiamiamo miseria. Con ciò riconosciamo che, essendo oggi la sua natura uguale a quella degli animali, egli è decaduto da una natura migliore, un tempo a lui propria. Infatti, chi si sente sfortunato di non essere re, se non un re spodestato? Si considerava forse Paolo Emilio sfortunato di non essere più console? Al contrario, tutti lo consideravano fortunato per esserlo stato, in quanto la condizione di console non era di esserlo sempre. Invece si considerava Perseo sfortunato perché non era più re, in quanto la condizione di re era di esserlo sempre, sì che si considerava strano che tollerasse di vivere. Chi si sente sventurato per avere una bocca sola? E chi non si considererebbe sfortunato di avere un occhio solo? Forse nessuno ha mai pensato di affliggersi per non avere tre occhi; però si è inconsolabili di non averne affatto.

Grandezza dell’uomo persino nella sua concupiscenza, poiché seppe trarne un ordine mirabile e farne un’immagine della carità.

DOPO AVER MOSTRATO LA BASSEZZA E LA GRANDEZZA DELL’UOMO Ora l’uomo si stimi al suo giusto valore. Si ami, perché ha in sé una natura capace di bene; ma non ami per ciò le bassezze che vi si trovano. Si disprezzi, perché questa capacità è vuota; ma non disprezzi per ciò questa capacità naturale. Si odi, si ami. Egli ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice, ma non possiede alcuna verità stabile o soddisfacente. Vorrei dunque condurre l’uomo a desiderare di trovarne, a essere pronto e sciolto da passioni per seguirla dove la troverà, conscio di quanto la sua conoscenza si è oscurata per le passioni. Vorrei pure che odiasse in sé la concupiscenza, che è autonoma nelle sue decisioni, affinché non lo accechi nella scelta e non lo trattenga dopo che avrà scelto.

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È pericoloso mostrare troppo all’uomo quanto sia uguale alle bestie, senza mostrargli la sua grandezza. È anche pericoloso mostrargli troppo la sua grandezza senza la sua bassezza. Ancor più pericoloso lasciargli ignorare l’una e l’altra, vantaggiosissimo invece presentargliele entrambe.

Conviene che l’uomo non si creda pari alle bestie né agli angeli; che non ignori né l’una né l’altra cosa, ma invece le sappia entrambe.

A PORT-ROYAL. GRANDEZZA E MISERIA Poiché la miseria si deduce dalla grandezza e la grandezza dalla miseria, gli uni ne hanno dedotto la miseria, tanto più per averne preso a prova la grandezza, e gli altri deducendone la grandezza, tanto più vigorosamente per averla dedotta dalla miseria stessa, tutto ciò che questi ultimi poterono dire per dimostrare la grandezza è servito soltanto come argomento agli altri per dedurne la miseria, poiché si è tanto più miseri quanto più si precipita dall’alto; altrettanto, al contrario, per gli altri. I due si sono sovrapposti l’un l’altro in un cerchio senza fine, essendo certo che quanto più lumi gli uomini possiedono, tanto più scoprono nell’uomo e grandezza e miseria. In una parola, l’uomo sa di essere miserabile. Dunque è miserabile, perché lo è. Però è ben grande, perché lo sa.

La natura dell’uomo si può considerare in due modi. O secondo il suo fine, e allora egli è grande e incomparabile. O secondo la massa, come si giudica della natura del cavallo e del cane dalla loro massa, dal vedere che corrono ed hanno l’ANIMUM ARCENDI; e allora l’uomo è abietto e vile. Queste due vie lo fanno giudicare diversamente e fanno tanto disputare i filosofi. L’uno infatti nega il presupposto dell’altro. L’uno dice: «Non è nato per quel fine, poiché tutte le sue azioni vi ripugnano». E l’altro: «Si allontana dal suo fine quando compie quelle basse azioni».

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L’estrema intelligenza è imputata di follia, come la sua estrema mancanza. L’unica cosa buona è la medietà. Così ha stabilito la maggioranza, e addenta chiunque si sottragga verso un qualsiasi estremo. Io non mi ostinerò, accetto senz’altro di essere messo al centro; se rifiuto di stare all’estremità inferiore non è perché inferiore ma perché un estremo; infatti rifiuterei ugualmente di essere messo in alto. Uscire dal centro è uscire dall’umanità. La grandezza dell’animo umano sta nel sapervisi mantenere. È così poco vero che la grandezza stia nell’uscirne, che sta proprio nel suo non uscirne.

La più grande bassezza dell’uomo è la ricerca della gloria. Ma questo è pure il più alto segno della sua eccellenza, poiché, per quanti beni possieda sulla terra, per quanta salute e conforti sostanziali egli possieda, non è soddisfatto se non gode la stima dei suoi simili. Egli considera così grande la ragione umana che, per quanto in buona posizione sulla terra, se non ha un buon posto anche nella ragione degli uomini non è soddisfatto. Questo è il più bel posto del mondo, nulla riesce a distoglierlo da questo desiderio, ed è la caratteristica più indelebile del suo cuore. Anche coloro che disprezzano maggiormente gli uomini e li eguagliano alle bestie, vogliono essere tuttavia ammirati e creduti, contraddicendo se stessi con questo loro sentimento, poiché la loro natura, più forte di tutto, li convince della grandezza dell’uomo più potentemente di come la ragione li convince della loro bassezza.

CANNA PENSANTE Non nello spazio devo cercare la mia dignità, ma nell’ordinato esercizio del mio pensiero. Possedere delle terre non mi servirebbe a niente. Con lo spazio l’universo mi comprende e m’inghiottisce come un punto; col pensiero io lo comprendo.

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UOMO L’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per stritolarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo stritolasse, l’uomo sarebbe anche allora più nobile di ciò che l’uccide, poiché egli sa di morire e la superiorità che l’universo ha su di lui. L’universo non ne sa nulla.

Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È da lì che dobbiamo innalzarci, non dallo spazio e dalla durata, che non sapremmo colmare. Studiamoci dunque di pensare bene. Ecco il principio della morale.

PENSIERO Tutta la dignità dell’uomo sta nel pensiero. Ma cos’è questo pensiero? È così sciocco? Il pensiero è dunque una cosa mirabile e incomparabile per la sua natura. Bisognava che avesse strani difetti per essere spregevole. Ma ne ha di tali, che nulla è più ridicolo. Com’è grande per sua natura, com’è vile per i suoi difetti. IL FLUSSO È orribile sentir fluire via tutto ciò che si possiede.

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II MISERIA DELL’UOMO

Chi voglia conoscere appieno la vanità dell’uomo, non ha che da considerare le cause e gli effetti dell’amore. La causa è «un non so che» (Corneille) e i suoi effetti sono spaventosi. Questo «non so che», così piccolo da essere irriconoscibile, scompiglia tutta la terra, i principi, gli eserciti, il mondo intero. Il naso di Cleopatra se fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe stata diversa.

MISERIA La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è la distrazione, che pure è la nostra più grande miseria. Infatti proprio questo, principalmente, c’impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla distruzione. Senza di questo saremmo nel tedio, e il tedio ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Invece la distrazione ci diverte e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte.

ATTIVITÀ Quando un soldato si lamenta della fatica che subisce, oppure un contadino ecc., li si metta a far niente.

IMMAGINAZIONE Questa è la parte dominante nell’uomo, maestra di errore e di falsità, tanto più astuta in quanto non lo è sempre, poiché sarebbe

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regola infallibile di verità se lo fosse di menzogna. Ma pur essendo il più delle volte falsa, non dà nessun segno della sua qualità, segnando della medesima impronta il vero come il falso. Né parlo dei folli, parlo dei più savi. È fra questi che l’immaginazione esercita in grande la sua prerogativa di persuadere gli uomini. La ragione può ben gridare, essa non può mettere il prezzo alle cose. Questa superba potenza nemica della ragione, che si compiace di controllarla e dominarla, per mostrare quanto sia grande il suo potere dappertutto ha posto nell’uomo una seconda natura. Ha i suoi felici, i suoi infelici, i suoi sani, i suoi malati, i suoi ricchi, i suoi poveri. Fa credere, dubitare, negare la ragione. Sospende i sensi, li fa vibrare. Ha i suoi folli e i suoi savi, e nulla c’indispettisce quanto il vedere come pervada i suoi ospiti di una soddisfazione ben più completa e intera che non la ragione. I sapienti per immaginazione si compiacciono di sé in maniera molto diversa da come possono ragionevolmente compiacersi gli assennati. Guardano alla gente con alterigia, discutono con ardimento e sicurezza – gli altri con timore e sfiducia, – e la gaiezza del sembiante li avvantaggia di solito nell’opinione degli ascoltatori, tanto grande è il favore di cui i saggi immaginari godono presso giudici della medesima specie. L’immaginazione non può rendere savi i folli, però li rende felici, con dispetto della ragione, la quale non può rendere i suoi amici altro che miserandi. L’una li copre di gloria, l’altra di vergogna. Chi dispensa la reputazione? Chi attribuisce il rispetto e la venerazione alle persone, alle opere, alle leggi, ai grandi, se non questa facoltà immaginativa? Tutte le ricchezze della terra, come sono insufficienti senza il suo consenso! Non direste che questo magistrato, la cui veneranda canizie impone rispetto a tutto un popolo, si regola con una ragione pura e sublime e giudica le cose per la loro vera natura, senza arrestarsi a quelle vane contingenze che colpiscono soltanto l’immaginazione dei deboli? Guardatelo entrare alla predica, portandovi uno zelo devoto e rafforzando la solidità della sua ragione con l’ardore della sua carità. Eccolo disposto all’ascolto con una deferenza esemplare. Si presenti il predicatore, e la natura gli abbia dato una voce roca e una fisionomia stramba, il suo barbiere lo abbia rasato male e per di

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più si sia accidentalmente imbrattato: per quanto grandi verità egli dica, scommetto che il nostro senatore perde la sua gravità. Il massimo filosofo del mondo su di un asse anche più largo del necessario, se sotto ha un precipizio, pur convinto dalla ragione di essere al sicuro, la sua immaginazione avrà il sopravvento. Molti non riuscirebbero a sostenerne il pensiero senza impallidire e sudare. Non intendo riferire tutti i suoi effetti. Chi non sa che la vista dei gatti, dei topi, calpestare un tizzone ecc. fanno uscire la ragione dai suoi cardini? Il tono della voce impressiona i più saggi e altera l’efficacia di un discorso e di un poema. La simpatia o l’avversione mutano il volto della giustizia; e un avvocato ben pagato in anticipo come trova più giusta la causa che difende! Il suo gesto ardito come la fa apparire migliore ai giudici, ingannati da quella parvenza! Buffa ragione, che un soffio scuote, e in tutte le direzioni. Potrei riferire quasi tutte le azioni degli uomini: essi barcollano quasi solo per i suoi scossoni. La ragione fu costretta a cedere, e la più saggia assume come suoi principi quelli che l’immaginazione degli uomini ha introdotto temerariamente dappertutto. (Bisogna, poiché così è piaciuto, lavorare tutto il giorno per beni riconosciuti come immaginari. E quando il sonno ci ha rinfrancati dalle fatiche della nostra ragione, balzare subito in piedi per andare a correre dietro alle nuvole e piegarsi alle impressioni di questa dominatrice del mondo). I nostri magistrati hanno capito bene questo mistero. Le loro toghe rosse, i loro ermellini in cui si avvolgono come gatti impellicciati, i palazzi dove giudicano, i fiordalisi, tutto questo augusto apparato era assolutamente necessario. Così i medici se non avessero sottane e babbucce, i dottori se non avessero berrette quadrate e toghe ampie quattro volte tanto, mai avrebbero ingannato il mondo, incapace di resistere a questa pompa così genuina. Se quelli possedessero la vera giustizia e i medici la vera arte di guarire, non saprebbero che fare di berrette quadrate; la maestà delle loro scienze sarebbe abbastanza venerabile da sé sola. Senonché, possedendo soltanto delle scienze immaginarie, hanno bisogno di assumere questi vani arnesi che colpiscono l’immaginazione, con la quale hanno a che fare. E in effetti, così si attirano il rispetto.

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Solo i militari non si travestono in questa maniera, perché la loro parte è effettivamente più sostanziale. Essi s’impongono con la forza, gli altri col cipiglio. Perciò i nostri re hanno ricercato simili travestimenti. Per apparire re non si sono mascherati con abiti insoliti ma si sono scortati di guardie e scherani. Quelle truppe armate, che hanno mani e forza soltanto per loro, le trombe e i tamburi che li precedono e quelle legioni che li circondano, fanno tremare gli spettatori più saldi. Non hanno l’abito, hanno semplicemente la forza. Bisognerebbe avere una ragione ben raffinata per guardare come un uomo qualsiasi il Gran Signore circondato, nel suo superbo serraglio, da quarantamila giannizzeri. Noi non possiamo nemmeno vedere un avvocato in sottana e con la berretta in testa senza avere un’opinione favorevole della sua capacità. L’immaginazione dispone di tutto. Produce la bellezza, la giustizia, la felicità, che è il tutto di questo mondo. Mi piacerebbe vedere quel libro italiano, di cui conosco unicamente il titolo, che vale da solo molti libri: Dell’opinione Regina del mondo. Lo sottoscrivo senza conoscerlo, eccetto il male che vi sia. Tali sono più o meno gli effetti di questa facoltà ingannatrice, che sembra ci sia stata data apposta per indurci in un errore necessario. Ne abbiamo molti altri motivi. Le impressioni inveterate non sono le sole capaci di trarci in inganno. Le seduzioni della novità hanno lo stesso potere. Da qui deriva ogni disputa fra gli uomini, i quali si rimproverano o di seguire le false impressioni dell’infanzia o di correre sconsideratamente dietro le nuove. Chi tiene il giusto mezzo si faccia avanti e lo provi. Non vi è principio, per naturale che possa essere, anche posteriore all’infanzia, che non si possa far passare per una falsa impressione sia dell’istruzione sia dei sensi.

«Poiché – ci si dice – avete creduto sin dall’infanzia che una cassetta è vuota quando dentro non vedete nulla, avete creduto possibile il vuoto. È un’illusione dei vostri sensi, rafforzata dall’abitudine, che dev’essere corretta dalla scienza». E altri: «Dicendovi a scuola che non esiste vuoto, si è corrotto il vostro senso comune, che pri-

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ma di questa impressione sbagliata lo comprendeva nettamente: per cui dovete correggerla ritornando alla vostra natura primitiva». Chi dunque ci ha ingannato: i sensi o l’istruzione? Altro principio di errore per noi, le malattie. Esse ci corrompono il giudizio e la percezione; e se le grandi li alterano sensibilmente, non dubito affatto che le piccole non vi lascino la loro impronta in proporzione. Il nostro tornaconto è un altro straordinario strumento per accecarci piacevolmente. L’uomo più equanime del mondo non riesce a essere buon giudice nella propria causa. Ne conosco che per non cadere in questa inclinazione verso se stessi sono stati i più ingiusti in senso opposto; il mezzo sicuro per perdere una causa del tutto giusta era di fargliela raccomandare da un loro parente stretto. La giustizia e la verità sono due punte così sottili che i nostri strumenti sono troppo ottusi per aderirvi esattamente. Se ci arrivano, ne smussano la punta e si sostengono all’intorno, più sul falso che sul vero. (L’uomo è dunque costruito in un modo così felice, da non possedere alcun principio giusto del vero e molti eccellenti del falso. Vediamo ora quanti. Ma la causa più buffa dei suoi errori è però la guerra esistente fra i sensi e la ragione). L’uomo non è che un soggetto pieno di errore naturale e ineliminabile senza la grazia. Nulla gli mostra la verità. Tutto lo inganna. I due principi di verità, la ragione e i sensi, oltre a essere entrambi infidi, s’ingannano reciprocamente. I sensi ingannano la ragione con false apparenze, e questa stessa frode fatta all’anima la subiscono a loro volta da lei, che si prende la sua rivincita. Le passioni dell’anima intorbidano i sensi e vi producono impressioni false. È una gara di menzogne e di inganni.

L’ Ecclesiaste insegna che l’uomo senza Dio è nell’ignoranza totale e in un’infelicità inevitabile. Volere e non potere è essere infelici. Ma l’uomo vuole essere felice e sicuro di qualche verità; senonché non può né sapere né non desiderare di sapere. Non può nemmeno dubitare.

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Il tedio che si sente nel lasciare le occupazioni a cui si è attaccati. Un uomo vive contento nella sua famiglia; vede una donna che gli piace, gioca cinque o sei giorni con gusto, ed eccolo infelice se torna alla sua prima occupazione. Nulla è più comune.

I principali spunti dei pirroniani – tralascio i minori – sono questi: noi, fuorché per fede e rivelazione, non abbiamo alcuna certezza che questi principi siano veri, se non in quanto ne abbiamo in noi una percezione naturale. Ora, questa percezione naturale non è una prova convincente della loro verità: mancando la certezza, fuorché per fede, che l’uomo sia stato creato da un Dio buono, da un demone cattivo o a caso, rimane in dubbio se questi principi ci siano stati dati veri o falsi o incerti a seconda della nostra origine. Inoltre essi dicono che nessuno è certo, fuorché per fede, di essere sveglio o dormire, poiché durante il sonno si crede fermamente di essere svegli come quando lo si è. (Come spesso si sogna di sognare, accumulando un sogno sull’altro, non può essere che questa metà della vita in cui pensiamo di essere svegli non sia essa pure un sogno, sul quale si sono innestati gli altri, e dal quale ci svegliamo al momento della morte? E nel suo corso possediamo i principi del vero e del bene così poco come durante il sogno naturale, poiché tutto questo scorrere del tempo e della vita e questi diversi corpi che percepiamo, questi diversi pensieri che ci agitano, forse non sono che illusioni, simili al trascorrere del tempo e alle vane apparizioni dei nostri sogni?). Crediamo di vedere gli spazi, le figure, i movimenti; sentiamo trascorrere il tempo, lo misuriamo, e insomma, ci comportiamo come da svegli. Perciò, essendo che metà della nostra vita, per nostra stessa confessione, trascorre nel sonno, durante il quale, qual che sia la nostra impressione, non abbiamo alcuna idea del vero poiché tutti i nostri sentimenti sono allora illusioni, chissà che quest’altra metà della vita in cui ci crediamo svegli non sia un altro sonno un po’ diverso dal precedente, dal quale ci svegliamo allorché crediamo di dormire? Questi gli spunti principali dei due partiti. Tralascio i meno importanti, quali i discorsi dei pirroniani a carico delle suggestioni

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dell’abitudine, dell’educazione, dei costumi locali e simili, che, pur influenzando la maggior parte degli uomini comuni, i cui assiomi non hanno se non questi vani fondamenti, crollano al minimo soffio dei pirroniani. Non ha che da guardare i loro libri chi non ne è abbastanza convinto, e lo diventerà molto presto e forse anche troppo. Mi soffermerò sull’unico punto forte dei dogmatici, ossia che quando si parla in buona fede e sinceramente, non si può dubitare dei principi naturali. I pirroniani vi oppongono, in sintesi, l’incertezza della nostra origine, che implica quella della nostra natura. Al che i dogmatici sono ancora lì a rispondere dacché il mondo è mondo. Ecco la guerra aperta fra gli uomini, guerra in cui ognuno deve prendere partito e schierarsi necessariamente o col dogmatismo o col pirronismo. Chi pensasse di rimanere neutrale sarà pirroniano perfetto: questa neutralità è l’essenza della loro cabala. Invece chi non è contro di loro è perfettamente con loro: essi non parteggiano per sé, sono neutri, indifferenti, sospesi su tutto, non esclusi se stessi. Cosa farà dunque l’uomo, in questa condizione? Dubiterà di tutto? Dubiterà se sia sveglio, se lo pizzicano, se lo bruciano? Dubiterà di dubitare? Dubiterà di esistere? Non si può giungere a tanto e dò per certo che non c’è mai stato in realtà un pirroniano rigoroso. La natura soccorre la ragione impotente e le impedisce di deragliare fino a questo punto. Dirà dunque l’uomo, al contrario, di possedere con certezza la verità, lui che, per poco che lo si solleciti, non può esibirne nessun titolo ed è costretto a lasciare la presa? Quale chimera è dunque l’uomo? Quale stranezza, quale mostruosità, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio, giudice di tutte le cose, debole verme di terra, depositario del vero, cloaca d’incertezza e di errore, gloria e rifiuto dell’universo. Chi sbroglierà questo groviglio? (Ciò trascende certamente il dogmatismo come il pirronismo e l’intera filosofia umana. L’uomo trascende l’uomo. Concediamo pure ai pirroniani ciò che hanno lungamente proclamato, ossia che la verità non è alla nostra portata, non è un bottino per noi, non risiede in terra ma è di casa in cielo, dimora nel grembo di Dio conoscibile solo nella misura che a lui

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piace rivelarla. Impariamo dunque dalla verità increata e incarnata la nostra vera natura. Non si può essere pirroniani senza comprimere la natura, non si può essere dogmatici senza rinunciare alla ragione). La natura confonde i pirroniani e la ragione confonde i dogmatici. Che diverrete dunque, o uomo, che cercate di conoscere con la vostra ragione naturale la vostra vera condizione? Non potete fuggire né l’una né l’altra di queste sette, e nemmeno stare saldi in nessuna. Cercate dunque di conoscere, o superbo, quale paradosso siete per voi stessi! Umiliatevi, ragione impotente! Tacete, debole natura! Imparate che l’uomo supera infinitamente l’uomo e ascoltate dal vostro Maestro la vostra vera condizione, che ignorate. Prestate ascolto a Dio. Perché alla fine, se l’uomo non fosse mai stato corrotto, godrebbe sicuro, nella sua innocenza, sia della verità sia della felicità; se invece fosse stato sempre corrotto, non avrebbe alcuna idea né della verità né della felicità. Ma, sventurati che siamo, e più che se nella nostra condizione non vi fosse nulla di grande, abbiamo un’idea della felicità senza poterla conseguire; percepiamo un’immagine della verità senza possedere che la menzogna, incapaci di ignorare del tutto e di sapere con certezza, tanto è manifesto che siamo stati in un grado di perfezione dal quale siamo malauguratamente caduti. Fatto stupefacente, tuttavia, che il mistero più remoto dalla nostra conoscenza, quello della trasmissione del peccato, sia una cosa senza la quale non possiamo avere alcuna conoscenza di noi stessi. Infatti è fuor di dubbio che nulla urta maggiormente la nostra ragione del dire che il peccato del primo uomo ha reso colpevoli coloro che, per essere lontanissimi da quella origine, sembrano incapaci di condividerlo. Tale flusso non ci sembra solo impossibile, ma anche molto iniquo. Infatti cosa vi è di più contrario alle regole della nostra miserabile giustizia, che la dannazione eterna di un bimbo incapace di volere, per un peccato in cui sembra avere ben poca parte, essendo stato commesso seimila anni prima che egli esistesse? Nulla certamente ci urta più rudemente di questa teoria. Eppure, senza questo mistero più incomprensibile di ogni altro, noi siamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione

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prende i suoi intrichi e i suoi rigiri in questo abisso. Per cui l’uomo è più inconcepibile all’uomo. (Di qui appare che Dio, per riservare a se solo il diritto di istruirci su noi stessi, e volendo rendere a noi stessi inintelligibile la complessità del nostro essere, ne ha nascosto il nodo così in alto, o meglio, così in basso, che eravamo affatto incapaci di giungervi. Per cui non è con le superbe agitazioni della nostra ragione, ma con l’umile sottomissione della ragione che riusciamo a conoscerci davvero. Questi fondamenti, solidamente stabiliti sull’autorità inviolabile della religione, ci fanno conoscere che vi sono due verità di fede ugualmente salde; l’una, che l’uomo nello stato della creazione o in quello della grazia è elevato al di sopra di tutta la natura, reso come simile a Dio e partecipe della divinità; l’altra, che nello stato della corruzione e del peccato è decaduto da quello stato e reso simile alle bestie. Questi due enunciati sono ugualmente fermi e sicuri. La Scrittura ce li dà a vedere chiaramente quando dice in alcuni punti: Deliciae meae esse cum filiis hominum. Effundam spiritum meum super omnem carnem. Dii estis ecc.; mentre in altri dice: Omnis caro foenum. Homo assimilatus est immentis insipientibus et similis factus est illis. Dixi in corde meo de filiis hominum (Ecclesiaste, 3). Onde si vede chiaramente che l’uomo mediante la grazia è reso come simile a Dio e partecipe della sua divinità, e che senza la grazia è assimilato ai bruti).

Non si è miserabili se non se ne ha la percezione; una casa distrutta non lo è. Soltanto l’uomo è miserabile. Ego vir videns [Lamentazioni].

RAGIONE DEGLI EFFETTI La debolezza dell’uomo è la causa di tante bellezze fittizie; così il non saper suonare bene il liuto è un male solo a causa della nostra debolezza.

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MISERIA Bassezza dell’uomo, fino a sottomettersi alle bestie, fino ad adorarle.

Quando considero la corta durata della mia vita, sommersa nell’eternità che la precede e che la segue – memoria hospitis unius diei praetereuntis [Sapienza], – il piccolo spazio che io occupo o anche vedo, inabissato nell’infinita immensità degli spazi che io ignoro e che m’ignorano, mi atterrisco e stupisco di vedermi qui anziché là, poiché non vi è nessuna ragione per cui sia qui anziché là, per cui oggi anziché ieri. Chi mi ha messo? Per l’ordinamento e il governo di chi mi è stato destinato questo luogo e questo tempo?

La natura dell’amor proprio, di questo io umano è di non amare che se stessi e non considerare che se stessi. Ma come farà? Non può impedire che questo oggetto amato sia pieno di difetti e di miseria: vuol essere grande, e si vede piccolo; vuol essere felice, e si vede miserabile; vuol essere perfetto, e si vede pieno di imperfezioni; vuol essere oggetto dell’amore e della stima degli uomini, e vede che i suoi difetti meritano solamente la loro avversione e il loro disprezzo. Questo intrico in cui si ritrova produce in lui la più iniqua e delittuosa passione che si possa immaginare, poiché concepisce un odio mortale contro la verità, che lo riprende e lo convince dei suoi difetti. Vorrebbe annientarla, e non potendo distruggerla in lei stessa la distrugge, per quanto gli è possibile, nella sua consapevolezza e nella conoscenza degli altri; ossia mette ogni cura a nascondere i suoi difetti sia agli altri sia a se stesso, e non può tollerare né che gli siano fatti vedere né che siano visti. È certamente un male essere pieno di difetti; ma è un male ancora più grande esserne pieni e non voler riconoscerli, poiché così vi si aggiunge anche quello di un’illusione volontaria. Non vogliamo che gli altri ci ingannino, non troviamo giusto che pretendano di essere stimati da noi più del loro merito. Non è dunque nemmeno giusto

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che li inganniamo e che pretendiamo di essere stimati da loro più del nostro merito. Così, quando non scoprono altro che imperfezioni e difetti che in realtà abbiamo, è chiaro che non ci fanno torto, poiché non ne sono loro la causa, e ci fanno del bene, poiché ci aiutano a liberarci da un male, ossia dall’ignoranza di quelle imperfezioni. Non dobbiamo irritarci che le conoscano e ci disprezzino, poiché è giusto sia che ci conoscano per ciò che siamo, sia che ci disprezzino, se siamo spregevoli. Questi i sentimenti che nascerebbero da un cuore pieno di verità e di giustizia. Quindi noi, cosa dobbiamo dire del nostro, vedendovi un atteggiamento del tutto opposto? Non è forse vero che odiamo la verità e chi ce la dice, e che ci garba che essi s’ingannino a nostro vantaggio, e che vogliamo essere creduti diversi da come siamo realmente? Eccone una prova che mi fa orrore. La religione cattolica non obbliga a rivelare i propri peccati a tutti indistintamente. Ammette che si rimanga sconosciuti a tutti gli altri uomini, tranne uno solo, al quale ordina di scoprire il fondo del proprio cuore e di mostrarsi quali si è. Non vi è fra tutti che quest’unico uomo che la Chiesa ci ordina di disilludere, con l’obbligo per lui a un segreto inviolabile, per cui questa conoscenza è dentro di lui come se non vi fosse. Si può immaginare nulla di più caritatevole e di più discreto? Eppure è tale la corruzione dell’uomo, ch’egli trova questa legge ancora troppo dura; e questo è uno dei principali motivi che ha fatto insorgere contro la Chiesa gran parte dell’Europa. Quanto dev’essere ingiusto e irragionevole il cuore umano, per trovare nefando che lo si obblighi a fare con un uomo ciò che sarebbe giusto, in certo qual modo, ch’egli facesse con tutti gli uomini! È infatti giusto che li inganniamo? Vi sono diversi gradi in questa avversione per la verità, ma si può dire che in qualche misura se ne trova in tutti, poiché è inseparabile dall’amor proprio. È questa delicatezza distorta che obbliga chi si trova nella necessità di riprendere gli altri a scegliere tanti giri di parole e di attenuazioni per evitare di urtarli. Deve sminuire i nostri difetti, mostrare di scusarli, mescolarvi lodi e testimonianze di af-

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fetto e di stima. Con tutto ciò, questa medicina non cessa di essere amara all’amor proprio. Il quale ne prende il meno che può, e sempre con ripugnanza, sovente addirittura con un coperto disprezzo contro chi gliela porge. Ne consegue che chi ha qualche interesse ad essere amato da noi, evita di renderci un servizio che sa per noi sgradevole. Veniamo trattati come vogliamo esserlo: odiamo la verità, e gli altri ce la nascondono; vogliamo essere lusingati, e ci lusingano; amiamo essere ingannati, e c’ingannano. Perciò ogni gradino sulla scala della fortuna che ci eleva nel mondo, ci allontana sempre più dalla verità; infatti cresce il timore di ferire coloro la cui benevolenza è più utile e l’ostilità più pericolosa. Un principe è la favola di tutta Europa, e solo lui non ne sa nulla. Non mi stupisco: dire la verità è utile a colui al quale si dice, ma svantaggioso a chi la dice, poiché si fa odiare. Ora, coloro che vivono con i principi amano più i loro interessi di quello del principe che servono; così si guardano bene dal rendergli un servizio danneggiando se stessi. Tale sventura è indubbiamente più grande e più comune nelle condizioni più elevate; ma anche le inferiori non ne sono esenti, poiché si ha sempre qualche interesse a farsi amare dagli uomini. Così la vita umana non è che un’illusione perpetua; non si fa che ingannarsi e adularsi a vicenda. Nessuno parla di noi in nostra presenza nel modo in cui parla in nostra assenza. La società umana non è fondata che su questo reciproco inganno, e poche amicizie sussisterebbero se ognuno sapesse ciò che il suo amico dice di lui quando non c’è, sebbene allora ne parli con sincerità e senza passione. L’uomo non è dunque se non una mascheratura, menzogna e ipocrisia, in se stesso e verso gli altri. Egli non vuole che gli si dica la verità ed evita di dirla agli altri. E tutte queste inclinazioni, così remote dalla giustizia e dalla ragione, hanno una radice naturale nel suo cuore.

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III CONDIZIONE DELL’UOMO

L’uomo non sa a quale livello porsi. È evidentemente smarrito e caduto dalla sua vera collocazione senza poter ritrovarla. La cerca dappertutto con inquietudine e senza successo, entro tenebre impenetrabili. UOMO. SPROPORZIONE DELL’UOMO (Ecco dove ci conducono le conoscenze naturali: se non sono vere, non esiste verità nell’uomo; se lo sono, egli vi trova un grande motivo di umiliazione, perché costretto ad abbassarsi in un modo o nell’altro. E poiché non può vivere senza credere nelle conoscenze naturali, mi auguro che prima di addentrarsi in più profonde ricerche sulla natura egli consideri per una volta seriamente e con calma, e osservi anche se stesso; e conoscendo quale proporzione c’è ...). L’uomo contempli dunque la natura intera nella sua alta e piena maestà, ritragga il suo sguardo dai bassi oggetti circostanti, guardi quella luce sfolgorante posta come una lampada eterna a illuminare l’universo; la terra gli appaia come un punto rispetto all’ampio giro descritto da quell’astro, e si meravigli che quell’ampio giro non sia anch’esso se non una punta sottilissima a confronto di quello che abbracciano gli astri rotanti nel firmamento. Ma se lì la nostra vista si arresta, la nostra immaginazione proceda. Si estenuerà di concepire prima che la natura di nutrirla. Tutto questo mondo visibile non è che un segmento impercettibile nell’ampio grembo della natura. Nessuna idea vi si avvicina. Possiamo pur espandere le nostre concezioni al di là degli spazi immaginabili, produciamo soltanto atomi a paragone con la realtà delle cose, sfera infinita il cui centro

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è in ogni dove e la circonferenza in nessun luogo. Infine, è il più grande marchio percepibile dell’onnipotenza di Dio il naufragare della nostra immaginazione in tale pensiero. Tornato a sé, l’uomo consideri ciò ch’egli è a confronto con l’esistente; si veda come smarrito in questo riposto angolo della natura, e dalla piccola segreta di carcere dove è messo, intendo dire l’universo, impari a stimare al loro giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso. Cos’è un uomo, nell’infinito? Ma per sottoporgli un altro prodigio ugualmente meraviglioso, cerchi fra le sue nozioni le cose più minute; un acaro gli mostri, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole, zampe con giunture, vene in queste zampe, sangue in queste vene, umori in questo sangue, gocce in questi umori, vapori in queste gocce; e suddividendo ancora queste ultime cose esaurisca le sue forze in tali immaginazioni, per cui l’ultimo oggetto al quale può giungere sia per ora quello del nostro ragionamento. Immaginerà probabilmente che quella sia l’estrema piccolezza della natura. Voglio mostrargli là dentro un nuovo abisso, voglio rappresentargli non soltanto l’universo visibile ma l’immensità immaginabile della natura nello spazio di questo compendio di atomo. Vi veda un’infinità di universi, ognuno dei quali ha un suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile; in quella terra, animali, e finalmente gli acari, nei quali ritroverà ciò che i primi gli hanno mostrato; e trovando ancora negli altri la stessa cosa senza fine e senza tregua, si perderà in tali meraviglie tanto stupefacenti nella loro piccolezza quanto le altre nella loro vastità. Chi infatti non si stupirà che il nostro corpo, poc’anzi impercettibile nell’universo a sua volta impercettibile nel grembo del tutto, sia ora un colosso, un mondo, anzi un tutto rispetto al nulla, da noi inattingibile? Chi si osserverà in questo modo si sentirà atterrito di se stesso, e vedendosi sospeso, entro la massa che gli ha dato la natura, fra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di queste meraviglie, e credo che, mutandosi la sua curiosità in ammirazione, sarà più incline a contemplarle in silenzio che a indagarle con presunzio-

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ne. Perché infine, cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un medio fra il nulla e il tutto. Infinitamente lontano dalla comprensione degli estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto impenetrabile; ugualmente incapace d’intravedere il nulla donde è tratto e l’infinito dov’è inghiottito. Cosa farà dunque, se non percepire qualche parvenza del mezzo nelle cose, in un’eterna disperazione di conoscerne sia il principio sia la fine? Tutte le cose sono uscite dal nulla e spinte all’infinito. Chi terrà dietro a questi meravigliosi processi? L’autore di queste meraviglie le comprende. Nessun altro può. Per non aver contemplato questi infiniti, gli uomini si sono spinti temerariamente a indagare la natura, come se ci fosse qualche proporzione fra loro e lei. È strano che abbiamo voluto capire i principi delle cose e da questi giungere sino alla conoscenza del tutto, con una presunzione infinita come il loro oggetto. Infatti, non si può certamente concepire questo disegno senza una presunzione o una capacità infinite, quale la natura. Quando si è istruiti, si comprende che avendo la natura impresso in tutte le cose la sua immagine e quella del suo autore, esse partecipano quasi tutte della sua doppia infinità. Perciò vediamo che tutte le scienze sono infinite nell’estensione delle loro ricerche. Chi infatti dubita che la geometria, per esempio, ha un’infinità di infinità di proposizioni da esibire? Le scienze sono inoltre infinite nella moltitudine e nella sottigliezza dei loro principi. Perché chi non vede che quelli proposti per ultimi non si sostengono da se stessi ma si reggono su altri, i quali, reggendosi su altri ancora, non ne ammettono mai uno ultimo? Senonché noi ci comportiamo con gli ultimi che appaiono alla ragione come ci comportiamo con le cose materiali, dove chiamiamo punto indivisibile quello oltre il quale i nostri sensi non percepiscono più nulla, sebbene sia divisibile all’infinito e per sua natura. Dei due infiniti della scienza, quello della grandezza è assai più percepibile. Perciò è accaduto che pochi pretesero di conoscere ogni cosa. «Parlerò di tutto», diceva Democrito. (Ma oltre al fatto che ci

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vuol poco a dirlo semplicemente, senza provarlo e conoscerlo, è nondimeno impossibile farlo, poiché la moltitudine infinita delle cose ci è così nascosta che quanto possiamo esprimere con parole o pensieri ne è solo un segmento invisibile. Per cui è evidente la stoltezza, la presunzione e l’ignoranza del titolo di certi libri De omni scibili. Si vede di primo acchito che già l’aritmetica presenta infinite proprietà, e così ogni altra scienza). Ma l’infinito nel piccolo è assai meno visibile. I filosofi hanno sì presunto di raggiungerlo, ma tutti senza riuscirvi. Di lì i titoli così comuni di I principi delle cose, I principi della filosofia e simili, tanto pomposi nella realtà sebbene in apparenza meno di quell’altro così abbagliante De omni scibili. Naturalmente ci si crede molto più capaci di giungere al centro delle cose che di abbracciarne la circonferenza. L’estensione palese del mondo ci sopravanza palesemente, ma siccome siamo noi a sopravanzare le cose piccole, ci crediamo più capaci di dominarle. Eppure non occorre minore capacità per arrivare al nulla che al tutto. In entrambi i casi dev’essere infinita. E mi pare che chi avesse raggiunto gli ultimi principi delle cose potrebbe anche giungere alla conoscenza dell’infinito. Uno dipende dall’altro e l’uno conduce all’altro. Questi due estremi si toccano e si congiungono quanto più si allontanano, per ritrovarsi in Dio, e in Dio soltanto. Cerchiamo dunque di conoscere la nostra capacità: noi siamo qualcosa, e non siamo tutto. Il nostro essere ci toglie la conoscenza dei primi principi, prodotti dal nulla, e la sua pochezza ci nasconde la vista dell’infinito. Il nostro intelletto tiene nell’ordine delle cose intelligibili il medesimo posto del nostro corpo nell’estensione della natura. Limitati in tutti i campi, questa condizione intermedia fra due estremi si riscontra in tutte le nostre facoltà. I nostri sensi non percepiscono nulla di estremo. Un rumore eccessivo ci assorda, una luce eccessiva ci abbaglia, un’eccessiva distanza o vicinanza impedisce la vista. Un’eccessiva lunghezza o brevità rende oscuro il discorso, troppa verità ci stordisce. Conosco gente che non riesce a capire come 0 meno 4 resti 0. I primi principi sono per noi troppo evidenti. Troppo piacere c’incomoda, troppe consonanze

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spiacciono nella musica e troppi benefici irritano, poiché vorremmo avere di che ripagare il debito abbondantemente. Beneficia eo usque laeta sunt dum videntur exsolvi posse; ubi multum antevenere, pro gratia odium redditur [«I benefici sono più graditi se si crede di potersi sdebitare; quando eccedono di molto la misura, li si ricambia non con la gratitudine ma con l’astio», Tacito]. Noi non percepiamo né l’estremo caldo né l’estremo freddo, le qualità eccessive ci sono nemiche e non percepibili, non le percepiamo più, le soffriamo. Troppa giovinezza o troppa vecchiaia impaccia lo spirito; così la troppa o troppo poca istruzione. Insomma, le cose estreme sono per noi come inesistenti, e così noi rispetto a esse, esse sfuggono a noi o noi a esse. Tale è la nostra autentica condizione, ciò che ci rende incapaci di conoscenza certa e d’ignoranza totale. Voghiamo in un ampio spazio intermedio, sempre incerti e fluttuanti, spinti da un capo verso l’altro. Qualunque punto dove pensiamo di attaccarci e fissarci, vacilla e ci abbandona. Se lo seguiamo, si sottrae alla nostra presa e sguscia e fugge in una fuga eterna. Nulla si arresta per noi. È la nostra condizione naturale e tuttavia la più contraria alla nostra inclinazione. Ardiamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base ferma per costruirvi una torre che s’innalzi all’infinito, ma ogni nostro fondamento scricchiola e la torre si fende sino agli abissi. Non cerchiamo dunque sicurezza né stabilità. La nostra ragione è sempre frustrata dalla mutevolezza delle apparenze, nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono. Se si capirà ben bene questo, credo che si rimarrà quieti, ciascuno nello stato dove la natura lo ha posto. Poiché lo stato intermedio che ci è toccato in sorte rimane sempre distante dagli estremi, cosa importa che un altro abbia un po’ più di conoscenza delle cose? Quando ne ha, le prende un po’ più dall’alto: ma non rimane sempre infinitamente lontano dal termine? E la durata della nostra vita non rimane ugualmente infinitesima nell’eternità, anche se dura dieci anni di più? Di fronte a questi infiniti tutti i finiti sono uguali, e non vedo perché fissare la propria immaginazione sull’uno piuttosto che sull’altro. Il solo confronto col finito è doloroso.

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Se l’uomo cominciasse con lo studiare se stesso, vedrebbe quant’è incapace di andare oltre. Come potrebbe una parte conoscere il tutto? «Ma forse aspirerà a conoscere almeno le parti, con le quali ha qualche proporzione». Ma tutte le parti del mondo sono in tale rapporto e connessione fra loro, che credo impossibile conoscere l’una senza l’altra e senza il tutto. L’uomo, ad esempio, ha un rapporto con tutto ciò che conosce: ha bisogno di spazio che lo contenga, di tempo per durare, di moto per vivere, di elementi che lo compongano, di calore e di alimenti che lo nutrano, di aria per respirare. Vede la luce, sente i corpi, tutto insomma ha un nesso con lui. Per conoscere l’uomo occorre dunque sapere perché abbia quel collegamento con la vita dell’uomo ecc. La fiamma non resiste senza l’aria. Quindi per conoscere l’una occorre conoscere l’altra. Quindi, essendo tutte le cose causate e causanti, sostenute e sostenenti, mediate e immediate, e tutte strette da un legame naturale e impercettibile che lega le più lontane e le più diverse, ritengo impossibile conoscerne le parti senza conoscere il tutto, e ugualmente conoscere il tutto senza conoscere singolarmente le parti. (L’eternità delle cose in se stesse o in Dio deve ancora stupire la nostra breve durata. L’immobilità fissa e costante della natura, a fronte del continuo mutamento che avviene in noi, deve produrre il medesimo effetto). Ciò che completa la nostra impotenza a conoscere le cose è che sono semplici in se stesse, mentre noi siamo composti di due nature contrarie e di genere diverso, l’anima e il corpo. È infatti impossibile che la parte in noi che ragiona non sia spirituale. Chi sostenesse che siamo solo corporei, ci escluderebbe ancor più dalla conoscenza delle cose, nulla essendo così inconcepibile quanto l’affermazione che la materia conosce se stessa. Noi non riusciamo a conoscere come essa potrebbe conoscersi. E così, se siamo esseri semplici, materiali, non possiamo conoscere assolutamente nulla. E se siamo composti di spirito e materia, non possiamo conoscere perfettamente le cose semplici, siano spirituali o materiali.

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Ecco perché quasi tutti i filosofi confondono i concetti delle cose e parlano delle cose materiali spiritualmente e delle spirituali materialmente. Essi si lanciano a dire che i corpi materiali tendono al basso, aspirano al loro centro, cercano di evitare la propria distruzione, temono il vuoto, hanno inclinazioni, simpatie, antipatie: tutte proprietà dei soli spiriti. Parlando poi degli spiriti, li considerano come posti in un luogo e attribuiscono loro il movimento da un posto a un altro: che sono proprietà unicamente dei corpi. Anziché accogliere integri i concetti di queste cose, li tingiamo delle nostre qualità e impregniamo del nostro essere composto tutte le cose semplici che osserviamo. Chi non crederebbe, vedendoci fare di tutte le cose un composto di spirito e di corpo, che tale mescolanza ci sia pienamente comprensibile? Eppure è la cosa meno comprensibile. L’uomo è per se stesso il più prodigioso oggetto della natura, poiché non può immaginare cosa sia un corpo, e ancora meno uno spirito, e men che meno come un corpo possa essere unito a uno spirito. Questa è per lui la difficoltà suprema: eppure è il suo essere stesso: Modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab homine non potest, et hoc tamen homo est [«Il nesso degli spiriti con i corpi è incomprensibile per l’uomo; eppure questo nesso è l’uomo», sant’Agostino].

Ho passato buona parte della mia vita credendo che c’è una giustizia, e in questo non mi sbagliavo, perché c’è, secondo quanto Dio ha voluto rivelarci. Senonché ne avevo una percezione diversa, e in ciò mi sbagliavo, credendo che la nostra giustizia fosse per essenza giusta e che io avessi i mezzi per conoscerla e per giudicarne. Invece, tante volte mi sono trovato mancante di un giudizio retto, da diffidare alla fine di me e poi degli altri. Ho visto cambiare tutti i paesi e gli uomini. E così, dopo aver spesso cambiato giudizio nei riguardi della vera giustizia, ho riconosciuto che la nostra natura non è se non un continuo cambiamento, e da allora non sono più cambiato. E se cambiassi, confermerei la mia opinione. Il pirroniano Arcesilao, che tornò dogmatico.

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Può darsi che vi siano dimostrazioni vere, ma non è certo. Quindi ciò dimostra soltanto che non è certo che tutto sia incerto. A gloria del pirronismo. Quest’uomo così afflitto per la morte di sua moglie e del suo unico figlio, che ha quel grande processo che lo tormenta, come mai in questo momento non è triste e appare così privo di tutti questi pensieri penosi e inquietanti? Non c’è da stupirne: gli hanno appena servito una palla e deve rimandarla al suo compagno; è occupato a prenderla quando cade dal tetto per guadagnare un punto. Come pretendere che pensi alle sue faccende, avendo quest’altra da trattare? Ecco una faccenda degna di occupare questa grande anima e di eliminare ogni altro pensiero dalla sua mente Quest’uomo nato per conoscere l’universo, per giudicare di tutte le cose, per ordinare un intero Stato, eccolo lì impegnato e preoccupato di catturare una lepre. E se non si abbassa a tanto e vuol rimanere sempre teso, sarà ancora più sciocco, perché vorrà elevarsi al di sopra dell’umanità, mentre in fin dei conti non è che un uomo, ossia un essere capace di poco e di molto, di tutto e di niente. Non è né angelo né bestia, bensì un uomo. Un solo pensiero ci occupa. Non possiamo pensare a due cose contemporaneamente. Che è un bene per noi, secondo il mondo, non secondo Dio.

Questa duplicità dell’uomo è così evidente che qualcuno ha pensato che abbiamo due anime. Un soggetto semplice sembrava loro incapace di tali e così subitanee variazioni, da una presunzione smisurata a una spaventosa prostrazione del cuore. DISTRAZIONE «Se l’uomo fosse felice, lo sarebbe tanto più, quanto meno si distraesse; come i santi e Dio». «Sì, ma non è forse felicità il potersi rallegrare mediante la distrazione?». «No, perché viene da altrove e da fuori, per cui egli è dipendente e quindi soggetto al disturbo di mille accidenti che rendono le sofferenze inevitabili».

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Gli uomini, non avendo potuto sanare la morte, la miseria, l’ignoranza, per rendersi felici hanno escogitato di non pensarci. Nonostante queste miserie, egli vuol essere felice, non vuole essere che felice, e non può non volerlo. Ma come fare? Per ottenerlo dovrebbe rendersi immortale. Ma siccome non può, ha escogitato d’impedirsene il pensiero.

Sento che sarei potuto non esistere affatto, poiché il mio io consiste nel mio pensiero. Quindi io che penso non sarei esistito se mia madre fosse stata uccisa prima che io avessi ricevuto la vita. Quindi non sono un essere necessario. Non sono nemmeno eterno né infinito. Però vedo bene che c’è nella natura un essere necessario, eterno e infinito.

Quando, talvolta, mi sono posto a considerare le varie agitazioni degli uomini, i pericoli e le pene a cui si espongono a Corte o in guerra, l’origine di tante dispute, passioni, imprese audaci e spesso rovinose ecc., ho spesso detto che tutta l’infelicità degli uomini ha una sola provenienza, ossia di non saper restare tranquilli in una stanza. Un uomo che abbia mezzi sufficienti per vivere, se sapesse restare con piacere a casa propria, non ne uscirebbe per andar sul mare o sull’assedio di una fortezza. Non si comprerebbe a così caro prezzo una carica militare se non si trovasse insopportabile il rimanere fermi in città. E non si cercano le conversazioni e lo svago dei giochi per altro, che perché non si riesce a restare a casa propria con piacere. Ecc. Ma considerando la cosa più da vicino e volendo, dopo trovata la causa di tutti i nostri malanni, scoprirne anche le ragioni, ho trovato che ve n’è una realissima, consistente nell’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale e tanto misera che nulla ci può consolare allorquando la consideriamo da vicino. Di tutte le condizioni immaginabili, in cui si riuniscano tutti i beni che noi possiamo avere, la regalità è il più bel sito del mondo. Eppure se ne immagini uno scortato da tutte le soddisfazioni che gli

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possano piacere. Senza distrazioni, lasciato a considerare e a riflettere su ciò che è, quella sua languida felicità non riuscirà a sorreggerlo. Piomberà necessariamente nelle visioni minacciose delle rivolte che possono succedere, e comunque della morte e delle malattie, che sono inevitabili. Per cui, senza ciò che si chiama distrazione, eccolo infelice, e più infelice dell’ultimo dei suoi sudditi che gioca e si distrae. Da qui deriva che il gioco e la conversazione delle donne, la guerra, i grandi impieghi sono così ricercati. Non è che vi si trovi effettivamente la felicità, né si suppone che la beatitudine vera risieda nel possedere il denaro che si può vincere al gioco o nella lepre che si rincorre. Non li vorremmo se ci fossero offerti in dono. Non cerchiamo questo acquisto fiacco e piano e che ci lascia al pensiero della nostra condizione infelice, né cerchiamo i pericoli della guerra e le tribolazioni degli impieghi, bensì il trambusto che ci distoglie da quel pensiero e ci distrae. Ragione per cui si ama più la caccia che la preda. Da qui deriva che gli uomini amano tanto il chiasso e il trambusto; che la prigione è un supplizio così orrendo; che il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile. E infine, è il più grande motivo di felicità nella condizione dei re il fatto che si cerca senza sosta di distrarli e di procurare loro ogni sorta di piaceri. Il re è attorniato da gente che non pensa ad altro se non a distrarlo e a impedirgli di pensare a se stesso. Infatti, per re che sia, è infelice se vi pensa. Questo è tutto ciò che gli uomini hanno saputo inventare per rendersi felici. Quanti vi fanno sopra della filosofia e giudicano il mondo ben poco ragionevole perché passa l’intera giornata a rincorrere una lepre che non si vorrebbe aver comprato, non conoscono affatto la nostra natura. Quella lepre non ci preserverebbe dalla visione della morte e delle miserie, che da lei ci distolgono, ma la caccia sì. Il consiglio dato a Pirro di prendersi quel riposo che andava cercando con tanti disagi, comportava molte difficoltà. Così pure, all’obiezione che l’oggetto di una ricerca tanto ardente non riuscirebbe a soddisfarli, se riflettessero bene dovrebbero replicare che lì essi non cercano altro se non un’occupazione violenta e vorticosa che li distoglie dal pensare a se stessi; per questo si

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pongono innanzi un oggetto attraente, che li seduce e li attrae ardentemente (il ballo: bisogna pur pensare dove mettere i piedi). In tal modo lascerebbero i loro avversari senza replica. Invece non rispondono così, poiché non si conoscono. Non sanno di cercare la caccia e non la preda (il signore è convinto sinceramente che la caccia sia un piacere grande, e un piacere regale; ma il suo battitore non la pensa così). Essi suppongono che, ottenuta quella carica, godranno poi di una piacevole quiete: e non percepiscono la natura insaziabile della loro cupidigia. Credono di cercare sinceramente la quiete, mentre in realtà cercano soltanto l’agitazione. Un segreto istinto, riflesso della percezione delle loro continue miserie, li spinge a cercare lo svago e l’occupazione fuori di loro; mentre un altro istinto segreto, residuo della grandezza della nostra natura primitiva, fa conoscere loro che la felicità vera non si trova che nella quiete, non nel trambusto. Da questi due istinti opposti si forma in essi un progetto confuso, nascosto alla loro vista nel fondo dell’anima, che li spinge a cercare la quiete mediante l’agitazione e a immaginare sempre che la soddisfazione che loro manca, arriverà se, superando qualche difficoltà che pur prevedono, potranno aprirsi per questa via la porta della quiete. Così scorre tutta la vita. Si cerca la quiete lottando contro certi impedimenti, e una volta superati, essa diviene insopportabile per il tedio che produce. Bisogna uscirne e mendicare il trambusto. Si pensa infatti o alle miserie attuali o a quelle incombenti. Quand’anche ci si vedesse sufficientemente al riparo da ogni parte, il tedio, di suo proprio arbitrio, non mancherebbe di uscire dal fondo del cuore, ove ha radici naturali, e di riempire lo spirito del suo veleno. L’uomo dunque è così sventurato, che si annoierebbe anche senza alcun motivo di noia, semplicemente per la sua conformazione. Ed è così fatuo che, pur pieno di mille cause essenziali di noia, basta una cosa da nulla, un bigliardo e una palla da lui spinta, per distrarlo. Ma, direte, qual è il suo scopo in tutto questo? Vantarsi domani fra gli amici di aver giocato meglio di un altro. Così altri sudano

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nel loro studiolo per mostrare ai dotti di aver risolto un problema di algebra sino a oggi insoluto. E molti altri si espongono ai rischi estremi per vantarsi poi di una piazzaforte da loro espugnata, altrettanto scioccamente, per il mio gusto. Altri infine si accoppano per rilevare tutte queste cose, non allo scopo di diventare più saggi ma solo per mostrare che lo sanno; e costoro sono i più sciocchi della combriccola, poiché lo sono consapevolmente, mentre degli altri si può pensare che non lo sarebbero più se avessero questa consapevolezza. Quel tale passa la vita senza annoiarsi, giocando ogni giorno un po’ di roba. Regalategli ogni mattina il denaro che può guadagnare nel corso della giornata, a condizione che non giochi, e lo rendete infelice. Si dirà forse che cerca il trastullo del gioco, non il guadagno. Ebbene, fatelo giocare per niente, ed egli non si riscalderà, si annoierà. Deve riscaldarsi e illudere se stesso immaginando che sarà felice di vincere ciò che non vorrebbe ricevere in dono a patto di non giocare; così si crea un fomite di passione e su quello eccita la sua brama, la sua collera, i suoi timori verso lo scopo che si è dato, come i bambini che si spaventano al vedere la faccia da loro stessi impiastricciata. Da dove deriva che questo tale, che ha perso da pochi mesi il suo unico figlio e, oberato da processi e querele, questa mattina era così sconvolto, adesso non ci pensa più? Non stupitevi, è tutto occupato a scrutare per dove passerà questo cinghiale inseguito da sei ore con tanto slancio dai suoi cani. Non ci vuole di più. L’uomo, per quanto colmo di tristezza, se si riesce a introdurlo in qualche svago eccolo felice per quel tempo; mentre, per quanto felice egli sia, se manca di distrazione e non sia occupato da qualche passione o da qualche trastullo che impedisce alla noia di diffondersi, sarà ben presto crucciato e infelice. Senza distrazione non vi è gioia, con la distrazione non vi è tristezza. Il benessere dei personaggi di alto rango è costituito proprio da questo, che dispongono di un certo numero di persone le quali li distraggono, e possono mantenersi in questo stato. Considerate: l’essere sovrintendente, cancelliere, primo presidente, che altro è se non trovarsi in una condizione dove fin dal mattino

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si ha una frotta di gente che accorre da tutte le parti per non lasciar loro una sola ora della giornata in cui possano pensare a se stessi? E quando cadono in disgrazia e vengono rispediti nelle loro case di campagna, dove pur non mancano né di beni né di domestici per assisterli nei loro bisogni, non smettono di sentirsi miseri e relitti, poiché nessuno impedisce loro di pensare a se stessi.

La dignità regale non è forse abbastanza grande da sé, per colui che la possiede, da renderlo felice con la sola visone del proprio stato? Sarà necessario distrarlo da questo pensiero come la gente comune? Vedo bene che si rende felice un uomo distraendolo dallo spettacolo delle sue miserie domestiche per riempire tutta la sua mente della preoccupazione di ballar bene; ma accadrà la medesima cosa a un re, e sarà egli più felice dedicandosi a questi futili trastulli o guardando alla sua grandezza? Quale oggetto più appagante potrebbe offrirsi alla sua mente? Non sarebbe fare un torto al suo compiacimento se si occupasse il suo animo col pensiero di come adattare i suoi passi al ritmo di un’aria musicale, o a lanciare con destrezza una spranga, anziché lasciarlo godere tranquillamente della contemplazione della gloria maestosa che lo circonda? Se ne faccia l’esperimento. Si lasci un re tutto solo, senza alcuna soddisfazione dei sensi, senza alcuna occupazione della mente, senza compagnie, a pensare comodamente a se stesso: si vedrà che un re senza distrazioni è un uomo colmo di miserie. Perciò si evita accuratamente questo evento. Egli non manca mai di essere attorniato da un gran numero di persone deste a far seguire agli affari di Stato il divertimento e sollecite a procurare in tutto il tempo d’ozio piaceri e svaghi, così che non ci sia mai un vuoto. Ossia, i re sono attorniati da persone straordinariamente attente a evitare che siano mai soli e in condizione di pensare a se stessi, ben sapendo che se ci pensassero sarebbero infelici, per re che siano.

Si fa carico agli uomini sin dall’infanzia della cura del loro onore, dei loro beni, dei loro amici e persino dei beni e dell’onore degli

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amici. Li si aggrava di incombenze, dell’apprendimento delle lingue e di esercitazioni. Si fa creder loro che non potranno essere felici se la loro salute, il loro onore, i loro beni e quelli dei loro amici non siano in buono stato: manchi una sola di queste cose, e saranno infelici. Così, si conferiscono loro cariche e incombenze che li molestano fin dalle prime luci del giorno. «Ecco un modo ben strano di renderli felici – direte voi. – Cosa si potrebbe fare di meglio per renderli infelici?» Come? Cosa si potrebbe fare? Basterebbe privarli di tutte queste cure. Allora si vedrebbero, penserebbero a cosa sono, donde vengono, dove vanno; perciò non si fa mai abbastanza per occuparli e distoglierli, ed è per questo che, dopo aver predisposto per loro tante faccende, se hanno un momento di respiro gli si consiglia d’impiegarlo a distrarsi, a giocare, a tenersi sempre occupati tutti interi. Com’è vuoto il cuore dell’uomo, e pieno di lordura!

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Blaise Pascal LETTERE PROVINCIALI



I GRAZIA E LIBERTÀ

Vi dichiaro dunque, padre, che non avete più nulla da rimproverare nei vostri avversari, poiché detestano certamente ciò che voi detestate. Sono solo stupito di vedere che non lo sapete, e che conosciate così poco le loro idee su questo argomento, più volte manifestate nelle loro opere. Sono sicuro che se ne foste meglio edotto, vi rincrescerebbe di non esservi informato con spirito di pace su una dottrina così pura e così cristiana, che la passione vi fa combattere senza conoscerla. Vedreste, padre, che non solo essi ritengono che si resiste effettivamente a quelle deboli grazie, che si chiamano eccitanti o inefficaci, senza eseguire il bene che c’ispirano; ma che sono inoltre fermi sia nel sostenere contro Calvino il potere della volontà di resistere anche alla grazia efficace e vittoriosa, sia nel difendere contro Molina il potere di questa grazia sulla volontà, tanto gelosi dell’una di queste verità quanto dell’altra. Sanno fin troppo bene che l’uomo per sua propria natura ha sempre il potere di peccare e di resistere alla grazia, e che dal momento della sua corruzione egli porta un fondo sciagurato di concupiscenza che gli accresce infinitamente questo potere; ma che tuttavia, quando piace a Dio di toccarlo con la sua misericordia, gli fa fare ciò che vuole, e nel modo che vuole, senza che questa infallibilità dell’operazione di Dio distrugga in alcun modo la libertà naturale dell’uomo, nei modi segreti e mirabili con cui Dio opera questo mutamento, che sant’Agostino ha spiegato così eccellentemente, e che dissipano tutte le contraddizioni immaginarie che i nemici della grazia efficace si figurano tra il potere sovrano della grazia sul libero arbitrio, e la potenza che ha il libero arbitrio di resistere alla grazia. Secondo quel grande santo infatti, indicato dai papi e dalla Chiesa come re-

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gola in questa materia, Dio muta il cuore dell’uomo mediante una dolcezza celeste che vi diffonde e che, superando il diletto della carne, fa sì che l’uomo, sentendo da un lato la sua mortalità e il suo nulla, e scoprendo dall’altro la grandezza e l’eternità di Dio, concepisce un disgusto per le delizie del peccato che lo separano dal bene incorruttibile; e trovando la sua più grande gioia nel Dio che lo affascina, vi si indirizza infallibilmente da se stesso con un movimento assolutamente libero, assolutamente volontario, assolutamente amoroso; sì che sarebbe per lui una sofferenza e un supplizio separarsene. Non che non possa sempre allontanarsene, e che non se ne allontani effettivamente se lo vuole; ma come potrebbe, se la volontà s’indirizza mai ad altro che a ciò che più le piace, e nulla allora lo diletta tanto quanto questo bene unico, comprendente in sé tutti gli altri beni? Quod enim amplius nos delectat, secundum id operemur necesse est, dice sant’Agostino [«Infatti noi siamo spinti ad agire secondo ciò che ci fa più piacere»]. Così Dio dispone della libera volontà dell’uomo senza imporgli una necessità, e così il libero arbitrio, che può sempre resistere alla grazia ma non sempre lo vuole, s’indirizza verso Dio, liberamente e pure infallibilmente, quando egli vuole attirarlo con la dolcezza delle sue ispirazioni efficaci. Questi, o padre, i divini principi di sant’Agostino e di san Tommaso, secondo i quali è vero che possiamo resistere alla grazia, contrariamente all’opinione di Calvino; e che nondimeno, come dice papa Clemente VIII nel suo rescritto indirizzato alla Congregazione De auxiliis: Dio suscita in noi il moto della nostra volontà e dispone efficacemente del nostro cuore grazie al dominio che la sua volontà suprema ha sulle volontà degli uomini, come sul resto delle creature sotto il cielo, secondo sant’Agostino. E ancora è secondo questi principi che agiamo spontaneamente, per cui abbiamo dei meriti veramente nostri, contrariamente all’errore di Calvino; e tuttavia, essendo Dio il primo principio delle nostre azioni e operando in noi ciò che gli aggrada, come dice san Paolo, i nostri meriti sono doni di Dio, come dice il Concilio di Trento. Con ciò viene distrutta l’empietà di Lutero, condannata da quel medesimo concilio, secondo cui noi non cooperiamo in alcun modo alla nostra salvezza, non più delle cose inanimate; e così pure viene

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distrutta l’empietà della scuola di Molina, che si rifiuta di riconoscere come sia la forza della grazia stessa a farci cooperare con essa nell’opera della nostra salvezza; col che egli demolisce questo principio di fede stabilito da san Paolo, che è Dio che forma in noi sia la volontà sia l’azione.

È dunque certo, padri, che non ho detto nulla a sostegno di queste proposizioni empie, da me detestate di tutto cuore. E quand’anche Port-Royal le ammettesse, vi dichiaro che non potete concludere nulla contro di me, poiché, grazie a Dio, non ho vincolo sulla terra se non con la sola Chiesa Cattolica Apostolica e Romana, nella quale voglio vivere e morire, nonché nella comunione col papa suo capo sovrano, convinto che fuori di essa non c’è salvezza. Cosa farete a una persona che parla in questo modo, e da che parte mi attaccherete, dal momento che né i miei discorsi né i miei scritti non danno alcun pretesto alle vostre accuse di eresia, e che trovo la mia sicurezza contro le vostre minacce nell’oscurità che mi copre? Voi vi sentite colpiti da una mano invisibile, che rende le vostre aberrazioni visibili a tutta la terra. E cercate invano di attaccarmi nella persona di coloro a cui mi credete unito. Non vi temo, né per me né per nessun altro, poiché non sono legato a qualsiasi comunità o a singola persona. Tutto il credito di cui potete godere non serve nei miei confronti. Io non spero nulla dal mondo, non ne temo nulla, non ne voglio nulla; non ho bisogno, grazie a Dio, né del favore né dell’autorità di nessuno. Così, o padre, sfuggo a ogni vostra presa. Voi non potete prendermi, da qualsiasi parte tentiate di farlo. Potete ben toccare Port-Royal, ma non me. Si sono pur sloggiate delle persone dalla Sorbona, ma ciò non mi sloggia da casa mia. Potete ben ordire violenze contro preti e dottori, ma non contro me, che non ho questi titoli. E così non avete forse mai avuto a che fare con una persona tanto fuori dai vostri assalti e tanto in grado di combattere i vostri errori, essendo libera, senza alcun impegno, senza dedizione, senza legame, senza relazione, senza affari, abbastanza informato delle vostre massime e ben risoluto a contrastarle finché crederò che Dio mi impegni in questo, senza che alcuna considerazione umana possa arrestare né rallentare il mio impeto.




II IMMAGINE DI DIO

La Chiesa, questa casta Sposa del figlio di Dio, che a imitazione del suo Sposo sa ben versare il suo sangue per gli altri, ma non versare per sé l’altrui, ha un orrore tutto particolare per l’uccisione, proporzionato ai lumi speciali che Dio le ha comunicato. Essa considera gli uomini non solo come uomini, ma come immagini del Dio da lei adorato. Ha per ciascuno di loro un santo rispetto, che glieli rende tutti venerabili, in quanto riscattati con un prezzo infinito, per essere fatti templi del Dio vivente. E così essa crede che la morte di un uomo ucciso senza l’ordine del suo Dio, non è solo un omicidio, ma un sacrilegio, che la priva di uno dei suoi membri; poiché, sia egli un credente o no, lo considera sempre o come uno dei suoi figli, o come capace di esserlo. Sono queste, o padri, le santissime ragioni che dopo che Dio si è fatto uomo per la salvezza degli uomini, hanno reso il loro stato così rilevante per la Chiesa, che essa ha sempre punito l’omicidio che li distrugge come uno dei più grandi attentati che si possono perpetrare contro Dio.




Aurelius Augustinus CONFESSIONES



I

Magnus es, Domine, et laudabilis valde magna virtus tua et sapientiae tuae non est numerus et laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae, et homo circumferens mortalitatem suam, circumferens testimonium peccati sui et testimonium, quia superbis resistis: et tamen laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae. Tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te. Da mihi, Domine, scire et intellegere, utrum sit prius invocare te an laudare te et scire te prius sit an invocare te. Sed quis te invocat nesciens te? aliud enim pro alio potest invocare nesciens. An potius invocaris, ut sciaris? quomodo autem invocabunt, in quem non crediderunt? aut quomodo credunt sine praedicante? et laudabunt Dominum qui requirunt eum quaerentes enim inveniunt eum et invenientes laudabunt eum. Quaeram te, Domine, invocans te et invocem te credens in te: praedicatus enim es nobis. Invocat te, Domine, fides mea, quam dedisti mihi, quam inspirasti mihi per humanitatem filii tui, per ministerium praedicatoris tui.

Et quomodo invocabo Deum meum, Deum et Dominum meum, quoniam utique in me ipsum eum vocabo, cum invocabo eum? et quis locus est in me, quo veniat in me Deus meus? quo Deus veniat in me, Deus, qui fecit caelum et terram? itane, Domine Deus meus, est quidquam in me, quod capiat te? an vero caelum et terra, quae fecisti et in quibus me fecisti, capiunt te? an quia sine te non esset quidquid est, fit, ut quidquid est capiat te? quoniam itaque et ego sum, quid peto, ut venias in me, qui non essem, nisi esses in me? non enim ego iam in profundis inferi, et tamen etiam ibi es. Nam etsi descendero in infernum, ades. Non ergo essem, Deus meus, non omnino essem, nisi esses in me. An potius non essem, nisi essem in te, ex quo omnia,per quem omnia, in quo omnia? etiam sic, Domine, etiam sic. Quo te invoco, cum in te sim? aut unde venias in me? quo enim recedam extra caelum et terram, ut inde in me veniat Deus meus, qui dixit: caelum et terram ego impleo?




Sicut enim facinora sunt, si vitiosus est ille animi motus, in quo est impetus, et se iactat insolenter ac turbide, et flagitia, si est immoderata illa animae affectio, qua carnales hauriuntur voluptates ita errores et falsae opiniones vitam contaminant, si rationalis mens ipsa vitiosa est. Qualis in me tunc erat nesciente alio lumine illam inlustrandam esse, ut sit particeps veritatis, quia non est ipsa natura veritatis, quoniam tu inluminabis lucemam meam, Domine; Deus meus, inluminabis tenebras meas, et de plenitudine tua omnes nos accepimus. Es enim tu lumen verum, quod inluminat omnem hominem venientem in hunc mundum, quia in te non est transmutatio nec momenti obumbratio.

Sed ego conabar ad te et repellebar abs te, ut saperem mortem, quoniam superbis resistis. Quid autem superbius, quam ut adsererem mira dementia me id esse naturaliter, quod tu es? cum enim ego essem mutabilis et eo mihi manifestum esset, quod utique ideo sapiens esse cupiebam, ut ex deteriore melior fierem, malebam tamen etiam te opinari mutabilem quam me non hoc esse, quod tu es. Itaque repellebar, et resistebas ventosae cervici meae et imaginabar formas corporeas et caro carnem accusabam et spiritus ambulans nondum revertebar ad te et ambulando ambulabam in ea, quae non sunt neque in te neque in me neque in corpore neque mihi creabantur a veritate tua, sed a mea vanitate fingebantur ex corpore, et dicebam parvulis fidelibus tuis, civibus meis, a quibus nesciens exulabam, dicebam illis garrulus et ineptus: cur ergo errat anima, quam fecit Deus? et mihi nolebam dici: cur ergo errat Deus? et contendebam magis incommutabilem tuam substantiam coactam errare quam meam mutabilem sponte deviasse et poena errare confitebar.

Ecce enim, Domine Deus noster, creator noster, cum cohibitae fuerint affectiones ab amore saeculi, quibus moriebamur male vivendo, et coeperit esse anima vivens bene vivendo completumque fuerit verbum tuum, quo per apostolum tuum dixisti: nolite conformari huic saeculo, consequetur et illud, quod adiunxisti statim et dixisti: sed reformamini in novitate mentis vestrae, non iam secundum genus, tamquam imitantes praecedentem proximum nec ex hominis melioris auctoritate viventes. Neque enim dixisti: fiat homo secundum genus, sed: faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram, ut nos probemus, quae sit voluntas tua. Ad hoc enim dispensator ille tuus generans per evangelium filios, ne semper parvulos

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haberet, quos lacte nutriret et tamquam nutrix foveret: reformamini, inquit, in novitate mentis vestrae ad probandum vos, quae sit voluntas Dei, quod bonum et beneplacitum et perfectum. Ideoque non dicis: fiat homo, sed: faciamus, nec dicis: secundum genus, sed: ad imaginem et similitudinem nostram. Mente quippe renovatus et conspiciens intellectam veritatem tuam homine demonstratore non indiget, ut suum genus imitetur, sed te demonstrante probat ipse, quae sit voluntas tua, quod bonum et beneplacitum et perfectum, et doces eum iam capacem videre trinitatem Unitatis vel unitatem Trinitatis. Ideoque pluraliter dicto: faciamus hominem, singulariter tamen infertur: et fecit Deus hominem, et pluraliter dicto: ad imaginem nostram, singulariter infertur: ad imaginem Dei. Ita homo renovatur in agnitione Dei secundum imaginem eius, qui creavit eum, et spiritalis effectus iudicat omnia, quae utique iudicanda sunt, ipse autem a nemine iudicatur.

Item in facinoribus, ubi libido est nocendi sive per contumeliam sive per iniuriam et utrumque vel ulciscendi causa, sicut inimico inimicus, vel adipiscendi alicuius extra commodi, sicut latro viatori, vel evitandi mali, sicut ei qui timetur, vel invidendo, sicut feliciori miserior aut in aliquo prosperatus ei, quem sibi aequari timet aut aequalem dolet, vel sola voluptate alieni mali, sicut spectatores gladiatorum aut inrisores aut inlusores quorumlibet. Haec sunt capita iniquitatis, quae pullulant principandi et spectandi et sentiendi libidine aut una aut duabus earum aut simul omnibus, et vivitur male adversus tria et septem, psalterium decem chordarum, decalogum tuum, Deus altissime et dulcissime. Sed quae flagitia in te, qui non corrumperis? aut quae adversus te facinora, cui noceri non potest? sed hoc vindicas, quod in se homines perpetrant, quia etiam cum in te peccant, impie faciunt in animas suas, et mentitur iniquitas sibi sive corrumpendo ac pervertendo naturam suam, quam tu fecisti et ordinasti, vel immoderate utendo concessis rebus vel in non concessa flagrando in eum usum, qui est contra naturam; aut rei tenentur animo et verbis saevientes adversus te et adversus stimulum calcitrantes, aut cum diruptis limitibus humanae societatis laetantur audaces privatis conciliationibus aut diremptionibus, prout quidque delectaverit aut offenderit. Et ea fiunt, cum tu derelinqueris, fons vitae, qui es unus et verus creator et rector universitatis, et privata superbia diligitur in parte, unum falsum. Itaque pietate humili reditur in te, et purgas nos a consuetudine mala et propitius es peccatis confitentium et exaudis gemitus compeditorum et solvis a vinculis, quae nobis fecimus, si iam non erigamus adversum te cornua falsae libertatis avaritia plus habendi

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et damno totum amittendi, amplius amando proprium nostrum quam te, omnium bonum.

Quid ergo amo, cum Deum meum amo? quis est ille super caput animae meae? per ipsam animam meam ascendam ad illum. Transibo vim meam, qua haereo corpori et vitaliter compagem eius repleo. Non ea vi reperio Deum meum: nam reperiret et equus et mulus, quibus non est intellectus, et est eadem vis, qua vivunt etiam eorum corpora. Est alia vis, non solum qua vivifico sed etiam qua sensifico carnem meam, quam mihi fabricavit Dominus, iubens oculo, ut non audiat, et auri, ut non videat, sed illi, per quem videam, huic, per quam audiam, et propria singillatim ceteris sensibus sedibus suis et officiis suis: quae diversa per eos ago unus ego animus. Transibo et istam vim meam; nam et hanc habet equus et mulus: sentiunt enim etiam ipsi per corpus.

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II

Transibo ergo et istam naturae meae, gradibus ascendens ad eum, qui fecit me, et venio in campos et lata praetoria memoriae, ubi sunt thesauri innumerabilium imaginum de cuiuscemodi rebus sensis invectarum. Ibi reconditum est, quidquid etiam cogitamus, vel augendo vel minuendo vel utcumque variando ea quae sensus attigerit, et si quid aliud commendatum et repositum est, quod nondum absorbuit et sepelivit oblivio. Ibi quando sum, posco, ut proferatur quidquid volo, et quaedam statim prodeunt, quaedam requiruntur diutius et tamquam de abstrusioribus quibusdam receptaculis eruuntur, quaedam catervatim se proruunt et, dum aliud petitur et quaeritur, prosiliunt in medium quasi dicentia: ne forte nos sumus? et abigo ea manu cordis a facie recordationis meae, donec enubiletur quod volo atque in conspectum prodeat ex abditis. Alia faciliter atque imperturbata serie sicut poscuntur suggeruntur et cedunt praecedentia consequentibus et cedendo conduntur, iterum cum voluero processura. Quod totum fit, cum aliquid narro memoriter.

Ibi sunt omnia distincte generatimque servata, quae suo quaeque aditu ingesta sunt, sicut lux atque omnes colores formaeque corporum per oculos, per aures autem omnia genera sonorum omnesque odores per aditum narium, omnes sapores per oris aditum, a sensu autem totius corporis, quid durum, quid molle, quid calidum frigidumve, lene aut asperum, grave seu leve sive extrinsecus sive intrinsecus corpori. Haec omnia recipit recolenda, cum opus est, et retractanda grandis memoriae recessus et nescio qui secreti atque ineffabiles sinus eius: quae omnia suis quaeque foribus intrant ad eam et reponuntur in ea. Nec ipsa tamen intrant, sed rerum sensarum imagines illic praesto sunt cogitationi reminiscenti eas. Quae quomodo fabricatae sint, quis dicit, cum appareat, quibus sensibus raptae sint interiusque reconditae? nam et in tenebris atque in silentio dum habito, in memoria mea profero, si volo, colores, et discerno inter album et nigrum et inter quos alios volo, nec incurrunt soni atque perturbant quod per oculos

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haustum considero, cum et ipsi ibi sint et quasi seorsum repositi lateant. Nam et ipsos posco, si placet, atque adsunt illico, et quiescente lingua ac silente gutture canto quantum volo, imaginesque illae colorum, quae nihilo minus ibi sunt, non se interponunt neque interrumpunt, cum thesaurus alius retractatur, qui influxit ab auribus. Ita cetera, quae per sensus ceteros ingesta atque congesta sunt, recordor prout libet et auram liliorum discerno a violis nihil olfaciens et mel defrito, lene aspero, nihil tum gustando neque contrectando, sed reminiscendo antepono.

Intus haec ago, in aula ingenti memoriae meae. Ibi enim mihi caelum et terra et mare praesto sunt cum omnibus, quae in eis sentire potui, praeter illa, quae oblitus sum. Ibi mihi et ipse occurro meque recolo, quid, quando et ubi egerim quoque modo, cum agerem, affectus fuerim. Ibi sunt omnia, quae sive experta a me sive credita memini. Ex eadem copia etiam similitudines rerum vel expertarum vel ex eis, quas expertus sum, creditarum alias atque alias et ipse contexo praeteritis atque ex his etiam futuras actiones et eventa et spes, et haec omnia rursus quasi praesentia meditor. Faciam hoc et illud dico apud me in ipso ingenti sinu animi mei pleno tot et tantarum rerum imaginibus, et hoc aut illud sequitur. O si esset hoc aut illud! Avertat Deus hoc aut illud!: dico apud me ista et, cum dico, praesto sunt imagines omnium quae dico ex eodem thesauro memoriae, nec omnino aliquid eorum dicerem, si defuissent.

Magna ista vis est memoriae, magna nimis, Deus meus, penetrale amplum et infinitum. Quis ad fundum eius pervenit? et vis est haec animi mei atque ad meam naturam pertinet, nec ego ipse capio totum, quod sum. Ergo animus ad habendum se ipsum angustus est, ut ubi sit quod sui non capit? numquid extra ipsum ac non in ipso? quomodo ergo non capit? multa mihi super hoc oboritur admiratio, stupor apprehendit me. Et eunt homines mirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et Oceani ambitum et gyros siderum et relinquunt se ipsos nec mirantur, quod haec omnia cum dicerem, non ea videbam oculis, nec tamen dicerem, nisi montes et fluctus et flumina et sidera, quae vidi, et Oceanum, quem credidi, intus in memoria mea viderem spatiis tam ingentibus, quasi foris viderem. Nec ea tamen videndo absorbui, quando vidi oculis, nec ipsa sunt apud me, sed imagines eorum, et novi, quid ex quo sensu corporis impressum sit mihi.

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Sed non ea sola gestat immensa ista capacitas memoriae meae. Hic sunt et illa omnia, quae de doctrinis liberalibus percepta nondum exciderunt, quasi remota interiore loco, non loco; nec eorum imagines, sed res ipsas gero. Nam quid sit litteratura, quid peritia disputandi, quot genera quaestionum, quidquid horum scio, sic est in memoria mea, ut non retenta imagine rem foris reliquerim aut sonuerit et praeterierit, sicut vox impressa per aures vestigio, quo recoleretur, quasi sonaret, cum iam non sonaret, aut sicut odor dum transit et vanescit in ventos, olfactum afficit, unde traicit in memoriam imaginem sui, quam reminiscendo repetamus, aut sicut cibus, qui certe in ventre iam non sapit et tamen in memoria quasi sapit, aut sicut aliquid, quod corpore tangendo sentitur, quod etiam separatum a nobis imaginatur memoria. Istae quippe res non intromittuntur ad eam, sed earum solae imagines mira celeritate capiuntur et miris tamquam cellis reponuntur et mirabiliter recordando proferuntur.

At vero, cum audio tria genera esse quaestionum, an sit, quid sit, quale sit, sonorum quidem, quibus haec verba confecta sunt, imagines teneo et eos per auras cum strepitu transisse ac iam non esse scio. Res vero ipsas, quae illis significantur sonis, neque ullo sensu corporis attigi neque uspiam vidi praeter animum meum et in memoria recondidi non imagines earum, sed ipsas: quae unde ad me intraverint dicant, si possunt. Nam percurro ianuas omnes carnis meae nec invenio, qua earum ingressae sint. Quippe oculi dicunt: si coloratae sunt, nos eas nuntiavimus; aures dicunt: si sonverunt, a nobis indicatae sunt; nares dicunt: si oluerunt, per nos transierunt; dicit etiam sensus gustandi: si sapor non est, nihil me interroges; tactus dicit: si corpulentum non est, non contrectavi; si non contrectavi, non indicavi. Unde et qua haec intraverunt in memoriam meam? nescio quomodo; nam cum ea didici, non credidi alieno cordi, sed in meo recognovi et vera esse approbavi et commendavi ei tamquam reponens, unde proferrem, cum vellem. Ibi ergo erant et antequam ea didicissem, sed in memoria non erant. Ubi ergo aut quare, cum dicerentur, agnovi et dixi: ita est, verum est, nisi quia iam erant in memoria, sed tam remota et retrusa quasi in cavis abditioribus, ut, nisi admonente aliquo eruerentur, ea fortasse cogitare non possem?

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III

Praeter enim concupiscentiam carnis, quae inest in delectatione omnium sensuum et voluptatum, cui servientes depereunt qui longe se faciunt a te, inest animae per eosdem sensus corporis quaedam non se oblectandi in carne, sed experiendi per carnem vana et curiosa cupiditas nomine cognitionis et scientiae palliata. Quae quoniam in appetitu noscendi est, oculi autem sunt ad noscendum in sensibus principes, concupiscentia oculorum eloquio divino appellata est. Ad oculos enim proprie videre pertinet. Utimur autem hoc verbo etiam in ceteris sensibus, cum eos ad cognoscendum intendimus. Neque enim dicimus: audi quid rutilet, aut: olefac quam niteat, aut: gusta quam splendeat, aut: palpa quam fulgeat: videri enim dicuntur haec omnia. Dicimus autem non solum: vide quid luceat, quod soli oculi sentire possunt, sed etiam: vide quid sonet, vide quid oleat, vide quid sapiat, vide quam durum sit. Ideoque generalis experientia sensuum concupiscentia, sicut dictum est, oculorum vocatur, quia videndi officium, in quo primatum oculi tenent, etiam ceteri sensus sibi de similitudine usurpant, cum aliquid cognitionis explorant. Ex hoc autem evidentius discernitur, quid voluptatis, quid curiositatis agatur per sensus, quod voluptas pulchra, canora, suavia, sapida, lenia sectatur, curiositas autem etiam his contraria temptandi causa non ad subeundam molestiam, sed experiendi noscendique libidine. Quid enim voluptatis habet videre in laniato cadavere quod exhorreas? et tamen sicubi iaceat, concurrunt, ut contristentur, ut palleant. Timent etiam, ne in somnis hoc videant, quasi quisquam eos vigilantes videre coegerit aut pulchritudinis ulla fama persuaserit. Ita et in ceteris sensibus, quae persequi longum est. Ex hoc morbo cupiditatis in spectaculis exhibentur quaeque miracula. Hinc ad perscrutanda naturae, quae praeter nos est, operta proceditur, quae scire nihil prodest et nihil aliud quam scire homines cupiunt. Hinc etiam, si quid eodem perversae scientiae fine per artes magicas quaeritur. Hinc etiam in ipsa religione Deus temptatur, cum signa et prodigia flagitantur non ad aliquam salutem, sed ad solam experientiam desiderata.

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In hac tam immensa silva plena insidiarum et periculorum ecce multa praeciderim et a meo corde dispulerim, sicuti donasti me facere, Deus salutis meae; attamen quando audeo dicere, cum circumquaque cotidianam vitam nostram tam multa huius generis rerum circumstrepant, quando audeo dicere nulla re tali me intentum fieri ad spectandum et vana cura capiendum? sane me iam theatra non rapiunt, nec curo nosse transitus siderum, nec anima mea umquam responsa quaesivit umbrarum; omnia sacrilega sacramenta detestor. A te, Domine Deus meus, cui humilem famulatum ac simplicem debeo, quantis mecum suggestionum machinationibus agit inimicus ut signum aliquod petam! Sed obsecro te per regem nostrum et patriam Hierusalem simplicem, castam, ut quemadmodum a me longe est ad ista consensio, ita sit semper longe atque longius. Pro salute autem cuiusquam cum te rogo, alius multum differens finis est intentionis meae, et te facientem quod vis das mihi et dabis libenter sequi. Verum, tamen in quam multis minutissimis et contemptibilibus rebus curiositas cotidie nostra temptetur et quam saepe labamur, quis enumerat? quotiens narrantes inania primo quasi toleramus, ne offendamus infirmos, deinde paulatim libenter advertimus. Canem currentem post leporem iam non specto, cum in circo fit; at vero in agro, si casu transeam, avertit me fortassis et ab aliqua magna cogitatione atque ad se convertit illa venatio, non deviare cogens corpore iumenti, sed cordis inclinatione, et nisi iam mihi demonstrata infirmitate mea cito admoneas aut ex ipsa visione per aliquam considerationem in te adsurgere aut totum contemnere atque transire, vanus hebesco. Quid cum me domi sedentem stelio muscas captans vel aranea retibus suis inruentes implicans saepe intentum facit? num quia parva sunt animalia, ideo non res eadem geritur? pergo inde ad laudandum te, creatorem mirificum atque ordinatorem rerum omnium, sed non inde esse intentus incipio. Aliud est cito surgere, aliud est non cadere. Et talibus vita mea plena est, et una spes mea magna valde misericordia tua. Cum enim huiuscemodi rerum conceptaculum fit cor nostrum et portat copiosae vanitatis catervas, hinc et orationes nostrae saepe interrumpuntur atque turbantur, et ante conspectum tuum, dum ad aures tuas vocem cordis intendimus, nescio unde inruentibus nugatoriis cogitationibus res tanta praeciditur.

Numquid nos reducet in spem nisi nota misericordia tua, quoniam coepisti mutare nos? et tu scis, quanta ex parte mutaveris,qui me primitus sanas a libidine vindicandi me, ut propitius fias etiam ceteris omnibus iniquitatibus meis et sanes omnes languores meos et redimas de corruptione

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vitam meam et corones me in miseratione et misericordia et saties in bonis desiderium meum, qui compressisti a timore tuo superbiam meam et mansuefecisti iugo tuo cervicem meam. Et nunc porto illud, et lene est mihi, quoniam sic promisisti et fecisti; et vere sic erat, et nesciebam, quando id subire metuebam. Sed numquid, Domine, qui solus sine typho dominaris, quia solus verus Dominus es, qui non habes Dominum, numquid hoc quoque tertium temptationis genus cessavit a me aut cessare in hac tota vita potest, timeri et amari velle ab hominibus non propter aliud, sed ut inde sit gaudium, quod non est gaudium? misera vita est et foeda iactantia. Hinc fit vel maxime non amare te nec caste timere te, ideoque tu superbis resistis, humilibus autem das gratiam et intonas super ambitiones saeculi, et contremunt fundamenta montium. Itaque nobis, quoniam propter quaedam humanae societatis officia necessarium est amari et timeri ab hominibus, instat adversarius verae beatitudinis nostrae ubique spargens in laqueis euge, euge, ut, dum avide conligimus, incaute capiamur et a veritate tua gaudium nostrum deponamus atque in hominum fallacia ponamus, libeatque nos amari et timeri non propter te, sed pro te, atque isto modo sui similes factos secum habeat non ad concordiam caritatis, sed ad consortium supplicii, qui statuit sedem suam ponere in aquilone, ut te perversa et distorta via imitanti tenebrosi frigidique servirent. Nos autem, Domine, pusillus grex tuus ecce sumus, tu nos posside. Praetende alas tuas, et fugiamus sub eas. Gloria nostra tu esto; propter te amemur et verbum tuum timeatur in nobis. Qui laudari vult ab hominibus vituperante te, non defendetur ab hominibus iudicante te nec eripietur damnante te. Cum autem non peccator laudatur in desideriis animae suae, nec qui iniqua gerit benedicetur, sed laudatur homo propter aliquod donum, quod dedisti ei, at ille plus gaudet sibi laudari se quam ipsum donum habere, unde laudatur, etiam iste te vituperante laudatur, et melior iam ille, qui laudavit, quam iste, qui laudatus est. Illi enim placuit in homine donum Dei, huic amplius placuit donum hominis quam Dei.

Temptamur his temptationibus cotidie, Domine, sine cessatione temptamur. Cotidiana fornax nostra est humana lingua. Imperas nobis et in hoc genere continentiam: da quod iubes et iube quod vis. Tu nosti de hac re ad te gemitum cordis mei et flumina oculorum meorum. Neque enim facile conligo, quam sim ab ista peste mundatior, et multum timeo occulta mea, quae norunt oculi tui, mei autem non. Est enim qualiscumque in aliis

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generibus temptationum mihi facultas explorandi me, in hoc paene nulla est. Nam et a voluptatibus carnis et a curiositate supervacanea cognoscendi video quantum assecutus sim posse refrenare animum meum, cum eis rebus careo vel voluntate vel cum absunt. Tunc enim me interrogo, quam magis minusve mihi molestum sit non habere. Divitiae vero, quae ob hoc expetuntur, ut alicui trium istarum cupiditatium vel duabus earum vel omnibus serviant, si persentiscere non potest animus, utrum eas habens contemnat, possunt et dimitti, ut se probet. Laude vero ut careamus atque in eo experiamur, quid possumus, numquid male vivendum est et tam perdite atque immaniter, ut nemo nos noverit, qui non detestetur? quae maior dementia dici aut cogitari potest? at si bonae vitae bonorumque operum comes et solet et debet esse laudatio, tam comitatum eius quam ipsam bonam vitam deseri non oportet. Non autem sentio, sine quo esse aut aequo animo aut aegre possim, nisi cum afuerit. Quid igitur tibi in hoc genere temptationis, Domine, confiteor? quid, nisi delectari me laudibus? sed amplius ipsa veritate quam laudibus. Nam si mihi proponatur, utrum malim furens aut in omnibus rebus errans ab omnibus hominibus laudari an constans et in veritate certissimus ab omnibus vituperari, video quid eligam. Verum tamen nollem, ut vel augeret mihi gaudium cuiuslibet boni mei suffragatio oris alieni. Sed auget, fateor, non solum, sed et vituperatio minuit. Et cum ista miseria mea perturbor, subintrat mihi excusatio, quae qualis sit, tu scis, Deus; nam me incertum facit. Quia enim nobis imperasti non tantum continentiam, id est a quibus rebus amorem cohibeamus, verum etiam iustitiam, id est quo eum conferamus, nec te tantum voluisti a nobis verum etiam proximum diligi, saepe mihi videor de provectu aut spe proximi delectari, cum bene intellegentis laude delector, et rursus eius malo contristari, cum eum audio vituperare quod aut ignorat aut bonum est. Nam et contristor aliquando laudibus meis, cum vel ea laudantur in me, in quibus mihi ipse displiceo, vel etiam bona minora et levia pluris aestimantur, quam aestimanda sunt. Sed rursus unde scio, an propterea sic afficior, quia nolo de me ipso a me dissentire laudatorem meum, non quia illius utilitate moveor, sed quia eadem bona, quae mihi in me placent, iucundiora mihi sunt, cum et alteri placent? quodam modo enim non ego laudor, cum de me sententia mea non laudatur, quandoquidem aut illa laudantur, quae mihi displicent, aut illa amplius, quae mihi minus placent. Ergone de hoc incertus sum mei? Ecce in te, veritas, video non me laudibus meis propter me, sed propter proximi utilitatem moveri oportere. Et utrum ita sim, nescio. Minus mihi in hac re notus sum ipse quam tu. Obsecro te, Deus meus, et me ipsum mihi

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indica, ut confitear oraturis pro me fratribus meis, quod in me saucium comperero. Iterum me diligentius interrogem. Si utilitate proximi moveor in laudibus meis, cur minus moveor, si quisquam alius iniuste vituperetur quam si ego? cur ea contumelia magis mordeor, quae in me quam quae in alium eadem iniquitate coram me iacitur? an et hoc nescio? etiamne id restat, ut ipse me seducam et verum non faciam coram te in corde et lingua mea? insaniam istam, Domine, longe fac a me, ne oleum peccatoris mihi sit os meum ad impinguandum caput meum.

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Aurelius Augustinus DE CIVITATE DEI



I

Sicut in proximo libro superiore promisimus, iste huius totius operis ultimus disputationem de civitatis Dei aeterna beatitudine continebit, quae non propter aetatis per multa saecula longitudinem tamen quandocumque finiendam aeternitatis nomen accepit, sed quem ad modum scriptum est in evangelio: regni eius non erit finis; nec ita ut aliis moriendo decedentibus, aliis succedentibus oriendo species in ea perpetuitatis appareat, sicut in arbore, quae perenni fronde vestitur, eadem videtur viriditas permanere, dum labentibus et cadentibus foliis subinde alia, quae nascuntur, faciem conservant opacitatis; sed omnes in ea cives immortales erunt, adipiscentibus et hominibus, quod numquam sancti angeli perdiderunt. Faciet hoc Deus omnipotentissimus eius conditor. Promisit enim nec mentiri potest, et quibus fidem hinc quoque faceret, multa sua et non promissa et promissa iam fecit. Ipse est enim, qui in principio condidit mundum, plenum bonis omnibus visibilibus atque intellegibilibus rebus, in quo nihil melius instituit quam spiritus, quibus intellegentiam dedit et suae contemplationis habiles capacesque sui praestitit atque una societate devinxit, quam sanctam et supernam dicimus civitatem, in qua res, qua sustententur beatique sint, Deus ipse illis est, tamquam vita victusque communis; qui liberum arbitrium eidem intellectuali naturae tribuit tale, ut, si vellet, desereret Deum, beatitudinem scilicet suam, miseria continuo secutura; qui, cum praesciret angelos quosdam per elationem, qua ipsi sibi ad beatam vitam sufficere vellent, tanti boni desertores futuros, non eis ademit hanc potestatem, potentius et melius esse iudicans etiam de malis bene facere quam mala esse non sinere (quae omnino nulla essent, nisi natura mutabilis, quamvis bona et a summo Deo atque incommutabili bono, qui bona omnia condidit, instituta, peccando ea sibi ipsa fecisset; quo etiam peccato suo teste convincitur bonam conditam se esse naturam; nisi enim magnum et ipsa, licet non aequale Conditori, bonum esset, profecto desertio Dei tamquam luminis sui malum eius esse non posset; nam sicut caecitas oculi vitium est et idem ipsum indicat ad lumen videndum esse oculum creatum ac per hoc

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etiam ipso vitio suo excellentius ostenditur ceteris membris membrum capax luminis – non enim alia causa esset vitium eius carere lumine –; ita natura, quae fruebatur Deo, optimam se institutam docet etiam ipso vitio, quo ideo misera est quia non fruitur Deo); qui casum angelorum voluntarium iustissima poena sempiternae infelicitatis obstrinxit atque in eo summo bono permanentibus ceteris, ut de sua sine fine permansione certi essent, tamquam ipsius praemium permansionis dedit; qui fecit hominem etiam ipsum rectum cum eodem libero arbitrio, terrenum quidem animal, sed caelo dignum, si suo cohaereret auctori, miseria similiter, si eum desereret, secutura, qualis naturae huius modi conveniret (quem similiter cum praevaricatione legis Dei per Dei desertionem peccaturum esse praesciret, nec illi ademit liberi arbitrii potestatem, simul praevidens, quid boni de malo eius esset ipse facturus); qui de mortali progenie merito iusteque damnata tantum populum gratia sua colligit, ut inde suppleat et instauret partem, quae lapsa est angelorum, ac sic illa dilecta et superna civitas non fraudetur suorum numero civium, quin etiam fortassis et uberiore laetetur.

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II

Quaecumque miracula sive per angelos sive quocumque modo ita divinitus fiunt, ut Dei unius, in quo solo beata vita est, cultum religionemque commendent, ea vere ab eis vel per eos, qui nos secundum veritatem pietatemque diligunt, fieri ipso Deo in illis operante credendum est. Neque enim audiendi sunt, qui Deum invisibilem visibilia miracula operari negant, cum ipse etiam secundum ipsos fecerit mundum, quem certe visibilem negare non possunt. Quidquid igitur mirabile fit in hoc mundo, profecto minus est quam totus hic mundus, id est caelum et terra et omnia quae in eis sunt, quae certe Deus fecit. Sicut autem ipse qui fecit, ita modus quo fecit occultus est et inconprehensibilis homini. Quamvis itaque miracula visibilium naturarum videndi assiduitate viluerint, tamen, cum ea sapienter intuemur, inusitatissimis rarissimisque maiora sunt. Nam et omni miraculo, quod fit per hominem, maius miraculum est homo. Quapropter Deus, qui fecit visibilia caelum et terram, non dedignatur facere visibilia miracula in caelo vel terra, quibus ad se invisibilem colendum excitet animam adhuc visibilibus deditam; ubi vero et quando faciat, incommutabile consilium penes ipsum est, in cuius dispositione iam tempora facta sunt quaecumque futura sunt. Nam temporalia movens temporaliter non movetur, nec aliter novit facienda quam facta, nec aliter invocantes exaudit quam invocaturos videt. Nam et cum exaudiunt angeli eius, ipse in eis exaudit, tamquam in vero nec manu facto templo suo, sicut in hominibus sanctis suis, eiusque temporaliter fiunt iussa aeterna eius lege conspecta.

Nam cum animantes alias solitarias et quodam modo solivagas, id est, quae solitudinem magis adpetant, sicuti sunt aquilae milvi, leones lupi et quaecumque ita sunt, alias congreges instituerit, quae congregatae atque in gregibus malint vivere, ut sunt columbi sturni, cervi dammulae et cetera huius modi: utrumque tamen genus non ex singulis propagavit, sed plura simul iussit existere. Hominem vero, cuius naturam quodam modo mediam inter angelos bestiasque condebat, ut, si Creatori suo tamquam vero domi-

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no subditus praeceptum eius pia oboedientia custodiret, in consortium transiret angelicum, sine morte media beatam immortalitatem absque ullo termino consecutus; si autem Dominum Deum suum libera voluntate superbe atque inoboedienter usus offenderet, morti addictus bestialiter viveret, libidinis servus aeternoque post mortem supplicio destinatus, unum ac singulum creavit, non utique solum sine humana societate deserendum, sed ut eo modo vehementius ei commendaretur ipsius societatis unitas vinculumque concordiae, si non tantum inter se naturae similitudine, verum etiam cognationis affectu homines necterentur; quando ne ipsam quidem feminam copulandam viro sicut ipsum creare illi placuit, sed ex ipso, ut omnino ex homine uno diffunderetur genus humanum.

Nec ignorabat Deus hominem peccaturum et morti iam obnoxium morituros propagaturum eoque progressuros peccandi immanitate mortales, ut tutius atque pacatius inter se rationalis voluntatis expertes bestiae sui generis viverent, quarum ex aquis et terris plurium pullulavit exordium, quam homines, quorum genus ex uno est ad commendandam concordiam propagatum. Neque enim umquam inter se leones aut inter se dracones, qualia homines, bella gesserunt. Sed praevidebat etiam gratia sua populum piorum in adoptionem vocandum remissisque peccatis iustificatum Spiritu Sancto sanctis angelis in aeterna pace sociandum, novissima inimica morte destructa; cui populo esset huius rei consideratio profutura, quod ex uno homine Deus ad commendandum hominibus, quam ei grata sit etiam in pluribus unitas, genus instituisset humanum.

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III

Quid autem mirum est, si his circuitibus errantes, nec aditum nec exitum inveniunt? quia genus humanum atque ista nostra mortalitas nec quo initio coepta sit sciunt, nec quo fine claudatur; quando quidem altitudinem Dei penetrare non possunt: quia, cum ipse sit æternus et sine initio, ab aliquo tamen initio exorsus est tempora, et hominem quem numquam ante fecerat, fecit in tempore, non tamen novo et repentino, sed immutabili aeternoque consilio. Quis hanc valeat altitudinem investigabilem vestigare et inscrutabilem perscrutari, secundum quam Deus hominem temporalem, ante quem nemo umquam hominum fuit, non mutabili voluntate in tempore condidit et genus humanum ex uno multiplicavit? Quando quidem psalmus ipse cum praemisisset atque dixisset: Tu, Domine, servabis nos et custodies nos a generatione hac et in aeternum, ac deinde repercussisset eos, in quorum stulta impiaque doctrina nulla liberationis et beatitudinis animae servatur aeternitas, continuo subiciens: In circuitu impii ambulabunt: tamquam ei diceretur: «Quid ergo tu credis, sentis, intellegis? numquidnam existimandum est subito Deo placuisse hominem facere, quem numquam antea infinita retro aeternitate fecisset, cui nihil novi accidere potest, in quo mutabile aliquid non est»? continuo respondit ad ipsum Deum loquens: Secundum altitudinem tuam multiplicasti filios hominum. Sentiant, inquit, homines quod putant, et quod eis placet opinentur et disputent: Secundum altitudinem tuam, quam nullus potest nosse hominum, multiplicasti filios hominum. Valde quippe altum est et semper fuisse, et hominem, quem numquam fecerat, ex aliquo tempore primum facere voluisse, nec consilium voluntatemque mutasse.

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IV

Quorum enim aures piorum ferant, post emensam tot tantisque calamitatibus vitam, (si tamen ista vita dicenda est, quae potius mors est, ita gravis, ut mors quae ab hac liberat, mortis huius amore timeatur,) post tam magna mala tamque multa et horrenda, tandem aliquando per veram religionem atque sapientiam expiata atque finita, ita pervenire ad conspectum Dei, atque ita fieri beatum contemplatione incorporae lucis, per partecipationem inmutabilis inmortalitatis eius, cuius adipiscendae amore flagramus, ut eam quandoque necesse sit deseri et eos, qui deserunt, ab illa aeternitate, veritate, felicitate deiectos, tartareae mortalitati, turpi stultitiae, miseriis exsecrabilibus implicari, ubi Deus amittatur, ubi odio veritas habeatur, ubi per inmundas nequitias beatitudo quaeratur; et hoc itidem atque itidem sine ullo sine priorum et posteriorum certis intervallis et dimensionibus saeculorum factum et futurum; et hoc propterea, ut possint Deo, circuitibus definitis euntibus semper atque redeuntibus per nostras falsas beatitudines et veras miserias, alternatim quidem, sed revolutione incessabili sempiternas, nota esse opera sua; quoniam neque a faciendo qiuescere, neque sciendo potest ea quae infinita sunt, indagare? quis haec audiat? quis credat? quis ferat? Quae si vera essent non solum tacerentur prudentius, verum etiam (ut quo modo valeo dicam quod volo) doctius nescirentus. Nam si haec illic in memoria non habebimus, et ideo beati erimus, cur hic per eorum scientiam gravatur amplius nostra miseria? Si autem ibi ea necessario scituri sumus, hic saltem nesciamus, ut hic felicior sit exspectatio, quam illic adeptio summi boni: quando hic aeterna vita consequenda exspectatur; ibi autem beata, sed non aeterna, quandoque amittenda cognoscitur. Si autem dicunt, neminem posse ad illam beatitudinem pervenire, nisi hos circuitus, ubi beatitudo et miseria vicissim alternant, in huius vitae eruditione cognoverit: quo modo ergo fatentur, quanto plus quisque amaverit Deum, tanto eum facilius ad beatitudinem perventurum, qui ea docent quibus amor ipse torpescat? Nam quis non remissius et tepidius amet eum,

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quem se cogitat necessario deserturum, et contra eius veritatem sapientiamque sensurum, et hoc cum ad eius plenam pro sua capacitate notitiam beatitudinis perfectione pervenerit? quando nec hominem amicum possit quisque amare fidelitir, cui se futurum novit inimicum. Sed absit ut vera sint, quae nobis minantur veram miseriam numquam finiendam, sed interpositionibus falsae beatitudinis saepe ac sine fine rumpendam. Quid enim illa beatitudine falsius atque fallacius, ubi nos futuros miseros, aut in tanta veritatis luce nesciamus, aut in summa felicitatis arce timeamus? Si enim venturam calamitatem ignoraturi sumus, peritior est hic nostra miseria, ubi venturam beatitudinem novimus; si autem nos illic clades inminens non latebit, beatius tempora transigit anima misera quibus transactis ad beatitudinem sublevetur, quam beata quibus transactis in miseriam revolvatur. Atque ita spes nostrae infelicitatis est felix et felicitatis infelix. Unde fit, ut quia hic mala praesentia patimur, ibi metuimus inminentia, verius semper miseri quam beati aliquando esse possimus. Sed quoniam haec falsa sunt clamante pietate, convincente veritate; (illa enim nobis veraciter promittitur vera felicitas, cuius erit semper retinenda, et nulla infelicitate rumpenda certa securitas): viam rectam sequentes, quae nobis est Christus, eo duce ac salvatore a vano et inepto impiorum circuitu iter fidei mentemque avertamus. Si enim de istis circuitibus et sine cessatione alternantibus itionibus et reditionibus animarum Porphyrius Platonicus suorum opinionem sequi noluit, sive ispius rei vanitate permotus, sive iam tempora Christiana reveritus; et quod in libro decimo commemoravi, dicere maluit, animam propter cognoscenda mala traditam mundo, ut ab eis liberata atque purgata, cum ad Patrem redierit, nihil ulterius tale patiatur: quanto magis nos istam inimicam Christianae fidei falsitatem detestari ac devitare debemus! His autem circuitibus evacuatis atque frustratis, nulla necessitas nos compellit, ideo putare non habere initium temporis ex quo esse coeperit genus humanum, quia per nescio quos circuitus nihil sit in rebus novi, quod non et antea certis intervallis temporum fuerit, et postea sit futurum. Si enim liberatur anima non reditura ad miserias, sicut numquam antea liberata est, fit in illa aliquid quod antea numquam factum est, et hoc quidem valde magnum, id est, quae numquam desinat aeterna felicitas. Si autem in natura inmortali fit tanta novitas, nullo repetita, nullo repetenda circuitu, cur in rebus mortalibus fieri non posse contenditur? Si dicunt non fieri in anima beatitudinis novitatem, quoniam ad eam revertitur in qua semper fuit, ipsa certe liberatio nova fit, cum de miseria liberatur in qua numquam fuit, et

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ipsa miseriae novitas in ea facta est quae numquam fuit. Haec autem novitas si non in rerum, quae divina providentia gubernantur, ordinem venit, sed casu potius evenit, ubi sunt illi determinati dimensique circuitus, in quibus nulla nova fiunt, sed repetuntur eadem quae fuerunt? Si autem et haec novitas ab ordinatione providentiae non excluditur, sive data sit anima, sive lapsa sit, possunt fieri nova; quae neque antea facta sint, nec tamen a rerum ordine aliena sint. Et si potuit anima per inprudentiam facere sibi novam miseriam, quae non essent improvisa divinae providentiae, ut hanc quoque in rerum ordine includeret, et ab hac eam non improvide liberaret; qua tandem temeritate humanae vanitatis audemus negare divinitatem facere posse res, non sibi, sed mundo novas, quas neque antea fecerit, nec umquam habuerit improvisas? Si autem dicunt liberatas quidem animas ad miseriam non reversuras, sed cum hoc fit, in rebus nihil novi fieri, quoniam semper aliae atque aliae liberatae sunt, et liberantur, et liberabuntur: hoc certe concedunt, si ita est, novas animas fieri, quibus sit et nova miseria et nova liberatio. Nam si antiquas eas esse dicunt, et retrorsum sempiternas, ex quibus cotidie novi fiant homines, de quorum corporibus, si sapienter vixerint, ita liberentur, ut nunquam ad miserias revolvantur, consequenter dicturi sunt infinitas. Quantuslibet namque finitus numerus fuisset animarum, infinitis retro saeculis sufficere non valeret, ut ex illo semper homines fierent, quorum essent animae ab ista semper mortalitate liberandae, numquam ad eam deinceps rediturae. Nec ullo modo explicabunt, quo modo in rebus, quas, ut Deo notae esse possint, finitas volunt, infinitus sit numerus animarum. Quapropter quoniam circuitus illi iam explosi sunt, quibus ad easdem miserias necessario putabatur anima reditura; quid restat convenientius pietati, quam credere non esse inpossibile Deo et ea, quae numquam fecerit nova facere, et ineffabili praescientia voluntatem mutabilem non habere? Porro autem utrum animarum liberatarum nec ulterius ad miserias rediturarum numerus possit semper augeri, ipsi viderint, qui de rerum infinitate cohibenda tam subtiliter disputant: nos vero ratiocinationem nostram ex utroque latere terminamus. Si enim potest, quid causae est, ut negetur creari potuisse quod numquam antea creatum esset, si liberatarum animarum numerus, qui numquam antea fuit, non solum factus est semel, sed fieri numquam desinet? Si autem oportet ut certus sit liberatarum aliquis numerus animarum, quae ad miseriam numquam redeant, neque iste numerus ulterius augeatur; etiam ipse sine dubio quicumque erit, ante utique numquam fuit: qui profecto crescere, et ad suae quantitatis terminum pervenire sine aliquo non posset initio; quod initium eo modo antea numquam fuit. Hoc ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit.

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V

Si ergo quaeratur a nobis, quid civitas Dei de his singulis interrogata respondeat ac primum de finibus bonorum malorumque quid sentiat: respondebit aeternam vitam esse summum bonum, aeternam vero mortem summum malum; propter illam proinde adipiscendam istamque vitandam recte nobis esse vivendum. Propter quod scriptum est: Iustus ex fide vivit; quoniam neque bonum nostrum iam videmus, unde oportet ut credendo quaeramus, neque ipsum recte vivere nobis ex nobis est, nisi credentes adiuvet et orantes qui et ipsam fidem dedit, qua nos ab illo adiuvandos esse credamus. Illi autem, qui in ista vita fines bonorum et malorum esse putaverunt, sive in corpore sive in animo sive in utroque ponentes summum bonum, atque, ut id explicatius eloquar, sive in voluptate sive in virtute sive in utraque, sive in quiete sive in virtute sive in utraque, sive in voluptate simul et quiete sive in virtute sive in utrisque, sive in primis naturae sive in virtute sive in utrisque, hic beati esse et a se ipsis beatificari mira vanitate voluerunt. Inrisit hos Veritas per prophetam dicentem: Dominus novit cogitationes hominum, vel, sicut hoc testimonium posuit apostolus Paulus: Dominus novit cogitationes sapientium, quoniam vanae sunt. Quis enim sufficit quantovis eloquentiae flumine vitae huius miserias explicare? Quam lamentatus est Cicero in consolatione de morte filiae, sicut potuit; sed quantum est quod potuit? Ea quippe, quae dicuntur prima naturae, quando, ubi, quo modo tam bene se habere in hac vita possunt, ut non sub incertis casibus fluctuent? Quis enim dolor contrarius voluptati, quae inquietudo contraria quieti in corpus cadere sapientis non potest? Membrorum certe amputatio vel debilitas hominis expugnat incolumitatem, deformitas pulchritudinem, inbecillitas sanitatem, vires lassitudo, mobilitatem torpor aut tarditas; et quid horum est, quod nequeat in carnem sapientis inruere? Status quoque corporis atque motus, cum decentes et congruentes sunt, inter naturae prima numerantur; sed quid si aliqua mala valetudo membra tremore concutiat? quid si usque ad ponendas in terra manus dorsi spina curvetur et hominem quodam modo quadrupedem faciat?

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Nonne omnem statuendi corporis et movendi speciem decusque pervertet? Quid ipsius animi primigenia quae appellantur bona, ubi duo prima ponunt propter comprehensionem perceptionemque veritatis sensum et intellectum? Sed qualis quantusque remanet sensus, si, ut alia taceam, fiat homo surdus et caecus? Ratio vero et intellegentia quo recedet, ubi sopietur, si aliquo morbo efficiatur insanus? Phrenetici multa absurda cum dicunt vel faciunt, plerumque a bono suo proposito et moribus aliena, immo suo bono proposito moribusque contraria, sive illa cogitemus sive videamus, si digne consideremus, lacrimas tenere vix possumus aut forte nec possumus. Quid dicam de his, qui daemonum patiuntur incursus? Ubi habent absconditam vel obrutam intellegentiam suam, quando secundum suam voluntatem et anima eorum et corpore malignus utitur spiritus? Et quis confidit hoc malum in hac vita evenire non posse sapienti? Deinde perceptio veritatis in hac carne qualis aut quanta est, quando, sicut legimus in veraci libro sapientiae: corpus corruptibile adgravat animam et deprimit terrena inhabitatio sensum multa cogitantem? Impetus porro vel appetitus actionis, si hoc modo recte Latine appellatur ea, quam Graeci vocant, oérmh@ quia et ipsam primis naturae deputant bonis, nonne ipse est, quo geruntur etiam insanorum illi miserabiles motus et facta, quae horremus, quando pervertitur sensus ratioque sopitur? Porro ipsa virtus, quae non est inter prima naturae, quoniam eis postea doctrina introducente supervenit, cum sibi bonorum culmen vindicet humanorum, quid hic agit nisi perpetua bella cum vitiis, nec exterioribus, sed interioribus, nec alienis, sed plane nostris et propriis, maxime illa, quae Graece, swfrosu@nh Latine temperantia nominatur, qua carnales frenantur libidines, ne in quaeque flagitia mentem consentientem trahant? Neque enim nullum est vitium, cum, sicut dicit apostolus, caro concupiscit adversus spiritum; cui vitio contraria virtus est, cum, sicut idem dicit: spiritus concupiscit adversus carnem. Haec enim, inquit, invicem adversantur, ut non ea quae vultis faciatis. Quid autem facere volumus, cum perfici volumus fine summi boni, nisi ut caro adversus spiritum non concupiscat, nec sit in nobis hoc vitium, contra quod spiritus concupiscat? Quod in hac vita, quamvis velimus, quoniam facere non valemus, id saltem in adiutorio Dei facimus, ne carni concupiscenti adversus spiritum spiritu succumbente cedamus et ad perpetrandum peccatum nostra consensione pertrahamur. Absit ergo ut, quamdiu in hoc bello intestino sumus, iam nos beatitudinem, ad quam vincendo volumus pervenire, adeptos esse credamus. Et quis est usque adeo sapiens, ut contra libidines nullum habeat omnino conflictum?




Quid illa virtus, quae prudentia dicitur, nonne tota vigilantia sua bona discernit a malis, ut in illis appetendis istisque vitandis nullus error obrepat, ac per hoc et ipsa nos in malis vel mala in nobis esse testatur? Ipsa enim docet malum esse ad peccandum consentire bonumque esse ad peccandum non consentire libidini. Illud tamen malum, cui nos non consentire docet prudentia, facit temperantia, nec prudentia nec temperantia tollit huic vitae. Quid iustitia, cuius munus est sua cuique tribuere (unde fit in ipso homine quidam iustus ordo naturae, ut anima subdatur Deo et animae caro, ac per hoc Deo et anima et caro), nonne demonstrat in eo se adhuc opere laborare potius quam in huius operis iam fine requiescere? Tanto minus quippe anima subditur Deo, quanto minus Deum in ipsis suis cogitationibus concipit; et tanto minus animae subditur caro, quanto magis adversus spiritum concupiscit. Quamdiu ergo nobis inest haec infirmitas, haec pestis, hic languor, quo modo nos iam salvos, et si nondum salvos, quo modo iam beatos illa finali beatitudine dicere audebimus? Iam vero illa virtus, cuius nomen est fortitudo, in quantacumque sapientia evidentissima testis est humanorum malorum, quae compellitur patientia tolerare. Quae mala Stoici philosophi miror qua fronte mala non esse contendant, quibus fatentur, si tanta fuerint, ut ea sapiens vel non possit vel non debeat sustinere, cogi eum mortem sibimet inferre atque ex hac vita emigrare. Tantus autem superbiae stupor est in his hominibus hic se habere finem boni et a se ipsis fieri beatos putantibus, ut sapiens eorum, hoc est, qualem mirabili vanitate describunt, etiamsi excaecetur, obsurdescat, obmutescat, membris debilitetur, doloribus crucietur et, si quid aliud talium malorum dici aut cogitari potest, incidat in eum, quo sibi mortem cogatur inferre, hanc in his malis vitam constitutam eum non pudeat beatam vocare. O vitam beatam, quae ut finiatur mortis quaerit auxilium! Si beata est, maneatur in ea. Quo modo ista non sunt mala, quae vincunt fortitudinis bonum eamdemque fortitudinem non solum sibi cedere, verum etiam delirare compellunt, ut eandem vitam et dicat beatam et persuadeat esse fugiendam? Quis usque adeo caecus est, ut non videat, quod, si beata esset, fugienda non esset? Sed aperta infirmitatis voce fugiendam fatentur. Quid igitur causae est, cur non etiam miseram fracta superbiae cervice fateantur? Utrum, obsecro, Cato ille patientia an potius inpatientia se peremit? Non enim hoc fecisset, nisi victoriam Caesaris inpatienter tulisset. Ubi est fortitudo? Nempe cessit, nempe succubuit, nempe usque adeo superata est, ut vitam beatam derelinqueret, desereret, fugeret. An non erat iam beata? Misera ergo erat. Quo modo igitur mala non erant, quae vitam miseram fugiendamque faciebant?

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Quapropter etiam ipsi, qui mala ista esse confessi sunt, sicut Peripatetici, sicut veteres Academici, quorum sectam Varro defendit, tolerabilius quidem loquuntur, sed eorum quoque mirus est error, quod in his malis, etsi tam gravia sint, ut morte fugienda sint ab ipso sibimet inlata, qui haec patitur, vitam beatam tamen esse contendunt. «Mala sunt, inquit, tormenta atque cruciatus corporis, et tanto sunt peiora, quanto potuerint esse maiora; quibus ut careas, ex hac vita fugiendum est». Qua vita, obsecro? «Hac, inquit, quae tantis adgravatur malis». Certe ergo beata est in eisdem ipsis malis, propter quae dicis esse fugiendam? An ideo beatam dicis, quia licet tibi ab his malis morte discedere? Quid si ergo in eis aliquo divino iudicio tenereris nec permittereris mori nec umquam sine illis esse sinereris? Nempe tunc saltem miseram talem diceres vitam. Non igitur propterea misera non est, quia cito relinquitur. Quando quidem si sempiterna sit, etiam abs te ipso misera iudicatur; non itaque propterea, quoniam brevis est, nulla miseria debet videri aut, quod est absurdius, quia brevis miseria est, ideo etiam beatitudo appellari. Magna vis est in eis malis, quae cogunt hominem secundum ipsos etiam sapientem sibimet auferre quod homo est; cum dicant, et verum dicant, hanc esse naturae primam quodam modo et maximam vocem, ut homo concilietur sibi et propterea mortem naturaliter fugiat, ita sibi amicus, ut esse se animal et in hac coniunctione corporis atque animae vivere velit vehementer atque appetat. Magna vis est in eis malis, quibus iste naturae vincitur sensus, quo mors omni modo omnibus viribus conatibusque vitatur, et ita vincitur, ut, quae vitabatur, optetur appetatur et, si non potuerit aliunde contingere, ab homine ipso sibimet inferatur. Magna vis est in eis malis, quae fortitudinem faciunt homicidam; si tamen adhuc dicenda est fortitudo, quae ita his malis vincitur, ut hominem, quem sicut virtus regendum tuendumque suscepit, non modo non possit per patientiam custodire, sed ipsa insuper cogatur occidere. Debet quidem etiam mortem sapiens ferre patienter, sed quae accidit aliunde. Secundum istos autem si eam sibi ipse inferre compellitur, profecto fatendum est eis non solum mala, sed intolerabilia etiam mala esse, quae hoc eum perpetrare compellunt. Vita igitur, quae istorum tam magnorum tamque gravium malorum aut premitur oneribus aut subiacet casibus, nullo modo beata diceretur, si homines, qui hoc dicunt, sicut victi malis ingravescentibus, cum sibi ingerunt mortem, cedunt infelicitati, ita victi certis rationibus, cum quaerunt beatam vitam, dignarentur cedere veritati et non sibi putarent in ista mortalitate fine summi boni esse gaudendum, ubi virtutes ipsae, quibus hic certe nihil melius atque utilius in homine reperitur, quanto maiora sunt adiutoria contra

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vim periculorum, laborum, dolorum, tanto fideliora testimonia miseriarum. Si enim verae virtutes sunt, quae nisi in eis, quibus vera inest pietas, esse non possunt; non se profitentur hoc posse, ut nullas miserias patiantur homines, in quibus sunt (neque enim mendaces sunt verae virtutes, ut hoc profiteantur), sed ut vita humana, quae tot et tantis huius saeculi malis esse cogitur misera, spe futuri saeculi sit beata, sicut et salva. Quo modo enim beata est, quae nondum salva est? Unde et apostolus Paulus non de hominibus inprudentibus, inpatientibus, intemperantibus et iniquis, sed de his qui secundum veram pietatem viverent et ideo virtutes, quas haberent, veras haberent, ait: Spe enim salvi facti sumus. Spes autem quae videtur, non est spes. Quod enim videt quis, quid et sperat? Si autem quod non videmus speramus, per patientiam exspectamus. Sicut ergo spe salvi, ita spe beati facti sumus, et sicut salutem, ita beatitudinem non iam tenemus praesentem, sed exspectamus futuram, et hoc per patientiam; quia in malis sumus, quae patienter tolerare debemus, donec ad illa veniamus bona, ubi omnia erunt, quibus ineffabiliter delectemur, nihil erit autem, quod iam tolerare debeamus. Talis salus, quae in futuro erit saeculo, ipsa erit etiam finalis beatitudo. Quam beatitudinem isti philosophi, quoniam non videntes nolunt credere, hic sibi conantur falsissimam fabricare, quanto superbiore, tanto mendaciore virtute.

Sed in huius mortalitatis aerumna quot et quantis abundet malis humana societas, quis enumerare valeat? quis aestimare sufficiat? Audiant apud comicos suos hominem cum sensu atque consensu omnium hominum dicere: Duxi uxorem; quam ibi miseriam vidi! Nati filii, Alia cura. Quid itidem illa, quae in amore vitia commemorat idem Terentius: «iniuriae, suspiciones, inimicitiae bellum, pax rursum»; nonne res humanas ubique impleverunt? nonne et in amicorum honestis amoribus plerumque contingunt? nonne his usquequaque plenae sunt res humanae, ubi iniurias, suspiciones, inimicitias bellum mala certa sentimus; pacem vero incertum bonum, quoniam corda eorum, cum quibus eam tenere volumus, ignoramus, et si hodie nosse possemus, qualia cras futura essent utique nesciremus. Qui porro inter se amiciores solent esse vel debent, quam qui una etiam continentur domo? Et tamen quis inde securus est, cum tanta saepe mala ex eorum occultis insidiis extiterint, tanto amariora, quanto pax dulcior fuit; quae vera putata est, cum astutissime fingeretur? Propter quod omnium pectora sic adtingit, ut cogat in gemitum, quod ait Tullius: «Nullae sunt occultiores insidiae quam hae, quae latent in simulatione officii aut in aliquo

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necessitudinis nomine. Nam eum, qui palam est adversarius, facile cavendo vitare possis; hoc vero occultum intestinum ac domesticum malum non solum exsistit, verum etiam opprimit, antequam prospicere atque explorare potueris». Propter quod etiam divina vox illa: Et inimici hominis domestici eius cum magno dolore cordis auditur, quia etsi quisque tam fortis sit, ut aequo animo perferat, vel tam vigilans, ut provido consilio caveat, quae adversus eum molitur amicitia simulata, eorum tamen hominum perfidorum malo, cum eos esse pessimos experitur, si ipse bonus est, graviter excrucietur necesse est, sive semper mali fuerint et se bonos finxerint, sive in istam malitiam ex bonitate mutati sint. Si ergo domus, commune perfugium in his malis humani generis, tuta non est, quid civitas, quae quanto maior est, tanto forum eius litibus et civilibus et criminalibus plenius, etiamsi quiescant non solum turbulentae, verum saepius et cruentae seditiones ac bella civilia, a quorum eventis sunt aliquando liberae civitates, a periculis numquam?

Post civitatem vel urbem sequitur orbis terrae, in quo tertium gradum ponunt societatis humanae, incipientes a domo atque inde ad urbem, deinde ad orbem progrediendo venientes; qui utique, sicut aquarum congeries, quanto maior est, tanto periculis plenior. In quo primum linguarum diversitas hominem alienat ab homine. Nam si duo sibimet invicem fiant obviam neque praeterire, sed simul esse aliqua necessitate cogantur, quorum neuter linguam novit alterius: facilius sibi muta animalia, etiam diversi generis, quam illi, cum sint homines ambo, sociantur. Quando enim quae sentiunt inter se communicare non possunt, propter solam diversitatem linguae nihil prodest ad consociandos homines tanta similitudo naturae, ita ut libentius homo sit cum cane suo quam cum homine alieno. At enim opera data est, ut imperiosa civitas non solum iugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imponeret, per quam non deesset, immo et abundaret etiam interpretum copia. Verum est; sed hoc quam multis et quam grandibus bellis, quanta strage hominum, quanta effusione humani sanguinis comparatum est? Quibus transactis, non est tamen eorundem malorum finita miseria. Quamvis enim non defuerint neque desint hostes exterae nationes, contra quas semper bella gesta sunt et geruntur; tamen etiam ipsa imperii latitudo peperit peioris generis bella, socialia scilicet et civilia, quibus miserabilius quatitur humanum genus, sive cum belligeratur, ut aliquando conquiescant, sive cum timetur, ne rursus exsurgant. Quorum malorum multas et multiplices clades, duras et diras necessitates si ut

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dignum est eloqui velim, quamquam nequaquam sicut res postulat possim; quis erit prolixae disputationis modus? Sed sapiens, inquiunt, iusta bella gesturus est. Quasi non, si se hominem meminit, multo magis dolebit iustorum necessitatem sibi extitisse bellorum, quia nisi iusta essent, ei gerenda non essent, ac per hoc sapienti nulla bella essent. Iniquitas enim partis adversae iusta bella ingerit gerenda sapienti; quae iniquitas utique homini est dolenda, quia hominum est, etsi nulla ex ea bellandi necessitas nasceretur. Haec itaque mala tam magna, tam horrenda, tam saeva quisquis cum dolore considerat, miseriam fateatur; quisquis autem vel patitur ea sine animi dolore vel cogitat, multo utique miserius ideo se putat beatum, quia et humanum perdidit sensum.

Si autem non contingat quaedam ignorantia similis dementiae, quae tamen in huius vitae misera condicione saepe contingit, ut credatur vel amicus esse, qui inimicus est, vel inimicus, qui amicus est; quid nos consolatur in hac humana societate erroribus aerumnisque plenissima nisi fides non ficta et mutua dilectio verorum et bonorum amicorum? Quos quanto plures et in locis pluribus habemus, tanto longius latiusque metuimus, ne quid eis contingat mali de tantis malorum aggeribus huius saeculi. Non enim tantummodo solliciti sumus, ne fame, ne bellis, ne morbis, ne captivitatibus affligantur, ne in eadem servitute talia patiantur, qualia nec cogitare sufficimus; verum etiam, ubi timor est multo amarior, ne in perfidiam malitiam nequitiamque mutentur. Et quando ista contingunt (tanto utique plura, quanto illi sunt plures) et in nostram notitiam perferuntur, quibus cor nostrum flagris uratur, quis potest, nisi qui talia sentit, advertere? Mortuos quippe audire mallemus, quamvis et hoc sine dolore non possimus audire. Quorum enim nos vita propter amicitiae solacia delectabat, unde fieri potest, ut eorum mors nullam nobis ingerat maestitudinem? Quam qui prohibet, prohibeat, si potest, amica conloquia, interdicat amicalem vel intercidat affectum, humanarum omnium necessitudinum vincula mentis inmiti stupore disrumpat aut sic eis utendum censeat, ut nulla ex eis animum dulcedo perfundat. Quod si fieri nullo modo potest, etiam hoc quo pacto futurum est, ut eius nobis amara mors non sit, cuius dulcis est vita? Hinc enim est et luctus quoddam non inhumani cordis quasi vulnus aut ulcus, cui sanando adhibentur officiosae consolationes. Non enim propterea non est quod sanetur, quoniam quanto est animus melior, tanto in eo citius faciliusque sanatur. Cum igitur etiam de carissimorum mortibus, maxime quorum sunt humanae societati officia necessaria, nunc mitius, nunc

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asperius affligatur vita mortalium; mortuos tamen eos, quos diligimus, quam vel a fide vel a bonis moribus lapsos, hoc est in ipsa anima mortuos, audire seu videre mallemus. Qua ingenti materia malorum plena est terra, propter quod scriptum est: Numquid non temptatio est vita humana super terram? et propter quod ipse Dominus ait: Vae mundo ab scandalis; et iterum: Quoniam abundavit, inquit, iniquitas, refrigescet caritas multorum. Ex quo fit, ut bonis amicis mortuis gratulemur et, cum mors eorum nos contristet, ipsa nos certius consoletur, quoniam caruerunt malis, quibus in hac vita etiam boni homines vel conteruntur vel depravantur vel in utroque periclitantur.

In societate vero sanctorum angelorum, quam philosophi illi, qui nobis deos amicos esse voluerunt, quarto constituerunt loco, velut ad mundum venientes ab orbe terrarum, ut sic quodam modo complecterentur et caelum, nullo modo quidem metuimus, ne tales amici vel morte nos sua vel depravatione contristent. Sed quia nobis non ea, qua homines, familiaritate miscentur (quod etiam ipsum ad aerumnas huius pertinet vitae) et aliquando Satanas, sicut legimus, transfigurat se velut angelum lucis ad temptandos eos, quos ita vel erudiri opus est vel decipi iustum est; magna Dei misericordia necessaria est, ne quisquam, cum bonos angelos amicos se habere putat, habeat malos daemones fictos amicos, eosque tanto nocentiores, quanto astutiores ac fallaciores, patiatur inimicos. Et cui magna ista Dei misericordia necessaria est nisi magnae humanae miseriae, quae ignorantia tanta premitur, ut facile istorum simulatione fallatur? Et illos quidem philosophos in impia civitate, qui deos sibi amicos esse dixerunt, in daemones malignos incidisse certissimum est, quibus tota ipsa civitas subditur, aeternum cum eis habitura supplicium. Ex eorum quippe sacris vel potius sacrilegiis, quibus eos colendos, et ex ludis immundissimis, ubi eorum crimina celebrantur, quibus eos placandos putaverunt eisdem ipsis auctoribus et exactoribus talium tantorumque dedecorum, satis ab eis qui colantur apertum est.

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VI

Nam quod ad primam originem pertinet, omnem mortalium progeniem fuisse damnatam, haec ipsa vita, si vita dicenda est, tot et tantis malis plena testatur. Quid enim aliud indicat horrenda quaedam profunditas ignorantiae, ex qua omnis error existit, qui omnes filios Adam tenebroso quodam sinu suscepit, ut homo ab illo liberari sine labore dolore timore non possit? Quid amor ipse tot rerum vanarum atque noxiarum et ex hoc mordaces curae, perturbationes, maerores, formidines, insana gaudia, discordiae, lites, bella, insidiae, iracundiae, inimicitiae, fallacia, adulatio, fraus, furtum, rapina, perfidia, superbia, ambitio, invidentia, homicidia, parricidia, crudelitas, saevitia, nequitia, luxuria, petulantia, inpudentia, inpudicitia, fornicationes, adulteria, incesta et contra naturam utriusque sexus tot stupra atque inmunditiae, quas turpe est etiam dicere, sacrilegia, haereses, blasphemiae, periuria, oppressiones innocentium, calumniae, circumventiones, praevaricationes, falsa testimonia, iniqua iudicia, violentiae, latrocinia et quidquid talium malorum in mentem non venit et tamen de vita ista hominum non recedit? Verum haec hominum sunt malorum, ab illa tamen erroris et perversi amoris radice venientia, cum qua omnis filius Adam nascitur. Nam quis ignorat cum quanta ignorantia veritatis, quae iam in infantibus manifesta est, et cum quanta abundantia vanae cupiditatis, quae in pueris incipit apparere, homo veniat in hanc vitam, ita ut, si dimittatur vivere ut velit et facere quidquid velit, in haec facinora et flagitia, quae commemoravi et quae commemorare non potui, vel cuncta vel multa perveniat? Sed divina gubernatione non omni modo deserente damnatos et Deo non continente in ira sua miserationes suas in ipsis sensibus generis humani prohibitio et eruditio contra istas, cum quibus nascimur, tenebras vigilant et contra hos impetus opponuntur, plenae tamen etiam ipsae laborum et dolorum. Quid enim sibi volunt multimodae formidines, quae cohibendis parvulorum vanitatibus adhibentur? Quid paedagogi, quid magistri, quid ferulae, quid lora, quid virgae, quid disciplina illa, qua Scriptura sancta dicit dilecti filii latera esse tundenda, ne crescat indomitus domarique iam

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durus aut vix possit aut fortasse nec possit? Quid agitur his poenis omnibus, nisi ut debelletur inperitia et prava cupiditas infrenetur, cum quibus malis in hoc saeculum venimus? Quid est enim, quod cum labore meminimus, sine labore obliviscimur; cum labore discimus, sine labore nescimus; cum labore strenui, sine labore inertes sumus? Nonne hinc apparet, in quid velut pondere suo proclivis et prona sit vitiosa natura et quanta ope, ut hinc liberetur, indigeat? Desidia, segnitia, pigritia, neglegentia, vitia sunt utique quibus labor fugitur, cum labor ipse, etiam qui est utilis, poena sit. Sed praeter pueriles poenas, sine quibus disci non potest quod maiores volunt, qui vix aliquid utiliter volunt, quot et quantis poenis genus agitetur humanum, quae non ad malitiam nequitiamque iniquorum, sed ad condicionem pertinent miseriamque communem, quis ullo sermone digerit? quis ulla cogitatione comprehendit? Quantus est metus, quanta calamitas ab orbitatibus atque luctu, a damnis et damnationibus, a deceptionibus et mendaciis hominum, a suspicionibus falsis, ab omnibus violentis facinoribus et sceleribus alienis! quando quidem ab eis et depraedatio et captivitas, et vincla et carceres, et exilia et cruciatus, et amputatio membrorum et privatio sensuum, et oppressio corporis ad obscenam libidinem opprimentis explendam et alia multa horrenda saepe contingunt. Quid? ab innumeris casibus quae forinsecus corpori formidantur, aestibus et frigoribus, tempestatibus, imbribus, adluvionibus, coruscatione, tonitru, grandine, fulmine, motibus hiatibusque terrarum, oppressionibus ruinarum, ab offensionibus et pavore vel etiam malitia iumentorum, a tot venenis fruticum, aquarum, aurarum, bestiarum, a ferarum vel tantummodo molestis vel etiam mortiferis morsibus, a rabie quae contingit ex rabido cane, ut etiam blanda et amica suo domino bestia nonnumquam vehementius et amarius quam leones draconesque metuatur faciatque hominem, quem forte adtaminaverit, contagione pestifera ita rabiosum, ut a parentibus, coniuge, filiis peius omni bestia formidetur! Quae mala patiuntur navigantes! quae terrena itinera gradientes! Quis ambulat ubicumque non inopinatis subiacens casibus? De foro quidam rediens domum sanis pedibus suis cecidit, pedem fregit et ex illo vulnere finivit hanc vitam. Quid videtur sedente securius? De sella, in qua sedebat, cecidit Heli sacerdos et mortuus est. Agricolae, immo vero omnes homines, quot et quantos a caelo et terra vel a perniciosis animalibus casus metuunt agrorum fructibus! Solent tamen de frumentis tandem collectis et reconditis esse securi. Sed quibusdam, quod novimus, proventum optimum frumentorum fluvius inprovisus fugientibus hominibus de horreis eiecit atque abstulit. Contra milleformes daemonum incursus quis innocentia sua fidit? quando quidem, ne quis fideret, etiam parvulos baptizatos, quibus certe nihil

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est innocentius, aliquando sic vexant, ut in eis maxime Deo ista sinente monstretur huius vitae flenda calamitas et alterius desideranda felicitas. Iam vero de ipso corpore tot existunt morborum mala, ut nec libris medicorum cuncta conprehensa sint; in quorum pluribus ac paene omnibus etiam ipsa adiumenta et medicamenta tormenta sunt, ut homines a poenarum exitio poenali eruantur auxilio. Nonne ad hoc perduxit sitientes homines ardor inmanis, ut urinam quoque humanam vel etiam suam biberent? nonne ad hoc fames, ut a carnibus hominum se abstinere non possent nec inventos homines mortuos, sed propter hoc a se occisos, nec quoslibet alienos, verum etiam filios matres incredibili crudelitate, quam rabida esuries faciebat, absumerent? Ipse postremo somnus, qui proprie quietis nomen accepit, quis verbis explicet, saepe somniorum visis quam sit inquietus et quam magnis, licet falsarum rerum, terroribus, quas ita exhibet et quodam modo exprimit, ut a veris eas discernere nequeamus, animam miseram sensusque perturbet? Qua falsitate visorum etiam vigilantes in quibusdam morbis et venenis miserabilius agitantur; quamvis multimoda varietate fallaciae homines etiam sanos maligni daemones nonnumquam decipiant talibus visis, ut, etiamsi eos per haec ad sua traducere non potuerint, sensus tamen eorum solo appetitu qualitercumque persuadendae falsitatis inludant.

Ab huius tam miserae quasi quibusdam inferis vitae non liberat nisi gratia Salvatoris Christi, Dei ac Domini nostri (hoc enim nomen est ipse Iesus; interpretatur quippe “Salvator”), maxime ne post hanc miserior ac sempiterna suscipiat, non vita, sed mors. Nam in ista quamvis sint per sancta et sanctos curationum magna solacia, tamen ideo non semper etiam ipsa beneficia tribuuntur petentibus, ne propter hoc religio quaeratur, quae propter aliam magis vitam, ubi mala non erunt omnino ulla, quaerenda est; et ad hoc meliores quosque in his malis adiuvat gratia, ut quanto fideliore, tanto fortiore corde tolerentur. Ad quam rem etiam philosophiam prodesse dicunt docti huius saeculi, quam dii quibusdam paucis, ait Tullius, veram dederunt; nec hominibus, inquit, ab his aut datum est donum maius aut potuit ullum dari. Usque adeo et ipsi, contra quos agimus, quoquo modo compulsi sunt in habenda non quacumque, sed vera philosophia divinam gratiam confiteri. Porro si paucis divinitus datum est verae philosophiae contra miserias huius vitae unicum auxilium, satis et hinc apparet humanum genus ad luendas miseriarum poenas esse damnatum. Sicut autem hoc, ut fatentur, nullum divinum maius est donum, sic a nullo deo dari credendum

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est, nisi ab illo, quo et ipsi qui multos deos colunt, nullum dicunt esse maiorem.

Praeter haec autem mala huius vitae bonis malisque communia habent in ea iusti etiam proprios quosdam labores suos, quibus adversus vitia militant et in talium proeliorum temptationibus periculisque versantur. Aliquando enim concitatius, aliquando remissius, non tamen desinit caro concupiscere adversus spiritum et spiritus adversus carnem, ut non ea quae volumus faciamus, omnem malam concupiscentiam consumendo, sed eam nobis, quantum divinitus adiuti possumus, non ei consentiendo subdamus, vigiliis continuis excubantes, ne opinio veri similis fallat, ne decipiat sermo versutus, ne se tenebrae alicuius erroris offundant, ne quod bonum est malum aut quod malum est bonum esse credatur, ne ab his quae agenda sunt metus revocet, ne in ea quae agenda non sunt cupido praecipitet, ne super iracundiam sol occidat, ne inimicitiae provocent ad retributionem mali pro malo, ne absorbeat inhonesta vel inmoderata tristitia, ne inpertiendorum beneficiorum ingerat mens ingrata torporem, ne maledicis rumoribus bona conscientia fatigetur, ne temeraria de alio suspicio nos nostra decipiat, ne aliena de nobis falsa nos frangat, ne regnet peccatum in nostro mortali corpore ad oboediendum desideriis eius, ne membra nostra exhibeantur iniquitatis arma peccato, ne oculus sequatur concupiscentiam, ne vindicandi cupiditas vincat, ne in eo quod male delectat vel visio vel cogitatio remoretur, ne inprobum aut indecens verbum libenter audiatur, ne fiat quod non licet etiamsi libet, ne in hoc bello laborum periculorumque plenissimo vel de viribus nostris speretur facienda victoria vel viribus nostris facta tribuatur, sed eius gratiae, de quo ait apostolus: Gratias autem Deo, qui dat nobis victoriam per Dominum nostrum Iesum Christum; qui et alio loco: In his, inquit, omnibus supervincimus per eum qui dilexit nos. Sciamus tamen, quantalibet virtute proeliandi vitiis repugnemus vel etiam vitia superemus et subiugemus, quamdiu sumus in hoc corpore, nobis deesse non posse unde dicamus Deo: Dimitte nobis debita nostra. In illo autem regno, ubi semper cum corporibus inmortalibus erimus, nec proelia nobis erunt ulla nec debita; quae nusquam et numquam essent, si natura nostra, sicut recta creata est, permaneret. Ac per hoc etiam noster iste conflictus, in quo periclitamur et de quo nos victoria novissima cupimus liberari, ad vitae huius mala pertinet, quam tot tantorumque testimonio malorum probamus esse damnatam.

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VII

Ex quo enim quisque in isto corpore morituro esse coeperit, numquam in eo non agitur ut mors veniat. Hoc enim agit eius mutabilitas toto tempore vitae huius (si tamen vita dicenda est), ut veniatur in mortem. Nemo quippe est, qui non ei post annum sit, quam ante annum fuit, et cras quam hodie, et hodie quam heri, et paulo post quam nunc, et nunc quam paulo ante propinquior; quoniam, quidquid temporis vivitur, de spatio vivendi demitur, et cotidie fit minus minusque quod restat, ut omnino nihil sit aliud tempus vitae huius, quam cursus ad mortem, in quo nemo vel paululum stare vel aliquanto tardius ire permittitur; sed urgentur omnes pari motu nec diverso inpelluntur accessu. Neque enim, cui vita brevior fuit, celerius diem duxit quam ille, cui longior; sed cum aequaliter et aequalia momenta raperentur ambobus, alter habuit propius, alter remotius, quo non inpari velocitate ambo currebant. Aliud est autem amplius viae peregisse, aliud tardius ambulasse. Qui ergo usque ad mortem productiora spatia temporis agit, non lentius pergit, sed plus itineris conficit. Porro si ex illo quisque incipit mori, hoc est esse in morte, ex quo in illo agi coeperit ipsa mors, id est vitae detractio (quia, cum detrahendo finita fuerit, post mortem iam erit, non in morte): profecto, ex quo esse incipit in hoc corpore, in morte est. Quid enim aliud diebus horis momentisque singulis agitur, donec ea consumpta mors, quae agebatur, impleatur, et incipiat iam tempus esse post mortem, quod, cum vita detraheretur, erat in morte? Numquam igitur in vita homo est, ex quo est in isto corpore moriente potius quam vivente, si et in vita et in morte simul non potest esse. An potius et in vita et in morte simul est; in vita scilicet, in qua vivit, donec tota detrahatur; in morte autem, quia iam moritur, cum vita detrahitur? Si enim non est in vita, quid est quod detrahitur, donec eius fiat perfecta consumptio? Si autem non est in morte, quid est vitae ipsa detractio? Non enim frustra, cum vita fuerit corpori tota detracta, post mortem iam dicitur, nisi quia mors erat, cum detraheretur. Nam si ea detracta non est homo in morte, sed post mortem: quando, nisi cum detrahitur, erit in morte?

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Si autem absurdum est, ut hominem, antequam ad mortem perveniat, iam esse dicamus in morte (cui enim propinquat peragendo vitae suae tempora, si iam in illa est?), maxime quia nimis est insolens, ut simul et vivens esse dicatur et moriens, cum vigilans et dormiens simul esse non possit: quaerendum est quando erit moriens. Etenim antequam mors veniat, non est moriens, sed vivens; cum vero mors venerit, mortuus erit, non moriens. Illud ergo est adhuc ante mortem, hoc iam post mortem. Quando ergo in morte? Tunc enim est moriens, ut, quem ad modum tria sunt cum dicimus: «ante mortem, in morte, post mortem»; ita tria singulis singula, «vivens, moriens mortuusque», reddantur. Quando itaque sit moriens, id est in morte, ubi neque sit vivens, quod est ante mortem, neque mortuus, quod est post mortem, sed moriens, id est in morte, difficillime definitur. Quamdiu quippe est anima in corpore, maxime si etiam sensus adsit, procul dubio vivit homo, qui constat ex anima et corpore, ac per hoc adhuc ante mortem, non in morte esse dicendus est; cum vero anima abscesserit omnemque abstulerit corporis sensum, iam post mortem mortuusque perhibetur. Perit igitur inter utrumque, quo moriens vel in morte sit; quoniam si adhuc vivit, ante mortem est; si vivere destitit, iam post mortem est. Numquam ergo moriens, id est in morte, esse comprehenditur. Ita etiam in transcursu temporum quaeritur praesens, nec invenitur, quia sine ullo spatio est, per quod transitur ex futuro in praeteritum. Nonne ergo videndum est, ne ista ratione mors corporis nulla esse dicatur? Si enim est, quando est, quae in ullo et in qua ullus esse non potest? Quando quidem si vivitur, adhuc non est, quia hoc ante mortem, non in morte; si autem vivere iam cessatum est, iam non est, quia et hoc post mortem est, non in morte. Sed rursus si nulla mors est ante quid vel post, quid est quod dicitur ante mortem sive post mortem? Nam et hoc inaniter dicitur, si mors nulla est. Atque utinam in paradiso bene vivendo egissemus, ut re vera nulla mors esset. Nunc autem non solum est, verum etiam tam molesta est, ut nec ulla explicari locutione possit nec ulla ratione vitari. Loquamur ergo secundum consuetudinem (non enim aliter debemus) et dicamus: «ante mortem», priusquam mors accidat; sicut scriptum est: Ante mortem ne laudes hominem quemquam. Dicamus etiam cum acciderit: Post mortem illius vel illius factum est illud aut illud. Dicamus et de praesenti tempore ut possumus, velut cum ita loquimur: Moriens ille testatus est, et: Illis atque illis illud atque illud moriens dereliquit; quamvis hoc nisi vivens omnino facere non posset et potius hoc ante mortem fecerit, non in morte. Loquamur etiam sicut loquitur scriptura divina, quae mortuos quoque non post mortem, sed in morte esse non dubitat dicere. Hinc enim est illud:




Quoniam non est in morte, qui memor sit tui. Donec enim revivescant, recte esse dicuntur in morte, sicut in somno esse quisque, donec evigilet, dicitur; quamvis in somno positos dicamus dormientes, nec tamen eo modo possumus dicere eos, qui iam sunt mortui, morientes. Non enim adhuc moriuntur, qui, quantum adtinet ad corporis mortem, de qua nunc disserimus, iam sunt a corporibus separati. Sed hoc est, quod dixi explicari aliqua locutione non posse, quonam modo vel morientes dicantur vivere vel iam mortui etiam post mortem adhuc esse dicantur in morte. Quo modo enim post mortem, si adhuc in morte? praesertim cum eos nec morientes dicamus, sicuti eos, qui in somno sunt, dicimus dormientes, et qui in languore, languentes, et qui in dolore, utique dolentes, et qui in vita, viventes; at vero mortui, priusquam resurgant, esse dicuntur in morte, nec tamen possunt appellari morientes. Unde non importune neque incongrue arbitror accidisse, etsi non humana industria, iudicio fortasse divino, ut hoc verbum, quod est moritur, in Latina lingua nec grammatici declinare potuerint, ea regula qua cetera talia declinantur. Namque ab eo quod est oritur, fit verbum praeteriti temporis, «ortus est» et si qua similia sunt, per temporis praeteriti participia declinantur. Ab eo vero, quod est moritur, si quaeramus praeteriti temporis verbum, responderi adsolet, «mortuus est», u littera geminata. Sic enim dicitur mortuus, quo modo fatuus, arduus, conspicuus et si qua similia, quae non sunt praeteriti temporis, sed quoniam nomina sunt, sine tempore declinantur. Illud autem, quasi ut declinetur, quod declinari non potest, pro participio praeteriti temporis ponitur nomen. Convenienter itaque factum est, ut, quem ad modum id quod significat non potest agendo, ita ipsum verbum non posset loquendo declinari. Agi tamen potest in adiutorio gratiae Redemptoris nostri, ut saltem secundam mortem declinare possimus. Illa est enim gravior et omnium malorum pessima, quae non fit separatione animae et corporis, sed in aeternam poenam potius utriusque complexu. Ibi e contrario non erunt homines ante mortem atque post mortem, sed semper in morte; ac per hoc numquam viventes, numquam mortui, sed sine fine morientes. Numquam enim erit homini peius in morte, quam ubi erit mors ipsa sine morte.




VIII

Si autem, quod multo credibilius et probabilius disputatur, omnes homines, quamdiu mortales sunt, etiam miseri sint necesse est, quaerendus est medius, qui non solum homo, verum etiam deus sit, ut homines ex mortali miseria ad beatam immortalitatem huius medii beata mortalitas interveniendo perducat; quem neque non fieri mortalem oportebat, neque permanere mortalem. Mortalis quippe factus est non infirmata Verbi divinitate, sed carnis infirmitate suscepta; non autem permansit in ipsa carne mortalis, quam resuscitavit a mortuis; quoniam ipse est fructus mediationis eius, ut nec ipsi, propter quos liberandos mediator effectus est, in perpetua vel carnis morte remanerent. Proinde mediatorem inter nos et Deum et mortalitatem habere oportuit transeuntem et beatitudinem permanentem, ut per id, quod transit, congrueret morituris, et ad id, quod permanet, transferret ex mortuis. Boni igitur angeli inter miseros mortales et beatos inmortales medii esse non possunt, quia ipsi quoque et beati et inmortales sunt; possunt autem medii esse angeli mali, quia inmortales sunt cum illis, miseri cum istis. His contrarius est mediator bonus, qui adversus eorum inmortalitatem et miseriam et mortalis esse ad tempus voluit, et beatus in aeternitate persistere potuit; ac sic eos et inmortales superbos et miseros noxios, ne inmortalitatis iactantia seducerent ad miseriam, et suae mortis humilitate et suae beatitudinis benignitate destruxit in eis, quorum corda per suam fidem mundans ab illorum inmundissima dominatione liberavit. Homo itaque mortalis et miser longe seiunctus ab inmortalibus et beatis quid eligat medium, per quod inmortalitati et beatitudini copuletur? Quod possit delectare in daemonum inmortalitate, miserum est; quod posset offendere in Christi mortalitate, iam non est. Ibi ergo cavenda est miseria sempiterna; hic mors timenda non est, quae non esse potuit sempiterna, et beatitudo amanda est sempiterna. Ad hoc se quippe interponit medius inmortalis et miser, ut ad inmortalitatem beatam transire non sinat, quoniam persistit quod inpedit, id est ipsa miseria; ad hoc se autem interposuit

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mortalis et beatus, ut mortalitate transacta et ex mortuis faceret inmortales, quod in se resurgendo monstravit, et ex miseris beatos, unde numquam ipse discessit. Alius est ergo medius malus, qui separat amicos; alius bonus, qui reconciliat inimicos. Et ideo multi sunt medii separatores, quia multitudo, quae beata est, unius Dei participatione fit beata; cuius participationis privatione misera multitudo malorum angelorum, quae se opponit potius ad inpedimentum, quam interponit ad beatitudinis adiutorium, etiam ipsa multitudine obstrepit quodam modo, ne possit ad illud unum beatificum «bonum» perveniri, ad quod ut perduceremur, non multis, sed uno mediatore opus erat, et hoc eo ipso, cuius participatione simus beati, hoc est Verbo Dei non facto, per quod facta sunt omnia. Nec tamen ob hoc mediator est, quia Verbum; maxime quippe inmortale et maxime beatum Verbum longe est a mortalibus miseris; sed mediator, per quod homo, eo ipso utique ostendens ad illud non solum beatum, verum etiam beatificum bonum non oportere quaeri alios mediatores, per quos arbitremur nobis perventionis gradus esse moliendos, quia beatus et beatificus Deus factus particeps humanitatis nostrae compendium praebuit participandae divinitatis suae. Neque enim nos a mortalitate et miseria liberans ad angelos inmortales beatosque ita perducit, ut eorum participatione etiam nos inmortales et beati simus; sed ad illam Trinitatem, cuius et angeli participatione beati sunt. Ideo quando in forma servi, ut mediator esset, infra angelos esse voluit, in forma Dei supra angelos mansit; idem in inferioribus via vitae, qui in superioribus vita.

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IX

Cum ergo vivit homo secundum hominem, non secundum Deum, similis est diabolo; quia nec angelo secundum angelum, sed secundum Deum vivendum fuit, ut staret in veritate et veritatem de illius, non de suo mendacium loqueretur. Nam et de homine alio loco idem apostolus ait: Si autem veritas Dei in meo mendacio abundavit. Nostrum dixit mendacium, veritatem Dei. Cum itaque vivit homo secundum veritatem, non vivit secundum se ipsum, sed secundum Deum. Deus est enim qui dixit: Ego sum veritas. Cum vero vivit secundum se ipsum, hoc est secundum hominem, non secundum Deum, profecto secundum mendacium vivit; non quia homo ipse mendacium est, cum sit eius auctor et creator Deus, qui non est utique auctor creatorque mendacii, sed quia homo ita factus est rectus, ut non secundum se ipsum, sed secundum eum, a quo factus est, viveret, id est illius potius quam suam faceret voluntatem: non ita vivere, quem ad modum est factus ut viveret, hoc est mendacium. Beatus quippe vult esse etiam non sic vivendo ut possit esse. Quid est ista voluntate mendacius? Unde non frustra dici potest omne peccatum esse mendacium. Non enim fit peccatum nisi ea voluntate, qua volumus ut bene sit nobis vel nolumus ut male sit nobis. Ergo mendacium est, quod, cum fiat ut bene sit nobis, hinc potius male est nobis, vel cum fiat, ut melius sit nobis, hinc potius peius est nobis. Unde hoc, nisi quia de Deo potest bene esse homini, quem delinquendo deserit, non de se ipso, secundum quem vivendo delinquit? Quod itaque diximus, hinc extitisse duas civitates diversas inter se atque contrarias, quod alii secundum carnem, alii secundum spiritum viverent: potest etiam isto modo dici quod alii secundum hominem, alii secundum Deum vivant. Apertissime quippe Paulus ad Corinthios dicit: Cum enim sint inter vos aemulatio et contentio, nonne carnales estis et secundum hominem ambulatis? Quod ergo est ambulare secundum hominem, hoc est esse carnalem, quod a carne, id est a parte hominis, intellegitur homo. Eosdem ipsos quippe dixit superius animales, quos postea carnales, ita loquens: Quis enim scit, inquit, hominum, quae sunt hominis, nisi spiritus hominis, qui in ipso est? Sic et quae Dei sunt, nemo scit nisi spiritus Dei. Nos autem,

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inquit, non spiritum huius mundi accepimus, sed spiritum qui ex Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis; quae et loquimur, non in sapientiae humanae doctis verbis, sed doctis spiritu, spiritalibus spiritalia comparantes. Animalis autem homo non percipit quae sunt spiritus Dei; stultitia est enim illi.

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X

Sed neque sancti et fideles unius veri Dei summique cultores ab eorum fallaciis et multiformi temptatione securi sunt. In hoc enim loco infirmitatis et diebus malignis etiam ista sollicitudo non est inutilis, ut illa saecuritas, ubi pax plenissima atque certissima est, desiderio ferventiore quaeratur. Ibi enim erunt naturae munera, hoc est, quae naturae nostrae ab omnium naturarum creatore donantur, non solum bona, verum etiam sempiterna, non solum in animo, qui sanatur per sapientiam, verum etiam in corpore, quod resurrectione renovabitur; ibi virtutes, non contra ulla vitia vel mala quaecumque certantes, sed habentes victoriae praemium aeternam pacem, quam nullus adversarius inquietet. Ipsa est enim beatitudo finalis, ipse perfectionis finis, qui consumentem non habet finem. Hic autem dicimur quidem beati, quando pacem habemus, quantulacumque hic haberi potest in vita bona; sed haec beatitudo illi, quam finalem dicimus, beatitudini comparata prorsus miseria reperitur. Hanc ergo pacem, qualis hic potest esse, mortales homines in rebus mortalibus quando habemus, si recte vivimus, bonis eius recte utitur virtus; quando vero eam non habemus, etiam malis, quae homo patitur, bene utitur virtus. Sed tunc est vera virtus, quando et omnia bona, quibus bene utitur, et quidquid in bono usu bonorum et malorum facit, et se ipsam ad eum finem refert, ubi nobis talis et tanta pax erit, qua melior et maior esse non possit.

Quapropter possemus dicere fines bonorum nostrorum esse pacem, sicut aeternam diximus vitam, praesertim quia ipsi civitati Dei, de qua nobis est ista operosissima disputatio, in sancto dicitur psalmo: Lauda Hierusalem Dominum, conlauda Deum tuum Sion; quoniam confirmavit seras portarum tuarum, benedixit filios tuos in te, qui posuit fines tuos pacem. Quando enim confirmatae fuerint serae portarum eius, iam in illam nullus intrabit nec ab illa ullus exibit. Ac per hoc fines eius eam debemus hic intellegere pacem, quam volumus demonstrare finalem. Nam et ipsius civitatis mysticum nomen, id est Hierusalem, quod et ante iam diximus, visio pacis

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interpretatur. Sed quoniam pacis nomen etiam in his rebus mortalibus frequentatur, ubi utique non est vita aeterna, propterea finem civitatis huius, ubi erit summum bonum eius, aeternam vitam maluimus commemorare quam pacem. De quo fine apostolus ait: Nunc vero liberati a peccato, servi autem facti Deo, habetis fructum vestrum in sanctificationem, finem vero vitam aeternam. Sed rursus quia vita aeterna ab eis, qui familiaritatem non habent cum scripturis sanctis, potest accipi etiam malorum vita, vel secundum quosdam etiam philosophos propter animae inmortalitatem vel secundum etiam fidem nostram propter poenas interminabiles impiorum, qui utique in aeternum cruciari non poterunt, nisi etiam vixerint in aeternum: profecto finis civitatis huius, in quo summum habebit bonum, vel pax in vita aeterna vel vita aeterna in pace dicendus est, ut facilius ab omnibus possit intellegi. Tantum est enim pacis bonum, ut etiam in rebus terrenis atque mortalibus nihil gratius soleat audiri, nihil desiderabilius concupisci, nihil postremo possit melius inveniri. De quo si aliquanto diutius loqui voluerimus, non erimus, quantum arbitror, onerosi legentibus, et propter finem civitatis huius, de qua nobis sermo est, et propter ipsam dulcedinem pacis, quae omnibus cara est.

Quod mecum quisquis res humanas naturamque communem utcumque intuetur agnoscit; sicut enim nemo est qui gaudere nolit, ita nemo est qui pacem habere nolit. Quando quidem et ipsi, qui bella volunt, nihil aliud quam vincere volunt; ad gloriosam ergo pacem bellando cupiunt pervenire. Nam quid est aliud victoria nisi subiectio repugnantium? quod cum factum fuerit, pax erit. Pacis igitur intentione geruntur et bella, ab his etiam, qui virtutem bellicam student exercere imperando atque pugnando. Unde pacem constat belli esse optabilem finem. Omnis enim homo etiam belligerando pacem requirit; nemo autem bellum pacificando. Nam et illi qui pacem, in qua sunt, perturbari volunt, non pacem oderunt, sed eam pro arbitrio suo cupiunt commutari. Non ergo ut sit pax nolunt, sed ut ea sit quam volunt. Denique etsi per seditionem se ab aliis separaverint, cum eis ipsis conspiratis vel coniuratis suis nisi qualemcumque speciem pacis teneant, non efficiunt quod intendunt. Proinde latrones ipsi, ut vehementius et tutius infesti sint paci ceterorum, pacem volunt habere sociorum. Sed etsi unus sit tam praepollens viribus et conscios ita cavens, ut nulli socio se committat solusque insidians et praevalens quibus potuerit oppressis et extinctis praedas agat, cum eis certe, quos occidere non potest et quos vult latere quod facit, qualemcumque umbram pacis tenet. In domo autem sua cum

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uxore et cum filiis, et si quos alios illic habet, studet profecto esse pacatus; eis quippe ad nutum obtemperantibus sine dubio delectatur. Nam si non fiat, indignatur corripit, vindicat et domus suae pacem, si ita necesse sit, etiam saeviendo componit, quam sentit esse non posse, nisi cuidam principio, quod ipse in domo sua est, cetera in eadem domestica societate subiecta sint. Ideoque si offerretur ei servitus plurium, vel civitatis vel gentis, ita ut sic ei servirent, quem ad modum sibi domi suae serviri volebat: non se iam latronem latebris conderet, sed regem conspicuum sublimaret, cum eadem in illo cupiditas et malitia permaneret. Pacem itaque cum suis omnes habere cupiunt, quos ad arbitrium suum volunt vivere. Nam et cum quibus bellum gerunt, suos facere, si possint, volunt eisque subiectis leges suae pacis imponere. Sed faciamus aliquem, qualem canit poetica et fabulosa narratio, quem fortasse propter ipsam insociabilem feritatem semihominem quam hominem dicere maluerunt. Quamvis ergo huius regnum dirae speluncae fuerit solitudo tamque malitia singularis, ut ex hac ei nomen inventum sit (Graece namque “malus” kakoéz dicitur, quod ille vocabatur), nulla coniux ei blandum ferret referretque sermonem, nullis filiis vel adluderet parvulis vel grandiusculis imperaret, nullo amici conloquio frueretur, nec Vulcani patris, quo vel hinc tantum non parum felicior fuit, quia tale monstrum ipse non genuit; nihil cuiquam daret, sed a quo posset quidquid vellet et quando posset quem vellet auferret: tamen in ipsa sua spelunca solitaria, cuius, ut describitur, semper recenti caede tepebat humus, nihil aliud quam pacem volebat, in qua nemo illi molestus esset, nec eius quietem vis ullius terrorve turbaret. Cum corpore denique suo pacem habere cupiebat, et quantum habebat, tantum bene illi erat. Quando quidem membris obtemperantibus imperabat, et ut suam mortalitatem adversum se ex indigentia rebellantem ac seditionem famis ad dissociandam atque excludendam de corpore animam concitantem quanta posset festinatione pacaret, rapiebat, necabat, vorabat et quamvis immanis ac ferus paci tamen suae vitae ac salutis immaniter ac ferociter consulebat; ac per hoc si pacem, quam in sua spelunca atque in se ipso habere satis agebat, etiam cum aliis habere vellet, nec malus nec monstrum nec semihomo vocaretur. Aut si eius corporis forma et atrorum ignium vomitus ab eo deterrebat hominum societatem, forte non nocendi cupiditate, sed vivendi necessitate saeviebat. Verum iste non fuerit vel, quod magis credendum est, non talis fuerit, qualis poetica vanitate describitur; nisi enim nimis accusaretur Cacus, parum Hercules laudaretur. Talis ergo homo sive semihomo melius, ut dixi, creditur non fuisse, sicut multa figmenta poetarum. Ipsae enim saevissimae ferae, unde ille partem habuit




feritatis (nam et semiferus dictus est), genus proprium quadam pace custodiunt coeundo, gignendo, pariendo, fetus fovendo atque nutriendo, cum sint pleraeque insociabiles et solivagae; non scilicet ut oves, cervi, columbae, sturni, apes; sed ut leones, lupi, vulpes, aquilae, noctuae. Quae enim tigris non filiis suis mitis inmurmurat et pacata feritate blanditur? Quis milvus, quantumlibet solitarius rapinis circumvolet, non coniugium copulat, nidum congerit, ova confovet, pullos alit et quasi cum sua matre familias societatem domesticam quanta potest pace conservat? Quanto magis homo fertur quodam modo naturae suae legibus ad ineundam societatem pacemque cum hominibus, quantum in ipso est, omnibus obtinendam, cum etiam mali pro suorum pace belligerent omnesque, si possint, suos facere velint, ut uni cuncti et cuncta deserviant; quo pacto, nisi in eius pacem vel amando vel timendo consentiant? Sic enim superbia perverse imitatur Deum. Odit namque cum sociis aequalitatem sub illo, sed inponere vult sociis dominationem suam pro illo. Odit ergo iustam pacem Dei et amat iniquam pacem suam. Non amare tamen qualemcumque pacem nullo modo potest. Nullius quippe vitium ita contra naturam est, ut naturae deleat etiam extrema vestigia. Itaque pacem iniquorum in pacis comparatione iustorum ille videt nec pacem esse dicendam, qui novit praeponere recta pravis et ordinata perversis. Quod autem perversum est, etiam hoc necesse est ut in aliqua et ex aliqua et cum aliqua rerum parte pacatum sit, in quibus est vel ex quibus constat; alioquin nihil esset omnino. Velut si quisquam capite deorsum pendeat, perversus est utique situs corporis et ordo membrorum, quia id, quod desuper esse natura postulat, subter est, et quod illa subter vult esse, desuper factum est; conturbavit carnis pacem ista perversitas et ideo molesta est: verum tamen anima corpori suo pacata est et pro eius salute satagit, et ideo est qui doleat; quae si molestiis eius exclusa discesserit, quamdiu compago membrorum manet, non est sine quadam partium pace quod remanet, et ideo est adhuc qui pendeat. Et quod terrenum corpus in terram nititur et vinculo quo suspensum est renititur, in suae pacis ordinem tendit et locum quo requiescat quodam modo voce ponderis poscit, iamque exanime ac sine ullo sensu a pace tamen naturali sui ordinis non recedit, vel cum tenet eam, vel cum fertur ad eam. Si enim adhibeantur medicamenta atque curatio, quae formam cadaveris dissolvi dilabique non sinat, adhuc pax quaedam partes partibus iungit totamque molem adplicat terreno et convenienti ac per hoc pacato loco. Si autem nulla adhibeatur cura condendi, sed naturali cursui relinquatur, tamdiu quasi tumultuatur dissidentibus exhalationibus et nostro inconvenientibus sensui (id enim est quod in putore

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sentitur), donec mundi conveniat elementis et in eorum pacem paulatim particulatimque discedat. Nullo modo tamen inde aliquid legibus summi illius creatoris ordinatorisque subtrahitur, a quo pax universitatis administratur; quia etsi de cadavere maioris animantis animalia minuta nascantur, eadem lege creatoris quaeque corpuscula in salutis pace suis animulis serviunt; etsi mortuorum carnes ab aliis animalibus devorentur, easdem leges per cuncta diffusas ad salutem generis cuiusque mortalium congrua congruis pacificantes, quaqua versum trahantur et rebus quibuscumque iungantur et in res quaslibet convertantur et commutentur, inveniunt.

Pax itaque corporis est ordinata temperatura partium, pax animae inrationalis ordinata requies appetitionum, pax animae rationalis ordinata cognitionis actionisque consensio, pax corporis et animae ordinata vita et salus animantis, pax hominis mortalis et Dei ordinata in fide sub aeterna lege oboedientia, pax hominum ordinata concordia, pax domus ordinata imperandi atque oboediendi concordia cohabitantium, pax civitatis ordinata imperandi atque oboediendi concordia civium, pax caelestis civitatis ordinatissima et concordissima societas fruendi Deo et invicem in Deo, pax omnium rerum tranquillitas ordinis. Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio. Proinde miseri, quia, in quantum miseri sunt, utique in pace non sunt, tranquillitate quidem ordinis carent, ubi perturbatio nulla est; verum tamen quia merito iusteque sunt miseri, in ea quoque ipsa miseria sua praeter ordinem esse non possunt; non quidem coniuncti beatis, sed ab eis tamen ordinis lege seiuncti. Qui cum sine perturbatione sunt, rebus, in quibus sunt, quantacumque congruentia coaptantur; ac per hoc inest eis ordinis nonnulla tranquillitas, inest ergo nonnulla pax. Verum ideo miseri sunt, quia, etsi in aliqua securitate non dolent, non tamen ibi sunt, ubi securi esse ac dolere non debeant; miseriores autem, si pax eis cum ipsa lege non est, qua naturalis ordo administratur. Cum autem dolent, ex qua parte dolent, pacis perturbatio facta est; in illa vero adhuc pax est, in qua nec dolor urit nec compago ipsa dissolvitur. Sicut ergo est quaedam vita sine dolore, dolor autem sine aliqua vita esse non potest: sic est quaedam pax sine ullo bello, bellum vero esse sine aliqua pace non potest; non secundum id, quod bellum est, sed secundum id, quod ab eis vel in eis geritur, quae aliquae naturae sunt; quod nullo modo essent, si non qualicumque pace subsisterent. Quapropter est natura, in qua nullum malum est vel etiam in qua nullum esse malum potest; esse autem natura, in qua nullum bonum sit, non potest.

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Proinde nec ipsius diaboli natura, in quantum natura est, malum est; sed perversitas eam malam facit. Itaque in veritate non stetit, sed veritatis iudicium non evasit; in ordinis tranquillitate non mansit, nec ideo tamen a potestate ordinatoris effugit. Bonum Dei, quod illi est in natura, non eum subtrahit iustitiae Dei, qua ordinatur in poena; nec ibi Deus bonum insequitur quod creavit, sed malum quod ille commisit. Neque enim totum aufert quod naturae dedit, sed aliquid adimit, aliquid relinquit, ut sit qui doleat quod ademit. Et ipse dolor testimonium est boni adempti et boni relicti. Nisi enim bonum relictum esset, bonum amissum dolere non posset. Nam qui peccat, peior est, si laetatur in damno aequitatis; qui vero cruciatur, si nihil inde adquirat boni, dolet damnum salutis. Et quoniam aequitas ac salus utrumque bonum est bonique amissione dolendum est potius quam laetandum (si tamen non sit compensatio melioris; melior est autem animi aequitas quam corporis sanitas); profecto convenientius iniustus dolet in supplicio, quam laetatus est in delicto. Sicut ergo laetitia deserti boni in peccato testis est voluntatis malae, ita dolor amissi boni in supplicio testis est naturae bonae. Qui enim dolet amissam naturae suae pacem, ex aliquibus reliquiis pacis id dolet, quibus fit, ut sibi amica natura sit. Hoc autem in extremo supplicio recte fit, ut iniqui et impii naturalium bonorum damna in cruciatibus defleant, sentientes eorum ablatorem iustissimum Deum, quem contempserunt benignissimum largitorem. Deus ergo naturarum omnium sapientissimus conditor et iustissimus ordinator, qui terrenorum ornamentorum maximum instituit mortale genus humanum, dedit hominibus quaedam bona huic vitae congrua, id est pacem temporalem pro modulo mortalis vitae in ipsa salute et incolumitate ac societate sui generis, et quaeque huic paci vel tuendae vel recuperandae necessaria sunt (sicut ea, quae apte et convenienter adiacent sensibus, lux vox, aurae spirabiles aquae potabiles, et quidquid ad alendum, tegendum, curandum ornandumque corpus congruit), eo pacto aequissimo, ut, qui mortalis talibus bonis paci mortalium adcommodatis recte usus fuerit, accipiat ampliora atque meliora, ipsam scilicet inmortalitatis pacem eique convenientem gloriam et honorem in vita aeterna ad fruendum Deo et proximo in Deo; qui autem perperam, nec illa accipiat et haec amittat.

Omnis igitur usus rerum temporalium refertur ad fructum pacis terrenae in terrena civitate; in caelesti autem civitate refertur ad fructum pacis aeternae. Quapropter si inrationalia essemus animantia, nihil appeteremus praeter ordinatam temperaturam partium corporis et requiem appetitionum;

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nihil ergo praeter quietem carnis et copiam voluptatum, ut pax corporis prodesset paci animae. Si enim desit pax corporis, impeditur etiam inrationalis animae pax, quia requiem appetitionum consequi non potest. Utrumque autem simul ei paci prodest, quam inter se habent anima et corpus, id est, ordinatae vitae ac salutis. Sicut enim pacem corporis amare se ostendunt animantia, cum fugiunt dolorem, et pacem animae, cum propter explendas indigentias appetitionum voluptatem sequuntur: ita mortem fugiendo satis indicant, quantum diligant pacem, qua sibi conciliantur anima et corpus. Sed quia homini rationalis anima inest, totum hoc, quod habet commune cum bestiis, subdit paci animae rationalis, ut mente aliquid contempletur et secundum hoc aliquid agat, ut sit ei ordinata cognitionis actionisque consensio, quam pacem rationalis animae dixeramus. Ad hoc enim velle debet nec dolore molestari nec desiderio perturbari nec morte dissolvi, ut aliquid utile cognoscat et secundum eam cognitionem vitam moresque componat. Sed ne ipso studio cognitionis propter humanae mentis infirmitatem in pestem alicuius erroris incurrat, opus habet magisterio divino, cui certus obtemperet, et adiutorio, ut liber obtemperet. Et quoniam, quamdiu est in isto mortali corpore, peregrinatur a Domino: ambulat per fidem, non per speciem; ac per hoc omnem pacem vel corporis vel animae vel simul corporis et animae refert ad illam pacem, quae homini mortali est cum inmortali Deo, ut ei sit ordinata in fide sub aeterna lege oboedientia. Iam vero quia duo praecipua praecepta, hoc est, dilectionem Dei et dilectionem proximi, docet magister Deus, in quibus tria invenit homo quae diligat, Deum, se ipsum et proximum, atque ille in se diligendo non errat, qui Deum diligit: consequens est, ut etiam proximo ad diligendum Deum consulat, quem iubetur sicut se ipsum diligere (sic uxori, sic filiis, sic domesticis, sic ceteris quibus potuerit hominibus), et ad hoc sibi a proximo, si forte indiget, consuli velit; ac per hoc erit pacatus, quantum in ipso est, omni homini pace hominum, id est, ordinata concordia, cuius hic ordo est, primum ut nulli noceat, deinde ut etiam prosit cui potuerit. Primitus ergo inest ei suorum cura; ad eos quippe habet opportuniorem facilioremque aditum consulendi, vel naturae ordine vel ipsius societatis humanae. Unde apostolus dicit: Quisquis autem suis et maxime domesticis non providet, fidem denegat et est infideli deterior. Hinc itaque etiam pax domestica oritur, id est ordinata imperandi oboediendique concordia cohabitantium. Imperant enim, qui consulunt; sicut vir uxori, parentes filiis, domini servis. Oboediunt autem quibus consulitur; sicut mulieres maritis, filii parentibus, servi dominis. Sed in domo iusti viventis ex fide et adhuc ab illa caelesti civitate peregrinantis, etiam qui imperant serviunt eis, quibus videntur imperare.

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Neque enim dominandi cupiditate imperant, sed officio consulendi, nec principandi superbia, sed providendi misericordia.

Hoc naturalis ordo praescribit, ita Deus hominem condidit. Nam: Dominetur, inquit, piscium maris et volatilium caeli et omnium repentium, quae repunt super terram. Rationalem factum ad imaginem suam noluit nisi inrationabilibus dominari; non hominem homini, sed hominem pecori. Inde primi iusti pastores pecorum magis quam reges hominum constituti sunt, ut etiam sic insinuaret Deus, quid postulet ordo creaturarum, quid exigat meritum peccatorum. Condicio quippe servitutis iure intellegitur imposita peccatori. Proinde nusquam scripturarum legimus servum, antequam hoc vocabulo Noe iustus peccatum filii vindicaret. Nomen itaque istud culpa meruit, non natura. Origo autem vocabuli servorum in Latina lingua inde creditur ducta, quod hi, qui iure belli possent occidi, a victoribus cum servabantur servi fiebant, a servando appellati; quod etiam ipsum sine peccati merito non est. Nam et cum iustum geritur bellum, pro peccato e contrario dimicatur; et omnis victoria, cum etiam malis provenit, divino iudicio victos humiliat vel emendans peccata vel puniens. Testis est homo Dei Daniel, cum in captivitate positus peccata sua et peccata populi sui confitetur Deo et hanc esse causam illius captivitatis pio dolore testatur. Prima ergo servitutis causa peccatum est, ut homo homini condicionis vinculo subderetur; quod non fit nisi Deo iudicante, apud quem non est iniquitas et novit diversas poenas meritis distribuere delinquentium. Sicut autem supernus Dominus dicit: Omnis, qui facit peccatum, servus est peccati, ac per hoc multi quidem religiosi dominis iniquis, non tamen liberis serviunt: A quo enim quis devictus est, huic et servus addictus est. Et utique felicius servitur homini, quam libidini, cum saevissimo dominatu vastet corda mortalium, ut alias omittam, libido ipsa dominandi. Hominibus autem illo pacis ordine, quo aliis alii subiecti sunt, sicut prodest humilitas servientibus, ita nocet superbia dominantibus. Nullus autem natura, in qua prius Deus hominem condidit, servus est hominis aut peccati. Verum et poenalis servitus ea lege ordinatur, quae naturalem ordinem conservari iubet, perturbari vetat; quia si contra eam legem non esset factum, nihil esset poenali servitute cohercendum. Ideoque apostolus etiam servos monet subditos esse dominis suis et ex animo eis cum bona voluntate servire; ut scilicet, si non possunt a dominis liberi fieri, suam servitutem ipsi quodam modo liberam faciant, non timore subdolo, sed fideli dilectione serviendo, donec transeat iniquitas et evacuetur omnis principatus et potestas humana et sit Deus omnia in omnibus.

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XI

Quam ob rem summum bonum civitatis Dei cum sit pax aeterna atque perfecta, non per quam mortales transeant nascendo atque moriendo, sed in qua immortales maneant nihil adversi omnino patiendo; quis est qui illam vitam vel beatissimam neget vel in eius comparatione istam, quae hic agitur, quantislibet animi et corporis externarumque rerum bonis plena sit, non miserrimam iudicet? Quam tamen quicumque sic habet, ut eius usum referat ad illius finem, quam diligit ardentissime ac fidelissime sperat, non absurde dici etiam nunc beatus potest, spe illa potius quam re ista. Res ista vero sine spe illa beatitudo falsa et magna miseria est; non enim veris animi bonis utitur, quoniam non est vera sapientia, quae intentionem suam in his quae prudenter discernit, gerit fortiter, cohibet temperanter iusteque distribuit, non ad illum dirigit finem, ubi erit Deus omnia in omnibus, aeternitate certa et pace perfecta.

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Blaise Pascal PENSテ右S



I GRANDEUR DE L’HOMME

La distance infinie des corps aux esprits figure la distance infiniment plus infinie des esprits à la charité, car elle est surnaturelle. Tout l’éclat des grandeurs n’a point de lustre pour les gens qui sont dans les recherches de l’esprit. La grandeur des gens d’esprit est invisible aux rois, aux riches, aux capitaines, à tous ces grands de chair. La grandeur de la sagesse, qui n’est nulle sinon de Dieu, est invisible aux charnels et aux gens d’esprit. Ce sont trois ordres différents de genre. Les grands génies ont leur empire, leur éclat, leur grandeur, leur victoire et leur lustre, et n’ont nul besoin des grandeurs charnelles, où elles n’ont pas de rapport. Ils sont vus non des yeux mais des esprits, c’est assez. Les saints ont leur empire, leur éclat, leur victoire, leur lustre, et n’ont nul besoin des grandeurs charnelles ou spirituelles, où elles n’ont nul rapport car elles n’y ajoutent ni ôtent. Ils sont vus de Dieu et des anges et non des corps ni des esprits curieux. Dieu leur suffit. Archimède sans éclat serait en même vénération. Il n’a pas donné des batailles, pour les yeux, mais il a fourni à tous les esprits ses inventions. Ô qu’il a éclaté aux esprits! Jésus-Christ, sans biens et sans aucune production au-dehors de science, est dans son ordre de sainteté. Il n’a point donné d’inventions, il n’a point régné, mais il a été humble, patient, saint, saint, saint à Dieu, terrible aux démons, sans aucun péché. Ô qu’il est venu en grande pompe et en une prodigieuse magnificence aux yeux du cœur et qui voient la sagesse! Il eût été inutile à Archimède de faire le prince dans ses livres de géométrie, quoiqu’il le fût. Il eût été inutile à Notre Seigneur Jésus-Christ, pour éclater dans son règne de sainteté, de venir en roi. Mais il y est bien venu avec l’éclat de son ordre. Il est bien ridicule de se scandaliser de la bassesse de Jésus-Christ, comme si cette bassesse était du même ordre duquel est la grandeur qu’il venait faire paraître.

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Qu’on considère cette grandeur-là dans sa vie, dans sa passion, dans son obscurité, dans sa mort, dans l’élection des siens, dans leur abandonnement, dans sa secrète résurrection et dans le reste. On la verra si grande qu’on n’aura pas sujet de se scandaliser d’une bassesse qui n’y est pas. Mais il y en a qui ne peuvent admirer que les grandeurs charnelles, comme s’il n’y en avait pas de spirituelles. Et d’autres qui n’admirent que les spirituelles, comme s’il n’y en avait pas d’infiniment plus hautes dans la sagesse. Tous les corps, le firmament, les étoiles, la terre et ses royaumes ne valent pas le moindre des esprits. Car il connaît tout cela, et soi, et les corps rien. Tous les corps ensemble et tous les esprits ensemble et toutes leurs productions ne valent pas le moindre mouvement de charité. Cela est d’un ordre infiniment plus élevé. De tous les corps ensemble on ne saurait en faire réussir une petite pensée, cela est impossible et d’un autre ordre. De tous les corps et esprits on n’en saurait tirer un mouvement de vraie charité, cela est impossible et d’un autre ordre, surnaturel.

La grandeur de l’homme est grande en ce qu’il se connaît misérable. Un arbre ne se connaît pas misérable. C’est donc être misérable que de se connaître misérable; mais c’est être grand que de connaître qu’on est misérable.

Toutes ces misères-là mêmes prouvent sa grandeur. Ce sont misères de grand seigneur, misères d’un roi dépossédé.

LA GRANDEUR DE L’HOMME La grandeur de l’homme est si visible, qu’elle se tire même de sa misère. Car ce qui est nature aux animaux, nous l’appelons misère en l’homme. Par où nous reconnaissons que, sa nature étant aujourd’hui pareille à celle des animaux, il est déchu d’une meilleure nature qui lui était propre autrefois. Car qui se trouve malheureux de n’être pas roi, sinon un roi dépossédé? Trouvait-on Paul-Émile malheureux de n’être pas consul? Au contraire, tout le monde trouvait qu’il était heureux de l’avoir été, parce que sa condition n’était pas de l’être toujours. Mais on trouvait Persée si malheureux de n’être plus roi, parce que sa condition était de l’être toujours, qu’on trou-

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vait étrange de ce qu’il supportait la vie. Qui se trouve malheureux de n’avoir qu’une bouche? Et qui ne se trouverait malheureux de n’avoir qu’un œil? On ne s’est peut-être jamais avisé de s’affliger de n’avoir pas trois yeux; mais on est inconsolable de n’en point avoir.

Grandeur de l’homme dans sa concupiscence même, d’en avoir su tirer un règlement admirable et en avoir fait un tableau de la charité.

APRÈS AVOIR MONTRÉ LA BASSESSE ET LA GRANDEUR DE L’HOMME Que l’homme maintenant s’estime son prix. Qu’il s’aime, car il y a en lui une nature capable de bien; mais qu’il n’aime pas pour cela les bassesses qui y sont. Qu’il se méprise, parce que cette capacité est vide; mais qu’il ne méprise pas pour cela cette capacité naturelle. Qu’il se haïsse, qu’il s’aime. Il a en lui la capacité de connaître la vérité et d’être heureux, mais il n’a point de vérité ou constante ou satisfaisante. Je voudrais donc porter l’homme à désirer d’en trouver et à être prêt et dégagé de passions pour la suivre où il la trouvera, sachant combien sa connaissance s’est obscurcie par les passions. Je voudrais bien qu’il haït en soi la concupiscence, qui se détermine d’elle-même, afin qu’elle ne l’aveuglât point pour faire son choix et qu’elle ne l’arrêtât point quand il aura choisi.

Il est dangereux de trop faire voir à l’homme combien il est égal aux bêtes, sans lui montrer sa grandeur. Et il est encore dangereux de lui trop faire voir sa grandeur sans sa bassesse. Il est encore plus dangereux de lui laisser ignorer l’un et l’autre, mais il est très avantageux de lui représenter l’un et l’autre.

Il ne faut pas que l’homme croie qu’il est égal aux bêtes ni aux anges, ni qu’il ignore l’un et l’autre, mais qu’il sache l’un et l’autre.

A P.-R. GRANDEUR ET MISÈRE La misère se concluant de la grandeur et la grandeur de la misère, les uns ont conclu la misère, d’autant plus qu’ils en ont pris pour preuve la grandeur, et les autres concluant la grandeur, avec d’autant plus de force

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qu’ils l’ont conclue de la misère même, tout ce que les uns ont pu dire pour montrer la grandeur n’a servi que d’un argument aux autres pour conclure la misère, puisque c’est être d’autant plus misérable qu’on est tombé de plus haut; et les autres au contraire. Ils se sont portés les uns sur les autres par un cercle sans fin, étant certain qu’à mesure que les hommes ont de lumière ils trouvent et grandeur et misère en l’homme. En un mot, l’homme connaît qu’il est misérable. Il est donc misérable, puisqu’il l’est. Mais il est bien grand, puisqu’il le connaît.

La nature de l’homme se considère en deux manières. L’une selon sa fin, et alors il est grand et incomparable. L’autre selon la multitude, comme on juge de la nature du cheval et du chien par la multitude, d’y voir la course Et ANIMUM ARCENDI; et alors l’homme est abject et vil. Et voilà les deux voies qui en font juger diversement et qui font tant disputer les philosophes. Car l’un nie la supposition de l’autre. L’un dit: «Il n’est point né à cette fin, car toutes ses actions y répugnent». L’autre dit: «Il s’éloigne de la fin quand il fait ces basses actions».

L’extrême esprit est accusé de folie, comme l’extrême défaut. Rien que la médiocrité n’est bon. C’est la pluralité qui a établi cela, et qui mord quiconque s’en échappe par quelque bout que ce soit. Je ne m’y obstinerai pas, je consens bien qu’on m’y mette, et me refuse d’être au bas bout, non pas parce qu’il est bas mais parce qu’il est bout, car je refuserais de même qu’on me mît au haut. C’est sortir de l’humanité que de sortir du milieu. La grandeur de l’âme humaine consiste à savoir s’y tenir. Tant s’en faut que la grandeur soit à en sortir, qu’elle est à n’en point sortir.

La plus grande bassesse de l’homme est la recherche de la gloire. Mais c’est cela même qui est la plus grande marque de son excellence, car, quelque possession qu’il ait sur la terre, quelque santé et commodité essentielle qu’il ait, il n’est pas satisfait s’il n’est dans l’estime des hommes. Il estime si grande la raison de l’homme que, quelque avantage qu’il ait sur la terre, s’il n’est placé avantageusement aussi dans la raison de l’homme il n’est pas content. C’est la plus belle place du monde, rien ne le peut détourner de ce désir, et c’est la qualité la plus ineffaçable du cœur de l’homme.

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Et ceux qui méprisent le plus les hommes et les égalent aux bêtes, encore veulent-ils en être admirés et crus, et se contredisent à eux-mêmes par leur propre sentiment, leur nature, qui est plus forte que tout, les convaincant de la grandeur de l’homme plus fortement que la raison ne les convainc de leur bassesse

ROSEAU PENSANT Ce n’est point de l’espace que je dois chercher ma dignité, mais c’est du règlement de ma pensée. Je n’aurai point d’avantage en possédant des terres. Par l’espace l’univers me comprend et m’engloutit comme un point, par la pensée je le comprends.

HOMME L’homme n’est qu’un roseau, le plus faible de la nature, mais c’est un roseau pensant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser: une vapeur, une goutte d’eau suffit pour le tuer. Mais quand l’univers l’écraserait, l’homme serait encore plus noble que ce qui le tue, puisqu’il sait qu’il meurt et l’avantage que l’univers a sur lui. L’univers n’en sait rien.

Toute notre dignité consiste donc en la pensée. C’est de là qu’il faut nous relever, et non de l’espace et de la durée, que nous ne saurions remplir. Travaillons donc à bien penser. Voilà le principe de la morale. PENSÉE Toute la dignité de l’homme est en la pensée. Mais qu’est-ce que cette pensée? Qu’elle est sotte? La pensée est donc une chose admirable et incomparable par sa nature. Il fallait qu’elle eût d’étranges défauts pour être méprisable. Mais elle en a de tels, que rien n’est plus ridicule. Qu’elle est grande par sa nature, qu’elle est basse par ses défauts. L’ÉCOULEMENT C’est une chose horrible de sentir s’écouler tout ce qu’on possède.

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II MISÈRE DE L’HOMME

Qui voudra connaître à plein la vanité de l’homme n’a qu’à considérer les causes et les effets de l’amour. La cause en est un « je ne sais quoi » (Corneille), et les effets en sont effroyables. Ce « je ne sais quoi », si peu de chose qu’on ne peut le reconnaître, remue toute la terre, les princes, les armées, le monde entier. Le nez de Cléopâtre s’il eût été plus court, toute la face de la terre aurait changé.

MISÈRE La seule chose qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est la plus grande de nos misères. Car c’est cela qui nous empêche principalement de songer à nous et qui nous fait perdre insensiblement. Sans cela nous serions dans l’ennui, et cet ennui nous pousserait à chercher un moyen plus solide d’en sortir. Mais le divertissement nous amuse et nous fait arriver insensiblement à la mort.

AGITATION Quand un soldat se plaint de la peine qu’il a, ou un laboureur etc., qu’on les mette sans rien faire.

IMAGINATION C’est cette partie dominante dans l’homme, cette maîtresse d’erreur et de fausseté, et d’autant plus fourbe qu’elle ne l’est pas toujours, car elle serait règle infaillible de vérité si elle l’était infaillible du mensonge. Mais étant le plus souvent fausse, elle ne donne aucune marque de sa qualité, marquant du même caractère le vrai et le faux. Je ne parle pas des fous, je parle des plus sages et c’est parmi eux que l’imagination a le grand droit de persuader les hommes. La raison a beau crier, elle ne peut mettre le prix aux choses.

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Cette superbe puissance ennemie de la raison, qui se plaît à la contrôler et à la dominer, pour montrer combien elle peut en toutes choses a établi dans l’homme une seconde nature. Elle a ses heureux, ses malheureux, ses sains, ses malades, ses riches, ses pauvres. Elle fait croire, douter, nier la raison. Elle suspend les sens, elle les fait sentir. Elle a ses fous et ses sages, et rien ne nous dépite davantage que de voir qu’elle remplit ses hôtes d’une satisfaction bien autrement pleine et entière que la raison. Les habiles par imagination se plaisent tout autrement à eux-mêmes que les prudents ne se peuvent raisonnablement plaire. Ils regardent les gens avec empire, ils disputent avec hardiesse et confiance, les autres avec crainte et défiance, et cette gaieté de visage leur donne souvent l’avantage dans l’opinion des écoutants, tant les sages imaginaires ont de faveur auprès des juges de même nature. Elle ne peut rendre sages les fous, mais elle les rend heureux, à l’envi de la raison, qui ne peut rendre ses amis que misérables, l’une les couvrant de gloire, l’autre de honte. Qui dispense la réputation, qui donne le respect et la vénération aux personnes, aux ouvrages, aux lois, aux grands, sinon cette faculté imaginante? Toutes les richesses de la terre insuffisantes, sans son consentement. Ne diriez-vous pas que ce magistrat dont la vieillesse vénérable impose le respect à tout un peuple se gouverne par une raison pure et sublime et qu’il juge des choses par leur nature sans s’arrêter à ces vaines circonstances qui ne blessent que l’imagination des faibles? Voyez-le entrer dans un sermon où il apporte un zèle tout dévot, renforçant la solidité de sa raison par l’ardeur de sa charité. Le voilà prêt à l’ouïr avec un respect exemplaire. Que le prédicateur vienne à paraître, si la nature lui a donné une voix enrouée et un tour de visage bizarre, que son barbier l’ait mal rasé, si le hasard l’a encore barbouillé de surcroît, quelques grandes vérités qu’il annonce, je parie la perte de la gravité de notre sénateur. Le plus grand philosophe du monde sur une planche plus large qu’il ne faut, s’il y a au-dessous un précipice, quoique sa raison le convainque de sa sûreté, son imagination prévaudra. Plusieurs n’en sauraient soutenir la pensée sans pâlir et suer. Je ne veux pas rapporter tous ses effets. Qui ne sait que la vue des chats, des rats, l’écrasement d’un charbon etc. emportent la raison hors des gonds? Le ton de voix impose aux plus sages et change un discours et un poème de force. L’affection ou la haine changent la justice de face; et combien un avocat bien payé par avance trouve-t-il plus juste la cause qu’il plaide! Combien son geste hardi la fait-il paraître meilleure aux juges, dupés par cette

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apparence! Plaisante raison, qu’un vent manie, et à tout sens. Je rapporterais presque toutes les actions des hommes, qui ne branlent presque que par ses secousses. Car la raison a été obligée de céder, et la plus sage prend pour ses principes ceux que l’imagination des hommes a témérairement introduits en chaque lieu. [Il faut, puisqu’il y a plu, travailler tout le jour pour des biens reconnus pour imaginaires. Et quand le sommeil nous a délassés des fatigues de notre raison, il faut incontinent se lever en sursaut pour aller courir après les fumées et essuyer les impressions de cette maîtresse du monde!] Nos magistrats ont bien connu ce mystère. Leurs robes rouges, leurs hermines dont ils s’emmaillotent en chafourrés, les palais où ils jugent, les fleurs de lys, tout cet appareil auguste était fort nécessaire. Et si les médecins n’avaient des soutanes et des mules, et que les docteurs n’eussent des bonnets carrés et des robes trop amples de quatre parties, jamais ils n’auraient dupé le monde, qui ne peut résister à cette montre si authentique. S’ils avaient la véritable justice et si les médecins avaient le vrai art de guérir, ils n’auraient que faire de bonnets carrés; la majesté de ces sciences serait assez vénérable d’elle-même. Mais n’ayant que des sciences imaginaires, il faut qu’ils prennent ces vains instruments, qui frappent l’imagination, à laquelle ils ont affaire. Et par là en effet ils s’attirent le respect. Les seuls gens de guerre ne se sont pas déguisés de la sorte, parce qu’en effet leur part est plus essentielle. Ils s’établissent par la force, les autres par grimace. C’est ainsi que nos rois n’ont pas recherché ces déguisements. Ils ne se sont pas masqués d’habits extraordinaires pour paraître tels, mais ils se sont accompagnés de gardes, de balourds. Ces troupes armées, qui n’ont de mains et de force que pour eux, les trompettes et les tambours qui marchent au-devant et ces légions qui les environnent, font trembler les plus fermes. Ils n’ont pas l’habit, seulement ils ont la force. Il faudrait avoir une raison bien épurée pour regarder comme un autre homme le Grand Seigneur environné, dans son superbe sérail, de quarante mille janissaires. Nous ne pouvons pas seulement voir un avocat en soutane et le bonnet en tête sans une opinion avantageuse de sa suffisance. L’imagination dispose de tout. Elle fait la beauté, la justice et le bonheur qui est le tout du monde. Je voudrais de bon cœur voir le livre italien dont je ne connais que le titre, qui vaut lui seul bien des livres, Dell’opinione Regina del mondo. J’y souscris sans le connaître, sauf le mal, s’il y en a.

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Voilà à peu près les effets de cette faculté trompeuse, qui semble nous être donnée exprès pour nous induire à une erreur nécessaire. Nous en avons bien d’autres principes. Les impressions anciennes ne sont pas seules capables de nous abuser. Les charmes de la nouveauté ont le même pouvoir. De là viennent toutes les disputes des hommes, qui se reprochent ou de suivre leurs fausses impressions de l’enfance, ou de courir témérairement après les nouvelles. Qui tient le juste milieu, qu’il paraisse et qu’il le prouve. Il n’y a principe, quelque naturel qu’il puisse être, même depuis l’enfance, qu’on ne fasse passer pour une fausse impression soit de l’instruction soit des sens. «Parce - dit-on - que vous avez cru dès l’enfance qu’un coffre était vide lorsque vous n’y voyiez rien, vous avez cru le vide possible. C’est une illusion de vos sens, fortifiée par la coutume, qu’il faut que la science corrige». Et les autres disent: «Parce qu’on vous a dit dans l’École qu’il n’y a point de vide, on a corrompu votre sens commun, qui le comprenait si nettement avant cette mauvaise impression, qu’il faut corriger en recourant à votre première nature». Qui a donc trompé: les sens ou l’instruction? Nous avons un autre principe d’erreur, les maladies. Elles nous gâtent le jugement et le sens; et si les grandes l’altèrent sensiblement, je ne doute pas que les petites n’y fassent impression à leur proportion. Notre propre intérêt est encore un merveilleux instrument pour nous crever les yeux agréablement. Il n’est pas permis au plus équitable homme du monde d’être juge en sa cause. J’en sais qui pour ne pas tomber dans cet amour propre ont été les plus injustes du monde à contre-biais; le moyen sûr de perdre une affaire toute juste était de la leur faire recommander par leurs proches parents. La justice et la vérité sont deux pointes si subtiles que nos instruments sont trop mousses pour y toucher exactement. S’ils y arrivent, ils en écachent la pointe et appuient tout autour plus sur le faux que sur le vrai. [L’homme est donc si heureusement fabriqué qu’il n’a aucun principe juste du vrai, et plusieurs excellents du faux. Voyons maintenant combien. Mais la plus plaisante cause de ses erreurs est la guerre qui est entre les sens et la raison.] L’homme n’est qu’un sujet plein d’erreur naturelle et ineffaçable sans la grâce. Rien ne lui montre la vérité. Tout l’abuse. Ces deux principes de vérité, la raison et les sens, outre qu’ils manquent chacun de sincérité, s’abusent réciproquement l’un l’autre. Les sens abusent la raison par de fausses apparences, et cette même piperie qu’ils apportent à l’âme ils la reçoivent d’elle à leur tour: elle s’en revanche. Les passions de l’âme trou-

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blent les sens et leur font des impressions fausses. Ils mentent et se trompent à l’envi.

L’Ecclésiaste montre que l’homme sans Dieu est dans l’ignorance de tout et dans un malheur inévitable, car c’est être malheureux que de vouloir et ne pouvoir. Or, il veut être heureux et assuré de quelque vérité, et cependant il ne peut ni savoir ni ne désirer point de savoir. Il ne peut même douter.

L’ennui qu’on a de quitter les occupations où l’on s’est attaché. Un homme vit avec plaisir en son ménage; qu’il voie une femme qui lui plaise, qu’il joue 5 ou 6 jours avec plaisir, le voilà misérable s’il retourne à sa première occupation. Rien n’est plus ordinaire que cela.

Les principales forces des pyrrhoniens — je laisse les moindres — sont que nous n’avons aucune certitude de la vérité de ces principes, hors la foi et la révélation, sinon en ce que nous les sentons naturellement en nous. Or, ce sentiment naturel n’est pas une preuve convaincante de leur vérité, puisque, n’y ayant point de certitude, hors la foi, si l’homme est créé par un Dieu bon, par un démon méchant ou à l’aventure, il est en doute si ces principes nous sont donnés ou véritables ou faux ou incertains, selon notre origine. De plus, que personne n’a d’assurance, hors la foi, s’il veille ou s’il dort, vu que durant le sommeil on croit veiller aussi fermement que nous faisons. [Comme on rêve souvent qu’on rêve, entassant un songe sur l’autre, ne se peut-il pas faire que cette moitié de la vie où nous pensons veiller n’est elle-même qu’un songe, sur lequel les autres sont entés, dont nous nous éveillons à la mort, pendant laquelle nous avons aussi peu les principes du vrai et du bien que pendant le sommeil naturel, tout cet écoulement du temps de la vie et ces divers corps que nous sentons, ces différentes pensées qui nous y agitent n’étant peut-être que des illusions pareilles à l’écoulement du temps et aux vains fantômes de nos songes.] On croit voir les espaces, les figures, les mouvements; on sent couler le temps, on le mesure, et enfin on agit de même qu’éveillé. De sorte que, la moitié de la vie se passant en sommeil, par notre propre aveu, où, quoi qu’il nous en paraisse, nous n’avons aucune idée du vrai, tous nos sentiments étant alors des illusions, qui sait si cette autre moitié de la vie où nous pensons veiller n’est pas un autre sommeil un peu différent du premier, dont nous nous éveillons quand nous pensons dormir?

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Voilà les principales forces de part et d’autre. Je laisse les moindres, comme les discours qu’ont fait les pyrrhoniens contre les impressions de la coutume, de l’éducation, des mœurs des pays, et les autres choses semblables, qui, quoiqu’elles entraînent la plus grande partie des hommes communs, qui ne dogmatisent que sur ces vains fondements, sont renversées par le moindre souffle des pyrrhoniens. On n’a qu’à voir leurs livres si l’on n’en est pas assez persuadé; on le deviendra bien vite, et peut-être trop. Je m’arrête à l’unique fort des dogmatistes, qui est qu’en parlant de bonne foi et sincèrement, on ne peut douter des principes naturels. Contre quoi les pyrrhoniens opposent, en un mot, l’incertitude de notre origine, qui enferme celle de notre nature. À quoi les dogmatistes sont encore à répondre depuis que le monde dure. Voilà la guerre ouverte entre les hommes, où il faut que chacun prenne parti et se range nécessairement ou au dogmatisme ou au pyrrhonisme, car qui pensera demeurer neutre sera pyrrhonien par excellence: cette neutralité est l’essence de la cabale. Qui n’est pas contre eux est excellemment pour eux: ils ne sont pas pour eux-mêmes, ils sont neutres, indifférents, suspendus à tout sans s’excepter. Que fera donc l’homme en cet état? Doutera-t-il de tout? Doutera-t-il si il veille, si on le pince, si on le brûle? Doutera-t-il s’il doute? Doutera-t-il s’il est? On n’en peut venir là, et je mets en fait qu’il n’y a jamais eu de pyrrhonien effectif parfait. La nature soutient la raison impuissante et l’empêche d’extravaguer jusqu’à ce point. Dira-t-il donc au contraire qu’il possède certainement la vérité, lui qui, si peu qu’on le pousse, ne peut en montrer aucun titre et est forcé de lâcher prise? Quelle chimère est-ce donc que l’homme, quelle nouveauté, quel monstre, quel chaos, quel sujet de contradictions, quel prodige, juge de toutes choses, imbécile ver de terre, dépositaire du vrai, cloaque d’incertitude et d’erreur, gloire et rebut de l’univers. Qui démêlera cet embrouillement? [Certainement cela passe le dogmatisme et le pyrrhonisme et toute la philosophie humaine. L’homme passe l’homme. Qu’on accorde donc aux pyrrhoniens ce qu’ils ont tant crié, que la vérité n’est pas de notre portée ni de notre gibier, qu’elle ne demeure pas en terre, qu’elle est domestique du ciel, qu’elle loge dans le sein de Dieu et que l’on ne la peut connaître qu’à mesure qu’il lui plaît de la révéler. Apprenons donc de la vérité incréée et incarnée notre véritable nature. On ne peut être pyrrhonien sans étouffer la nature, on ne peut être dogmatiste sans renoncer à la raison.] La nature confond les pyrrhoniens

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et la raison confond les dogmatiques. Que deviendrez-vous donc, ô homme, qui cherchez quelle est votre véritable condition par votre raison naturelle? Vous ne pouvez fuir une de ces sectes ni subsister dans aucune. Connaissez donc, superbe, quel paradoxe vous êtes à vous-même! Humiliez-vous, raison impuissante! Taisez-vous, nature imbécile! Apprenez que l’homme passe infiniment l’homme et entendez de votre Maître votre condition véritable, que vous ignorez. Écoutez Dieu. Car enfin, si l’homme n’avait jamais été corrompu, il jouirait dans son innocence et de la vérité et de la félicité avec assurance; et si l’homme n’avait jamais été que corrompu, il n’aurait aucune idée ni de la vérité, ni de la béatitude. Mais, malheureux que nous sommes, et plus que s’il n’y avait point de grandeur dans notre condition, nous avons une idée du bonheur et ne pouvons y arriver, nous sentons une image de la vérité et ne possédons que le mensonge, incapables d’ignorer absolument et de savoir certainement, tant il est manifeste que nous avons été dans un degré de perfection dont nous sommes malheureusement déchus. Chose étonnante cependant que le mystère le plus éloigné de notre connaissance, qui est celui de la transmission du péché, soit une chose sans laquelle nous ne pouvons avoir aucune connaissance de nous-mêmes. Car il est sans doute qu’il n’y a rien qui choque plus notre raison que de dire que le péché du premier homme ait rendu coupables ceux qui, étant si éloignés de cette source, semblent incapables d’y participer. Cet écoulement ne nous paraît pas seulement impossible, il nous semble même très injuste. Car qu’y a-t-il de plus contraire aux règles de notre misérable justice que de damner éternellement un enfant incapable de volonté pour un péché où il paraît avoir si peu de part, qu’il est commis six mille ans avant qu’il fût en être? Certainement rien ne nous heurte plus rudement que cette doctrine. Et cependant, sans ce mystère le plus incompréhensible de tous nous sommes incompréhensibles à nous-mêmes. Le nœud de notre condition prend ses replis et ses tours dans cet abîme. De sorte que l’homme est plus inconcevable sans ce mystère, que ce mystère n’est inconcevable à l’homme. [D’où il paraît que Dieu, pour se réserver à soi seul le droit de nous instruire de nous-mêmes, voulant nous rendre la difficulté de notre être inintelligible à nous-mêmes, en a caché le nœud si haut, ou pour mieux dire si bas, que nous étions bien incapables d’y arriver. De sorte que ce n’est pas par les superbes agitations de notre raison, mais par la simple soumission de la raison que nous pouvons véritablement nous connaître.

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Ces fondements, solidement établis sur l’autorité inviolable de la religion, nous font connaître qu’il y a deux vérités de foi également constantes: l’une, que l’homme dans l’état de la création ou dans celui de la grâce est élevé au-dessus de toute la nature, rendu comme semblable à Dieu et participant de la divinité; l’autre, qu’en l’état de la corruption et du péché il est déchu de cet état et rendu semblable aux bêtes. Ces deux propositions sont également fermes et certaines. L’Écriture nous les déclare manifestement lorsqu’elle dit en quelques lieux: Deliciae meae esse cum filiis hominum. Effundam spiritum meum super omnem carnem, Dii estis etc. Et qu’elle dit en d’autres: Omnis caro foenum. Homo assimilatus est iumentis insipientibus et similis factus est illis. Dixi in corde meo de filiis hominum: Ecclesiaste, 3. Par où il paraît clairement que l’homme par la grâce est rendu comme semblable à Dieu et participant de sa divinité, et que sans la grâce il est censé semblable aux bêtes brutes.]

On n’est pas misérable sans sentiment; une maison ruinée ne l’est pas. Il n’y a que l’homme de misérable. Ego vir videns.

RAISON DES EFFETS La faiblesse de l’homme est la cause de tant de beautés qu’on établit, comme de ne savoir bien jouer du luth n’est un mal qu’à cause de notre faiblesse.

MISÈRE Bassesse de l’homme jusqu’à se soumettre aux bêtes, jusques à les adorer.

Quand je considère la petite durée de ma vie, absorbée dans l’éternité précédente et suivante — memoria hospitis unius diei praetereuntis — le petit espace que je remplis et même que je vois, abîmé dans l’infinie immensité des espaces que j’ignore et qui m’ignorent, je m’effraie et m’étonne de me voir ici plutôt que là, car il n’y a point de raison pour quoi ici plutôt que là, pour quoi à présent plutôt que lors. Qui m’y a mis? Par l’ordre et la conduite de qui ce lieu et ce temps a-t-il été destiné à moi?

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La nature de l’amour propre et de ce moi humain est de n’aimer que soi et de ne considérer que soi. Mais que fera-t-il? Il ne saurait empêcher que cet objet qu’il aime ne soit plein de défauts et de misère: il veut être grand, et il se voit petit; il veut être heureux, et il se voit misérable; il veut être parfait, et il se voit plein d’imperfections; il veut être l’objet de l’amour et de l’estime des hommes, et il voit que ses défauts ne méritent que leur aversion et leur mépris. Cet embarras où il se trouve produit en lui la plus injuste et la plus criminelle passion qu’il soit possible de s’imaginer car il conçoit une haine mortelle contre cette vérité, qui le reprend et qui le convainc de ses défauts. Il désirerait de l’anéantir, et ne pouvant la détruire en elle-même il la détruit, autant qu’il peut, dans sa connaissance et dans celle des autres; c’est-à-dire qu’il met tout son soin à couvrir ses défauts et aux autres et à soi-même, et qu’il ne peut souffrir qu’on les lui fasse voir ni qu’on les voie. C’est sans doute un mal que d’être plein de défauts; mais c’est encore un plus grand mal que d’en être plein et de ne les vouloir pas reconnaître, puisque c’est y ajouter encore celui d’une illusion volontaire. Nous ne voulons pas que les autres nous trompent, nous ne trouvons pas juste qu’ils veuillent être estimés de nous plus qu’ils ne méritent. Il n’est donc pas juste aussi que nous les trompions et que nous voulions qu’ils nous estiment plus que nous ne méritons. Ainsi, lorsqu’ils ne découvrent que des imperfections et des vices que nous avons en effet, il est visible qu’ils ne nous font point de tort, puisque ce ne sont pas eux qui en sont cause, et qu’ils nous font un bien, puisqu’ils nous aident à nous délivrer d’un mal qui est l’ignorance de ces imperfections. Nous ne devons pas être fâchés qu’ils les connaissent et qu’ils nous méprisent, étant juste et qu’ils nous connaissent pour ce que nous sommes, et qu’ils nous méprisent, si nous sommes méprisables. Voilà les sentiments qui naîtraient d’un cœur qui serait plein d’équité et de justice. Que devons-nous dire donc du nôtre, en y voyant une disposition toute contraire? Car n’est-il pas vrai que nous haïssons la vérité et ceux qui nous la disent, et que nous aimons qu’ils se trompent à notre avantage, et que nous voulons être estimés d’eux autres que nous ne sommes en effet? En voici une preuve qui me fait horreur. La religion catholique n’oblige pas à découvrir ses péchés indifféremment à tout le monde. Elle souffre qu’on demeure caché à tous les autres hommes; mais elle en excepte un seul, à qui elle commande de découvrir le fond de son cœur et de se faire voir tel qu’on est. Il n’y a que ce seul homme au monde qu’elle nous ordonne de désabuser, et elle l’oblige à un secret inviolable, qui fait que cette

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connaissance est dans lui comme si elle n’y était pas. Peut-on s’imaginer rien de plus charitable et de plus doux? Et néanmoins la corruption de l’homme est telle, qu’il trouve encore de la dureté dans cette loi; et c’est une des principales raisons qui a fait révolter contre l’Église une grande partie de l’Europe. Que le cœur de l’homme est injuste et déraisonnable, pour trouver mauvais qu’on oblige de faire à l’égard d’un homme ce qu’il serait juste, en quelque sorte, qu’il fît à l’égard de tous les hommes! Car est-il juste que nous les trompions? Il y a différents degrés dans cette aversion pour la vérité, mais on peut dire qu’elle est dans tous en quelque degré, parce qu’elle est inséparable de l’amour propre. C’est cette mauvaise délicatesse qui oblige ceux qui sont dans la nécessité de reprendre les autres de choisir tant de tours et de tempéraments pour éviter de les choquer. Il faut qu’ils diminuent nos défauts, qu’ils fassent semblant de les excuser, qu’ils y mêlent des louanges et des témoignages d’affection et d’estime. Avec tout cela, cette médecine ne laisse pas d’être amère à l’amour propre. Il en prend le moins qu’il peut, et toujours avec dégoût, et souvent même avec un secret dépit contre ceux qui la lui présentent. II arrive de là que, si on a quelque intérêt d’être aimé de nous, on s’éloigne de nous rendre un office qu’on sait nous être désagréable. On nous traite comme nous voulons être traités: nous haïssons la vérité, on nous la cache; nous voulons être flattés, on nous flatte; nous aimons à être trompés, on nous trompe. C’est ce qui fait que chaque degré de bonne fortune qui nous élève dans le monde, nous éloigne davantage de la vérité, parce qu’on appréhende plus de blesser ceux dont l’affection est plus utile et l’aversion plus dangereuse. Un prince sera la fable de toute l’Europe, et lui seul n’en saura rien. Je ne m’en étonne pas: dire la vérité est utile à celui à qui on la dit, mais désavantageux à ceux qui la disent, parce qu’ils se font haïr. Or, ceux qui vivent avec les princes aiment mieux leurs intérêts que celui du prince qu’ils servent; et ainsi ils n’ont garde de lui procurer un avantage en se nuisant à euxmêmes. Ce malheur est sans doute plus grand et plus ordinaire dans les plus grandes fortunes; mais les moindres n’en sont pas exemptes, parce qu’il y a toujours quelque intérêt à se faire aimer des hommes. Ainsi la vie humaine n’est qu’une illusion perpétuelle; on ne fait que s’entre-tromper et s’entreflatter. Personne ne parle de nous en notre présence comme il en parle en notre absence. L’union qui est entre les hommes n’est fondée que sur cette mutuelle tromperie, et peu d’amitiés subsisteraient si chacun savait ce que

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son ami dit de lui lorsqu’il n’y est pas, quoiqu’il en parle alors sincèrement et sans passion. L’homme n’est donc que déguisement, que mensonge et hypocrisie, et en soi-même et à l’égard des autres. Il ne veut donc pas qu’on lui dise la vérité. Il évite de la dire aux autres. Et toutes ces dispositions si éloignées de la justice et de la raison, ont une racine naturelle dans son cœur.

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III CONDITION DE L’HOMME

L’homme ne sait à quel rang se mettre. Il est visiblement égaré et tombé de son vrai lieu sans le pouvoir retrouver. Il le cherche partout avec inquiétude et sans succès, dans des ténèbres impénétrables. H. DISPROPORTION DE L’HOMME [Voilà où nous mènent les connaissances naturelles: si celles-là ne sont véritables, il n’y a point de vérité dans l’homme, et si elles le sont, il y trouve un grand sujet d’humiliation, forcé à s’abaisser d’une ou d’autre manière. Et puisqu’il ne peut subsister sans les croire, je souhaite, avant que d’entrer dans de plus grandes recherches de la nature, qu’il la considère une fois sérieusement et à loisir, qu’il se regarde aussi soi-même, et connaissant quelle proportion il y a...]. Que l’homme contemple donc la nature entière dans sa haute et pleine majesté, qu’il éloigne sa vue des objets bas qui l’environnent, qu’il regarde cette éclatante lumière mise comme une lampe éternelle pour éclairer l’univers; que la terre lui paraisse comme un point au prix du vaste tour que cet astre décrit, et qu’il s’étonne de ce que ce vaste tour lui-même n’est qu’une pointe très délicate à l’égard de celui que ces astres qui roulent dans le firmament embrassent. Mais si notre vue s’arrête là, que l’imagination passe outre. Elle se lassera plus tôt de concevoir que la nature de fournir. Tout ce monde visible n’est qu’un trait imperceptible dans l’ample sein de la nature. Nulle idée n’en approche. Nous avons beau enfler nos conceptions au-delà des espaces imaginables, nous n’enfantons que des atomes au prix de la réalité des choses. C’est une sphère infinie, dont le centre est partout, la circonférence nulle part. Enfin c’est le plus grand caractère sensible de la toute-puissance de Dieu que notre imagination se perde dans cette pensée. Que l’homme étant revenu à soi considère ce qu’il est au prix de ce qui est; qu’il se regarde comme égaré dans ce canton détourné de la nature, et que de ce petit cachot où il se trouve logé, j’entends l’univers, il apprenne à estimer la terre, les royaumes, les villes et soi-même, son juste prix.

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Qu’est-ce qu’un homme, dans l’infini? Mais pour lui présenter un autre prodige aussi étonnant, qu’il recherche dans ce qu’il connaît les choses les plus délicates; qu’un ciron lui offre, dans la petitesse de son corps, des parties incomparablement plus petites, des jambes avec des jointures, des veines dans ses jambes, du sang dans ses veines, des humeurs dans ce sang, des gouttes dans ses humeurs, des vapeurs dans ces gouttes; que divisant encore ces dernières choses il épuise ses forces en ces conceptions, et que le dernier objet où il peut arriver soit maintenant celui de notre discours. Il pensera peut-être que c’est là l’extrême petitesse de la nature. Je veux lui faire voir là-dedans un abîme nouveau, je lui veux peindre non seulement l’univers visible mais l’immensité qu’on peut concevoir de la nature dans l’enceinte de ce raccourci d’atome. Qu’il y voie une infinité d’univers, dont chacun a son firmament, ses planètes, sa terre, en la même proportion que le monde visible; dans cette terre, des animaux, et enfin de cirons, dans lesquels il retrouvera ce que les premiers ont donné; et trouvant encore dans les autres la même chose sans fin et sans repos, qu’il se perdra dans ces merveilles aussi étonnantes dans leur petitesse que les autres par leur étendue. Car qui n’admirera que notre corps, qui tantôt n’était pas perceptible dans l’univers imperceptible lui-même dans le sein du tout, soit à présent un colosse, un monde ou plutôt un tout à l’égard du néant, où l’on ne peut arriver? Qui se considérera de la sorte s’effraiera de soi-même, et se considérant soutenu, dans la masse que la nature lui a donnée, entre ces deux abîmes de l’infini et du néant, il tremblera dans la vue de ses merveilles, et je crois que, sa curiosité se changeant en admiration, il sera plus disposé à les contempler en silence qu’à les rechercher avec présomption. Car enfin, qu’est-ce que l’homme dans la nature? Un néant à l’égard de l’infini, un tout à l’égard du néant, un milieu entre rien et tout. Infiniment éloigné de comprendre les extrêmes, la fin des choses et leur principe sont pour lui invinciblement cachés dans un secret impénétrable; également incapable de voir le néant d’où il est tiré et l’infini où il est englouti. Que fera-t-il donc, sinon d’apercevoir quelque apparence du milieu des choses, dans un désespoir éternel de connaître ni leur principe ni leur fin? Toutes choses sont sorties du néant et portées jusqu’à l’infini. Qui suivra ces étonnantes démarches? L’auteur de ces merveilles les comprend. Tout autre ne le peut faire. Manque d’avoir contemplé ces infinis, les hommes se sont portés témérairement à la recherche de la nature, comme s’ils avaient quelque proportion avec elle.

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C’est une chose étrange qu’ils ont voulu comprendre les principes des choses et de là arriver jusqu’à connaître tout, par une présomption aussi infinie que leur objet. Car il est sans doute qu’on ne peut former ce dessein sans une présomption ou sans une capacité infinie, comme la nature. Quand on est instruit, on comprend que la nature ayant gravé son image et celle de son auteur dans toutes choses, elles tiennent presque toutes de sa double infinité. C’est ainsi que nous voyons que toutes les sciences sont infinies en l’étendue de leurs recherches. Car qui doute que la géométrie, par exemple, a une infinité d’infinités de propositions à exposer? Elles sont aussi infinies dans la multitude et la délicatesse de leurs principes. Car qui ne voit que ceux qu’on propose pour les derniers ne se soutiennent pas d’eux-mêmes et qu’ils sont appuyés sur d’autres, qui, en ayant d’autres pour appui, ne souffrent jamais de dernier? Mais nous faisons des derniers qui paraissent à la raison comme on fait dans les choses matérielles, où nous appelons un point indivisible celui audelà duquel nos sens n’aperçoivent plus rien, quoique divisible infiniment et par sa nature. De ces deux infinis de sciences, celui de grandeur est bien plus sensible, et c’est pourquoi il est arrivé à peu de personnes de prétendre connaître toutes choses. «Je vais parler de tout», disait Démocrite. [Mais outre que c’est peu d’en parler simplement, sans prouver et connaître, il est néanmoins impossible de le faire, la multitude infinie des choses nous étant si cachée que tout ce que nous pouvons exprimer par paroles ou par pensées n’en est qu’un trait invisible. D’où il paraît combien est sot, vain et ignorant ce titre de quelques livres De omni scibili. On voit d’une première vue que l’arithmétique seule fournit des propriétés sans nombre, et chaque science de même]. Mais l’infinité en petitesse est bien moins visible. Les philosophes ont bien plutôt prétendu d’y arriver, et c’est là où tous ont achoppé. C’est ce qui a donné lieu à ces titres si ordinaires Des principes des choses, Des principes de la philosophie et aux semblables, aussi fastueux en effet quoique moins en apparence que cet autre qui crève les yeux De omni scibili. On se croit naturellement bien plus capable d’arriver au centre des choses que d’embrasser leur circonférence, et l’étendue visible du monde nous surpasse visiblement. Mais comme c’est nous qui surpassons les petites choses, nous nous croyons plus capables de les posséder, et cependant il ne faut pas moins de capacité pour aller jusqu’au néant que jusqu’au tout. Il la faut infinie pour l’un et l’autre. Et il me semble que qui aurait compris les derniers principes des choses pourrait aussi arriver jusqu’à connaître l’in-

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fini. L’un dépend de l’autre et l’un conduit à l’autre. Ces extrémités se touchent et se réunissent à force de s’être éloignées, et se retrouvent en Dieu, et en Dieu seulement. Connaissons donc notre portée: nous sommes quelque chose et ne sommes pas tout. Ce que nous avons d’être nous dérobe la connaissance des premiers principes, qui naissent du néant, et le peu que nous avons d’être nous cache la vue de l’infini. Notre intelligence tient dans l’ordre des choses intelligibles le même rang que notre corps dans l’étendue de la nature. Bornés en tout genre, cet état qui tient le milieu entre deux extrêmes se trouve en toutes nos puissances. Nos sens n’aperçoivent rien d’extrême. Trop de bruit nous assourdit, trop de lumière éblouit, trop de distance et trop de proximité empêche la vue. Trop de longueur et trop de brièveté de discours l’obscurcit, trop de vérité nous étonne. J’en sais qui ne peuvent comprendre que qui de zéro ôte 4 reste zéro. Les premiers principes ont trop d’évidence pour nous. Trop de plaisir incommode, trop de consonances déplaisent dans la musique et trop de bienfaits irritent. Nous voulons avoir de quoi surpayer la dette. Bénéficia eo usque laeta sunt dum videntur exsolvi posse; ubi multum antevenere, pro gratia odium redditur. Nous ne sentons ni l’extrême chaud ni l’extrême froid, les qualités excessives nous sont ennemies et non pas sensibles, nous ne les sentons plus, nous les souffrons. Trop de jeunesse et trop de vieillesse empêche l’esprit, trop et trop peu d’instruction. Enfin, les choses extrêmes sont pour nous comme si elles n’étaient point, et nous ne sommes point à leur égard, elles nous échappent ou nous à elles. Voilà notre état véritable. C’est ce qui nous rend incapables de savoir certainement et d’ignorer absolument. Nous voguons sur un milieu vaste, toujours incertains et flottants, poussés d’un bout vers l’autre. Quelque terme où nous pensions nous attacher et nous affermir, il branle et nous quitte. Et si nous le suivons, il échappe à nos prises et glisse et fuit d’une fuite éternelle. Rien ne s’arrête pour nous. C’est l’état qui nous est naturel et toutefois le plus contraire à notre inclination. Nous brûlons du désir de trouver une assiette ferme et une dernière base constante pour y édifier une tour qui s’élève à l’infini, mais tout notre fondement craque et la terre s’ouvre jusqu’aux abîmes. Ne cherchons donc point d’assurance et de fermeté. Notre raison est toujours déçue par l’inconstance des apparences, rien ne peut fixer le fini entre les deux infinis qui l’enferment et le fuient.

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Cela étant bien compris, je crois qu’on se tiendra en repos, chacun dans l’état où la nature l’a placé. Ce milieu qui nous est échu en partage étant toujours distant des extrêmes, qu’importe qu’un autre ait un peu plus d’intelligence des choses? S’il en a, il les prend un peu de plus haut: n’est-il pas toujours infiniment éloigné du bout? Et la durée de notre vie n’est-elle pas également infime de l’éternité, pour durer dix ans davantage? Dans la vue de ces infinis tous les finis sont égaux, et je ne vois pas pourquoi asseoir son imagination plutôt sur un que sur l’autre. La seule comparaison que nous faisons de nous au fini nous fait peine. Si l’homme s’étudiait le premier, il verrait combien il est incapable de passer outre. Comment se pourrait-il qu’une partie connût le tout? «Mais il aspirera peut-être à connaître au moins les parties, avec lesquelles il a de la proportion». Mais les parties du monde ont toutes un tel rapport et un tel enchaînement l’une avec l’autre, que je crois impossible de connaître l’une sans l’autre et sans le tout. L’homme, par exemple, a rapport à tout ce qu’il connaît: il a besoin de lieu pour le contenir, de temps pour durer, de mouvement pour vivre, d’éléments pour le composer, de chaleur et d’aliments pour se nourrir, d’air pour respirer. Il voit la lumière, il sent les corps, enfin tout tombe sous son alliance. Il faut donc, pour connaître l’homme, savoir d’où vient qu’il a besoin d’air pour subsister; et pour connaître l’air, savoir par où il a ce rapport à la vie de l’homme etc. La flamme ne subsiste point sans l’air. Donc pour connaître l’un il faut connaître l’autre. Donc, toutes choses étant causées et causantes, aidées et aidantes, médiatement et immédiatement, et toutes s’entretenant par un lien naturel et insensible qui lie les plus éloignées et les plus différentes, je tiens impossible de connaître les parties sans connaître le tout, non plus que de connaître le tout sans connaître particulièrement les parties. [L’éternité des choses en elles-même ou en Dieu doit encore étonner notre petite durée. L’immobilité fixe et constante de la nature, comparaison au changement continuel qui se passe en nous, doit faire le même effet]. Et ce qui achève notre impuissance à connaître les choses est qu’elles sont simples en elles-mêmes et que nous sommes composés de deux natures opposées et de divers genres, d’âme et de corps. Car il est impossible que la partie qui raisonne en nous soit autre que spirituelle. Et quand on prétendrait que nous serions simplement corporels, cela nous exclurait bien

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davantage de la connaissance des choses, n’y ayant rien de si inconcevable que de dire que la matière se connaît soi-même. Il ne nous est pas possible de connaître comment elle se connaîtrait. Et ainsi, si nous sommes simples, matériels, nous ne pouvons rien du tout connaître. Et si nous sommes composés d’esprit et de matière, nous ne pouvons connaître parfaitement les choses simples, spirituelles ou corporelles. De là vient que presque tous les philosophes confondent les idées des choses et parlent des choses corporelles spirituellement et des spirituelles corporellement. Car ils disent hardiment que les corps tendent en bas, qu’ils aspirent à leur centre, qu’ils fuient leur destruction, qu’ils craignent le vide, qu’ils ont des inclinations, des sympathies, des antipathies, qui sont toutes choses qui n’appartiennent qu’aux esprits. Et en parlant des esprits, ils les considèrent comme en un lieu et leur attribuent le mouvement d’une place à une autre, qui sont choses qui n’appartiennent qu’aux corps. Au lieu de recevoir les idées de ces choses pures, nous les teignons de nos qualités et empreignons de notre être composé toutes les choses simples que nous contemplons. Qui ne croirait, à nous voir composer toutes choses d’esprit et de corps, que ce mélange-là nous serait bien compréhensible? C’est néanmoins la chose qu’on comprend le moins. L’homme est à lui-même le plus prodigieux objet de la nature, car il ne peut concevoir ce que c’est que corps, et encore moins ce que c’est qu’esprit, et moins qu’aucune chose comment un corps peut être uni avec un esprit. C’est là le comble de ses difficultés, et cependant c’est son propre être. Modus quo corporibus adhaerent spiritus comprehendi ab homine non potest, et hoc tamen homo est.

J’ai passé longtemps de ma vie en croyant qu’il y avait une justice, et en cela je ne me trompais pas, car il y en a, selon que Dieu nous l’a voulu révéler. Mas je ne le prenais pas ainsi, et c’est en quoi je me trompais, car je croyais que notre justice était essentiellement juste et que j’avais de quoi la connaître et en juger. Mais je me suis trouvé tant de fois en faute de jugement droit, qu’enfin je suis entré en défiance de moi et puis des autres. J’ai vu tous les pays et hommes changeants. Et ainsi, après bien des changements de jugement touchant la véritable justice, j’ai connu que notre nature n’était qu’un continuel changement, et je n’ai plus changé depuis. Et si je changeais, je confirmerais mon opinion. Le pyrrhonien Arcésilas, qui redevint dogmatique.

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Il se peut faire qu’il y ait de vraies démonstrations mais cela n’est pas certain. Ainsi cela ne montre autre chose sinon qu’il n’est pas certain que tout soit incertain. À la gloire du pyrrhonisme. Cet homme si affligé de la mort de sa femme et de son fils unique, qui a cette grande querelle qui le tourmente, d’où vient qu’à ce moment il n’est point triste et qu’on le voit si exempt de toutes ces pensées pénibles et inquiétantes? Il ne faut pas s’en étonner: on vient de lui servir une balle et il faut qu’il la rejette à son compagnon; il est occupé à la prendre à la chute du toit pour gagner une chasse. Comment voulez-vous qu’il pense à ses affaires, ayant cette autre affaire à manier? Voilà un soin digne d’occuper cette grande âme et de lui ôter toute autre pensée de l’esprit. Cet homme né pour connaître l’univers, pour juger de toutes choses, pour régler tout un État, le voilà occupé et tout rempli du soin de prendre un lièvre. Et s’il ne s’abaisse à cela et veuille toujours être tendu, il n’en sera que plus sot, parce qu’il voudra s’élever au-dessus de l’humanité, et il n’est qu’un homme, au bout du compte c’est-à-dire capable de peu et de beaucoup, de tout et de rien. Il n’est ni ange ni bête, mais homme. Une seule pensée nous occupe. Nous ne pouvons penser à deux choses à la fois. Dont bien nous prend, selon le monde, non selon Dieu.

Cette duplicité de l’homme est si visible qu’il y en a qui ont pensé que nous avions deux âmes. Un sujet simple leur paraissant incapable de telles et si soudaines variétés, d’une présomption démesurée à un horrible abattement de cœur. DIVERTISSEMENT «Si l’homme était heureux, il le serait d’autant plus qu’il serait moins diverti; comme les saints et Dieu». «Oui. Mais n’est-ce pas être heureux que de pouvoir être réjoui par le divertissement?». «Non. Car il vient d’ailleurs et de dehors, et ainsi il est dépendant et partant sujet à être troublé par mille accidents qui font les afflictions inévitables».

Les hommes, n’ayant pu guérir la mort, la misère, l’ignorance, ils se sont avisés, pour se rendre heureux, de n’y point penser. Nonobstant ces misères, il veut être heureux, et ne veut être qu’heureux, et ne peut ne vouloir pas l’être. Mais comment s’y prendra-t-il? Il

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faudrait, pour bien faire, qu’il se rendît immortel. Mais ne le pouvant, il s’est avisé de s’empêcher d’y penser.

Je sens que je puis n’avoir point été, car le moi consiste dans ma pensée. Donc moi qui pense n’aurais point été si ma mère eût été tuée avant que j’eusse été animé. Donc je ne suis pas un être nécessaire. Je ne suis pas aussi éternel ni infini. Mais je vois bien qu’il y a dans la nature un être nécessaire, éternel et infini.

Quand je m’y suis mis quelquefois à considérer les diverses agitations des hommes et les périls et les peines où ils s’exposent dans la Cour, dans la guerre, d’où naissent tant de querelles, de passions, d’entreprises hardies et souvent mauvaises etc., j’ai dit souvent que tout le malheur des hommes vient d’une seule chose, qui est de ne savoir pas demeurer en repos dans une chambre. Un homme qui a assez de bien pour vivre, s’il savait demeurer chez soi avec plaisir, n’en sortirait pas pour aller sur la mer ou au siège d’une place. On n’achèterait une charge à l’armée, si chère, que parce qu’on trouverait insupportable de ne bouger de la ville. Et on ne recherche les conversations et les divertissements des jeux que parce qu’on ne peut demeurer chez soi avec plaisir. Etc. Mais quand j’ai pensé de plus près et qu’après avoir trouvé la cause de tous nos malheurs j’ai voulu en découvrir les raisons, j’ai trouvé qu’il y en a une bien effective, qui consiste dans le malheur naturel de notre condition faible et mortelle et si misérable que rien ne peut nous consoler lorsque nous y pensons de près. Quelque condition qu’on se figure, où l’on assemble tous les biens qui peuvent nous appartenir, la royauté est le plus beau poste du monde. Et cependant qu’on s’en imagine un accompagné de toutes les satisfactions qui peuvent le toucher. S’il est sans divertissement et qu’on le laisse considérer et faire réflexion sur ce qu’il est, cette félicité languissante ne le soutiendra point. Il tombera par nécessité dans les vues qui le menacent des révoltes qui peuvent arriver, et enfin de la mort et des maladies, qui sont inévitables. De sorte que s’il est sans ce qu’on appelle divertissement, le voilà malheureux, et plus malheureux que le moindre de ses sujets qui joue et qui se divertit. De là vient que le jeu et la conversation des femmes, la guerre, les grands emplois sont si recherchés. Ce n’est pas qu’il y ait en effet du bonheur, ni

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qu’on s’imagine que la vraie béatitude soit d’avoir l’argent qu’on peut gagner au jeu ou dans le lièvre qu’on court. On n’en voudrait pas s’il était offert. Ce n’est pas cet usage mol et paisible et qui nous laisse penser à notre malheureuse condition qu’on recherche, ni les dangers de la guerre ni la peine des emplois, mais c’est le tracas, qui nous détourne d’y penser et nous divertit. Raison pourquoi on aime mieux la chasse que la prise. De là vient que les hommes aiment tant le bruit et le remuement. De là vient que la prison est un supplice si horrible. De là vient que le plaisir de la solitude est une chose incompréhensible. Et c’est enfin le plus grand sujet de félicité de la condition des rois de ce qu’on essaie sans cesse à les divertir et à leur procurer toutes sortes de plaisirs. Le roi est environné de gens qui ne pensent qu’à divertir le roi et à l’empêcher de penser à lui. Car il est malheureux, tout roi qu’il est, s’il y pense. Voilà tout ce que les hommes ont pu inventer pour se rendre heureux. Et ceux qui font sur cela les philosophes et qui croient que le monde est bien peu raisonnable de passer tout le jour à courir après un lièvre qu’ils ne voudraient pas avoir acheté, ne connaissent guère notre nature. Ce lièvre ne nous garantirait pas de la vue de la mort et des misères, qui nous en détournent, mais la chasse nous en garantit. Le conseil qu’on donnait à Pyrrhus de prendre le repos qu’il allait chercher par tant de fatigues, recevait bien des difficultés. Et ainsi, quand on leur reproche que ce qu’ils recherchent avec tant d’ardeur ne saurait les satisfaire, s’ils répondaient comme ils devraient le faire s’ils y pensaient bien, qu’ils ne recherchent en cela qu’une occupation violente et impétueuse qui les détourne de penser à soi, et que c’est pour cela qu’ils se proposent un objet attirant, qui les charme et les attire avec ardeur (la danse, il faut bien penser où l’on mettra ses pieds) ils laisseraient leurs adversaires sans repartie. Mais ils ne répondent pas cela, parce qu’ils ne se connaissent pas eux-mêmes. Ils ne savent pas que ce n’est que la chasse et non pas la prise qu’ils recherchent (le gentilhomme croit sincèrement que la chasse est un plaisir grand et un plaisir royal; mais son piqueur n’est pas de ce sentiment-là). Ils s’imaginent que s’ils avaient obtenu cette charge ils se reposeraient ensuite avec plaisir: et ne sentent pas la nature insatiable de leur cupidité. Ils croient chercher sincèrement le repos et ne cherchent en effet que l’agitation. Ils ont un instinct secret qui les porte à chercher le divertissement et l’occupation au-dehors, qui vient du ressentiment de leurs misères continuelles. Et ils ont un autre instinct secret, qui reste de la grandeur de notre première nature, qui leur fait connaître que le bonheur n’est en effet que dans le repos et non pas dans le tumulte. Et de

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ces deux instincts contraires il se forme en eux un projet confus qui se cache à leur vue dans le fond de leur âme, qui les porte à tendre au repos par l’agitation et à se figurer toujours que la satisfaction qu’ils n’ont point leur arrivera si, en surmontant quelques difficultés qu’ils envisagent, ils peuvent s’ouvrir par là la porte au repos. Ainsi s’écoule toute la vie, on cherche le repos en combattant quelques obstacles. Et si on les a surmontés, le repos devient insupportable par l’ennui qu’il engendre. Il en faut sortir et mendier le tumulte. Car ou l’on pense aux misères qu’on a ou à celles qui nous menacent. Et quand on se verrait même assez à l’abri de toutes parts, l’ennui, de son autorité privée, ne laisserait pas de sortir du fond du cœur, où il a des racines naturelles, et de remplir l’esprit de son venin. Ainsi l’homme est si malheureux, qu’il s’ennuierait même sans aucune cause d’ennui par l’état propre de sa complexion. Et il est si vain qu’étant plein de mille causes essentielles d’ennui, la moindre chose comme un billard et une balle qu’il pousse suffisent pour le divertir. Mais, direz-vous, quel objet a-t-il en tout cela? Celui de se vanter demain entre ses amis de ce qu’il a mieux joué qu’un autre. Ainsi les autres suent dans leur cabinet pour montrer aux savants qu’ils ont résolu une question d’algèbre qu’on n’aurait pu trouver jusqu’ici. Et tant d’autres s’exposent aux derniers périls pour se vanter ensuite d’une place qu’ils auront prise, aussi sottement, à mon gré. Et enfin les autres se tuent pour remarquer toutes ces choses, non pas pour en devenir plus sages mais seulement pour montrer qu’ils les savent; et ceux-là sont les plus sots de la bande, puisqu’ils le sont avec connaissance, au lieu qu’on peut penser des autres qu’ils ne le seraient plus s’ils avaient cette connaissance. Tel homme passe sa vie sans ennui, en jouant tous les jours peu de chose. Donnez-lui tous les matins l’argent qu’il peut gagner chaque jour, à la charge qu’il ne joue point, vous le rendez malheureux. On dira peut-être que c’est qu’il recherche l’amusement du jeu et non pas le gain. Faites-le donc jouer pour rien: il ne s’y échauffera pas et s’y ennuiera. Ce n’est donc pas l’amusement seul qu’il recherche; un amusement languissant et sans passion l’ennuiera. Il faut qu’il s’y échauffe et qu’il se pipe lui-même en s’imaginant qu’il serait heureux de gagner ce qu’il ne voudrait pas qu’on lui donnât à condition de ne point jouer, afin qu’il se forme un sujet de passion et qu’il excite sur cela son désir, sa colère, sa crainte pour l’objet qu’il s’est formé, comme les enfants qui s’effraient du visage qu’ils ont barbouillé. D’où vient que cet homme, qui a perdu depuis peu de mois son fils unique et qui accablé de procès et de querelles était ce matin si troublé, n’y

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pense plus maintenant? Ne vous en étonnez pas, il est tout occupé à voir par où passera ce sanglier que les chiens poursuivent avec tant d’ardeur depuis six heures. Il n’en faut pas davantage. L’homme, quelque plein de tristesse qu’il soit, si on peut gagner sur lui de le faire entrer en quelque divertissement, le voilà heureux pendant ce temps-là. Et l’homme, quelque heureux qu’il soit, s’il n’est diverti et occupé par quelque passion ou quelque amusement qui empêche l’ennui de se répandre, sera bientôt chagrin et malheureux. Sans divertissement il n’y a point de joie, avec le divertissement il n’y a point de tristesse. Et c’est aussi ce qui forme le bonheur des personnes de grande condition qu’ils ont un nombre de personnes qui les divertissent, et qu’ils ont le pouvoir de se maintenir en cet état. Prenez-y garde, qu’est-ce autre chose d’être surintendant, chancelier, premier président, sinon d’être en une condition où l’on a le matin un grand nombre de gens qui viennent de tous côtés chez eux pour ne leur laisser pas une heure en la journée où ils puissent penser à eux-mêmes? Et quand ils sont dans la disgrâce et qu’on les renvoie à leurs maisons des champs, où ils ne manquent ni de biens ni de domestiques pour les assister dans leur besoin, ils ne laissent pas d’être misérables et abandonnés, parce que personne ne les empêche de songer à eux.

La dignité royale n’est-elle pas assez grande d’elle-même, pour celui qui la possède, pour le rendre heureux par la seule vue de ce qu’il est? Faudrat-il le divertir de cette pensée comme les gens du commun? Je vois bien que c’est rendre un homme heureux de le divertir de la vue de ses misères domestiques pour remplir toute sa pensée du soin de bien danser; mais en sera-t-il de même d’un roi, et sera-t-il plus heureux en s’attachant à ses vains amusements qu’à la vue de sa grandeur, et quel objet plus satisfaisant pourrait-on donner à son esprit? Ne serait-ce donc pas faire tort à sa joie d’occuper son âme à penser à ajuster ses pas à la cadence d’un air, ou à placer adroitement une barre, au lieu de le laisser jouir en repos de la contemplation de la gloire majestueuse qui l’environne? Qu’on en fasse l’épreuve. Qu’on laisse un roi tout seul, sans aucune satisfaction des sens, sans aucun soin dans l’esprit, sans compagnies, penser à lui tout à loisir, et l’on verra qu’un roi sans divertissement est un homme plein de misères. Aussi on évite cela soigneusement et il ne manque jamais d’y avoir auprès des personnes des rois un grand nombre de gens qui veillent à faire succéder le divertissement à leurs affaires, et qui observent tout le temps de leur loisir pour leur fournir des plaisirs et des jeux, en sorte qu’il n’y ait point de vide.

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C’est-à-dire qu’ils sont environnés de personnes qui ont un soin merveilleux de prendre garde que le roi ne soit seul et en état de penser à soi, sachant bien qu’il sera misérable, tout roi qu’il est, s’il y pense.

On charge les hommes dès l’enfance du soin de leur honneur, de leur bien, de leurs amis et encore du bien et de l’honneur de leurs amis. On les accable d’affaires, de l’apprentissage des langues et d’exercices. Et on leur fait entendre qu’ils ne sauraient être heureux sans que leur santé, leur honneur, leur fortune et celles de leurs amis soient en bon état, et qu’une seule chose qui manque les rendra malheureux. Ainsi on leur donne des charges et des affaires qui les font tracasser dès la pointe du jour. «Voilà direz-vous — une étrange manière de les rendre heureux. Que pourrait-on faire de mieux pour les rendre malheureux? » Comment, ce qu’on pourrait faire? Il ne faudrait que leur ôter tous ces soins, car alors ils se verraient, ils penseraient à ce qu’ils sont, d’où ils viennent, où ils vont. Et ainsi on ne peut trop les occuper et les détourner, et c’est pourquoi, après leur avoir tant préparé d’affaires, s’ils ont quelque temps de relâche on leur conseille de l’employer à se divertir et jouer et s’occuper toujours tous entiers. Que le cœur de l’homme est creux et plein d’ordure.

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Blaise Pascal LES PROVINCIALES



I GRÂCE ET LIBERTÉ

Je vous déclare donc, mon père, que vous n’avez plus rien à reprendre en vos adversaires, parce qu’ils détestent assurément ce que vous détestez. Je suis seulement étonné de voir que vous l’ignoriez, et que vous ayez si peu de connaissance de leurs sentiments sur ce sujet, qu’ils ont tant de fois déclarés dans leurs ouvrages. Je m’assure que si vous en étiez mieux informé, vous auriez du regret de ne vous être pas instruit avec un esprit de paix d’une doctrine si pure et si chrétienne, que la passion vous fait combattre sans connaître. Vous verriez, mon père, que non seulement ils tiennent qu’on résiste effectivement à ces grâces faibles, qu’on appelle excitantes ou inefficaces, en n’exécutant pas le bien qu’elles nous inspirent; mais qu’ils sont encore aussi fermes à soutenir contre Calvin le pouvoir que la volonté a de résister même à la grâce efficace et victorieuse, qu’à défendre contre Molina le pouvoir de cette grâce sur la volonté, aussi jaloux de l’une de ces vérités que de l’autre. Ils ne savent que trop que l’homme par sa propre nature a toujours le pouvoir de pécher et de résister à la grâce, et que depuis sa corruption il porte un fond malheureux de concupiscence, qui lui augmente infiniment ce pouvoir; mais que néanmoins, quand il plaît à Dieu de le toucher par sa miséricorde, il lui fait faire ce qu’il veut, et en la manière qu’il le veut, sans que cette infaillibilité de l’opération de Dieu détruise en aucune sorte la liberté naturelle de l’homme, par les secrètes et admirables manières dont Dieu opère ce changement, que saint Augustin a si excellemment expliquées, et qui dissipent toutes les contradictions imaginaires que les ennemis de la grâce efficace se figurent entre le pouvoir souverain de la grâce sur le libre arbitre, et la puissance qu’a le libre arbitre de résister à la grâce. Car selon ce grand saint, que les papes et l’Église ont donné pour règle en cette matière, Dieu change le cœur de l’homme par une douceur céleste qu’il y répand, qui, surmontant la délectation de la chair, fait que l’homme, sentant d’un côté sa mortalité et son néant, et découvrant de l’autre la grandeur et l’éternité de Dieu, conçoit du dégoût pour les délices du péché qui le séparent du bien incorruptible; et trouvant

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sa plus grande joie dans le Dieu qui le charme, il s’y porte infailliblement de lui-même par un mouvement tout libre, tout volontaire, tout amoureux; de sorte que ce lui serait une peine et un supplice de s’en séparer. Ce n’est pas qu’il ne puisse toujours s’en éloigner, et qu’il ne s’en éloignât effectivement s’il le voulait; mais comment le voudrait-il, puisque la volonté ne se porte jamais qu’à ce qui lui plaît le plus, et que rien ne lui plaît tant alors que ce bien unique, qui comprend en soi tous les autres biens? Quod enim amplius nos delectat, secundum id operemur necesse est, comme dit saint Augustin. C’est ainsi que Dieu dispose de la volonté libre de l’homme sans lui imposer de nécessité, et que le libre arbitre, qui peut toujours résister à la grâce mais qui ne le veut pas toujours, se porte aussi librement qu’infailliblement à Dieu, lorsqu’il veut l’attirer par la douceur de ses inspirations efficaces. Ce sont là, mon père, les divins principes de saint Augustin et de saint Thomas, selon lesquels il est véritable que nous pouvons résister à la grâce, contre l’opinion de Calvin; et que néanmoins, comme dit le pape Clément VIII dans son écrit adressé à la Congrégation De auxiliis: Dieu forme en nous le mouvement de notre volonté et dispose efficacement de notre cœur par l’empire que sa majesté suprême a sur les volontés des hommes, aussi bien que sur le reste des créatures qui sont sous le ciel, selon saint Augustin. C’est encore selon ces principes que nous agissons de nous-mêmes; ce que fait que nous avons des mérites qui sont véritablement nôtres, contre l’erreur Calvin; et que néanmoins, Dieu étant le premier principe de nos actions et faisant en nous ce qui lui est agréable, comme dit saint Paul, nos mérites sont des dons de Dieu, comme dit le Concile de Trente. C’est par là qu’est détruite cette impiété de Luther condamnée par le même concile: Que nous ne coopérons en aucune sorte à notre salut, non plus que des choses inanimées; et c’est par là qu’est encore détruite l’impiété de l’école de Molina, qui ne veut pas reconnaître que c’est la force de la grâce même qui fait que nous coopérons avec elle dans l’œuvre de notre salut; par où il ruine ce principe de foi établi par saint Paul, que c’est Dieu qui forme en nous et la volonté et l’action.

Il est donc sûr, mon père, que je n’ai rien dit pour soutenir ces propositions impies, que je déteste de tout mon cœur. Et quand le Port-Royal les tiendrait, je vous déclare que vous n’en pouvez rien conclure contre moi, parce que, grâces à Dieu, je n’ai d’attache sur la terre qu’à la seule Église




Catholique Apostolique et Romaine, dans laquelle je veux vivre et mourir, et dans la communion avec le pape son souverain chef; hors de laquelle je suis très persuadé qu’il n’y a point de salut. Que ferez-vous à une personne qui parle de cette sorte, et par où m’attaquerez-vous, puisque ni mes discours ni mes écrits ne donnent aucun prétexte à vos accusations d’hérésie, et que je trouve ma sûreté contre vos menaces dans l’obscurité qui me couvre? Vous vous sentez frappés par une main invisible, qui rend vos égarements visibles à toute la terre. Et vous essayez en vain de m’attaquer en la personne de ceux auxquels vous me croyez uni. Je ne vous crains ni pour moi ni pour aucun autre, n’étant attaché ni à quelque communauté ni à quelque particulier que ce soit. Tout le crédit que vous pouvez avoir est inutile à mon égard. Je n’espère rien du monde, je n’en appréhende rien, je n’en veux rien; je n’ai besoin par grâce de Dieu ni du bien ni de l’autorité de personne. Ainsi, mon père, j’échappe à toutes vos prises. Vous ne pouvez me saisir, de quelque côté que vous le tentiez. Vous pouvez bien toucher le Port-Royal, mais non pas moi. On a bien délogé des gens de Sorbonne, mais cela ne me déloge pas de chez moi. Vous pouvez bien préparer des violences contre des prêtres et des docteurs, mais non pas contre moi, qui n’ai point ces qualités. Et ainsi peut-être n’eûtes-vous jamais affaire à une personne qui fût si hors de vos atteintes et si propre à combattre vos erreurs, étant libre, sans engagement, sans attachement, sans liaison, sans relation, sans affaires, assez instruit de vos maximes et bien résolu de les pousser autant que je croirai que Dieu m’y engagera, sans qu’aucune considération humaine puisse arrêter ni ralentir mes poursuites.




II IMAGE DE DIEU

L’Église cette chaste Épouse du Fils de Dieu, qui à l’imitation de son Époux sait bien répandre son sang pour les autres, mais non pas répandre pour elle celui des autres, a une horreur toute particulière pour le meurtre, et proportionnée aux lumières particulières que Dieu lui a communiquées. Elle considère les hommes non seulement comme hommes, mais comme images du Dieu qu’elle adore. Elle a pour chacun d’eux un saint respect, qui les lui rend tous vénérables, comme rachetés d’un prix infini, pour être faits les temples du Dieu vivant. Et ainsi elle croit que la mort d’un homme que l’on tue sans l’ordre de son Dieu, n’est pas seulement un homicide, mais un sacrilège, qui la prive d’un de ses membres; puisque, soit qu’il soit fidèle, soit qu’il ne le soit pas, elle le considère toujours ou comme étant l’un de ses enfants, ou comme étant capable de l’être. Ce sont, mes pères, ces raisons toutes saintes qui depuis que Dieu s’est fait homme pour le salut des hommes, ont rendu leur condition si considérable à l’Église, qu’elle a toujours puni l’homicide qui les détruit comme un des plus grands attentats qu’on puisse commettre contre Dieu.

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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA DIDASCALIA



NOTA BIOBIBLIOGRAFICA

Il presente volume contiene una scelta di passi da quattro capolavori di due dei massimi filosofi dell’Occidente, centrati sul tema a loro caro della condizione umana.

Notizie biografiche Sant’Agostino, nato a Tagaste in Numidia nel 354, dopo gli studi retorici in patria e a Cartagine, li proseguì a Roma e a Milano, aderendo alla filosofia neoplatonica e conducendo una vita mondana quale egli stesso descriverà dopo la conversione nelle Confessioni, intorno all’anno 400. La conversione al cristianesimo intervenne nel 386 a Milano, auspice l’arcivescovo Ambrogio. Tornato poco dopo in Africa, fu ordinato sacerdote e divenne vescovo di Ippona, dove morì nel 430. Le Confessiones, in tredici libri, sotto forma di un colloquio dell’Autore con Dio, sono un’opera fra le più sconvolgenti per la loro sincerità, ricchezza e modernità dei problemi esistenziali che impostano e discutono. Assai più complesso, il De Civitate Dei, scritto negli ultimi anni, di fronte allo spettacolo del crollo dell’impero romano sotto i colpi dei barbari; quest’opera gigantesca ricostruisce e medita l’intera storia umana come flusso di due città, la terrena e la celeste, la temporale e l’eterna in corsa verso la fine e l’eterno. Erede di questo pensiero e della problematica tipicamente agostiniana dello scontro nell’uomo e nella storia del peccato e della grazia, e passato, anche, attraverso esperienze biografiche simili, Blaise Pascal (Clermont, 1623 – Parigi, 1662) ne riprende i temi e la

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tensione esistenziale nelle sue Pensées, un profondissimo, drammatico e lucido diario intellettuale di appunti sparsi nel tempo e sulla carta, lasciati manoscritti alla sua morte. L’altra sua opera più nota, le Lettere provinciali polemizzano con grande verve con i teologi e moralisti gesuiti, insorgendo contro la loro etica lassista e la loro concezione mondana della religione cristiana.

Notizia bibliografica I. – delle Confessiones di sant’Agostino si trovano qui I. L’uomo e Dio: libro I. capitolo 1-2.2 s.; 2. 3; IV. 15. 25 s.; XIII.22.32; III.8.16; X.7.11 II. I campi della memoria: X. 8. 12-10. 17 III. Miseria e speranza dell’uomo: X. 35. 54-37. 62. – del De Civitate Dei I. Gli angeli e gli uomini: XXII. 1 II. Il miracolo dell’uomo: X. 12; XII. 22 s. III. L’uomo nel tempo: XII. 15 IV. Corsi e ricorsi della felicità e dell’infelicità umana: XII. 21 V. I mali della vita e della società umana: XIX. 4 s., 7-9 VI. Miserie dei cattivi e dei buoni: XXII. 22 s. VII. Vita e morte: XIII. 10 s. VIII. Il Mediatore: IX. 15 IX. Vita dell’uomo secondo l’uomo e secondo Dio: XIV. 4 x. Universalità della pace: XIX. 10-15 XI. L’eterna felicità dei santi: XIX. 20. II. – delle Pensées di Pascal (numerazione Carena): I. Grandezza dell’uomo: 339, 146, 148-151, 153-155, 160, 452, 709, 145, 231 s., 628 II. Miseria dell’uomo: 32-34, 78, 110, 114, 164, 691, 130, 86, 102, 784

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III. Condizione dell’uomo: 19, 230, 453, 523, 165-169, 171 – delle Provinciales 1. Grazia e libertà: dalla Lettera XVIII e XVII 2. Immagine di Dio: dalla Lettera XIV.

N.B. Le righe in corsivo nei testi segnalano citazioni di scrittori o della Sacra Scrittura. I titoli dei capitoli sono in gran parte della Curatrice. Le traduzioni sono tratte da Agostino, Le Confessioni, a cura di C. Carena, Torino, Einaudi, 1984, 2000; La Città di Dio, id., id., 1992; B. Pascal, Pensieri, id., id., 2004; Le Provinciali, id., id., 2008. Coordinamento editoriale a cura di Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo (www.marioluzimendrisio.com).

DIDASCALIA di Pietro Paolo Tarasco

Iniziai a comporre prima con la mente, leggendo i testi di sant’Agostino e di Pascal, e poi a disegnare quella che mi ha portato alla idealizzazione della mia “Condizione umana, il Bene e il Male”. Una pittura ad acquerello su carta alla cui base si poggia il sapere, e dove la fragilità dell’essere umano è presente in tutta l’opera. Un lavoro ricco di immagini simboliche che è scomposto in tanti fogli di carta; fogli scritti dalla nostra storia; la storia dell’umanità tra affanni, tragedie, delusioni, amori e tanta tanta speranza in un mondo migliore. Ho voluto comunque rendere la composizione viva e ricca di colori, i colori, quelli della vita, della natura tra cielo e terra, questo

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interminabile ed affascinate collegamento che tanto ci fa pensare e che tanto ci scuote. Eccole lì le foglie che cadono come in autunno; ed eccola lì la rigenerazione della natura, una donna in attesa si aggrappa ad un albero tra il Bene e il Male, tra una lucertola e un serpente. Così è la vita, piena di colori, di luci e ombre e ci riserva sempre delle insidie, delle incognite, siano esse felici o infelici. La simbologia è forte e incisiva, una volpe astuta fuoriesce da un albero; un serpente si attorciglia all’albero con tutti i suoi significati simbolici e contraddittori o la lucertola, invece, come simbolo di rigenerazione che personifica l’anima. La luna e il sole sovrastano l’opera e tanto influenzano la vita dell’intero pianeta. Le stagioni delle piante, così come quelle dell’uomo ci portano a pensare da sempre alle fasi della vita, dalle prime alle ultime ore dell’esistenza terrena; ed eccolo lì quel luminoso teschio che è sempre pronto ad accoglierci. La nostra costante fragilità è comunque compensata dalle tante ricerche e dalle tante scoperte, e tutto viene esplicitato dai tanti volumi che rappresentano il nostro sapere.

Si ringrazia la casa editrice EINAUDI che ha gentilmente e generosamente concesso la riproduzione dei testi tradotti da Carlo Carena

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INDICE

Agostino e Pascal oggi di Giovanni Reale ..............................

Pag.

5

» » » »

19 21 26 30

» » » » » » » » » » »

39 41 43 44 48 59 65 69 71 73 84

» » » »

87 89 95 107

Sant’Agostino Le Confessioni Nota di Armando Torno ........................................................ I. L’uomo e Dio ................................................................ II. I campi della memoria ................................................. III. Miseria e speranza dell’uomo ....................................... Sant’Agostino La Città di Dio I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI.

Gli angeli e gli uomini ................................................. Il miracolo dell’uomo ................................................... L’uomo nel tempo ........................................................ Corsi e ricorsi della felicità e dell’infelicità umana ...... I mali della vita e della società umana ......................... Miserie dei cattivi e dei buoni ...................................... Vita e morte ................................................................. Il Mediatore .................................................................. Vita dell’uomo secondo l’uomo e secondo Dio .............. Universalità della pace ................................................. L’eterna felicità dei santi .............................................. Blaise Pascal Pensieri

Nota di Armando Torno ........................................................ I. Grandezza dell’uomo ................................................... II. Miseria dell’uomo ......................................................... III. Condizione dell’uomo ..................................................

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Blaise Pascal Lettere provinciali I. II.

Grazia e libertà ............................................................ Immagine di Dio ..........................................................

Pag. 123 » 126

Aurelius Augustinus Confessiones I. II. III.

..................................................................................... ..................................................................................... .....................................................................................

» » »

129 133 136

» » » » » » » » » » »

143 145 147 148 151 159 163 166 168 170 178

» » »

181 186 197

» »

211 214

» »

217 219

Aurelius Augustinus De Civitate Dei I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI.

..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... ..................................................................................... Blaise Pascal Pensées

I. II. III.

Grandeur de l’homme .................................................. Misère de l’homme ....................................................... Condition de l’homme ................................................. Blaise Pascal Les provinciales

I. II.

Grâce et liberté ............................................................ Image de Dieu .............................................................. Nota biobibliografica Didascalia

Nota biobibliografica ............................................................ Didascalia .............................................................................

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COLOPHON



QUESTA EDIZIONE DI BRANI SCELTI DI SANT’AGOSTINO E PASCAL COMPOSTA CON I CARATTERI W. CASLON TONDI E CORSIVI IN CORPO DIECI E UNDICI È STATA IMPRESSA IN 225 ESEMPL ARI: DI QUESTI 200 SU C ARTA AMATRUDA DI AMALFI. NE SONO STATI STAMPATI INOLTRE 12 SU CARTA A MANO ALCANTARA DELLE CARTIERE SICARS DI CATANIA 10 SU VERGATA AVORIO MAGNANI DI PESCIA E 3 SU BUNKOSHI DEL GIAPPONE. LICENZIATA DA CENTRO STAMPA DI CIT TÀ DI C ASTELL O IL 13 NOVEMBRE MMXII GENETLIACO DI SANT’AGOSTINO





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