Cantico dei Cantici

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IL CANTICO DEI CANTICI

‫שיר השירים‬ Traduzione di Gianantonio Borgonovo

Metteliana




Dedico IL CANTICO DEI CANTICI, nella nuova traduzione di Gianantonio Borgonovo, a Carlo Carena, illustre coltissimo uomo mai dimentico di indossare “i panni curiali” per un dialogo rispettoso con i grandi classici greci, latini, italiani e francesi. Con fraterna devota amicizia, consolidata negli ultimi sessant’anni. Paolo Andrea Mettel



I L C a n t ic o D E I C ANT I C I

‫שיר השירים‬



Il Cantico dei Cantici

‫שיר השירים‬ Traduzione di Gianantonio Borgonovo

Metteliana


© Copyright 2020 Paolo Andrea Mettel


I L C a n t ic o D E I C ANT I C I

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Intestazione: 1,1 Atto primo (1,2 - 5,1) (Introduzione) Nell’harem (1,2 - 4) Prima scena: Competizione femminile (1,5 - 2,7) Seconda scena: Ricordi e desideri (2,8 - 17) Terza scena: Il sogno (3,1 - 5) Quarta scena: L’arrivo di Salomone (3,6 - 11) Quinta scena: Preparativi (4,1 - 7) Sesta scena: L’incontro (4,8 - 5,1) Atto secondo (5,2 - 8,14) Prima scena: Il sogno diventa un incubo (5,2 - 8) Seconda scena: La bellezza dell’amato (5,9 - 6,3) Terza scena: Ultimi ritocchi (6,4 - 12) Quarta scena: Danza (7,1 - 6) Quinta scena: Consumazione (7,7 - 8,4) Sesta scena: Inno all’amore invincibile (8,5 - 7) (Conclusione) Fuori dall’harem: (8,8 - 14)

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IL CANTICO DEI CANTICI

Personaggi Ragazza

La ragazza si trova nell’harem del re ed è la prescelta di quel giorno per andare in sposa a Salomone. Il sorteggio la rende molto triste, perché ella sta pensando insistentemente al suo vero amore, un pastore del contado.

Pastore

Il pastore amato dalla ragazza. Egli è presente in scena solo nella Conclusione. Per il resto è la ragazza che ricorda le parole del pastore.

donne dell’harem

Sono chiamate «Figlie di Gerusalemme (una volta: “di Sion”)» e sono le regine, le concubine e le altre ragazze dell’harem.

Inserviente

Inserviente dell’harem (è impossibile stabilire se sia un eunuco o una damigella).

Salomone

Il re Salomone, che disponeva di un harem di mille donne (1 Re 10,3).

Guardie

Guardie o sentinelle della città.

Fratelli

I fratelli della ragazza, che compaiono fisicamente in scena solo nella Conclusione.

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Intestazione: 1,1 11 Cantico dei Cantici su Salomone. Atto primo (1,2 - 5,1) Introduzione: nell’harem (1,2 - 4) (Donne dell’harem)

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Mi dia da bere dei baci della sua bocca: più piacevoli del vino i tuoi amori. Seducente la fragranza dei tuoi profumi. Olio versato è il tuo nome! Perciò le ragazze ti desiderano. Prendimi dietro di te: corriamo! Il re mi farà entrare nelle sue stanze. Godremo e gioiremo di te! Ricorderemo i tuoi amori più del vino! A ragione ti desiderano.

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IL CANTICO DEI CANTICI

Prima scena: Competizione femminile (1,5 - 2,7) (Ragazza)

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Sono mora, e pure amabile, figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i drappi di Salomone. Non state a guardare se sono un po’ scura: è il sole che mi ha abbronzato! I figli di mia madre hanno litigato per me: mi hanno messo a guardia delle vigne; la mia vigna, la mia, io non l’ho custodita. Dimmi, amato dell’anima mia, dove stai pascolando il gregge, dove lo fai riposare al mezzogiorno – non voglio essere come una prostituta vicino alle greggi dei tuoi compagni!

(Donne dell’harem)

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Se tu stessa non lo sai, o bellissima tra le donne, esci sulle orme del gregge e pascola le tue caprette vicino all’accampamento dei pastori!

(Inserviente)

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A una cavalla fra i carri di Faraone ti rendo simile, amica mia: amabili le tue guance fra i pendenti e il tuo collo fra le collane; ti faremo catenelle d’oro, con grani d’argento; finché il re sarà sul suo cuscino, il mio nardo spanderà la sua fragranza.

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(Ragazza)

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Sacchetto di mirra è il mio amato per me, fra le mie mammelle passerà la notte. Grappolo di henné è il mio amato per me, nella mia vigna, al mio “occhio di capretta”. 8


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(Inserviente)

(Ragazza)

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Quanto sei bella, amica mia, quanto sei bella: i tuoi occhi colombe.

Amato mio, tu quanto sei bello e grazioso; e il nostro giaciglio verdeggiante. 17 Le travi della nostra casa sono i cedri, nostro soffitto i cipressi. 1 2 Io sono una habasselet dello Šaron, una šošannāh delle valli. 16

(Inserviente)

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Come una šošannāh fra i rovi, così la mia amica tra queste donne.

(Ragazza)

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Come un melo tra le piante del bosco, così il mio amato tra gli altri: anelo a sedermi alla sua ombra e il suo frutto è dolce al mio palato. Mi farà entrare nella sala del banchetto: e il suo vessillo su di me è amore. Sostenetemi con spremute, rinfrancatemi con frutti, perché esausta d’amore io sono. La sua sinistra sia sotto la mia testa e la sua destra mi abbracci. Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o le cerve dell’altopiano: non continuate a destare e a eccitare l’amore, quando c’è già desiderio!

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IL CANTICO DEI CANTICI

Seconda scena: Ricordi e desideri (2,8 - 17) (Ragazza)

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(Parole del pastore) 11

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(Ragazza)

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La voce del mio amato: eccolo viene, si arrampica sui monti, saltella sui colli. Il mio amato assomiglia a un capriolo o a un cerbiatto: eccolo, sta dietro al nostro muro, spia attraverso le finestre, riluce attraverso le grate. Il mio amato prende la parola e mi dice: “Alzati, amata mia bella, e va’! Perché ecco, l’inverno è passato, cessata è la pioggia, se n’è andata. I migratori sono riapparsi nella regione, è giunto il tempo del cinguettio, e la voce della tortora si ode nella nostra terra. Il fico butta i suoi fioroni e le viti smadár esalano profumo. Alzati, amata mia bella, e va’! Mia colomba, nelle fenditure della roccia, negli anfratti dei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi udire la tua voce: perché la tua voce è soave e incantevole il tuo viso. Prendeteci le volpi – le piccole volpi –, che devastano le vigne, le nostre vigne smadár!”. L’amato mio è per me e io per lui, lui che pascola [il gregge] fra i šošanním. Finché il giorno soffia e le ombre si allungano, continua a girare attorno! O mio amato, sii come un capriolo o un cerbiatto sui monti di dirupi! 10


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Terza scena: il sogno (3,1 - 5) (Ragazza)

31 Sul mio letto più notti ho cercato l’amato dell’anima mia; l’ho cercato e non l’ho trovato. 2 Volevo alzarmi e andare attorno in città: per le strade e per le piazze, volevo cercare l’amato dell’anima mia. L’ho cercato e non l’ho trovato. 3 Mi incontravano le sentinelle, che fanno la ronda in città: “Avete visto l’amato dell’anima mia?”. 4 Di poco ero passata loro oltre, quando trovai l’amato dell’anima mia; lo afferrai e più non lo lasciai, finché non lo feci entrare nella casa di mia madre e dentro l’antro del mio concepimento. 5

Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o le cerve dell’altopiano: non continuate a destare e a eccitare l’amore, quando c’è già desiderio!

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IL CANTICO DEI CANTICI

Quarta scena: l’arrivo di Salomone (3,6 - 11) (Guardie)

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Che sta salendo dal deserto come colonne di fumo, fra aromi di mirra e d’incenso, tutti da scorte di mercante? È la sua lettiga, quella di Salomone! Sessanta guerrieri le sono attorno, fra i migliori guerrieri di Israele. Tutti brandiscono una spada, esperti di guerra; ognuno cinge la spada al fianco, per i pericoli notturni. Un baldacchino s’era fatto il re Salomone con legname del Libano: le sue colonne erano d’argento, la copertura d’oro, le sue pareti di porpora rossa e il suo interno ardente d’amore a causa delle figlie di Gerusalemme. Uscite e contemplate, o figlie di Sion, il re Salomone, con la corona con cui l’ha incoronato sua madre, il giorno del suo sposalizio, il giorno della gioia del suo cuore.

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Quinta scena: Preparativi (4,1 - 7) (Inserviente)

41 Quanto sei bella, mia amica, quanto sei bella: i tuoi occhi colombe, dietro la tua acconciatura; i tuoi capelli come greggi di capre che saltellano giù dai monti di Ghil‘ád. 2 I tuoi denti come greggi da tosare, che salgono dalla lavatura: tutti con il loro gemello e nessuno imperfetto. 3 Come nastro di scarlatto sono le tue labbra e la tua bocca seducente. Come spicchio di melagrana la tua guancia dietro la tua acconciatura. 4 Il tuo collo è come una torre militare, fatta di tanti tasselli: mille scudi appesi su di essa, la panoplia dei guerrieri! 5 I tuoi seni come due caprioli, gemelli di gazzella, che pascolano fra i šošanním.

(Ragazza)

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Finché il giorno soffia e le ombre si allungano, io me ne andrò sul monte della mirra e sul colle d’incenso.

(Inserviente)

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Tu sei tutta bella, amica mia, e in te non vi è alcun difetto.

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IL CANTICO DEI CANTICI

Sesta scena: l’incontro (4,8 - 5,1) (Donne dell’harem)

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Vieni, fuori dal Libano, sposa, vieni, fuori dal Libano! Tu puoi andare e scendere lontano dal capo della protezione, dal capo dell’harem, lontano dalle tane di leoni, dai monti di leopardi!

(Salomone)

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Mi hai rapito il cuore, sorella mia sposa, mi hai rapito il cuore, d’un tratto, con i tuoi occhi, con una sola catenina delle tue collane. Come saranno belli i tuoi amori, sorella mia sposa, come piacevoli i tuoi amori più del vino, e la fragranza dei tuoi profumi più di tutti gli aromi! Miele vergine stilleranno le tue labbra, [sorella mia] sposa, miele e latte sotto la tua lingua e la fragranza delle tue vesti sarà come la fragranza del Libano. Giardino chiuso, sorella mia sposa, giardino chiuso, fonte sigillata. I tuoi succhi, un paradiso di piaceri con i frutti più squisiti: arbusti di henné con piante colorate di rosa, nardo e zafferano, cannella e cinnamomo con tutte le piante d’incenso, mirra ed alóe con tutti i balsami migliori. Fontana di giardini, pozzo di acqua viva e fluente fuori dal Libano.

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(Ragazza)

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Déstati, Grecale, vieni, Austro: fa’ ondeggiare il mio giardino, stillino i suoi balsami! 14


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Sia il mio amato a entrare nel suo giardino e a mangiarne i più squisiti frutti! (Salomone)

51 Verrò nel mio giardino, sorella mia sposa, raccoglierò la mia mirra col mio balsamo; mangerò il mio favo col mio miele, berrò il mio vino col mio latte. Mangiate, amici, bevete, e inebriatevi di amori!

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IL CANTICO DEI CANTICI

ATTO SECONDO (5,2 - 8,14) Prima scena: Il sogno diventa un incubo (5,2 - 8) (Ragazza)

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(Parole del pastore)

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(Ragazza)

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Io dormo, ma il mio cuore è desto. La voce del mio amato insiste: “Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, mia perfetta, in quanto la mia testa è colma di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne. Ho tolto la mia tunica: come potrei indossarla di nuovo? Ho lavato i miei piedi, come potrei sporcarmeli ancora!”. Il mio amato mise la sua mano nell’apertura e le mie viscere ebbero un fremito per lui. Mi levai, per aprire al mio amato: le mie mani gocciolavano di mirra, le mie dita di mirra fluente sui manici del chiavistello. Ho aperto al mio amato, ma il mio amato s’era voltato, se n’era andato. Il mio animo veniva meno quando parlava. Lo cercai: non l’ho più trovato, lo chiamai: non mi rispose. Mi hanno incontrato le guardie, che fanno la ronda in città; mi hanno percossa, mi hanno ferita, mi hanno strappato di dosso il velo le guardie delle mura. Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme! Se trovate il mio amato, che cosa dovete dirgli? Che io sono esausta d’amore! 16


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Seconda scena: La bellezza dell’amato (5,9 - 6,3) (Donne dell’ harem)

(Ragazza)

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(Donne dell’harem)

Che è mai il tuo amato visto come amante, o bellissima fra le donne? Che è mai il tuo amato visto come amante, perché tu abbia a supplicarci così? Il mio diletto è brillante e in salute, visibile fra diecimila. La sua testa oro puro e pietra preziosa, i suoi riccioli grappolo di datteri, neri come il corvo. Le sue fonti come colombe, lungo correnti d’acqua: si lavano nel latte, dimoranti in pienezza. I suoi glutei come aiuole di balsamo, coni di aromi; i suoi testicoli šošanním, stillanti liquida mirra. Le sue forze sfere d’oro, riempite di pietre di Taršiš, i suoi lombi una stanga d’avorio, ricoperta di zaffiri. Le sue cosce colonne di alabastro, fondate su basi di pietre preziose. Il suo aspetto è come il Libano, maestoso come i cedri. Il suo palato è dolcezza, tutto di lui è affascinante. Questi è il mio amato, questi è il mio pastore, o figlie di Gerusalemme.

61 Dov’è andato il tuo amato, o bellissima tra le donne? 17


IL CANTICO DEI CANTICI

Dov’è scappato il tuo amato, perché l’abbiamo a cercare con te? (Ragazza)

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Il mio amato scenderà al suo giardino, in aiuole di balsamo, per pascolare [il gregge] tra i giardini e raccogliere šošanním.

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Io sono per il mio amato e l’amato mio è per me: lui che pascola [il gregge] fra i šošanním.

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Terza scena: Ultimi ritocchi (6,4 - 12) (Inserviente)

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(Ragazza)

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Tu, amica mia, sei bella, davvero piacevole, amabile come Gerusalemme, terribile come un esercito. Volta via i tuoi occhi da me, ché mi sconvolgono! I tuoi capelli come greggi di capre che saltellano giù dai monti di Ghil‘ád. I tuoi denti come greggi di pecore, che salgono dalla lavatura: tutti hanno il loro gemello e nessuno imperfetto. Come spicchio di melagrana la tua guancia dietro la tua acconciatura. Sessanta sono le regine, ottanta le concubine e senza numero le tue ragazze. Unica è la mia colomba, la mia perfetta, unica per la madre sua, eletta per la sua genitrice. La vedono le ragazze e la dichiarano felice le regine e le concubine la lodano: “Chi è mai costei che si affaccia come aurora, bella come la Bianca, splendida come la Caliente, imponente come la Schiera celeste?”. Nel palmeto voglio scendere, per ammirare i germogli della palma, per vedere se abbia gemmato la vite e siano fioriti i melograni. Non voglio avere rapporti! Il mio desiderio mi porrebbe su carri della mia gente generosa. 19


IL CANTICO DEI CANTICI

Quarta scena: Danza (7,1 - 6) (Donne dell’harem)

71 Gira, gira, Šulammita, gira, gira, sì che possiamo ammirarti! Che cosa volete contemplare nella Šulammita? È proprio una danza a due cori…

(Inserviente) (Donne dell’harem)

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Come sono belli i tuoi passi nei sandali, o nobile figlia! Le curve delle tue anche come le catenine, opera delle mani di un artista. Il tuo ombelico la coppa della luna: mai vi manchi vino mesciuto! Il tuo ventre un mucchio di grano, recintato da šošanním. I tuoi seni come due caprioli, gemelli di gazzella. Il tuo collo è come la torre eburnea. I tuoi occhi come piscine in Chešbon, presso la porta di una città popolosa. Il tuo naso come la torre del Libano, che guarda verso Damasco. Il tuo capo, su di te, è come il Carmelo e la chioma del tuo capo come porpora. Un re imprigionato nelle sue trecce …

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Quinta scena: Consumazione (7,7 - 8,4) (Salomone)

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Come sei bella e come sei incantevole, amore fra i godimenti! Quella tua statura assomiglia alla palma e i tuoi seni ai grappoli. Ho pensato: “Salirò sulla palma, afferrerò i suoi rami [più alti]. I tuoi seni saranno come i grappoli della vite, l’aroma del tuo naso come le mele, il tuo palato come il miglior vino…”. … versato per il mio amato giustamente, gocciolante sulle sue labbra e i suoi denti.

(Ragazza)

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Io sono per il mio amato e in me è la brama per lui.

Vieni, amato mio, usciamo in campagna, stiamo tra le piante di henné ! 13 Andiamo di prima mattina alle vigne; vediamo se germoglia la vite, se si sono aperti gli smadár, se sono fioriti i melograni: là darò a te le mie coccole! 14 I duda’ím esalano fragranza e alle nostre aperture tutti i frutti squisiti, nuovi e vecchi, o amato mio, ho in serbo per te! 1 8 Se tu fossi per me un fratello, che ha poppato al seno di mia madre, trovandoti fuori, ti potrei baciare, e nessuno potrebbe denigrarmi; 2 ti guiderei, ti farei entrare nel mio grembo 12

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e tu mi renderesti tuo familiare. Ti farei bere del vino con spezie e del succo della mia melagrana! La sua sinistra sarà sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccerà. Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme! Perché continuate a destare ed eccitare l’amore, quando c’è già desiderio?

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Sesta scena: inno all’amore invincibile (8,5 - 7) (Guardie)

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Chi è costei che sale dal deserto, aggrappata al suo amato? Nel luogo del melo ti voglio eccitare: lì ove ti ha concepito tua madre, lì ove ti ha concepito la tua genitrice.

(Ragazza)

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Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio: amore è davvero forte come Morte, gelosia è tenace come gli Inferi; le sue frecce sono frecce di fuoco le sue fiamme! Le acque torrenziali non sono in grado di annullare l’amore, né i fiumi lo travolgeranno. Se uno barattasse tutta la ricchezza della sua casa in cambio di amore, per lui rimarrà solo disprezzo.

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IL CANTICO DEI CANTICI

Conclusione: Fuori dall’harem (8,8 - 14) (Fratelli)

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Avevamo una sorella piccola, che non aveva ancora mammelle. Che avremmo fatto di nostra sorella, quando si sarebbe parlato di lei? Se fosse stata “muro”, avremmo costruito sopra file di pietra in argento; se fosse stata “porta”, l’avremmo barricata con un’asse di cedro.

(Ragazza)

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Io sono un muro e le mie mammelle torri. Perciò ai suoi occhi fui come una che se ne va in pace.

(Pastore)

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Salomone aveva una vigna in Bá‘al Hamon. Egli diede la vigna a guardiani: ciascuno avrebbe ricevuto per il suo frutto mille [pezzi] d’argento. La mia vigna, la mia, sta dinanzi a me: i mille [pezzi] a te, Salomone, e duecento ai guardiani del suo frutto! E tu, [donna] che vivrai tra i giardini, – i compagni saranno attenti alla tua voce – fa’ che sia io a udirla!

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(Ragazza)

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Vieni via, amato mio, e sii come un capriolo o un cerbiatto, sui monti di balsami!

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Pietro Paolo Tarasco Il Cantico dei Cantici

Acquerello, 56x76 cm, Matera 2020



il Cantico dei cantici Lo scrigno dell’amore di Gianantonio Borgonovo



La “mortificazione” dell’allegoresi e l’“anastasi” simbolica La tradizione giudaica e quella cristiana si trovano concordi nell’interpretare il Cantico come allegoria dell’amore di ✨ per Israele oppure di Cristo per la sua chiesa. La via allegorica è, in via di massima, la preferita in entrambe le tradizioni interpretative. Il rapporto di Israele con ✨ è letto a partire dall’amore dei due partner, descritto dalla poesia del testo. Ma il limite dell’allegoresi sta proprio nell’abbandonare troppo presto il significato letterale del testo, per la fretta di raggiungere il significato superiore (o più profondo). La cosa è evidente nel midrāš di Cantico Rabbāh (= CtR).1 Si veda il commento a Ct 7,11: «Io sono per il mio amato e in me è la brama per lui» (Ct 7,11). Ci sono tre brame: 1) la brama di Israele è solo per il Padre che sta nei cieli, come è detto: «Io sono per il mio amato e in me è la brama per lui»; 2) la brama di una donna per suo marito: «E la tua brama sarà per tuo marito» (Gn 3,16); 3) La brama dell’impulso (jes․er) malvagio è solo per Caino e la sua stirpe: «Verso di te è la sua brama» (Gn 4,7).

L’allegoria è costantemente legata alla stessa attribuzione di ruolo: Israele è il partner femminile del rapporto e ✨ il partner maschile. Potremmo dire che i commentatori evochino modi di essere in modo più empatico, che non simpatetico. Si legga CtR a Ct 6,2: «Il mio amato è sceso al suo giardino, in aiuole di balsamo…» (Ct 6,2). R. Yose ben R. Hanina disse: «Quanto a questo versetto, il suo inizio non è il medesimo della sua conclusione, e la sua conclusione non è la stessa del suo inizio. Il versetto doveva dire, “Il mio amato è sceso a pascolare nel suo giardino”, ma non “nei suoi giardini”! Ma “il mio amato” è il Santo, benedetto Egli sia; allora “al suo giardino” si riferisce al mondo. “In aiuole di balsamo” si riferisce a Israele; “a pascolare il suo gregge nei giardini” si riferisce a sinagoghe e scuole; “e a raccogliere gigli” dice il raccogliere i giusti che sono in Israele».

Oppure si legga CtR a Ct 8,6: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio: amore è davvero forte come morte, gelosia è tenace come Še’ol; frecce di fuoco sono le sue frecce, sono le sue fiamme!» (Ct 8,6). “Perché amore è forte come morte”: Forte come morte è l’amore con cui il Santo, benedetto Egli sia, ama Israele: “Io ti ho amato, dice il Signore” (Ml 1,2); “gelosia 29


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è tenace come Še’ol”: ciò è quando lo ingelosiscono con la loro idolatria: “Esse lo ingelosirono con dei stranieri” (Dt 32,16) […]. Un’altra spiegazione per “amore è forte come morte”: forte come la morte è l’amore con cui un uomo ama sua moglie: “Godi la tua vita con la donna che ami” (Qoh 9,9); “gelosia è tenace come Še’ol”: la gelosia che ella suscita in lui e lo conduce a dirle: “Non parlare in questo modo”. Se ella va e parla con quell’uomo, continua: “Lo spirito di gelosia viene sopra di lui ed egli diventa geloso a motivo di sua moglie” (Nm 5,14).

Il tipo di rapporto che Israele, partner femminile, ha con ✨ , partner maschile, è assunto dalla relazione maschio-femminile del rapporto coniugale. Ma questo non significa rimanere soggiogati alla figura femminile per Israele, che tra l’altro è pensato nel ruolo maschile nel mondo a venire. Il genere femminile non riduce la possibilità di rimandare agli eventi della storia della salvezza: dall’esodo alla redenzione futura, in obbedienza ai dettami della berît. Può capitare che Israele, e tutti i personaggi della storia della salvezza siano rappresentati dall’allegoria femminile (cf “i due seni”). Ma mette conto di ricordare questa allegorizzazione di Israele al femminile, quando viene adornata di tutti i gioielli che provengono dalla pratica della Tôrāh. È il commento di CtR a Ct 1,15: «Ecco, tu sei bella, amica mia, ecco tu sei bella…» (Ct 1,15). «Ecco, tu sei bella» nei comandamenti; «ecco, tu sei bella» nel fare elemosine; «ecco, tu sei bella» nell’adempiere i comandamenti positivi; «ecco, tu sei bella» nell’adempiere i comandamenti negativi; «ecco, tu sei bella» nell’adempiere i comandamenti di casa, nel separare la porzione dei sacerdoti e la decima; «ecco, tu sei bella» nell’adempiere i comandamenti della campagna, nello spigolare mannelli nell’angolo del campo e nel lasciare la decima al povero e al diseredato; «ecco, tu sei bella» nell’osservare il divieto di mischiare le specie; «ecco, tu sei bella» nell’attaccare al mantello gli zizît; «ecco, tu sei bella» nell’osservare le norme del piantare; «ecco, tu sei bella» nell’osservare il divieto derivante dal non essere circoncisi; «ecco, tu sei bella» nell’osservare le leggi a riguardo del quarto anno dopo l’impianto di un frutteto; «ecco, tu sei bella» nella circoncisione; «ecco, tu sei bella» nel rifilare la ferita; «ecco, tu sei bella» nella preghiera; «ecco, tu sei bella» nella recita dello š ema‘; «ecco, tu sei bella» nel porre la mezûāh; «ecco, tu sei bella» nell’indossare i t epillîn; «ecco, tu sei bella» nel fare la sukkāh [alla festa delle capanne]; «ecco, tu sei bella» nel preparare lûlav ed ’etrog; «ecco, tu sei bella» nel pentimento (t ešûbāh); «ecco, tu sei bella» 30


LO SCRIGNO DELL’AMORE

nelle buone opere; «ecco, tu sei bella» in questo mondo; «ecco, tu sei bella» nel mondo a venire.

Per evitare che l’allegoria diventi un’immagine impropria di ✨ , essa è mantenuta in valore solo per questo mondo. Infatti, nel mondo futuro anche Israele potrà assumere la caratterizzazione maschile, anzi potrà riassumere pienamente quell’originaria umanità che è maschio-femminile insieme. Così CtR a Ct 1,5: Berakhia nel nome di R. Samuel ben R. Nahman disse: «I figli di Israele sono paragonati a una donna. Proprio come una donna non maritata riceve una decima parte della proprietà di suo padre e prende la sua buona uscita [per la casa di suo marito, quando si sposerà], così i figli di Israele hanno ereditato la terra di sette popoli, che formano una decima parte delle settanta nazioni del mondo. E poiché i figli di Israele hanno ereditato nello stato di una donna, essi hanno cantato un canto nella forma femminile di quella parola, come è detto: «Allora Mosè e i figli di Israele cantarono questo canto (šîrāh) ad ✨ » (Es 15,1). Ma nel mondo futuro essi sono destinati ad ereditare come un uomo, che eredita tutta la proprietà di suo padre. Ciò è coerente con questo versetto della Scrittura: «Dall’oriente all’occidente: Giuda, una parte… Dan, una parte; Asher una parte» (Ez 48,7) e così via. Allora essi diranno un canto nella forma maschile di quella parola, come è detto: «Cantate ad ✨ un canto nuovo» (Sal 96,1). La parola “canto” è data non in forma femminile, ma in forma maschile. Berekiah e R. Joshua ben-Levi: «Perché i figli di Israele sono paragonati a una donna? Proprio come una donna prende un peso e poi lo mette giù [cioè, diventa gravida e poi partorisce], prende su un peso e poi lo mette giù, poi prende su un peso e lo mette giù e poi non prende altri pesi, così i figli di Israele sono soggiogati e poi redenti, soggiogati e poi redenti, ma alla fine sono redenti senza più essere soggiogati. In questo mondo, dal momento che la loro fatica è come quella di una donna in gravidanza, essi dicono il canto davanti a Lui usando la forma femminile della parola per “canto”, ma nell’era futura, poiché la loro fatica non sarà più come la fatica di una donna in gravidanza, essi diranno il loro canto usando la forma maschile della parola per “canto”: In quel giorno, questo canto [šîr, in forma maschile] sarà cantato (Is 26,1)».

Nonostante i molti spunti interessanti, soprattutto per i molti rimandi intertestuali con gli altri testi canonici, l’allegoresi non è la migliore via ermeneutica, a ragione della sua estrinseca giustapposizione di un significato che quasi totalmente ignora la littera del testo. Al contrario, è rimanendo nella littera che bisogna cercare un senso 31


IL CANTICO DEI CANTICI

che permetta di comprendere quel valore simbolico che si dà già a livello letterale. In certo modo, si deve dire che la via allegorica, sia pure attraverso un’ermeneutica semplificata dei due ordini,2 ha permesso al prezioso libretto del Cantico di non perdere la sua profonda sublimità, evitando di essere mortificato e ridotto al solo significato erotico.3 È necessario, però, non percorrere l’ermeneutica a due ordini nella via mortificante dell’allegoresi, ma andare verso la sua anastasi simbolica. Nel valore simbolico del Cantico, le due trame – dell’amore umano e dell’amore divino – stanno originariamente (anche in senso cronologico!) intrecciate l’una nell’altra. L’amore «più forte della morte», vissuto dalla ragazza per il suo amato pastore, tanto unico da giungere a disprezzare la gloria di essere Šulammita accanto al re Salomone, è originariamente un dramma che vuole mettere in evidenza il significato dell’amore di ✨ per Israele e la necessaria risposta di Israele ad ✨. Nel suo valore profondamente simbolico, esso esprime il bisogno di abbandonare (‘āzab) ogni altra divinità, per aderire (dābaq b e ) soltanto ad ✨ , l’unico Dio vivo e vero (cf la trascrizione eziologica in Gn 2,24). Monogamia e monoteismo, sia pure nella forma della monolatria e non ancora del monoteismo teorico, sono due livelli simbolici originariamente intrecciati nella poetica del Cantico. Il vertice poetico e teologico: l’amore più forte della morte Basterebbero questi due versetti per fare grande il Cantico. Ma, in realtà, la bellezza suscitata da queste righe di poesia è data da tutta la vicenda, che dà carne e sangue a questo acme poetico e teologico: 86 Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio:a) amore è davvero forte come morte, gelosia è tenace come Še’ol; b) fiamme di fuoco sono le sue fiamme, le sue vampate!c) 7 Le acque torrenziali non possono spegnere l’amore, e i fiumi non lo sbaragliano.d) Se uno barattasse tutta la ricchezza della sua casa in cambio dell’amore, per lui rimarrebbe solo disprezzo.e) 32


LO SCRIGNO DELL’AMORE

La bellezza poetica di questi due versetti è proporzionale alla loro importanza per giungere a decifrare il valore simbolico originariamente intrecciato alla vicenda del Cantico. Per far questo è necessario attraversare il passo di Dt 32,21-24, ovvero quel Cantico di Mosè, che chiude il libro di Deuteronomio, ma che in realtà ne è la sua fonte ispiratrice:4 21

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24

Mi resero geloso con un non-dio, mi irritarono con le loro vanità; e io li provoco a gelosia con un non-popolo, con una nazione insulsa li irrito: un fuoco certamente avvampa nella mia ira, e brucia fino agli inferi in basso; divora la terra e i suoi prodotti, brucia le fondamenta delle montagne. Accumulerò su di loro i mali, le mie frecce esaurirò contro di loro: saranno smunti dalla fame, divorati dalla febbre e da pestilenza maligna; i denti delle belve manderò contro di loro, con il veleno dei serpenti che strisciano nella polvere.

In Dt 32,24 rešep è una conseguenza della qin’āh di ✨. Ora, come si può constatare, è un testo che ha a che vedere con il monoteismo. La massima parte dei commentatori ha associato – con qualche problema, ma troppo frettolosamente – rešep direttamente ad amore, ma molto più versomilmente va collegata alla qin’āh, come in Deuteronomio. È la gelosia dell’unicità a far scagliare i dardi malefici:5 questi «dardi di fuoco» sono un ulteriore aggancio simbolico per l’originarietà dell’intreccio monogamia e monoteismo. Il genere della composizione I commentatori contemporanei, per la massima parte, trovano nel Cantico una raccolta di epigrammi amorosi, di cui rimane tuttavia da precisare l’originario Sitz im Leben: celebrazione nuziale o semplici canti d’amore, sorti per varie occasioni di festa, con echi della poesia amorosa egizia,6 mesopotamica7 o ellenistica,8 oppure con forme poetiche ancora vive nel Vicino Oriente, come il was.f. 9 L’analisi formale dei singoli poemetti può degenerare anche in una sterile cata33


IL CANTICO DEI CANTICI

logazione, frantumandosi in una moltiplicazione di generi letterari ibridi e parziali.10 Non ha avuto molto successo l’interpretazione mitologico-cultuale di Hartmut Schmökel,11 mentre si è forse accantonata troppo sbrigativamente la proposta drammatica, già presente – per quanto è possibile oggi ricostruirla – nel monumentale commentario di Origene (185-254).12 Soltanto una parte del lavoro di Origene è purtroppo giunta sino a noi. Il suo capolavoro fu un commentario in 10 volumi, scritto tra il 240 e il 245. Di esso sono rimaste le poche citazioni dell’originale greco riportate nelle catene esegetiche;13 e la versione latina di Rufino di Aquileia (<345-410)14 dei primi tre libri,15 che comprendono il prologo – molto esteso – e il commento a Ct 1,1-2,15. Si sono poi conservate, pure in versione latina, due omelie origeniane, che commentano Ct 1,1-2,14: sono state eseguite da Girolamo (347-420), il quale vi aggiunse una prefazione in cui loda la superba qualità e acribia del commento origeniano.16 Nelle medesime omelie, Origene sviluppa le dichiarazioni d’amore dei due protagonisti del Cantico – dello “sposo” e della “sposa”, come egli li identifica – in un ritratto della relazione nuziale fra Cristo e la chiesa. Raramente la figura femminile è considerata come una sola anima umana individuale sposata a Cristo. Il commentario sarebbe evidentemente l’opera più approfondita, in cui sono discussi anche i più piccoli dettagli del testo biblico. Purtroppo è andato perduto per la massima parte. Leggendo i sommari dei commentari moderni, si potrebbe dedurre la falsa impressione che Origene passi sopra al senso letterale del Cantico, per volare subito allegoricamente verso un’interpretazione esoterica. Al contrario, il testo è discusso con molta acribia sul piano filologico, dal momento che questo era considerato il fondamento per ogni successiva analisi. Nel prologo metodologico al commentario, Origene definisce il Cantico come «un canto nuziale [epithalamium] che Salomone scrisse nella forma di un dramma [dramatis in modum]» (I,1). Con drama, egli intende in senso proprio «la rappresentazione di una storia su un palcoscenico, in cui sono introdotti diversi personaggi e tutta la struttura della narrazione consiste nel loro reciproco intreccio di arrivi e partenze» (I,3). In analogia ai drammi della letteratura greca, egli nota che, proprio come nel Cantico, il dramma può essere composto di «dialoghi tra i personaggi». Proprio in coerenza con questa prospettiva formale, egli stabilisce i ruoli dei personaggi (dramatis personæ): anzitutto, la sposa e lo sposo; ma poi ciascuno di loro in interazione con compagni: le ragazze 34


LO SCRIGNO DELL’AMORE

(le «figlie di Gerusalemme») che accompagnano la donna, e gli amici che stanno con lo sposo (I,2).17 L’analisi dell’opera come dramma a dialoghi non è relegata da Origene ai soli paragrafi introduttivi. Le diverse sezioni del commentario mostrano una costante attenzione agli aspetti presupposti dalla struttura drammatica e dalla trama, avventurandosi talvolta anche nel suggerire specifici scenari, solo impliciti nella partitura biblica. Un esempio particolarmente interessante si trova nel commento a Ct 2,9b-14, in cui viene continuata la messa in scena del dramma (III, 11,1-8; 14,3-9; IV, 2,1-3). Il tema centrale a questo punto è la presenza-assenza dello sposo. Esplorando tutti i dettagli del testo, Origene immagina che lo sposo stia per arrivare a casa, «ma quando arriva vicino alla casa in cui abita la sposa, comprendi che egli stia un po’ fermo dietro la casa, in modo da essere sentita la sua presenza, senza voler entrare però in casa apertamente, quasi a voler osservare prima, alla maniera di un innamorato, la sua sposa tra le finestre» (III, 11,3).18 E poco oltre, commentando Ct 2,12-13, dice: «Sembra che si passi alla primavera, dal momento che si ricorda che “i fiori sono apparsi sulla terra”, […] e che “gli alberi hanno messo i loro germogli”. Perciò, siccome è giunto il tempo opportuno, lo sposo invita la sposa a uscire, lei che ha passato tutto l’inverno chiusa all’interno della casa» (IV, 2,3).19 Ma dopo aver fatto questa attenta ricostruzione drammatica o “storica” del testo, Origene aggiunge una considerazione sorprendente: «Ma questi dettagli non mi sembra che aggiungano alcun guadagno ai lettori per quanto riguarda la narrazione storica; né mi sembra che conservino almeno una qualche sequenza logica del racconto stesso, come troviamo nelle altre storie della Scrittura. È quindi necessario che trasferiamo il tutto a un’intelligenza spirituale» (IV, 2,4).20

Anche Franz Julius Delitzsch (1813-1890), acclamato come il miglior ebraista tedesco di ogni tempo,21 interpreta il Cantico come un dramma. La sua solida formazione filologica gli ha permesso di giungere a conclusioni ancora oggi valide, o almeno meritevoli di discussione. Sulla base del carattere drammatico, Delitzsch ha suddiviso il Cantico in sei atti: 1,2 – 2,7: 2,8 – 3,5: 3,6 – 5,1: 5,2 – 6,9: 6,10 – 8,4: 8,5 – 14:

Il reciproco ardore degli amanti Il reciproco cercarsi e trovarsi degli amanti La richiesta della sposa e il matrimonio L’amore rifiutato, ma riconquistato La Šulammita, principessa affascinante, ma umile Il rafforzamento del vincolo d’amore nella patria della Šulammita. 35


IL CANTICO DEI CANTICI

È evidente che la suddivisione di Delitzsch presuppone una determinata lettura drammatica dell’insieme, che tuttavia non può essere dedotta esclusivamente dalle parole esplicite del «libretto», esattamente come capita anche per i «libretti» delle opere liriche moderne o contemporanee. Un’attenzione alla composizione d’insieme è stata sollecitata negli ultimi anni da più parti. Tra coloro che hanno cercato di attraversare le liriche del Cantico per scorgervi una struttura letteraria unitaria, merita di essere evidenziato H.J. Heinevetter,22 in quanto egli non si limita a cercare le corrispondenze all’interno del testo, ma – a partire da esse – osa spingersi sino alla loro interpretazione globale. Secondo H.J. Heinevetter, il Cantico attingerebbe a diverse fonti e sarebbe quindi una composizione programmatica che fonde insieme materiale tradizionale e apporto redazionale.23 L’apertura dell’opera (Ct 1,2 - 2,7) introduce i temi principali, quali il contrasto fra la campagna e la città, l’autoconsapevolezza erotica della donna, il “diritto di autodeterminazione” dell’amore, nonché forme, come la parodia, e motivi letterari (ad es., «figlie di Gerusalemme», «cercare e trovare», «occhi come colombe», «malato d’amore», il ritornello del risveglio d’amore).24 All’introduzione seguono due sezioni principali che si corrispondono (Ct 2,8 - 5,1 e 5,2 - 8,6); e così, Ct 5,1b («Mangiate, amici, bevete e inebriatevi di amori») sarebbe da considerare il centro del libro:25 Introduzione: 1,2 - 2;7

Prima parte: 2,8 - 5,1

Seconda parte: 5,2 - 8,6

1,2-4: L’uomo in “parodia ascendente” come “oggetto” del desiderio e dell’ammirazione della donna

2,8-3,5: Canti della donna 2,8-17: lamento davanti alla porta. Conclusione: l’invito della donna a lui perché vada da lei 3,1-5: scena notturna in città (cercare e trovare) 3,5: «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e le cerve della steppa: non destate, non disturbate l’amore, finché non vorrà» 3,6 -10(11): Elemento corale: corteo festivo

5,2-6,3: Donna e coro: scena alla porta e ricerca notturna

1,5-8: La donna in “parodia discendente” vv. 5-6: autodescrizione con confronti / autodescrizione con motivazione vv. 7-8: discorso giocoso: domande / risposte

36

6,3: Formula di appartenenza reciproca

6,4-9: Elemento recitativo (uomo): bellezza e unicità degli amanti (→ 4,1-7)


LO SCRIGNO DELL’AMORE

1,9 - 2,3: Ammirazione reciproca (nello scambio tra uomo e donna)

4,1- 5,1: Canti dell’uomo 4,1 - 7: descrizione ammirata

2,4 - 7: Unione gratificante di uomo e donna

4,8 - 5,1a: canto di desiderio. Conclusione: l’invito di lei a lui ad andare da lei

v. 7: «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e le cerve della steppa: non destate, non disturbate l’amore, fino a quando non vorrà»

5,1b: Invito a godere della vita e dell’amore

6,10 - 8,6: Grande composizione conclusiva: donna, uomo, coro: amore all’aria aperta e amore nella città 8,4: «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme: perché destate, perché destate l’amore, prima che voglia?» 8,6: «L’amore è forte come la morte»

Ma è soprattutto una meticolosa analisi filologica26 a convincere che il Cantico è in realtà un «libretto», in analogia ai libretti delle opere liriche della nostra tradizione musicale. In un libretto di opera lirica non è narrata con precisione l’intera trama del dramma, ma, a partire da tutti i particolari, si può – almeno in parte – ricostruire la vicenda presupposta per poter comprendere le singole scene dell’opera. Sono molte e convincenti le ragioni che sostengono l’ipotesi di una trama unitaria della composizione: 1) appellativi, formulari o modismi, che rimangono fissi per i personaggi: ad esempio, ’ănî e dôdî sono sempre sulla bocca della ragazza; ra‘jātî sta sulla bocca dell’inserviente, se il titolo non è accompagnato da altri attributi o apposizioni; se invece è specificato da altro, è il tipico linguaggio dell’amato; ’ăh ․ōtî kallāh è solo sulla bocca di Salomone; haj-jāpāh ban-nāšîm è invece l’indirizzo usato nei riguardi della ragazza da parte delle altre donne dell’harem; dôdèkā sono gli «amori», le «coccole», ed è il linguaggio usato dalle donne dell’harem e da Salomone stesso; 2) inclusioni decisive tra l’inizio e la fine o anche semplici riprese fra le due parti del dramma. Tra queste vanno annoverati un ritornello: Ct 2,7; 3,5; 5,8; 8,4; la “formula d’amore”: Ct 2,16; 6,3; 7,11; citazione della “voce” dell’amato: Ct 2,10 e 5,2; la menzione dei fratelli: Ct 1,6 e 8,8; la posizione d’amore sognata (la sinistra sotto il capo e la destra in abbraccio): Ct 2,6 e 8,3; l’amato come cervo e capriolo: Ct 2,9 e soprattutto 2,17 con 8,14; gli amori più piacevoli del vino: Ct 2,2.4 e 4,10; 5,1; la ragazza che non vuole essere fraintesa, come fosse una prostituta: Ct 1,7 e 8,13; far entrare l’amato nella casa della 37


IL CANTICO DEI CANTICI

madre: Ct 3,4 e 8,2; il sogno: Ct 3,1-5 e 5,2-8; la vigna da custodire: Ct 1,6. 14; 2,15 e 7,13; 8,11. 12; la/e colomba/e: Ct 1,15; 2,14; 4,1; e poi 5,2. 12; 6,9; il melo: Ct 2,3 e 8,5; il melograno: Ct 4,3 e 6,7. 11; 7,13; 8,2; 3) la cesura dopo Ct 5,1, che tra l’altro è già attestata nei s edārîm sinagogali, è effettivamente un punto nevralgico del dramma; non come centro materiale, come vuole H.J. Heinevetter, ma come chiusura del primo atto, venendo così a separare due atti equilibrati e ben bilanciati; 4) la distribuzione della partitura a diversi personaggi e su piani diversi. Non vi sono in scena soltanto un “lui” e una “lei”, in quanto vi sono anche altri personaggi, che intervengono con sfumature caratterizzanti. Per quanto è possibile intuire, vedo la presenza di sette personaggi: le donne dell’harem, un inserviente (che potrebbe essere un eunuco o una damigella), la guardia (o le guardie) della città, il re Salomone; e infine la protagonista, ovvero una ragazza dell’harem, scelta per diventare la šûlammît, i.e. per diventare sposa del re Salomone: ella però ha nel cuore il suo amato pastore, che ha dovuto lasciare forzatamente quando è stata presa (o venduta) nell’harem regale; solo nella scena conclusiva fanno la loro decisiva comparsa i fratelli della protagonista (i quali hanno venduto la sorella all’harem o comunque pensano di trarre profitto dal fatto che ella si trovi lì) e l’amato pastore, l’unico e vero amore della protagonista; 5) la verifica convincente della correttezza dell’ipotesi è proprio il risultato ottenuto; letto in questo modo, il Cantico assume una unitarietà sorprendente, in cui tanti particolari apparentemente dispersi27 si assemblano drammaticamente.

Ecco quindi come sarebbe la trama del libretto. La presento subito all’inizio, perché l’illustrazione seguente sia più perspicua: Intestazione: 1,1 Atto primo (1,2-5,1) Introduzione: Nell’harem (1,2- 4) Prima scena: competizione femminile (1,5-2,7) Seconda scena: ricordi e desideri (2,8-17) Terza scena: il sogno (3,1-5) Quarta scena: l’arrivo di Salomone (3,6-11) Quinta scena: preparativi (4,1- 7) Sesta scena: l’incontro (4,8-5,1) 38


LO SCRIGNO DELL’AMORE

Atto secondo (5,2- 8,14) Prima scena:

il sogno diventa un incubo (5,2 -8)

Seconda scena:

la bellezza dell’amato (5,9- 6,3)

Terza scena:

ultimi ritocchi (6,4 -12)

Quarta scena:

danza (7,1- 6)

Quinta scena:

consumazione (7,7- 8,4)

Sesta scena:

inno all’amore invincibile (8,5 -7)

Conclusione:

fuori dall’harem: i fratelli, la ragazza, l’amato e Salomone (8,8-14)

Alla ricerca della trama del “libretto” La trama del «libretto» è parzialmente obbligata, ma talvolta difficile da precisare. L’intestazione redazionale è già un elemento importante per definire il genere della composizione. Essa non è presente nella Vg e 6Q628 sembra presupporre qualcosa di diverso rispetto al TM. Il senso del modismo šîr haš-šîrîm, secondo la maggior parte dei commentatori, sarebbe quello di un superlativo, come la cifra sintetica della riflessione di Qohelet (hăbēl hăbālîm). Altre interpretazioni possibili: a) un canto composto da diversi canti;29 b) R.E. Murphy30 lo spiega come un’espressione lasciata volutamente nell’ambiguità. La Pešit.ta ha una seconda titolatura twb h.kmt h.kmt’ djlh dšljmwn «o anche sapienza delle sapienze, attribuita a Salomone», insinuando quindi che la Šulammita sia la personificazione di donna Sapienza, come la Beatrice dantesca.31 Ma nel testo del Cantico non vi è nulla che spinga a questa identificazione. L’unica espressione sapienziale si potrebbe trovare in Ct 8,2 telammedēnî «mi renderesti tuo familiare»: la sapienza dovrebbe quindi prendere il posto della Chiesa nell’interpretazione allegorica tradizionale, ma la sostituzione è impossibile.32 Anche l’espressione ’ăšer līšelōmōh rimane molto ambigua («composto da», «attribuito a», «riguardante»). Si può discutere se ci sia sempre stato un titolo originale, o se magari esso fosse composto solo dal modismo šîr haš-šîrîm, senza alcun’altra aggiunta.

Il dramma comincia con una scena che si suppone ambientata nell’harem del re (Ct 1,2-4). Se fossimo in un’opera lirica, sarebbe immaginabile un balletto d’apertura, con la partecipazione del coro femminile. L’identificazione narrativa del re con Salomone è d’obbli39


IL CANTICO DEI CANTICI

go, in quanto nella quarta scena (cf poi in Ct 3,6-11) Salomone stesso con il suo baldacchino fa il suo solenne ingresso in scena. Le donne dell’harem sono chiamate «figlie di Gerusalemme»;33 in Ct 6,8 si dà anche una probabile descrizione e composizione di questo gruppo: 68 Sessanta sono le regine, ottanta le concubine e senza numero le tue ragazze.

Le frasi cantate da queste ragazze sono superficiali e centrate sul desiderio che per ciascuna di loro è il più vivido e realistico: essere scelte per poter diventare, almeno per una notte, la sposa del re Salomone, la Šulammita: 12 Mi dia da bere34 dei baci della sua bocca: più piacevoli del vino i tuoi amori. 3 Seducente la fragranza dei tuoi profumi. Olio versato 35 è il tuo nome! Perciò le ragazze36 ti desiderano. 4 Prendimi dietro di te: corriamo!37 Il re mi farà entrare38 nelle sue stanze. Godremo e gioiremo di te! Ricorderemo i tuoi amori più del vino! A ragione ti desiderano.

A questo punto, nella prima scena (Ct 1,5 - 2,7), fa la sua entrata la protagonista, che si presenta fugacemente, ma con precisione. Ella è una ragazza del contado, custode di vigne: 15 Sono mora, e pure amabile,39 figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i drappi di Salomone.40 6 Non state a guardare se sono un po’ scura: è il sole che mi ha abbronzato!41 I figli di mia madre hanno litigato per me:42 mi hanno messo a guardia delle vigne; la mia vigna,43 la mia, io non l’ho custodita.

I suoi fratelli hanno litigato e forse proprio a riguardo della sua “vendita” all’harem del re; o forse – seconda possibile variante della trama –, essendo stata rapita dalle guardie del re, i fratelli hanno litigato circa il modo di pretendere dal re un risarcimento per la sorella 40


LO SCRIGNO DELL’AMORE

sequestrata nell’harem. Questa seconda possibilità spiegherebbe meglio il sogno, che ritornerà per due volte nel racconto successivo della ragazza (in Ct 3,1-5 e 5,2-8) e diventerà quasi un incubo. La cosa importante che appare è comunque che i fratelli sono interessati al lato economico della faccenda: il finale del dramma, con l’inno all’amore invincibile, è anticipato da questa precisazione. Già dal primo intervento delle «figlie di Gerusalemme» nei riguardi della ragazza (Ct 1,8) si capisce che in loro vi è molta invidia: 18 Se tu stessa non lo sai, o bellissima tra le donne, esci sulle orme del gregge e pascola le tue caprette vicino all’accampamento dei pastori!

Ciò permette di ipotizzare che sia la protagonista colei che è stata scelta come sposa per il prossimo “matrimonio” con il re.44 Accanto alla protagonista, vi è un inserviente. Il suo compito è di preparare la ragazza per l’incontro con il re che sta per venire. Potrebbe essere un eunuco oppure una damigella: il libretto non permette di precisare, sebbene una figura maschile, nonostante tutto, sembri essere più “in situazione” (cf il paragone di Sir 30,20). In ogni modo, è necessario il personaggio, perché le sue parole che elogiano la bellezza della ragazza sono funzionali, quasi professionali, e non cariche di eros, come le parole attribuite all’amato: 19 A una cavalla fra i carri di faraone45 ti rendo simile, amica mia:46 10 amabili le tue guance fra i pendenti e il tuo collo fra le collane; 11 ti faremo catenelle d’oro, con grani d’argento; 12 finché il re sarà sul suo cuscino,47 il mio nardo48 spanderà la sua fragranza.

Ma la ragazza sta pensando solo al suo amato pastore. Le sue parole mostrano quanto ella sia estraniata rispetto a quanto sta accadendo intorno a lei. Ella sta sognando il suo dôd: 113 Sacchetto di mirra è il mio amato49 per me, fra le mie mammelle passerà la notte.50 14 Grappolo di henné 51 è il mio amato per me, nella mia vigna, al mio “occhio di capretta”.52 41


IL CANTICO DEI CANTICI

Dopo aver sognato di essere con il pastore amato, la ragazza chiude il suo discorso con un ritornello, molto importante nell’economia del dramma, ma purtroppo difficile da tradurre. Esso occorre due volte nel primo atto (2,7; 3,5) e due volte nel secondo (5,8; 8,4), con una variazione di rilievo nella terza ripetizione: 27 Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, 58 Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme! per le gazzelle o le cerve dell’altopiano: se trovate il mio amato, non continuate a destare e a eccitare53 che cosa dovete dirgli? 54 l’amore, quando c’è già desiderio! che io sono esausta d’amore!

La seconda scena (2,8-17) è importante per capire chi sia veramente la persona amata, a cui la protagonista si sente legata. Si tratta di ricordi, che si trasformano subito in desiderio impellente. Ma attenzione: il dôdî, colui di cui si parla, non è presente; è solo descritto da colei che lo ama e lo rende così presente, nonostante la lontananza. Ella si immagina che l’amato giri intorno alla casa dell’harem, spiando tra le grate del patio, e che le parli finalmente…55 214 Mia colomba,56 nelle fenditure della roccia, negli anfratti dei dirupi, fammi vedere il tuo viso, fammi udire la tua voce: perché la tua voce è soave e incantevole il tuo viso.

Ma inutilmente. La scena è importante anche per capire la conclusione del dramma, quando finalmente i due potranno fuggire via da soli, senza nessuna guardia del re che li sorvegli: 216 L’amato mio è per me e io per lui, lui che pascola [il gregge] fra i šošannim.57 17 Finché il giorno soffia e le ombre si allungano, continua a girare attorno! O mio amato, sii come un capriolo o un cerbiatto sui monti di dirupi!58

In questo intervento della protagonista è risuonata una confessione d’amore, che, con leggere variazioni, sarà riascoltata in Ct 6,3; 7,11; quasi un anticipo dell’inno finale, che canterà l’amore vero, più forte della morte (inclusione con Ct 8,8-14). 42


LO SCRIGNO DELL’AMORE

A questo punto, il dramma sosta su di un “notturno” con la descrizione di un sogno (Ct 3,1-5), che sarà ricordato più avanti, all’inizio del secondo atto (Ct 5,2-8), ma con toni più cupi, quasi trasformato in incubo. Forse è da considerarsi la scena più importante dal punto di vista della ricostruzione della vicenda della protagonista: il momento in cui la ricerca dell’amato si trasforma in rapimento e reclutamento nell’harem del re, contro la volontà della ragazza… In questa prima evocazione, però, il sogno si conclude in modo positivo, anticipando l’unione d’amore con il pastore amato, che in realtà si darà solo alla fine. Ma non c’è più tempo di indugiare. La sentinella annunzia l’arrivo del corteo regale con la lettiga di Salomone. La quarta scena (Ct 3,6-11) è arricchita in particolare dalla descrizione del baldacchino: 39 Un baldacchino s’era fatto il re Salomone con legname del Libano:59 10 le sue colonne erano d’argento, la copertura d’oro, le sue pareti di porpora rossa e il suo interno ardente d’amore a causa delle figlie di Gerusalemme.60 11 Uscite e contemplate, o figlie di Sion,61 il re Salomone, con la corona con cui l’ha incoronato sua madre, il giorno del suo sposalizio, il giorno della gioia del suo cuore.62

Si noti soprattutto che si parla del legname del Libano (mē‘ăs.ê hal-l ebānôn): è un indizio molto importante per decifrare in seguito il senso dell’invito rivolto alla protagonista di “uscire dal Libano” (Ct 4,8). Vedremo subito che anche lì non si allude direttamente alla regione geografica, bensì al palazzo dell’harem, così chiamato perché fatto di legname proveniente dal Libano. L’attacco di Ct 4,1-7 si contrappone alla scena precedente, con un procedimento che potremmo definire di avvicinamento simmetrico. L’arrivo di Salomone è stato già descritto nella scena precedente. Ora l’obiettivo viene di nuovo puntato sulla ragazza, e così si comprende che ella si sta preparando per l’incontro con il re. Normalmente i commentatori attribuiscono le parole di 4,1-7 a un “lui” che 43


IL CANTICO DEI CANTICI

loda la bellezza della sua amata. In realtà, le parole vanno attribuite all’inserviente dell’harem, che descrive la bellezza della ragazza, ma la ragazza non vi presta attenzione: ella segue i suoi ragionamenti e il suo desiderio di poter vivere l’amore con il suo amato pastore. La descrizione non è passionale, ma quasi oggettiva. Prevalgono i paragoni per descrivere il corpo della protagonista,63 e non vi è connotazione erotica o sessuale. Lo stile è in corretta sintonia con la professionalità di colui/colei che è responsabile della preparazione della ragazza: l’inserviente sta ormai per congedare la “sua ragazza”, prima dell’incontro con il re, perché lo sposalizio possa avere luogo. La sua lode per la bellezza superlativa di questa ragazza termina così: 47 Tu sei tutta bella, amica mia, e in te non vi è alcun difetto.

Ma ancora una volta, la ragazza sembra insensibile alle lodi: ella pensa solo al suo amato. Il primo atto si conclude con una scena degna della migliore opera lirica (Ct 4,8-5,1). Anzitutto, le «figlie di Gerusalemme» invitano la ragazza a presentarsi davanti al re: 48 Vieni,64 fuori dal Libano, sposa,65 vieni, fuori dal Libano!66 Tu puoi andare e scendere lontano dal capo della protezione, dal capo dell’harem,67 lontano dalle tane di leoni, dai monti di leopardi!68

Il re Salomone rimane subito colpito dalla bellezza della sposa e ne pregusta il godimento d’amore, manifestando così il suo placet, perché la festa possa procedere: 49 Mi hai rapito il cuore, sorella mia sposa,69 mi hai rapito il cuore, d’un tratto, con i tuoi occhi,70 con una sola catenina delle tue collane.71 10 Come saranno belli i tuoi amori, sorella mia sposa, come piacevoli i tuoi amori più del vino, e la fragranza dei tuoi profumi più di tutti gli aromi! 11 Miele vergine stilleranno le tue labbra, 44


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[sorella mia] sposa,72 miele e latte sotto la tua lingua e la fragranza delle tue vesti sarà come la fragranza del Libano. Giardino chiuso,73 sorella mia sposa, giardino chiuso, fonte sigillata. I tuoi succhi,74 un paradiso di piaceri con i frutti più squisiti: arbusti di henné con piante colorate di rosa, nardo e zafferano, cannella e cinnamomo con tutte le piante d’incenso, mirra ed alóe con tutti i balsami migliori. Fontana di giardini,75 pozzo di acqua viva e fluente fuori dal Libano.

La ragazza, tra sé e sé, mentre sembra vaneggiare, afferma una cosa con chiarezza; i.e. che i frutti del suo giardino saranno soltanto per il suo amato: 416 Déstati, Grecale, vieni, Austro: fa’ ondeggiare il mio giardino, stillino i suoi balsami! Sia il mio amato a entrare nel suo giardino e a mangiarne i più squisiti frutti!76

Ma il re ovviamente non percepisce questo dialogo interiore della ragazza e con gioia mista a regale arroganza invita tutti alla festa: 51 verrò nel mio giardino, sorella mia sposa,77 raccoglierò la mia mirra col mio balsamo; mangerò il mio favo col mio miele, berrò il mio vino col mio latte. Mangiate, amici, bevete, e inebriatevi di amori!78

Con questo gran finale si chiude il primo atto del dramma. Con un registro diametralmente opposto, si apre il secondo atto con un secondo notturno e un sogno già parzialmente raccontato: un incontro d’amore, bruscamente interrotto, e l’incubo di essere braccata da guardie, che non solo l’hanno incontrata durante la ronda, ma l’hanno anche picchiata e reclusa (Ct 5,2-8)! La narrazione del sogno si conclude con il ritornello, che è già stato ricordato, singolare rispetto alle altre occorrenze per alcune variazioni: 45


IL CANTICO DEI CANTICI

58 Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme! se trovate il mio amato, che cosa dovete dirgli? che io sono esausta d’amore!

La scena seguente è da collegare direttamente al sogno-incubo; da questo punto di vista, avrebbe ragione G. Gerleman,79 che considera un’unità Ct 5,2 - 6,3. Tuttavia bisogna spezzare in due scene questa unità, per distinguere il sogno dal dialogo. Il richiamo però con la scena precedente è importante. Per questo, la prima domanda delle donne dell’harem è una risposta alla supplica della ragazza, con cui si è chiusa la narrazione precedente (v. 8): 59 Che è mai il tuo amato visto come amante, o bellissima fra le donne? Che è mai il tuo amato visto come amante, perché tu abbia a supplicarci così?80

Si deve supporre, sulla base dei pochi elementi evidenziati dal “libretto”, che Salomone sia ormai entrato nell’harem e si sia giunti al momento della festa nuziale, verosimilmente composta da un pranzo, che dobbiamo immaginare luculliano, allietato da danze (Ct 7,1-6), prima dell’incontro d’amore tra Salomone e la Šulammita (Cf 7,7– 8,4). Ma prima di iniziare i festeggiamenti, si ha ancora un incontro tra l’inserviente e la ragazza prescelta (Ct 6,4-12). Urtata dalle parole delle «figlie di Gerusalemme», la ragazza risponde cantando la bellezza del suo amato pastore e mettendo in evidenza soprattutto la sua forza fecondatrice (Ct 5,10-16). La provocazione non finisce qui. Le insinuazioni sulla fedeltà di lui si fanno dure: 61 Dov’è andato il tuo amato, o bellissima tra le donne? Dove s’è diretto il tuo amato, perché l’abbiamo a cercare con te?81

Di fronte a queste allusioni malevole, la ragazza confessa ancora una volta la sua decisione di essere solo per il suo amato, sapendo con certezza di essere corrisposta da questo amore unico: 62 Il mio amato scenderà al suo giardino, in aiuole di balsamo, per pascolare [il gregge] tra i giardini e raccogliere šošanním.82 3 Io sono per il mio amato, e l’amato mio è per me: lui che pascola [il gregge] fra i šošanním.83 46


LO SCRIGNO DELL’AMORE

Siamo ormai agli ultimi preparativi (6,4-12): sono gli ultimi ritocchi per la ragazza che deve entrare a pranzare con il re, danzare davanti a tutti e poi finalmente ritirarsi con lui nell’alcova. L’inserviente cerca di completare nel miglior modo possibile il suo compito, lodando ancora la bellezza della “sua” ragazza. Ma ella, in modo deciso, gli/le confessa il suo progetto, ormai deciso: «Non voglio avere rapporti con il re»! 611 Nel palmeto voglio scendere, per ammirare i germogli della palma,84 per vedere se abbia gemmato la vite e siano fioriti i melograni.85 12 Non voglio avere rapporti!86 Il mio desiderio mi porrebbe su carri della mia gente generosa.87

La quarta scena attacca con la danza ormai avviata (7,1-6): 71 Gira, gira, Šulammita, gira, gira, sì che possiamo contemplarti!88 Che cosa volete contemplare nella Šulammita? È proprio una danza a due cori… 89 2

Come sono belli i tuoi passi nei sandali, o nobile figlia!90

Purtroppo, devo qui tralasciare la stupenda descrizione del corpo dell’amata per ragioni di spazio e passare subito alla conclusione dello was.f : 6

Il tuo capo, su di te, è come il Carmelo e la chioma del tuo capo come porpora. Un re imprigionato nelle sue trecce…91

Il dialogo potrebbe essere pensato tra le «figlie di Gerusalemme» e l’inserviente dell’harem: ma, dal punto di vista drammatico, pensare che la descrizione della bellezza della ragazza stia sulla bocca delle altre donne (un coro femminile) è poco probabile, dopo le insinuazioni precedenti. Forse è meglio pensare agli amici e ai commensali del re. La danza si chiude e le musiche si smorzano nel silenzio dell’alcova. Con la nuova scena (7,7- 8,4), Salomone si trova solo con la sua nuova sposa. La bellezza della pagina e l’abilissima scelta drammatica fa scivolare in modo impercettibile le parole di adulazione di Salomo47


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ne nell’orgoglioso diniego della ragazza del v. 10, che già molti commentatori hanno notato essere diviso da un’importante cesura: 7 7 Come sei bella e come sei incantevole, amore fra i godimenti!92 8 Quella tua statura assomiglia alla palma e i tuoi seni ai grappoli.93 9 Ho pensato: “Salirò sulla palma, afferrerò i suoi rami [più alti].94 I tuoi seni saranno come i grappoli della vite, l’aroma del tuo naso come le mele,95 10 il tuo palato come il miglior vino…”.96

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… versato per il mio amato giustamente,97 gocciolante sulle sue labbra e i suoi denti.98 Io sono per il mio amato e in me è la brama per lui.99 Vieni, amato mio, usciamo in campagna, stiamo tra le piante di henné!100

L’intervento della ragazza è incluso tra il richiamo al tema dell’amore monogamico («Io sono per il mio amato e in me è la brama per lui»: Ct 7,11) e la ripetizione, per l’ultima volta, del suo ritornello («Vi supplico, figlie di Gerusalemme…»: Ct 8,4). Ma ormai è tempo di lasciar esplodere l’amore, perché – uscendo (o fuggendo?) dall’harem – la ragazza va a unirsi al suo unico amore. Sul presupposto di questo incontro si apre l’ultima scena (8,5-7), con l’inno all’amore invincibile. È ancora la guardia, quella che aveva annunziato l’arrivo di Salomone, a dare l’annunzio dell’entrata dei due amanti, finalmente riuniti e abbracciati. Ma è subito la ragazza a prendere la parola e a descrivere il senso del suo unico amore: 85 Chi è costei che sale dal deserto, aggrappata al suo amato?101 Nel luogo del melo ti voglio eccitare:102 lì ove ti ha concepito tua madre, lì ove ti ha concepito la tua genitrice.103

E a questo punto, ormai al termine della travagliata attesa del suo amore, la ragazza innalza il canto all’amore unico (Ct 8,6-7). A modo di conclusione, sta l’epilogo (8,8-14), con la funzione di chiarire alcuni punti oscuri del dramma, prima di congedare il pub48


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blico. E infatti i fratelli, già ricordati nel primo intervento della ragazza, ora confessano il loro meschino progetto di voler guadagnare il più possibile dalla vicenda della loro sorellina, sia nel caso fosse rimasta vergine (“muro”), sia nel caso avesse avuto rapporti (“porta”): 88 Avevamo una sorella piccola, che non aveva ancora mammelle. Che avremmo fatto di nostra sorella, quando si sarebbe parlato di lei?104 9 Se fosse stata “muro”, avremmo costruito sopra file di pietra in argento; se invece fosse stata “porta”, l’avremmo barricata con un’asse di cedro.105

Davanti alla loro sfrontatezza, la ragazza conferma di essere stata “muro” davanti a Salomone e di essere stata “ripudiata” in pace: 810 Io sono un muro e le mie mammelle torri.106 Perciò ai suoi occhi fui come una che se ne va in pace.107

Anche il pastore amato ha qualcosa da dire a riguardo del passato, mettendosi a confronto nientemeno che con Salomone, ovvero alludendo al diritto del re di avere più mogli, rispetto al suo unico e indivisibile amore. Vuole ammonire la sua sposa anche per il futuro, manifestandole la preoccupazione per una vita agreste, da condividere con i suoi «compagni»: 811 Salomone aveva una vigna in Bá‘al Hamon. egli diede la vigna a guardiani: ciascuno avrebbe ricevuto per il suo frutto mille [pezzi] d’argento.108 12 La mia vigna, la mia, sta dinanzi a me:109 i mille [pezzi] a te, Salomone,110 e duecento ai guardiani del suo frutto! 13 e tu, [donna] che vivrai tra i giardini, – i compagni saranno attenti alla tua voce – fa’ che sia io a udirla!111

L’ultima parola è della ragazza. Non poteva che essere così, visto che proprio attorno a lei si è snodata l’azione e su di lei si sono avute le prese di posizione degli altri personaggi. Costei, ritornando al desiderio esplicitato in Ct 2,17, invita il pastore amato a fuggire via, 49


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per poter vivere – lontani da ogni ulteriore rischio – il loro progetto di amore unico. Non si tratta di allusioni erotiche, ma «i balsami» (al plurale) sono ancora una volta l’evocazione di quella natura che cresce fuori dalla città, nelle zone libere e desertiche, quelle in cui ha vissuto insieme al suo amato pastore, prima di essere cooptata per l’harem del re, e verso cui ora vuole insieme a lui tornare (cf Ct 1,7. 13. 16. 17): 814 Vieni via, amato mio, e sii come un capriolo o un cerbiatto, sui monti dei balsami!112

La data di composizione del Cantico Accanto alla comprensione dell’insieme del libro, un altro intrigante problema del Cantico, su cui si discute all’infinito, concerne il periodo di composizione. E comprenderemo subito il perché. Merita anzitutto di essere riportata la conclusione di M.H. Pope: «Il gioco della datazione,113 per libri biblici come Giobbe e Cantico, così come per molti Salmi, rimane impreciso e il risultato è difficile da calcolare. Ci sono ragioni per stime molto arcaiche come per stime molto recenti.»114

Tre sono comunque le epoche preferite dai critici contemporanei: l’epoca davidico-salomonica (X-IX sec. a.C.), il tempo di Ezechia (fine VIII sec. a.C.) o l’epoca ellenistica (III sec. a.C.).115 La prima datazione si comprende bene in funzione del personaggio Salomone, utilizzato nel dramma stesso. La seconda è giustificata anche dalla tradizione talmudica raccolta in j. Baba Batra 14b-15a.116 L’epoca ellenistica ha dalla sua parte ragioni filologiche, contraddette però da altre.117 Per questo motivo, molti contemporanei preferiscono astenersi da una presa di posizione decisa. Interessante è la conclusione cui giunge D.A. Garrett: dopo aver constatato che diverse ragioni linguistiche condurrebbero a porre il Cantico nel periodo ellenistico, mentre la decisa analogia con la lirica amorosa egizia spingerebbe per una data di molto anteriore, “salomonicamente” viene scelto il periodo del regno unito di Davide e Salomone.118 Un tema non sufficientemente valorizzato per la discussione circa la data di composizione è infatti la somiglianza del Cantico con 50


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la poesia amorosa egizia del periodo amarniano e immediatamente postamarniano (ca 1300-1200 a.C.). Non mancano certo informazioni su tale letteratura119 ed essa è già stata utilizzata in ogni possibile modo in vista di una migliore comprensione del testo biblico.120 Non è questo il luogo per ristudiare il confronto analitico tra il Cantico e la poesia d’amore del Nuovo Regno in Egitto.121 La valenza “umana” della vicenda in entrambe le poetiche sorprende il lettore: niente che spinga a vedervi uno hieròs gámos o un dramma cultuale, e nemmeno un dramma con immediata evidenza religiosa.122 Anche il carattere anonimo dei personaggi porta nella direzione della loro quotidiana normalità, senza alcuna identificazione.123 E bisogna dar ragione a Fox, quando sostiene che queste liriche egiziane siano paragonabili alle nostre “opere”, eseguite per intrattenimento da cantori professionisti, con accompagnamento musicale. La vivacità delle descrizioni e la ricchezza simbolica della tavolozza che raccoglie le possibili armoniche sensuali, creano un’atmosfera davvero unica, in cui – per esprimere la gioia dell’amore – sono giocati tutti i sensi. Al di là dei tratti generali comuni, ricordo124 qualche topos di somiglianza più specifico che accomuna la poesia d’amore egiziana e il Cantico: a) il titolo “sorella” (e “fratello”), che era già stato osservato da A. Erman;125 si noti solo che nel Cantico il titolo di «fratello» appare solo, e non propriamente come indirizzo, in Ct 8,1-2; b) alcuni caratteristici epiteti o indirizzi, quali «bellissima tra le donne», «perfetta», «come l’aurora, bella come la Bianca, splendida come la Caliente» (Ct 6,10), ecc.; c) i paragoni e le metafore: freschi, ma molto arditi: «a una cavalla di faraone ti rendo simile, amica mia» (Ct 1,9), «sacchetto di mirra è il mio amato per me… grappolo di henné è il mio amato per me» (Ct 1,13s), «io sono una h.abas.s.elet dello Šaron» (Ct 2,1), ecc.; d) le ancora più sorprendenti similitudini e metafore degli was.f: «i tuoi occhi colombe» (Ct 1,15), «i tuoi denti come greggi da tosare» (Ct 4,2), «il tuo collo è come una torre militare» (Ct 4,4), ecc.

In questa sede, vorrei solo portare l’attenzione su un singolare paradosso. Da una parte, il Cantico è molto simile alla lirica amorosa egizia del Nuovo Regno; dall’altra, è un testo che – per ragioni linguistiche – è difficilmente databile prima del periodo ellenistico (o, al massimo, della fine dell’epoca persiana).126 Se da una parte infatti i poemi egizi sono notevolmente simili al Cantico e ne sono il vero e unico parallelo, per elementi formali e per motivi letterari, dall’altra 51


IL CANTICO DEI CANTICI

parte molte ragioni spingono verso una datazione posteriore. È vero che, trattandosi di poesia erotico-amorosa, si potrebbero trovare mille analogie in ogni letteratura127 oppure addurre altre composizioni, che – per alcuni aspetti – possono essere paralleli o addirittura fonti;128 ma ciò non rende ragione della singolarità del Cantico. Il Cantico è, a mio parere, un ottimo esempio di che cosa significhi nell’antichità la scrittura di un testo in relazione alla sua fissazione. Tra il momento della creazione di un’opera e la sua fissazione in scrittura può correre un lungo lasso di tempo, anche più di mille anni. Effettivamente il Cantico è stato messo in iscritto nel periodo ellenistico; tuttavia, non nasce in quel contesto. Il contesto più adeguato per comprendere la natura di questa lirica amorosa rimane la poesia egizia del periodo amarniano o immediatamente successivo. Analogamente al Mosè dell’esodo, anche il Cantico sarebbe portato dalla tradizione viva del gruppo jahwista e da essa gelosamente custodito, come uno scrigno che fonda l’identità di Israele. La memoria fondatrice,129 che nel momento deuteronomico permette di comprendere la dialettica tra formazione dell’identità di Israele e ricostruzione del passato, nella sua duplice valenza di innovazione e di tradizione, va invocata anche a proposito di questa singolare opera lirica, all’interno del canone biblico. L’appartenenza al canone scritturistico In effetti, solo l’originaria e fondamentale presenza nell’eredità religiosa di Israele sin dalle sue origini può spiegare la sorprendente appartenenza del Cantico alle Sacre Scritture. Sarebbe ben difficile spiegare come in un certo momento il Cantico sia potuto entrare tra i libri sacri.130 Molto più verosimile risulta essere il contrario: che cioè da sempre, prima ancora dell’esistenza di un corpo di Sacre Scritture, il Cantico sia appartenuto al patrimonio religioso di Israele. Ciò sembra confermato da quanto si riesce a intravedere da un punto di vista storico. Nella tradizione giudaica, infatti, come appare dalla presa di posizione di rav Akiba (morto nel 135), il problema non fu mai di giustificare l’introduzione del Cantico fra i libri sacri, ma di metterne in discussione – e, di contro, poi di difenderne – per qualche motivo la sua appartenenza: R. Simeon ben-Azzai disse: «Ho ricevuto dai settantadue anziani quando nominarono R. Eleazar ben-Azariah capo della Jeshivà questa tradi52


LO SCRIGNO DELL’AMORE

zione: che il Cantico e Qohelet rendono impure le mani». R. Akiba disse: «Dio ce ne scampi! Nessuno in Israele è mai stato contrario al fatto che il Cantico renda impure le mani, poiché il mondo intero non vale quanto il giorno in cui Dio ha dato il Cantico a Israele; poiché tutti i Ketûbim sono santi, ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi. Quindi, se ci fu una disputa, essa riguardò solo Qohelet».

Se questo è vero, allora non è la canonizzazione del libro a istituire l’interpretazione allegorica; ma, al contrario, l’allegorizzazione sarebbe una via semplificata per custodire al Cantico la dignità di «libro che sporca le mani», dignità che ha avuto in sé “da sempre”. Monogamia e monoteismo. Alla radice del simbolo dell’amore sponsale In effetti, nessuna legge – né nella Tôrāh, né altrove – impone la monogamia, sebbene questa sia praticata dopo Mosè da quasi tutta la tradizione dello jahwismo, eccettuati i re con i loro harem. Potremmo dire che è un fattore generalizzato, se ci si limita a considerare i sacerdoti e i profeti. Del resto, Gn 2,24 assume proprio il simbolismo monogamico uomo-donna, per parlare della relazione eziologica Israele-✨.131 L’ideale della famiglia all’interno dello jahwismo che ha prodotto quella narrazione è dunque la monogamia.132 Vi sono molte leggi che la presuppongono (Es 20,17; 21,5; Lv 18,8. 11. 14. 15. 16. 20; 20,10; 21,13; Nm 5,12; Dt 5,21; 22,22) e anche molti testi sapienziali sembrano farvi riferimento (Pro 12,4; 18,22; 19,13; 21,9; Qoh 9,9; Gb 31,1. 9-12; Sir 26,1-4). Non si possono tuttavia tacere alcune eccezioni. Lasciando da parte il periodo premosaico, che rimane volutamente diverso come su altri aspetti rispetto al periodo successivo a Mosè,133 ed escludendo anche i re (soprattutto Davide e Salomone), le eccezioni si riducono al padre di Samuele, Elkana con le sue due mogli, Anna e Peninna (1 Sam 1,2), e Gedeone, che è ricordato con «molte mogli» (Gdc 8,30). Anche il Codice dtn (Dt 21,15-17) sembra permettere almeno in una legge la possibilità di un matrimonio poligamico, pur avendo anch’esso per il re l’invito a non moltiplicare le mogli (Dt 17,17). Questa situazione ha fatto dire a R. de Vaux: «È degno di interesse il fatto che i libri di Samuele e dei Re, che coprono l’intero periodo della monarchia, non registrano alcun caso di poliga53


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mia tra i mortali (eccetto il padre di Samuele, 1 Sam 1,2, all’inizio del periodo)».134

Similmente conclude A. Tosato: «Relativamente ai privati, le scritture bibliche indicano come più consueta in Israele la monogamia. La poligamia è anche presente, ma si riduce a piccola cosa.»135 «Tenuto conto che la poligamia non sembra legalmente proibita, e che essa in una società pastorizia e agricola poteva, almeno entro certi limiti, rappresentare anche un vantaggio economico per il capofamiglia, a fare problema non è la sua presenza, ma la sua quasi assenza.»136

Tosato, dopo aver cercato di ricreare il contesto giuridico dell’Antico Vicino Oriente in rapporto ai dati biblici, mettendo però sullo stesso piano i racconti patriarcali e la tradizione dello jahwismo dopo Mosè, conclude: «Risulta dunque che l’ordinamento giuridico di Israele, non diversamente dagli ordinamenti giuridici dell’antico Medioriente, pur non togliendo in assoluto al marito la facoltà di praticare poliginia e poligamia, tollera comunque simile prassi soltanto entro certi limiti. E quella che resta consentita, lo è non in quanto corrisponde ad un interesse riconosciuto legittimo dell’uomo, ma in quanto corrisponde ad un interesse della moglie di non rifiutarlo al marito.»137

Se non vi è alcuna legge che istituisce la monogamia, come mai la tradizione dello jahwismo è così compatta? E come mai, una volta abbandonato lo jahwismo – come dimostra l’islām –, si è subito tornati alla pratica poligamica? Trovo le risposte a queste domande nel Cantico: esso sarebbe il “manifesto simbolico” originario che ha accompagnato la tradizione dello jahwismo nei secoli di storia che separano l’“Israele” dell’Egitto dall’“Israele” del dopo esilio. È chiaro che i due “Israele” sono un’entità ben diversa e l’“Israele” dell’Egitto è difficilmente circoscrivibile dai nostri strumenti di indagine storiografica. Tuttavia, l’ipotesi è che quel “manifesto simbolico” abbia accompagnato – come memoria fondatrice – lo sviluppo storico di Israele e che, verosimilmente nel IV secolo a.C., la scrittura del Cantico non sia stata una creazione ex novo, ma la messa in iscritto dell’antichissima tradizione risalente alle fonti egizie di “Israele”. I grandi affreschi profetici dei secoli VIII-VI a.C. (Os 2; Ger 2; Ez 16 e 23; Is 54) potrebbero essere un indizio della vitalità di que54


LO SCRIGNO DELL’AMORE

sto patrimonio simbolico lungo i secoli. Essi utilizzano il simbolo dell’amore umano, mantenendo sempre il ruolo femminile per Israele, ma in “prospettiva rovesciata” rispetto al Cantico: infatti, il giudizio profetico guarda la realtà dalla parte di ✨ e non di Israele. Tali pagine profetiche sono testimonianza che quel tesoro simbolico era già presente nella tradizione dello jahwismo con la trama del Cantico, prima della sua scrittura. Anche la triplice ripetizione del racconto di Gn 12; 20 e 26, con protagonisti due volte Abramo-Sara e una volta Isacco-Rebecca, potrebbe trovare una risposta più convincente, alla luce di questa tradizione simbolica,138 in quanto insiste sulla trama narrativa della matriarca, fatta passare per «sorella», che viene presa nell’harem di un re (faraone o Abimelek che sia) e poi, in qualche modo, miracolosamente rilasciata, per ricongiungersi al suo legittimo marito. E infine, rielaborando gli sviluppi profetici, il simbolismo del Cantico è riportato «in principio»,139 con la «risalita sino al cuore dell’essere»,140 istruita nelle pagine dell’eziologia metastorica di Gn 1-11. Il valore del simbolismo dell’amore monogamico A modo di conclusione, abbozzo quattro spunti per la valorizzazione e le ragioni di preferenza del simbolismo dell’amore monogamico.141 1) Il simbolismo dell’amore monogamico riesce a esprimere il senso profondo della conoscenza che intercorre tra i due partner. Il linguaggio dell’amore è assunto per significare il dialogo tra l’umano e l’abisso di Dio, ma nello stesso tempo dà all’amore umano un’abissalità teologica imprevista. Lo stesso vocabolo ebraico jāda‘ copre l’intera gamma di esperienze di conoscenza dell’uomo e della donna: dalla profondità del rapporto affettivo all’unione carnale. Esso permette di esprimere l’intero arco di esperienza attraversato da un uomo e una donna che si uniscono con un patto matrimoniale. Così si definisce in modo inedito il tipo di conoscenza di cui si parla. Non una conoscenza intellettualistica, non un semplice “saper cosa fare” moralisticamente inteso, ma una conoscenza globale e totalizzante, quale la b erît esige. San Giovanni della Croce esprime così l’esperienza di conoscenza (da Llama de amor viva): 55


IL CANTICO DEI CANTICI

O lampade di fuoco, nel cui vivo splendore gli antri profondi dell’umano senso, che era oscuro e cieco con mirabil valore al lor Diletto dan luce e calore!

2) Si tratta di simbolismo coniugale, non semplicemente sessuale: è in gioco dunque la persistenza del legame in una storia, al di là del momento d’incontro. Anche se separati dal tempo o dallo spazio, anche nella grigia quotidianità, rimane l’amore tra i due partner. L’amore coniugale permette davvero di descrivere una dialettica di b erît tra Israele e ✨, tra l’umanità e Dio, nella cornice drammatica della storia. Tale simbolismo è storico, perché richiama il passato del primo incontro, con gli inizi eccedenti del momento dell’innamoramento e del «principio». Per Israele, il deserto come il tempo del puro amore. Quando ormai Israele è sedentario in Canaan, deve ripensare alla gioia dell’amore puro come in passato, ponendo piena fiducia in ✨, l’unico in grado di assicurare prosperità e benessere. È la vita di fede vissuta nella dimensione dell’attesa di Dio, con l’amore della ragazza che non osa fare avance, ma che toglie ogni ostacolo perché l’incontro possa avvenire presto. Il simbolismo dell’amore monogamico prospetta poi un avvenire, perché l’infedeltà o la durezza di cuore ha da essere superata. I figli incarnano il domani: se la coppia sposa-sposo parla delle relazioni passate, sarà il ritorno dei figli o l’accusa dei figli alla madre a fare in modo che la separazione tra ✨ e Israele sia soltanto una fase interlocutoria. Questo simbolismo permette dunque di dare vigore espressivo alla concezione lineare della storia, tipica del pensiero profetico: al di là della catastrofe o della punizione la storia tra Israele e ✨ non è mai interrotta, ma continua, come la conciliazione tra due sposi dopo una momentanea separazione. 3) La relazione coniugale, proprio perché è una relazione vitale, implica la totalità della vita, con un intreccio paradossale tra “presenza” e “assenza”, prossimità e distanza, immanenza e trascendenza… Non per questo il legame viene meno: lo sposo fa 56


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tutto per la sposa, eppure non sta sempre con lei. Così è l’amore tra i partner di questa singolarissima berît: Israele e ✨ . Anzi, la risposta che l’amata (Israele) deve dare a colui che l’ha chiamata all’amore è la giustizia, ovvero la corretta impostazione dei rapporti sociali per l’altro (cf Is 5). Amore di Dio e amore del prossimo sono già strettamente vincolati nel simbolismo dei profeti. Viene istituito questo originale triangolo d’amore: ✨ ama Israele, perché Israele lo riami con la risposta della giustizia, amando l’altro. Una tale profondità è espressa proprio dall’amore monogamico, perché l’immanenza e la trascendenza, la lontananza e la presenza, la presenza intesa come il desiderio di colui che è assente e permane anche nel momento della lontananza, si dà proprio nel rapporto coniugale. E la presenza che rimane, come coinvolgimento pieno per amare l’altro, si dà – attraverso il rapporto coniugale – nei figli: i due amano i figli. 4) Il Cantico mostra che l’amore cantato non è propriamente colto nel momento del principio, che rimane per noi inattingibile, ma nel momento della fedeltà e del ricominciamento. Il che sta a dire il carattere secondo o penultimo del nostro essere simboli, in relazione a Dio. Soltanto per Dio è disponibile l’’alep e il taw, capace di porre in essere quell’amore che rimanda al simbolo originario dell’amore divino. Monogamia e monoteismo sono una scintilla unica, ab æ terno fondata sull’unicità dell’amore divino. Ciò spiega anche la profondità del simbolismo dell’amore monogamico, che diventa così un linguaggio capace di esprimere l’esperienza più profonda della vita “in Dio” e della “ricerca di Dio”, perché «amore è davvero forte come morte, gelosia è tenace come Še’ol» (Ct 8,6). I mistici ce lo hanno dimostrato, nel loro modo di interpretare e assumere il Cantico. D. Bonhoeffer l’ha ben compreso. E così ha scritto all’amico Eberhard: «È però il pericolo di ogni profondo amore erotico che per esso si perda, vorrei dire, la polifonia della vita. Intendo questo: Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore, non in modo che ne risulti compromesso o indebolito l’amore terreno, ma in certo senso come 57


IL CANTICO DEI CANTICI

cantus firmus, rispetto al quale le altre voci della vita suonano come contrappunto. Uno di questi temi contrappuntistici, che hanno la loro piena autonomia, e che sono tuttavia relazionati al cantus firmus, è l’amore terreno. Anche nella Bibbia c’è infatti il Cantico dei cantici, e non si può veramente pensare amore più caldo, sensuale, ardente di quello di cui esso parla (cf Ct 8,6!); è davvero un bene che faccia parte della Bibbia, come contrasto per tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell’Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore. Per parlare con il Calcedonese, l’uno e l’altro sono «divisi eppure indistinti», come lo sono in Cristo la natura divina e la natura umana.»142

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Note

il Cantico dei cantici Lo scrigno dell’amore



Questa sezione è debitrice di J. Neusner, Masculine and Feminine in Judaism, in The encyclopaedia of Judaism, 5 volumes, Edited by J. Neusner - A.J. AveryPeck - W.S. Green, E.J. Brill, Leiden-Boston-Köln 2000-2004, II, 845-850. 2  B. Barc, Les arpenteurs du temps. Essai sur l’histoire religieuse de la Judée à la période hellénistique (Histoire du Texte Biblique / Studien zur Geschichte des Biblischen Textes 5), Éditions du Zèbre, Lausanne 2000. 3  A dire il vero, per avere una lettura erotica del Cantico, si deve attendere l’epoca moderna. G. Ceronetti, Il Cantico dei Cantici (Biblioteca Adelphi 58), Adelphi, Milano 1975, 20016, 124s, scrive nell’introduzione alla sua traduzione: «Il Cantico è vuoto. Non contiene niente. Non significa niente. Niente al di là della lettera, una canzone a due voci in cattiva copia, e tuttavia – rivelazione delle rivelazioni (pensaci bene: l’unica possibile, per un razionalista che non cancelli Dio e per un mistico che non corra dietro ad altre figure divine) – immagine pura di Dio, in quanto sterminato Nulla trascendente, lontananza di lontananze di cui il vuoto, la nudità interna erotica, significata dal sesso muliebre, è tra le fiamme e la notte del mondo umano un anatomico bagliore, una porta di desiderio. Per questo, solo per questo il Cantico è un santo dei santi e Scrittura che brucia le mani». a)  La bellezza del simbolo sta nel valore di h.ôtām «sigillo», nel quadro della cultura antica dell’Antico Vicino Oriente: si tratta di timbri cilindrici, che venivano “rullati” sulle tavolette di argilla o sulla ceralacca dei documenti papiracei. Appesi al collo come collane o infilati come anelli al dito, erano custoditi gelosamente, data la loro rilevanza giuridica (si ricordi, ad es., 1 Re 21,8: le lettere di Gezabele valgono come lettere del re, perché sigillate con il suo sigillo). Dal momento che s’intendeva porre questi oggetti sotto una garanzia divina, presero un valore religioso. Nella tradizione dello jahwismo tuttavia, contrariamente alle abitudini dei popoli vicini, i disegni dei sigilli non alludono quasi mai a temi religiosi; nondimeno, siccome sono spesso tagliati in pietre preziose, prendono valore di amuleti. Qualcosa di più merita che sia detto a riguardo di lēb «cuore» e di zerôa‘ «braccio». Ricordo anzitutto che avere appeso un cilindro al collo non significa propriamente metterlo «sul cuore» e che il cuore nell’antropologia biblica non è la sede dei sentimenti, bensì della decisione (cf É. Dhorme, L’emploi métaphorique des noms de parties du corps en hébreu et en akkadien, Reproduction de l’édition du 1923, P. Geuthner, Paris 1963; è una raccolta di cinque articoli pubblicati negli anni 1920-1923 su «Revue Biblique»). Se la posizione del primo, «sul tuo cuore», può far pensare all’uso di portare al collo il sigillo con una collana, la posizione del secondo, «sul tuo braccio», è invece molto più improbabile: è vero che z erôa‘ è il «braccio», «avambraccio», «polso» (cf KB, 280s); mai però significa «dita» (cf M.V. Fox, The Song of Songs, 169), e se si fosse voluto parlare di un oggetto anulare, si sarebbe potuto utilizzare ’es.bā’ôt «dita». Non si deve dimenticare che «cuore» e «braccio» hanno molti valori metaforici: decisione e azione, intimità ed esteriorità, pensiero e forza… Sembra che il valore fondamentale qui chiesto sia non solo il diritto di possedere il cuore, ma anche di eseguire nella vita ciò che il cuore dell’altro comanda: la valenza simbolica del cuore, più che all’amore o all’affettività, porterebbe quindi a vedere una decisione che coinvolge tutta la vita dell’altro (cf Dt 6,5!). La totalità presupposta dal simbolo del «cuore» mi porta a scovare un’ulteriore valenza simbolica per z erôa‘. I lessicografi contemporanei (cf F.J. Helfmeyer, z erôă‘, in ThWAT, II, 650-661; tr. it.: GLAT, II, 691-701; e The dictionary of classical Hebrew, Edited by D.J.A. Clines et alii, Sheffield Academic Press, 1

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Sheffield 1993-2016, III,136ss) elencano diversi passi in cui è possibile ipotizzare un emendamento e un cambio tra z erôa‘ «braccio» e zera‘ «seme, discendenza» (di certo almeno 1 Sam 2,31; Is 9,19). In Ct 8,6 non si tratta assolutamente di emendare il testo, ma si avrebbe una splendida tauriyya poetica tra «braccio» e «semediscendenza». In altri termini, la ragazza starebbe chiedendo all’amato non solo una totalità del «cuore», ma anche una cosa sconvolgente per la cultura antica: abbandonare il diritto di prendersi altre mogli e di ripudiarla a motivo della eventuale sterilità. Insomma, sta chiedendo di essere l’unica donna per il suo amato, la sola «madre terra» in cui possa svilupparsi il nome-seme del suo amato. b)  Il versetto continua con due frasi tra loro parallele introdotte da kî, che può avere valore causativo-esplicativo oppure enfatico. Preferisco quest’ultima valenza, in quanto non vi è una connessione propriamente causale, ma senz’altro asseverativa. I due attributi paralleli dicono due aspetti di morte e Še’ol, in relazione ad amore e gelosia: la forza (‘azzāh) e la durezza (qāšāh), ovvero il loro carattere invincibile e insuperabile. Quanto alla personificazione di Môt e Še’ôl non insisterei più di tanto, benché siano divinità importanti nel pantheon ugaritico. La ragazza ha dimostrato cosa significhi l’amore vero, disprezzando la ricchezza, gli onori e la fama che avrebbe potuto godere se fosse rimasta nell’harem, come sposa del re. Il suo amore è unico e poco sopra l’ha richiesto in modo solenne anche al suo amato: un amore monogamico che duri per sempre, nonostante tutto. Solo la morte poteva reggere un tale confronto! Quanto al significato di qin’āh, sottoscrivo la posizione di Fox (M.V. Fox, The Song of Songs, 169): qin’āh non significa «passione», ma «gelosia» (cf Lxx, Vg, Syr). Anche in questo il discorso porta a parlare della monogamia, in relazione alla gelosia tra le possibili donne dello stesso uomo (cf Gn 30,1: un atto di gelosia suscitato dalla sterilità!). c)  rešep «fiamma» occorre 2× in questo versetto e in cinque altri passi al singolare (Sal 76,4; 78,48; Ab 3,5; Dt 32,24; Gb 5,7). In Ab 3,5 rešep è un parallelo di deber «febbre», due divinità “parabolari” rispetto alla figura della divinità principale che accompagnano. Va ricordato in particolare Dt 32,24 in cui rešep è la conseguenza della qin’āh di ✨. È un testo relativo al tema del monoteismo (si legga tutto il passo di Dt 32,21-24). La massima parte dei commentatori ha associato – con qualche problema – la «fiamma» ad amore, ma molto più versomilmente – come dimostra anche il passo citato da Dt 32 – essa va collegata alla sola «gelosia», quella dell’unicità che porta a far scagliare i dardi malefici (cf gli altri passi biblici). Quindi, anche i «dardi di fuoco» sono un ulteriore aggancio simbolico al tema della monogamia-monoteismo. Il TM šalhebetjāh «la sua fiamma» è problematico. La famiglia testuale di ben-Neftali separa addirittura con maqqēp, scrivendo šalhebet-jāh. L’infinita discussione ha portato Pope (M.H. Pope, Song of Songs, 670) a concludere che šalhebetjāh andrebbe ignorato, in quanto sarebbe glossa di r ešāpèhā della riga precedente. Come si può vedere, la discussione verte soprattutto sul suffisso finale -jh, se cioè vada considerato come abbreviazione del tetragramma sacro (Jāh) oppure come suffisso di 3ª femminile singolare. Interpretandolo come nome divino, potrebbe fungere anche da superlativo (cf G. Gerleman, Ruth. Das Hohelied, 216s; possibilità già avanzata da Delitzsch). Ma ci sono buoni argomenti per escludere la lettura dell’abbreviazione del tetragramma sacro: 1) le antiche versioni non l’hanno mai interpretato così; i Lxx hanno «le sue fiamme», in parallelo a r ešāpèhā «le sue frecce» (similmente anche Vg: atque flammarum; e Syr wešalhēbītā’ «e le fiamme»); 2) a parte la famiglia testuale ben-Neftali, che introduce il maqqēp,

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i massoreti scrivono šalhebetjāh come fosse una sola parola; 3) šlhbtjh è preceduto da r ešāpèhā, con lo stesso suffisso. Per questo, ma collegando alla qin’āh, non alla ’ăhābāh, leggo – seguendo i Lxx – šalhăbōtèhā. Ritengo poco probabile la congettura della BHS di raddoppiare il sintagma (šalhăbōtèhā šalhebet-jāh). d)  Non bisogna troppo in fretta pensare al legame mitologico con il caos originario, anche perché sinora il Cantico non ha fatto ricorso a quel bagaglio simbolico; è stato invece considerevole il contributo simbolico proveniente dalla botanica e dai fenomeni geoclimatici del paesaggio della terra d’Israele e della valle del Nilo. Per cui il riferimento non è alle «grandi acque», ma piuttosto alle «acque torrenziali» della stagione invernale, con i fenomeni vistosi soprattutto nel deserto di Giuda. Il Pi. di kbh ha il significato fondamentale di «estinguere, spegnere» (cf BK, 457). L’immagine sembrerebbe quindi coerente con la conclusione del versetto precedente, in cui si parla di frecce infuocate e di fiamma. Ma, a riguardo della relazione tra majim ed ’ēš (insieme solo in Sir 3,30), si ricordi quanto afferma A. Baumann, discutendo di kbh (ThWAT, IV,41 = GLAT, IV,205): in quel clima tropicale, non avendo grande disponibilità di acqua per spegnere il fuoco, lo si spegneva con la terra. Se è così, tenendo conto anche del parallelo (ûnehārôt lō’ jišt. epûhā), il senso dell’immagine cambia un poco: non «spegnere» l’amore, quanto «annullarlo», in parallelo alla forza dell’inondazione della seconda riga. e)  L’ultima frase del versetto non pone difficoltà. C’è solo da notare che la formulazione dell’apodosi ricorda molte leggi casuistiche: môt tāmût, môt jûmat (cf Gn 2,17; 3,4; 20,7; 26,11; Es 19,12; 21,12. 15ss; 22,18; ecc.). Qui non c’è la pena di morte, ma il più grande disprezzo per colui che pensa l’amore come un oggetto per guadagnare. Si vedrà di seguito il senso di questa frase nel contesto della vicenda narrata, perché questo è stato di fatto il comportamento dei fratelli della ragazza. Ma è un monito anche per tutte coloro che stanno nell’harem del re e scambiano l’amore monogamico con un falso amore da cui avere in cambio ricchezza, fama e onore. 4  Non sto a dimostrare qui l’importanza di Dt 32 nella strategia narrativa del Deuteronomio, in relazione alla tradizione profetica. 5  Cf Sal 76,4; 78,48; Ab 3,5; Dt 32,24; Gb 5,7. 6  Cf M.V. Fox, The Song of Songs and the Ancient Egyptian love songs, The University of Wisconsin Press, Madison WI 1985; O. Keel, Deine Blicke sind Tauben. Zur Metaphorik des Hohen Liedes (Stuttgarter Bibelstudien 114-115), Verlag Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1984; Id., Das Hohelied (Zürcher Bibelkommentare. Altes Testament 18), Theologischer Verlag, Zürich 1986,19922 (tr. fr.: Le Cantique des Cantiques, Traduit de l’allemand par S. Müller Trufaut [Lectio Divina. Commentaires 6], Éditions Universitaires – Les Éditions du Cerf, Fribourg-Paris 1997). 7  Cf H. Schmökel, Heilige Hochzeit und Hoheslied (Abhandlungen für die Kunde des Morgenlandes 32), F. Steiner Verlag, Wiesbaden 1956. 8  Cf, ad es., G. Garbini, Cantico dei cantici, Testo, traduzione, note e commento (Biblica. Testi e Studi 2), Paideia Editrice, Brescia 1992. 9  Nella poetica araba, il was.f è una descrizione trasfigurante della natura, uno dei sei generi più usati nella letteratura araba classica, secondo il giudizio autorevole del grande filologo K. udāma b. Ğa’far (nato attorno all’873 e morto prima del 948). Etimologicamente was.afa significa «abbellire», e quando si descrive, s’impreziosisce,

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dal momento che la descrizione migliore è quella che ripresenta l’oggetto descritto, rendendolo percepibile ai sensi: nel Cantico, l’oggetto è il corpo dei due amanti. Per una introduzione al was.f, si veda la voce corrispondente, redatta da Albert Arazi, in Encyclopaedia of Islam CD-Rom edition. Volumes I-XII, Edited by P.J. Bearman et alii, E.J. Brill, Leiden 2003, XI, 153A-158A; ‘A. Khatīb, Fann al-was.f min khilāl al-shi’r al-Jāhilī, Matba’at al-Amānah, Il Cairo 1990; W. Fischer, Der altarabische Dichter als Maler, in Festschrift Ewald Wagner zum 65. Geburtstag. II: Studien zur arabischen Dichtung, herausgegeben von W. Heinrichs - G. Schoeler (Beiruter Texte und Studien 54,2), Steiner, Stuttgart 1994, 3-17. 10  Cf l’elenco raccolto da L. Schwienhorst Schönberger nella Introduzione all’Antico Testamento, a cura di E. Zenger, Traduzione dalla 5ª edizione tedesca di E. Gatti - G. Francesconi, Edizione italiana a cura di F. Dalla Vecchia (Grandi Opere), Editrice Queriniana, Brescia 2005, 587-597: canto di descrizione (1,13s.; 4,1-7; 5,9-16), canto di ammirazione (1,9-11; 4,9-11; 6,47.10; 7,2-6,7-10; 8,5a), autodescrizione (1,5s; 2,1; 8,10), canto di autoesaltazione (6,8s; 8,11s), lamento alla porta (parakalusithyrón: 2,10-14; 5,2b), canto di desiderio (1,2-4; 2,4s; 7,12s; 8,1-2.6s), poesia legata a un determinato ruolo (dialogo: 1,7-8,15-17; 2,1-3; 4,12-5,1; 6, 1-3; 8,8-10.13s), narrazione di un’esperienza (2,8-14; 5,2-8; 6,11; 6, 12-7,1; 8,5b), narrazione di sogni (3,1-5), descrizione di situazione (2,6s; 8,3s), descrizione di un corteo nuziale (3,6-11). 11  H. Schmökel, Heilige Hochzeit und Hoheslied, 15. 12  Si veda, in particolare, R.E. Murphy, The Song of Songs. A commentary on the Book of Canticles or the Song of Songs, Edited by S.D. McBride, Jr. (Hermeneia 22), Fortress Press, Minneapolis MN 1990, 16-21. 13  In particolare, si veda la catena di Procopio da Gaza (465-528). I passi, riportati in sola traduzione dall’edizione critica citata nella nota seguente, sono dal libro III: 2,1-5; 4,3-7; 5,1-8; 5,10-17; 6,1-4; 8,1-15; 11,1-8; 11,9-23; 11,11-12; 14,16-19; 14,22-25; dal libro IV, 1,7; 1,8; 1,17; 2,7-20; 3,1…34. 14  Origenes, Commentaire sur le Cantique des cantiques, 2 voll., Texte de la version latine de Rufin, Traduction, notes et index par L. Brésard - H. Crouzel, Avec la collaboration de M. Borret (Sources Chrétiennes 375-376), Les Éditions du Cerf, Paris 1991-1992. 15  Forse anche l’inizio del IV libro, che però la maggior parte dei manoscritti congiunge al III libro (cf Origenes, Commentaire, vol. I, 13). A differenza delle altre versioni di Rufino, il commento al Cantico non riporta alcun prologo del traduttore, il che rende più discutibile l’anno preciso in cui venne eseguita la traduzione. 16  Origenes, Homélies sur le Cantique des cantiques, Réimpression de la 2e édition revue et corrigée, Introduction, traduction et notes par O. Rousseau (Sources Chrétiennes 37bis), Les Éditions du Cerf, Paris 19662 (ristampa: 2007); ottima edizione italiana: Origenes, Omelie sul Cantico dei Cantici, a cura di M. Simonetti (Scrittori Greci e Latini), Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, Roma-Milano 1998. 17  Cf Origenes, Commentaire, vol. I, 80-83. 18  Ubi vero ad domum intra quam sponsa commorabatur advenit, stetisse eum paululum intellige post domum, ita ut sentiretur quidem adesse, nondum tamen domum palam vellet et evidenter intrare, sed prius quasi sub amatoris specie per fenestras adspicere velle sponsam (Origène, Commentaire, II, 598).

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Cui et hoc additur quod veris tempus agi videatur, cum et flores apparuisse memorantur in terra [...] et germen arbores produxisse. Propter quod velut opportuno tempore progredi provocat sponsam, quae sine dubio per hiemem totam intra domus claustra resederit (Origène, Commentaire, II, 701). 20  Sed haec nullam mihi videntur, quantum ad historicam narrationem pertinet, utilitatem conferre legentibus aut aliquam saltem narrationis ipsius servare consequentiam, sicut in ceteris Scripturae historiis invenimus. Unde necesse est cuncta ad spiritalem transferre intelligentiam (Ibidem). 21  G. Maier, Geleitwort zu Franz Delitzsch, in F. Delitzsch, Messianische Weissagungen in geschichtlicher Folge, Nachdruck der Ausgabe Leipzig 1890 (Monographien und Studienbücher 244), Brunnen Verlag, Giessen-Basel 1992, 6: «Deutschland dürfte kaum jemand hervorgebracht haben, der den Hebraisten Delitzsch je übertreffen konnte». L’affermazione può essere dimostrata leggendo la sua versione del Nuovo Testamento in ebraico: composta quando ancora non si parlava la ‘ibrît h.ădāšāh, essa è ancora oggi leggibile e considerata piacevole a orecchi israeliani. 22  H.J. Heinevetter, “Komm nun, mein Liebster, dein Garten ruft dich!”. Das Hohelied als programmatische Komposition (Bonner biblische Beiträge 69), Athenäum, Frankfurt am Main 1988. 23  I maggiori passi redazionali sarebbero: Ct 1,7s; 2,4-7; 3,1-5; 4,4-7; 4,1011.12a* (“giardino”). 13a.b.c.* 14b.d.15c.16-5,1; 5,5-9; 6,1-3; 8,1-5.6c-f. Le integrazioni redazionali minori sarebbero invece: Ct 1,3c.4c-e.5b.d* (“Salomone”). 6a.b.e.11-12.16abc*(“persino”); 2,3; 2,9. 10a.12b.14c-f.17; 3,9s.; 4,1d.2c.d; 5,10b.12. 13a.b.d. 15c.d. 16a.b.d; 6,4c.5a.b. 9be.10b-11; 7,1.4-5a.d-7.9-11.136-d. Lo scopo programmatico della redazione sarebbe la critica verso il re, messo in luce – in modo antitetico – da Ct 1,1; 3,11 e 8,7-14, che andrebbero considerate invece una rielaborazione ulteriore al fine di disinnescare tale “potenziale critico”. Lasciando cadere questa infruttuosa distinzione tra materiale tradizionale e redazione, è comunque positivo il fatto che sia stata ipotizzata una dialettica tra una memoria preesistente e una scrittura posteriore del testo. Su questa distinzione dovremo tornare ampiamente in seguito. 24  H.J. Heinevetter, “Komm nun, mein Liebster…”, 96s. 25  La tabella sintetica seguente è presa dall’Introduzione all’Antico Testamento, a cura di E. Zenger, 592. 26  Per questo, devo molto a P.W.Th. Stoop van Paridon, Het Lied der Liederen. Een filologische analyse van het Hebreeuwse boek ‫שׁיִר השּׁיִריִם‬, Peeters Press, Leuven 2003; tr. ingl.: The Song of Songs. A philological analysis of the Hebrew book ‫שׁיִר השּׁיִריִם‬ (Ancient Near Eastern Studies. Supplement Series 17), Peeters Press, Leuven-ParisDudley MA 2005. 27  Una particolare difficoltà filologica del testo è dovuta al grande numero di hapax legomenon, di cui non sempre è possibile ricostruire il preciso senso. I.M. Casanowicz, Hapax Legomena, in The Jewish encyclopedia. A descriptive record of the history, religion, literature, and customs of the Jewish people from the earliest times to the present day, 12 volumes, Managing editor I. Singer, Varda Books, Skokie IL 2004, VI, 226-228, in tutta la Bibbia Ebraica ha contato 1.301 forme uniche, di cui 414 hapax in senso stretto; nel Cantico vi sarebbero 30 forme uniche, di cui 13 hapax in senso stretto (1,10: h.ărûzîm «collane»?; 1,17: rah.ît.îm (K: r ehît.îm) «soffitto»?; 2,9: h.ărakkîm «grate»?; 2,11: setāw «inverno»?; 3,9: ’appirjôn «baldacchino»?; 4,4: talpijjôt 19

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«tasselli»?; 4,14: karkôm «zafferano»?; 5,3: t.np «sporcare»?; 5,11: taltallîm «grappoli»?; 6,11: ’ĕgôz «noce»?; 7,3: sahar «rotondità»?; 7,9: sansinnîm «rami»?; 7,10: dôbēb «gocciolante»?). 28  6Q6 ha conservato due colonne (I: 1,1-6; II: 1,6-7). 4Q106-108 hanno 3,7-8. 29  Cf M.D. Goulder, The song of fourteen songs (Journal for the Study of the Old Testament, Supplement Series 36), Sheffield Academic Press, Sheffield 1986, 11, che cita a sostegno 1 Re 8,27. 30  R.E. Murphy, The Song of Songs, 120. 31  Cf già E.F.K. Rosenmüller, Scholia in Vetus Testamentum. Pars 9: Salomonis scripta continentis, Volumen II, Leipzig 1830. 32  F. Delitzsch, Commentary on the Old Testament, VI, 498. 33  Chi sono le b enôt j erûšālaim, le «figlie di Gerusalemme» (288× nella Bibbia Ebraica)? Dal Cantico, possiamo dedurre queste caratteristiche e relazioni: a) si rivolge a loro la ragazza protagonista: in Ct 1,5, mentre parla di se stessa; in Ct 5,16, dopo aver descritto il suo amato pastore; e quattro altre volte nelle cosiddette entrate (2,7; 3,5; 5,8; 8,4); b) sono ricordate una volta nella descrizione della ’appirjôn di Salomone (Ct 3,10); c) con l’assoluto bānôt in paragone una volta con la protagonista (Ct 2,2) e una volta con le regine e le concubine (Ct 6,9); d) in un passaggio, la ragazza si rivolge a loro chiamandole b enôt s.ijjôn alla fine del corteo con lo ’appirjôn di Salomone (Ct 3,11). La soluzione migliore sarebbe di identificarle con un gruppo ben preciso, vicino alla protagonista. Stando a Ct 6,8-9, si dovrebbe pensare all’harem di Salomone. 34  I traduttori normalmente fanno derivare jiššāqēnî da nāšaq «baciare». La cosa non è impossibile e nel contesto sembra andare bene. L’Hi. di šqh, che sarebbe quindi da vocalizzare jašqēnî «mi dia da bere», è stato proposto la prima volta da R. Gordis, The Song of Songs and Lamentations. A study, modern translation, and commentary, Ktav Publishing House, New York 1954, 19742, 78; poeticamente è più bello. La paronomasia tra le due radici è sviluppata in modo particolare da Ct 8,1-2 e potrebbe essere anticipata anche qui (si ricordi anche l’incontro di Giacobbe con Rachele, in Gn 29). Vi sono ulteriori argomenti a favore di questa scelta. Mai nāšaq è costruito con min, come nel presente versetto; di contro, l’Hi. di šqh per 4× è costruito con min. Mai nella Bibbia Ebraica c’è il sintagma «baciare con baci della bocca [di X]»; e, a questo proposito, si deve mettere in evidenza la diversa semiotica del bacio nella società antica rispetto alla nostra. Interessante quanto dice K.M. Beyse, nāšaq, in ThWAT, V,678 (tr. it.: GLAT, V, 1123): «Del bacio quale segno dei rapporti di amore tra uomo e donna si parla raramente nell’AT; in senso positivo soltanto in Ct 1,2; 8,1, mentre Pro 7,13 annovera il bacio tra le arti seduttrici della donna adultera». Bisognerebbe poi tener presenti le forme di bacio: Ibn Ezra coglieva nella costruzione di nāšaq una diversa sfumatura: «con l’accusativo significa baciare qualcuno sulla bocca, mentre con il dativo s’intende baciare la mano, la spalla o la guancia». 35  Per la seconda riga del v. 3, 6Q6 ha šmnjm t.wbjm mr «profumi eccellenti di mirra», ma la variazione sembra dovuta a una lectio facilior della crux interpretum che è šemen tûraq. La forma verbale tûraq potrebbe essere Ho. 2ª maschile o 3ª femminile singolare. Dal momento però che il soggetto dovrebbe essere «olio» oppure «nome» (paronomasia dei due vocaboli come in Qoh 7,1), entrambi maschili,

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Note

il problema si fa spinoso. Alcuni hanno pensato a un genere di profumo “Turaq”; ma, se questo risolve la concordanza, introduce un problema ancora più spinoso circa la documentazione di quel genere di profumo… (M.D. Goulder lo fa derivare dalla radice jrq «essere giallo o verde [come l’oro]»). Altri cercano giustificazioni varie, del tipo che in Cantico ci sarebbero «fluttuazioni di genere»… La soluzione migliore parte dal significato di šemen «olio»: «Olio (nell’AT šmn o anche js.hr) era uno dei più necessari mezzi di sostentamento […] che significavano la benedizione divina […] era usato per ungere corpo e capelli, come mezzo curativo, per alimentare le lampade, in ambito cultuale, per l’unzione di re e di sacerdoti […] Olio era visto come un simbolo di onore, gioia, favore, vigore e fertilità […] simbolo di ricchezza» (ThWAT VIII, 251ss). I testi di Gb 29,6; Gdc 3,29; Os 2,7; Pro 27,15. 16; spingono a dare al lessema valore metaforico. Il senso del versetto allora sarebbe: «olio che ti versi / sarai versato», con valore metaforico, riferito ad abbondanza e ricchezza, ma anche alla fertilità e alla capacità maschile di produrre seme. 36  La terza riga del v. 3 è quindi la conseguenza di quanto esposto prima. Lasciamo a parte la discussione fuorviante della ‘almāh di Is 7,14 per identificare le ‘ălāmôt di Ct 1,3. Molto interessanti le osservazioni di Ch. Dohmen, ‘almāh, in ThWAT, VI,175s (tr. it.: GLAT, VI,803): «Tra i passi con il pl. di ‘almāh risalta soprattutto Cant. 6,8, perché la terna che s’incontra in questo versetto, melākôt, pîlagšîm e ‘ălāmôt, fa capire chiaramente che la parola ‘almāh ha qui un valore semantico molto specifico, altrimenti l’associazione dei termini avrebbe poco senso. È tuttavia dubbio che insieme a regine e concubine si menzionino le schiave […], poiché il contesto del passo suggerisce che con la terna si vogliano indicare donne di diversa condizione giuridica appartenenti all’harem del re. Allora i termini indicheranno le regine, cioè le mogli in senso proprio, le concubine e probabilmente un gruppo di donne o principesse straniere che finivano nell’harem di ogni re orientale per via dei rapporti diplomatici (cfr. W. Röllig, RLA iv,282-287), come ben sa lo stesso A.T. che ne parla chiaramente a proposito del re Salomone (cfr. 1 Reg. 11; ma qui solo nāšîm). Salta tuttavia all’occhio che le ‘ălāmôt sono più numerose degli altri gruppi (“senza numero”). Il secondo passo (Cant. 1,3) fornisce informazioni più modeste […] e non è possibile stabilire con sicurezza se anche qui si tratti di un gruppo particolare di donne, oppure se esse siano semplicemente “comparse anonime” che compongono un topos letterario. Nel singolo caso non è possibile stabilire con esattezza l’accezione in cui il termine ‘almāh è di volta in volta usato, e ciò vale parimenti per Ps. 68,26, dove si parla di ‘ălāmôt tôfēfôt. È possibile che qui ‘almāh sia usato nel senso di “ragazza”, ma forse anche in questo passo il termine si riferisce a straniere». I versetti iniziali non si riferiscono ancora alla protagonista femminile del Cantico, che è dipinta più avanti come una custode di vigne (Ct 1,5ss) e il suo amato come un pastore di pecore e capre (Ct 1,7). Per ora, si è nello spazio dell’harem regale: il problema, che rimane aperto, è la spiegazione di come quella ragazza ci sia finita dentro. 37  La prima riga è problematica per la sticometria: molto dipende dall’attribuzione delle parole all’uno o all’altro dei personaggi. Nella Bibbia Ebraica, altri cinque passi usano la preposizione ’ah.ărê con un verbo di movimento: Gb 21,33; Ger 2,25; 48,2; Is 45,14; 1 Sam 25,19. Il testo più interessante è Gb 21,33, in cui la preposizione è costruita con il verbo māšak, anche se la preposizione è posta prima e non dopo. A mio parere, la posizione è ambigua. Tuttavia è importante non lasciarsi traviare da interpretazioni che hanno già deciso a quale personaggio attribuire la

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Note

frase. Il plurale non si può riferire ai due amanti protagonisti, perché non sono ancora stati presentati; lo saranno soltanto in Ct 1,5 e 1,7: non è la “lei” amante che parla del suo amato e si riferisce a “lui” come se fosse un re: Ct 1,3 parla delle ‘ălāmôt e qui siamo ancora nell’harem di Salomone. Se presupponiamo, al contrario, che Ct 1,2-4 sia una lirica introduttiva, a modo di un coro d’ingresso, si può benissimo spiegare lo shift dal singolare al plurale, con il fatto che stanno parlando del re Salomone le “ragazze” dell’harem e tutte hanno il medesimo desiderio: quello di entrare nella camera del re. Il coortativo ’ah.ărèkā nārûs.āh esprime il desiderio di tutto il gruppo delle donne dell’harem. E dunque ah.ărèkā potrebbe avere una duplice funzione sia in rapporto al verbo māšak sia in rapporto al verbo nārûs.āh; la posizione di mezzo, ambivalente, permette di collegarlo a tutt’e due i verbi. 38  Anche la seconda riga del versetto mostra una certa ambiguità (cf le molte traduzioni). Tre ordini di problemi: il tempo verbale; il plurale/singolare dell’oggetto; l’identificazione del soggetto. 1) Si potrebbe interpretare come perfetto di fiducia o perfetto profetico. Attenzione però alla forma Hi. con valore causativo o permissivo: la cosa si chiarisce se la situazione presupposta è quella dell’harem del re, e si chiarisce in concomitanza con h.dr (plurale) e con soggetto il re. 2) Il plurale dei luoghi di abitazione non fa problema in ebraico, soprattutto quando si tratta di palazzi ufficiali, come quello del re: per questo è tradotto correttamente al singolare da Lxx, VL e Syr. 3) ham-melek: attenzione a chiarire bene chi sono i soggetti in scena in questo momento. Essendo nell’harem, non vi sono difficoltà nell’identificare il re (cf la situazione descritta, in altro contesto, da Ester 2,12ss); il re non può che essere Salomone, evidentemente il “personaggio” Salomone. 39  šāh.ôr significa «nero» oppure «scuro», soprattutto se è un attributo della pelle o dei capelli. Il secondo aggettivo nā’weh deriva dalla radice ’wh «desiderare» (cf L. Köhler - W. Baumgartner, The Hebrew and Aramaic Lexicon of the Old Testament, Volumes 1-4 combined in one electronic edition, Subsequently revised by W. Baumgartner - J.J. Stamm, With assistance from Z. Ben-Hayyim B. Hartmann - E.Y. Kutscher - Ph.H. Reymond, Translated and edited under the supervision of M.E.J. Richardson, E.J. Brill, Leiden 2000 = KB, 621); meglio lasciare il significato di «bello» a jāpeh. Secondo D. Lys, Le plus beau chant de la création. Commentaire du Cantique des Cantiques (Lectio Divina 51), Les Éditions du Cerf, Paris 1968, 71, in Sal 45,12; Ger 2,24 e Pro 19,22, nā’weh avrebbe una sfumatura sessuale, non negli altri 58× passi della Bibbia Ebraica; ma l’affermazione è molto dubbia. I due attributi sono uniti da un waw, cui va dato un valore avversativo. Chi sta parlando ora è la protagonista femminile: si può dedurre che tutti i passi con ’ănî sono da attribuire alla ragazza protagonista (Ct 1,5. 6; 2,1. 16; 5,2. 5. 6. 8; 6,3; 7,11; 8,10). È un ottimo indizio per distribuire le parti. 40  e k ’ohŏlê qēdār kîrî’ôt š elōmōh: è un’espressione parallela, ma potrebbe essere un parallelo sinonimico o antitetico dal punto di vista semantico. Il problema maggiore è come tradurre kîrî’ôt. Molti commentatori, in base al significato normalmente attribuito a questo vocabolo, propongono di vocalizzare šlmh come šalmāh, in parallelo con qēdār che già di per sé evoca qualcosa di nero o di scuro. Non c’è ragione sufficiente per questo cambio. I due paragoni sono quindi in parallelo, ma non sinonimico: le tende dei beduini sono nere, e ciò spiegano l’attributo della «negritudine»; mentre i drappi di Salomone sono «ammirevoli» e spiegano l’attributo della «attrazione».

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Note

Il verbo šāzap è ben commentato da F. Delitzsch (VI,516s). Egli interpreta il diminutivo precedente come un essere «nero qua e là a chiazze». I Lxx hanno tradotto il verbo con παρέβλεψέ (Simmaco: παρανέβλεψέ) με ὁ ἥλιος «il sole mi ha guardato di traverso»: e perché mai «di traverso»? Piuttosto, è lo sguardo pensato come una sorgente che brucia l’oggetto guardato. Da qui la versione di Aquila: συνέκαυσέ με «mi ha bruciata»; o Teodozione: περιέφρυξέ με «mi ha abbrustolita». Mi sembra fuori luogo la spiegazione di G. Garbini, Cantico dei cantici. Testo, traduzione, note e commento (Biblica. Testi e Studi 2), Paideia Editrice, Brescia 1992, 184s, il quale, per trovare un ulteriore parallelo con Teocrito, cerca un’etimologia – per me impossibile – dall’ebraico tardivo zjp «miele» e quindi la voce šĕzāpatnî sarebbe da tradurre «mi ha fatto di miele». In realtà, mi sembra più il passo di Teocrito (X,26-27) a condizionare l’interpretazione scelta. Non sarebbe impossibile lasciare lo stesso significato del verbo attestato anche in Gb 3,9 e 41,10: la metafora sarebbe quella dei raggi di sole che traguardano la fanciulla (e l’abbronzano), come ben raffigurato nell’iconografia amarniana. 42  nīh.ărû-bî Ni. da h.rh. Altri, invece, in modo a mio parere meno convincente, lo considerano un Pi. da nh.r (cf anche KB, 351). Il Ni. di h.rh (cf Is 41,11; 45,24; 45,16?), con valore intransitivo, indica che i fratelli si sono arrabbiati tra di loro a riguardo della o contro la ragazza. Per ora non si dice altro: ma l’episodio, che è uno dei punti nevralgici per comprendere l’intera vicenda, sarà ripreso e chiarito in Ct 8,8ss. 43  karmî šellî lō’ nāt.ārtî: l’enfatico karmî šellî ha fatto pensare ad allusioni sessuali. M.H. Pope, Song of Songs. A new translation with introduction and commentary (The Anchor Bible 7C), Doubleday and Co., Garden City NY 1977, 324, ricorda che l’espressione pî hakkerem in ebraico moderno significa «grembo». Per la precisione: «The neo-Hebrew term pî hakkerem, “mouth of the vineyard”, as a designation of the navel suggests that the “vineyard” itself is nearby». Il problema però è che non vi è alcuna attestazione che parli di kerem in riferimento ai genitali o simili, a meno che si tratti di una svista: keres infatti è lo stomaco, la pancia. Si veda M. Jastrow, Dictionary of the Targumim, the Talmud Babli and Yerushalmi, and the Midrashic literature, Judaica Treasury, New York NY 1971, 20042. Il sintagma enfatico karmî šellî sarà ripreso proprio in Ct 8,12 dal pastore amato, in opposizione a Salomone che possiede un harem di donne: così i due passi formano l’inclusione fondamentale del Cantico. C’è inoltre un particolare grammaticale da non trascurare, per valutare l’allusione erotica o il senso letterale di «vigna». Nel Cantico, kerem ha valore letterale, se è usato al plurale, e metaforico, se invece è al singolare: 1,6:   le vigne (lett.); la mia vigna (fig.); 2,15:   le vigne (lett.); nostre vigne (fig.: = la vigna di lei e la vigna dell’amato); 7,13:   le vigne (lett.); 8,11:   Salomone possiede una vigna (fig.) e ha dato la vigna (fig.) ai guardiani; 8,12:   la mia vigna (fig.). Anche questo è un ottimo indizio per decidere su alcune vocalizzazioni dubbie, come in Ct 1,14 (nota seguente). 44  Est 2,8-14 offre alcuni particolari interessanti circa la preparazione nell’harem in vista del primo incontro con il re. Si vedano per questo M.T. Roth, Law collections from Mesopotamia and Asia Minor (Writings from the Ancient World 6), Scholars Press, Atlanta GA 1995, e E.F. Weidner, Hof- und Harem-Erlasse assyrischer 41

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Note

Könige aus dem 2. Jahrtausend v. Chr., «Archiv für Orientforschung» 17 (1954-1956) 257-293. 45  Le discussioni sono concentrate su questi problemi: il lessema l esūsātî (cf la lettura dei Lxx e di Vg); il plurale rikebê (hapax) e la sua incongruenza numerica con l esūsātî; il Pi. di dmh. 1) Per capire il problema, bisogna anzitutto guardare a ciò che capitava in Egitto (M.V. Fox, The Song of Songs, 105), in quanto non vi sono solo i carri da guerra, ma anche quelli delle manifestazioni pubbliche in tempo di pace. E più che considerare l’effetto di una cavalla in mezzo agli stalloni da guerra, bisogna guardare alla bellezza delle bardature che la cavalla poteva portare in tempo di pace. Il rimando iconografico è a W. Decker - M. Herb, Bildatlas zum Sport im alten Ägypten. Corpus der bildlichen Quellen zu Leibesübungen, Spiel, Jagd, Tanz und verwandten Themen, 2 Teile (Handbuch der Orientalistik – Handbook of Oriental Studies. Erste Abteilung: Der Nahe und Mittlere Osten – Section 1: The Near and Middle East 14,1-2), Brill Academic Publishers, Boston-Leiden 1994, tavola CXI; vol. I, 56: si tratta di illustrazioni degli splendidi collari, che sono messi sulla nuca dei cavalli (cf i vv. 10-11 subito di seguito); ANEP, 60, n. 190; O. Keel, Das Hohelied, 60. 62s. 66. Il femminile sūsātî – hapax nella Bibbia Ebraica – è spiegato dalla relazione di paragone con la ragazza, che viene protratto nei versetti seguenti: un maschile non sarebbe stato adatto. Il suffisso in jod potrebbe essere spiegato: a) pronome possessivo di 1ª persona; b) un h.ireq compaginis (già Delitzsch) (cf Lam 1,1 śārātî bam-medînôt «principessa tra le provincie»). 2) Quanto al secondo problema, il plurale di rkb: l’uso del plurale (hapax) vuole evitare di dare l’impressione che si tratti della cavalla del carro del faraone. Invece l’espressione indica «una cavalla tra i carri di faraone» (h.ireq compaginis). La citazione di Teocrito, Idyl. 18,29-31 (già in Delitzsch) non deve depistare o far supporre che si tratti di dipendenza dal poeta ellenistico, come vorrebbe G. Garbini (Cantico dei cantici, 191). 3) Il verbo dmh occorre 5× in Cantico (2,9. 17; 7,8; 8,14), ma solo in questo passo è in forma piel. I dizionari non danno un particolare significato per il piel, tuttavia B.K. Waltke - M.P. O’Connor, An Introduction to Biblical Hebrew Syntax, Eisenbrauns, Winona Lake IN 1990, 399s, § 24.1h, lo definiscono un fattitivo psicologico-linguistico (si veda anche JM, §139f ). I seguenti vv. 10-11 sono infatti la descrizione di tale fattitivo. 46  Il titolo ra‘jātî non ha necessariamente una connotazione amorosa. In questo versetto, però, non può essere l’innamorato a parlare, perché egli non è nell’harem insieme alla sua amata. ra‘jātî occorre 6× nel Cantico (Ct 1,9. 15; 2,2; 4,1. 7; 6,4) senza apposizione e 3× (Ct 2,10. 13; 5,2) in combinazione con altri titoli. Tale distinzione non è casuale: quando è senza alcuna apposizione, il titolo non ha connotazione amorosa, tanto da essere utilizzato dall’inserviente (Ct 1,9. 15 e 2,2); quando invece vi sono altre specificazioni, si tratta dell’indirizzo del pastore amato per la sua ragazza. 47  māsēb è un hapax. Traduzioni e interpretazioni sono molto divergenti tra i commentatori moderni. Quanto al senso: «letto, lettino (da triclinio), sofa» (cf M.H. Pope, Song of Songs, 347; M. Jastrow, Dictionary, 803), spazio chiuso (D. Lys, Le plus beau chant, 62), «tavola» (F. Delitzsch, VI,36: la circonferenza della tavola). Pope gli attribuisce una connotazione sessuale; ugualmente M.V. Fox, The Song of Songs, 105. In questa linea è anche G. Garbini, Cantico dei cantici, 38: «L’insistenza del testo sui profumi (nardo, mirra, cipro) fa sospettare che l’impossibile msb possa essere stato in origine bsm, cioè bšm (la pronuncia è la stessa) “balsamo” e il

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Note

Cantico stesso, in 5,1, ci dice chiaramente cosa indicava, in certi contesti, questa parola». J.M. Dentzer, Le motif du banquet couché dans le Proche-Orient et le monde grec du VII e au IV e siècle avant J.-C., École Française de Rome – Diffusion De Boccard, Rome-Paris 1982, 51ss, ha offerto nuovi argomenti per approfondire l’intuizione di Delitzsch, corretta però nel senso di «cuscino rotondo o tappeto» che sta attorno a un tavolo. 48  nērd deriva dall’indo-iraniano narda, forse dal sanscrito nalada, poi passato al persiano nārdīn, all’accadico lardu (AHw, 538b) e all’aramaico nardā’ (cf KB, 723). Si tratta di un profumo molto costoso, con proprietà afrodisiache (cf anche 4,13 e 14). Per curiosità, in Wikipedia ho trovato questa stima di valore: «33 decilitri di olio di nardo costavano circa 300 denari nell’anno 33 dopo Cristo, cifra con la quale si poteva comprare 10 schiavi e si dice corrispondente a più di un anno di stipendio; oggi (2005), dopo 2000 anni, il prezzo è diminuito di circa 10 volte e comunque 33 dl. di spikenard oil, oggi costano circa 940 euro. Si può concludere che 33 dl. di olio di nardo, 3400 anni fa, al tempo di Tutankhamen, costassero approssimativamente una cifra compresa come minimo fra 9400 euro e come massimo 51700 euro (Olio di nardo, in Wikipedia. L’enciclopedia libera. 17 mar 2008, 16:54 UTC. 2 mag 2008, 09:42 http://it.wikipedia.org /w/index.php?title = Olio_ di_nardo&oldid = 14821490). Perché si ha nirdî con il pronome possessivo? Qualcuno vorrebbe trovarvi un valore metaforico, nemmeno troppo equivoco (cf già Ibn Ezra). È importante ricordare che i profumi sono presenti in contesti erotici, e in particolare quando è in gioco un amore da re (cf Sal 45,9; Est 2,9. 12). Un tale profumo, così costoso, non può appartenere alla ragazza protagonista e nemmeno al suo innamorato! Si deve dunque ipotizzare che questa frase sia pronunciata dall’inserviente o da una damigella dell’harem. Il senso della frase sarebbe allora che il lavoro di preparazione dell’inserviente per la ragazza, con la costosa profumazione, durerà per tutto l’incontro con il re. 49  Qui parla la ragazza, opponendo al ricco profumo di nardo, un povero sacchetto di mirra e di un grappolo di henné. dôdî occorre 53× nella Bibbia Ebraica e 34× con il significato di «amato», di cui una volta in Is 5,1 e 33× in Ct: 26× con il suffisso di 1ª persona singolare (sulla bocca della protagonista: Ct 1,13s. 16; 2,3. 8ss. 16s; 4,16; 5,2. 4ss. 8. 10. 16; 6,2s; 7,10ss. 14; 8,14) e 7× con il pronome di 2ª o 3ª persona singolare (sulla bocca di terzi: Ct 5,9[4×]; 6,1[2×]; 8,5). I commentatori lo prendono normalmente come un termine di affetto con carica erotica. Il titolo sta in parallelo con «il re» del v. 12; e allora anche bên šādaj deve essere in parallelo con bīmesibbô. Quanto al duale šādajim, in Cantico (1,13; 4,5; 7,4. 8. 9; 8,1. 8, 10) ha sempre significato di «seno, petto» e la protagonista ne parla direttamente qui e in Ct 8,10. 50  Illustrazione in O. Keel, Das Hohelied, 68. La mirra è menzionata 12× nella Bibbia Ebraica: in Es 30,23ss, come ingrediente dell’olio di consacrazione; in Sal 45,9, profumo regale; in Pr 7,17 per il letto della donna seduttrice; in Est 2,12, come uno dei prodotti cosmetici dell’harem. Le altre 8× sono tutte nel Cantico (1,13; 3,6; 4,6. 14; 5,1. 5. 5. 13). A differenza del nardo, è un prodotto indigeno della terra d’Israele. Il resto del v. 13 non fa discutere, tuttavia rimane il problema di chi sia il soggetto del verbo jālîn: impersonale (O. Keel, Das Hohelied, 68) oppure da collegare al dôdî. Le stesse parole saranno riprese dall’evocazione dell’amato in Ct 2,10. 13.

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Note

’eškōl «grappolo» o anche «mazzo, cespo» (KB, 92; M. Jastrow, Dictionary, 128) va bene pensando ai fiori di kōper che formano una pannocchia spessa come un grappolo di acini (cf Ct 4,13 e 7,12). Il cipro o henné (Lawsonia inermis) è un arbusto spinoso della famiglia delle Lythracee, che può raggiungere anche i 3 metri di altezza e cresce anche in terra d’Israele, almeno le specie più basse. Nell’Antico Egitto era chiamato ‘ankh jimi «vita di dentro». È proprio per questo effetto rigenerante che si sono trovati spesso, nelle piramidi, sacchetti di lino contenenti il cipro. Evidentemente, come la mirra, era un profumo più popolare e meno costoso del nardo. Il suo legame con la fecondità e con i rapporti sessuali è già attestato a Ugarit (KTU, 1.3:ii:2-3: kpr šb’ bnt / rh. gdm wanhbm «henné per sette ragazze, profumo di coriandolo e di murex»). 52  Lett. «occhio della mia capretta». È un buon passo per apprezzare il carattere finemente erotico del Cantico, con sensibilità opposta alla contemporanea. Nella sorprendente oasi di En-Ghedi, ricordata anche in Gs 15,62; 1 Sam 23,29; 24,1ss; Ez 47,10, non vi sono vigneti e difficilmente ve ne possono essere stati nel periodo storico (cf però O. Keel, Das Hohelied, 70). Ma non vi è bisogno di alterare il testo con congetture. Nei vv. 13-14 si ha la reazione della protagonista femminile a quanto è stato detto prima. Il confronto ha luogo nell’immaginazione della ragazza che confessa così il suo amore per il suo pastore: dôdî è ripetuto 2× in opposizione al re del v. 12; i poco costosi sacchetti di mirra e henné si oppongono al nardo costoso ed esotico dell’harem; «fra i miei seni» e «nella mia vigna» si oppongono al «suo cuscino»; il «passare la notte» si oppone all’esserci del re. E dunque: a) Per bkrmj si può pensare a una vocalizzazione al singolare bekarmî «nella mia vigna». L’allusione erotica è più che evidente (cf 4,12-15 e Pr 5,15ss); avendo un valore metaforico, sarebbe meglio vocalizzare al singolare (cf quanto detto alla nota 46). b) ’jn gdj : la difficoltà segnalata può essere risolta attribuendo all’espressione un valore metaforico, un po’ insolito per la nostra sensibilità, ma con il vantaggio di non introdurre congetture testuali, che dal punto di vista metodologico sono sempre da escludere, quando toccano il testo consonantico. Già nel v. 13 si è parlato di seno e nel v. 8, sebbene in una frase provocatoria delle donne dell’harem, si era usata l’immagine delle g edîjōt «caprette» per alludere al seno. La metafora «occhio della capretta» starebbe quindi per «capezzolo della [mia] mammella». La preposizione b e non è necessaria, in quanto è già espressa in b ekarmî (double duty modifier). Anche gedî potrebbe essere pensato con o senza il suffisso di 1ª persona singolare. 53  I due verbi tā’îrû t e’ôrerû derivano dalla stessa radice ‘wr. Ma il problema interpretativo fondamentale riguarda la connessione sintattica tra il verbo principale della prima riga (hišba’tî) e questi due verbi della terza riga: ’im-tā’îrû we’im-te’ôrerû . Se si tratta di un giuramento, la struttura della frase di giuramento in ebraico dà ai due verbi valore negativo («di non»; cf JM = P. Joüon, A grammar of Biblical Hebrew. Volume I: Part One: Orthography and Phonetics; Part Two: Morphology; Volume II: Part Three: Syntax; Paradigms and Indices, Reprint of first edition, with corrections, Translated and revised by T. Muraoka [Subsidia Biblica 14/I-II], Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 19911, 4ª ristampa: 2003, §165; GK = H.F.W. Gesenius, Gesenius’ Hebrew grammar, Second English edition, as edited and enlarged by the late E. Kautzsch, revised in accordance with the 28th German edition (1909) by A.E. Cowley, With a facsimile of the Siloam inscription by J. Euting, and a table of alphabets by M. Lidzbarski, Clarendon Press, Oxford 19102, 18ª ristampa: 51

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Note

1980, §149): così infatti traducono quasi tutti i moderni e Vulgata. Dopo molta incertezza, ho scartato la soluzione di P.W.Th. Stoop van Paridon, The Song of Songs, 112-115, che presuppone tra la prima parte del versetto e la seconda una aposiopesi (ἀποσιώπησις: cf Quintiliano, Inst 9. 2. 54; Demetrio Falero, Eloc. 103, 264; Plutarco, II, 1009e, Ermogene, Id. 2,7), ovvero l’interruzione di una frase con un brusco silenzio, seguito da un anacoluto. 54  La posizione di ’et–hā’ahăbāh è strategica, all’inizio della seconda parte del versetto: oggetto dei due verbi precedenti, ma anche soggetto della frase temporale seguente, i.e. ‘ad šet-teh.pās. . Il sostantivo ’ahăbāh può avere un significato astratto oppure concreto: nel Cantico occorre per 11×, 6× senza articolo (Ct 2,4. 5; 3,10; 5,8; 7,7; 8,6) e 5× con l’articolo (Ct 2,7; 3,5; 8,4; 8,7[×]). Si potrebbe ricordare la regola di JM §137j (cf GK §126,1. 3), secondo cui i nomi astratti possono essere assunti con senso particolare, e così avere l’articolo; vi sono però delle eccezioni a questa generalizzazione. Quando ’ahăbāh è senz’articolo, ha delle implicanze concrete: il caso più evidente è proprio Ct 3,10 e 7,7, in cui ha un significato essenzialmente erotico-sessuale. In Ct 2,4 e 2,5 (= Ct 5,8), la ragazza protagonista lo usa in relazione al suo amato pastore. È evidente che qui la connotazione eroticosessuale va molto bene, anche se si potrebbe pure dare una connotazione di astrattezza: la ragazza si trova nell’harem e sta per prepararsi a incontrare il re. Tale preparazione è anzitutto di ordine fisico, ma anche psicologico, al fine di risvegliare in lei desiderio per quanto accadrà. Ma la ragazza arde già di un altro amore, che però non è lì, e in ogni modo non è il re Salomone. Da questo punto di vista, l’invito rivolto dalla ragazza alle donne dell’harem si capisce bene: smettete di eccitare l’amore, dal momento che ho già vivo in me un altro desiderio d’amore. Perciò, sarebbe meglio tradurre la congiunzione ‘ad še- con una congiunzione che in italiano esprima anche durata («finché non», «quando… già»). 55  La transizione, segnata dal v. 8, è molto importante e non va smussata, per non perdere la struttura del dramma. In un certo senso, il qôl dôdî iniziale funge da titolo e tale va lasciato per capire quanto segue. Si potrebbe tradurre anche con un imperativo: «Ascoltate!» (cf JM §162e: «Il sostantivo qôl “voce”, “suono” seguito da un genitivo è abbastanza spesso usato come esclamativo… e potrebbe essere tradotto da Odo…, Ascolta!, a seconda dei casi»). 56  Come in Ct 5,2, anche qui jônātî è usato nell’indirizzo, e come in Ct 6,9 quale apprezzamento, ma sempre dal pastore verso la sua amata. Le varianti di 4Q107 sono minime: merita di essere ricordata almeno la sostituzione di ’et-qôlēk con tšm’k, forse un cambio stilistico per evitare la ripetizione di qwlk. I due complementi seguenti b eh.agwê has-sela’ e b esēter ham-madrēgāh si possono spiegare come l’ambientazione naturale della colomba (un motivo molto frequente nelle liriche d’amore egizie); o come la situazione particolare in cui viene a trovarsi la ragazza nell’harem. È da sottolineare la perfetta sovrapposizione delle due situazioni. Si noti infine il perfetto chiasmo del versetto: viso – voce – voce – viso. L’unica possibile ambiguità sta nel modo di tradurre l’aggettivo ‘ārēb «soave, amabile» (cf KB, 879). 57  Troppe volte l’incipit di questo versetto è stato interpretato come il ritornello della reciproca appartenenza: dôdî lî wa’ănî lô hā-rō’eh baš-šôšannîm (cf R.E. Murphy, The Song of Songs, 139). L’effetto di concentrare tutta l’attenzione sul pastore amato dalla ragazza sarà ripetuto anche in Ct 6,3 e 7,11. Questo è davvero il centro della confessione d’amore che la protagonista fa davanti al pubblico, per chiarire a chi ella stia donando il suo cuore. Vi potrebbe essere un duplice valore

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Note

del verbo r’h: quello transitivo («lui che pascola il gregge») oppure quello intransitivo («lui che pascola»). Ma cosa vorrebbe dire «pascolare tra i šôšannîm»? E i šôšannîm sono oggetto del «pascolare» o luogo in cui si pascola? M.H. Pope trova una costruzione rā’āh be solo presupponendo un parallelo con ’ākal be (Es 12,43), ma è un po’ troppo poco. Bisogna presupporre che l’oggetto della frase sia sottaciuto e sia il più normale «gregge». 58  Si tratta di un giorno al tramonto, non del declino della notte. Lo scenario non va dimenticato per tradurre correttamente: brezza del tramonto e ombre che fuggono. I due imperativi (sōb e d emēh) fanno supporre che si sia ancora durante il giorno. ‘ad šej-jāpû ah. haj-jôm (cf anche Ct 4,6): si potrebbe intendere come una brachilogia, equivalente a «finché soffia la brezza del giorno» (cf Gn 3,8). Tuttavia non è impossibile anche questa immagine, poeticamente più efficace. Nonostante sia hapax, il sintagma di nûs con s.ēl rimane possibile e non è necessario cambiarlo con altre congetture (normalmente con nt.h «si distendono»). 4Q107 ha ht.lljm invece del TM hs.lljm, ma si può interpretare come una correzione aramaizzante (anche nella riga successiva invece del TM hrj 4Q107 ha hrrj, che però si trova anche in Ct 4,8; non vi è alcuna differenza semantica tra le due forme). L’imperativo sōb «gira attorno» non ha valore direttamente erotico, ma si addice bene nel contesto: la ragazza invita il suo amato a non stancarsi di «girare attorno» alla casa dell’harem, così che lo possa continuare a vedere tra le grate. ‘al-hārê bāter ha generato non poche varianti nelle traduzioni e nelle interpretazioni. A me sembra che l’autore non abbia bisogno di allusioni strane per indicare delle parti del corpo della ragazza; quando vuole, la fa parlare senza veli e sottintesi (cf Ct 1,13-14). Il paragone dell’amato con capriolo e cerbiatto ci riporta alla situazione di Ct 2,8-9 e vuole sottolineare l’agilità e la freschezza di questo incontro desiderato, ma impossibile – almeno per ora (cf KB, 167). Per questa ragione, si potrebbe lasciare a beter il senso proprio, attestato anche in Gn 15,10 e Gr 34,18s, con due soluzioni possibili: monti della separazione o della divisione (e si alluderebbe alla situazione dei due amanti, costretti a rimanere divisi l’uno dall’altro); monti dei dirupi (cf Lxx), e si alluderebbe all’agilità dei due animali ricordati nel saper superare ogni tipo di ostacolo. Non è escluso che si possa trattare di un toponimo (si veda la Vg): tuttavia la considero un’ipotesi meno plausibile, vista la memoria precisa dei toponimi della terra d’Israele. 59  Il problema principale riguarda il significato preciso di ’appirjôn; ma non bisogna dimenticare lo scenario in cui ci troviamo, ovvero l’arrivo della processione di Salomone all’harem. La descrizione che segue non è fuori posto, ma continua quanto si è descritto sinora. M. Jastrow, Dictionary, 108, alla voce corrispondente annota: «Frame and hangings of a palanquin, litter of parade, esp. for a bride in the wedding procession» (cf anche KB, 80). Si potrebbe continuare a discutere all’infinito su ’appirjôn. Dal momento che l’oggetto è descritto di seguito, bisogna solo avere attenzione alla possibile ricostruzione, partendo dalla descrizione offerta. 60  Si è già detto che la costruzione era fatta con legname del Libano (v. 9). Quindi tutto quanto si dirà qui di seguito riguarda la copertura del legno. Si parte dalle ‘ammûdājw «colonne»: verosimilmente si tratta delle colonne portanti di una copertura a modo di tetto. Poi si passa a r epîdātô (hapax): trattandosi di un baldacchino, non si deve pensare a una spalliera, ma a qualcos’altro, come ad es. la «copertura» (come la P ešit.tā’: tešwîtēh dahbā’ «copertura dorata»; cf KB, 1278). Il merkābô è interpretato da tutti in riferimento a qualcosa per sedersi: «seggio» o simili. Ma non dobbiamo dimenticarci che si è già parlato di un divano o di un letto,

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Note

per cui sarebbe meglio riferirsi al «carro» nel suo insieme, o meglio alle pareti del «baldacchino». Infine il suo tôkô «il suo interno». Ma qui iniziano i problemi più difficili. Anzitutto, il senso di rās.ûp (si veda la discussione di KB, 1284s). Non vedo la necessità di congetturare due radici, anche perché quest’ipotesi avrebbe bisogno anche di correggere ’ahăbāh con hobnîm, «intarsiato di ebano». Preferisco mantenere il senso di rs.p II «scaldare, bruciare, ardere» e l’accusativo di relazione sarebbe appunto quell’amore che proviene dalle figlie di Gerusalemme. Il senso dell’intera espressione tôkô rās.ûp ’ahăbāh mib-b enôt j erûšālāim sarebbe: «e il suo interno ardente d’amore a causa delle figlie di Gerusalemme». Non vi è altra descrizione dell’interno, perché ciò che sta in questa carrozza è la mit.t.āh di cui si è detto sopra. 61  Tale conclusione fa capire che a parlare sono le «figlie di Gerusalemme» ovvero le donne dell’harem. Altri pensano, ad esempio, a una guardia-sentinella oppure a un gruppo di guardie-sentinelle. W. Rudolph, Das Buch Ruth, das Hohe Lied, die Klagelieder (Kommentar zum Alten Testament 17,1-3), Gütersloher Verlagshaus G. Mohn, Gütersloh 1962, 141, scrive: «Questa oscurità del testo è un segno che esso sia danneggiato e incompleto». Il giudizio dipende dal non aver compreso lo scenario in cui collocare il particolare: è l’arrivo della carovana di Salomone e l’invito è rivolto alle donne dell’harem perché si presentino davanti al re. I due imperativi questa volta sono al femminile e la scelta sembra essere dovuta a motivi di sonorità poetica: molto cupo sarebbe stato il suono al maschile (s. e’û ûr e’û). L’indirizzo è rivolto qui alle benôt s.ijjôn e non alle b enôt j erûšālāim. Diversi motivi possono spiegare la variatio: 1) ci si rivolge non più soltanto alle donne dell’harem, ma a tutte le donne di Gerusalemme; 2) dal momento che parla una guardia-sentinella, l’indirizzo potrebbe essere una variatio stilistica, indirizzata però alle medesime donne; 3) il testo di 4Q106 fa supporre che in quel testo non vi fosse bnwt s.jwn, ma ci fosse anche qui bnwt jrwšlm. In effetti, bnwt s.jwn è molto raro nella Bibbia Ebraica (Is 3,17; 4,4), mentre la forma singolare bat-s.ijjôn è utilizzata per una ventina di volte. 62  Anche la seconda parte del versetto pone problemi, vista la discordanza tra i commentari. Alcuni pensano a un’incoronazione regale che Salomone avrebbe ricevuto da sua madre Betsabea (ma nessun testo biblico racconta tale incoronazione). Per di più, l’ebraico ‘ăt.ārāh non indica la corona regale – normalmente detta nezer o keter –, ma ha un senso più generico e sarebbe un gesto che viene meno dopo il 70 d.C., in segno di lutto (cf b. Sot.a 49a, citato da L. Goldschmidt, Der babylonische Talmud, vol. VI,182-185; R. de Vaux, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1964, 19773, 43; J.F. Hirt, Commentatio de coronis apud Ebraeos nuptualibus, ad locum difficiliorem Cant. Cant. III,11, Jena 1748, 10-12). Non parliamo delle divagazioni anatomiche (corona glandis, cerchio attorno al capezzolo…). Quanto a h.ătunnātô non bisogna troppo insistere sulla sua valenza «femminile», ovvero indicherebbe il matrimonio con la particolare connotazione che lo sposo entra a far parte della famiglia della sposa. La radice h.tn in arabo è quella della circoncisione. Le due frasi con bjwm stabiliscono un tempo: b ejôm h.ătunnātô ûb ejôm śimh.at libbô ovvero il giorno del matrimonio ufficiale del re Salomone. C’è infine da notare che il termine śimh.āh occorre solo qui e in Ct 1,4, in riferimento all’amore con il re e non all’amore tra la ragazza e il suo amato pastore. 63  Per 6× è usata la preposizione k e «come». 64  Vi sono due modi possibili di vocalizzare ’tj: 1) ’ĕtî «vieni», imperativo femminile singolare dal verbo ’th (cf Lxx, Vg e Syr); 2) ’ittî «con me», come prepo-

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sizione ’ēt con suffisso di 1ª singolare (così i massoreti, seguiti da R. Gordis, F. Delitzsch…). Meno rilevanti sono altre ipotesi, come quella ricordata da A. Robert R.J. Tournay, Le Cantique des Cantiques (Études Bibliques), J. Gabalda et Cie Éditeurs, Paris 1963, 169, forma arcaica del pronome di 2ª pers. sing. femm. ’attî invece del normale ’att. Ci sono buoni argomenti per preferire la scelta delle versioni antiche, anche per la costruzione con ripetizione: verbo + complemento + vocativo + (stesso) verbo (cf anche Ct 7,1; ripetizioni di domande in 5,9 e 6,1). Certo è importante pensare a chi stia parlando in questo momento: se fosse il “lui” di un dialogo d’amore, si deve impostare il senso dell’insieme in modo coerente con il successivo tābô’î, che però, propriamente, non è un imperativo ma un jiqtol. 65  Per decidere se sia Salomone o siano le donne dell’harem a parlare, è decisivo considerare l’appellativo kallāh «sposa». Infatti questo indirizzo occorre solo in questo passo ed è diverso dall’appellativo seguente ’ăh.ōtî kallāh che dunque deve essere pronunciato da un diverso personaggio. Questa distribuzione delle parti spiegherebbe anche la diversità di tonalità dell’invito a «uscire» e della dichiarazione amorosa dei vv. 9ss. Drammaticamente, questa sosta corale è necessaria per dire all’uditore che la ragazza è stata scelta dal re e deve dunque andare da lui. 66  mil-l ebānôn. Il min ha valore separativo: «fuori da», «lontano da». Il Libano è particolarmente amato dal Cantico. Ben 7× è ricordato (Ct 3,9; 4,8 [2×]. 11. 15; 5,15; 7,5). Ma nelle 4× occorrenze della presente scena è usato senza articolo, a differenza degli altri tre passi. Come conferma GK §125d, in questi tre passi si tratterebbe della catena montuosa a neve perenne (“la bianca”). M.J. Mulder, l ebānôn, in ThWAT IV,461-471 (tr. it.: GLAT, IV,693-705), ricorda che l ebānôn può avere diversi valori semantici: tempio, santuario, re, ricchi, nazioni ostili, Sion… Anche un edificio costruito con cedri del Libano può essere chiamato Libano: «Si racconta che Salomone abbia costruito a Gerusalemme la “casa del bosco del Libano”, probabilmente una costruzione fatta completamente con legno di cedro (1 Reg. 7,1s.; 10,17.21 // 2 Chron. 9,16.20; cfr. ancora Is. 22,8; Ier. 22,23 e Nehem. 3,19), che all’inizio servì probabilmente da sala di ricevimento del re, ma venne usata più tardi come arsenale» (ThWAT, IV,464; tr. it.: GLAT, IV,697). Da qui, o da un edificio costruito con cedro del Libano, deve uscire la ragazza: a questo la invitano le altre donne dell’harem, sottolineando il fatto – non esplicitato altrove nel dramma – che su di lei è caduta la scelta del re. 67  Il problema maggiore sta nel determinare se i nomi debbano essere intesi come toponimi o no. Ora, è vero che ’ămānāh può indicare anche le montagne dell’Antilibano (in ugaritico sillabico amma[na]nu, ammanu: cf KB, 64; UT = C.H. Gordon, The Ugaritic Textbook. I. Grammar; II. Texts in transliteration, Cuneiform selections; III. Glossary, Indices, Revised reprint of third edition [Analecta Orientalia 38], Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1940, 19653, ristampa: 1998, §19.226); ma è anche vero che sarebbe l’unica occorrenza nella Bibbia Ebraica. Il dizionario di D.J.A. Clines (D.J.A. Clines et alii [ed.], The dictionary of classical Hebrew, Volume I, Sheffield Academic Press, Sheffield 1993, 318) menziona tra i significati possibili le persone incaricate di curare i bimbi del re (cf 2 Sam 4,4 [femm.] e 2 Re 10,1. 5 [masch.]): sarebbe allora il «capo degli affidatari» (√’mn), cui erano affidate le donne dell’harem. Anche ś enîr w eh.ermôn non sono da prendere come toponimi, sebbene il testo di Dt 3,9 sembri essere una prova incontrovertibile: «quelli di Sidone chiamano Sirion l’Ermon, gli Amorrei lo chiamano Senir». Infatti proprio questo testo dice che i due nomi vanno intesi ad modum unius, ma non per

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Note

leggere h.ermôn come “montagna”, bensì esattamente come harem (cf KB, 353). In altri termini, il sintagma rō’š ś enîr w eh.ermôn indica «il capo dell’harem». Leoni e leopardi possono essere intesi in senso letterale, come fa anche F. Delitzsch. Non è necessario andare a pescare un senso metaforico dal sottofondo mitologico: il senso simbolico nasce dal valore aggressivo-difensivo di questi animali (cf Gr 5,6). In questo senso, si tratterebbe di (statue di) animali, magari mezzo uomini e mezzo bestie, che proteggono l’harem regale e i domini del re nella sua città. 68

In Ct 4,8-5,1 per 4× la ragazza è detta ’ăh.ōtî kallāh (Ct 4,9. 10. 12; 5,1) e 2× kallāh (Ct 4,8. 11). Sulla bocca di Salomone starebbe solo il titolo composto ’ăh.ōtî kallāh, mentre l’unica occorrenza senza il titolo di «sorella» sarebbe proprio in Ct 4,8, usato dalle «figlie di Gerusalemme» (per Ct 4,11 si veda la nota 75). In nessun passo della Bibbia Ebraica kallāh sta con ’ăh.ōtî come equivalente di relazione amorosa. In questo senso, invece, si trova nella poesia amarniana, in cui «mia sorella» non sta solo come vezzeggiativo di tenerezza (cf O. Keel, Das Hohelied, 171s e 178). Il riferimento alla poesia d’amore sumerica ed egizia non è senza discussioni (M.V. Fox, The Song of Songs, 13, nota b). Dal momento che la traduzione letterale è piuttosto imprecisa, tradurrò questo sintagma con “sorella mia” dappertutto quando parla il ragazzo, “tua sorella” quando questi è interpellato». Senza escludere altre possibilità, il titolo di «sorella mia» sembra alludere al rapporto specifico che vi è (o vi sarà) tra il re e questa donna dell’harem, che non è né la regina, né la concubina (si ricordi la gerarchia di Ct 6,8: «sessanta sono le regine, ottanta le concubine e senza numero le ragazze»). Queste donne sono in un certo senso «spose», ma non alla pari delle prime. Non abbiamo notizie particolari a riguardo del modo con cui esse erano reclutate per l’harem del re; tuttavia è facilmente ipotizzabile una sorta di compenso che andava al padre o ai fratelli. Ciò spiegherebbe anche la vicenda del Cantico, a partire da Ct 1,6 sino al finale, quando i fratelli si confessano. Ma vi è anche un altro aspetto da approfondire. Il rapporto di questo titolo con la vicenda della moglie-sorella di Isacco (Gn 26) e di Abramo (Gn 12 e 20), un episodio raccontato per ben tre volte nei cicli patriarcali: perché questo particolare affetto? a che cosa mirava la fissazione – considerata tanto importante – di questa memoria di gruppo? 70  Per la prima volta il re Salomone si rivolge a colei che è stata scelta per l’incontro d’amore regale e parla direttamente alla ragazza con parole di seduzione (vv. 9-15). Il Pi. di lbb può avere due significati (cf KB, 515) a partire dal fondamentale senso di «toccare il cuore»: 1) privativo: «togliere cuore», «scoraggiare»; 2) intensivo: «incantare il cuore», «incoraggiare». La situazione da supporre: non è il pastore amato che pronuncia queste parole, ma il re, che si invaghisce della bellezza di questa ragazza che deve stare con lui. Il re riconosce di essersi subito innamorato di lei, di sentire che il suo cuore è stato rubato dalla sua bellezza. b e’eh.ad mē-’ênajik: attenzione a non cadere nel tranello di considerare l’espressione un solo sintagma e poi domandarsi come possa un maschile stare con il femminile (il Qere propone di leggere b e’ah.at). In realtà, b e’eh.ad va inteso in senso avverbiale: «d’un tratto», seguito da mē-’ênajik «con i tuoi occhi», sineddoche per «con i tuoi sguardi». 69

b e’ah.ad ‘ănāq mis.-s.aww erōnājik l’espressione non fa difficoltà, se considerata alla lettera. ‘ănāq è hapax al singolare, ma occorre 2× al plurale (Pro 1,9 e Gdc 8,26): il senso di «catena, catenina» s’inquadra bene nel sintagma. s.aww erōnājik va bene 71

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Note

al plurale, e non c’è bisogno di leggerlo al singolare, pensando alle collane raffigurate nell’iconografia egizia. 72  In base all’argomentazione della nota 69, il v. 11 fa difficoltà: soltanto in questo passo, Salomone chiamerebbe la ragazza kallāh senza altra attribuzione. Ma in 4Q107 si ha ’h.tj klh; anche la metrica della riga ne guadagnerebbe. È una ragione in più per far preferire la lezione di Qumran, come giustamente suggerisce P.B. Dirksen in BQ = General introduction and Megilloth (Biblia Hebraica Quinta 18), Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2004. 73  gān «giardino» occorre 5× nel presente passo di 4,8-5,1. Il parallelo gal è hapax al singolare nella Bibbia Ebraica, e propriamente ha il senso di «sorgente», in parallelo a ma’jān. La ripetizione di sostantivo e aggettivo è presupposta in tutte le versioni antiche (Lxx, Vg, Syr), di contro al TM che invece ha cambiato (seguito da F. Delitzsch, M.H. Pope, R. Gordis e altri moderni). nā’ûl «chiuso, sbarrato», in riferimento alla possibilità di chiudere l’accesso ai giardini per evitare che fossero spazzati via dall’incuria della folla. L’immagine del giardino è molto eloquente. Come si può notare la ripetizione è davvero uno stilema caratteristico del Cantico, e in particolare di questo passo: ’ĕtî mil-l ebānôn, mē-rō’š, libbabtīnî, b e’āh.ad, māh-, rê ah. , ‘îm… 74  e š lāh.ajik è hapax in questa forma: questi «succhi» si riferiscono ancora alla capacità di amare, che trasformano in un vero pardēs rimmônîm il luogo in cui si trova la ragazza. L’aggettivo rimmônîm era stato usato, al singolare, in Ct 4,3 dall’inserviente, quando parlava della guancia dietro l’acconciatura. Ora il paragone è ripreso per alludere all’atto di amore che andrà a consumarsi tra il re e questa ragazza: c’è un’indubbia sottolineatura erotico-sessuale nel presente passo, in quanto sono ricordati per la loro rara ricchezza esuberante insieme a k epārîm ‘im-nerādîm «arbusti di henné con piante colorate di rosa», ovvero piante e profumi esotici; ma non deve essere trasferita al contesto di Ct 4,3. In questi versetti vi è un’evidente insistenza sulla preposizione ‘im: 2× nel v. 13; 2× nel v. 14 e 3× nel v. 15. Quanto alla raffinatezza e alla sfarzosità dei profumi ricordati, bisogna riconoscere che essi si addicono a un re e non a un povero pastore. 75  Il plurale gannîm «giardini» ha creato qualche problema, portando a diverse congetture e persino a proposte di cancellazione. Il plurale potrebbe spiegarsi come genitivo di qualità: «una fontana da giardino» e il giudizio ora è diverso dal v. 12, perché Salomone sta pensando a cosa sarà per lui questa ragazza. Nella seconda riga, R. Gordis, The Song of Songs, 88, mette in evidenza un problema suscitato dell’interpretazione masoretica: «The Masoretic reading ma’jan gannîm makes this verse a continuation of the lover’s speech, but it then contradicts v. 12, for the beloved is here described as a “well of flowing water”, while above she is called “a sealed fountain”. It is therefore better to emend to ma’jan gannî “the fountain of my garden” (so…), so that v. 13 contains the lover’s complaint, v. 15 denial of his charge…». Le prime due righe del versetto sono strettamente parallele e descrivono con una doppia metafora la donna o la sposa (cf Pro 5,15; Qoh 12,1). Cf anche J.G. Heintz, b e’ar, in ThWAT, I,503 (tr. it.: GLAT, I,1013): «In senso sessuale, b’r è l’immagine della donna quale madre che partorisce (Lev. 20,18; Is 51,1: madreterra?) oppure quale amante e sposa (Cant. 4,15; Prov. 5,15; Eccl. 12,1)». w enōzelîm anche la congiunzione waw è importante, in quanto sottolinea che ci si riferisce ancora alla medesima acqua viva e ne specifica la provenienza, ovvero ancora la casa costruita con i cedri del Libano.

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Note

Il versetto apparentemente non pone problemi, ma i commentari tradiscono interpretazioni divergenti su chi stia parlando e di che cosa. I primi due imperativi sono rivolti ai venti del nord (s.āpôn) e del sud (têmān). Fin qui non vi sono problemi. Qualcuno sorge già nel tradurre l’Hi. hāpîqî da pwh. I «soffiare», che deve essere reso con il significato causativo, e non di semplice Qal: «fa’ respirare il mio giardino». Chi dunque sta parlando di «mio» giardino? Due sono le soluzioni normalmente proposte: 1) R.E. Murphy, The Song of Songs, 157, senza escludere che possa essere la donna a parlare, afferma che più verosimilmente sarebbe il lui che parla così della sua amata (cf Ct 5,1). Però si tenga presente che la ragazza non è con il suo amato, bensì è Salomone che sta parlando con lei. Nel v. 16 è la ragazza che prende la parola, reagendo a Salomone. 2) Già M.T. Elliott, The literary unity of the Canticle (Europäische Hochschulschriften / European University Studies / Publ. Universitaires Européennes. Reihe / Series / Série 23: Theologie / Theology / Théologie 371), Peter Lang Verlag, Bern-Frankfurt a. M.-New York NY 1989; D. Lys e P.W.Th. Stoop van Paridon hanno proposto di leggere bô’ ’el gannô invece del TM jābō’ ... l egannô, a sottolineare il fatto che l’amato (assente) deve prima arrivare al suo giardino. In altre parole, la ragazza rifiuta le avance di Salomone e, davanti a lui, dice che il «suo giardino» appartiene solo al suo amato. Ella parla per ora in modo equivoco e infatti, come si vedrà subito di seguito, Salomone non capisce la ferma presa di posizione della ragazza. L’uditore ormai sa che quando la ragazza parla di dôdî intende solo il suo amato pastore: il titolo è già risuonato in scena per 8×. 77  Il versetto è davvero curioso: 4× qatal in 1ª persona singolare, seguiti da sostantivi con suffisso sempre di 1ª persona e, in chiusura, tre imperativi alla 2ª maschile plurale, con l’invito esplicito rivolto agli «amici» (rē’îm) a mangiare, bere e inebriarsi di amore. Il problema più spinoso è quale valore verbale si debba attribuire ai 4 qatal. Il problema deve essere risolto dal contesto, in quanto il qatal permette tutte e tre le possibili soluzioni: passato, presente e futuro. D’altra parte, con Ct 5,2 inizia una nuova scena, e quindi con Ct 5,1 si chiude la scena precedente: anzi, da questo punto di vista, gli inviti rivolti agli «amici» possono rappresentare davvero un gran finale alla maniera delle nostre opere liriche. La soluzione migliore sarebbe pensare che Salomone (personaggio) abbia frainteso quanto detto dalla ragazza, interpretando le parole di lei come un invito pressante a lui rivolto per «entrare nel suo [di lei] giardino». La ragazza aveva espresso il suo anelito verso il proprio amore; Salomone, fraintendendo, comprende quelle parole come una risposta positiva al suo corteggiamento, anzi un invito a procedere immediatamente. A conferma che a parlare in Ct 5,1 sia ancora lo stesso Salomone sta l’indirizzo usato per rivolgersi alla ragazza ’ăh.ōtî kallāh «sorella mia sposa»). 78  Gli ultimi inviti di Salomone agli amici sono perspicui, per il loro valore antropologico: «mangiare» e «bere» si accompagnano alla festa d’amore che viene indetta in Ct 5,1. L’unico verbo che pone difficoltà è il terzo, w ešikrû, ma la difficoltà non sta a livello filologico, bensì interpretativo, se manca la comprensione della scena d’insieme. Se invece si capisce che a parlare è Salomone (personaggio), si deve pensare che egli non sia di certo solo a celebrare questo rituale nuziale, ma ad esso partecipino anche tutti gli amici del re. 79  G. Gerleman, Ruth. Das Hohelied (Biblischer Kommentar Altes Testament 18), Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1965, 19812, 170 e 179. 80  Che siano proprio le «figlie di Gerusalemme», ovvero le donne dell’harem, a parlare è segnalato da quell’indirizzo haj-jāpāh ban-nāšîm «o bellissima tra le donne» 76

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Note

(cf già in Ct 1,8). Si potrebbe confermare che il Cantico utilizza molto gli epiteti per chiarire l’attribuzione delle parti ai personaggi in scena. L’affermazione esprime lo stupore delle donne, perché la prescelta in un momento tanto solenne e unico – finalmente è stata scelta per andare dal re! – continui a rimanere insistentemente legata al ricordo e al desiderio del suo amato. La domanda è ripetuta due volte: mah-dôdēk mid-dôd «che ha mai il tuo amato come amante?». La difficoltà sta nel corretto significato di min, comparativo o distintivo. P. Joüon, Le Cantique des Cantiques. Commentaire philologique et exégétique, Éditions Beauchesne, Paris 19092, 242, discute tre valori possibili per questa preposizione: 1) «che è il tuo amato in quanto amato? da confrontare con il man arabo; 2) «che è il tuo amato in più di un altro?» ovvero in che cosa consista la sua superiorità; 3) «che è il tuo amato d’altro rispetto a ogni altro?» ovvero in che cosa differisca dagli altri. Joüon sostiene che «min indique seulement la distinction, non la distinction comparative». Anche Ct 4,8; 6,1; 7,1 usano lo stilema della ripetizione: cf W.G.E. Watson, Classical Hebrew poetry. A guide to its techniques [Journal for the Study of the Old Testament, Supplement Series 26], JSOT Press, Sheffield 1984, 295ss, l’ha definito una «choral repetition». 81  Si veda la nota precedente. La ripetizione e lo stretto parallelo dei due verbi hālak e pānāh rendono ancora più urtante la domanda, perché sembra che vi sia stato un addio definitivo. Le altre donne non capiscono la resistenza della ragazza al re Salomone e le loro parole suonano non poco come una canzonatura di questo amore unico che la ragazza ha rivelato per il suo amato. E il tono della loro promessa va proprio compreso come una vera e propria presa in giro: nell’harem è mai possibile muoversi liberamente per andare a cercare qualcuno? 82  La ragazza non fa caso alla provocazione e risponde. Il versetto riprende un vocabolario noto all’uditore-spettatore: gan in 4,12ss; 6,11; ‘ărûgôt hab-bōśem in 5,13; rā’āh in 1,7; šôšannîm in 2,2… Nuovi sono invece jārad «scendere» e lāqat. «raccogliere, spigolare». Il problema decisivo è l’interpretazione di gannô «il suo giardino»: evidentemente, se si pensa al corpo della ragazza, si avrà una certa soluzione («scendere nel giardino»). Altri propongono di trasformare il plurale baggannîm in singolare (cf Rudolph, Graetz…). Altri ancora tentano varie interpretazioni grammaticali per questo plurale: plurale di pienezza, di generalizzazione, di composizione, ecc. P. Joüon, Le Cantique, 261, legge questi plurali del Cantico come una qualità poetica caratteristica, dovuta alla rima o ad altre ragioni poetiche. Da quando è iniziato il secondo atto del dramma, con l’incubo del sogno che narra della sparizione dell’amato, la ragazza sta in scena con le altre dell’harem e continua un dialogo con diverse domande e risposte. Ora, di fronte all’ultima insinuante domanda delle donne (‘ānāh pānāh dôdēk), che presuppone un tradimento dell’amato, la ragazza risponde in modo perentorio: «il mio amato scenderà (qal di certezza, con valore futuro) per il suo giardino»: non vi è il minimo senso di sconforto o di sfiducia nel comportamento dell’amato. L’immagine delle ‘ărûgôt habbōśem «aiuole di balsamo» è ripresa dalla descrizione precedente e serve a indicare allusivamente, ma con precisione, la brama amorosa della ragazza. L’allusione serve a creare il contesto per comprendere le due finali seguenti: 1) līr e’ôt bag-gannîm ; 2) w elīl eqōt. šôšannîm. L’amato scenderà per pascolare nei giardini. Non si può escludere completamente che il verbo rā’āh III abbia anche l’ulteriore valore semantico (tauriyya) di «godere, deliziarsi». Il secondo verbo infatti «spigolare šôšannîm» ha a che vedere con l’amore che la ragazza vuole condividere con il suo amato. Non traduco

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Note

šôšannîm per non scegliere tra «loto» (ambientato in Egitto) oppure «rosa» (ambientazione in terra d’Israele). 83  La frase non è semplice ripetizione di Ct 2,16. Anzitutto è diverso l’ordine delle parole: se in Ct 2,16 stava in primo piano la valenza di un amore reciproco, qui l’accento è posto sulla posizione e decisione della ragazza di darsi solo al suo amato, nella certezza che anche lui è solo per lei. In questo modo è anche rispedita al mittente l’allusione delle donne dell’harem. In secondo luogo, la costruzione di questo versetto costringe a ripetere due volte il soggetto dôdî e a collegare la frase hā-rō’eh baš-šôšannîm direttamente al lî che precede, mancando il lô come in Ct 2,16. Ma, in questo modo, il collegamento ad sensum non è solo con il dôdî precedente, bensì anche con il v. 2 e il desiderio della condivisione d’amore là segnalato. 84  Due sono i problemi principali: 1) la connessione con il contesto (precedente); 2) il personaggio che pronunzia queste frasi. Dal momento che non vi sono indizi per sostenere un cambio di scena, si deve dedurre che ci si trovi nella stessa scena precedente; quindi, non può che essere la ragazza a parlare, rispondendo alle lodi dell’inserviente e degli altri commensali. Non vi sono particolarità sinora incontrate che possano far decidere altrimenti. Si noti però il linguaggio particolarmente onirico e allusivo: che non sia questo lo stile della ragazza alla quale l’autore sta preparando il suo lettore/uditore, prima del colpo di scena finale? ‘el-ginnat ’ĕgôz jāradtî : il tempo verbale e il luogo dove si scende pongono problema. Se gannāh non fa problema (significa in ogni modo «giardino»), più difficile è decidere a quale giardino si riferisca il sintagma ginnat ĕgôz. ĕgôz (hapax) sembra derivare dal persiano gauz e significherebbe «noce» (KB, 10). Ma, a quanto pare, ancora dopo il periodo biblico e talmudico, il noce era importato in terra d’Israele (I. Löw, Die Flora der Juden, R. Löwit Verlag, Wien-Leipzig 1928, II, 31). Per questo motivo, alcuni vedono in questa espressione solo una metafora della ragazza, magari identica alla terra stessa (cf A. Robert - R.J. Tournay, Le Cantique des Cantiques; Traduction et commentaire [Études Bibliques], J. Gabalda et Cie Éditeurs, Paris 1963, 242). Ma sarebbe il solo passo e non vi sarebbe alcuna congruità con gli altri usi di gān o gannîm, che invece sì potrebbero indicare la ragazza. Ciò non significa che il senso della frase debba essere inteso in modo realistico, in quanto anche il contesto conferma il valore fortemente allusivo e metaforico. E dal momento che sta parlando la ragazza, il riferimento deve essere all’amato pastore. Ma il senso primo della pianta difficilmente deve essere la sconosciuta noce, bensì un’altra pianta più nota, ad esempio qualche genere di palma. Purtroppo non ho trovato alcuna documentazione che possa sostenere questa ipotesi. Quanto al problema del tempo verbale, opto per tradurlo come un qatal di decisione con sfumatura ottativa (JM §112j): «voglio scendere…». Līr e’ôt b e’ibbê han-nāh.al continua il linguaggio altamente metaforico: la ragazza vuole scendere al giardino di noci «per ammirare i germogli della palma». Il sostantivo ’ēb occorre soltanto qui e in Gb 8,12; l’etimologia è incerta. In accadico, inbu significa «frutto», ma anche «istinto sessuale» (KB, 2). Il testo di Giobbe, con l’allusione al germoglio che secca prima di arrivare a crescere, può essere importante per comprendere che qui si tratti dell’ammirare i germogli del nah.al che non è solo lo wadi (I), ma anche la «palma da dattero» (II) (cf KB, 686). A riguardo di rā’āh b e come «ammirare», si veda H.H. Fuchs (ThWAT, VII, 239s: «L’intenzione sessuale, per cui il rā’āh si compie nello jāda’, è in primo piano»). Le due righe seguenti fanno preferire il significato di «germogli della palma».

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Note

līr e’ôt hăpār eh.āh hag-gepen «per vedere se abbia gemmato la vite». Frase dunque strettamente parallela alla precedente, con il parallelismo palma da dattero / vite. Si noti solo che vi è un’interrogativa indiretta introdotta dalla particella interrogativa hă. L’immagine, come anche la seguente, è ancora legata alla fecondità, con un’analogia tra lo sbocciare della natura e quello dell’amore tra uomo e donna. hēnēs.û hā-rimmōnîm: il verbo deve essere inteso come Hi. Da ns.s. (mancherebbe il dageš nel s.adeh) oppure una Nebenform dalla √nws. II, non attestata altrove (se però fosse così, la voce dovrebbe essere vocalizzata hēnīs.û). Per evitare questo duplice cul-de-sac, W. Rudolph, Das Hohe Lied (Kommentar zum Alten Testament 17,2), Gütersloher Verlagshaus G. Mohn, Gütersloh 1962, 166, suggerisce di vocalizzare hănās.û, in parallelo a hăpār eh.āh. Ma la ripetizione dell’interrogativo è pesante e in poesia quasi impossibile. A proposito di rimmōnîm «melograno», nel Cantico occorre 6× e sulla bocca di diversi personaggi. Qui e in Ct 7,13 al plurale; in Ct 4,3 = 6,7; 4,13 e 8,2 al singolare. La preferenza simbolica per questo frutto è in relazione alla fecondità. 86  Alcuni commentatori considerano questo versetto il più difficile ed enigmatico di tutto il libro (cf M.H. Pope, Song of Songs, 584). Bisogna evitare che il giudizio di filologi di prima grandezza sia messo sullo stesso piano di biblisti divulgatori: diamo a ciascuno il proprio compito e la propria competenza… Si ricordi che a parlare nel v. 11 è la ragazza protagonista. Verosimilmente il suo discorso continua anche in questo versetto. Assumo questa ipotesi. I massoreti hanno messo gli accenti, in modo da interpretare due frasi di questo tipo: lō’ jāda’tî e poi, staccato, napšî śāmatnî. La prima frase sta dunque a sé e bisogna darle un senso adeguato, che per molti commentatori si riduce a un valore avverbiale o circonstanziale: «senza saperlo» (cf Sal 35,8; Pro 5,6; Lev 5,3; Ger 50,24; Gb 9,5…). Nel contesto in cui ci troviamo, è troppo poco e si perde un elemento importante per poter ricostruire la vicenda. La ragazza sta esprimendo il suo proposito, a dire il vero sta esplicitando il suo proposito già chiaramente alluso dal versetto precedente: ella vuole andare nel teatro aperto della natura a vivere il suo unico amore con l’amato pastore e non vuole avere rapporti con il re Salomone. Ecco il senso allora di quel lō’ jāda’tî «non voglio conoscerlo»: è la dichiarazione esplicita di quanto ella ha in mente di fare, entrando dal re, dal momento che non vuole avere rapporti con lui (per questo valore di jāda’, si veda KB, 390). 87  Nella seconda frase napšî śāmatnî, bisogna anzitutto decidere come tradurre napšî: in Ct 5,6 si è tradotto con «il mio animo» e potrebbe andar bene anche in questo passo, oppure anche «il mio desiderio». In ogni caso appare chiaro che la frase deve avere un valore di decisione, alla pari del versetto precedente. Vi è difficoltà a tradurre il verbo: tra tutte le possibilità, scelgo quella del nostro condizionale (anche nel dialetto milanese, come in altre lingue, il condizionale è espresso con il verbo al passato). mark ebôt dovrebbe essere in modo completo b emark ebôt, ma quando il nome inizia con una labiale, la preposizione b e viene talvolta omessa (JM §126h; ciò però non succede con i nomi propri). A condividere questa soluzione sono molti moderni. Ricordo, tra gli altri, F. Delitzsch, Biblical Commentary, VI, 581s; e A. Robert - R.J. Tournay, Le Cantique des Cantiques, 244s. ‘ammî-nādîb non va inteso come un nome proprio: così l’hanno interpretato alcuni manoscritti ebraici, i Lxx e Vg. Anche in Ct 7,2 si ritroverà nādîb in un sintagma con maqqēp, bat-nādîb: forse è un vocabolo scelto di proposito per la sua tauriyya, in quanto oltre al concetto di «nobiltà» porta in sé anche la sfumatura di «generosità» e di «libertà». 85

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Note

Quale migliore allusione per contrapporre la libera vita all’aria aperta alla dorata schiavitù dell’harem? 88  Nella prima parte del versetto, quasi a modo di titolo, vi è l’invito alla danza per la ragazza. La ripetizione corale è una caratteristica poetica del Cantico (cf nota 80). Qui si tratta di una duplicazione esponenziale, in quanto l’imperativo šûbî è ripetuto due volte in ciascuna delle due righe di ripetizione: šûbî šûbî haš-šûlammît šûbî šûbî w eneh.ĕzeh-bāk. I problemi da risolvere sono tre: a) il titolo dato alla ragazza: haš-šûlammît; b) il significato preciso del verbo šûbî; c) il valore del waw in w eneh.ĕzeh-bāk. a) Il titolo haš-šûlammît è proprio del Cantico e tutti i commentatori sono d’accordo nel vedere in esso indicata la protagonista del libro. In questo caso, l’articolo servirebbe da vocativo; ma, più genericamente, servirebbe a non prendere il nome come un nome proprio. Le interpretazioni di tale titolo sono molte (cf KB, 1442): haš-šûlammît come cambiamento consonantico da šûnammît (si ricordi Abišag di Šunem); oppure da un nome di luogo Šûlām, sconosciuto però altrove; participio passivo qal con il senso di «pacificata»; abitante di Gerusalemme, dall’antico nome Šalem, equivalente a “gerosolimitana”; la dea lunare Ištar sotto il nome di Šelem; nome fittizio, e più precisamente come formazione femminile da š elōmōh (cf H.H. Rowley, The Servant of the Lord, and other essays on the Old Testament, Second edition, revised, Basil Blackwell, Oxford 1952, 19652, 2288; W. Rudolph, Das Hohe Lied, 168 e 170). Quest’ultima mi sembra la spiegazione migliore, nel senso che la «ragazza» che deve andare con il re Salomone ipso facto diventa haš-šûlammît; b) L’imperativo šûbî, ripetuto ben 4×, pone difficoltà perché il verbo non è mai usato per la danza. W.O.E. Oesterley, The Sacred Dance. A study in comparative folklore, University Press, Cambridge 1923, 44, elenca ben 11 verbi della Bibbia Ebraica che esprimono un qualche tipo di danza, ma tra questi non si trova il verbo šûb. D’altra parte, non c’è bisogno di correggere il TM in sōbî, per avere il significato di «girare/-rsi, voltare/-rsi». Si può lasciare il verbo šûb, che talvolta ha il medesimo significato (cf KB, 1429:3); c) Infine, il waw del sintagma w eneh.ĕzeh-bāk ha valore consecutivo: la ragazza deve girare nella sua danza, così che i partecipanti al pranzo possano ammirare la sua bellezza e goderne. 89  Nella seconda parte del versetto potrebbe essere invece l’inserviente a chiedere alle altre donne che cosa le colpisce di più in quella ragazza che sta danzando oppure – meglio – potrebbe essere una descrizione a due cori che si sgrana tra i commensali. kīm eh.ōlat ham-mah.ănājim: il sintagma pone un problema, perché è un hapax. M.H. Pope, Song of Songs, 601-614, dedica non poche pagine al problema della danza. Secondo M.I. Gruber, «Ten dance-derived expressions in the Hebrew Bible», Biblica 62 (1981) 328-346, il sostantivo meh.ōlāh (da h.yl, h.ll ) significherebbe «fare una danza» con movimenti rotatori e di torsione, una danza gioiosa, associata ad es. a vittorie militari. La seconda parte del sintagma si potrebbe spiegare come la disposizione di due gruppi schierati l’uno di fronte all’altro, essendo mah.ănājim un duale che ha a che fare con gli accampamenti e/o gli schieramenti. In questo caso non vi è alcuna valenza militare, ma si allude alle «due schiere» che formano la coreografia della danza. La migliore interpretazione per la preposizione k e è attribuirle un valore enfatico, chiamato da qualche grammatica kaph veritatis (cf B.K. Waltke M. O’Connor, An Introduction to Biblical Hebrew Syntax, 11.2.9b).

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Note

Ct 7,2-6 descrive il corpo della ragazza: su questo tutti i commentatori sono concordi, anche se poi si dividono sul chi stia parlando e su molti particolari (differenze dovute in primis alla grande quantità di hapax). Si potrebbe attribuire la parte alle altre donne dell’harem, che si indirizzano a lei chiamandola bat-nādîb «figlia di nobile», e quindi «nobile figlia». mah-jāpû pe’āmajik: la bellezza è lodata frequentemente nel Cantico, ma con il verbo solo in questo passo e in Ct 4,10, ovvero in riferimento a qualche attività che la mette in mostra. Il duale di pa’am (118× nella Bibbia Ebraica) ha un significato che dipende dal contesto e va da «piede» a «passo». Qui è forse meglio il secondo significato, in quanto ci si riferisce di più al movimento del passo (con i sandali) che non alla staticità del piede. Non ci si deve meravigliare che siano citati anche i sandali, in quanto le donne popolane andavano a piedi scalzi: l’uso dei sandali è un indizio di vita cittadina e nobile. 91  Non vi sono grandi problemi di traduzione in questo versetto di conclusione dello was.f iniziato al v. 2, benché i modi di interpretare il versetto siano divergenti. Siamo arrivati alla testa della persona, dopo essere partiti dai sandali. Anche la seconda parte del versetto non è disputata per la filologia, ma per l’interpretazione. dallāh occorre 2× nella Bibbia Ebraica (oltre al presente passo, in Is 38,12). Si pensa che derivi dalla √dll «sospendere, pencolare». Il senso dunque sarebbe di «fili» o, in senso generale per i capelli, «la chioma». Il problema è come interpretare il colore dei capelli (neri) con il paragone seguente: kā’argāmān «come porpora»: perciò si moltiplicano le proposte di cambiare il TM. Ma non vi è bisogno, perché il paragone non riguarda il colore, bensì la vitalità e la freschezza. Del resto, le spiagge sotto il Carmelo erano proprio la patria della migliore porpora, che all’epoca biblica era usata solo per il tempio e per il re (cf O. Keel, Das Hohelied, 252). L’ultima frase del versetto è invece molto discussa. Mi sembra plausibile considerarla come la presentazione della scena seguente: anche senza articolo, quel melek si riferisce a Salomone, «fatto prigioniero» dalla bellezza della ragazza, anzi dai r ehāt.îm: dal punto di vista della traduzione, questo è il problema cruciale (cf KB, 1193s). Al di là di tutte le difficoltà, ne deve risultare un’immagine plausibile e coerente. Per cui, nonostante tutto, preferisco stare con Gerleman, che vi trova un tipo di acconciatura dei capelli di cui si è appena parlato. L’immagine degli abbeveratoi mi sembra troppo audace e lontana dalla sensibilità del Cantico (Salomone “assetato” di sesso che trova qui il luogo ove calmare la propria sete…). 92  La scena d’amore si apre con una lode superlativa per la bellezza della ragazza (cf 1,16 con gli stessi attributi, ma in forma aggettivale, non in forma verbale). Questo indica che Salomone non conosce bene la ragazza, quanto la ragazza conosce il suo amato. ’ahăbāh non avendo l’articolo, come in Ct 2,7, non vale come astratto, ma come concreto nella sua connotazione erotica. L’ambientazione scenica s’inquadra molto bene nella vicenda che stiamo tracciando. batta’ănûgîm: molti commentatori correggono la scrittura o comunque la interpretano come una scrittura “sandwich”, ovvero come fosse bat ta’ănûgîm «figlia di delizie». Non c’è bisogno di correzioni. Se «amore» (soggetto precedente) va inteso in senso erotico, il sintagma seguente può essere tradotto «fra godimenti». ta’ănûgîm occorre 5× nella Bibbia Ebraica: Pro 19,10 (al sing.); Mic 1,16; 2,9; Qo 2,8; e il significato preciso dipende dal contesto; tuttavia la √’ng indica il piacere (anche sessuale). 93  zō’t qômātēk dām etāh l etāmār: il pronome dimostrativo è importante, in quanto indica che i due interlocutori sono uno di fronte all’altro, senza specificare il come, in quanto l’ebraico non distingue fra «questo, codesto, quello»; quindi potrebbe 90

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Note

essere tradotto anche con «quella». Il paragone con la «palma» potrebbe essere connesso al tema della fecondità e della sovrabbondanza oppure anche con il culto della dea dell’amore (cf H. Ringgren, Sprüche, Prediger, Das Hohe Lied, Klagelieder, Das Buch Esther, übersetzt und erklärt, neubearbeitete Auflage [Das Alte Testament Deutsch 16], Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 1962, 31981, 284). w ešādajik l e’aškōlôt: rimane sempre sottinteso il verbo della prima riga, ovvero dāmetāh. Normalmente i commentatori interpretano ’aškōlôt come «grappoli di datteri». W. Rudolph, Das Hohe Lied, 174, per ragioni filologiche rifiuta questa interpretazione (sarebbe stato ’aškōlôtajw) e preferisce «grappoli di uva». La soluzione non è impossibile, anche per la ripresa del v. 9. 94  In accadico, il verbo amāru significa «pensare» e in poesia questo potrebbe rimanere il senso principale anche in ebraico. Quanto al tempo, si potrebbe giustificare sia il presente (Rudolph, Ginsburg), sia il passato (Delitzsch, Fox). Il contesto sembra far preferire il presente, dal momento che Salomone sta esprimendo i suoi sentimenti attuali. Però, se il verbo è tradotto con «pensare», esso si può facilmente situare nel passato prossimo. Anche i due verbi ’e’ĕleh «salirò» e ’ōh.ăzāh «afferrerò» sono dei coartativi, che mettono in risalto la decisione di Salomone. Si noti che b etāmār propriamente non ha l’articolo (benché sia necessario, come articolo anaforico). Il verbo ’ōh.ăzāh è costruito con b e e ha come oggetto sansin, un hapax, reso in maniera molto diversa nei lessici e nei commentari. Si veda la versione dei Lxx, τῶν ὕψεων αὐτοῦ «i suoi rami più alti» (cf M.V. Fox, The Song of songs, 163: «Sansinnim part of the palm. Akkadian sinsinnu / sissinnu is the date panicle; it is also a type of jewelry […]». w ejihjû-nā’: questo iussivo (confermato dall’uso di nā’ ) è molto importante, in quanto vale sino alla fine del discorso di Salomone in 10a, non solo per «i seni», ma anche per «il naso» e per «il palato» (del v. 10a). 95  šādajik k e’ešk elôt hag-gepen. Ora si risolve l’ambiguità che si era trovata nel v. 8: non si tratta di grappoli di datteri, bensì di grappoli d’uva. L’evocazione dei grappoli d’uva va collocata nel contesto dell’importanza del vino per i momenti d’amore di cui il Cantico ha dato già altri esempi. w erê ah. ’appēk kat-tappûh.îm «e l’aroma del tuo naso come le mele». Gesto preliminare d’amore e non riferimento ad altre particolari parti anatomiche della ragazza. Tutte e due le frasi, come anche la seguente, sono da considerarsi iussive. Garbini corregge in wlh.jk kplh. hrjmwnjm «i tuoi glutei come melegrane spaccate. La prima riga del v. 10 continua lo iussivo del v. 9 e anche il locatore deve essere il medesimo: si tratta quindi di Salomone. h.ēk è il «palato» e non il «grembo» (Garbini, che cambia in wh.jqk). Come ricordato, lo stacco nel mezzo del v. 10 è un dato abbastanza condiviso tra i commentatori; la sua interpretazione no. Salomone si trova nell’harem: ha già visto danzare colei che è stata scelta come Šulammita. Fino a questo punto le parole hanno mostrato il corteggiamento e l’inizio del momento di amore tra il re e la Šulammita… 96  Che siamo arrivati al clou è detto anche attraverso la frase w eh.ikkēk k ejên hat.-t.ôb che ha in sé due elementi fondamentali: hēk «palato» (Ct 2,3; 5,16) e jajin «vino» (Ct 1,2. 4: 4,10; 5,1; e poi ancora 8,2). Anche l’aggettivo t.ôb è già apparso in Ct 1,2. 3; 4,10. jên hat.-t.ôb è un genitivo di qualità: «il vino di bontà». Il desiderio di Salomone sembra raggiungere il massimo di intensità e sfociare nell’atto d’amore con la Šulammita. 97  D’improvviso qualcosa cambia. Anche la scelta di interrompere il verso poetico, ovvero il parallelismo (cf Robert-Tournay, Lys, Delitzsch, Ginsburg, Fox,

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Note

Murphy, Elliott), servirebbe a rimarcare la rottura improvvisa e imprevista di quanto sta avvenendo. L’interruzione viene spiegata in tanti modi nei commentari; però non si è accordata sufficiente attenzione a un particolare: colei che sta parlando non parla a un amante, ma piuttosto di un amante. dôdî è stato utilizzato sinora soltanto dalla ragazza per parlare del suo amato; servendosene in questo momento, l’autore vuole indicare che la ragazza non sta parlando a Salomone, ma del suo amato pastorello. La Šulammita interrompe bruscamente i preliminari d’amore di Salomone (del resto, lo aveva promesso in Ct 6,12: «Non voglio avere rapporti»), perché il suo amore è solo per l’amato pastore: hôlēk l edôdî l emêšārîm «versato per il mio amato legittimamente». Dal punto di vista scenico, si dovrebbe supporre che la ragazza a questo punto fugga via dal re. 98  Anche questa frase è nella stessa linea. Il participio dôbēb è hapax e può significare «gocciolare» oppure «parlare». La scelta dipende dall’interpretazione dei due oggetti seguenti, che secondo il TM sarebbero «le labbra di dormienti», mentre secondo le versioni antiche sarebbero ś epātaj w ešinnîm «le mie labbra e [i miei] denti» (Lxx, Aq, Syr) oppure ś epātājw w ešinnîm «le sue labbra e [i suoi] denti» (Vg). Nella prima opzione bisognerebbe aggiungere un waw; nella seconda, due waw (a meno di intendere lo jod come suffisso di 3ª maschile singolare, come Dahood). Stando al contesto, preferirei la scelta di Girolamo. Il soggetto, in ogni caso, continua a essere il vino, simbolo erotico, come per il precedente hôlēk. 99  Questa confessione è importantissima dal punto di vista drammatico. Si potrebbe presupporre che la frase ’ănî ledôdî we’ālaj tešûqātô sia pronunciata davanti a Salomone, o – meglio – davanti al pubblico. La ragazza rifiuta il ruolo di Šulammita e confessa di essere tutta per il suo amato e che w e’ālaj t ešûqātô «in me c’è brama [solo] per lui». È la t ešûqāh di cui parla anche Gn 3,16 (e per la forza del peccato Gn 4,7): ma la costruzione è diversa rispetto al testo di Genesi, in quanto si dice che «la brama per lui è in me», non che «la sua brama è per me». Le versioni antiche hanno letto w e’ālaj t ešûbātô (Lxx: καὶ ἐπ᾽ ἐμὲ ἡ ἐπιστροφὴ αὐτοῦ; Vg: et ad me conversio eius). È difficile dire se questo risalga a un Vorlage ebraico. Tuttavia non è un testo impossibile, in quanto direbbe la grande fiducia nell’amore del pastore, che cioè l’amato ritorni da lei, nonostante la sua esperienza nell’harem (ovvero nonostante abbia perduto la sua verginità; ma la ragazza di fatto si sta rifiutando di avere rapporti con il re). 100  La scena non finisce con il v. 11. Ora la ragazza s’indirizza direttamente al suo diletto pastore (da un punto di vista scenico si può pensare il pastore presente o no, poco importa). l ekāh dôdî: si potrebbe intendere come interiezione («su, mio amato») o come imperativo («va’ [oppure: vieni], mio amato»). Il primo forse è migliore, dal momento che l’indicazione di movimento c’è già nei coortativi seguenti: 1) nēs.ē’ haśśādeh «usciamo in campagna», i.e. nello spazio dove la ragazza ha vissuto prima di essere venduta all’harem del re; 2) nālînāh bakk epārîm «stiamo tra le piante di henné». È vero che il verbo lîn significa «passare la notte», ma qui il senso non è solo quello di trascorrere un po’ di tempo con l’amato, ma quello di non staccarsi mai più da lui. 101  L’ultima scena è introdotta dal proclama di una sentinella della città. È importante ricordare il parallelo con Ct 3,6. Come quel proclama precedette l’arrivo di Salomone, questo, con una ripetizione quasi alla lettera, segna un punto di arrivo decisivo del dramma: la ragazza ora è insieme al suo amato e con lui al fianco intona l’inno dell’invincibile amore! mî zō’t ‘ōlāh a differenza di 3,6 è da intendere

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Note

come femminile: il valore femminile è subito confermato dal participio seguente mitrappeqet «aggrappata». Il punto da cui arrivano i due, come in Ct 3,6, è «dal deserto». La versione dei Lxx, con λελευκανθισμένη, è molto interessante: non per la traduzione, ma perché essa presuppone un probabile originale ebraico mlbnwn (cf Ct 6,10), letto come fosse mtlbnh; infatti la ragazza non può che venire «dal Libano», ovvero dal palazzo dell’harem. La Vg aggiunge a de deserto anche deliciis affluens, che potrebbe essere inteso come un attributo dell’harem stesso. L’Hit. di rpq è hapax e il senso è interpretato in modo molto approssimativo: «inclinarsi su, sostenersi su» (KB, 1279; BDB = A Hebrew and English lexicon of the Old Testament with an appendix containing the Biblical Aramaic, Corrected impression, Based on the lexicon of H.F.W. Gesenius, as translated by E. Robinson, Edited by F. Brown, with the co-operation of S.R. Driver - C.A. Briggs, Clarendon Press, Oxford 1892, 19062, 892), «accattivarsi qc., associarsi a» (M. Jastrow, Dictionary of the Targumim, 1491), «inclinarsi su, aggrapparsi a, annidarsi contro; (fig.) agognare; anelare a, accattivarsi» (R. Alcalay, The complete Hebrew-English dictionary, 5 voll., Chemed Books - Yedioth Ahronoth, Tel Aviv-Brooklyn NY 1965, 19962, II, 2483). Quanto a ‘al-dôdāh, il dôd del Cantico è sempre l’amato pastore: quindi i due, che camminano una «aggrappata» all’altro, non possono che essere la ragazza e il suo amato. 102  Il «melo» o i suoi frutti sono già comparsi in Ct 2,3. 5; 7,9. Ma il passo più importante per decifrare la presente allusione mi sembra proprio Ct 2,3: «Come un melo tra le piante del bosco, così il mio amato tra gli altri: anelo a sedermi alla sua ombra e il suo frutto è dolce al mio palato». Quanto allora era desiderato, ora è realizzato. E precisamente il melo rappresenterebbe l’oggetto del desiderio amoroso, il luogo dell’amore. La forma ‘ôrartîkā (qatal) è stata già utilizzata: potremmo chiamarla un qatal di decisione con sfumatura ottativa e vale come presente-futuro modale (cf JM §112j; ad es. anche in Ct 6,11). Il verbo e il suffisso ebraico possono quindi stare senza nessun bisogno di cambiamento. La radice ‘wr è utilizzata ben 8× nel Cantico e sempre sulla bocca della ragazza protagonista! Il Pol. ‘wr significa «eccitare, svegliare, incitare»; in questo contesto, con valore esplicitamente erotico. 103  Le due righe di poesia sono, a mio parere, uno stretto parallelismo sinonimico, e quindi sarebbe meglio vocalizzare jōladtekā «la tua genitrice», invece del TM j elādatkā (šāmmāh h.ibb elatkā ’immekā || šāmmāh h.ibbelāh j elādatkā). Questa soluzione alleggerisce la pesante sequenza dei tre verbi sinonimici per concepimentogestazione-parto (cf ad es., Sal 7,15) e risolverebbe anche la difficile connessione asindetica in h.ibb elāh j elādatkā. Per quanto riguarda il valore semantico dei due Pi. della radice h.bl, lessici e traduzioni oscillano nei significati: «concepire», «portare in gestazione», «avere le doglie» e quindi «gemere» (G. Barbiero, Cantico dei Cantici, 360). La VL omette il verbo in entrambe le righe e traduce illic parturivit te mater tua. Aq (διέφθαρη) e Vg (corrupta est) pensano alla radice h.bl III «corrompere, rovinare», presente effettivamente in Ct 2,15 (come Pi. participio). L’enfasi di šāmmāh, sia per posizione sia per ripetizione, fa pensare. Questo avverbio non può essere ridotto a un luogo qualsiasi, in cui è avvenuta la nascita, ma è proprio bêt ’immekā «la casa di tua madre», il «grembo» della vita (cf bêt ’immî «la casa di mia madre» in Ct 3,4; 8,2). In questo modo, il poeta mostra che il desiderio d’amore della ragazza è strettamente connesso con il desiderio di avere figli dal suo unico amato pastore. (E chi oserebbe dire che il Cantico non prende in considerazione la fecondità dell’amore?).

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Note

I commentatori sono abbastanza concordi nel considerare il v. 7 la chiusura di una sezione importante del Cantico, se non addiritttura la chiusura del Cantico vero e proprio, cui seguirebbero delle “appendici”. La sensibilità poetica e drammatica di F. Delitzsch, che divide i vv. 8ss dai vv. 5-7 come due scene del Sesto Atto (F. Delitzsch, Commentary on the Old Testament, VI,607s), va tenuta presente. I problemi d’insieme hanno ovviamente influito sulla traduzione e sulla comprensione, nonché sull’attribuzione delle parti. È vero che dal v. 8 non si è più sulle vette liriche e sublimi dei vv. 5-7. Tuttavia il dialogo conclusivo, da porre in simmetria con il prologo di Ct 1,2-4, offre alcuni elementi essenziali per la comprensione dell’intero dramma. La distribuzione delle parti potrebbe essere la seguente: vv. 8-9: i fratelli della ragazza; v. 10: risposta della ragazza protagonista; vv. 11-13: l’amato pastore; v. 14: conclusione della ragazza. Il discorso dei fratelli è una giustificazione di quanto hanno già fatto per la loro sorella: ella non è più piccola. È cresciuta. Ora è nell’età dell’amore, tanto che era stata scelta come Šulammita… Ora è esplicitata la ragione del litigio cui la ragazza ha fatto cenno in Ct 1,6. I fratelli hanno litigato per mettere in atto qualche affare a suo riguardo: il momento matrimoniale poteva essere occasione di ottimi affari patrimoniali. Forse qualcuno di loro ha proposto di mandarla nel frattempo a custodire vigne: ma in questo modo l’avrebbero esposta a rischi non piccoli (se qualcuno avesse abusato di lei, il partner avrebbe dovuto pagare il mohar e avrebbe dovuto sposarla con l’obbligo di non ripudiarla mai, secondo la legislazione di Es 22,15s; Dt 22,28s). A quanto pare, almeno in un primo momento, quel piano andò in esecuzione. Ma qualcos’altro poi è accaduto: o la ragazza è stata presa dalle guardie di Salomone (questo sarebbe la radice del sogno-incubo che ritorna in Ct 3,1-5 e 5,2-8); oppure i fratelli hanno pensato più lucrativo vendere direttamente la propria sorella all’harem di Salomone. Ella però si era ormai innamorata di quel pastore e il suo cuore non se ne sarebbe mai più separato. Quell’amore però non era ancora stato consumato, perché altrimenti non sarebbe potuta entrare nell’harem del re. 105  Continuano a parlare i fratelli, confessando le due ipotesi fatte nel passato a riguardo del futuro della sorella. Le due ipotesi dimostrano chiaramente il loro miope interesse: «se fosse stata un muro (h.ômāh)… se fosse stata una porta (delet)…». Normalmente i commentatori li interpretano come metafore generiche per parlare della ragazza e alcuni li spiegano come un parallelismo sintetico, altri come un parallelismo antitetico, ricorrendo talvolta a Ez 38,11. In realtà, il discorso dei fratelli, in termini meno poetici, prevede due ipotesi: il muro, ovvero il caso in cui la ragazza avesse mantenuto la sua verginità; la porta (delet indica il varco della porta), ovvero il caso in cui ella l’avesse perduta. Nel primo caso avrebbero voluto alzare il prezzo del mohar: nibneh ‘ālèhā t.îrat kāsep «vi avremmo costruito sopra file di pietra di argento» (per t.îrāh, si veda KB, 374). Nell’altro caso, l’avrebbero fatta pagare cara al suo partner (cf ancora la legislazione di Es 22,15s e Dt 22,28s). Il fatto che la ragazza sia uscita dall’harem, a parte il come abbia potuto farlo (ma la rappresentazione scenica non esprime tutto), dice in ogni modo che ella non ha avuto rapporti con Salomone. Per quel che si sa, infatti, quando una donna dell’harem aveva avuto rapporti con il re, non poteva più tornare alla sua vita normale. Il libro di Ester (2,12-14) permette di ricostruire alcuni particolari della vita nell’harem. 106  La ripresa dei due vocaboli dei vv. 8-9 è molto significativa. Ora sta parlando la ragazza (cf l’utilizzo del pronome ’ănî) e sta rispondendo a quanto hanno detto 104

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Note

i fratelli. In ebraico, la frase nominale non esplicita il verbo essere (‘ănî h.ômāh), tuttavia vale anche qui (double duty modifier) il tempo verbale della seconda parte del versetto (‘āz hājîtî). Quindi non si deve tradurre al presente («io sono un muro…»), ma al passato («io sono stata un muro…»). A dire il vero, il senso dell’affermazione non cambia (= «Non ho avuto rapporti con Salomone»), benché la traduzione al passato sottolinei di più la sua fermezza e decisione di fronte a Salomone. Il TM vocalizza con vocale (wešādaj kam-migdālôt), ma si potrebbe anche (e forse meglio) vocalizzare k emigdālôt «e le mie mammelle torri», interpretando il k e come preposizione enfatica. Si ottiene così un ottimo parallelo con la frase precedente. Da questa seconda frase si può dedurre che il discorso dei fratelli a riguardo della loro piccola sorella si riferiva a un tempo passato, prima della vicenda dell’harem. 107  La seconda parte del versetto ha prodotto interpretazioni molto divergenti. L’avverbio iniziale ’āz è decisivo, perché fa capire che la ragazza sta parlando di che cosa sia avvenuto dentro l’harem, quali siano stati il suo atteggiamento e la sua decisione di fronte a Salomone. Non si tratta di un generico avverbio enfatico. Il sintagma k emôs. e’ēt šālôm ha fatto molto discutere: môs. e’ēt può essere un participio femminile Hi. oppure Ho. da jās.ā’ «far uscire, portare fuori» oppure Qal da mās.ā’ «trovare». Ma il problema nasce dalla comprensione della frase nel suo contesto: 1) Gerleman, Keel, Pope e altri parlano di «colei che offre pace»; alla fine di un assedio (o qualche altra immagine simile) la ragazza offrirebbe pace o al suo amato pastore o ai suoi fratelli o a Salomone (cf anche KB, 1509 sotto 5b); 2) Delitzsch, Fox e altri preferiscono «trovare pace», da riferire sia agli occhi del suo amato (o di Salomone) sia agli occhi dei suoi fratelli, quasi come un gesto di riconciliazione con loro: dopo un periodo in cui la ragazza ha fatto da guardiana nelle vigne, è finita nell’harem di Salomone. Per ora non si sa ancora come, ma verrà detto subito di seguito, dall’intervento dell’amato pastore. Sono stati i fratelli a venderla, trovando in questo un’occasione di lucro più conveniente che non lasciare la sorella ai pericoli della vita di campagna. Nell’harem, la ragazza si è dovuta preparare per lungo tempo (un anno, secondo Est 2,12-14), prima di poter essere presentabile al re. Finalmente, una volta prescelta di diventare Šulammita, ella sdegnosamente rifiuta di stare con il re e lascia l’harem per stare con il suo unico amore (Ct 8,5-7). Allora i fratelli spiegano in scena il loro comportamento e i loro interessi in tutta la faccenda. Alle parole dei fratelli (Ct 8,8-9), la ragazza risponde affermando di essere stata un muro con Salomone, ovvero di essere ancora vergine (e non potrebbe essere altrimenti, perché chi ha avuto rapporti con il re non può più uscire dall’harem; cf supra) e di essere stata per lui (b e’ênājw, ovvero per Salomone) «veramente (k e enfatico) colei che môs. e’ēt šālôm». Ritengo alla fine più probabile che il senso di questo sintagma sia il ripudio, in quanto l’Ho. di jās.ā’ ne è il verbo tecnico. Si tratterebbe quindi di un ripudio “consensuale”. La ragazza ha fatto allusione a Salomone; l’intervento seguente del pastore chiarirà il senso di quel riferimento. 108  Non è possibile non sentire il richiamo a due altri testi in cui la vigna è stata presa a simbolo del desiderio: Is 5 e 1 Re 21. Una parabola, anche qui, per contrapporre il rapporto mercenario e poligamico all’amore vero e monogamico, che è l’ideale disegnato dal Cantico. Valore letterale e valore simbolico si intrecciano senza soluzione di continuità. In Ct 8,11-13 è il pastore amato a prendere la parola, in quanto egli solo può dire «la mia vigna, proprio la mia» (v. 12). Dal momento che il v. 14 è invece certamente pronunciato dalla ragazza, perché è ripetizione quasi letterale di Ct 2,17, bisogna interpretare la conclusione come un dialogo

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Note

tra l’amato pastore (Ct 8,11-13) e la ragazza (Ct 8,14). Il toponimo ba’al hāmôn ha creato non pochi problemi, già nelle versioni antiche. Una parte della tradizione testuale dei Lxx ha quasi una traslitterazione dell’ebraico (‫א‬: Βεελλαμών; A: Βεελαμών), mentre il codice B ha Βεεθλαμών, come la VL Bethlammon. Le altre versioni antiche invece non l’hanno inteso come toponimo, ma l’hanno interpretato come fosse scritto b eba’ălat hāmôn (Vg: in ea quae habet populos «in quella che ha le nazioni»; Aquila: ἐν ἔχοντι πλήθη «in quella che ha la moltitudine»; Simmaco: ἐν κατόχῃ ὄχλου «nel possesso della folla»); la versione siriaca ha ancora un altro testo: w’bh sgr «e il suo frutto era abbondante». Si dovrebbe pensare a un toponimo fittizio, creato per il suo valore semantico: ba’al hāmôn potrebbe infatti significare «signore di moltitudini (di ricchezze o di popoli)». I nōt. erîm sono «i custodi» o «i guardiani» delle vigne (cf l’inclusione fondamentale segnalata in Ct 1,6). Nell’espressione ’îš jābi’ b epirjô ’elep kāsep il pronome ’îš ha un valore generico e potrebbe equivalere a «uno» oppure a «ciascuno». La cosa non è rilevante per il senso globale. Il problema principale per tradurre jābi’ b epirjô sta nello Hi. di bô’ «introdurre, far venire», ma anche «ricevere» (con b e pretii: si veda KB, 114, sotto Hi. n.7). In questo contesto potrebbe significare: 1) ciò che ciascuno dei guardiani porta a Salomone, come pigione della vigna; 2) ciò che ciascuno dei guardiani riceve da Salomone come provento. Stando a quanto segue nel v. 12, preferisco il secondo significato. ’elep kāsep «mille [pezzi] d’argento» potrebbe dunque essere il prezzo che Salomone paga alla famiglia di provenienza delle ragazze reclutate nell’harem. Si tratta di uno scambio mercenario: questo è importante da sottolineare. Nel caso presente, quei mille pezzi d’argento probabilmente non erano ancora stati pagati, perché la ragazza non era ancora diventata una Šulammita. Essendo ora uscita dall’harem, dopo la lunga preparazione, ma senza avere avuto rapporti con il re, si pone il problema del rispetto del contratto. Si può forse chiedere ugualmente quel denaro, dal momento che la ragazza è fuggita dall’harem? Ecco la soluzione offerta dall’amato pastore (v. 12): tutti i vocaboli sono ripresi dal versetto precedente, eccetto la preposizione l epānaj e il numerale mā’tajim. L’amore vero non è commerciabile in alcun modo e per nessun controvalore. L’ha detto anche la ragazza poco prima (Ct 8,7). 109  L’enfasi nella frase «la vigna mia, proprio la mia» è importante e fa inclusione con Ct 1,6. L’amato pastore si oppone al re Salomone (cf inizio del v. 11): è evidente il valore metaforico che si aggiunge alla parabola del v. 11. Mentre in Ct 1,6 era la ragazza che parlava della «mia vigna» alludendo a se stessa, qui è l’amato pastore a poter dire: «la mia vigna sta di fronte a me». L’enfasi è la medesima, ma lo sdoppiamento esprime un tono drammatico diverso. 110  Sono in discussione i mille pezzi d’argento di cui si è parlato nel versetto precedente. La proposta del pastore è chiara: non c’è bisogno di pagare niente a nessuno, perché non c’è stata alcuna compravendita. Non vi sarebbe quindi allusione alcuna alle mille donne di Salomone, dichiarate in 1 Re 11,3 («Settecento mogli, principesse e trecento concubine»). Riemerge anche qui il problema della monogamia, letto però sul versante della decisione del pastore; come se dicesse: «La vigna mia appartiene a me e non a te, Salomone, e non puoi comprarla in nessun modo; e visto come sono andate le cose, tieniti pure il tuo argento!». La frase seguente è molto ironica e contrappone il pastore a Salomone: non solo nessun compenso, ma – addirittura – una parte (o una donazione ulteriore) per i «custodi» delle vigne di Salomone, ovvero dell’harem.

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Note

Anche gli ultimi due versetti hanno creato non pochi problemi. haj-jôšebet bag-gannîm: «donna che vivrai tra i giardini»; lett. «e tu che vivrai tra i giardini». Purtroppo in italiano non c’è il pronome di 2ª femminile singolare, per cui preferisco nella traduzione inserire un «donna», in modo da far capire subito che la frase è indirizzata alla ragazza. Si potrebbe discutere chi sia a parlare. Visto il contesto, la soluzione più ovvia è che sia il pastore amato che continua il suo discorso, iniziato nei versetti precedenti. Il valore erotico di bag-gannîm è discutibile; al contrario, è primario e importante il valore letterale, per la scelta della ragazza di uscire dall’harem e di stare all’aria aperta con il suo pastore (cf Ct 4,15). Del resto, si è già visto che l’eventuale valore erotico è da attribuire più al singolare gān che al plurale gannîm. I «compagni» (h.ăbērîm) sono già comparsi in Ct 1,7 e proprio in relazione all’amato pastore: là era la ragazza a parlare per non essere considerata una prostituta. Intendo maqšîbîm l eqôlēk come un inciso che riguarda il futuro: i compagni del pastore avranno gli occhi puntati sulla ragazza. L’invito dell’amato pastore è a essere lui solo ad ascoltare la voce della ragazza (hašmî’înî: imperativo Hi. di šāma’ da tradurre in senso performativo: «fa’ in modo che sia io [solo] a udirla»). Come si può notare, l eqôlēk è oggetto di entrambi i verbi, prima di maqšîbîm e poi di hašmî’înî. 112  Il versetto finale è la risposta e la parola di congedo della ragazza. Il fatto che sia indirizzato al dôdî ne è la conferma, in quanto solo la ragazza si rivolge così al suo amato lungo tutto il dramma. Si potrebbe pensare anche che questa sia la risposta della ragazza alle parole dell’amato pronunciate nei versetti precedenti. Si ricordi che la frase è già stata ascoltata in Ct 2,17b, almeno per tre quarti. Più che le somiglianze, però, è necessario prendere in considerazione le differenze. A parte 2,17a che non viene ripreso qui, nel v. 14, le differenze fondamentali si riducono a due: 1) l’imperativo sōb di 2,17 diventa b erah. in 8,14; 2) il sostantivo finale beter di 2,17 diventa b eśāmîm in 8,14. A riguardo della difficoltà di b erah. , P. Joüon, Le Cantique des Cantiques, 333, commentava: «brh. le sens ordinaire fuir est manifestement contraire au contexte; il ne peut s’agir que d’un mouvement vers l’Épouse, comme dans le passage parallèle 2,17: sb au sens de viens … Ici, brh. exprime l’idée de se hâter, implicitement contenue dans celle de fuir … Enfin le parallélisme du verset entier avec 2,17 montre que l’Épouse invite l’Époux à venir en hâte vers elle». M.V. Fox, The Song of Songs, 177, aggiunge una notazione altrettanto importante: «It does not mean simply “hurry”, “make haste” […]. BRh. always indicates a hasty movement away from something. It always implies leaving, even when the place from which one is fleeing is not specified». La differenza tra i due verbi che indicano la fuga, brh. e nws, secondo James Kennedy (J. Kennedy, Studies in Hebrew synonyms, Williams and Norgate, London 1898, 1-7), starebbe nel fatto che il primo è un fuggir via segreto, mentre il secondo un fuggir via visibile. J. Reindl (nûs, in ThWAT V,313 = GLAT, V,704), contestando una distinzione tra fuga segreta e palese, aggiunge questa sfumatura: «bārah. sembra usato di preferenza quando i motivi della fuga rientrano nella sfera dei contrasti in famiglia». Mettendo insieme questi vari suggerimenti, il modo migliore di tradurre b erah. penso sia «vieni via!». La fuga è l’unico modo per mettersi in salvo e uscire dal raggio d’azione della guardia regale. E ce ne sono di motivi perché la guardia del re debba inseguire questa coppia di giovani innamorati. 113  L’americano dating game si riferisce a un famoso gioco televisivo americano degli anni Settanta. 114  M.H. Pope, Song of songs, 27. 111

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Note

Per una rassegna completa, le date proposte sono molte di più. Si veda, ad esempio, l’idea stravagante di G. Garbini (Cantico dei cantici, 293-296), che data il Cantico al 68 a.C., come manifesto dell’opposizione farisaica all’impiccagione o crocifissione di ottanta donne «in Askelona» – che sarebbero in realtà ottanta prostitute di Gerusalemme – ordinata da Simone ben-Šetah.. L’episodio cui Garbini si riferisce è tutt’altro che sicuro dal punto di vista storiografico (si veda E. Schürer, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo (175 a.C. - 135 d.C.), Volume primo, Edizione diretta e riveduta da G. Vermes - F. Millar - M. Black, Con la collaborazione di P. Vermes, Traduzione di G. Soffritti, Edizione italiana a cura di O. Soffritti [Biblioteca di Storia e Storiografia dei Tempi Biblici 1], Paideia Editrice, Brescia 1985, 297 e 540). 116  «Chi scrisse la Scrittura? Mosè scrisse il proprio libro, la pericope di Balaam e Giobbe. Giosuè scrisse il libro che porta il suo nome e gli ultimi otto versetti della Tôrāh. Samuele scrisse il libro che porta il suo nome, il libro dei Giudici e Ruth. Davide scrisse il libro dei Salmi, includendo l’opera di dieci anziani: Adamo, Melkisedeq, Abramo, Mosè, Heman, Jedutun, Asaf e i tre figli di Kore. Geremia scrisse il libro che porta il suo nome, il libro dei Re, e le Lamentazioni. Ezechia con i suoi collaboratori scrisse Isaia, i Proverbi, il Cantico e Qohelet (mnemonico JMŠQ). I membri della Grande Assemblea scrissero Ezechiele, i XII, Daniele e il rotolo di Ester (mnemonico QNDG). Ezra scrisse il libro che porta il suo nome e le genealogie del libro delle Cronache sino al suo tempo. Ciò conferma l’opinione di Rav, dal momento che rav Judah ha detto in nome di Rav: «Ezra non lasciò Babilonia per andare nella Eretz Jisrael finché non scrisse la propria genealogia. Chi allora lo terminò [il libro delle Cronache]? Nehemia ben- Hachaliah». 117  A favore di una datazione ellenistica stanno soprattutto i numerosi aramaismi e alcuni prestiti linguistici dal persiano (pardēs in 4,13) o forse anche dal greco (‘appirjôn in 3,9 che potrebbe riflettere il greco φορεῖον): cf, ad esempio, R. Murphy, The Song of Songs, 4; G. Barbiero, Cantico dei cantici. 118  «In sintesi, l’ebraico del Cantico non richiede affatto una provenienza persiana o ellenistica per il testo. Le immagini utilizzate per il Cantico suggeriscono un punto di vista panisraelita e la composizione di un poeta, che aveva un’esperienza diretta di ricchezza e lusso esotico, e ciò si adatta bene con una provenienza dall’impero salomonico. Il riferimento a Tirza in Ct 6,4 suggerisce che Ct sia stato scritto durante la monarchia unita, anche se su questo indizio da solo una data nei primi anni della monarchia divisa è concepibile (ma una data nel periodo postesilico è impossibile). La prova che Ct attinga alla poesia amorosa egizia della fine del II millennio esige una data relativamente vicina a tale periodo e suggerisce un momento in cui l’alta cultura israelita fosse aperta all’influsso egizio. Pertanto, gli elementi di prova convergono su questa conclusione: il libro è stato scritto durante la monarchia unita» (D.A. Garrett, Song of Songs, in D.A. Garrett - P.R. House, Song of Songs – Lamentations [Word Biblical Commentary 23B], Word Books Publisher, Dallas TX 2004, 22). 119  A. Erman, Die Literatur der Aegypter. Gedichte, Erzählungen und Lehrbücher aus der 3. und 2. Jahrtausend v. Chr., J.C. Hinrichs, Leipzig 1923, fu il primo ad aver attirato l’attenzione sulla letteratura egizia. A. Hermann, Altägyptische Liebesdichtung, Otto Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 1959, elenca quarantasette opere o unità poetiche in quattro maggiori collezioni, databili nel periodo Ramesside (XIX-XX dinastia, circa 1300-1100 a.C.), sebbene il suo computo sia stato in seguito ridot115

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Note

to dallo studio di M.V. Fox, The Song of songs, 195-202, considerando alcune di quelle unità come parti di composizioni più ampie. Si vedano J.B. White, A study of the language of love in the Song of Songs and Ancient Egyptian love poetry, Scholar’s Press, Missoula MT 1978, 67-68; D.A. Garrett, Proverbs, Ecclesiastes, Song of Songs (The New American Commentary 14), Broadman & Holman Publishers, Nashville 2001 [=1993], 350-351. L’esempio migliore è senza dubbio la Canzone d’amore in sette stanze, riportata dal papiro Chester Beatty I, un manoscritto della XX dinastia (dal 1185 a.C. al 1078 a.C. ± 30 anni): il testo geroglifico è stato pubblicato da A.H. Gardiner, The library of A. Chester Beatty. Description of a hieratic papyrus with a mythological story, love-songs, and other miscellaneous texts, With thirty-one plates in monochrome and thirty in line by E. Walker (Chester Beatty Papyri 1), Privately printed by J. Johnson at the Oxford University Press and publ. by E. Walker, limited, London 1931, pls. 22–26: Verso, C 1–5. Una buona traduzione italiana si può trovare in Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Introduzione, traduzione dagli originali e note di E. Bresciani (I Millenni), Giulio Einaudi Editore, Torino 19691, 19902. Questo ciclo poetico è costituito da sette stanze, ciascuna con l’intestazione “casa”, che significa “stanza” o “capitolo”, seguita da un numerale. Inoltre, la prima riga di ogni stanza ripete il numerale appropriato, o utilizza un omofono del numerale; e la stessa parola ricorre come ultima parola della stanza. Pertanto, la prima stanza inizia e termina con la parola “uno”, mentre la seconda inizia e termina con la parola “fratello”, che è un omofono del numerale “due”, e così via. Le stanze sono proclamate alternativamente da un giovane e una giovane. I testi sono scritti con dei marca-versetti; alcuni di essi sono evidentemente fuori di posto. Le frasi formano distici e quartine. Basti ricordare, ad esempio, O. Keel, Deine Blicke sind Tauben; Id., Das Hohelied, e M.V. Fox, The Song of songs. 120

Una buona sintesi si può leggere in R.E. Murphy, The Song of Songs, 45-48; in italiano, si veda il recente G. Barbiero, Cantico dei cantici, 25-32. 121

122  L’arte amarniana è proprio caratterizzata da un sorprendente realismo naturalistico, anche nella ritrattistica: cf J.B. White, A study of the language of love, 74-79; M.V. Fox, The Song of songs, 183-186. A riguardo dell’arte amarniana si vedano: E. Hornung, Gedanken zur Kunst der Amarnazeit, «Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde» 97 (1971) 74-78; C. Aldred, Tradition and revolution in the art of the XVIIIth dynasty, in Immortal Egypt, Edited by D. Schmandt Besserat (Invited Lectures on the Middle East at the University of Texas at Austin 2), Undena Publications, Malibu CA 1978, 51-62; P. Gilderdale, The Early Amarna canon, «Göttinger Miszellen» n. 81 (1984) 7-20; G. Robins, The representation of sexual characteristics in Amarna art, «Journal of the Society for the Study of Egyptian Antiquities» 23 (1993) 29-41; G. Robins, Chapter VI: Changes in the Amarna period, in Id., Proportion and style in Ancient Egyptian art, drawings by A.S. Fowler, University of Texas Press, Austin CA 1994, 119-159.

Cf M.V. Fox, The Song of songs, 244-247; Id., The entertainment song genre in Egyptian literature, in Egyptological studies, Edited on behalf of the Faculty of Humanities by S. Israelit Groll (Scripta Hierosolymitana 23), The Magnes Press, Jerusalem 1982, 268-316. Forse vi è un personaggio chiamato per nome: Mehy, a quanto pare identico al Pamehy di un altro testo (cf M.V. Fox, The Song of songs, 64-66). 123

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Note

Si legga più ampiamente R.E. Murphy, Wisdom Literature: Job, Proverb, Ruth, Canticles, Ecclesiastes and Esther (The Forms of Old Testament Literature 13), William B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids MI 1981, 102; J.B. White, A study of the language of love, 91-159; and M.V. Fox, The Song of songs, 181-193. 125  È vero che questi titoli sono presenti anche tra amanti della letteratura sumerica o ugaritica (CTA 18.1.24 = UT 3 Aqht 1.24), ma non con il medesimo rilievo. 126  È interessante la posizione assunta da M.V. Fox, The Song of songs, 186-193: egli accosta i due dati – cioè il parallelo con la letteratura egizia e l’origine tarda del Cantico – senza tentare altra risposta se non la verosimiglianza del passaggio della letteratura egizia in terra d’Israele durante il periodo Ramesside e la permanenza dello stesso genere letterario nel tempo, prendendo come esempio nelle letterature occidentali la storia del “sonetto”. Ritengo curioso che alcuni studiosi siano disposti a ignorare le evidenze dell’influsso egizio sul Cantico, piuttosto che ridiscutere il problema della data della sua messa in iscritto: «It would be unwarranted due to problems of chronology and cultural interchange to propose that the Song of Songs is literally dependent on the ancient Egyptian love lyrics» (J.B. White, A study of the language of love, 153). Più interessanti, per quanto andrò dicendo, sono le riflessioni di F. Landy, Paradoxes of paradise. Identity and difference in the Song of Songs (Bible and Literature Series 7), The Almond Press, Sheffield 1983, 18-33: anch’egli pensa a una data tarda per la composizione del Cantico (p. 18), pur sottolineando l’importanza della letteratura egizia per la sua corretta interpretazione (pp. 21-24) e giudica i paralleli ellenistici superficiali e poco incisivi (p. 26). 127  Si veda P. Haïat, Dieu et ses poètes à travers le bouddhisme, le christianisme, l’hindouisme, l’islam, le judaïsme, et la poésie de tous le temps, Desclée de Brouwer, Paris-Tournai 1987. 128  Alludo a Teocrito (ca 324 - ca 250), considerato l’iniziatore della poesia bucolica. I suoi epigrammi, nel quadro della poesia alessandrina, secondo G. Garbini, Cantico dei cantici, 14, sarebbero la fonte principale del Cantico. L’affinità sarebbe stata sostenuta già da altri, a partire da Ugo Grozio (1583-1645). Per Garbini è importante il commentario di H.H. Graetz, Schir ha-Schirim oder das Salomonische Hohelied, übersetzt und kritisch erläutert, Jacobsohn, Breslau 1871, 18852, in quanto questi per primo avrebbe «impostato il problema nei suoi termini esatti, risolvendolo nel senso della priorità teocritea». Si veda W.G. Seiple, Theocritean parallels to the Song of Songs, «The American Journal of Semitic Languages and Literatures» 19,2 (1902-1903) 108-115. 129  Rimando ai miei contributi sulla memoria fondatrice: G. Borgonovo, La memoria fondatrice. Storia e ideologia, identità e costituzione di un popolo. Il caso della “ricapitolazione” deuteronomica, «La Scuola Cattolica» 133 (2005) 327-354; Id., A partire da Deuteronomio. Il canone come medium tra evento originario e progettazione di identità, in Scrittura e memoria canonica, a cura di R. Vignolo, Glossa, Milano 2007, 31-85. 130  La determinazione canonica viene dopo la formazione di Scritture considerate sacre: vi possono infatti essere delle Sacre Scritture senza che esse siano determinate da un “canone”, come nel caso della Bibbia Ebraica prima del canone cristiano. 124

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Note

Su questa distinzione si vedano A.C. Sundberg, Canon of the New Testament, in The Interpreter’s Dictionary of the Bible; An illustrated encyclopedia, Supplementary Volume, Edited by K. Crim et alii, Abingdon Press, Nashville TN 1976, 136-140, in particolare 137; J.A. Sanders, Canon: Hebrew Bible, in ABD = The Anchor Bible Dictionary, Editor in chief D.N. Freedman, Doubleday and Co., Garden City NY 1992, I,837-852, in particolare 837s; B.M. Metzger, The canon of the New Testament; Its origin, development, and significance, Clarendon Press, Oxford 1987, 30. 131  Rimando per questo al mio studio, G. Borgonovo, La “donna” di Gen 3 e le “donne” di Gen 6,1-4. Il ruolo del femminino nell’eziologia metastorica, «Ricerche Storico Bibliche» 6,1-2 (1994) 71-99. 132  Su questo tema si vedano J.F. McLaughlin - J.H. Greenstone - J. Jacobs, Marriage, in The Jewish encyclopedia, 12 voll., Managing editor I. Singer, Varda Books, Skokie IL 2004, VIII,335-340; A. Tosato, Il matrimonio israelitico: una teoria generale, Nuova prefazione, presentazione e bibliografia (Analecta Biblica 100), Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1982, 20012; V.P. Hamilton, Marriage, in ABD, IV,559-569; 133  Le eccezioni: Lamec, con le due mogli Ada e Zilla (Gn 4,17-24); Abramo, con Sara e la schiava Agar (Gn 16 e 21; diverso è il caso di Keturah, sposa di Abramo dopo la morte di Sara); Giacobbe, con le due mogli Lea e Rachele e le rispettive schiave (Gn 29). 134  R. de Vaux, Les institutions de l’Ancien Testament, 2 voll., Les Éditions du Cerf, Paris 1958-1960, 19612, 25; tr. it.: Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Torino 1964, 19773, 47. 135  A. Tosato, Il matrimonio israelitico, 177. E continua: «Essa è riconducibile a due distinte forme. Nell’una, accanto ad una prima moglie principale, di condizione libera, compaiono una o due mogli secondarie, di condizione schiave o asservite. Valga ad esempio il caso di Abramo, con Sara, Agar e Ketura; come anche la situazione supposta dalla norma del Cp [= Codice dell’Alleanza, Es 21-23] circa l’asservita. […] Possiamo denominare questa forma «poligamia differenziata». […] Nell’altra forma, accanto ad una prima moglie (presentata talvolta come l’«odiata»), compare una seconda moglie (presentata talvolta come l’«amata»), di pari grado alla prima. Valga ad esempio il caso di Giacobbe con Lea e Rachele; come anche, forse, la situazione supposta dalla norma del Cd [= Codice deuteronomico] circa il diritto della primogenitura. […] Possiamo denominare questa seconda forma «poligamia indifferenziata». 136  Ibidem, 178. 137  Ibidem, 191. 138  Non voglio certo azzerare i problemi di tradizione e di redazione di questo racconto, ma almeno tentare una risposta che spieghi come mai la tradizione abbia dato tanta importanza a questo episodio “interstiziale” rispetto ai racconti patriarcali. Per uno studio adeguato della pagina, rimando ai commentari di Genesi, e poi, in particolare, a M. Weinfeld, Sarah and Abimelech (Genesis 20) against the background of an Assyrian law and the Genesis Apocryphon, in Mélanges bibliques et orientaux en l’honneur de M. Delcor, éd. par A. Caquot - S. Légasse - M. Tardieu (Alter Orient und Altes Testament 215), Verlag Butzon & Bercker – Neukirchener Verlag, Kevelaer – Neukirchen-Vluyn 1985, 431-436; Th.D. Alexander, The wife/sister incidents of Genesis: oral variants?, «Irish Biblical Studies» 11 (1989) 2-22;

95


Note

Th. Seidl, “Zwei Gesichter” oder zwei Geschichten? Neuversuch einer Literarkritik zu Gen 20, in Die Väter Israels. Beiträge zur Theologie der Patriarchenüberlieferungen im Alten Testament. Festschrift für Josef Scharbert zum 70. Geburtstag, hrg. von M. Görg, Verlag Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1989, 305-325; D.J.A. Clines, The ancestor in danger: but not the same danger, in Id., What does Eve do to help? and other readerly questions on the Old Testament (Journal for the Study of the Old Testament, Supplement Series 94), JSOT Press, Sheffield 1990, 67-84; G.W.E. Nickelsburg, Patriarchs who worry about their wives. A haggadic tendency in the Genesis Apocryphon, in Biblical perspectives: Early use and interpretation of the Bible in light of the Dead Sea Scrolls. Proceedings of the First International Symposium of the Orion Center for the Study of the Dead Sea Scrolls and Associated Literature, 12-14 May, 1996, Edited by M.E. Stone - E.G. Chazon (Studies on the Texts of the Desert of Judah 28), E.J. Brill, Leiden-Boston-Köln 1998, 137-158; R. de Hoop, The use of the past to address the present: the wife-sister-incidents (Gen 12,10-20; 20,1-18; 26,1-16), in Studies in the Book of Genesis. Literature, redaction and history, Edited by A. Wénin (Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium 155), University Press – Uitgeverij Peeters, Leuven 2001, 359-369. 139  Il richiamo assoluto ἀπ᾽ ἀρχῆς di Gesù (Mt 19,8) vuole forse andare a questo principio? Il parallelo di Mc 10,6 è chiaro che si riferisce «all’inizio della creazione» (ἀπὸ δὲ ἀρχῆς κτίσεως), ma in Matteo l’assoluto «a partire dal principio» fa pensare. 140  P. Grelot, Homme, qui es-tu ? Les onze premiers chapitres de la Genèse, «Cahiers Évangile» n. 4 (1973) 16; tr. it.: Le origini dell’uomo. Genesi 1-11 (Bibbia Oggi 20), Gribaudi, Torino 1981, 18. 141  Le prime due risposte sono tratte da A. Neher, L’essenza del profetismo, Presentazione di R. Fabris (Radici 4), Marietti, Casale Monferrato AL 1984, 197-204. 142  D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e altri scritti dal carcere, a cura di Chr. Gremmels - E. & R. Bethge, in collaborazione con I. Tödt, Traduzione dal tedesco di A. Gallas - M. Zanini, Edizione italiana a cura di A. Gallas (Biblioteca di Cultura 19 = Opere di Dietrich Bonhoeffer. Edizione critica 8), Editrice Queriniana, Brescia 2002, 411.

96


Indice



Il Cantico dei Cantici

‫שיר השירים‬

Cantico dei Cantici su Salomone Atto primo

7

Introduzione: nell’harem

7

Prima scena: Competizione femminile

8

Seconda scena:

Ricordi e desideri

10

Terza scena: Il sogno

11

Quarta scena: l’arrivo di Salomone

12

Quinta scena: Preparativi

13

Sesta scena: l’incontro

14

Atto secondo

16

Prima scena: Il sogno diventa un incubo

16

Seconda scena: La bellezza dell’amato

17

Terza scena: Ultimi ritocchi

19

Quarta scena: Danza

20

Quinta scena: Consumazione

21

Sesta scena: inno all’amore invincibile

23

Conclusione: i fratelli, la ragazza, l’amato e Salomone

24

Glossario dei principali vocaboli ebraici utilizzati

25

Pietro Paolo Tarasco Il Cantico dei Cantici (Matera, 2020)


INDICE

Il Cantico dei Cantici - Lo scrigno dell ’amore di Gianantonio Borgonovo La “mortificazione” dell’allegoresi e l’“anastasi” simbolica

29

Il vertice poetico e teologico: l’amore più forte della morte

32

Il genere della composizione

33

Alla ricerca della trama del “libretto”

39

La data di composizione del Cantico

50

L’appartenenza al canone scritturistico

52

Monogamia e monoteismo. Alla radice del simbolo dell’amore sponsale

53

Il valore del simbolismo dell’amore monogamico

55

Note

59




QUESTA EDIZIONE DI BRANI SCELTI DI SANT ’AGOSTINO E PASC AL COMPOSTA CON I CARAT TERI W. CASLON TONDI E CORSIVI

IN

CORPO

DIECI

E

UNDICI

È

S TATA

‫שיר השירים‬ Questa nuova traduzione de IL CANTICO DEI CANTICI IMPRESSA IN 225 ESEMPL A R I : D ILUZI QUESTI 200 MARIO a cura di Gianantonio Borgonovo è pubblicata da Metteliana per S U C A RTA A M AT R U DA D I A M A L F I . N E S O N O Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo in occasione STATIAssociazione STAMPATI INOLTRE 12 SU C ARTA A MANO del Centenario di Arturo Benedetti Michelangeli (1920-2020) e ALC ANTARA DELLE C ARTIERE SICARS DI C ATANIA anni dalla nascita di R Mario Viene stampata conPi E S C I A 1 0 S U a 106 VER G ATA AV O I O Luzi. M AG NA NI DI 500 copie 300 speciali su carta E 3 S Ucaratteri B U NGaramond KO S H I inD EL G Idi Acui PP ON E . LICENZIATA D A C E NdiTpuro R Ocotone S TA M PA aD I Cda IT T À D ad I Amalfi C AS T E L L O fabbricata mano Amatruda IL 13 N EMB E Fedrigoni M M X IArena I GIvory ENE TLIACO DI eO 200Vcopie su R carta Smooth. SANT’AGOSTINO La prima copia speciale è dedicata a Papa Francesco.

ED ECCO TORNA A LUI 

Finitopubblicazione di stampare il 21 novembre 2020novembre 2012 Esaurita la prima del 13 viene stampata Festa questa nuova edizione in occasione della Presentazione della dell’“Anteprima dell’apertura del nuovo museo del Beata Vergine Maria Duomo di Milano” celebrata con la presentazione del libro al Tempio di La Condizione umana Sant’Agostino – Blaise Pascal, 28 maggio 2013 – “Sala delle Colonne Gerusalemme del Museo del Duomo”

Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo

Metteliana





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