Scelte Pubbliche 3 Firenze Dopo

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EDITORIALE di Gianni Cuperlo

Il nuovo ponte della tramvia

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Editoriale di Gianni Cuperlo

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Scenari di crisi: la situazione dell’Italia. Intervista a Massimo D’Antoni e Annalisa Tonarelli a cura di Sara Di Maio, Andrea Vignozzi

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Dopo le alluvioni, territori fragili. Intervista a Silvia Viviani a cura di Sara Di Maio

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Le reti che fanno crescere l’Italia: un primo commento sul convegno di San Casciano di Michele Giardiello

Firenze dopo

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Firenze “frontiera” del nuovo Nord di Paolo Perulli

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La Città di città di Mauro Grassi e Stefano Casini-Benvenuti

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Dalla mobilità fisica alla mobilità sociale di Mirko Dormentoni e Valerio Vannetti

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Pedonalizzare e costruire città di Leonardo Rignanese

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La città del futuro tra innovazione e tecnologia di Giacomo Scarpelli e Lorenzo Zambini

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L’ospitalità come risorsa di Giandomenico Amendola

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Per una logistica creativa: appunti per un’ipotesi di lavoro di Paolo Sorrentino

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Nuovi paesaggi urbani di Giuseppe De Luca

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Considerazioni su PD, urbanistica e rendita urbana di Stefano Stanghellini

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Lontano di Maurizio Izzo

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Qualche riflessione su Firenze, la sua storia recente, il suo contesto territoriale di Riccardo Conti

Scrivo queste note mentre il senatore a vita, Mario Monti, completa le sue consultazioni per la formazione del nuovo governo. Davanti a lui, e a tutti noi, ci sono una strada accidentata e molti ostacoli da superare. Ma il primo enorme scoglio il paese lo ha oltrepassato nei giorni scorsi: la caduta di un governo che da oltre un anno aveva esaurito ogni funzione e restava in sella a dispetto dei santi solo in ragione di un pugno di deputati accorsi al capezzale del morente non certo per amor di patria. Altri, in questi giorni, hanno stilato l’elenco di abbagli e gaffes che hanno contrassegnato la vita dell’ultimo esecutivo presieduto da Berlusconi. Sono istantanee, battute, volti, che resteranno scolpiti nella memoria e anche tra parecchio tempo la maggioranza degli italiani se ne ricorderà come dei segni di una delle stagioni più tristi e declinanti del nostro spirito civico e del nostro orgoglio nazionale. Giustamente Bersani, davanti al popolo democratico di Piazza San Giovanni, ha detto che l’Europa della destra ha la colpa di aver mancato l’appuntamento con la storia, ma la destra italiana ha la responsabilità di avere sprofondato un grande paese nel ridicolo. E anche di questo, prima o dopo, dovranno rispondere. Adesso quel ciclo si è chiuso. Speriamo per sempre. E si avvia un’altra fase nella quale conteranno di nuovo parole che il loro lessico aveva archiviato: sobrietà, responsabilità, bene comune, interesse generale, avvenire e futuro delle generazioni più giovani. Di questo il governo entrante dovrà occuparsi. Il che non significa sottovalutare il peso condizionante dello spread o la collocazione da qui ad aprile dei duecento miliardi di euro in titoli pubblici che giustamente il capo dello Stato ha indicato tra le urgenze del nuovo esecutivo. Ma le due dimensioni si tengono. Guai a noi se cedessimo all’idea che tutto si racchiude nell’emergenza finanziaria e dei nostri conti. La sfida vera è agganciare le misure necessarie sul fronte della finanza segue a pag. 2

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EDITORIALE segue da pag. 1

pubblica e della rassicurazione dei principali detentori del nostro debito a un rilancio della crescita e a un pacchetto di misure che restituiscano alla parte più colpita dalla crisi la percezione di una volontà di giustizia e di equità dopo gli anni delle vacche grasse solo per alcuni. Ecco, da qui bisogna ripartire. Da un primato di quella solidarietà che troppo a lungo si è ritenuto di dover cancellare. Noi, come sempre, abbiamo messo in campo le nostre proposte. Sono chiare, semplici, immediate. Aggredire i costi della politica, dimezzando il numero dei parlamentari e sfoltendo con ragionevolezza la pletora di aziende partecipate dal pubblico. Mettere a frutto le buone soluzioni avanzate sul terreno della lotta alla precarietà a partire dalla sola premessa in grado di scardinare l’assetto impallato del mercato del lavoro, la scelta di far pagare di più un’ora di lavoro precario rispetto a un’ora di lavoro stabile. E poi un pacchetto di misure per incrementare l’occupazione femminile con l’obiettivo di pareggiare in pochi anni lo standard medio dell’Europa, e questo perché in tempi di crisi il primo ammortizzatore sociale è se a fine mese in casa entrano due salari anziché uno soltanto. E ancora, affrontare il capitolo delle riforme istituzionali a cominciare da quella legge elettorale per il Parlamento rimasta senza padri e che adesso tutti considerano impresentabile. Insomma le cose da fare non mancano. Ma con la stessa sincerità dobbiamo dirci che vi sono anche cose che questo governo non potrà fare, per la sua stessa natura. Anche questo abbiamo detto senza giri di parole: di fronte al rischio di un collasso finanziario e di una bancarotta morale e democratica era giusto unirsi per fronteggiare una crisi senza eguali. Ma, una volta superata la fase dell’emergenza, sarà necessario ritornare davanti al popolo sovrano e restituire la parola agli elettori. Per almeno due ragioni. La prima è legata al bisogno di incardinare quelle riforme strutturali che solo un mandato elettorale chiaro è in grado di legittimare. Riforme che non avranno, per definizione, un tratto di neutralità, non saranno dettate da Bruxelles o da altri che non siano i cittadini italiani. Dunque saranno il frutto di risposte diversificate da parte dei due schieramenti – i democratici e i conservatori, il centrosinistra e il centrodestra – come avviene in qualunque altra democrazia. La seconda ragione ha molto a che fare con la difesa di quel tormentato bipolarismo che abbiamo costruito nell’arco dell’ultimo ventennio. Sarebbe un errore grave far derivare da una situazione di straordinarietà come l’attuale una diversa evoluzione del sistema politico e del quadro delle alleanze future. In altre parole non convince l’idea di una torsione centrista del Pd costretto a rompere con le altre componenti di una sinistra responsabile e di governo. Conviene a tutti – questo mi preme dire – distinguere tra la responsabilità dell’immediato e la necessità di proseguire nel lavoro paziente e serio che abbiamo avviato negli ultimi due anni e che ha indicato in un Nuovo Ulivo e in una solida coalizione di centrosinistra la prospettiva più giusta per il futuro del paese. D’altra parte, solo con un approccio del genere noi potremo stare compiutamente dentro il campo delle forze democratiche e progressiste nella scena internazionale. Non ne faccio una questione di sigle ma di temi, di

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contenuti e valori. Almeno se siamo d’accordo nel dire che questa crisi globale, per la sua dimensione, mette in gioco le condizioni del lavoro e dei salari, la sicurezza alimentare e la salute, i diritti umani, l’istruzione, la ricerca, i sostegni al reddito, fino ai contenuti stessi della democrazia. Sono i temi che infiammano le capitali di mezzo mondo. E se accade è perché questa crisi – diversamente dalle altre – discute alla radice il senso di una civiltà: il modo di concepire la crescita, la distribuzione delle risorse vitali, il destino delle persone. Non è poco. Ora, per anni ci siamo detti che una politica debole e chiusa nei recinti nazionali non aveva risorse contro un’economia sempre più globalizzata. Ma le cose non stavano proprio così. E’ vero, l’economia ha comandato. Peggio, hanno comandato i matematici. E la cosa non sembri banale. In fondo Adam Smith, il padre del liberalismo, era un filosofo morale. E nell’opera fondamentale di Keynes ci sono in tutto 4 semplici equazioni su 400 pagine di teoria. Cioè l’economia – la grande economia – non è mai stata solo una scienza del calcolo. Mentre dagli anni ’80 in avanti gran parte della ricerca economica si è fondata su formule matematiche sempre più complesse. E non per caso, ma perché la moneta ha cambiato la funzione storica che aveva svolto per sei o sette secoli: e da strumento dello scambio di merci, beni, idee si è trasformata in fine stesso dell’accumulazione. A quel punto le fluttuazioni dei titoli, gli indici delle borse, le previsioni del rischio sono diventati il tutto. Quella economia – non l’economia in generale – ha stretto un patto col diavolo, e ha sacrificato la creatività, il lavoro delle persone, la natura delle società nel nome di un profitto senza scrupoli. Senza limiti. E senza morale. Ce l’hanno venduta come una teoria economica: ma è stata una dottrina politica. Una solida dottrina politica. E a quel punto ciascuno ha fatto il suo mestiere. L’economia ha incassato profitti stellari. La politica ha colpito dove serviva: l’etica del lavoro, la rete delle protezioni, i diritti e le libertà. E le ricadute sono state drammatiche. Mi è capitato di ricordare, qualche settimana fa a l’Aquila, che nel mondo 3 miliardi di persone hanno un lavoro, ma solo 1 miliardo e 200mila ha un contratto più o meno formale. Ed è una percentuale che tende a calare. Aggiungiamo a questo la più clamorosa redistribuzione di redditi dal basso verso l’alto: tra i 10 e 15 punti di Pil negli ultimi 40 anni, e il quadro si completa. Esuberi e povertà ai gradini più bassi. Una fiscalità di vantaggio alle imprese e ai rentiers. I diritti umani e civili come merce di scambio. Ecco, in sintesi, le ragioni per cui è essenziale che il Pd prosegua nella sua strada e non riduca la sua funzione solo a una tabella di obiettivi contingenti. Perché noi siamo nati con una finalità più alta e un’ambizione maggiore che era ed è quella di restituire alla politica uno spazio a lungo negato. Tornare a fare della lettura del mondo, e di questa crisi, la leva per un altro progetto di crescita, di economia, di convivenza, di democrazia. Siamo in campo, quindi, da subito per assumerci una quota dei pesi e delle responsabilità, ma sappiamo anche che i prossimi mesi saranno decisivi per la costruzione di quell’alternativa alla destra che l’Italia, al pari dell’Europa, merita oggi più che mai.


Scenari di crisi: la situazione dell’Italia.

Intervista a Massimo D’Antoni e Annalisa Tonarelli a cura di SARA DI MAIO* Tavola rotonda con: Massimo D’Antoni, docente di economia e in particolare di scienze delle finanze all’università di Siena. Si occupa di intervento pubblico nell’economia nelle sue forme, quindi dalle imposte alla regolazione dei mercati, la fornitura di beni e servizi da parte del settore pubblico. Annalisa Tonarelli, sociologa del lavoro, ricercatrice a scienze politiche e da molti anni responsabile scientifica dell’osservatorio delle povertà e delle risorse delle Caritas diocesane di Firenze. Le tematiche di cui si occupa sono varie e in questo specifico ambito sono quelle riferite alla povertà, alla marginalità sociale, agli effetti economici sociali della crisi, all’impoverimento legato o meno alle condizioni di lavoro. Manifattura Tabacchi

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Per Scelte Pubbliche Riccardo Conti e Sara Di Maio. RC - Come legge la parola crisi un economista e come la legge una sociologa, ognuno dal proprio osservatorio e punto di vista? MDA - La crisi che stiamo vivendo come noto si é manifestata nel 2008 come crisi finanziaria con effetti che sono partiti negli Stati Uniti e che inizialmente hanno colpito soltanto alcuni Paesi in qualche modo periferici per l’Europa. Però, la fase particolare che stiamo vivendo, invece, sembra toccare nel cuore l’Europa tanto che il nostro continente é diventato in questo momento l’epicentro della crisi. Nonostante la situazione negli Stati Uniti non sia risolta, anzi rimane pesante, la preoccupazione massima è, in questo momento, per la tenuta dei mercati finanziari europei. Le vicende di questa estate hanno coinvolto, come noto, i debiti pubblici e quindi ci hanno toccato direttamente. I primi Paesi ad essere stati investiti sono stati l’Irlanda, che é entrata immediatamente in crisi, poi la Grecia, che attualmente é quella che crea più problemi, i Paesi Iberici, Spagna e Portogallo, tanto che é stato coniato in termine di PIGS, sigla che sta a indicare le iniziali di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. A queste è stata poi aggiunta una “i”, PIIGS, per l’Italia. Si parla, quindi, dei paesi mediterranei più l’Irlanda, mentre sembra che abbiano tenuto meglio i Paesi dell’area del marco, con la Francia in una posizione apparentemente più solida, ma qualcuno dice anch’essa a rischio. Perché questo quadro? Partiamo proprio dal versante macro. Le vicende macroeconomiche per tanti anni sono state oggetto semplicemente dell’interesse degli specialisti, ma oggi sembrano avere delle ricadute fortissime sulla nostra vita. La cosa più eloquente da questo punto di vista sono

* Sara Di Maio, laureata in Scienze delle comunicazioni, comitato di redazione di “Scelte Pubbliche”.

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le immagini che ci arrivano dalla Grecia. Qui il piano di risanamento contempla il licenziamento del 15% o del 20% dei dipendenti pubblici, una riduzione di salari e stipendi, una delle ultime cose che é stata chiesta é l’eliminazione del salario minimo e una serie di aggiustamenti che comunque si ritiene non saranno sufficienti. In sostanza i numeri sono tali che chiunque sa che la Grecia non sarà in grado di ripagare il debito. Si sta cercando già di affrontare il problema di cosa fare quando si dichiarerà l’insolvenza. In parte c’é già stata una ristrutturazione del debito, ma quando si arriverà a dichiarare l’insolvenza ciò potrebbe avere dei contraccolpi su molte banche francesi e tedesche e quindi ripercuotersi sull’occupazione. Nel frattempo la crisi, o comunque queste aspettative di crisi, hanno investito anche il nostro Paese e quest’estate abbiamo avuto una pressione molto forte sui titoli pubblici. Ciò significa che l’aspettativa degli investitori é che anche l’Italia possa trovarsi in una situazione di incapacità di ripagare il debito. Di conseguenza é difficile accedere al credito e quindi rifinanziare il debito. Si rende necessario l’intervento di un organismo esterno. Nell’emergenza e nell’assenza di strumenti più Ex stazione Leopolda, interno

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efficaci quest’organismo è stato la Banca Centrale Europea, ma poiché la BCE coinvolge anche gli altri Paesi é stata fatta una pressione molto forte sull’Italia, perché anche qui si avvii il risanamento dei conti pubblici. Arriviamo così alle conseguenze concrete. Prima di tutto però andrebbe detto che questa crisi non nasce dalla spesa pubblica. Ci sono alcune eccezioni. In Grecia c’é stato effettivamente un legame di causa con la spesa pubblica, ma é l’unico vero caso in cui i conti non erano in ordine. I conti italiani erano, e sono stati, relativamente in ordine. Noi siamo stati un Paese che nell’ultimo decennio ha avuto un livello di disciplina fiscale paragonabile a quello della Germania e della Francia. La differenza grossa é che noi ci portiamo un’eredità molto pesante in termini di debito, per cui nel momento in cui si é diffusa la preoccupazione che i debiti non si potessero pagare noi siamo diventati naturalmente oggetto di attenzione. Però in sé non é tanto l’ aspetto del bilancio che ha creato la crisi. Non lo é senz’altro per Paesi che sono stati in questi ultimi 2 anni in situazioni peggiori della nostra come la Spagna e l’Irlanda. Per dare un’idea l’Irlanda aveva un livello di debito pubblico di meno del

30% del PIL, il nostro é del 120% (era un po’ più basso fino a qualche tempo prima della crisi), in Spagna era del 49%, che é salito al 60% - 70% eppure é oggetto di attacco. Quindi che cosa é successo? Qual è stata la causa? Il caso dell’Irlanda è interessante, partiva con meno del 30% di debito. E’ stata una crisi della finanza privata, lo Stato ha dovuto salvare le banche e questo ha portato ad un accollarsi pubblico dei debiti privati, che ha fatto schizzare il debito a circa il 130% - 150%. I conti pubblici di molti di questi Paesi si sono compromessi per un salvataggio rispetto alla finanza. Questa è la prima cosa che va detta chiaramente: l’origine della crisi non è da ricercare nei conti pubblici. I conti pubblici sono intervenuti per evitare guai peggiori accollandosi il debito. Questo è importante, perchè è passata l’idea che la spesa pubblica fosse in qualche modo responsabile. E’ chiaro che nel momento in cui questi Paesi si fanno carico di tali debiti pubblici dovranno poi risanare, però va chiarita la causa. Parlare di responsabilità è sempre un discorso che lascia il tempo che trova, però è utile ricordare questo aspetto. L’Italia si porta questa eredità del debito che ne fa un Paese a rischio, però anche in questo caso noi siamo andati avanti per anni con livelli del debito di poco inferiori, ad un certo punto i governi di centro sinistra lo avevano anche ridotto, è risalito, non di molto, con la crisi. Il vero problema non è la dimensione in sè del debito, ma la dimensione del debito in rapporto al fatto che l’economia ristagna, non cresce. In che senso la crisi ha investito l’Italia? Il rallentamento complessivo dell’econimia a livello mondiale, per via dell’interdipendenza commerciale, ha fatto si che il livello di reddito, la produzione e il livello di crescita dell’Italia scendessero praticamente a zero e questo rischia di creare un problema di insolvibilità del Paese. Infatti, senza crescita, un debito che altrimenti sarebbe sostenibile diventa insostenibile. Il problema va, quindi, interpretato correttamente come un problema di crescita. E questo è un primo aspetto. Su questo si innesta un secondo aspetto, rimanendo in tema macroeconomico, che è importante sottolineare: il fatto di trovarsi nell’area euro. Questo è stato per anni un vantaggio. Il vantaggio di stare nell’area euro è stato quello di poter godere di accesso al credito, quindi, il potersi finanziare, debito pubblico e debito privato, a condizioni


molto vantaggiose rispetto a come avveniva negli anni 90. Cioè: con l’euro abbiamo ridotto i tassi di interesse a cui ci indebitavamo a livelli vicini a quei Paesi più virtuosi. Questo ci ha dato del tempo, in cui, però, avremmo potuto sfruttare un po’ meglio questa situazione. Avremmo potuto cercare di utilizzare questo accesso al credito per ristrutturare la nostra economia, per renderla più capace di stare sul mercato internazionale. Un’altra cosa che avremo potuto fare è sfruttare questo accesso al credito per ridurre il peso del debito pubblico. Diciamo che in questo decennio, che qualcuno chiama il decennio perduto, dal 2000 a oggi, si è fatto ben poco, si è vivacchiato. Quindi nel momento in cui c’è già una situazione di debolezza della nostra economia è arrivata anche questa crisi, il che ci porta ad oggi. L’euro è stato un vantaggio, ma anche una costruzione incompleta, che ha unificato la gestione della moneta, ma non ha previsto nessuno strumento per correggere gli squilibri che ci si sarebbe potuti aspettare si creassero e che si sono creati. Perchè non lo si è fatto? Perchè in quella fase si è stati probabilmente vittime di una visione del funzionamento dell’economia che pensava che l’unico ruolo per la politica economica fosse quello di lasciar funzionare il mercato, che avrebbe risolto i problemi. Si sono privati i Paesi di quella valvola di sfogo che è stata per anni il controllo della propria valuta, che voleva dire anche in certi momenti accettare la svalutazione, perchè economie che hanno diversi tassi di inflazione, diversi tassi di crescita della produttività, hanno bisogno di riallineare la loro competitività e per anni lo si è fatto svalutando ognuno la propria valuta. Non che questa fosse una strategia di grande respiro, perchè era anche un modo per scappare, anche a buon mercato, dalla sfida internazionale, però manteneva la situazione nei limiti del controllabile. Nel momento in cui è stata eliminata questa valvola qual sarebbe stato il mercato che avrebbe dovuto assorbire questi squilibri? Il mercato del lavoro. Per fare un esempio pratico: nel momento in cui noi non abbiamo la possibilità di riallineare attraverso il tasso di cambio la competitività, se i tedeschi riescono a essere più produttivi e magari a controllare meglio e mantenre più bassi i loro salari, che partono più alti e quindi hanno anche una maggiore capacità di assorbimento e noi invece per varie ragioni non riusciamo a farlo e ci ritroviamo nella situazione attuale. E’ come

se si fosse accumulata pressione, un po’ come se fosse un vulcano, ma tutta questa pressione chiede a quel punto un riaggiustamento che non si può fare attraverso la valuta, perchè ci siamo completamente preclusi questa strada. Allora la presssione va interamente sul mercato del lavoro. Questo si traduce in scarsa competitività dei nostri prodotti e quindi crisi economica, di conseguenza licenziamenti e una pressione verso una riduzione delle condizione dei nostri lavoratori. Se si prende un manuale di economia e si cerca come dovrebbe funzionare il mercato perfetto si trova una semplice soluzione: si abbasseranno i salari, abbassandosi i salari si abbasseranno i costi dei prodotti, così l’Italia ritorna competitiva e ritorniamo all’equilibrio. Il problema è che, come mostrò Keynes già negli anni 30, non funziona così. Infatti quella che si può innescare, al contrario, è una spirale depressiva, un effetto cumulativo in cui l’economia non si risolleva, e anzi si arriva a livelli di disoccupazione fuori dalle notre previsioni. RC - Qui c’è una categoria dell’economia che è stata la grande bistrattata degli ultimi 20 anni: la domanda aggregata. MDA - Per anni si è ragionato come se il problema fosse tutto un problema sul lato dell’offerta. Il problema sul lato dell’offerta c’è. Cosa vuol dire sul lato dell’offerta? Vuol dire funzionamento dei mercati, investimenti, competitività in vario modo intesa. Il problema è che quando, invece, si entra in un periodo di crisi l’econmia comincia a funzionare in una maniera diversa e il modo in cui l’economia funziona è meglio descritto da quel corpo di teorie ed interpretazioni che fu sviluppato in un contesto simile a quello attuale, con tutte le differenze, ma con qualche elemento simile, negli anni 30, dopo l’altra grande crisi, quella del ‘29. Quello che diceva Keynes, e che in questo momento ripetono molti autorevoli economisti americani, come ad esempio Paul Krugman, che si definiscono non a caso Keynesiani, è che le politiche che in questo momento vengono chieste ai Paesi, che sono politiche di restrizione, rispondono a quel meccanismo che si ricordava sopra, cioè l’idea che se si stringono i cordoni della spesa pubblica e si rende sufficientemente flessibile il mercato del lavoro, si passerà per un periodo di caduta della domanda, della produzione e dei salari, ma questa caduta dei salari sarà quello che consentirà all’economia di riprendersi. E’ quello

che ha fatto l’Irlanda, che però non si è ancora ripresa. Intanto ha fatto la caduta ed è quello che hanno fatto l’Argentina, il Messico, etc. Però, appunto, questo periodo di forte sofferenza secondo quest’interpretazione con una sufficiente flessibilità verso il basso del mercato dei salari ottenuta eliminando quanto più possibile le restrizioni del mercato del lavoro, dovrebbe consentire all’economia di tornare a essere competitiva. Quello che diceva Keynes è che invece questa caduta del salario non fa altro che abbassare le aspettative di domanda e quindi fa si che le imprese smettano di investire perchè non vedono uno sbocco per i propri prodotti. Noi dobbiamo ragionare a livello globale. Può darsi che queste ricette nel singolo Paese che entra in crisi (Argentina 2001, Messico qualche anno prima...) funzionino, perchè c’è tutta l’economia mondiale che può trainare. Nel momento in cui, invece, questa ricetta viene imposta contemporaneamente a tutti i Paesi il rischio è davvero che tutta la situazione peggiori e peggiori di molto. Questo è il senso dell’obiezione che diverse voci, ormai anche nel nostro Paese, cercano di porre all’attenzione, dicendo “attenzione perchè anche a livello europeo ci si sta muovendo su una logica che rischia di essere suicida per l’economia europea stessa”. Ossia: si sta facendo un ragionamento sbagliato. La Gemania è il Paese che ha retto meglio alla crisi. Cosa ha fatto? Ha contenuto i propri salari, è diventata competitiva, ha un avanzo, esporta tantissimo. Dovremmo fare tutti come la Germania. Ma dove esportiamo? La Cina punta agli avanzi commerciali, l’India e il Brasile devono reggere, l’America non tira più, perchè lo ha fatto per anni accumulando questa enorme bolla finanziaria e ora è scoppiata, quindi non può far più la locomotiva. La Germania si è fatta trainare dai Paesi come la Spagna e l’Irlanda. Qualcuno pensa che siano questi Paesi, come ad esempio la Germania, che dovrebbero porsi il problema, dal momento in cui chiedono un aggiustamento all’Italia e alla Spagna, di fare un po’ da traino sul versante della domanda. Quindi quello che auspicano alcuni economisti è un cambiamento complessivo del segno delle politiche, quello che viene detto crescita. Qualcuno dice che la crescita si ottiene flessibilizzando il mercato del lavoro, quindi abbattendo i costi e rendendo competitiva l’economia.

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RC - Uso una tua espressione: che l’alternativa a questo non può essere solo il partito dei Draghi. MDA - Secondo me è stato sbagliato in questa situazione personalizzare sia sull’individuo che sull’istituzione. La BCE non è stata quello che si è visto in questi giorni. Quello che si è verificato in questi giorni non è stata una polemica contro la banca. La BCE ha fatto più di quello che era la sua missione. Si è presa la responsabilità di fare quello che gli altri Paesi, l’Europa politica, con sono stati in grado di fare. Quindi non si può biasimare. Però allo stesso tempo la ricetta che è stata veicolata in quella lettera, che tutti conosciamo, è proprio quella ricetta sopra descritta. Una ricetta che alla lunga porterebbe o porterà al crollo economico. Nel momento in cui questi esiti dovessero davvero concretizzarsi, poi dovremmo spiegare alla gente che facciamo tutto questo per restare nell’euro! Non lo accetterebbero e preferirebbero ritornre alla lira. Cosa ormai non così facile. Il rischio è che si facciano i conti con queste politiche senza considerare la tenuta sociale e politica del Paese a cui vengono imposte queste ricette. Si dà per scontato che il Paese sia in grado di sopportare una situazione del genere. Viene citata la Lituania che l’ha fatto. Cioè la Lituania c’è riuscita. RC - Nel libro “Il mondo è marcio” di Monina Michele ad un certo punto dice che nella città del Cairo ci stanno 6 Svezie. Pensiamo alla Lituania in un modello europe. Nei mercati globali poi diventano ben altre le dimensioni e le scale. Quello che viene detto è che noi siamo abbastanza grandi perchè non ci possano salvare e altrettanto grandi perchè non si possa essere buttati alla deriva. MDA - Questo è vero. Esiste poi una dimensione di urgenza della crisi e una più strutturale, che potrebbero essere tenute distinte. L’urgenza è tranquillizzare i mercati finanziari per la questione degli spread, la crescita degli interessi. Questa, in ogni caso, è una cosa che riusciamo a sopportare, perchè abbiamo una scadenza dei titoli lunga, cioè non dobbiamo rinnovare a quei tassi tutto il nostro debito, ma soltanto una piccola parte. Ma se questi tassi che abbiamo ora si protraessero per anni si parlerebbe di una cifra, solo considerando gli interessi per la spesa pubblica, pari a tutta la manovra che abbiamo fatto quest’anno. Cioè la manovra servirebbe solo a coprire il costo dei maggiori spread. L’opinione di molti è che ci sia un eccesso di pessimismo, rispetto alla reale solvi-

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bilità del Paese. Cioè è un gioco di aspettative per cui non è necessario che io creda che l’Italia non sia solvibile, è sufficiente che gli investitori credano che gli altri non credano che sia solvibile perchè poi la cosa funzioni in quella maniera. Ossia se io ritengo che l’Italia sia solvibile, ma sono convinto che gli altri non la riterranno solvibile, allora scommetto sulla non solvibilità. Rispetto a situazioni di questo tipo normalmente i Paesi come sono in grado di fronteggiarli? Con la presenza di una banca centrale che a un certo punto fissa il prezzo dei titoli e che acquista tutti i titoli a questo prezzo. In questo modo la scommessa sul ribasso dei prezzi non funziona più e viene disinnescata. Il problema è che noi abbiamo una banca centrale a cui è stata esclusa la possibilità di acquistare i titoli di stato. Cioè noi ci siamo privati di una nostra banca centrale, abbiamo delegato a livello europeo la gestione della politica monetaria, però abbiamo detto che non la può fare per paura dell’inflazione e della politica monetaria attiva. Quindi noi siamo privi, qualcuno lo ha chiamato efficaciemente, del big bazooka. Del bazooka che può bloccare questo gioco di aspettative. Rispetto a questo si è innestato il dibattito sul fondo salvastati, che serve proprio a dare un po’ di calma ai Paesi. Comunque risolto questo il problema strutturale rimane, cioè la difficoltà nel ricreare competitività e la maniera in cui lo si può fare. Quello che c’è tra i Paesi europei è uno squilibrio che non ha strumenti per essere risolto in modo strutturale, e che quindi rischia di riproporre lo stesso problema fra 1 anno o fra 3 anni. Rispetto a quello bisogna mettere in campo qualcosa di più grosso. Qualcuno parla dell’unione fiscale, qualcun altro invoca altri strumenti di correzione. RC - Ci sono anche gli eurobond alla Prodi, che ottengono già una finestra che è finanziamento per gli investimenti. MDA - Finanziamento per gli investimenti che potrebbero essere a quel punto mirati sui Paesi che hanno un deficit di infrastrutture, di capitale umano, cioè tutto quello che rende il Paese meno competitivo. RC - E mira alle contraddizioni del Paese, cioè sarebbero strumenti selettivi. MDA - La politica dovrebbe essere selettiva. Questa è una cosa che noi in Italia non riusciamo mai a fare: una politica selettiva. RC - Io ho visto che l’obiettivo 2 è stato una cosa rilevante nelle politiche anche locali e regionali. Ma

Ex Meccanotessile

non c’è selettività. Con meccanismi che sono pericolosissimi, come le sese di compartecipazione, che alla fine hanno drogato anche le altre spese. MDA - Da economista favorevole ad un intervento attivo dell’economia devo riconoscere che c’è un punto di chi è scettico che va affrontato e cioè il fatto che spesso quando si parla di poltiche industriali questo si traduce spesso in intervento a pioggia, che finisce semplicemente per prolungare l’agonia di certi settori e attività che, invece, forse, sarebbe meglio chiudere, perchè alla lunga non reggono. E’ un discorso un po’ difficile da fare, però la politica economica dovrebbe aiutare la riconversione verso quelli che sono i nostri punti di forza, non la sopravvivenza dei nostri punti deboli. In effetti il mercato è molto più impietoso. E qundi quando qualcuno dice di lasciar funzionare il mercato non ha torto, perchè ci saranno un po’ di rovine, ma alla lunga ne usciremmo meglio. Il problema è quanto alla lunga. In mezzo, poi, ci sono i costi sociali, che spesso vengono sottovalutati. Questi sono costi sociali che non avremmo la garanzia si possano tradurre anche in spinte demagogiche e in grossi rischi. In un paese che affronta cadute del reddito come quelle che stia-


mo vedendo in Grecia c’è da dubitare della tenuta democratica. La stessa cosa pensata sull’Italia cosa produrrebbe? Soprattutto dall’osservatori sociale. AT - E’ stato aperto uno scenario che va ben oltre i dati dei centri di ascolto della Caritas e dei nostri osservatori, però mi riallaccerei a quello che diceva prima il collega. Intanto si è parlato a lungo di questa crisi che ha radici lontane, che forse sono sono state assimilate erroneamente a esperienze del passato, quando non è detto che dal momento che gli attribuiamo lo stesso nome ossia crisi, i fenomeni siano simili. Comunque abbiamo parlato di questo evento come di una crisi economicamente seria, ma non socialmente grave, quindi che stentava ad avere delle ripercussioni sociali drammatiche, così come la crisi degli anni 30 aveva prodotto. Io credo che proprio per quel discorso che si faceva poco sopra, questa tendenza a scaricare successivamente, con una lentezza che è quella dei processi, gli effetti economici sul mercato del lavoro cominci a dare, invece, quel frutto che si sperava di non vedere, cioè del socialmente grave. Credo che i fatti della manifestazione degli Indignados a Roma, qualunque sia l’interpretazione che vogliamo dare

loro, dimostrino che ci siano intorno a noi segnali di un aggravarsi della condizione sociale quindi di questa tensione che si è scaricata sulla società, sull’uomo comune, sulle famiglie, rispetto, appunto, a una situazione che economicamente ci è stata dipinta come grave da molto tempo. La società a questo punto si trova a pagare 2 volte rispetto a tutto il meccanismo individuato qui, perchè da un lato ha subito gli effetti della crisi finanziaria rimettendoci anche dei propri investimenti, del piccolo risparmio, e dall’altro poi con le ripercussioni occupazionali, ma anche con i taglio della spesa pubblica che è stato imposto che è andato a detrimento di servizi che erano servizi essenziali per una componente già fragile della popolazione e che hanno rischiato di mettere in una situazione di ulteriore difficoltà anche soggetti che fino a ora non avevano sperimentato situazioni di rischio. Siamo, secondo il mio punto di vista, alla fase in cui è anche socialmente grave. Quanto lo sarà credo che ancora non se ne abbia contezza e credo che da questo punto di vista i dati nemmeno ci aiutino. Credo che ci sia un problema di fotografia del sociale che è molto più sfumata e molto più imprecisa di quanto non avvenga per i dati economici.

Faccio un esempio fra tutti. Non solo per noi è difficile sapere quante sono le persone in povertà, perchè dipende dalla soglia che si definisce di povertà assoluta e relativa, in relazione a cosa lo si misuri. Così come è difficile misurare in modo corretto quelli che sono gli effetti di tipo occupazionale. Se noi spostassimo la componente dei cassaintegrati, come legittimamente andrebbe fatto, sulla componente dei redditi di disoccupazione, piuttosto che su quella dell’occupazione, vedremmo che il fenomeno della perdita del lavoro interessa una componente molto più importante dei lavoratori. Allo stesso tempo se noi consideriamo che il tasso di disoccupazine si misura sulla popolazione attiva, nel momento in cui noi andiamo a vedere qual è la condizione dell’inattività nel nostro Paese vediamo che è una situazione drammatica. Non solo siamo al posto più basso d’Europa, e di gran lunga, ma lo siamo con un meccanismo che è in discesa, invece che in salita, che ha caratterizzato gli altri Paesi anche quelli a noi più vicini: la Spagna, la stessa Grecia e i Paesi mediterranei. Ritorno su un punto: la dimensione sociale della crisi si sta manifestando, lo sta facendo ancora in modo non così esplicito, almeno attraverso i dati. Credo che esistano anche altri segnali, anche molto tuonati e gridati, come quelli delle manifestazioni di piazza, che ci parlano di un disagio che trova, però, allo stesso tempo, difficili vie di espressione perchè non riesce a trovare forma e non riesce a trovare neanche canali di espressione. Tornando al discorso della crisi mi viene anche da interrogarmi se questa possa essere effettivamente definita una crisi. La crisi ha un punto di caduta a cui fa seguito una ripresa. Mi chiedo, quindi, se siamo di fronte a una crisi o se siamo di fronte al declino di un modello che sta mostrando chiaramente le sue corde. Allo stesso tempo credo che se noi guardiamo alla componente sociale è anche ingeneroso e ingiusto attribuire l’emergenza di alcuni fenomeni e problematiche esclusivamente alla crisi finanziaria. Sono molto d’accordo con quello che si diceva sulla ripercussione, sul fatto che la tensione si scarica tutta sul lavoro. Allo stesso tempo credo che la situazione del mercato del lavoro con la crisi sta mostrando delle problematiche, delle inefficienze, delle inadeguatezze, che comunque la caratterizzano, almeno nel caso italiano, da sempre. Facevo prima riferimento all’inattività. Quella dell’inattività è un problema

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strutturale del nostro mercato del lavoro affrontato molto debolmente e molto inefficaciemente, ma direi ancora di più tematizzato. RC - Ricordiamo gli studi degli anni 50, 60 e 70, ad esempio Paci: per loro era questo il macigno. AT - Ma cosa si è fatto per promuovere l’attività? Ovviamente si sono fatte moltissime politiche per promuovere l’attività delle donne, sicuramente è aumentata l’occupazione femminile e l’attività femminile e allo stesso tempo si è perso quella delle fasce adulte. Quindi si è aumentato da una parte e tolto dall’altra. C’è un problema gravissimo che sta emergendo che è quella dei cosiddetti MIT i giovani che sono in una situazione nè di occupazione, nè di studio. E’ una componente crescente e riguarda giovani per modo di dire, perchè si parla di persone che sono alla soglia dei 30 anni. Quindi la crisi c’entra, ma non c’entra solo la crisi. Sono un po’ provocatoria in questo: se la crisi, se questa situazione di crisi di tipo finanziario, avesse il vantaggio di scoprire quelli che sono gli elementi critici del nostro mercato del lavoro e quindi offrisse l’opportunità di un cambiamento allora in questo caso la crisi sarebbe veramente tale. Non riesco ad essere ottmista. Forse si svela una situazione di difficoltà strutturale. Il discorso della ricetta della flessibilità, ossia il rendere più flessibile il mercato del lavoro per ammortizzare le difficoltà di un sistema, credo che sia un’affemazione generica che

Ex Meccanotessile, ipotesi di restauro

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circola, che però va meglio specificata. Flessibilità vuol dire tante cose molto diverse. La flessibilità è quella della Danimarca, che è vero è molto più piccola, però ha sicuramente modelli virtuosi. Flessibilità è anche quella della Germania, più grande della Danimarca, in cui però la fessibilità è stata una filosofia attuata in modo intelligente e in modo strutturale, che appunto ha sedimentato nel tempo anche buone partiche e aggiustamaneti che consentono di poter essere flessibili sul mercato del lavoro, ma allo stesso tempo garantire l’integrazione sociale. Entrambi sono Paesi con il reddito minimo, Paesi in cui la flessibilità si paga comunque. Le imprese che usano la flessibilità sono imprese che la pagano. Il pagare di più la flessibilità consente attraverso meccanismi non opportunistici di rimettere in circolo questa ricchezza, che serve a finanziare il reddito minimo, i sussidi di disoccupazione. Nel nostro Paese, in qualche modo, il ricorso alla flessibilità che è avvenuto in modo tardivo e caotico, nonostante il tentativo di normarla significa un risparmio sui costi, ma un doppio risparmio: l’impresa che usa la flessibilità paga meno il lavoro e non si accolla il rischio di tenere un lavoratore. Il peso è completamente scaricato. Senza che a questo si accompagni un’intelaiatura di presidi di tipo istituzionale e sociale, che consentano al lavoratore di essere protagonista anche di percorsi

di carriera flessibile, cosa che esiste ormai in tutti i paesi d’Europa. Non si può demonizzare la flessibilità. In Francia ci sono persone che hanno una carriera di lavoratori interinali virtuosa che dura per tutta la loro vita professionale. Da noi questo non esiste. Quindi anche qui la flessibilità all’italiana, sicuramente non è una misura che può servire allo stesso tempo per ammortizzare gli effetti della crisi senza portare allo sfascio dello Stato, a un’involuzione della nostra società. La flessibilità giocata virtuosamente come avvene in Germania, come avviene in Danimarca, come avviene parzialmente anche in Francia, può essere una soluzione che non necessariamente è in netta contraddizione e/o opposizione con un modello che è anche un po’Keynesiano e quindi non delega tutto al mercato, alla risoluzione attraverso il mercato, quindi che compendia una strategia centrata sul lavoro con una definizione di strumenti di sostegno sociale. Questo un po’ in termini generali. Non credo che possa essere un caso che le realtà in cui la crisi si fa sentire in modo più forte e drammatico siano proprio quei Paesi in cui il mercato del lavoro già presentava storicamente una sitazione di debolezza. Il modello del mercato del lavoro mediterraneo non a caso prevedeva debole occupazione femminile, tassi di attività molto bassi, disoccupazione di ingresso e via dicendo. Dunque il fatto che siano questi Paesi ad aver reagito in


modo peggiore significa appunto che la crisi ha evidenziato delle situazioni pregresse di difficoltà. RC - Una cosa di congiunzione: mi pare che ambedue da punti di vita diversi siete arrivti al punto, che è sinteticamente, quello del modello, dopo il risanamento, dopo l’emergenza dalla crisi sociale. E mi pare sia il tema su cui merita finire questa tavola rotonda, perchè è un tema di grande interesse che richiama dibattiti storici della sinistra, dibattiti storici sull’Italia, dibattiti in corso. Vi metto in guardia da far saltare una distinzione tra intevento pubblico e politiche pubbliche. Le politiche pubbliche possono essere di vario genere e forse è questo lo scacchiere, chiedo all’economista, che dobbiamo interessare. Non sarei per abbandonare politiche di concorrenza per il mercato, però mi sembra che il punto cruciale sia quello del modello. MDA - Due o tre cose che si collegano anche a quello che si diceva prima, cioè l’intervento pubblico assume varie forme e dinamiche. In decenni in cui ha prevalso una visione eccessivamente fiduciosa nel mercato, una sorta di neoliberismo, qualcuno lo chiama il pensiero unico della fiducia nel mercato, ci sono state anche delle “acquisizioni”sul modo in cui il pubblico deve intervenire, l’intervento non è necessariamente la gestione diretta, ma può anche limitarsi alla regolazione. Tutto questo può andar bene. Si è arrivati, invece, a riassumere una visione per cui c’era un pregiudizio negativo su qualsiasi interferenza con il naturale funzionamento del mercato, quindi io credo e spero che uno dei lasciti, quando si risolverà, speriamo, questa situazione è di abbandonare un po’ questa visione, cioè di accettare che il mercato è una forza formidabile di dinamismo, di incentivazione, etc. ma non può essere lasciato come unico principio per governare lo sviluppo. Cioè c’è una responsabilità e ci sono cose che necessitano di un’azione collettiva, chiamiamola genericamente, che può assumere varie forme fra cui anche quella dell’intervento tramite lo strumento politico. Il mercato fa molto bene alcune cose, non è in grado di farne altre. Non è in grado di fornire le infrastrutture e quelli che tecnicamente vengono chiamati beni pubblici o beni a consumo collettivo è noto, ci sono studi sterminati che dicono che il mercato li fornirà poco e male, per cui nel momento in cui noi affidiamo al mercato la produzione dei beni ci ritroviamo con una carenza di questi beni pubblici

o beni comuni o come li vogliamo chiamare. RC - Concorrenza per il mercato è un concetto diverso. MDA - Concorrenza per il mercato è una modalità con cui io posso sfruttare la competizione per introdurre l’efficienza anche nella produzione di alcuni beni pubblici, anche se poi forse anche lì non la sopravvaluterei, o comunque è una cosa che va saputa fare e va fatta bene. Chissà se la crisi avrà questo risvolto positivo? Io temo purtroppo che nell’immediato molti problemi strutturali dell’Italia rischino, se non si sta attenti, di essere aggravati, cioè, pensiamo all’esempio emblematico della partecipazione femminile. In un momento in cui la parola d’ordine diventa “siccome siamo in crisi non possiamo più permetterci un welfare”lasciamo che di quei problemi, che non svaniscono, se ne occupino le famiglie, cioè degli anziani, delle donne. L’effetto è che nel ritirarsi della spesa pubblica per risanare si peggiora il problema di partecipazione al mercato del lavoro e quindi si crea un danno dal punto di vista economico, che crea un circolo vizioso. Quindi attenzione perchè nel momento in cui si deve scegliere, ridurre probabilmente alcune spese sarà inevitabile, però non dobbiamo essere vittima di questo pregiudizio per cui l’eliminazione di qualunque spesa pubblica è un vantaggio per l’economia, perchè in molti casi è esattamente il contrario cioè molta spesa pubblica, anche molta spesa sociale, a cui di solito si attribuisce solo il compito di alleviare i danni e la povertà, non gli si attribuisce una funzione di incremento di produttività. Invece ce l’ha, perchè molta spesa sociale è ciò che consente una maggiore partecipazione al lavoro quindi, un maggior livello di reddito e di produzione nell’economia. Io temo che s’inneschi questo meccanismo invece che meccanismi virtuosi. AT - Io su questo sono assolutamente d’accordo nel condividere il pessimismo. Condivido anche l’analisi, perchè quello che ci mostrano esempi di altri paesi, per quanto diversi, possono offrirci elementi di riflessione. Investire anche in una situazione di crisi sulla spesa pubblica, che genera occupazione come quella del sociale, i servizi all’infanzia, i servizi agli anziani, consente di generare occupazione. Direttamente e indirettamente. Ovviamente anche questo non è automatico, e io ritorno su quel punto: che tutto avvenga attraverso comportamenti non opportu-

nistici. Perchè se io ho bisogno di cura e chiamo la badante a nero il mio scaricare su un altro genera un piccolo passo nel lavoro per una persona che ne ha necessità. Ma se io finanzio un servizio che si occupa di anziani e tutto ciò avviene in modo gestito anche da welfare pubblico o dal privato sociale, questo genera non solo occupazione, ma genera reddito, e anche reddito sociale che va a finanziare il servizio. Quindi si può innescare quel meccanismo virtuoso che è un volano per l’occupazione e che rende l’occupazione un volano di sviluppo. Sono d’accordo: si sta andando nella direzione completamente contraria, almeno i segnali vanno in questa direzione. Qui parlo più da sociologa che da sociologa del lavoro, la mia impressione è che anche i modelli culturali cerchino di prefigurarci un mondo in cui effettivamente lavorare non è più la priorità, per esempio per le donne o per i giovani. Credo che ci sia un effetto scoraggiamento anche un po’ cercato, un po’ voluto, dal momento in cui alle giovani generazioni viene mandato il messaggio che studiare non importa, che l’informazione è un optional inutile.... RC - Ho sentito fra voi toni di fiducia diversi, mi sembra si possa commentare pensando a movimenti collettivi che ora vanno interpretati, che dovranno avere anche un’interlocuzione. Io sono molto d’accordo con chi ha segnalato l’interesse per milioni di giovani di tutto il mondo, anche lì sollevano questo problema, che poi è il problema del predominio del mercato in ultima istanza. Il punto è che va riclassificato il rapporto fra politica e economia. Mi pare sia il punto decisivo. Tutto il tema che voi avete affrontato in maniera implicita sulla prospetiva e sull’emergenza, in entrambi i casi c’è stato un peso del caso Italia che ha accumulato problemi a breve e problemi più terra terra di credibilità, quando i mercati non ci credono anche perchè c’è il fattore B. AT - Quanto conta il fattore B? MDA - L’ha fatto Boeri che ha fatto la differenza con la Spagna. Siccome in Spagna non ce l’hanno, il fattore B, in Italia si, allora può essere che conti... senz’altro conta. Però son portato a ragionare come se quello l’avessimo già risolto. Una volta che l’abbiam risolto il problema c’è lo stesso. AT - Questa volta l’ottimista sei te... MDA - Più di tanto non può durare. AT - Per motivi anagrafici.

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Dopo le alluvioni, territori fragili.

Intervista a Silvia Viviani vicepresidente INU a cura di SARA DI MAIO In riferimento alle alluvioni degli ultimi giorni di chi sono secondo lei le responsabilità? Le terribili vicende che hanno colpito il Nord e Centro Italia in questi giorni chiedono in primo luogo una decisa coesione istituzionale, politica, culturale e sociale, che vada oltre la ricerca delle singole responsabilità per le quali, peraltro, sono impegnati gli organi a ciò competenti. I fattori che vanno considerati sono almeno due, dai quali partire: - l’eccezionalità dell’evento (la calamità naturale), - lo stato dei territori colpiti dall’evento eccezionale. Il termine eccezionalità deve legarsi a quello del rischio, mentre lo stato dei territori chiede anche la riformulazione della categoria dell’eccezionalità. Non mancano, nel nostro Paese, leggi generali per l’urbanistica e il governo del territorio e leggi di settore a tutela dell’ambiente, alle quali, inoltre, corrispondono strumenti (piani, politiche, programmi) in capo a diversi Enti competenti (Stato, Regioni, Province, Comuni). Fra queste, non mancano apposite leggi in materia di difesa del suolo, a partire dal ceppo normativo nazionale che risale al primo Novecento, fino ai più recenti testi comunitari e alle disposizioni statali e regionali. A chi spetta la responsabilità della difesa del suolo? Gli anni Novanta del secolo scorso sono caratterizzati da un profondo rinnovamento legislativo, in base i princìpi della prevenzione dei rischi e della difesa dei valori ambientali e paesaggistici sono stati assunti come base della sostenibilità della pianificazione territoriale e urbanistica. Dal 1989, anno di emanazione della L. 183 in materia di difesa del suolo, l’amministrazione pubblica, alla quale compete governare città e territorio, (lo Stato, le Regioni a statuto speciale ed ordinario, le Province autonome di Trento e di Bolzano, le Province, i Comuni, le Comunità montane, i Consorzi di bonifica ed irrigazione e quelli di bacino imbrifero montano) ha l’obbligo di assicurare la

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difesa del suolo, il risanamento delle acque, a fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi (art. 1 L.183/1989), svolgendo ogni opportuna azione di carattere conoscitivo, di programmazione e pianificazione degli interventi, di loro esecuzione (ibidem). Ne conseguirono la suddivisione del territorio nazionale in bacini idrografici di rango nazionale e di rango regionale, con relativo riparto di competenze e l’obbligo di formazione di appositi Piani di Bacino. La prevalenza dei Piani di Bacino su qualunque altro strumento della pianificazione di qualunque altro Ente che governa il territorio è una componente del nuovo approccio nel quale si affronta la questione del rischio nella pianificazione urbanistica e territoriale, tramite una valutazione secondo molteplici criteri integrati tra loro. L’assunto di questi giorni è che la pianificazione territoriale, quindi l’edificazione, e la difesa del suolo siano completamente scollegate fra sé, quindi che si costruisca senza assolutamente tener conto dell’ambiente. Esiste un legame vero tra la pianificazione territoriale e la difesa ambientale, la difesa del suolo? La difesa del suolo è stata ormai assunta quale componente della pianificazione e ciò ha significato essersi fatti carico – secondo princìpi di prevenzione - dell’interazione tra ambiente naturale e ambiente costruito o che si intende costruire, in termini di previsione evolutiva e per stabilire condizioni che garantiscano di mantenere e recuperare le risorse territoriali (e in tal senso prevenire dissesti idrogeologici). Sarebbe lungo l’elenco dei provvedimenti, leggi, atti e piani, nella sola Toscana, una delle due regioni duramente colpite dalle vicende di cui trattiamo, riferiti alla difesa del suolo e alla prevenzione del rischio idraulico nonché al governo del territorio, nei quali tali innovazioni sono contenute, e non si fa fatica a trovarne effet-

ti diretti di miglioramento degli strumenti della pianificazione territoriale regionale, provinciale e comunale, in ordine alla difesa dell’ambiente e alla prevenzione del rischio, ed effetti indiretti, che si vedranno nell’applicazione di quegli strumenti, che si sostanziano nella inedificabilità di suoli a rischio e nella individuazione di regole di prevenzione e di opere di messa in sicurezza idraulica. Misure specifiche per la difesa del suolo e la prevenzione del rischio idraulico sono contenute in apposita deliberazione del Consiglio regionale toscano, del 1994, che integra le norme urbanistiche regionali, e saranno pilastri delle riforme urbanistiche toscane della metà degli anni Novanta (LR 5/1995) e della metà degli anni Duemila (LR 1/2005), che hanno prodotto un totale rinnovamento della pianificazione, con due Piani territoriali regionali, due cicli di Piani territoriali provinciali, nuovi Piani strutturali comunali. Quali sono le innovazioni portate dalla riforma urbanistica verso il governo del territorio? Cosa cambia rispetto al passato? Vi sono varie innovazioni: - la interdisciplinarietà, ossia il concorso di diversi saperi alla formazione dei piani urbanistici, fra i quali è obbligatorio, e certificato dalle professionalità che ne hanno la specifica competenza, quello relativo alle condizioni morfologiche, idrogeologiche, geomorfologiche del territorio, ossia l’insieme della disciplina preordinata alla difesa dei suoli ossia alla conoscenza del rischio, alla individuazione delle regole di prevenzione e manutenzione, alla definizione delle opere di messa in sicurezza, - la collaborazione fra Enti competenti nel governo del territorio, che ha portato a metodi di co-pianificazione nella formazione dei piani; - la produzione di specifica conoscenza, integrata nella pianificazione, formata appunto tramite interdisciplinarietà, per stabilire le condizioni delle risorse dei nostri territori: acqua, suolo, aria, paesaggio;


- l’integrazione delle attività di valutazione ambientale nella pianificazione, che rispondono proprio a princìpi di cautela, di responsabilità e di prevenzione; - la ridefinizione di una filiera di strumenti, che dovrebbero definire, prima della gestione urbanistica ed edilizia, di livello comunale, le questioni ambientali che travalicano i confini amministrativi (si pensi ai bacini idrografici), - l’assoggettamento a regole di tutela dell’ambiente anche di politiche di settore che regolano le attività umane sul territorio, come quelle agricole, infrastrutturali, etc., - il progressivo affermarsi del contenimento del consumo di suolo negli strumenti della pianificazione. Anche nella legge urbanistica della Regione Liguria (n. 36/1997), restando nei territori colpiti dalle vicende recenti, si trovano i dispositivi e le innovazioni fin qui richiamati. Ma ciò vale per molti altri contesti regionali e tali contenuti si trovano nelle leggi per il governo del territorio che hanno applicato princìpi enunciati dall’INU all’inizio degli anni Novanta: della Lombardia (n. 12/2005), dell’Emilia Romagna (n. 20/2000), del Veneto (n. 11/2002), del Friuli Venezia Giulia (n. 5/2007), dell’Umbria (n. 27/2000, 11/2005), delle Marche (n. 34/1992), della Campania (n. 24/1995), della Basilicata (n. 23/1999), della Puglia (n. 56/1980, n. 20/2001), della Calabria (n. 19/2002), e anche nelle integrazioni a testi che attendono la sostituzione in un articolato organicamente rinnovato, come in Piemonte (n. 56/1977). L’elenco si allungherebbe ulteriormente se facessimo riferimento alle leggi regionali di settore in materia di difesa del suolo. Si aggiungano piani che assoggettano specifiche porzioni territoriali a norme speciali, come per le riserve, i parchi, le aree protette, di norma improntati a salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio. Come si stabilisce il “rischio”?

Piazza Santa Croce dopo l’alluvione del 1966

Per valutare l’interazione tra ambiente naturale e ambiente costruito o che si intende costruire ai fini della prevenzione del rischio, va stabilito cos’è e come si misura il rischio e va individuato lo stato dell’ambiente costruito. Su questo si fondano sostenibili previsione di trasformazione. Per ambiente che si intende costruire, infatti, bisogna far riferimento non solo all’edilizia, ma a qualunque trasformazione dei suoli, ivi comprese quelle che derivano dalle attività che comunque garantiscono il presidio umano sul territorio (come nel caso delle attività agricole). La gradualità degli stati di rischio, in termini tecnici, quanto alle questioni idrauliche, cioè alla possibilità di inondazione, è stata commisurata alla conoscenza dei fenomeni già avvenuti, e perciò si parla di ritorni di piena decennali, ventennali, duecentennali, altrimenti definiti ordinari o eccezionali. A tale misurazione si riferiscono le definizioni di regole di manutenzione ordinaria del territorio perché non si alteri l’equilibrio idrogeologico, le definizioni di opere di messa in sicurezza riferite a stati di rischio in atto o probabili, divieti di tra-

sformazione laddove queste producano effetti di alterazione di tali equilibri. Qual è lo stato del nostro territorio? I nostri territori sono densamente popolati e costruiti. I nostri territori sono, soprattutto, scarsamente manutenuti. Il sistema insediativo (l’edificato) sul quale si abbattono gli eventi –eccezionali o meno- di inondazione piuttosto che quelli sismici (per i quali valgono analoghe considerazioni) si è addensato in ambiti per i quali, nel trentennio della massiccia edificazione che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento, dei princìpi che abbiamo trattato nel precedente punto non vi era alcuna applicazione. Il territorio scarsamente non antropizzato, per secoli dedicato all’utilizzo agricolo e alle continue opere manutentive che vi erano connesse, è stato oggetto di abbandono, in quegli stesi anni, e poi ripopolato secondo modalità abitative e produttive che solo recentemente sono tornate a farsi carico della cura tanto puntuale (opere agrarie minori, difesa dei sottoboschi, salvaguardia delle regima-

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zioni idrauliche) e complessiva (relazioni fra ambiti collinari e vallivi, fra boschi e pianure, etc). Non è solo la diffusione insediativa il fenomeno da contrastare, ma anche pratiche che trasformano i suoli con effetti sulle interazioni fra le diverse risorse o di loro impoverimento, e soprattutto lo scarso investimento –pubblico e privato- sulla manutenzione territoriale. E allora possiamo tornare a quanto abbiamo detto in apertura, comprendendo meglio il collegamento tra eccezionalità dell’evento e stato del territorio. Quindi eventi alluvionali come quelli dei giorni scorsi non dipendono solo da fattori legati al territorio? Le condizioni climatiche che sono profondamente mutate rendono, oggi, l’eccezionalità più vicina a noi, anche se non eliminabile del tutto; e a questo concorre anche lo stato dei territori, che sono densamente costruiti. Come si possono scongiurare per il futuro eventi alluvionali simili? Collegare urbanistica e sicurezza - come si sta oggi facendo - è molto, ma potrebbe non bastare. Occorre investire nella messa in sicurezza laddove le condizioni di rischio siano tali da non poter più operare in termini di prevenzione, e occorre investire in opere manutentive, a carico dell’intera società, del pubblico che governa e del privato

Alluvione del 1966: i lungarni

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che utilizza i suoli. Occorre un piano di sicurezza nazionale sul quale far convergere, come priorità, le scarse risorse pubbliche che sono rimaste nel nostro Paese. Bisogna, infine, contrastare farraginosità e complessità dei sistemi decisionali che, nel nostro Paese, vedono un accavallarsi di compiti, competenze, piani e programmi, procedure, sempre più frammentate tra soggetti plurimi, teoricamente autonomi e responsabili. Una frammentazione delle competenze che ha circoscritto le responsabilità, ma non ha fornito concreta possibilità per le singole componenti decisionali di svolgere adeguatamente il compito assegnato. Occorre, invece, una efficace azione congiunta e raccordata, coerente e coesa, che non può ovviamente essere ricavata dalla mera sommatoria dei piani. È necessario: - ragionare in termini di programmazione unica, al di là degli interventi specifici di sistemazione idraulica, idrogeologica, idraulico-forestale di norma finanziabili sugli stanziamenti L. 183/89, di fatto assimilabili a interventi urgenti per il superamento di criticità in atto o di eventi calamitosi; - coordinare efficacemente, anche attraverso riordino e semplificazione, pianificazione di settore e pianificazione territoriale e urbanistica, politiche e programmi. A ciò dovremmo pensare anche quando parlia-

mo di riordino degli assetti istituzionali nel nostro Paese. L’INU è intervenuto tempestivamente in merito, sottolineando come in Italia, crisi economica e crisi urbana, pur seguendo logiche talvolta contrapposte, si manifestano quale prodotto di uno stesso e più generale declino e di un modello di sviluppo diventato sempre più insostenibile; e come fosse necessario affidare l’obiettivo di contrastare questa dinamica recessiva ad una azione comune, per affrontare congiuntamente le criticità manifestate dal sistema economico e quelle relative al nostro modello insediativo. Dicemmo, e ribadiamo, che per quanto riguarda l’assetto istituzionale, fondamentale per restituire competitività al sistema Paese, la prospettiva è quella di una sua organica riorganizzazione, modellandolo sulle dimensioni della metropolizzazione e dell’area vasta, sull’assetto reale, troppo spesso lontano dalle frammentazioni territoriali indotte dai confini amministrativi. Tuttavia, questa consapevolezza non ci ha portato, e non ci porta, a suggerire, né a sostenere, la banalizzazione delle istituzioni e l’impoverimento dei profondi rapporti fra queste e i territori. Tuttavia, tutto quanto si può ragionevolmente e con responsabilità argomentare non toglie agli eventi che hanno colpito i territori toscani e liguri, il carattere di calamità eccezionale, componente che l’uomo non potrà mai annullare del tutto.


Le reti che fanno crescere l’Italia: un primo commento sul convegno di san casciano di Michele Giardiello*

* Michele Giardiello. Dirigente d’azienda, già Deputato del Partito Democratico della Sinistra.

“Questo teatro è simbolo di cultura e civiltà, ha 160 anni ed è testimonianza del Risorgimento italiano”. Ha aperto così Massimiliano Pescini, giovane sindaco di San Casciano, dal palco del Teatro Niccolini la tre giorni di incontri e dibattiti organizzata nella sua città dalla Fondazione Italianieuropei insieme all’Associazione Romano Viviani. Il tema è di quelli che pesano in un sistema Paese perché, sintetizza Andrea Peruzy, le Reti ridisegnano una comunità e sono il presupposto per nuovi processi di governo. Ma le Reti (territorio,energia, infrastrutture, telecomunicazioni) fanno crescere se partono dalle esigenze delle persone e delle comunità. E’ stato questo il filo conduttore politico-culturale che ha caratterizzato il dibattito. E’ toccato a Riccardo Conti prendere di petto la situazione: negli ultimi dieci anni il tema delle città è scomparso dall’agenda politica italiana. L’Italia, come una mela tagliata a fette, senza programmazione e con la retorica delle grandi opere che abusano del territorio e delle comunità. Riscopriamo le politiche per le città, dice Conti, ridisegniamo il profilo istituzione, l’Intercomunalità diventi l’alternativa alle Provincie, definiamone gli obiettivi e affidiamole i piani di sviluppo urbano. Partiamo dalla dismissione del patrimonio pubblico (caserme ecc.) per mettere in campo risorse per nuovi progetti di città che ridisegnano il futuro. Occorre ridefinire l’ambito della convivenza in un nuovo sistema di città; la sinistra, conclude Conti, deve riscoprire il nuovo riformismo urbano. Un’analisi, quella di Conti, condivisa dall’architetto Margherita Petranzan del Politecnico di Milano, secondo la quale le città diventano territorio non più controllabile dalle comunità ma dalle esigenze economiche. Le catastrofi non sono sempre fatalità, in Liguria il 40% del territorio agricolo è abbandonato e le conseguenze sono drammaticamente visibili. I cittadini conoscono le esigenze del territorio, sanno come e dove intervenire perciò è indispensabile, oltre

che giusto, dialogare con loro prima di progettare una strada, una ferrovia e altre infrastrutture. Non possiamo certo tornare indietro ma occorre prendere atto che scienza e tecnica non sono più mezzi ma fini. Non sempre è stato così, afferma Walter Tocci, la stagione dei sindaci è stata una bella pagina del governo del territorio. Le priorità e gli obiettivi erano chiari, l’investimento sul ferro (metropolitane, tramvie), ha migliorato la qualità dell’aggregazione. Si è difeso il territorio e si è valorizzato il patrimonio immobiliare che ha rappresentato una grande ricchezza per le città. Oggi le città sono povere, quella ricchezza che fine ha fatto? A chi è andata? E’ andata a quelli che non hanno fatto niente per valorizzarla. Sono finite le buone pratiche degli amministratori comunali. Occorre mettere da subito in campo una nuova politica economica urbana capace di governare una nuova domanda. La prima giornata si è conclusa con una bella intervista di Andrea Peruzy a Luciano Violante, presidente di Italiadecide, che proprio sul tema delle reti e delle infrastrutture ha elaborato uno studio molto importante. Violante ha posto molto l’accento sulla questione democratica: è importante che si partecipi per impedire che gli altri decidano. La partecipazione deve diventare un rapporto preventivo tra governo e territorio per la progettazione e la realizzazione delle opere, altrimenti entrano in campo quelle variabili che impediscono il fare: il policentrismo anarchico. Certo occorre un soggetto terzo che dialoga, poi ci vuole una classe dirigente che governa e decide perché è così che funziona un Paese moderno e democratico. Le reti sono indispensabili in un nuovo assetto istituzionale del territorio sapendo che ognuno cede qualcosa per avere tutti di più. Sono convinto, ha concluso Violante, che la più grande rete resta l’istruzione. In un momento di crisi finanziaria gli investitori privati si fanno avanti solo se c’è la certezza che le opere si fanno, non investo-

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Interno dello stabilimento Pignone, foto d’epoca

no davanti all’incertezza. Ma il Paese ha bisogno di massimizzare l’efficienza e convogliare risorse finanziarie private nel finanziamento delle infrastrutture, afferma Claudio De Vincenti dell’Università “Sapienza”di Roma. Condizione indispensabile è completare il quadro di regolazione, costituendo Autorità indipendenti per trasporti, acqua, rifiuti ecc. Si, perché in quei settori regolati da Autorità indipendenti (energia elettrica, gas ecc.) si è molto avanti, cresce la concorrenza, si investe nello sviluppo delle tecnologie. Quel che serve è un sistema di regolazione a livello di mercato dell’U.E., perché un mercato senza regole porta dritto al monopolio. Le priorità per la realizzazione delle reti sono la programmazione e una nuova strategia di liberalizzazioni. Programmazione e priorità, insiste il prof. Boitani, perché nel nostro Paese le opere si realizzano lentamente e spesso quelle finanziate sono inutili. Del lungo elenco delle opere della Legge Obiettivo sono state realizzate solo il 21%, molti soldi sono stati spesi in studi, progetti e cantieri che non diventeranno mai infrastrutture. Ecco perché oggi la priorità è terminare le opere non ancora concluse e per questo è indispensabile

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tornare immediatamente ai lotti funzionali. E la Toscana? Che predica male e razzola bene come aveva affermato uno dei relatori? La Toscana, dice il Presidente Rossi, ha uno sviluppo turistico straordinario e per noi è questione essenziale ma non basta, questa terra ha bisogno di una forte ripresa produttiva. Lo dice a chiare lettere scandendo bene le parole: se viene un imprenditore che vuole investire, rispetta le leggi, rispetta i vincoli tecnici e progettuali, in Toscana quell’imprenditore è il benvenuto. Perché per affermare la green economy i governi locali devono agevolare le imprese e completare la filiera produttiva. Per questo siamo impegnati nella discussione di una nuova Legge Regionale che favorisca l’aggregazione dei Comuni fino a 30.000 abitanti. Poi Rossi risponde ad una affermazione di Boitani che aveva chiosato “la gara del Tpl su gomma a lotto unico non è concorrenza ma collusione”. Nel Tpl, dice Rossi, dobbiamo fare i conti in Toscana con trecento milioni di euro in meno per il 2010 e per questo ritiene che la gara a lotto unico è quello che serve ai cittadini, ai lavoratori e alle imprese. L’importante adesso è fare un bel bando, poi, vinca il migliore. L’Amministratore Delegato delle Ferrovie dello

Stato, Mauro Moretti, parlando del Tpl esterna tutta la sua preoccupazione. A differenza dell’Europa, dice Moretti, in Italia manca un campione nazionale capace di confrontarsi con i competitori europei. Siamo l’unica società che è riuscita ad affermarsi sul mercato europeo, oggi il Gruppo FS gestisce il Tpl su ferro in molte città della Germania. Le infrastrutture sono fondamentali per la crescita, mettono in competizione un territorio verso un altro territorio ma non tutte sono necessarie. E’ sempre più chiaro che nella sfida globale la soluzione spesso è nell’investimento locale, altrimenti rischiamo l’isolamento mondiale. La Brennero è l’esempio che si possono fare opere evitando tempi lunghi e maggiori spese se c’è un ruolo positivo degli amministratori locali. Tocca al Presidente D’Alema tirare le somme di questa tre giorni di riflessioni. Il compito del riformismo, dice il Presidente di Italianieuropei, è offrire idee, proposte alle soluzioni dei problemi del Paese in una visione europea. Perché l’Europa oggi ha bisogno della crescita senza la quale non si affronta il tema del debito. L’Italia è un grande Paese, dice D’Alema, e deve dare il suo contributo all’Europa, noi che siamo stati nel dopoguerra, per capacità di crescita, i cinesi del vecchio continente. E, per crescere, le reti sono fondamentali. La rete infrastrutturale del nostro Paese non è messa male ma ci sono molti punti deboli. Su questo bisogna intervenire con priorità. Occorre programmare sapendo che la programmazione non è l’elenco delle opere ma scegliere con i territori le priorità. Saper mettere in campo tutti gli strumenti capaci di assicurare controllo e regolazione. Affermare la stabilità delle regole e le ragionevoli convenienze in un equilibrio tra liberalizzazioni e privatizzazioni. Agevolare coalizioni tra pubblico e privato, in grado di attivare investimenti. Infine, riflette D’Alema, c’è un grande tema dell’assetto democratico e istituzionale: non è vera l’equazione federalismo uguale semplificazione. Il tema vero è come si costruisce il consenso per le grandi opere. E’indispensabile non solo per realizzarle, ma per la tenuta del sistema democratico.


Firenze dopo

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Qualche riflessione su Firenze, la sua storia recente, il suo contesto territoriale di RICCARDO CONTI*

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i sono dei passaggi nella storia recente di Firenze che meritano un qualche approfondimento, se non altro perché continuano a proiettare i loro effetti sulla realtà odierna. Ovviamente in forma tortuosa e non lineare. La domanda da cui partire la formulerei nel seguente modo: cos’è che ha rallentato, reso problematico e incompiuto un processo di “modernizzazione” della città? Destino, va detto, condiviso con altre città del nostro paese, dove le “politiche” urbane non hanno rappresentato una vera priorità della “politica”. Non è stato così in altri paesi europei. Non sono mancate stagioni di rinnovamento e di grande vivacità-in gran parte legate all’affermazione di giunte di sinistra e all’azione di grandi sindaci-, ma la cifra di una grande politica per le città non ha contraddistinto l’azione di governo del paese. Basti pensare a tutta la legislazione in materia urbanistica. O al dibattito infinito sulle città metropolitane. O, last but not least, alle politiche di contrasto all’esplosione della rendita urbana. La mia tesi è che un “riformismo” urbano è vissuto in Italia soprattutto nelle autonomie e che nelle agende nazionali è stato relegato a risultante di politiche settoriali o è coinciso con battaglie perse dai riformatori. Da Sullo a Bucalossi. E, tuttavia, non poco hanno significato le autonomie nell’ambito delle politiche di welfare e di pianificazione territoriale. Il risultato è stato quello che Paolo Leon ha definito un “compromesso socialdemocratico debole”, viene da dire , su un altro piano, il policentrismo come “croce e delizia” dello sviluppo italiano e, in prospettiva, come nodo e risorsa per modelli innovativi di sviluppo futuro. Questa sommaria premessa (solo una bibliografia, pur sintetica, sul tema esaurirebbe lo spazio concesso a questo intervento) si è resa necessaria per collocare queste riflessioni rispetto ad una prima questione. Mi riferisco a quelle che Marcello Verga ha definito “retoriche cittadine”, in un bel saggio “Firenze: retoriche cittadine e storie della città”, Riccardo Conti. Vicepresidente dell’Associazione Romano Viviani.

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pubblicato online sugli “Annali di storia di Firenze”. “Insomma - scrive Verga-, nessuno a Firenze ha preso mai sul serio l’amara invettiva e l’insofferente denuncia del grande archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli quando, nei primi mesi del 1945, all’indomani della Liberazione, in un confronto sulla ricostruzione del centro della città distrutta dalle bombe naziste, ammoniva sul tragico e banale ruolo che si voleva lasciare agli italiani – e qui italiani sta anzitutto per fiorentini - «di non essere altro che custodi di un museo, i guardianidi una mummia», rivendicando invece «il diritto di vivere entro città vive, entro città che seguono l’evolversi della nostra vita, le vicende della nostra storia [ ]: perché vogliamo essere finalmente un popolo tra gli altri popoli che dalla presente miseria, dalla presente infelicità e umiliazione, riprende liberamente la strada della propria sorte europea»”. Si tratta di contrastare una certa idea “provinciale” di Firenze e delle sue magnifiche sorti, per cui ciò che riguarda la città è sempre unico e irripetibile al mondo, quasi fosse sconveniente misurarsi con i grandi temi della contemporaneità. Nonostante quel grande prodotto della cultura europea che è il “mito” di Firenze, la città oggi è una media città, che condivide dilemmi e contraddizioni dello sviluppo urbano e che stenta, al pari di tante città italiane, ad inserirsi in un ciclo di “rinascita urbana” che studiosi di varia estrazione ed orientamento intravedono come fenomeno europeo. Questo rapporto “difficile” della città con il “mito” di Firenze sarà una costante nel dibattito politico e culturale, destinato a riemergere periodicamente e ad influenzare non poche scelte di governo. Recentemente una certa retorica provincialistica, spesso becera, talvolta colta, ha investito anche una certa idea di Toscana, di immutabilità dei grandi paesaggi toscani,ammantandosi di argomentazioni a sfondo ambientalista, in singolari forme “NIMBY”.


Concorso per la ricostruzione delle zone distrutte nel 1945: proposta di strada pedonale sopraelevata in Por Santa Maria (L. Bartoli, I. Gamberini, M. Focacci)

dello sviluppo economico e civile ha raggiunto il suo apice nella Firenze del dopoguerra, dove l’equilibrio delle forze in campo ha finito con il produrre quel particolare fenomeno che è stato definito come “indecisionismo” fiorentino e, comunque, ha rappresentato una remora profonda a processi di modernizzazione. Molti studiosi mettono un particolare accento sulla inadeguatezza della struttura istituzionale come principale ostacolo alla modernizzazione delle città italiane. Così si è espresso Antonio Calafati in un suo bel libro -“Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia.”- e più di recente in un’intervista al giornale “Metropoli” sulla realtà fiorentina. L’osservazione a me pare pertinente ma insufficiente. In particolare per la nostra realtà. Voglio sottolineare con questo che le questioni istituzionali hanno fatto parte di un più generale scontro sulle caratteristiche dello sviluppo economico e civile e che, se ovunque il rapporto tra le città capoluogo, i processi di metropolizzazione, lo sviluppo regionale ha assunto aspetti contraddittori, quando non conflittuali, nella realtà fiorentina e toscana contraddizioni e conflitti hanno avuto una loro significativa specificità, una loro ulteriore contraddittorietà, ben riconducibili a quell’“equilibrio instabile” tra opposte visioni culturali e civiche che hanno caratterizzato la vita politica fiorentina. Calafati pone una domanda intrigante, e cioè com’è che una città che mostrava un suo dinamismo e una sua promettente vivacità come la Firenze degli anni 50 è defluita in quella media città, non priva di un suo dinamismo ma molto al di sotto delle potenzialità allora intuibili. In effetti, la Firenze degli anni 50 offre un’immagine di notevole vivacità culturale e di dinamismo sociale e politico. Cito in maniera disordinata come rappresentazione di quell’ambiente : Il nuovo corriere e Romano Bilenchi, l’esperienza di La Pira, l’Osservatorio astronomico di Arcetri, le case editrici, le grandi lotte operaie del Pignone e della Galileo, la Provincia di Mario Fabiani. Ma ancora i circoli intellettuali da Pratolini a Rosai. Calafati fa risalire la genesi della “modernizzazione incompiuta” alla frattura tra la città e l’hinterland industriale.

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Se interlocutore di Bianchi Bandinelli era Berenson, con la sua grandezza, che ha lasciato a Firenze Villa I Tatti e il suo stupendo archivio sul Rinascimento, a noi, più sfortunati, sono toccati in dote tardi epigoni che alla città e alla regione non lasciano che le loro polemiche, in un ruolo, variamente mascherato, di guardiani della rendita, inconsapevoli (?) eredi di una tradizione anti - industriale che è stato un filo rosso della cultura delle classi dirigenti post-unitarie. Dalla Destra Storica alla Firenze anni 30 di Pavolini con il suo asse di sviluppo “mercatura-cultura”. Ne ha scritto brillantemente Marco Palla nel suo fondamentale “Firenze nel regime fascista”, argomentando sulla tenacità di un blocco sociale e culturale destinato a durare nel dopoguerra, fino alla “Firenze e il suo contado”di Bargellini. Una naturale alternativa a questo “back-ground” socio-culturale è stato storicamente il movimento operaio, socialista, mutualistico toscano. Con il dopoguerra e lo sviluppo di quel fenomeno, originale e non abbastanza indagato, che è stato il regionalismo toscano, tali istanze “socialiste” divengono programma di governo. “Nessuno più di noi -scrive Mario Fabiani nel 1963- è infatti ( ) lontano dal mondo degli stanchi adoratori della Toscanina della quale discettava or è un secolo un gruppo di colti ed amabili signori che nella regione possedeva grandi estensioni di terra, che era il depositario del sapere come del potere e che ha lasciato dietro di sé tanti sospiri languorosi ora magari repressi ma non spenti;una Toscanina che significava vita tranquilla per i beati possidentes, capacità di elaborare gruppi di validi anche se non sempre vigorosi ingegni intellettuali, povera agricoltura mezzadrile, contadini impigriti e non diremmo egemonizzati ma addirittura succubi del buon padrone, con elegantissime ma silenziose città ed aviti castelli o rinascimentali ville dove la grande proprietà andava a braccetto con la borghesia antica e recente e con l’intellettualità delle pandette e del verso a godersi vicendevolmente i frutti del loro raffinato mondo.” Ma anche un uomo come Spadolini ha scritto polemicamente contro un’idea di “Firenzina”a testimoniare l’ampiezza di un movimento sociale e culturale attento ad esigenze di “modernizzazione”, di industrializzazione, di sprovincializzazione dell’ambiente economico-sociale della regione. Si è accompagnato questo movimento ad una grande tradizione urbanistica e di attenzione al territorio e alla sua tutela. Il “modello toscano” su cui ci ha lasciato pagine mirabili Romano Viviani. Una tradizione rappresentata non solo da grandi intellettuali ma anche da una generazione straordinaria di sindaci e amministratori che hanno realizzato il miracolo di conciliare l’industrializzazione e una grande stagione di sviluppo economico e civile con una mirabile tutela delle colline e del carattere policentrico del tessuto insediativo della regione. Questo scontro tra idee opposte

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Quest’analisi contiene del vero ma non è persuasiva. Intanto perché non considera che Firenze è anche (tuttora) una città industriale, una delle più importanti città metalmeccaniche, ma soprattutto trascura il dato della lotta politica e della dinamica delle forze in campo. Sarebbe riduttivo ricondurre il conflitto politico alla dinamica PCI-DC, che la figura di La Pira e il lapirismo non sono certo riducibili alla Firenzina. Resta il fatto che La Pira fu affossato da una certa DC e avversato da una certa Firenze. È altrettanto un fatto che da Fabiani in poi fino all’esperienza del piano Detti la parte migliore dell’intellettualità e della politica progressista si è misurata con i temi della pianificazione intercomunale, del regionalismo, della modernizzazione. Il frutto di questa dialettica ha prodotto una complessità territoriale rilevante. Se guardiamo ai processi di urbanizzazione ciò è ancora più evidente. Se si ha in mente i canonici modelli di metropolizzazione si rischia di andare fuori strada. Lo sviluppo senza “fratture” con cui Giorgio Fuà ha descritto l’industrializzazione del Nord Est, o le tante analisi sullo sviluppo lombardo con la sua spiccata vocazione “land use” non sono riferimenti convincenti, rispetto alla realtà toscana. Quello che Cacciari ha, a proposito, definito il “territorio senza città” non sarebbe una rappresentazione attendibile dell’area metropolitana fiorentina. Il viaggio sociale e urbanistico dall’“altrove” temporale (le lotte e le speranze di futuro nelle borgate romane), all’ “altrove” spaziale

(il riflusso nell’“anonimia” nell’attuale periferia romana) che Walter Tocci immagina in un bellissimo saggio sulle “disuguaglianze metropolitane”, (pubblicato su TamTam democratico, rivista online del PD), mal si attaglierebbe alla comprensione della vita politica e sociale dell’hinterland fiorentino. Intendiamoci, in quanto descrizioni efficaci di un fenomeno saliente dello sviluppo urbano contemporaneo (lo sprawl urbanistico) sia il “territorio senza città” che l’“altrove”spaziale contengono spunti di analisi e immagini culturali della contemporaneità utili alla comprensione delle odierne città capitalistiche. Ma c’è una particolarità legata al policentrismo toscano che non può essere ignorata. L’espansione urbana degli anni 60 (ma anche il nuovo boom edilizio –finanziario degli anni 2000) hanno incontrato “identità” locali radicate, fornite di un ricco “capitale sociale”, con una vita democratica e associativa vivace, e municipi ben governati. Con risultati non sempre felici c’è stato, comunque ed ovunque, un governo urbanistico dello “sprawl”. E laddove negli anni 60- a sudovest- l’espansione ha incontrato municipalità meno strutturate (vedi i lavori svolti da Roberto Aiazzi sullo sviluppo di Scandicci, precisi e argomentati) l’azione di governo negli anni successivi si è rivolta fortemente alla costruzione di una moderna identità, fino all’attuale piano Rogers. Annick Magnier ha suggerito di leggere in termini di formazione di “città di periferia” il processo di espansione metropolitana. Trovo persuasiva questa lettura.

Gente di Firenze La città di Firenze, stando ai dati del 2010, raccoglie il 61% della popolazione dell’area metropolitana fiorentina. E’ interessante, però, analizzare la composizione della popolazione e, soprattutto, la variazione nel corso degli ultimi 50 anni.

Il grafico mostra come la componente straniera della popolazione sia aumentata del 12,5% dal 2004 al 2009, mentre il numero complessivo degli abitanti non ha subito variazioni di rilievo. Ciò sta a significare un cambiamento strutturale della popolazione della città di Firenze, dove gli italiani lasciano il posto a emigrati provenienti dall’estero, quindi con un mix culturale in crescita e una cittadinanza sempre più eterogenea. Ma uno dei dati più significativi risulta essere quello che riporta il numero della “popolazione presente”: a fronte

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di una popolazione di 368.901 unità Firenze registra quotidianamente 504.000 presenze, quindi 142.000 persone arrivano in città ogni giorno per studio, lavoro e/o turismo. Questi sono a tutti gli effetti coloro che vengono definiti “city users”, ossia utilizzatori dei servizi cittadini, che arrivano la mattina e ripartono la sera, che affollano, quindi, le direttrici in entrata e in uscita dalla città (ferrovia, autostrada, trasporto pubblico). L’arresto, e la diminuzione, nella crescita demografica fiorentina è, in definitiva, solo apparente, disegna un immobilismo vero solo sulla carta.


La frattura di cui parla Calafati ha una genesi politico-culturale complessa ed ha prodotto risultati territoriali altrettanto complessi. La mia esperienza politica mi porta a porre l’accento non solo su esiti legati ad azioni di riforma istituzionale ma più in generale a misurarsi con il governo del policentrismo- anche in questo caso croce e delizia, nodo e risorsa di un “attuale” riformismo urbano- in una dialettica fortemente cooperativa tra le “città-regione” in una “regione di città”. Accettando la sfida di proporre Firenze come città di “frontiera” dove possano incontrarsi, in chiave europea, l’Italia della - competitività e l’Italia della “coesione”. Altri autorevoli saggi approfondiranno questi temi poco più avanti. E, tuttavia, il nodo della modernizzazione “incompiuta” merita di essere approfondito ulteriormente. Vorrei attirare l’attenzione su due momenti topici dove contraddizioni e conflitti politici e culturali tra diverse visioni di Firenze e della Toscana hanno prodotto una “cattiva” mediazione politica o il fallimento di progetti di “modernizzazione”. Momenti in cui quell’equilibrio “instabile”della “governance” della città ha finito con il determinare delle vere e proprie “occasioni perdute” per un salto qualitativo dell’assetto urbano. Il primo scenario è la Firenze del dopo alluvione. Gli “angeli del fango”, i comitati di quartiere, le case del popolo insieme alle parrocchie; insomma una città vitale e una grande esplicitazione giovanile del “mito” di Firenze promisero una rina-

scita fiorentina di spessore e valore “storico-politico”. La ricostruzione fu mediata politicamente dalla DC postlapiriana. Figura emblematica il sindaco Piero Bargellini, personalità popolare, esponente di spicco di un cattolicesimo conservatore, narratore impegnato di una “Firenzina” chiusa nei suoi confini, culturalmente erudita ma provinciale, socialmente legata a quel filone “mercatura-cultura” di pasoliniana memoria. La sua visione dei rapporti con la regione era ben rappresentata dall’immagine “Firenze e il suo contado”, che era a suo modo un programma di governo. Il notevole afflusso di risorse fu mediato da questa cultura politica. E così avvenne che, mentre a Bologna il sindaco Dozza varava un grande progetto di modernizzazione infrastrutturale e funzionale da “città-regione”, mentre a Perugia si progettava un geniale sistema di mobilità, fondato sulle scale-mobili, il dopo-alluvione a Firenze fu gestito nel segno di un forte assistenzialismo, parecchio mediato dalle parrocchie, e di una restaurazione del tessuto sociale di riferimento- piccolo commercio, artigianato, grandi monumenti-. Insomma di rifare “Firenze com’era”. Questa impostazione continuerà a vivere negli anni successivi, anche dopo l’avvento delle giunte di sinistra come orientamento di un’anima della DC e di una parte consistente del mondo del commercio fiorentino. Emblematica resterà ,a proposito, la campagna di manifesti “Vogliono strappare il cuore a Firenze” rispetto a proposte, non sempre andate a buon fine, di decentramento di importanti funzioni direzionali e cul-

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La fotografia dell’andamento demografico di Firenze e dell’area metropolitana ci presenta una situazione di costante crescita della popolazione nella cintura urbana (Campi Bisenzio, Sesto Fiorentino, Scandicci, Calenzano…), con un arresto negli ultimi 10 anni e contemporaneamente la diminuzione, dagli anni 80, degli abitanti del capoluogo seguito da una sorta di stabilizzazione dal 2000 al 2010. Nel ’61 il 78% della popolazione dell’area fiorentina risiede all’interno del capoluogo, ciò a causa dei fenomeni di industrializzazione, deruralizzazione che hanno come conseguenza la migrazione dalle campagne e dai centri minori verso la città. Ma la crescita della popolazione di Firenze, che fino al ’62 era stata costante e sostenuta, si attenua nel ’63 e si arresta nel ’64. Nel periodo che va dai primi anni

sessanta fino alla metà degli anni settanta la posizione dominante di Firenze si indebolisce, sia per la relativa stati economica, sia per lo scarso approfondimento della qualità delle sue strutture economiche (Urbanistica n. 73 del 1983 - Baldeschi). L’andamento demografico descrive le tendenze del periodo, ossia la perdita di attrattività relativa dell’area che inizia a metà degli anni ’60 e una perdita assoluta che si registra con maggiore evidenza a partire dalla metà degli anni ’70. L’indebolimento del potere di attrazione del capoluogo rispetto all’area metropolitana circostante è testimoniato anche dal fatto che a partire dalla fine degli anni ’60 i saldi attivi della corona urbana crescono rispetto a quelli di Firenze ed il rapporto continuerà a decrescere nel tempo fino al 2000.

La tabella evidenzia con più precisione il fenomeno sopra descritto di stallo nella crescita dei residenti in città prima e di diminuzione poi, mentre nella cintura urbana gli andamenti sono molto più contenuti, se non in controtendenza. Nell’ultimo decennio, 2000-2010, il saldo demografico di Firenze torna ad essere attivo (4,4%), mentre diminuisce nell’area metropolitana. Per chi è più attrattiva la città? Come già descritto la composizione della popolazione fiorentina è cambiata: il 25,65% sono i residenti oltre i 65 anni, il 12,5% sono stranieri. La maggior parte dei cittadini risiede in famiglia, ma il numero medio dei componenti per famiglia è sceso a 2. Nel 1991 le famiglie erano 159.937, nel 2010 181.944; nel 1991 le famiglie unipersonali erano il 34,8%, nel 2010 sono il 45,2%. L’insieme di questi dati

ci descrive una società con bisogni, abitudini e cultura completamente diversi rispetto al passato, che necessitano, quindi, di un tessuto urbano e di servizi adatti alle loro mutate esigenze. A questi si sommano quelle 142.000 unità che arrivano a Firenze la mattina e ne escono la sera, i city users, che pesano però sulla città esattamente come abitanti a tutti gli effetti, chiedendo, in aggiunta adeguati servizi di mobilità sia in entrata che in uscita. La fotografia di Firenze al 2010 ci restituisce una città immobile, senza crescita demografica, ma con una popolazione sempre più eterogenea. Si tratta, però, di un immobilismo apparente, che nasconde, invece, una città dinamica e in crescita, di cui va tenuto conto nel disegnarne funzioni e servizi.

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turali verso l’hinterland. Il secondo scenario è la Firenze di fine anni 80 ed è il PCI a fallire nel suo tentativo di “modernizzazione” della città. Non è obbiettivo di queste note fare un bilancio complessivo della vicenda della “variante a Nordovest”; troppi i protagonisti ancora in campo, troppi i rischi di prestarsi a letture strumentali, in chiave attuale. Questo tempo verrà. Qualche considerazione può rendersi utile. Sul piano urbanistico l’operazione era figlia di quel periodo e viveva significativamente, nella crisi della pianificazione prescrittiva e previsionale, il riflusso verso la cosiddetta “urbanistica contrattata”. In Toscana, prima che altrove, si lavorerà per superare quegli orizzonti per tentare la strada della pianificazione strutturale e di un nuovo tipo di riformismo urbanistico. L’idea di costruire a Novoli e a Castello nuovi pezzi di città, quasi a prefigurarne un nuovo “Centro” di tipo metropolitano aveva una sua suggestione -da declinare meglio con il “policentrismo” toscano, da dimensionare con maggiore parsimonia-, ma era appunto un’“idea di città” con una sua forza. Come tale avversata sotterraneamente ma ferocemente dalle tante espressioni della Firenzina. Un’idea di città: è proprio ciò che è venuto a mancare negli anni successivi spesi a gestire, anche in maniera accorta come nel caso dell’Alta Velocità, occasioni di sviluppo che erano, spesso, la banalizzazione degli interventi venuti a mancare. è così che mentre decollavano le “città di periferia” languiva Firenze. Ancora oggi un buon Piano strutturale come quello approvato di recente non pare accompagnato da idee-forza di trasformazione metropolitana e di modernizzazione strutturale, che tale non appare la, pur lodevole e condivisibile, intenzione di un piano a “volumi zero”. Se si trattava di “urbanistica contrattata”, si trattava di un’operazione di grande livello come testimoniavano il piano di zona redatto da Gianfranco Di Pietro e tutto l’elaborato “convenzionale” supervisionato da un padre della Repubblica come Paolo Barile, ispiratore e convinto assertore della “variante”. Scrivo ciò per fare giustizia su polemiche volgari seguite alla telefonata di Occhetto e innescate dallo stesso, riprese di recente da Campos Venuti, su paternità equivoche dell’operazione a Nordovest. Al gruppo dirigente di allora del PCI fiorentino, massacrato politicamente dalla vicenda, va perlomeno riconosciuto che, rispetto ad un affare di quella portata, riuscì ad uscirne dalla sera alla mattina, come può fare solamente chi non ha scheletri nell’armadio. La conseguenza più profonda sul piano politico non sta nella vicenda del PCI fiorentino, che comunque da allora ha perso peso nazionale e, soprattutto, regionale - e con lui la rappresentanza politica della città- ma nel venire meno di un rapporto di qualità che cominciava a prefigurarsi con una borghesia cittadina, disponibile a spendersi su un progetto di modernizzazione della città, ad assumere un ruolo nella vita pubblica anche regionale come sembrava aggregarsi intorno a Fondiaria ed a un suo gruppo dirigente vagamente “olivettiano”. Qui sta la vera occasione persa.

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Alla fine ci è toccato in sorte Ligresti, la ricorrente maledizione urbanistica sui destini dell’area di Castello, la “cricca” e consimili, una città poco attrattiva per seri investitori. Sperando che tra trent’anni non ci trovino ancora intenti a discutere, come questione delle questioni, di qualche centinaio di metri in più per la pista dell’aeroporto di Peretola. Queste a me paiono le vere fratture di una “modernizzazione incompiuta ”. Il fatto che non trovi convincenti interpretazioni o prospettive di riforma troppo affidate ad una “modellistica” istituzionale, non significa che non esistano evidenti motivi di semplificazione dell’assetto istituzionale e dell’apparato amministrativo a cui porre mano. Ma qual è la strada giusta? Paradossalmente l’esperienza toscana segnala non una scarsa attenzione alla “modellistica”, ma caso mai un eccesso di progettazione di nuovi livelli istituzionali, una sorta di mania “zonizzatrice”. Ed oggi che si riapre un dibattito su aree metropolitane, unioni di comuni, superamento delle Province consiglierei di andare a dare un ‘occhiata ai materiali che un gruppo di ottimi dirigenti della Regione, coordinati da Alberto Brasca elaborò negli anni 70 sull’istituzione dei “Comprensori”;personalmente considero quella lettura della Toscana, quell’idea di “intercomunalità” una base ancora oggi valida sul piano culturale e dell’efficacia promessa. Più recentemente la legge sul governo del territorio, prima, e un’apposita legge, poi, hanno messo l’accento sulla “partecipazione”, intesa come gradiente dell’azione di governo, fino a concepirla come elemento indispensabile di progettazione democratica e sociale di una politica di riforme. Non si supera il “localismo democratico” per decreto, ma costruendo nuova democrazia, intercomunalità efficace, un rapporto fecondo tra strategie di riforma e azioni dal basso. Magari sfuggendo dal rischio (insito in certe interpretazioni della legge toscana sulla partecipazione) di ridurre tutto ad un rigorismo procedurale che finirebbe con il rovesciare l’intenzione riformatrice nel suo opposto: una forma inedita di neo-centralismo regionale e di spoliazione “burocratica” dell’azione politica. In buona sostanza non esiste riformismo “senza popolo” e questo è ancora più vero in momenti di crisi “angosciosa” come l’attuale. Penso si concordi sul fatto che è Firenze quella che vediamo dal Piazzale Michelangelo, ma anche da Monte Morello, o dal Montalbano. Scriveva Calamandrei che, venendo da Siena, passato Poggibonsi si cominciava a sentire l’ “odore” di Firenze. Versioni, magari non provinciali, del “mito” fiorentino sono Firenze nel mondo. “Firenze dopo” significa guardare alle diverse “dimensioni” di Firenze - la capitale regionale, la media città, le “città di periferia”, il “mito” della cultura europea - in maniera la più unitaria possibile, alla ricerca di idee-forza per compiere la “modernizzazione”. Proponiamo non improbabili sintesi ma scenari su cui ragionare, su quattro parole chiave: frontiera, città-regione, accessibilità, attrattività . Buona lettura.


Firenze “frontiera” del nuovo Nord di PAOLO PERULLI*

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irenze è stata più volte nel passato ‘capitale’ e ‘cerniera’: nel XV secolo sede di nascita di una civiltà urbana protocaptalistica prima di Parigi e Londra, nel XIX capitale italiana prima di Roma. Tracce utili per ripensare Firenze nel XXI secolo, entro l’ambizioso orizzonte tracciato da Toscana 2030 grazie al lavoro dell’IRPET. Nel 2010 Firenze (e provincia) si colloca del resto al 15° posto tra le città italiane per indice sintetico di sviluppo (somma di numerosi indicatori socioeconomici elaborati da Confindustria): prima di Roma (che è 16°), prima di Torino (che è 20°) e di numerose altre città del Nord. Firenze si prende quindi una rivincita sulle altre due capitali d’Italia. Già si intuisce che la vecchia immagine della Terza Italia va aggiornata a una scala nuova, probabilmente macroregionale. Nel passato remoto Firenze ha avuto una forte irradiazione europea: oggi deve ritrovare una propria proiezione in un ambito più allargato. Firenze sta al Nord Italia in una relazione di frontiera mobile. Infatti questa macroregione si sta saldando in forme molto interessanti e aperte, proprio in direzione di una integrazione con i sistemi limitrofi. Forme che stiamo studiando accuratamente anche per sottrarre il discorso pubblico sul Nord alla deformante egemonia esercitata da posizioni localiste, integraliste e retrograde in netto contrasto con la natura dinamica e con il bisogno di apertura espresso dal sistema economico del Nord. I tratti principali da cui partire riguardano l’internazionalizzazione dei sistemi economici connessi a un forte sviluppo dell’economia dei servizi. Le città si aprono a nuove geografie sia dell’industrializzazione che dello sviluppo territoriale. L’incrocio tra queste due dimensioni un tempo avveniva nell’ambito urbano circoscritto, oggi si distende a scale del tutto nuove e allargate. Si tratta di “città-regioni globali”, che non sono più città e non sono più regioni. E che cosa sono? Sono delle amalgama di economia e società che non hanno una precisa rappresentazione. La stanno cercando, e tendenzialmente sono

“città-regioni globali” nel senso che i flussi che passano per questi territori non sono localizzati territorialmente, tanto meno confinabili in una dimensione cittadina o regionale. La possibilità di definire la città sembra messa fortemente in crisi nel momento in cui il mondo appare leggibile soprattutto come un mondo di flussi, che appartengono a tipi di relazioni che sfuggono a un controllo “puntuale”. Cioè la città può essere un punto, un nodo, ma questi flussi non sono in alcun modo riconducibili ad un governo locale. Nell’epoca dei flussi globali la città, se presa isolatamente, rischia di perdersi come punto che ordina lo spazio. Quindi bisognerà riflettere e vedere quali modelli nuovi stiano emergendo dal punto di vista della città. Ho già parlato di “città-regione”, che certamente è uno dei temi su cui riflettere nella dimensione allargata oggi impressa dall’economia alle nostre città. La “città-regione globale” del Nord per esempio, ha una sua connotazione che possiamo definire una “regione di città”. Probabilmente è questa una pista interessante: più che una “cittàregione”, nel senso in cui la pensano i geografi californiani che hanno formulato questa idea, è una “regione di città” che si estende in più direzioni. Particolare tessuto polinucleare che si infittisce in reti sempre meno circoscritte localmente, sempre più macroregionali e globali (paesi confinanti, Germania, Est Europeo, Asia). Ma la “cittàregione” del Nord è certamente interessante anche per i flussi globali di persone (2.5 milioni di residenti stranieri nel Nord), di merci, di conoscenza che stanno crescendo e che stanno mettendo alla prova la forma-città sin qui conosciuta. Per affrontare la nuova dimensione le città devono sviluppare delle proprie ‘visioni’, diventare città per progetti: ciò significa che questa rappresentazione si definisce nell’interazione che la città realizza con insiemi più vasti, in un percorso basato sull’idea di progetto. Noi veniamo da una crisi dei modelli progettuali della razionalità moderna. Quando si pensava che si potesse lanciare nel

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* Paolo Perulli. Professore ordinario di sociologia economica.

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futuro qualche idea, per poi da lì tornare indietro per vedere quello che va fatto oggi. Questa dimensione dei progetti è stata usurata negli ultimi decenni. Però ancora una dimensione per progetti della città si può pensare, ma di che tipo? Questo è il tema della pianificazione strategica. Si tratta delle città che sembrano in grado di reggere all’urto dell’ uniformazione, dell’omologazione che vuole banalizzare ogni forma di costruito, ogni forma di pensato. La natura distintiva della città, come Firenze, risiede nella sua assoluta unicità storica e insieme nella sua attualità. In tal modo la città riesce a diventare una struttura riflessiva e autoriflessiva. Ma come fa a diventare riflessiva una città? Negli ultimi venti anni in Europa parecchie città (e tra esse Firenze) hanno provato a darsi dei piani strategici. Un tentativo di democrazia deliberativa, in cui le persone che normalmente non partecipano alla decisione pubblica, oppure subiscono le decisioni della democrazia di tipo rappresentativo, possono invece essere partecipi di tentativi e di esperimenti da parte della città di darsi orizzonti che riguardano una capacità di progettare. Ma come fa una città, un’economia urbana da sola, a partecipare in modo efficace ai processi di diffusione, di crescita nella dimensione globale? Le città possono tentare di “montare” dei sistemi allargati, dei raggruppamenti non casuali ma basati sulle complementarietà e le specializzazioni. Il riferimento è alla letteratura che si occupa di cluster. E’ un tema che nasce dall’economia industriale, ma molto fecondo anche per chi si occupa di città. E’ l’idea che possano esserci cluster territoriali, raggruppamenti di città, che non stanno nella dimensione “a matrioska” - stato, regione provincia, comune - che non vogliono dire quasi più nulla sul piano spaziale anche se sono tuttora le nostre istituzioni. Quindi una proposta di costruzione della società a partire dall’ idea di assemblaggi. Assemblaggi non solo di territori ma di politiche: pacchetti variabili che siano congruenti con strategie di sviluppo differenziate rispetto alle opportunità e ai vincoli locali. Credo che qui ci sia qualcosa su cui riflettere quando parliamo di città. Cioè se la città possa essere ancora un punto da cui noi ri-assembliamo la società, uscendo dal sistema delle istituzioni chiuse una dentro l’altra, rimontando da lì forme nuove sia di società, di interazione, che di città. Partire da lì al di là della scala, che siamo noi a definire, a costruire. La scala della città - media, piccola o grande - non vuol dire molto rispetto al sistema della mobilità e dei flussi che diventano il principale fattore esplicativo dello sviluppo territoriale. Mi pare che questo sia un programma di ricerca utile ed interessante su cui impegnare le nostre forze intellettuali. Insomma, il fatto che in società civili si possa lavorare ad un programma come questo rappresenta una forte “difesa” della città e un antidoto contro i processi di abbandono, di

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consegna delle città ad un processo omologante, in molti casi al degrado socio-economico della città (urbanizzazione diffusa, immigrazione non governata, danni ambientali). L’altra direzione di ricerca riguarda perciò la connettività delle città e dei sistemi sociali che esse rappresentano. Abbiamo guardato a lungo alle città come dotazione (stock) di risorse, confrontando il peso relativo di esse in termini di dotazione (endowment) di capitale economico, sociale, culturale. E’ giusto. Ma occorre ormai guardare le città anche come relazione, come nodi entro reti più ampie e tendenzialmente globali. Il mondo è qui rappresentato come una “tempesta” di transazioni, e questa rappresentazione dei flussi permette di superare la vecchia immagine del mosaico di sistemi locali. Il geografo Peter Taylor studia le connessioni, le global network connectivities tra le città partendo dai servizi (contabilità, pubblicità, finanza, assicurazioni, legali, consulenza) delle imprese globali in centinaia di città mondiali, tutte esposte alla globalizzazione anche se in posizioni centrali, periferiche o semi-periferiche. Quanto ciascuna città è connessa alle altre, e a quali, è la variabile dipendente della ricerca. Emerge tra le città italiane la forte posizione di Milano (8°) mentre Roma è molte posizioni sotto nella graduatoria, e le altre città italiane sono in posizioni marginali. Ne deriva che Milano svolge un ruolo di attrazione per molti aspetti funzionali più importante di quello di Roma, e di questo una città come Firenze deve essere consapevole. Vedere le relazioni dinamiche tra le città ci permetterà di disegnare nuove relazioni economiche e di potere. Ad esempio tra le città del Centro-Nord in rete tra loro, e con altre macroregioni europee. Emergono cioè nodi che hanno la proprietà di essere collegati enormemente più di altri, veri e propri hubs. Queste ricerche ci condurranno a capire meglio come funzionano globalmente le città. Reti di città secondo questa prospettiva sono reti formate da nodi, che hanno ruoli e pesi diversi. Solo alcuni nodi hanno massa critica sufficiente e una dotazione di capitale territoriale (inteso come insieme di asset materiali e immateriali) utile per tenere relazioni globali o sviluppare reti lunghe. Altri nodi sono sotto-dimensionati o in via di contrazione. Questi ultimi nodi possono fare riferimento ai primi scambiando con essi risorse su una scala più circoscritta, ma andando più lontano attraverso il nodo principale rappresentato dalla città-hub. Quest’ultima ha varie funzioni predisposte a questo fine: possono essere relative all’accessibilità (connessione ferroviaria e stradale, aeroportuale, portuale) alla ricettività (attrazione di studenti da parte dell’università o centri specializzati, di turisti, di visitatori da parte di fiere, mostre ed eventi) e all’apertura internazionale (vari servizi). La combinazione tra queste


dimensioni è quella che conta: tra le città europee si situano ai primi posti quelle che hanno saputo coniugare offerta di tipo infrastrutturale, servizi integrati alla mobilità e attività di richiamo per imprese e persone. Si possono confrontare in questo senso anche le dotazioni di attività creative e di servizi avanzati dei diversi sistemi locali del lavoro. Ma dobbiamo andar oltre studiando le relazioni tra i nodi, ovvero la mancanza di relazioni. In termini logistici le città sono”porte”, nodi di “extended gates” che includono porti, interporti, retroporti, inland terminals. Al CentroNord si situano i porti liguri e i loro retroporti piemontesi, emiliani, veneti, il porto di Livorno che guarda a Bologna, e i porti adriatici (v. Fig. 3). In termini cognitivi le città possono partecipare a reti intelligenti. Si tratta di indagare le reti di e tra le imprese. Ad esempio le imprese del polo fiorentino della moda con Milano. Si possono studiare le nuove tecnologie dell’ informazione (IT) e della comunicazione. Le imprese IT sono per natura in rete. Milano è il principale Internet hub italiano, ma anche Torino ha un ruolo e imprese IT si stanno sviluppando in molte città, comprese quelle toscane.

Si tratta di capire meglio la vischiosità delle città, la loro per molti versi ‘misteriosa’ capacità di attrarre imprese e persone, di creare e di aggiungere valore. Rileggere le città, i territori e le regioni in questa chiave ci permetterà di capire meglio e di riposizionare ciascuna città, e le loro reti, nel sistema globale. Il Progetto Nord ha riletto in questa chiave le città del Centro-Nord con almeno 100.000 abitanti scoprendo che la crescita di popolazione si è addensata in nuovi amalgama come le città della via Emilia e le città lungo l’asse tra Milano e il triangolo Venezia-Padova-Treviso. Mentre le città metropolitane di Milano e Torino crescono, quelle di Genova e Trieste arretrano, Bologna non cresce, mentre crescono Firenze e la città metropolitana della Toscana centrale da un lato, e l’asse urbano fino a Rimini e verso la costiera adriatica dall’altro (v. Fig. 1). La Fig. 2 indica la forte congruenza tra questi modelli di crescita urbana e i modelli di localizzazione produttiva nei settori di specializzazione più dinamici del made in Italy, come quello delle macchine utensili. La Fig. 3 indica le principali direzioni dei flussi logistici, e inquadra il ruolo della Toscana entro un sistema Nord “allargato”.

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Figura 1 - Aree metropolitane del Nord Italia classificate sulla base della loro popolazione al 2008 - Residui rispetto al 1961

Fonte: Elaborazioni di P. Feltrin su dati Istat, Censimenti popolazione e abitazioni, per Progetto Nord

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Figura 2 - La distribuzione geografica delle società di capitale del settore delle macchine utensili in Italia (indici georeferenziati per comune in base al fatturato delle società di capitali del settore 29.4)

Fonte: AIDA 2010 (dati di bilancio 2008) – Elaborazioni di E. Ciciotti per Progetto Nord

Figura 3 - La logistica del Nord: valichi, porti ed interporti

Fonte: Confetra 2009; porti e interporti, 2008 – Elaborazioni di Progetto Nord, 2009. * I dati si intendono riferiti ai soli container pieni.

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Le lezioni da trarre vanno nel senso di evidenziare le opportunità per Firenze e la Toscana nel nuovo scenario. Lo sviluppo urbano si è addensato lungo le direttrici infrastrutturali, e questo “spiega” la città lineare adriatica da Rimini a Pesaro, l’area metropolitana della Toscana centrale, il nodo di Perugia. Queste regioni (Toscana, Marche, Umbria) sono almeno in parte caratterizzate da strutture economiche fondate su sistemi di piccola e media impresa imparentati-anche se in settori manifatturieri più tradizionali e dimensionalmente contenuti- con quelli che fondano il sistema Nord. Sembra emergere una nuova rappresentazione “allargata” del Nord verso le tre regioni, che oltre a fungere da cerniera-corridoio tra Nord e Centro appartengono per altri versi al sistema socio-politico e culturale del Centro: e in questa duplice appartenenza possono trovare un elemento propulsore anziché un elemento di debolezza. Le crescenti interdipendenze tra il sistema Nord e l’Italia di mezzo in alcuni campi riguarda le reti di città (Firenze-Prato-Pistoia) che sono fortemente attratte dal sistema urbano del Nord e in parte ne rappresentano un’estensione (lungo l’asse Bologna-Firenze). Integrazione rafforzata dalle infrastrutture dell’ Alta Velocità ferroviaria che hanno reso Milano e Firenze, le loro imprese, i mercati, le università, strutture culturali ecc. molto più prossime. Ma anche Livorno, quinto porto italiano, è integrato con l’ interporto di Bologna che ne è il naturale retroporto. Questi “effetti di avvicinamento” sono una possibile soluzione al problema dell’assenza di una metropoli nell’Italia di mezzo.

Essa sarà sostituita funzionalmente da un ispessimento di reti translocali e multifunzionali che disegneranno un nuovo sistema. Anche le reti di imprese (e i servizi alle imprese basati sulla conoscenza) fanno parte del modello di media impresa a catene del valore lunghe che si è affermato al Nord. Queste reti tendono ad includere selettivamente le tre regioni indicate sopra in chiave di interdipendenza dinamica (in settori come moda, agroalimentare, meccanica). Infine i sistemi culturali del polo fiorentino, e quello della ricerca-innovazione e le spin-off companies del polo pisano hanno un retroterra naturale di utenza che è il Nord come sistema economico e della conoscenza. Perfino le public utilities (acqua, energia, rifiuti) un tempo gelosamente ‘locali’ sono sempre più coinvolte in un processo di concentrazione e aggregazione meta-urbana a scala Nord-Centro, con problemi di economie di scala e di scopo e ricadute importanti sulla produzione di beni e servizi. Provando ora a dettagliare l’analisi riguardo a dati di ricchezza, capitale umano e sviluppo della conoscenza, il quadro si presenta già molto più misto e convergente di quanto non dica la distinzione tra Nord e Italia di mezzo. Questo non significa che il Centro-Nord sia un blocco omogeneo: ma certamente che è meno diviso tra Prima e Terza Italia di quanto non si pensi. Le strutture sono più simili. Detto questo, altro è immaginare un processo di integrazione che deve coinvolgere le élites e le culture, le istituzioni politiche del Centro-Nord: qui i confini sono più netti. Su questo occorrerà lavorare.

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Fonte: Fondazione IRSO su dati Lisbon Council, 2011

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I dati relativi al prodotto interno lordo posizionano Toscana e Marche in una situazione paragonabile a quella di Liguria e Piemonte: di poco inferiore rispetto all’attuale motore economico del Nord (il triangolo Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna più Trento e Bolzano) e generalmente ben situata nelle medie nazionali ed europee. Le informazioni sull’education risultano confermate dalla classifica relativa alla presenza nel territorio regionale di lavori complessi (manageriali e imprenditoriali): la Toscana si posiziona nell’area a maggiore presenza di tali attività, insieme con Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna, mentre Umbria e Marche si attestano su valori inferiori ma non dissimili dalle regioni del Nord-Est. Una classifica molto importante ai fini della determinazione del potenziale di sviluppo territoriale è quella relativa alla capacità innovativa (spesa in Ricerca§Sviluppo, brevetti). Per tali indicatori la prima regione del CentroNord è l’Emilia Romagna, seguita dalla Lombardia. La Toscana consegue un buon piazzamento in questa clas-

sifica, mentre Umbria e Marche risultano posizionate su valori medio-bassi (inferiori a quelli delle regioni settentrionali, ma superiori a quelli delle aree alpine). Infine gli indicatori relativi alla disoccupazione (di lungo periodo e giovanile): per tale variabile le regioni Toscana, Marche, Umbria si posizionano su valori inferiori rispetto a quelli della Lombardia e del Nord-Est ma migliori di quelli del Piemonte e della Liguria. In particolare è la Regione Toscana a mostrare valori simili a quelli delle regioni-motore (Emilia-Romagna e Lombardia) per gli indicatori relativi ai sistemi dei saperi e dell’innovazione, mentre Umbria e Marche tendono a valori più scostati rispetto a quelli medi delle regioni settentrionali. Se questo discorso di integrazione fosse esteso ad altri campi (sistema urbano, mobilità delle persone e delle merci, cultura) si potrebbe immaginare un rilancio del Centro-Nord come macrosistema delle “regioni della competitività”: una conclusione del tutto nuova e diversa del ciclo iniziato negli anni Settanta quando fu scoperta la Terza Italia.

Nuova Stazione TAV a Belfiore (N. Foster)

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Le Città di città di Mauro Grassi* e Stefano Casini-Benvenuti*

ratteristica di concretezza e di radicamento in un determinato territorio o impresa. È il sapere tacito, ambientale, esperienziale etc., quindi sapere molto concreto e radicato e, come tale, difficilmente trasferibile all’esterno. E questo perché non viaggia attraverso formule e procedure riproducibili, ma attraverso il “saper fare” delle persone e delle organizzazioni in “carne ed ossa”. Quindi, a differenza di quanto si pensa, quanto più una produzione si affida ad un sapere “astratto” e tanto più risulta debole dal punto di vista della competizione a scala mondiale. Ovviamente non includendo in questa fattispecie le produzioni di alto livello scientifico garantite dalla protezione di brevetti ed esclusive che consentono una competitività regolata e quindi difficilmente contendibile. Ma lì ci sono soprattutto le multinazionali che presidiano tutto e che regolano la competizione globale più o meno a loro piacimento. Il problema della competitività non si pone quindi come una operazione di “spinta verso l’alto” del sapere produttivo e neppure di “inseguimento” parossistico delle più moderne scoperte scientifiche e tecnologie applicate. Queste condizioni sono necessarie ad una impresa e ad un territorio per aumentare le capacità localizzate. Ma non danno di per sé un elemento distintivo dal punto di vista concorrenziale. Ciò che deve essere sviluppato è invece un sistema cognitivo che sia in grado di acquisire nei tempi e nei modi più appropriati il “sapere astratto” che aleggia nel mondo, magari attraverso scambi continui di persone, di testi, di conoscenze con i luoghi della produzione e della diffusione di questo tipo di conoscenza. E cioè principalmente attraverso le università e i centri di ricerca e attraverso la rete internazionale che oramai lega ogni piccolo e grande centro di produzione di conoscenza. Ma poi occorre metabolizzare questo sapere nelle organizzazioni e nelle persone che lavorano nell’impresa o nel territorio locale e trasformarlo in un sapere che sia il più possibile unico, differenziale e non facilmente catturabile dall’esterno. In qualche modo che sia connaturato alla vita e al funzionamento dell’organizzazione e che sia il saper fare tipico delle persone, dei tecnici, degli operai e dei manager che lavorano nel distretto o nell’impresa localizzata.

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a competizione a scala globale si svolge principalmente fra sistemi di conoscenza localizzata. A prima vista sembra che la competizione sia fra scarpe cinesi e scarpe italiane. O fra auto giapponesi e auto italiane. In realtà i prodotti sono l’esito finale di un processo che è per sua natura materiale e immateriale: ciò che oggi compete nel mondo sono i sistemi di conoscenza che stanno a fondamento di questi processi. In una certa misura ciò è sempre stato vero, ma oggi lo è certamente di più. Si tratta di una conoscenza localizzata o in una impresa (che può essere più o meno “sparsa” su territori diversi, anche di diverse aree mondiali, e che può avere un “cervello” più o meno accentrato) o in un sistema produttivo territoriale, un distretto, un cluster o una rete d’imprese e così via (anche questi possono essere più o meno “sparsi”e con “cervelli” più o meno accentrati). Il patrimonio conoscitivo che sta alla base dei processi produttivi (sistema cognitivo) determina la natura della produzione (high teck, prodotti maturi, etc) e ne definisce il livello di competitività. Questa conoscenza è localizzata nei territori (nell’ambiente sociale e cioè nelle persone, nelle organizzazioni e nelle istituzioni locali) ma anche nei macchinari, nei materiali, nei componenti e nei servizi, in primo luogo in quelli “avanzati”, che vengono spesso da fuori del sistema. Essere competitivi nel sistema globale significa poter disporre di un “sistema cognitivo” a supporto della produzione, avanzato e innovativo (che è una condizione necessaria) ma anche che non sia facilmente trasferibile (e quindi catturabile) verso (e da) altri sistemi concorrenti. La trasferibilità (e quindi la catturabilità) di un “sapere produttivo” non dipende tanto dal livello intrinseco della conoscenza. Anzi, si può agevolmente dire che il più alto livello del sapere, quello scientifico, è in genere trasferibile e catturabile da tutto il resto del mondo in maniera abbastanza agevole. Non a caso nelle scoperte scientifiche e tecnologiche di alto livello si lavora attraverso “brevetti” e quindi privative industriali, senza le quali in poche ore questa conoscenza passerebbe da una parte all’altra dell’oceano senza alcuna limitazione o barriera cognitiva. Ciò che invece rende il sapere meno mobile -e quindi più difendibile da chi lo ha prodotto e continuamente lo innova- è la sua ca-

* Mauro Grassi. Economista, Assessore del Comune di Livorno. * Stefano Casini Benvenuti. Economista, Direttore dell’IRPET.

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Questa interpretazione del modello di conoscenza chiarisce il significato della città, della città moderna, innovativa, creativa, come snodo principale del sistema produttivo del mondo e come elemento fondamentale del processo competitivo a scala globale. Mentre i passaggi di conoscenza astratta potrebbero avvenire anche attraverso un interscambio fra due punti isolati del pianeta (il famoso “mito” che nell’era digitale si può lavorare su alti livelli anche stando a casa propria, in un casolare di montagna!!), la produzione di conoscenza localizzata necessita invece dell’interscambio continuo, programmato ma anche casuale e non preordinato, fra uomini e organizzazioni. E questo tipo di scambi richiede la prossimità. Lo stare nello stesso luogo, che può essere un’impresa, un distretto o, appunto, una città o una città-regione. E, questo stare “vicini”, consente ai produttori e detentori di conoscenza di condividere rapporti “face to face” che soli consentono il passaggio e l’interscambio, diremmo quasi la contaminazione, fra saperi non ancora codificati o, per loro intrinseca natura, non completamente codificabili. E allora le città o le città-regione diventano, se ispessite da uomini e organizzazioni capaci di produrre conoscenza, di attirarla da fuori, di metabolizzarla e di scambiarla in processi di rete corta, l’elemento determinante del grado di competitività di una sistema. Le nazioni sono competitive se hanno queste città o sistemi di città ricche di professionalità, di organizzazioni e di istituzioni capaci di innalzare il livello del sapere a supporto dei processi produttivi. Ricche nel senso di annoverare le più disparate professionalità (varietà e variabilità), ma anche ricche nel senso di avere quantità elevate di determinate professionalità ad un livello tale da produrre comunità attive e creative e quindi sistemi produttivi altamente competitivi. E’ per questo che quelle che si chiamano le città globali, le fucine dell’innovazione nel mondo, sono generalmente grandi. La grandezza in questo caso non è solo un elemento dimensionale ma è una proxy, un indicatore, il più immediato e semplice, della varietà, della quantità e della qualità di comunità della conoscenza che interagiscono fra di loro in un determinato, ristretto, ambito territoriale. E su questa dimensione l’Italia arranca. Solo Milano e Roma raggiungono livelli dimensionali appena adeguati a rappresentare il livello di città globale e si situano comunque a livelli bassi della graduatoria mondiale. L’Italia può cercare di competere in questo scenario solo portando una tipologia di città diversa da quella europea ed americana, e sempre di più asiatica, della grande conurbazione accentrata e può proporre invece il modello della città-rete. Cioè di una città che non si rappresenta come un luogo centrale con intorno dei satelliti, ma piuttosto come un sistema di satelliti senza centro, o con un centro appena

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emergente, che interagiscono fra di loro ad un livello regionale o sub regionale. Si parla in questi casi di città policentrica, città rete, rete di città, termini che hanno sfumature diverse ma che mettono in evidenza la presenza di una pluralità di luoghi che, assieme, costituiscono la città. Appare ovvio che non sono sufficienti, per definire una città rete, la vicinanza fra alcuni centri, un generico livello di interscambio fra questi e la presenza di una regione (economica, amministrativa o funzionale). Per cominciare a parlare di città rete, nel senso di un sistema città che produce e usa a livelli alti conoscenza localizzata, occorre che gli interscambi fra le persone e le organizzazioni della conoscenza siano continui e intensi e si svolgano all’interno di comunità di una certa varietà, numerosità e qualità dei soggetti. Le città della rete si devono quindi specializzare,onde portare varietà e variabilità, ma anche crescere di quantità per portare il livello dimensionale della comunità della conoscenza del sistema regionale ad un livello adeguato. Ogni volta che una città toscana, sia essa grande o piccola, realizza un progetto innovativo, registra un incremento occupazionale e imprenditoriale in determinate funzioni avanzate oppure realizza interscambi con il resto del mondo su aspetti di conoscenza, ebbene in quel momento innalza il potenziale cognitivo del sistema. Se poi questo punto, questa esperienza o attività singola, diventa il nodo di una rete regionale di interscambio di idee, uomini ed esperienze, la singola città contribuisce a mettere in atto quel potenziale e ad innalzare così la competitività della città rete nel suo complesso. L’attenzione al tema della città è quindi aumentata man mano che i contenuti immateriali all’interno dei processi produttivi hanno accresciuto la loro importanza. Nel modello distrettuale prevalevano gli aspetti materiali della produzione, quelli cioè più strettamente manifatturieri, per cui la conoscenza richiesta riguardava fasi diverse di uno stesso processo produttivo o varietà dello stesso prodotto: la varietà era limitata a questo; nel complesso prevaleva la specializzazione. Nell’epoca in cui i contenuti immateriali (capacità di comprendere e/o indirizzare i gusti dei consumatori, capacità di adottare materiali innovativi, di introdurre tecniche innovative, di predisporre piani finanziari, di farseli finanziare, di raggiungere i mercati internazionali…) divengono vieppiù importanti diviene allora importante disporre di una varietà di conoscenze (tecnologiche, finanziare, psicologiche…) che debbono poter lavorare assieme per far sì che un prodotto sia realmente competitivo. La capacità di competere con successo nel mercato globale proviene quindi dall’incontro di conoscenze, di esperienze diverse. La diversità è quindi una dote fondamentale. Ed è per questo che le città, intese per lungo tempo il luogo del consumo, tornano


ad essere anche i luoghi della produzione. Nei vecchi distretti industriali il vantaggio derivava dal fatto di essere tutti un po’ simili, nelle città moderne il vantaggio deriva dal fatto di essere luoghi della diversità; per questo l’accoglienza diviene un valore ancora più importante, dal momento che consente di estendere ancora di più la diversità. Certo la diversità affinché possa essere fattore di sviluppo richiede, da un lato, che vi sia comunque una dimensione tale da poterla accogliere, dall’altro che vi sia incontro, integrazione tra le conoscenze che essa esprime. Per cui, come si diceva sopra, la città per raggiungere tali obiettivi non può essere troppo piccola. Ma in Toscana la presenza di piccole città non è solo una sua caratteristica storica difficilmente removibile, ma è stata anche un veicolo per il raggiungimento di elevati standard di vita: ricordiamo come tutte le analisi sul benessere condotte nel nostro paese vedano sempre la Toscana delle piccole città (e con essa le altre regioni con caratteri simili) ai primi posti nella graduatoria nazionale. In fondo la città più grande (Firenze) conta poco più di 350 mila abitanti, se ci limitiamo al comune centrale, ed in ogni caso poco più di mezzo milione se consideriamo i comuni immediatamente confinanti. È difficile ovviamente immaginare che singole città di questa dimensione possano garantire simultaneamente varietà ed alto livello di specializzazione e competitività nei servizi qualificanti l’economia urbana. Ma le diverse città della Toscana, alla varietà di funzioni presente in ciascuna di esse (e che verosimilmente le accomuna), possono associare anche l’offerta qualificata di alcune specifiche funzioni; diviene allora possibile immaginare la presenza di una “rete di città” che può svolgere la stessa funzione delle aree metropolitane più grandi. Naturalmente affinché ciò accada è necessario che le funzioni specifiche di ogni città siano facilmente accessibili a tutte le altre città e più in generale all’intero sistema regionale. Una rete è fatta di nodi, ma anche di relazioni. Occorre quindi chiederci quali siano i nodi di questa rete e quali funzioni essi siano in grado di esprimere e, una volta verificato, si tratta di comprendere se le relazioni tra tali nodi esistano già o comunque siano facilmente attivabili. Osservando dal primo punto di vista le città toscane emergono con una certa evidenza alcune caratteristiche: La forte specializzazione in ciascuna di esse delle attività rivolte ai residenti (commercio, tempo libero, attività immobiliari) e quelle della pubblica amministrazione; la maggiore articolazione nell’offerta di servizi alle imprese da parte dell’area fiorentina e pisana con particolare riguardo a quelli a più elevato contenuto di conoscenza; nelle aree urbane aretina, senese e livornese vi è invece una forte concentrazione in alcune attività di servizio (rispettivamente, comunicazioni, credito e trasporti); in alcune di queste aree urbane sono inoltre concentrate le

poche grandi imprese industriali esistenti in Toscana. Le caratteristiche suddette consentirebbero di identificare dei nodi della rete tali da rendere l’intera rete potenzialmente “completa”: logistica, credito, comunicazioni, ricerca e sviluppo sono presenti nelle diverse città, le quali presentano tutte una elevata presenza anche di servizi alla persona, di pubblica amministrazione e dei servizi alle imprese più banali. Resta aperto però il secondo quesito, ovvero se i nodi della rete sono tra loro sufficientemente interconnessi e soprattutto se lo sono anche con il resto della regione, visto che la funzione delle aree urbane più qualificate è quella di erogare servizi all’intero territorio regionale (e oltre). In realtà non vi sono informazioni sufficienti a dare una risposta a questa domanda, anche se prendendo in esame le principali infrastrutture che collegano i centri urbani della regione tra di loro e con il resto della regione (stradali e ferroviarie) non sempre si ha la sensazione di rapporti di collegamento agevoli. Ciò significa però che se da un lato si possono rilevare le potenzialità della rete di città toscane, dall’altro affinché la rete si crei realmente è necessario favorire i collegamenti interni alla regione. Questo rafforzamento è esso stesso portatore di stimoli alle aree urbane: se aumenta la scala della domanda è infatti possibile che l’offerta si qualifichi ulteriormente, recuperando nel suo complesso quella scala in grado di ospitare quelle attività ad alto contenuto di conoscenza e di diffonderle più agevolmente nei territori vicini che dovrebbero essere la base della competitività di una regione moderna.

Mostra di Folon al Forte Belvedere

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ACCESSIBILITà

Dalla mobilità fisica alla mobilità sociale di Mirko Dormentoni* e Valerio Vannetti*

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agionamenti sulle politiche pubbliche per la mobilità urbana declinate in termini di accessibilità, sugli scenari futuri per Firenze nella sua area vasta metropolitana, con le opinioni dell’esperto Massimo Ferrini. Diritti e doveri “Accessibile: a cui è possibile accedere, che è di facile accesso”, così recita l’enciclopedia italiana Treccani ed è questa una possibile chiave di volta per leggere la realtà e per progettare al meglio le politiche per la mobilità. Anzitutto rendere possibile l’accesso a tutti i luoghi della città che le persone vogliono vivere e che è utile ai cittadini (in quanto attori di una città per l’appunto “viva”) che siano frequentati per studio, per lavoro, per le attività del “tempo libero”. Contemporaneamente, o comunque non troppo successivamente, permettere che questo accesso sia non solo possibile ma anche facile, che sia fattibile comodamente, senza eccessivo dispendio di energie, di risorse econo-

miche ed ambientali, tendenzialmente senza impiegare più tempo di quello che poi si impiega per vivere il luogo che si intende raggiungere. Queste semplici e banali premesse ci servono ad impostare un ragionamento sulle politiche pubbliche che riguardano il tema della mobilità, che necessariamente si lega a molti altri, come quello dell’urbanistica, delle infrastrutture, dei diritti di cittadinanza, dello sviluppo economico, della tutela e valorizzazione dell’ambiente. Partendo quindi dal concetto di “accessibilità” si va oltre quello di “mobilità” ed occorre coniugare le politiche utili a rendere effettivi alcuni diritti e alcuni doveri, dal diritto di poter accedere agevolmente ai luoghi di lavoro, di studio, dei servizi e di “godimento della bellezza”, al dovere di accedervi in modo sostenibile, in modo da non creare ulteriore debito ambientale sulle spalle delle nuove generazioni, ulteriori ipoteche sul futuro. Uno degli obiettivi di fondo di queste politiche è “privilegiare l’accesso ecologico ai centri urbani”. Centri urbani

Fotomontaggio di un viadotto in prossimità del Forte Belvedere

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Le tranvie, grandi opportunità di cambiamento Abbiamo quindi approfittato della disponibilità di Massimo Ferrini, professionista esperto dei sistemi e degli strumenti di mobilità e di trasporto pubblico, per individuare e sottolineare alcuni spunti per la “Firenze dopo”. “Il sistema di accessibilità è quello che ha il più forte impatto su un sistema urbano” dice Ferrini. Per questo occorre disegnare un sistema di accessibilità compatibile con la “città che vogliamo”. “Per Firenze occorre rapportarsi con un tessuto storico di valore mondiale che deve essere sempre più valorizzato e vissuto in tutti i suoi aspetti e in tutti i suoi luoghi. L’accessibilità deve essere funzionale anche a questo e le tranvie rappresentano una grandissima opportunità in questo senso”. Firenze è da considerarsi la città policentrica della Toscana assumendo il carattere di invariabilità, proprio di questa collocazione, in riferimento al quadro definito dal Piano di Indirizzo Territoriale della Regione. Questo assunto determina le condizioni sia per un diverso rapporto fra Firenze e il complesso delle città toscane in grado di determinare forti reciprocità rispetto agli assetti territoriali, alla cultura, ai sistemi produttivi, presupponendo il determinarsi di una dotazione urbana unica in un profilo di più evidente sostenibilità di sistema. Un profilo di dotazione urbana identificata dentro standard qualitativi (e quindi funzionali) capace di prefigurare anche nuove condizioni (opportunità) per sistemi di moderne governance. Nell’ambito del sistema metropolitano, i numeri ci dicono che persiste un flusso di mobilità giornaliera delle persone stimato in circa 700.000 unità, accompagnate da 100.000 auto private. Un impatto assolutamente non più

sostenibile per spazi fisici, per tassi di inquinamento, per costi pubblici e privati, per fattori di sicurezza. Anche per questo il Piano Strutturale del Comune di Firenze disegna giustamente un articolato sistema di tranvie che (nella “Firenze dopo”), opportunamente integrato con un efficiente ed ecologico servizio su gomma, potrà rendere “accessibili” in modo sostenibile i luoghi della città. Una vera e propria rete tranviaria o sistema di tranvie è anche una grande occasione per “ripensare tutto”. Cominciando dalla fin troppo evocata e poco praticata “intermodalità”, dalla necessità di integrare diversi mezzi di trasporto pubblici ed anche privati. Cominciando ad esempio dalla necessità di un programma “a tappe forzate” di realizzazione di parcheggi scambiatori presso i principali punti di accesso alla rete tranviaria, che ancora non vedono né luce né progettazione esecutiva. Un’urbanistica che pensi all’accessibilità “Un sistema funzionale di accessibilità parte dal disegno urbanistico, dall’individuazione dei luoghi pulsanti, delle piazze da valorizzare, dalle aree pedonali che si intendono implementare, dagli assi della ciclabilità da sviluppare” sottolinea Ferrini, e insiste: “ogni strada ha la sua capacità, la sua portata, come un fiume, la modellistica può prevedere quanto può passare da lì ma è la pianificazione del territorio che deve dare gli obiettivi, gli input ai modelli”. Se ad esempio si ritiene che i luoghi e le strade della città devono essere sempre più vissuti e non semplicemente percorsi, si investe molto sulla mobilità elementare, pedonale e ciclabile. “La potenza della mobilità ciclabile è enorme e in città come Firenze si potrebbe fare molto, molto di più, vedo una Firenze bella se fra qualche anno è percorsa dal triplo, dal quadruplo delle biciclette che sono utilizzate oggi per gli spostamenti urbani anche per le cosiddette lunghe tratte, che poi nelle nostre dimensioni tanto lunghe non sono mai, se rese per l’appunto ‘facilmente accessibili’ da tale mezzo”. “Il trasporto pubblico ancora oggi in Italia supera di poco il 10% dei mezzi utilizzati per gli spostamenti in Toscana, nonostante tutti i positivi sforzi fatti dalla Regione e dalle amministrazioni locali. Aumentare il TPL non deve essere uno sforzo fine a se stesso ma deve servire a dare accessibilità e vivibilità a tanti luoghi (centri urbani

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significa anzitutto centri storici, ma anche centri funzionali delle città e dei sistemi di città come è in parte quello della Toscana. E poiché in questo articolo intendiamo declinare tutto questo in relazione a Firenze, e in particolare al futuro di Firenze (considerata non certo chiusa dentro i suoi confini amministrativi), cercheremo di tratteggiare alcune caratteristiche ed alcuni obiettivi che potrebbero essere utilmente perseguiti nel disegnare scenari e nel progettare sistemi ed infrastrutture a Firenze, nella sua area metropolitana, e nella Toscana centrale.

* Mirko Dormentoni. Consigliere Comunale PD di Firenze. * Valerio Vannetti. Responsabile regionale dei Trasporti del PD Toscano.

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e non solo) e a caratterizzare il nostro enorme patrimonio culturale per il valore estetico e per quello economico”. Rendere accessibili i luoghi della cultura, sia per i turisti sia per i cittadini dell’area metropolitana, significa anche creare ricchezza e benessere. “La linea 1 della tranvia dimostra i successi e le utilità che può avere questo eccezionale mezzo di trasporto ed anche i potenziali cambiamenti che è fortunatamente in grado di provocare o almeno di suggerire” afferma ancora Massimo Ferrini. La tranvia è una risposta strutturale che ha effetti sulla domanda, ha modificato e modificherà i comportamenti dei cittadini, non è semplicemente qualcosa che va a sostituire un altro servizio pubblico, tante persone che prima non prendevano il bus ma l’auto per arrivare in centro o nei suoi dintorni (provenienti dalle direttrici sud e sud-ovest) oggi prendono il tram. È quindi proprio sul sistema tranviario che occorre puntare tutto perché la rete, la connessione tra più linee, moltiplica l’utilità della scelta di questo mezzo, perché si riduce l’impatto ambientale della mobilità, e si migliora l’accessibilità”. In altre parole, e per salire di grado sulla scala di astrazione, si coniugano al meglio i diritti e i doveri della mobilità. “L’urbanistica pensi all’accessibilità e viceversa”, le funzioni si possono utilmente concentrare preso i grandi nodi della mobilità e, se si pianifica e si progetta questo, il pubblico ha il coltello dalla parte del manico rispetto ai possibili e necessari investitori privati che realizzano funzioni urbane. Necessario l’hardware, fondamentale il software Più concretamente: Firenze, grazie soprattutto al nodo dell’Alta Velocità/Alta Capacità ma anche agli investimenti sul sistema autostradale, avrà l’hardware che la collegherà meglio all’Italia ed anche (ancora da migliorare) alle altre città toscane, alle “Toscane”. Occorre cominciare a progettare e realizzare al meglio anche il software, sul quale siamo indietro. I grandi livelli di accessibilità ci sono o ci saranno, ma bisogna forse lavorare di più alla precisazione dei sistemi che tengono insieme: funzioni qualificate (luoghi dello studio, della ricerca, dei servizi, della cultura, della produzione di alta qualità), linee tranviarie, linee ferroviarie nazionali, regionali e metropolitane, linee bus, sosta, aree pedonali, assi ciclabili, strade di collegamento rapido alternativo ai viali (es. passante urbano nord-est nord-ovest). Nel disegno che oggi abbiamo, a partire da quello che è riassunto dal Piano Strutturale non si registra un gap fisico di infrastrutture. Il problema vero (e l’opportunità) riguarda la gestione dei sistemi infrastrutturali. Occorre quindi progettare o affinare la programmazione e la gestione, puntando ad esempio moltissimo sulle nuove

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Fotomontaggio di viadotto per collegare i diversi quartieri

tecnologie, sui sistemi di infomobilità, sugli accessi telematici, tanto alle zone a traffico limitato quanto agli assi viari di grande scorrimento come la Fi-Pi-Li. Puntando a “svuotare le città dalla sosta di superficie perché non sono sostenibili parcheggi per le strade per 650 auto ogni 1.000 abitanti (3 campi da calcio) quando nell’Europa più avanzata (es. Friburgo) ce ne sono 40 di auto ogni 1.000 abitanti. Oggi il parcheggio di superficie è al 60-70% lungo le strade e questo ha grossi impatti negativi. Quindi due sono le leve: diminuire nel tempo il bisogno di autovetture private, realizzare a breve termine la sosta in parcheggi sottoterra o sopra terra in quantità rilevanti“. Il tutto può e deve essere fatto con grande attenzione all’ambiente e al paesaggio: “è possibile realizzare sylos per parcheggi dietro facciate storiche di edifici anche nei centri urbani o nelle aree di pregio, come è avvenuto ad esempio a Barcellona con inserimenti da manuale” racconta Ferrini. Insomma, i parcheggi possono essere elementi di progettazione e riqualificazione urbana. Fanno parte di politiche per la modernizzazione dell’ambiente, per una “ospitalità nuova”. E la loro gestione è fondamentale per far funzionare meglio le città e la loro accessibilità. Una gestione che deve prevedere una fortissima e originale integrazione con il trasporto pubblico e con la mobilità ciclabile naturalmente. Nella necessità di sviluppare efficaci strumenti di programmazione e di conseguente gestione rientra anche la realizzazione delle pedonalizzazioni. Occorre partire da “per cosa si fanno” e quindi “come si fanno”. Se si fanno non per creare “salotti” ma per rendere più accessibili e


Calibrare le risorse “Il costo del trasporto privato su gomma deve crescere non per la crisi economica ma per convenienza urbanistica e ambientale” afferma in conclusione Ferrini. “La diminuzione dei flussi di traffico tra il 2010 e il 2011, che secondo i dati ISFORT-ISTAT è stata del 5,6%, è certamente congiunturale, mentre occorre impostare infrastrutture e gestione affinché diventi strutturale: diminuzione del traffico privato ed aumento dei cittadini che si muovono su mezzi pubblici ed ecologici”. Inoltre, occorre la massima ottimizzazione delle risorse pubbliche. Utilizzarle, magari integrate con quelle private tramite project-financing ben fatti, per investimenti che garantiscono effetti certi e misurabili e che siano realizzabili con tempi certi nel medio-breve periodo. Spesso sono più utili le cosiddette piccole opere delle grandi, se fatte secondo i suddetti criteri. Investire in strade senza monconi, in parcheggi scambiatori che entrano subito in funzione, in mezzi e infrastrutture per il trasporto pubblico e per l’infomobilità. Tutto questo è finalizzato ad avere città che attraggono non solo in virtù dei loro musei ma anche e soprattutto della loro molteplice offerta di luoghi vissuti e accessibili e di servizi di qualità.

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vivibili, non solo dai turisti, i luoghi che costituiscono le stesse aree pedonali, occorre che da subito si progettino in dialogo e in convivenza con il trasporto pubblico, con linee di bus elettrici, con linee tranviarie (con il tram che va a passo d’uomo naturalmente) come avviene in tante città europee ed alcune italiane.

I valori e due scenari per la “Firenze dopo” In conclusione, siamo convinti che occorra partire dal considerare città, luoghi urbani, piazze, monumenti, centri di aggregazione come “valori urbani”. Come si accede a questi valori, come si rendono fruibili da tutti e in modo sostenibile? Mettendo a sistema tanti strumenti diversi da progettare nel modo più omogeneo e unitario possibile: pedonalità, ciclabilità, bus, tram, treno, auto. Siamo altrettanto convinti che il sistema di accessibilità possa contribuire a regolare (e contrastare) i fenomeni della rendita urbana. In estrema sintesi: il trasporto privato su gomma disperde la mobilità e favorisce la rendita consolidata nei decenni, il trasporto pubblico (in particolare su ferro) concentra e favorisce la regolazione pubblica nel governo dei suoli, la quale deve essere finalizzata a contrastare la rendita. Quindi, ci limitiamo a tracciare due possibili scenari da qui alla fine del decennio, due “sogni” da realizzare per l’accessibilità della “Firenze dopo”, nucleo di un’area metropolitana e di un sistema di città toscane che crea sviluppo sostenibile affermando diritti e doveri dei sempre più “cittadini in movimento”: 1) Il Trasporto Pubblico è realizzato secondo i principi della concorrenza per il mercato, che è l’idea di mettere le imprese in concorrenza tra di loro mediante un “meccanismo d’asta” per acquisire il diritto di fornire il mercato, da concedere all’impresa in grado offrire le migliori condizioni non solo in termini di prezzo ma anche come caratteristiche tecnico-qualitative dei servizi offerti. Un mercato liberalizzato, fortemente regolato e controllato dalla Regione e dalle amministrazioni locali (dotate dei necessari strumenti e risorse per svolgere tali funzioni)), dove il Trasporto Pubblico Locale è gestito in modo sempre più efficiente ed efficace, con mezzi nuovi ed ecologici e tutte le moderne tecnologie disponibili per renderlo appetibile e comodo, in una parola “facile” per tutti (richiamandoci all’incipit di questo articolo), integrato con tutti gli strumenti dell’infomobilità che permettono ai cittadini di conoscere in tempo reale tutte le condizioni della mobilità pubblica e privata. Un TPL che, per raggiungere questi risultati, è gestito da soggetti forti, specializzati, industrialmente strutturati e quindi di dimensioni “europee”, competitivi a livello nazionale ed internazionale. [Si tratta di completare la riforma legislativa ma soprattutto quella attuativa: la normativa nazionale e regionale in questa materia sono fortunatamente andate in questa direzione già dal 1997-98, la loro effettiva attuazione è cominciata qualche anno più tardi (superamento delle centinaia di diverse concessioni e realizzazione di gare da parte delle Province nel 2004-2005), adesso la riforma regionale in atto - soprattutto se in tempi

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più brevi di quelli finora preventivati vedrà non solo l’aggregazione regionale delle gare per i bus ma anche un affidamento integrato del servizio su gomma con quello su ferro - ci può portare ancor più decisamente in questa direzione]. 2) Il sistema infrastrutturale per la mobilità è effettivamente caratterizzato dall’ “effetto rete”, dall’integrazione ferro-gomma e dallo scambio intermodale. Vede la terza corsia autostradale su tutta la rete toscana, un forte miglioramento delle grandi strade di scorrimento come la Fi-Pi-Li e la Siena-Firenze, vede il passante urbano nella parte nord di Firenze, ma privilegia il trasporto pubblico, con un grande sviluppo del “ferro” e dei “nodi”. E’ un sistema integrato ferroviario (internazionale, nazionale AV/ AC, regionale e metropolitano) e tranviario (compreso uno sviluppo del tram-treno, cioè di un tram che può utilizzare i binari ferroviari) dove il materiale rotabile, moderno, comodo, massimamente ecologico, dotato delle più recenti tecnologie, si muove a un ritmo intenso e cadenzato ed è in grado di permeare la/le città ed avvicinarsi a tutti i loro centri. Per questo sono stati realizzati numerosi nodi intermodali, che sono soprattutto le stazioni ferroviarie (almeno una quindicina solo nell’area metropolitana fiorentina più ristretta) e le principali fermate tranviarie (che in alcuni casi coincidono con le prime) dove i mezzi pubblici su ferro possono essere facilmente scambiati con quelli su gomma o con mezzi privati, preferibilmente biciclette (per le quali esiste un potente sistema di bike-sharing e una ramificata rete di piste ciclabili), tramite appositi par-

cheggi scambiatori multifunzionali, multivettoriali e diffusi sul territorio. Il trasporto pubblico extraurbano su gomma non arriva nel cuore del centro, alla stazione SMN, ma si ferma alle porte della città scambiandosi in modo rapido e comodo con il sistema tranviario o ecologico su gomma. L’Aeroporto di Peretola, è un sicuro, accogliente, funzionale “city airport” gestito in un quadro di forte sinergia con l’Aeroporto di Pisa nell’ambito di un efficace sistema aeroportuale toscano. Infine, lo sviluppo delle funzioni urbane tiene conto di questi nodi come punti nevralgici di concentrazione. A che pro? Valori ed obiettivi Alla fine si potrebbe dire che usare l’ “accessibilità” come chiave di lettura porta ad avvicinare la mobilità fisica alla mobilità sociale, perché un sistema di accessibilità progettato e realizzato secondo i principi e i criteri sopra esposti, può contribuire concretamente a rendere i luoghi delle città aperti al mondo, tra loro collegati, fruibili e vivibili da tutti, ad abbattere gli inquinamenti, ad abbattere le rendite urbane. Anche queste sono condizioni per rendere mobili e dinamiche le società e le comunità, per diminuire le diseguaglianze, per realizzare eguaglianza delle opportunità e possibilità di perseguire i propri interessi e le proprie aspirazioni a prescindere dal censo, dal lavoro dei genitori o dal luogo di nascita/residenza, per permettere di fare da sé ma non da soli. Della serie: c’è ancora tanto da fare, rimbocchiamoci le maniche!

Fotomontaggio di viadotto sopra piazza Duomo

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Pedonalizzare e costruire città di Leonardo Rignanese*

Fotomontaggi: una soluzione al traffico, usare il deltaplano….

movimento e dello stare, dell’incontro e della socialità – lo spazio essenzialmente dei pedoni – è facilmente percepibile e riconoscibile. Pedonalizzare è assumere il punto di vista del pedone, a partire da quello banale e spesso dato per scontato di ciò che si vede quando siamo pedoni. E tutti siamo (anche) pedoni. deve quindi essere un modo nuovo di guardare e progettare lo spazio. Lo spazio dove ci muoviamo è fatto di volumi ma anche di piani di calpestio, di livelli, di superfici, di luci e di suoni. Ci muoviamo tra edifici camminando su un piano orizzontale: il livello del terreno. E questo livello, questo spazio che tiene assieme lo spazio della città, è la base fisica dello spazio pubblico, è il suolo su cui poggia lo spazio della città. È lo spazio delle relazioni, è uno spazio urbano e allo stesso tempo uno spazio architettonico. È uno spazio senza volume, un vero volume zero. La costruzione dello spazio del pedone è la costruzione di questo spazio delle relazioni. Lo spazio del pedone è uno spazio che va “costruito” tanto per far rivivere i centri storici quanto per rigenerare e strutturare le periferie. Pedonalizzare può essere assunto come visione e modalità di “progettare” spazio urbano, di individuare e connettere in una rete lo spazio del muoversi e dello stare, dell’incontro e della conoscenza. Ritrovare il senso che i luoghi urbani per eccellenza avevano nel passato. La piazza un tempo era un luogo complesso architettonicamente ben definito ma con una minima specializza-

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Trent’anni fa veniva pedonalizzata piazza della Signoria, prima isola pedonale di Firenze. A questa operazione seguirono la pedonalizzazione di altre piazze, di via Calzaioli - e il suo rifacimento - e la delimitazione della ZTL estesa fino ai viali di circonvallazione. L’anno scorso è stata pedonalizzata l’area del Duomo e da qualche mese quella di piazza Pitti e di via Tornabuoni. Aree pedonali e zone a traffico limitato sono, nelle classifiche, indicatori della qualità della vita in una città e misura delle azioni contro l’inquinamento. Effettivamente le strade liberate dalle macchine assumono un’altra dimensione e un’altra vivibilità, sono condizioni preliminari per vivere meglio la città. La pedonalizzazione però non vuol dire solamente togliere le macchine. La pedonalizzazione, intesa come condizione del pedone di poter usufruire con sicurezza e comodità dei luoghi urbani, dovrebbe essere un requisito garantito in tutta la città. La pedonalizzazione è una modalità dell’accessibilità. Una città accessibile è una città che consente di essere raggiungibile e utilizzabile al meglio da chi proviene da fuori e da chi vi abita, da chi vi lavora e da chi viene a visitarla. Una città accessibile è una città che è facile e comoda da utilizzare e vivere per chi vive in centro e per chi vive in periferia. La pedonalizzazione è strumento indispensabile per dare senso all’abitare e al muoversi, che sono pratiche soggettive e collettive che permettono all’abitante di identificarsi in un luogo, in un quartiere, in una città; di ricomporre esperienze e legami sociali, di stabilire con lo spazio rapporti non puramente utilitaristici poiché rapporti sociali e qualità spaziali concorrono a strutturare l’identità degli abitanti e in qualche modo anche dei city user. Accessibile è anche una città sicura, a partire dalle condizioni di sicurezza fisica di fruizione dei servizi e della città nel suo complesso: percorsi, attraversamenti stradali, piste ciclabili, piazze, aree verdi, mercati, scuole ecc. Accessibile è anche una città leggibile, dove lo spazio del * Leonardo Rignanese. Urbanista, Direttore di “Urbanistica Informazioni” INU Toscana.

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zione funzionale, uno spazio a disposizione degli usi che l’individuo e il gruppo nel tempo vi riconosceva: mercato, incontro, feste, cerimonie, esercizio della giustizia ecc. Così la strada era il luogo del transito, dello stare, dell’esibizione, del commercio, estensione della casa o della bottega (delle attività al piano terra). Strade e piazze erano luoghi belli e rappresentativi a disposizione degli usi collettivi e individuali. Oggi le nostre strade sono spesse povere nei loro arredi e semplificate nei loro usi. Pedonalizzare non vuol dire sempre e per forza dedicare uno spazio unicamente al pedone. Pedonalizzazione è una strategia per lo spazio pubblico, è una pratica per restituire lo spazio ai pedoni, è una principio per creare percorsi dedicati alla componenti virtuose del muoversi: pedoni, bici, trasporto pubblico. La pedonalizzazione non è esclusione. La pedonalizzazione deve essere una modalità per riconoscere uno spazio come spazio dove è protagonista è il pedone; dove il pedone non deve difendersi dalle auto. Pertanto si deve basare su un’attenta considerazione dei luoghi, delle loro dimensioni,

dei loro caratteri, della loro storia, della possibilità di far convivere e integrare diverse mobilità e diversi usi come insegna il woonerf1 (letteralmente area condivisa) olandese. Pensare a un centro de-automobilizzato non implica automaticamente chiudere una strada o una piazza e basta; vuol dire pensare a isole pedonali collegate e a strade di transito e non di sosta; vuol dire trovare le modalità per convivere – auto e pedoni – in uno stesso spazio laddove questo è possibile: allargando marciapiedi e restringendo corsie di marcia e rallentando la velocità dei veicoli (forse su via Tornabuoni, data la sezione stradale, si poteva sperimentare questa modalità di una strada a priorità pedonale). Spesso manca una democrazia della strada in cui si possono riconoscere i diversi soggetti e le diverse utenze e le diverse mobilità. Infine, le esperienze di pedonalizzazione dovrebbero – così come accade nelle città che perseguono politiche di recupero dello spazio pubblico - migliorare il disegno dello spazio urbano e la qualità dell’arredo urbano (per la verità abbastanza povero negli ultimi interventi di pedonalizzazione cittadina). Gli interventi di recupero urbano partono proprio da una forte connotazione dello spazio recuperato. Gli interventi di riqualificazione urbana a Firenze seppur apprezzabili per aver recuperato aree all’uso dei pedoni non consentono di apprezzare un disegno complessivo di costruzione di una rete pedonale urbana, non riescono a veicolare un’idea di arredo urbano significativa e di qualità: materiali poveri, immagine complessiva banale, spazi connotati e delimitati solo dall’uso di catene, elementi di arredo urbano mediocri. La pedonalizzazione deve, per quanto detto prima, essere anche una nuova immagine dello spazio pubblico che si vuole realizzare. Per ora sembra solo di aver delimitato alcune aree dove sono escluse le auto. Non si riesce a immaginare un disegno|progetto che sappia valorizzare questi luoghi, che sappia far convivere mobilità differenti. La pedonalizzazione potrebbe essere la vera sperimentazione di un’architettura a volume zero, di un progetto dello spazio pubblico, di autonomia figurativa e funzionale da conferire al progetto dello spazio aperto.

Fotomontaggi: una soluzione al traffico, usare il deltaplano….

Il woonerf olandese (area condivisa) è una strada dove pedoni e ciclisti hanno la precedenza e dove, grazie a misure di traffic calming, gli automobilisti sono costretti ad adottare comportamenti di guida più prudenti.

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ATTRATTIVITà

La città del futuro tra innovazione e tecnologia di Giacomo Scarpelli* e Lorenzo Zambini*

berismo politico ed economico, della crescita in un definitivo e permanente, autostabilizzante, ordine mondiale del capitalismo non è più sostenibile. Per coniugare sviluppo economico, occupazione e benessere sarà necessario gettare le basi per un modello alternativo, senza arroccarsi nelle comode certezze del passato, l’individualismo o il collettivismo puro, richiamando la politica alla funzione primaria del governo della società. Pensare alla città del futuro ci può fornire uno spunto di riflessione. In un contesto nel quale l’interdipendenza e l’integrazione delle economie a livello globale sono assodate e in cui i paesi emergenti hanno sempre più peso nello scenario mondiale, come continuare ad essere competitivi sui mercati internazionali? Qual è il percorso che abbia con sé la visione del futuro e che proceda senza scatti repentini, ma operi con impulsi regolari? È in un contesto di prospettiva e di miglioramenti costanti nel tempo che trovano il proprio terreno fertile in meccanismi e investimenti che puntino all’innovazione e tecnologia. Ciò è possibile se viene rovesciato lo schema che affida la crescita ad una società governata dal mercato, senza politica, senza organizzazioni collettive, senza istituzioni, giudicate d’intralcio. Lontana da questa concezione la città si può configurare come un ambiente in cui agiscono attori a livello macro e micro economico, tra loro interrelati, flussi della conoscenza e della cultura, relazioni sociali più o meno formali, capaci di superare certe debolezze e di influenzare le condizioni che favoriscono l’innovazione. Insomma la città può essere identificata come un ambiente in cui si attivano nuovi processi di accumulazione di valore all’interno di un contesto in cui la politica guida lo sviluppo e la distribuzione di ricchezza. Alla città sembra prospettarsi la sfida del futuro di far convivere competitività e crescita, con uno sviluppo urbano sostenibile. Una sfida che coinvolge l’economia come la cultura, l’ambiente come

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isione ampia del futuro, chiarezza di idee e di obiettivi. Ricordandosi sempre che non si lavora per il breve termine ma per l’eternità”. Ci sembrava significativo partire da questa osservazione di Sergio Bertini, prima di addentrarci in qualsiasi tipo di discorso che riguardi la città del futuro. Un punto di partenza essenziale per chi ha un’impresa o per chi amministra un territorio, una questione basilare: la fondamentale necessità di avere sempre una prospettiva di lungo periodo. Un cambio di prospettiva rispetto al modello regolativo di società che ha dominato l’ultimo quarto di secolo. Un punto di vista opposto all’egemonia neoliberista, quella cultura politica specifica che ha subordinato il post fordismo, l’economia leggera, alle sole dinamiche del mercato, che ha avuto come riferimento temporale il breve periodo. In esso le diseguaglianze si sono moltiplicate fino a livelli di polarizzazione sociale impensabili perfino dai suoi sostenitori della prima ora. L’impazienza verso guadagni immediati ha schiacciato le scelte strategiche delle imprese sulla ricerca di profitti a breve, scoraggiando una gestione orientata a lungo termine e deprimendo gli investimenti per l’innovazione e la competizione. Così la regolazione economica e sociale di un’epoca è stata cadenzata dai mercati finanziari fino al crollo degli ultimi anni. Come dire: il breve periodo ci ha uccisi! Oggi il mondo è percorso da mutamenti economici e tecnologici globali con processi sempre più stretti di integrazione e interazione. I confini delle economie si sono aperti sempre di più e l’economia di una nazione è stata maggiormente influenzata da quella delle altre. L’implosione del sistema negli ultimi tempi ha messo in discussione i principali capisaldi sui quali si poggiava l’ideologia della “fine della storia”, la deregolamentazione dell’economia e la via bassa allo sviluppo colpevoli dell’aver caricato sulle spalle del lavoro gran parte dei costi e dei rischi economici e sociali. La vittoria incontrastata del li-

* Giacomo Scarpelli. Laureato in Scienze Politiche, Segreteria PD di Firenze. * Lorenzo Zambini. Laureato in Teoria delle comunicazioni e tecniche dei linguaggi persuasivi.

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Leonardo, vite elicoidale

gli stili di vita. È in questo contesto che l’alta tecnologia, la ricerca e l’innovazione devono agire. Da questo punto di vista pensiamo che la città possa essere davvero la risposta e il luogo di risoluzione della crisi economica, finanziaria e occupazionale. Ma che tipo di città? L’Unione Europea ha dato vita il 21 giugno 2011 ad un atteso programma di iniziative a favore della diffusione nell’intero continente di un nuovo modello di città sostenibile: le Smart Cities. Le Smart Cities sono definite città “intelligenti”, tecnologiche, confortevoli, sostenibili e interconnesse tra di loro. Hanno come caratteristiche basilari una popolazione urbana compresa tra i 100.000 e i 500.000 abitanti (quindi non si punta sulle grandi metropoli ma sulle città di media grandezza), un bacino di utenza inferiore a 1.500.000 abitanti e devono avere al loro interno almeno una università. Fateci caso: sembra la descrizione della realtà toscana fatta di piccoli e medi centri che hanno ospitato distretti industriali anche molto competitivi negli anni passati e oggi sono travolti dalla crisi economica. Territori con un’eredità industriale virtuosa che adesso hanno bisogno di una spinta nella direzione dell’innovazione e della competizione. Il modello delle Smart Cities ci suggerisce un approccio che vede nella costruzione delle reti un obiettivo cruciale. L’obiettivo è quello della gestione ottimizzata delle risorse energetiche e del trasporto, aree urbane il più efficienti possibile, riducendo le emissioni di carbonio, i rifiuti, l’inqui-

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namento e la congestione. Il cuore pulsante è quello di puntare sulle nuove tecnologie mirate al miglioramento della gestione dei processi urbani e della qualità della vita dei cittadini. Questa pare essere la linea seguita da alcune amministrazioni locali che stanno siglando accordi con grandi multinazionali del settore tecnologico per ridisegnare le proprie città. Come sta accadendo a Dublino con l’Imb o a Seattle con la Microsoft, per risparmiare energia attraverso una partnership tra giganti del settore informatico e amministrazione locale. Un modello che sembra sposarsi perfettamente con l’idea di città-regione della Toscana. L’elemento dimensionale per le città toscane è senza dubbio un limite se è accompagnato dalla logica provinciale e passatista dei campanili, di un municipalismo “bottegaio”, mentre assume un alto potenziale se questo insieme di piccole e medie città viene visto nell’ottica di una rete regionale sempre meglio collegata. Innovazione e tecnologia devono essere utilizzante nelle e per le relazioni e i collegamenti tra le città toscane. Questa maggior efficienza porterà a un beneficio in termini di produttività e di sviluppo dei nodi, aumentando il potenziale per investire in innovazione e tecnologia, in un meccanismo di autoalimentazione che se ben condotto può portare a quel processo regolare e costante di cui parlavamo all’inizio. In questo scenario di crisi la città può svolgere un ruolo cruciale. Venuta meno (almeno in parte) la fase di piccole zone geografiche specializzate in determinati settori come erano i distretti industriali, quella che si è aperta è una fase che premia i luoghi che portano in sé l’elemento della varietà e la città è certamente uno di questi luoghi. Varietà che agisce sia a livello produttivo, ma anche culturale, di competenze, di soggetti: è su questo terreno che la città diventa il motore dello sviluppo. È lo scambio di esperienza e di saperi il nutrimento dell’innovazione. Le città toscane soffrono se restano rinchiuse nella loro dimensione piccola e media, ma assumono un potenziale di grande valore se entrano nella prospettiva di una rete regionale. Purché le città non siano in competizione tra loro, ma attivino meccanismi di interazione e complementarietà nei diversi settori produttivi. Solo per citare rapidamente alcuni tratti rapidissimi vediamo che se Siena è connotata


da ricerca, biotech e settore bancario, Livorno porta con sé la logistica, Grosseto l’agricoltura, Pisa la sanità. La città è il luogo della varietà, dell’accoglienza, della relazione. Sulla stessa linea sembra peraltro la Regione Toscana che in questi giorni, con il contributo di grandi gruppi industriali, ha finanziato quattordici progetti industriali selezionati. Interessante è il meccanismo del bando del cofinanziamento: prevedeva che i progetti fossero presentati da grandi in settori innovativi con il parterniariato di medie e piccole aziende, università e centri di ricerca. Perché un altro limite strutturale della Toscana che porta dei limiti all’innovazione e ricerca è la dimensione delle imprese. Una regione composta essenzialmente da piccole imprese rende molto difficoltoso un meccanismo e un investimento da parte di queste aziende in ricerca. Quello che dovrebbe essere incentivato è una spinta verso la composizione di imprese medie e grandi che favorirebbe un investimento nell’innovazione. Producendo un indotto di alta qualità che andrebbe a beneficio anche delle piccole imprese. L’esperienza raccontata da Sergio Bertini della Sma è quella di una grande azienda fortemente legata al mondo delle università, non solo toscane, ma di tutto il mondo, con una forte vocazione alla ricerca. Questo impianto ha prodotto un effetto a catena che ha coinvolto anche le piccole aziende che lavoravano per la Sma. Tra l’altro in Toscana, come riportato da Casini Benvenuti, dal punto di vista della relazione tra università toscane e imprese i passi da fare sono ancora tanti. Le università devono essere meno teoriche, le imprese più aperte e i meccanismi della burocrazia più rapidi e snelli per incentivare la possibilità di queste relazioni. In questo senso una buona pratica la riscontriamo nella Siena Biotech che seleziona tecnologie, competenze, persone e progetti idonei per una applicazione industriale. La Siena Biotech ha 130 ricercatori, di cui il 15% è italiano – per sottolineare come l’elemento della varietà, anche delle persone e delle provenienze, sia essenziale per la ricchezza di una azienda. Tutto questo agisce in un meccanismo di integrazione tra grandi aziende e piccole società di ricerca che ha messo in moto un circuito di scambio di know how e tecnologia di grande efficacia. Una ricerca che viene industrializzata. In Toscana si sta comunque delineando un profilo che ha a che vedere con la produzione-consumo di bellezza e benessere, coinvolgendo settori che vanno dalla moda, al turismo, dai gioielli alla nautica di lusso all’enogastronomia. Tutti i settori della godibilità della vita di alto livello possono essere un grande punto di forza della città

Toscana. Un caso simbolo di impresa toscana è diventato il settore degli Yacht di lusso nella zona del viareggino, settore che dal 2000 è in costante crescita. I megayacht sono un esempio perfetto su come si mescolano tecniche produttive che assumono i caratteri tecnologici delle produzioni industriali, l’alta tecnologia che si accompagna a competenze artigiane di altissimo livello richieste ai subfornitori, già esistenti nel sistema produttivo locale, che curano l’allestimento con forti capacità di design e di progetto. Un mix di alta tecnologia, forte radicamento territoriale e strategia di internazionalizzazione che ha una ricaduta positiva sull’intero sistema delle imprese dalla media grande azienda alle piccole imprese artigiane. Quella sin qui delineata è una concezione di città come crocevia di conoscenze, maestranze, infrastrutture, in cui la politica coordina le risorse nella rete di Smart Cities. Capitale economico e capitale sociale interagiscono, all’interno di un disegno di governo, determinando quei beni collettivi materiali e immateriali indispensabili per la competitività di un territorio. I legami tra centri costituiscono il sistema rete della città-regione toscana, una piattaforma economica che si ancora al Nord Italia e all’Europa, intercetta e potenzia i flussi di informazioni, di infrastrutture, di conoscenze, di prodotti. Una dimensione global dell’economia in cui la politica industriale nazionale, inesistente in questi ultimi anni, stabilisce le linee guida dello sviluppo. Il ruolo che avevano i distretti industriali viene ricoperto in forme inedite dalla città in cui uno spazio pubblico e non privato ospita interessi ed opportunità differenti. Di questi tempi imputare alla politica tutte le responsabilità della crisi che stiamo attraversando, sposare il discorso anticasta, antipolitica, qualunquista, è una moda funesta. È ingannevole e non serve ad indicare una soluzione. Perché omette di capire le trasformazioni che si sono determinate nel rapporto tra capitale e democrazia, tra la potenza della prima che sovrasta il potere della seconda. La politica è quindi rimasta, e rimane, una dimensione necessaria per il miglioramento sociale, ed è necessario che torni ad occupare la funzione di regolazione della società. La Smart City, in Europa, rappresenta un modello in discontinuità con quello vigente in quest’ultimo quarto di secolo. Le Città Intelligenti si configurano come spazio pubblico in cui i benefici derivanti dall’innovazione e dalla competitività sono assicurati da un capitalismo organizzato in cui la prospettiva verso cui tendere viene decisa e indicata dalla politica. E in cui lo scettro viene restituito al sovrano: i cittadini.

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L’ospitalità come risorsa di GIANDOMENICO AMENDOLA*

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ospitalità è ovviamente una qualità necessaria – addirittura professionale – per una città che è tradizionalmente turistica ed è anzi considerata da almeno tre secoli, in quanto città d’arte, la meta turistica per eccellenza. Insieme a Roma e Venezia, Firenze è una delle tappe principali del Gran Tour che dal ‘700 in poi ha portato in giro per l’ Europa artisti ed intellettuali ed i giovani aristocratici, soprattutto tedeschi ed inglesi, in quello che veniva considerato il necessario viaggio di formazione – il Bildungreise – della futura classe dirigente. Di questo Gran Tour Firenze è stata ed è, per ciò che può significare oggi un viaggio di formazione, momento fondamentale. Grazie anche ai racconti ed alle immagini lasciati da questi viaggiatori, Firenze è diventata rapidamente, come scrive Mary Mc Carthy, una città mito. E’ stata, grazie anche a questa consolidata immagine, tappa obbligata per generazioni di letterati, scienziati, musicisti, scienziati prima ancora che il turismo di massa si abbattesse su di lei come un dorato e lucroso tsunami. Si può tranquillamente affermare che quasi tutta la cultura europea e nord americana dell’800 e della prima metà del ‘900 sia passata per Firenze. Fare tutti i nomi è impossibile: Goethe, Stendhal, James, Mendelsohn, Mark Twain, Tchaikowsky, Shelley, Hawthorne sono solo alcuni di quanti hanno visitato Firenze ed hanno deciso di soggiornarci il tempo necessario per tentare di assorbirne lo spirito. Firenze ha lasciato una traccia nelle loro opere ed alcuni di loro hanno a loro volta lasciato il segno nella città. Degli illustri visitatori alcuni hanno lasciato a Firenze tracce rilevanti e tangibili come la Villa Tatti di Bernard Berenson o la Villa San Donato dei Demidoff – entrambe ricche di straordinarie collezioni di dipinti e di libri –; di altri resta una lapide al Cimitero degli Inglesi come per la Browning o a quello del Galluzzo come per Bocklin. Dei più la traccia fisica è solo una targa di marmo sulla casa dove vissero. Tutti hanno però contribuito a forgiare la cultura e l’identità di una città particolare come Firenze che unisce il clima umano e la vita quotidiana della media città italiana di provincia ad un’atmosfera ed una cultura cosmopolite. Questa continua esposizione alle presenza di visitatori stranieri – alcuni, tra i più numerosi,

* Giandomenico Amendola. Sociologo urbano.

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come gli inglesi ironicamente adottati col nome di “anglobeceri” – ha fatto di Firenze una città fondata – malgrado molti luoghi comuni – sull’ospitalità e sulla permeabilità alle influenze esterne. C’è persino chi sostiene – forse con dubbia fondatezza storica – che la stessa bistecca alla fiorentina sia il risultato dell’incontro tra le vacche di razza chianina portate in Toscana, sembra, dal Granduca Leopoldo e la T- Bone steak anglo americana. Ciò è dovuto alla straordinaria capacità di questa città di apprendere e metabolizzare ciò che i suoi visitatori hanno portato. Il che è, in buona misura, dovuto anche alle modalità del viaggio allora ben diverse da quello attuale, sempre più “mordi e fuggi”, o dall’ultracondensato “See Florence in a Gulp” dei turisti che con un ironico eufemismo vengono chiamati i golden vandals. La vicenda di Firenze mostra come l’ospitalità non sia solo una virtù ma possa essere una risorsa assolutamente preziosa soprattutto oggi, in uno scenario internazionale segnato da una crescente competizione tra città. Oggi, si ha l’impressione che Firenze abbia smesso di imparare e la sua impermeabilità sia cresciuta. A questa chiusura ha certamente contribuito il problema costituito dai turisti che – visti i numeri oggi già oltre gli undici milioni all’anno – è vissuto con una crescente tensione che sfocia spesso in aperta ostilità da parte degli have nots – da quanti cioè non beneficiano direttamente o indirettamente dei benefici economici di queste presenze e devono invece accollarsene i costi esternalizzati, a partire dall’aumento dei prezzi e dalle difficoltà del bilancio pubblico della città. La tendenza di Firenze all’autoreferenzialità non è, però, una novità in quanto era già stata avvertita da Georg Simmel all’inizio del secolo quando il grande filosofo tedesco dopo avere esaltato la bellezza assoluta di Firenze – evocando per questo il Sehensucht romantico, lo struggimento del viaggiatore davanti a questa straordinaria città talmente bella da non poterla possedere – nota come questa straordinaria bellezza possa diventare un problema. Rileva, infatti, pessimisticamente Simmel nei suoi appunti di viaggio, come la consapevolezza di questa bellezza assoluta sia presente nei fiorentini i quali, di conseguenza, non riescono ad imma-


ginare per la propria città un futuro diverso. Firenze sembra inchiodata al proprio passato avvitandosi su se stessa e chiudendosi di fatto alle innovazioni ed agli stimoli provenienti dall’esterno. L’ospitalità perde, così, la sua capacità di trasferire e metabolizzare conoscenze. Eppure, c’è ancora oggi una enorme quantità di risorse di conoscenza che, attratte dalla storia e dalla qualità della città, giungono a Firenze ma qui restano, di fatto, inutilizzate. Pochi sanno che Firenze è la più grande città universitaria d’Europa in quanto ospita le sedi distaccate di circa 35 università straniere, tra cui alcune delle più prestigiose da Harvard alla Sorbona. Senza contare l’Istituto Europeo che, arroccato sulla collina di Fiesole, vive distante fisicamente e culturalmente dalla città, un po’ come il sanatorio della Montagna Incantata di Thomas Mann. Queste presenze, ricche di potenzialità e di saperi, scivolano sulla corazza impermeabile della città che sembra accorgersi delle università straniere solo quando i giovani studenti americani schiamazzano qualche volta più del necessario anche per la maggiore facilità di rifornirsi di alcol in Italia. La cultura di una città e la sua forza creativa – indispensabile in un momento in cui l’innovazione è la chiave dello sviluppo – derivano in larga misura dall’intensa e costante interazione tra i portatori di saperi e conoscenze diversi. Le città che sono riuscite a superare la crisi determinata dalla deindustrializzazione hanno operato per attrarre, concentrare e radicare competenze offrendo loro un environment urbano ricco di stimoli culturali e di alta qualità della vita. L’ospitalità potrebbe tornare ad essere una straordinaria risorsa se solo Firenze imboccasse la strada – oggi molto battuta – della città creativa che si fonda appunto sulla capacità di una città di imparare e di mettere a valore le competenze ed i saperi di quanti la abitano, anche temporaneamente. A produrre innovazioni in grado di alimentare lo sviluppo della città non bastano grandi università, laboratori di ricerca o imprese high-tech, è necessario secondo Richard Florida – nuovo guru del management urbano –una classe creativa ed un clima culturale in cui si saldino intelligenze individuali, tecnologia ed un clima culturale aperto e per-

missivo. Anche la forma fisica e l’organizzazione sociale della città sono stati colpiti dalla rincorsa all’innovazione. Questa, infatti, - ovunque abbia luogo: in fabbrica, in uffici o in atelier – ha bisogno per radicarsi e produrre i propri effetti di un environment favorevole. Architetture, stili di vita, culture, comportamenti non possono che essere, almeno in tendenza, coerenti rispetto a questo esigenza se si vuole che l’innovazione si radichi e produca effetti processivi. L’idea della città creativa, benché abbastanza confusa, sta riscuotendo un grande successo anche perché le cosiddette politiche culturali urbane su cui si basa sono relativamente poco costose, attuabili in breve tempo e godono di una grande visibilità. Florida e la sua “ Nuova classe creativa” sono diventati una sorta di bibbia per un’intera generazione di amministratori-manager che ad essi si ispirano. Le tre T - talenti, tecnologia e tolleranza - che sono alla base di questa “città creativa “ sembrano essere a portata di mano o, quantomeno, non difficilmente realizzabili grazie alla combinazione largamente sperimentata di politiche culturali e di incentivazione della ricerca. Esse, inoltre, hanno il vantaggio di essere per molti aspetti sinergiche rispetto alle strategie ed alle azioni tendenti a rendere bella e stimolante la città in modo che possa attrarre e trattenere i talenti necessari ad alimentare i processi di creatività ed innovazione. Probabilmente, il concetto di creatività applicato alla città va rivisto e riformulato senza lasciarsi ingannare da facili correlazioni tra numero di laureati, eventi culturali e PIL. Una vera città creativa è quella che, come sostiene la statunitense Sharon Zukin, “ha imparato ad usare il suo capitale culturale per attrarre sia imprese innovative che membri della mobile classe creativa”. L’ospitalità, in questa prospettiva, si ripropone come fattore strategico di attrazione, accumulo e valorizzazione di conoscenze e competenze. La dimensione creativa, perse le virtù proprie della bacchetta magica e del passpartout strategico ritorna, valorizzata, come aspetto di quella riflessività che oggi deve contraddistinguere la città contemporanea impegnata a scegliere ed a costruire il proprio futuro. Le città che hanno un futuro – secondo un principio di larga circolazione in Europa - sono solo quelle che lo hanno già scelto.

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Per una logistica creativa: appunti per un’ipotesi di lavoro di Paolo Sorrentino* raccolti da Massimo Morisi

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uello che presentiamo è un insieme di appunti attorno a un’idea ancora di massima, ma suscettibile di una prima articolazione strategica. In altre parole, ci sono tutte le premesse per una politica pubblica che investa in modo innovativo il tema della logistica come grande opzione territoriale e intersettoriale per lo sviluppo toscano. L’antefatto Da tempo ci andiamo chiedendo se è pensabile un tipo di offerta territoriale legata ad una logistica non tradizionale. La logistica tradizionale è una branca del trasporto e della gestione della mobilità delle merci, delle informazioni oltre che delle persone che non fa della Toscana un’area particolarmente forte ad oggi, anche se potrebbe crescere e divenire, se opportunamente infrastrutturata, più competitiva. Una dimensione concettuale che anziché rimpiangere il presunto “declassamento” rispetto ai poli forti della manifattura nel mondo, prende sul serio una nuova vocazione - lato sensu - distributiva. Si potrebbe dire, neoterziaria: ...ricca di una “terza dimensione” rispetto al binomio produrreÞdistribuire: quella della distribuzione industriosa. Che, con un qualche tono evocativo, potremmo dire una logistica creativa. In Europa riceviamo e muoviamo un’enormità di merci di tutti i tipi che arrivano nell’Unione essenzialmente da Oriente. Dove con la parola Oriente noi intendiamo Cina, India, Vietnam, cioè tutti quei paesi che ormai, a fronte di un’offerta imbattibile soprattutto in manodopera, si stanno accaparrando la manifattura di tutte quelle che sono le attività intrinsecamente standardizzate, seriali. L’Oriente è disposto a produrre tutto purché in quantità “globalmente” importanti. C’è una soglia d’ingresso ine-

ludibile. Ad esempio nel caso delle schede elettroniche si parla di qualche decina di migliaia di pezzi come commessa minima. In un parola, o si tratta di quantità molto rilevanti oppure non sei per un sistema come quello cinese un interlocutore. La forza della Cina sta infatti nei grandi numeri entro standard produttivi omogenei: ecco lì sono imbattibili. Dai bulloni alle parti ad alta manodopera, come l’oggettistica da regalo: grandi quantità e standard univoci, sono la regola. Gli stessi grandi marchi del consumo di massa ne ricavano la possibilità di una pluralità di tipologie nell’offerta, cioè di allargare costantemente platee e target di riferimento dei prodotti consumer della nostra vita quotidiana. Per altro, se è vero che nessun processo storico è definitivamente unilineare, è anche vero che prima che la Cina veda incrementi di costi di produzione che la rendano meno appetibile per i produttori di mezzo mondo, occorreranno ancora decenni. E’ su questo dato di fatto che si innesta il mio ragionamento. il consolidarsi di una opportunità strategica. Lo sintetizzerei come segue: 1. la prima questione. è che tutta questa enorme produzione di merci deve poter arrivare da noi. Una volta arrivate sul territorio europeo, questi prodotti sono soggetti a norme di ingresso e transito. Parlo di tutto ciò che attiene alle normazioni doganali che consentono a quegli oggetti di essere legalmente importati sul territorio dell’Unione. Allora, perché non essere opportunisti, visto che comunque nell’Unione arrivano prodotti da tutti quelli che sono i punti di accesso possibili - porti, aeroporti oppure via gomma? Perché non trasformare questa posizione “ricettiva” in una nuova opportunità imprenditoriale? Che è come

* Paolo Sorrentino è Presidente di GiIlbarco S.p.A., leader mondiale nella automazione elettronica di reti di distribuzione carburante. Azienda, dunque, che opera in costante interazione tra sviluppo scientifico, evoluzione tecnologica e problematiche energetiche. La Gilbarco ha per clienti i maggiori gruppi petroliferi del mondo e opera in 120 paesi - da Firenze - non computando quelli in cui l’azienda è presente a partire da altre sedi operative.

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Progetto per il Parco della Piana

che non necessariamente si trovino a Livorno ma dislocabili in qualsiasi parte della Toscana – siano sottoposte a una tracciatura informatica che dal momento dell’attracco consenta un controllo costante del processo logistico e minimizzi, di conseguenza, i tempi di raggiungimento della destinazione finale. Un processo che include al suo interno la fornitura di tutti gli adempimenti burocratici per il passaggio in dogana e l’importazione legale fino alla consegna a destino. Un elemento, quest’ultimo, di grande rilievo perché, se il trasporto via nave è lento in sé, questa lentezza fisiologica può essere incrementata artificialmente in ragione dei tempi di trattamento delle pratiche doganali che possono addirittura richiedere più tempo di quello necessario al trasporto fisico. Fenomeno ricorrente per una pluralità di cause e concause, a volte molto banali a volte molto tecniche e tecnico-giuridiche. In ogni caso fortemente dannose nel loro reciproco scoordinamento. Diventa essenziale un’adeguata e integrata assistenza tecnico-legale che sia in linea con gli ordinamenti locali vigenti, per cui solo chi opera a quel livello locale, può intervenire con la necessaria efficacia per prevenire i danni da complicazione burocratica. Tutte problematiche, insomma, che una Corporation non potrà mai trattare secondo uno standard unitario, che è quello che predilige. Sarà invece necessario avvalersi di competenze locali - giustelematicamente evolute - cui la stessa azienda potrà ricorrere sistematicamente purché le trovi disponibili alle porte d’ingresso dei mercati in cui vuol movi-

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dire, perché ritenersi soltanto ricettori passivi? 2. La seconda questione, necessaria per rispondere all’interrogativo che ho appena posto, concerne il fatto che in questa colossale transizione di merci dai luoghi della nuova produzione ai luoghi della distribuzione, operano logiche tipiche delle grandi “corporation” ma che possono ritenersi generalizzate. La corporation, infatti, soprattutto se si tratta di aziende che si avvalgono di una pluralità di componenti, dunque della totalità dei processi produttivi odierni che hanno sempre un qualche formato reticolare e plurinodale – usa con crescente intensità i trasporti via nave, perché il mare permette di trasportare quantità indefinite di containers. E’ cioè in assoluto il sistema più economico di trasporto proprio per la mole di merci che permette di movimentare con le economie di scala che ne derivano. Normalmente, anzi, le imprese di queste dimensioni impongono di giustificare le eccezioni al trasporto via nave. 3. Allora l’idea è: abbiamo il porto di Livorno che è un porto potenzialmente competitivo a livello continentale, quindi in grado di ospitare anche navi di dimensioni elevate, favorendo questa economicità del trasporto. Sta qui l’opportunità per la quale, possiamo compensare quello che è lo svantaggio, l’unico svantaggio del trasporto via nave che è la lentezza rispetto al trasporto via gomma e via aerea. Una compensazione che consiste nel fatto che le merci arrivano al porto di Livorno e da lì - mediante strutture gestionali altamente informatizzate, quindi strutture

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mentare le merci che ha importato. Nel caso toscano un porto come quello di Livorno dovrebbe mettersi in grado di offrire tutta quella pluralità di servizi che rendono certa, prevedibile e sicura la sua funzione di grande porta europea rispetto alle fonti orientali di prodotti, materie e semilavorati. In ogni caso, un porto siffatto e la rete logistica di cui può essere a capo, implica un abbattimento significativo di costi di transazione che rende il territorio che quel porto e quella rete ospita specificamente appetibile per chi muove merci a mezzo di navi, cioè avvalendosi del sistema trasportistico più conveniente, oggi e nel medio lungo termine. Se ad esempio faccio due conti in casa mia, posso dire che un’azienda multinazionale come quella che dirigo potrebbe ricavare da un sistema di trasporto incentrato su una porta livornese integrata e coordinata nelle funzioni logistiche che la potrebbero contraddistinguere, come quelle cui mi riferisco, un abbattimento di costi trasportistici di almeno il 30%, con tutto quel che ne consegue in termini di efficienza, produttività, reddittività. 4. Se queste condizioni di attrattività venissero attivate, Livorno potrebbe convogliare su di sé e dunque qualificare la Toscana come piattaforma logistica internazionale proprio mediante servizi integrati e flessibili che potrebbero intercettare una parte cospicua del flusso di merci che oggi si distribuisce lungo una grande pluralità di accessi al mercato europeo. Va infatti rimarcato come non si tratta di creare un nuovo mercato, ma di far confluire su una nuova offerta di servizi territorializzati una messe di merci che comunque per altre strade ci arriva in casa. E stiamo parlando di un mercato, appunto solidamente esistente, che ammonta a non meno di 100 miliardi di euro. 5. Il vantaggio socio-economico di una simile ipotesi è chiaramente far confluire una gamma plurale di opportunità di lavoro e di nuove competenze sulla Toscana perché oggi qualcuno lo fa, lo fanno in tanti, in forma spezzettata, in forma non armonica, invece lo si può fare in una forma correlata in modo tale che a quel punto possa prendere corpo il cervello integrato di una vera piattaforma logistica: …che sa che c’è della merce in arrivo, quindi la traccia. Al momento in cui arriva la nave c’è una predisposizione di tutta la struttura, magari con attività preliminari già espletate in dogana così che quando arriva la nave tutto diventa molto veloce, dalla nave le merci vengono trasferite o via gomma o via aerea, questo dipende semplicemente dall’urgenza che ha il cliente: per esempio in 24 ore può essere via aerea per il Nord Europa, può essere via gomma per il Sud Europa e così via. Ci può essere

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anche un’offerta flessibile perché potremmo avere una spedizione urgente in cui ci interessano tempi molto stretti e …quindi la via aerea; e l’ordinario che se ne va via gomma o sennò addirittura via treno. Anzi, se realmente Livorno volesse diventare la testa di una piattaforma anche ambientalmente evoluta, dovrebbe valorizzare con grande determinazione l’opportunità del nodo fiorentino dell’alta capacità, che potrebbe, per la piattaforma logistica toscana, rappresentare una infrastruttura essenziale. Va anzi rimarcato che proprio in chiave “livornese” e in ciò che di sistemico Livorno costituisce, l’investimento nell’alta capacità “fiorentina” rappresenta una opportunità irrinunciabile. Una seconda chiave strategica per la piattaforma logistica toscana Come il mondo della piccola e media impresa potrebbe entrare a far parte di un simile disegno? E’ vero che il cliente primario, anzi condizionante, di una simile ipotesi è e resta la Corporation. Tuttavia c’è anche dell’altro, e assai importante. Infatti, oltre alle Corporations che trasferiscono in Europa i frutti di processi produttivi decentrati e debbono poi movimentarli, qualunque piattaforma logistica deve anche servire i costruttori di componenti di ulteriori processi produttivi che hanno luogo a casa nostra. Cioè, da un lato è la Corporation che muove la sua merce, da un altro sono in gioco gli attori delle produzioni a rete nelle quali le diverse componenti di un prodotto sono la risultante di più processi dislocati nel mondo. Facciamo appunto un esempio a me vicino quello dei costruttori di componenti elettronici. Una stessa resistenza elettrica può avere migliaia di diverse applicazioni: nel telefonino, nel televisore, nel computer. Chi produce resistenze elettriche ha migliaia di potenziali clienti. Cioè di produttori di ulteriori semilavorati o di beni finali, sparsi in una pluralità di paesi che richiedono che nei luoghi di smistamento, appunto le piattaforme logistiche, trovino un servizio attivo e puntuale di “hub”: cioè magazzini intelligenti, in grado di servire all’occorrenza e in tempo reale perché telematicamente assistito, anche una enorme pluralità di domande di acquisti di minore volume o addirittura di dettaglio. Se ad esempio sono un piccolo produttore di caldaie di nicchia, ho bisogno di un modesto numero di resistenze assai specifiche, la piattaforma logistica mi dice dove e a quale prezzo le posso acquistare e a partire da quando le posso ottenere fisicamente. Anche se, quel produttore di quelle resistenze le ha realizzate soltanto in grandi quantità e dunque, senza quel servizio di hub, sarebbe per me stato un fornitore inaccessibile. Così grande produzione e pro-


duzione micro trovano in quell’hub il nodo di connessione. Ovviamente, perché il tutto funzioni, occorre che l’intelligenza del magazzino logistico sia effettivamente tale e dunque strutturata allo scopo. Di qui la necessità di professionalità adeguate e infrastrutturazioni specifiche conseguenti. Avere l’hub permette alla piccola azienda di poter acquistare il componente di cui ha bisogno solo quando esso è necessario al processo produttivo interno, senza dover immobilizzare risorse per accantonamenti di magazzino e conseguenti oneri di credito. E’ un vantaggio enorme e quindi permette di lavorare anche ad aziende non strutturate, riduce la necessità di indebitamento che certe aziende possono avere. E’ una tecnica estremamente nuova ma che sta prendendo piede in giro per il mondo e proprio attorno alle piattaforme logistiche più competitive. Dal punto di vista della Toscana una piattaforma logistica con queste capacità, unite a quelle legate alla clientela corporate, permetterebbe di fare business con due modalità: da una parte, servire il grande produttore di componenti, che sarebbe guidato, cioè informato sistematicamente e dunque orientato rispetto alle dinamiche di ogni mercato settoriale, od opera dell’attività informativa della piattaforma, determinando con ciò la remunerazione dei servizi che essa offre; dall’altra, svolgere una funzione di distribuzione mirata a favore degli utilizzatori minori dei componenti in questione, favorendo cioè la loro capacità di ingerirsi in un mercato dimensionalmente per essi precluso e garantendo la piena e meccanica soddisfazione delle esigenze più minute e duttili insite nella loro domanda.

La condizione di fattibilità. Ma perché proprio la Toscana e Livorno come leva essenziale, possono cogliere una simile opportunità? Perché un investimento del genere dovrebbe avere successo? Perché disponiamo dei pilastri essenziali per incamminarci su una simile strada. Un porto virtualmente molto competitivo a livello globale, due aeroporti, Firenze e Pisa ben integrabili nelle differenze delle offerte che li caratterizzano, una rete ferroviaria che con il sottoattraversamento di Firenze, può armare la piattaforma logistica verso l’alta capacità, una struttura stradale che tutto sommato, per quanto migliorabile, potrebbe reggere l’urto. La cosa importante è che, anche nelle condizioni materialmente attuali, questa ipotesi di piattaforma logistica evoluta, io direi “creativa” rispetto agli standards correnti del dibattito italiano in materia, potrebbe decollare. Poi è chiaro che il completamento di una serie di opere infrastrutturali su cui la Regione sta lavorando non può altro che renderla più efficace. Quello che si dice in gergo “kick-off ” può avvenire oggi. Oggi abbiamo tutti i contenuti necessari, quello che manca è chiaramente il riuscire a mettere insieme questa piattaforma logistica da un punto di vista politico-istituzionale. Cioè un progetto di fattibilità che faccia pregiudizialmente i conti con quel pluralismo istituzionale e di volontà politiche dalla cui intelligente coesione dipende la qualità del policy making toscano e la capacità di affrontare l’innovazione di cui ha estremo bisogno il nostro territorio.

Mostra di Moore al Forte Belvedere, 1972

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Nuovi paesaggi urbani di Giuseppe De Luca*

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a principale sfida che Firenze deve sostenere nei prossimi anni, al fine di ridefinire la sua posizione internazionale, è quella indirizzata a «riorganizzare l’intero comparto turistico e culturale, connesso ad una rivitalizzazione delle tradizioni manifatturiere locali». È questa la lapidaria indicazione del cambiamento necessario segnalato in un recente rapporto comparativo su venti città europee, scelte tra quelle considerate interessanti ed innovative per politiche urbane di successo1. L’indicazione è anche figlia dei risultati di Florens 2010, la Settimana Internazionale dei Beni culturali e ambientali, tenutosi nella seconda settimana di novembre di quell’anno, e degli eventi che ne sono derivati2. La lapidaria indicazione ci invita a ragionare sulla città dei prossimi anni, in un momento in cui non solo gli studi sulle città italiane sono stati da più parti rilanciati3, quanto perché dopo un periodo altalenante di discussioni e indecisioni – richiamate nell’editoriale e in questo numero della rivista – una nuova stagione sembra prendere piede, per effetto di un nuovo protagonismo municipale, che ha accantonato definitivamente alcune politiche pubbliche che avevano trovato più recente ospitalità nell’associazione Firenze Futura. Politiche che portarono alla redazione di un Piano strategico fiorentino4 che, pur fondando la sua impostazione su «una visione per il futuro» dell’area metropolitana (seppur ristretta ai comuni della prima cintura, quindi al solo il cuore di un’area molto più estesa), indicava quattro “assi” strategici che racchiudevano veri e propri progetti di trasformazione di parti significative del tessuto urbano e di quello infrastrutturale. Progetti per la maggior parte “concentrati” sul territorio comunale di Firenze o a questo riferiti in termini di benefici collaterali. Nuovo protagonismo municipale che, pur tuttavia, ha finito per concentrare ancora di più l’attenzione delle

politiche pubbliche nell’ambito urbano della città di Firenze5, privilegiando di questa soprattutto la parte storica, che ha «una dimensione molto piccola rispetto alla fama che possiede»6. Protagonismo fissato nel medio periodo nel nuovo Piano strutturale comunale che affida «la trasformazione della città esclusivamente al riuso dei contenitori dismessi», e ad una riprogettazione di parti significative urbane con un preciso obiettivo: «creare le condizioni al contorno perché le trasformazioni possano avvenire in maniera corretta, [e] fortemente integrate nel contesto di riferimento»7. Impostazione corretta e condivisibile. Ma l’approccio è parziale, perché tenta di misurarsi solo con uno dei tre principi guida sul futuro delle città nell’economia globalizzata: l’accessibilità; mentre lascia molto sullo sfondo gli altri due, che sono molto più rilevanti e strategici: la partnership e il policentrismo. Temi recentemente dibattuti nella IX Biennale delle città e degli urbanisti europei, tenuta a Genova lo scorso mese di settembre8, e che qui vogliamo riprendere. Accessibilità Il principio dell’accessibilità non allude tanto alla dotazione infrastrutturale o ai soli servizi puntuali o alle sole grandi funzioni presenti in una città – che certo sono rilevanti e fondamentali nello strutturare uno spazio economico e uno spazio di vita – quanto a considerare una città come infrastruttura di per sé, come bene pubblico per eccellenza. In quanto tale più efficiente è l’accessibilità, tanto più competitiva è la città. Da qui l’attivismo a sfruttare eventi, occasioni, o definire progetti urbani, anche piccoli ma tra loro coerenti e interconnessi, tali da generare domande d’opere – che il sistema politico locale tende ad interpretare come un’occasione per accelerare

* Giuseppe De Luca. Urbanista. 1 ACT Consultans, Good Policies and Practices to tackle Urban Challenges, (S. Fayman, K. Keresztély, P. Meyer, K. Walsh, J. Pascal, F. Borja, L. Horelli, H. Kukkonnen, eds., Paris, July 2011, p. 40. Il rapporto è scaricabile dal sito http://ec.europa.eu/regional_policy/conferences/citiesoftomorrow/index_en.cfm 2 Cfr. http://www.florens2010.com/ 3 Per tutti rimandiamo a Consiglio italiano per le scienze sociali, Società e territori da ricomporre. Libro bianco sul governo delle città italiane, Roma, aprile 2011: http://www.consiglioscienzesociali.org/pubblicazioni/51/societ-e-territori-da-ricomporre/ 4 Il piano è scaricabile a questo indirizzo http://www.firenzebusiness.it/Informazioni/Files/178/firenze2010.pdf 5 http://news.comune.fi.it/100luoghi/?page_id=286 6 Come sarcasticamente rileva G. Biodillo, Metropoli per principianti, Guanda, Parma 2008, pp. 114. 7 Cfr. http://pianostrutturale.comune.fi.it/ 8 Cfr. http://www.biennaleurbanistica.eu/

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Partnership Questo principio richiama certo il problema irrisolto – e prima accennato – delle aree metropolitane o quello delle conurbazioni urbane che caratterizzano oramai diversi territori, tra cui quello fiorentino. È evidente che la costituzione di strutture di governo metropolitano ad elezione diretta faciliterebbe la predisposizione e il monitoraggio di politiche e di progetti urbani che superino i tradizionali ambiti dei confini comunali. Ma ciò intanto non esiste e vie nuove da percorrere sono indispensabili. Come è altrettanto evidente cha all’interno del territorio metropolitano o della stessa conurbazione urbana lo spazio non è uguale: ma che diversi “punti” in esso presenti giocano ruoli differenti nel contesto locale e in quello globale, a seconda della rete (finanziaria, culturale, conoscitiva, commerciale, produttiva) in cui si collocano e competono. Per dirla con le parole del Libro bianco: la conseguenza di ciò «è che il governo della città da principale regolatore e gestore delle risorse locali tende a trasformarsi in mediatore tra gli interessi locali e quelli degli attori sovra locali, detentori delle risorse da cui dipende lo sviluppo locale. Perciò le città stanno perdendo gran parte di quella autonomia funzionale che era il presupposto delle vecchie istituzioni comunali. In più, essendo la città reale un aggregato di più comuni – privi, come s’è detto, di un coordinamento metropolitano – questa sua frammentazione indebolisce i governi locali nei rapporti con i poteri forti esterni: dal grande capitale immobiliare ai gestori delle reti infrastrutturali e delle utilities (autostrade, ferrovie, porti, aeroporti, telecomunicazioni, energia, acquedotti, raccolta rifiuti, …) a cui essi cedono di fatto funzioni e competenze»10. Abbandonare la visione localistica, che storicamente ci caratterizza, per acquisirne una di tutt’altra scala, e agire di conseguenza, è la vera innovazione. Oggi un Sindaco non è più solo sindaco dell’istituzione in cui è stato eletto. Certo ne rende conto ai cittadini, ma le sue indicazioni devono per forza andare all’interno di altri ambiti territoriali e al tempo stesso deve accettare che altri ambiti territoriali entrino nei propri. Occorre porsi in un rap-

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lo sviluppo urbano – ma che nella realtà tendono a rispondere alla richiesta di adeguare la città ai nuovi requisiti dell’economia globale, a specializzarne parti di essa, oppure a riposizionarla in maniera innovativa nello scacchiere della competitività. Due sono i settori prioritariamente interessati a queste politiche innovative: il settore terzario-direzionale, e quello latamente riconducibile all’industria culturale; mentre gli ambiti spaziali di riferimento tendono ad essere quelli centrali che li ospitano. E sono proprio questi settori e questi ambiti che il Piano strutturale comunale tende a considerare prioritari. Eppure a Firenze esistono anche altri settori “marcatori” dell’economia ed esiste un ampio ambito urbano di “periferia” che li racchiude e li ospita. Forse è proprio qui che si nasconde una parte cospicua delle risorse9, che certo non è legata al turismo o all’industria culturale, ma a quella manifatturiera e dei servizi alla residenza e alla persona. Tuttavia connettere tutta una serie di “infrastrutture”, da quelle più marcatamente tradizionali (come quelle di trasporto: strade, ferrovie, tramvie, ecc.); a quelle più specificatamente sociali (case, scuole, servizi, ma anche imprese e strutture produttive); a quelle più innovative per contenuto tecnologico (da quelle della comunicazione a quelle del nuovo tempo libero), senza porsi la questione territoriale è il punto debole. Anzi l’assenza di questo punto avrà effetti negativi sulla stessa accessibilità. La città contemporanea, come noto, tende a non avere più confini. Da anni è in corso a livello globale un processo di metropolizzazione che rende i limiti amministrativi del tutto deboli, se non alcune volte largamente inutili. E questa perdita dei confini non può essere ignorata, né sottovalutata, ma deve essere affrontata in assenza di soluzioni istituzionali radicali che, ancorché sempre richiamate, sono tutt’altro che vicine. E poi, qualora lo fossero, bisognerebbe comunque fare i conti con la legislazione vigente che, nel campo della strategia urbanistica – che sta alla base di qualsiasi decisione pubblica di governo della città – deve rispondere a due elementi fondamentali, il costo e il tempo. Proprio per questo il secondo principio con cui misurasi è quello della partnership.

Cfr. Confindustria Toscana, Il sistema economico di Firenze, Giugno 2011. I dati sono scaricabili sul sito: http://www.confindustria.toscana.it/notizia/sistema-economico-firenze Consiglio italiano per le scienze sociali, Società e territori... cit., pp. 10-11.

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porto assolutamente di dialogo anche con il comune più prossimo, in un’ottica distributiva di benefici e di criticità pensata all’interno di una prospettiva comune. Partnership significa proprio questo. Certo chiunque abbia un po’ di esperienza sulla formazione di piani e di programmi d’azione in una prospettiva partenariale sa che c’è un salto logico e politico importante da compiere, sia nella rete di attori che presiede all’elaborazione della strategia comune, che in quella che presiede alla formulazione delle iniziative. Molti tentativi fatti nel recente passato si sono arenati proprio su questi scogli. Ma una rinnovata maturità nella dimensione del coordinamento inter-istituzionale e della transcalarità delle azioni è più di una sfida, è una necessità organizzativa imposta dalla sopravvivenza. Specialmente in un territorio relativamente piccolo come quello fiorentino e in una città di medie dimensioni, come Firenze, con un corollario di comuni che raccolgono circa la metà della popolazione residente11. Siamo in presenza quindi di un sistema policentrico di piccole dimensioni, se lo proiettiamo in un contesto comparativo internazionale. Proprio per questo il terzo principio con cui misurasi è quello del policentrismo. Policentrismo Per usare termini europei, Firenze è una città gateway, una porta globale. In quanto tale potrebbe essere motore economico non solo per la realtà fiorentina, ma di gran parte della Toscana, e certamente di molte aree della stessa Italia. È una città che non appartiene solo alla Toscana e forse nemmeno all’Italia: è patrimonio mondiale. Tuttavia è una città molto piccola se proiettata nello spazio europeo. Anche se alcune macrofunzioni devono essere definite a questa scala. Ma questa consapevolezza sembra non esserci, né nella gestione amministrativa della città, né al contorno. La consapevolezza non può essere raggiunta nemmeno con la nascita di un unico organo amministrativo centrale. Anzi, questo potrebbe essere nel breve, come nel medio periodo, un vero e proprio ostacolo. Come la città è fatta di parti, anche il territorio in via di metropolizzazione è una somma di parti. Rafforzare queste parti è la migliore strada per la coesione sociale,

economica e, appunto, territoriale. Chiunque legga l’area fiorentina dall’alto, o la stessa valle dell’Arno, o il passaggio dal Mugello alla Piana, non può non notare un sistema urbano areale fatto sia di “resistenze” storiche, chiaramente individuabili nella loro forma, certo anche con significative espansioni, e filamenti urbani, più o meno spessi, che definiscono “catene di abitati”. Tuttavia le storiche centralità, i storici luoghi di definizione e riconoscimento delle comunità permangono e, appunto, “resistono”. Basta sfogliare un timetable dei collegamenti interurbani vigenti per scoprirlo: i capolinea dei collegamenti su gomma extraurbani sono ancore le storiche piazze e i tradizionali punti di arrivo/partenza di sempre (cioè dagli anni Venti in poi del Novecento). Vorrà pur dir qualcosa questo? Forse che le trasformazioni fisiche e funzionali che hanno interessato l’economia e la società dell’area fiorentina e della sua città centrale, come delle città più piccole ad essa corollario, nonostante tutto, e che hanno mantenuto le storiche centralità e le identificazioni con gli spazi originari sono una risorsa da mantenere, piuttosto che un problema da superare? La competitività territoriale, così come quella urbana, si gioca su scale e specializzazioni multiple e tra loro complementari. Solo le grandi agglomerazioni possono disporre di mix competitivi a livello globale. Molte città possiedono specializzazioni settoriali che garantiscono il posizionamento su mercati che sono comunque europei e internazionali. Firenze città, se si esclude il comparto del turismo d’arte, e dell’industria culturale a questo connesso, non ha la forza, né la “massa critica” sufficiente per competere su mercati sovra locali. Deve perciò ritrovare una dimensione territoriale più ampia e più coesa per sostenere politiche di sviluppo innovative. Questo può essere raggiunto solo riscoprendo il valore incrementale del policentrismo. Ma solo ad una condizione: che il forte municipalismo, innescato dal “ricco tessuto” dell’armatura urbana presente nella Piana fiorentina (e più in generale nell’area della Toscana centrale), stemperi la preminenza degli interessi e dei valori espressi dalle comunità locali, per favorire i vincoli di adesione culturale e di appartenenza ad un’area più ampia e strategica rispetto ai propri confini amministrativi.

L’area metropolitana disegnata dalla Regione Toscana a fine anni Ottanta, quella che arrivava fino a Pistoia, e che interessava solo la Piana al di sotto dei 100 metri slm, si estendeva per circa 434 Kmq, con quasi di 1,5 milioni di abitanti; quella più ristretta coincidente con la piana fiorentina che di quegli abitanti ne comprende poco più di 610.000; mentre Firenze si ferma a 360.000 abitanti circa.

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di STEFANO STANGHELLINI*

Le risorse territoriali tra obiettivi di pianificazione e rischi di mercato Risorse da salvaguardare perché beni comuni Da qualche tempo l’attenzione della cultura urbanistica ed ambientalista, e quindi anche dell’attività di pianificazione, si rivolge con insistenza al consumo di suolo. Il suolo utilizzabile per usi plurimi connessi ad attività primarie ed a servizi ricreativi, e nello stesso tempo utile per assicurare agli insediamenti un’elevata qualità ecologica, è un “bene pubblico” o “comune” al pari di altre categorie di beni, quali ad esempio i beni culturali, il paesaggio, le acque e tanti altri ancora. Per la conformazione del territorio nazionale e per gli sviluppi insediativi che vi sono stati realizzati, in Italia il suolo non ancora urbanizzato è risorsa scarsa. Il consumo di questa risorsa, inteso come impiego per usi insediativi ed infrastrutturali e quindi come sua definitiva perdita per gli usi extraurbani, riguarda soprattutto le zone pianeggianti periurbane, ove sono molteplici e forti gli interessi economici che premono a tal fine sulle Amministrazioni comunali. Ragionando in termini di uso efficiente delle risorse territoriali, è evidente che non ha senso consumare ulteriori quantità di suolo extraurbano, allargando così i bordi del territorio urbanizzato, quando contemporaneamente, all’interno della città, si formano bolle di degrado che si dilatano mano a mano che la città si espande. Eppure l’espansione degli insediamenti e il contestuale consumo, o comunque l’impegno per usi urbani, dei cosiddetti greenfields, prosegue. Ogni revisione degli strumenti urbanistici, sia che avvenga tramite un Piano regolatore di tipo tradizionale, sia che venga operata attraverso un Piano comunale di nuova concezione - che distingue le componenti strutturali da quelle operative - apre a nuove urba* Stefano Stanghellini. Urbanista. Segretario INU

nizzazioni: le proprietà e i loro consulenti premono sulle Autorità locali che, deboli, cedono alle pressioni. Solo i Piani comunali più rigorosi riescono a limitare il sacrificio dei greenfields in termini quantitativi e qualitativi, cioè circoscrivendolo ai terreni interclusi o contigui al territorio urbanizzato. Insieme con l’espansione si forma la rendita urbana, assoluta e differenziale. Durante il lungo processo di pianificazione, che dall’elaborazione del documento preliminare passa attraverso vari passaggi tecnici e politico-amministrativi fino a concludersi nella stipula della convenzione del piano attuativo, la rendita avanza e si attesta su valori crescenti man mano che si consolida la conformazione edificatoria dei suoli. Il contestuale conflitto fra chi opera a favore della creazione e dell’appropriazione privata della rendita e chi, sul fronte opposto, cerca di contenerla

socializzandone almeno una quota (attraverso la perequazione e la compensazione urbanistica, il concorso delle proposte private, il contributo di sostenibilità, ecc.) è durissimo, e l’esperienza dimostra che comunque, alla sua conclusione, la prima posizione non è mai perdente. Risorse da mobilitare perché generatrici di opportunità - Mentre le città si espandono, alcune loro aree interne perdono di funzionalità, diventano obsolete, manifestano varie forme di degrado. Le aree degradate, dismesse o sottoutilizzate, grazie alla loro dimensione ed alla posizione che occupano nel sistema urbano, sono unanimemente considerate importanti risorse per il futuro delle città: attraverso la loro riqualificazione e riconversione è possibile innestare nel tessuto urbano funzioni di rilevanza strategica, promotrici di sviluppo economico e sociale, attrattrici di investimenti, capaci di accrescere la competitività della città. Che nelle politiche urbane si debba dare priorità alla rigenerazione rispetto all’espansione è un fatto assodato, tanto nel dibattito culturale, quanto in quello politico. Tuttavia la rigenerazione urbana è ostacolata da complesse situazioni proprietarie e societarie, da lunghe e contrastate procedure urbanistiche, da dispositivi autorizzativi plurimi con pronunciamenti delle autorità responsabili che non sono sem-

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Considerazioni su PD, urbanistica e rendita urbana

Il nuovo Palagiustizia a Novoli


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pre univoci, dagli elevati costi delle bonifiche e delle demolizioni, e comunque da maggiori difficoltà nell’organizzazione dei lavori che si riflettono in maggiori costi rispetto all’edificazione in zone di espansione. La rigenerazione urbana, in molti casi, è considerata un “fallimento del mercato”, nel senso che il mercato, con le proprie forze, non è in grado di realizzarla. E’ quindi necessario che ci sia un intervento pubblico che crei condizioni favorevoli all’investimento privato. L’esperienza dei programmi innovativi in ambito urbano di iniziativa ministeriale - dai programmi di riqualificazione urbana ai programmi di quartiere fino ai Pic Urban - sottintendeva proprio questa consapevolezza. Ma queste sperimentazioni si sono pressoché esaurite, così come i flussi finanziari che avevano veicolato nelle nostre città. Nell’assenza di incentivi finanziari e fiscali statali, la creazione di condizioni economiche favorevoli all’iniziativa privata è affidata alla valorizzazione fondiaria, ossia al cambio delle destinazioni d’uso e all’incremento delle superfici utili. Ai maggiori ricavi che il progetto così concepito può conseguire

Progetto per il Parco degli Scambi alla Fortezza da Basso (P. Giustiniani, V. Maschietto)

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è affidato il compito di coprire tutti i costi, fra cui anche quelli finanziari connessi ad iniziative ad alto rischio e con prolungato impiego del capitale. La trasformazione urbana attuata mediante progetti così concepiti dà luogo a volumetrie e funzioni molto impattanti su un sistema urbano che, in genere, è già carente di infrastrutture e servizi. La trasformazione urbana richiede quindi un robusto adeguamento delle infrastrutture e delle attrezzature, ossia della componente pubblica della città. Poiché tale adeguamento è molto costoso e le Amministrazioni non sono in grado di coprirne i costi, agli operatori privati viene richiesto di farsene carico. La disponibilità degli operatori è subordinata all’accettazione, da parte dell’Amministrazione, che i maggiori costi siano compensati da ulteriori quantità edificatorie o dalla previsione di nuove pregiate funzioni, ossia da ulteriori valorizzazioni fondiarie. Il finanziamento della trasformazione urbana avviene dunque attraverso le valorizzazioni fondiarie, e quindi attraverso la generazione di rendita urbana. Gli interrogativi - Questa prima parte del ragiona-

mento conduce alla seguente considerazione. Le città italiane sono interessate da un duplice contestuale fenomeno. Per un verso si espandono, consumando in modo irreversibile una risorsa scarsa, sotto la spinta dei processi di formazione ed appropriazione privata della rendita urbana. Nello stesso tempo le politiche di riqualificazione, in assenza di adeguate incentivazioni finanziarie e fiscali, sono anch’esse alimentate dalla rendita urbana. La duplice dinamica pone parecchi interrogativi. Un primo interrogativo attiene in modo specifico alla riqualificazione urbana. La riqualificazione delle nostre città, e quindi anche il rinnovo ed il potenziamento delle infrastrutture e delle attrezzature, può essere affidata principalmente, o addirittura esclusivamente, ai meccanismi di formazione e di appropriazione della rendita urbana? E’ evidente che un’impostazione del genere pone innanzitutto un problema di equità territoriale, poiché i livelli che la rendita può raggiungere, e quindi le capacità di finanziamento di opere pubbliche che può esprimere, sono molto differenziati in Italia fra nord e sud, fra città grandi e città medio-piccole, fra aree economicamente forti ed aree


Gli strumenti regolativi per un uso efficiente ed efficace delle risorse Gli interrogativi appena posti, in gran parte retorici,

scaturiscono da osservazioni empiriche sulle dinamiche economiche che oggi accompagnano la formazione degli strumenti urbanistici. All’analisi ed alle preoccupazioni devono tuttavia seguire delle proposte in merito alle misure che potrebbero essere assunte per affrontare le problematiche esposte. Le misure di seguito proposte ricadono nell’ambito degli strumenti di tipo regolativo che lo Stato, intendendo con ciò l’insieme delle Amministrazioni pubbliche, potrebbe utilizzare. La pianificazione cooperativa - Gli operatori del settore immobiliare ravvisano nel frammentario e conflittuale sistema delle decisionalità pubbliche il nodo cruciale da sciogliere per sostenere le strategie di riqualificazione urbana rendendo l’investimento privato più attraente rispetto all’espansione. La molteplicità di competenze decisionali pubbliche che si addensano sui complessi immobiliari da trasformare, la separatezza dei processi decisionali nel settore pubblico, la lunghezza delle procedure, la discrezionalità di talune autorità e l’esercizio di tale potere anche durante la fase di esecuzione dei lavori, determinano maggiori costi in termini di spese tecniche aggiuntive, superiori oneri finanziari, costi addizionali per particolari tipi di opere richieste. Questa situazione genera anche costi indiretti in termini di incertezza e quindi di maggior rischio, poiché qualsiasi investimento privato in condizioni di “incertezza del diritto” richiede un saggio di redditività molto elevato. Nelle deludenti operazioni di valorizzazione e dismissione dei beni immobili pubblici si possono ritrovare molte rappresentazioni della criticità descritta. Così, quando un nuovo strumento urbanistico mette in gioco sia la possibilità di realizzare nuovi insediamenti che quella di riqualificare aree degradate, i greenfields godono di un enorme vantaggio competitivo rispetto ai brownfields, il quale si traduce in una sorta di “rendita differenziale da ordinamento” per i loro proprietari. In altri termini, una quota della rendita che si forma nei greenfields è ascrivibile alla restrizione dell’offerta connessa ai maggiori tempi, costi e rischi della riqualificazione urbana. Dunque una prima importante risorsa da mobilitare per la “città nella crisi ed oltre la crisi” riguarda la concreta possibilità di abbattere una considerevole quota dei costi della trasformazione urbana, incidendo in modo strutturale sulle inefficienze e sugli

sprechi che si verificano nei processi decisionali interni al sistema della Pubblica Amministrazione. Un piano comunale di nuova concezione ed i “crediti edilizi verdi” - La pianificazione di nuova concezione, con l’affermazione della cosiddetta “sostenibilità forte” nella pianificazione di tipo “strutturale” attuabile attraverso l’imposizione di vincoli e di limitazioni all’uso dei suoli, fornisce un punto di partenza essenziale per le strategie tese a contenere il consumo di suolo ed a privilegiare la riqualificazione urbana. La componente strutturale del piano comunale, attraverso l’identificazione dei valori ambientali e paesaggistici non negoziabili, la formulazione di previsioni urbanistiche prive di effetti conformativi sull’edificabilità dei suoli, la definizione di un dimensionamento contenuto in termini assoluti, la possibilità di attribuire una quota significativa di tale dimensionamento all’incentivazione delle politiche di riqualificazione urbana, crea i presupposti perché la componente operativa ne concretizzi gli obiettivi strategici realizzando la cosiddetta “sostenibilità debole”. La componente operativa del piano comunale consente infatti che le strategie basate sulle inibizioni e sulle limitazioni normative siano integrate da incentivi e disincentivi di natura economica, e quindi possano raggiungere livelli superiori di efficacia. Una proposta operativa, al riguardo, prende spunto dai “certificati verdi”, forma di incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili praticata da qualche tempo in molti paesi (alcuni Stati negli Usa, Regno Unito, Svezia, Paesi Bassi) e da qualche anno anche nel nostro. Si tratta di certificati che corrispondono ad una certa quantità di emissioni di CO2: se un impianto produce energia elettrica utilizzando fonti rinnovabili e quindi emettendo meno CO2 di quanto avrebbe fatto un impianto alimentato con fonti fossili, il gestore ottiene dei “certificati verdi” che può rivendere a industrie o attività che sono obbligate a produrre una quota di energia mediante fonti rinnovabili ma non lo fanno autonomamente. Il risultato è la creazione di un mercato di “certificati verdi” che porta ad incentivare processi di produzione dell’energia in grado di ridurre i gas-serra evitando un intervento diretto dello Stato. La stessa impostazione potrebbe essere adottata per i processi di riqualificazione urbana, da

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deboli. Se questa dovesse confermarsi come la principale o addirittura l’unica modalità di finanziamento della città pubblica, ne risulterebbero accentuati gli squilibri economico-territoriali del paese, con gravi effetti negativi anche sul piano sociale. Gli effetti sociali di questa modalità di produzione delle infrastrutture e delle attrezzature potrebbero essere infatti tali da non assicurare, sul medio e lungo periodo, il livello minimo dei servizi che l’attuazione della riforma federalista dello Stato deve comunque assicurare. Alla “perequazione urbanistica” andrebbe dunque riconosciuta anche una dimensione nazionale, oltre a quella comunale. Altri interrogativi riguardano l’effettiva capacità della rendita di alimentare contestualmente l’espansione e la riqualificazione urbana. Un processo di sviluppo basato per un verso sul progressivo consumo di suolo e per l’altro sull’incremento dei carichi urbanistici, e quindi sull’utilizzo spinto della leva della rendita, è sostenibile per un paese quale è l’Italia? Quando l’offerta è rigida, come di solito avviene nel caso delle aree edificabili o suscettibili di trasformazione, il prezzo dipende dalla domanda. Ma la domanda nelle “città al tempo della crisi”o quella che fra qualche anno si formerà nella “città oltre la crisi”, sarà rispondente alle aspettative di valorizzazione che nel frattempo si saranno formate nelle menti e nei programmi dei proprietari fondiari e dei promotori immobiliari? E di conseguenza, quali saranno le future dinamiche di trasformazione urbana per quanto riguarda l’espansione per un verso, con il connesso consumo di suolo, e la riqualificazione per l’altro? E’ realistico il rischio che il blocco dei valori fondiari sulle aspettative dei soggetti detentori delle aree da edificare o da riqualificare, si ripercuota negativamente sui tempi di attuazione dei piani e progetti pensati per le nostre città, e più in generale sul soddisfacimento delle esigenze delle comunità locali? Non c’è il pericolo, infine, che la domanda ancora una volta si incanali preferenzialmente verso le costruzioni realizzabili con più rapidità e minor costo nelle aree di espansione?

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promuovere in opposizione alle espansioni consumatrici di greenfields. In questo caso, essa potrebbe configurarsi nel modo seguente: se i proprietari di aree dismesse o degradate riqualificano le loro aree con progetti rispettosi del carico urbanistico ed ambientale sostenibile, ottengono dal Comune dei “crediti edilizi verdi” che possono rivendere ai proprietari di terreni di futura urbanizzazione. Perché ciò avvenga occorre che la componente operativa del piano comunale assegni ai suoli da urbanizzare un indice di edificabilità territoriale minimo ed uno massimo: l’indice minimo è quello che viene riconosciuto al suolo per effetto della perequazione urbanistica, e quello massimo è quello progettuale da raggiungere quale condizione vincolante per la realizzazione della trasformazione urbanistica. I “crediti edilizi verdi”, previsti dal Comune nell’ambito del dimensionamento del piano strutturale, sono riconosciuti dal piano operativo quale incentivo alle proprietà delle aree degradate che attuano progetti di riqualificazione. Pertanto concorrono a finanziare la “città pubblica” senza che sia necessario incrementare le quantità edificatorie, e quindi compensare i relativi costi con la creazione di rendita urbana. Attraverso l’attribuzione o la commercializzazione dei “certificati edilizi verdi” la riqualificazione delle aree urbane dismesse o degradate si legherebbe all’espansione urbana, diventandone condizione vincolante. A questa proposta reca un importante supporto la decisione del Consiglio di Stato sul Prg di Roma (cfr. decisione n. 4545 /2010), che afferma la “potestà amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti”, sostenendo, in merito agli indici di fabbricabilità, “l’ampia discrezionalità che connota le scelte in materia di governo del territorio”. Ne consegue che ai suoli di nuova urbanizzazione potrebbe essere attribuito, attraverso la perequazione urbanistica, un indice di edificabilità molto basso, aprendo quindi all’acquisto di “crediti edilizi verdi”.

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La fiscalità locale - Il sistema contributivo oggi vigente per la trasformazione urbana è sempre quello concepito alla fine degli anni ’70, quando le problematiche urbanistiche erano molto diverse. All’epoca la pianificazione e gestione dei nuovi insediamenti restava al centro dell’attenzione del legislatore, che solo allora cominciava ad impostare le politiche di recupero del patrimonio edilizio. I mutamenti demografici e sociali, le evoluzioni tecnologiche, il principio della sostenibilità, richiedono oggi infrastrutture ed attrezzature in parte diverse da quelle di allora, e quindi differenti anche nei costi da sostenere per la loro realizzazione. Il finanziamento della “città nella crisi ed oltre la crisi” necessita quindi di essere alimentato meglio grazie ad una moderna revisione del sistema contributivo per la costruzione della “città pubblica”. Quanto alla fiscalità locale, in ambito urbanistico si lamenta spesso come il sistema della fiscalità immobiliare sia definito dal legislatore privilegiando il criterio del gettito monetario e sottovalutando gli effetti indotti sulla trasformazione urbana. La critica è fondata, anche se non mancano le eccezioni, come ad esempio le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico. L’imposta comunale sugli immobili (Ici) è uno strumento le cui potenzialità per le politiche urbane non sono state ancora sfruttate appieno. Essa evolverà nell’imposta municipale (Imu) con aliquota minima del 7,6 per mille e massima del 10,6 per mille, superiore rispetto all’aliquota media Ici del 6,4 per mille. Qualora l’aliquota più elevata andasse a colpire le aree in attesa di essere edificate - in analogia a ciò che la legge oggi prevede per le case mantenute sfitte - e la base imponibile dell’imposta approssimasse il valore di mercato delle aree, un proprietario fondiario non potrebbe mantenere un’area edificabile inutilizzata per un periodo di tempo troppo prolungato. Quindi, per effetto congiunto della pressione fiscale e del libero funzionamento del mercato, il cosiddetto “residuo”, ossia le previsioni urbanistiche della precedente pianificazione non ancora attuate, si ridurrebbe spontaneamente: ai proprietari di aree edificabili non resterebbe

che intraprendere la trasformazione urbanistica o, nell’impossibilità, di chiedere al Comune la loro riclassificazione come aree agricole. In occasione della formazione degli strumenti urbanistici di nuova concezione e in particolare della componente operativa del piano comunale, poi, solo le proprietà davvero intenzionate ad intraprendere l’intervento sarebbero interessate all’inclusione delle loro aree entro le previsioni attuative quinquennali. Ridimensionata la quantità di aree edificabili e quindi il volume della rendita assoluta, si potrebbe rendere la riqualificazione più attraente per gli investimenti privati con la “pianificazione cooperativa” e con l’istituzione dei “crediti edilizi verdi”. Oppure, qualora la proposta di istituire dei “crediti edilizi verdi” fosse giudicata troppo innovativa per la gestione urbanistica e si ritenesse preferibile ricorrere ad una misura più tradizionale, allora lo strumento del “contributo di sostenibilità”, già praticato da molti Comuni per recuperare alla collettività una quota delle valorizzazioni fondiarie private generate dai piani e programmi urbanistici, consentirebbe il raggiungimento di un analogo risultato. La conversione dei greenfields ad usi urbani potrebbe essere gravata da una significativa contribuzione, da intendersi quale compensazione per la perpetua rinuncia, da parte della collettività, ad un bene ambientale operata a scapito della generazione presente e di quelle future. Gli introiti potrebbero essere destinati a rigenerare i tessuti urbani degradati, soprattutto per quanto riguarda gli interventi di interesse generale (infrastrutture, attrezzature) o collettivo (disinquinamenti). In questo modo si incrementerebbero i costi privati di trasformazione delle aree di espansione urbana, attenuandone l’attuale squilibrio economico rispetto alla riqualificazione, e si eviterebbe di sovraccaricare gli interventi privati di riqualificazione con i costi di ingenti opere pubbliche, e quindi senza che l’Amministrazione debba riconoscere quantità edificatorie aggiuntive per compensarli.


LONTANO di MAURIZIO IZZO*

Il primato della meccanica sull’elettronica. Una pubblicità di una marca di stampante mostra due giovani extraterrestri che sbarcati su un pianeta terra, abbandonato e distrutto, vanno alla scoperta degli oggetti che furono della vita quotidiana. Osservano con stupore un lettore dvd senza capire cosa sia e a cosa serva e ammirano invece entusiasti una semplice stampa fotografica che ritrae un allegra famiglia. Il messaggio è che non sempre ciò che è più tecnologico è destinato a durare e che a volte ciò che è più semplice e immediato ha più possibilità di resistere all’usura del tempo. Pensavo a questo episodio mentre giravo per le polverose strade dell’India a bordo di una Am-

bassador, la Rolls Royce indiana, prodotta per la prima volta 50 anni fa e che da allora continua infaticabile a solcare le polverose e sconnesse strade indiane ondeggiando con leggiadria sui potenti ammortizzatori tra una buca e l´altra. Attorno giravano come impazziti veicoli a motore di ogni genere, vecchie Vespe, una specie di motocarro tipo Ape, motorini giapponesi talmente essenziali da dubitare della loro capacità di muoversi. Eppure non solo il tutto si muove ma si ferma anche raramente e quando proprio si ferma si ripara facilmente. E così da anni gli indiani girano le strade del loro paese, si arrampicano sulle montagne, trasportano case, cose e persone. Che differenze con le nostre auto ipertecnologiche tanto preziose quanto fragili. Se avete sulla vostra il dispositivo ESP (quello che corregge la frenata) o il più sofisticato ABS (quello che interviene in caso di instabilità del terreno) vi sarete accorti di quanto delicati possano essere questi strumenti e quante sorprese possano dare. Se poi l’elettronica fa i capricci allora proverete anche la sensazione di essere completamente impotenti di fronte a tanta presunta perfezione. Le macchine tecnologiche sono fatte per essere affidate solo ai possessori del sapere tecnologico, difficile da tramandare, spiegare, imitare. Nessuno si sognerebbe mai di riparare da solo un congegno elettronico, piuttosto ci si ferma e si aspetta aiuto. Ma questo non ci rende più fragili? * Maurizio Izzo. Giornalista.

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