Scelte pubbliche numero 5

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EDITORIALE di GIANNI CUPERLO

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Editoriale di Gianni Cuperlo

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La crescita del paese e dei suoi territori di Andrea Peruzy

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Un balzo nel moderno per un’agenda riformista di una nuova Italia di Riccardo Conti

Esiste la terza Italia?

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Commento di Riccardo Varaldo

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Commento di Alberto Bramanti

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Commento di Alessio Gramolati

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Commento di Andrea Barducci

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Commento di Mauro Grassi

Immagini della toscana

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Calenzano: “una città di periferia” di Vanessa Boretti

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Flussi di materia, riciclo, green economy, green industry di Valerio Caramassi

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La fine dei centri commerciali di Maurizio Izzo

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L’economia delle città di Marta Lenori

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Recensione del libro “Falce e tortello” di Anna Tonelli di Andrea Vignozzi

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Post keynesiani di Marco Marcucci

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Regioni, macro-regioni e strategia della crescita di Nicola Bellini

I profili sistematici e le esperienze nella definizione concorsuale delle scelte di piano di Silvia Viviani

Mettiamola così: la crisi esplosa nel 2008 sta modificando il nostro destino e quello dell’Europa. Può piacere o meno, ma bisogna farci i conti, pena non capire nulla delle complicazioni piovuteci addosso negli ultimi trenta mesi. Le ragioni sono quelle note. Di fronte al collasso della finanza speculativa, Stati e governi hanno ripreso per i capelli banche più morte che vive. Per riuscirci hanno speso una follia, ma non c’era altro da fare. Per i primi due anni le cose sono andate benino, salvo che la crisi – una volta al riparo le banche – si è rivalsa sul salvatore. Avete presente le cronache su parenti o bagnini che si tuffano per recuperare uno sott’acqua e quando lo portano a riva sono talmente sfiniti che le onde li risucchiano e fine? Ecco, per i debiti sovrani è avvenuto lo stesso. La politica ha salvato un sistema che collassava e quello, appena in piedi, si è ripreso il ben di dio che aveva perduto. Noialtri da tre anni siamo alle prese con questo pasticcio. Noi e non solo noi. Con la differenza rispetto agli anni Trenta di non potersela sbrigare da soli, e anche questa non è raffinatezza d’accademia. Per capirci, nel ‘29 furono i governi a decidere i modi della ripresa mentre la cooperazione tra Stati restò quasi muta al punto che in quel po’ po’ di crisi si tenne un unico, fallimentare, summit tra nazioni. Ciascuno se la spicciò come credeva, anche se dappertutto prevalse un protezionismo gagliardo. Gli inglesi puntarono sulle esportazioni, noi e i francesi portammo lo Stato nel capitale delle imprese. Quasi un secolo dopo, altra scena, altro film. Prima di tutto per la coscienza di dover pedalare assieme. Nessuna fuga solitaria, ma una filiera di vertici sempre più estesi. Insomma si è scelto un altro passo, convinti che una regolazione diversa della finanza fosse un gran premio della montagna da scalare in gruppo. Diverso il discorso sul welfare o su come rilanciare il lavoro. Lì l’ansia da prestazione ha mantenuto una zona libera da pressioni. Basta guardare i documenti dei vertici europei o mondiali per scoprire che lo spazio degli stimoli alla crescita non copre metà delle pagine consacrate all’emergenza finanziaria, il che si motiva con l’assenza di confini dei movimenti di capitale e con l’urgenza di soluzioni condivise ma, insieme, praticabili. Sul fronte della crescita le connessioni sono meno vincolanti, soprattutto si tratta di settori dove ogni leader è convinto di giocarsi le elezioni. Prendiamo Obama (dio lo protegga!). Un mese dopo il suo insediamento ha strappato 879 miliardi di dollari per il sostegno allo sviluppo, e tanti saluti al deficit. Con quel denaro ha fatto un mucchio di cose. Ha stimolato l’economia e rianimato aziende decotte. Nel 2009 con 50 miliardi di dollari ha acquisito il controllo della General Motors, prima società mondiale dell’auto. Di lì a settimane si è preso una signora quota della terza casa automobilistica, quella Chrysler che noi spergiuriamo miracolata dal genio incompreso di Marchionne. Un anno dopo i due brand hanno ripreso a macinare utili e la Casa Bianca ha ceduto le quote di entrambi, con un buon beneficio per i conti pubblici. Roba da applausi. Chissà perché da noi, la stessa misura finisce rubricata tra le stramberie. Ora, noi non siamo l’America e comunque non siamo stati a guardare. Parlo dell’Europa che a due mesi dagli scatoloni di Wall Street aveva licenziato il suo Piano di ripresa economica. Meno possente, ma comunque un segno di vita. Parliamo di 200 miliardi di euro (30 a carico dell’Unione, 170 degli Stati). Da lì in avanti ognuno ha rassettato casa. I tedeschi con aiuti robusti alle imprese. La Francia con un fondo di investimento per le medie industrie e a tutela di società di interesse strategico. Noi siamo seguiti come l’intendenza, attrezzandoci di un fondo per l’ingresso in “società di rilevante interesse nazionale”: dote iniziale, 1 miliardo di euro cresciuti poi a 4. Curioso che lo scopo fosse proteggere l’italianissima Parmalat dalle grinfie della francese Lactalis, a proposito di protezionismi di segue a pag. 2

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EDITORIALE segue da pag. 1

ritorno. Dovendo stringere, queste e altre iniezioni hanno mitigato l’urto della crisi senza però invertire la recessione, che poi è per tutti la sola inaggirabile malattia del tempo. A quel punto i governi si sono impegnati a non demordere dagli stimoli alla crescita fintanto che la crescita non si fosse raggiunta. Il problema è nei tempi, tutt’altro che rapidi. Con la stessa verve, infatti, le cancellerie devono presidiare il fortino della spesa secondo il credo rigorista. L’una cosa non è data senza la sorella. Vuoi la crescita? Magnifico, ma ti prendi il rigore. Se preferite, stiamo assistendo al più fisico dei braccio di ferro, che in generale non è una pratica cerebrale, tra la spinta all’economia per rilanciare la domanda e il guinzaglio di bilanci sotto tutela. Con un dettaglio. Che non parliamo più di scelta o di un principio, per quanto assennato. Ora è semplicemente legge. Valore normato. Accordo sottoscritto, vidimato. Costituzionalizzato. Punto. Bene, non è tutto, ma la sostanza è qui. E spiega essenzialmente una cosa: che questa crisi – la più grave da settant’anni eccetera eccetera – , sta agendo sull’integrazione e sugli assetti nazionali come un innesco sotto traccia. Nel senso di produrre tanti e tali mutamenti negli ordini di potere interni, anche di rango costituzionale (leggi pareggio di bilancio in Costituzione), e tali e tanti congegni di cessione di sovranità, da configurare quella stagione costituente spesso evocata, ma sempre differita. Si può dire che dove non sono giunti gli statisti, e meno che mai i tecnici, si è spinta l’inerzia degli eventi, costringendo tutti a considerare la moneta come lo stoppino acceso per un’esplosione dopo la quale nulla sarà come prima. Che poi il paesaggio a venire risulti migliore è da valutare, senza pregiudizi e con quel tanto di critica richiesta a una classe dirigente. Anche perché quest’altra Europa non nasce sotto l’ala dei fantasmi di Adenauer o De Gasperi, non è il parto di una saggezza costituente fondata sulla sapienza giuridica e neppure dell’utopia spinelliana del confino. Spiace dirlo, ma questa architettura post-moderna è quasi una creatura casuale di “mercati” tanto impersonali quanto pervasivi nella loro potenza finanziaria politica simbolica. Non è poco. E allora, se qualcosa la crisi ha acquisito, al suo quinto compleanno, è un talento nello stravolgere la nostra indipendenza. E allora benissimo l’Europa dei valori etici, che sono preziosi perbacco, a iniziare dalla centralità nella nuova Carta della persona e dei suoi diritti. Ma intorno all’Europa e a cosa è destinata a diventare nei prossimi anni si gioca – forse in modi più drammatici che a Yalta – il destino di mezzo miliardo di persone. Soprattutto, si decide se i popoli del continente che ha animato il mondo moderno saranno artigiani di un’architettura condivisa o le sbarreranno il passo. Altre generazioni si sono rotte la testa a capire il nesso tra nazionale e ciò che non lo era, e allora come non accorgersi che se un compito pesa sulla generazione entrante è proprio ricollocare quel nesso nella storia d’Europa, dopo aver chiuso una parentesi di mezzo secolo abbondante? E come non capire che, al netto delle chiacchiere, noi ci giochiamo in questa trincea più dell’osso del collo? Invece, sembriamo chiusi nell’orizzonte di un’Europa sentimentale, quando basterebbe assumere la Germania come referente, e la Grecia come simbolo, per darsi ragione del ritardo di un’intera élite. Neppure mesi su mesi di prime pagine attorno a scudi e spread hanno colmato il gap. Insomma, se un tema andrebbe piantato al centro dell’agenda sarebbe l’ampiezza della nostra sovranità in rapporto alle strategie in ballo. Che in altri termini, vorrebbe dire, quale spazio di manovra resta alla politica e al centrosinistra se a prevalere sarà la linea Merkel – aiuti sì ma in cambio di meno autonomia degli asini – quella dei rigoristi senza rete – reggiamo l’Euro ma decidano i mercati la selezione della specie (leggasi Stati) – o una terza, che dell’unificazione monetaria vede il fallimento parziale e si appella al vecchio realismo dei sudditi di Sua Maestà. Il punto è se da sinistra, cominciando con Hollande,

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si può solo aderire a una delle opzioni o non si tratta di progettare un’altra semina. Che non equivale a pensare la rivoluzione – non sono tempi, via – , ma a studiare gradazioni intermedie e priorità diverse rispetto ai riflessi prevalsi sinora nella mentalità di Berlino, nel pragmatismo di Londra e nella burocrazia di Bruxelles. Tanto per iniziare, facendo dell’allarme sociale combinato all’integrazione politica, la bussola delle compatibilità. Anche questo vuol dire misurarsi con l’agenda Monti. E con un premier al quale dobbiamo inchinarci perché ha salvato il paese dal precipizio quando già si era lasciato la terra alle spalle, come il coyote del cartoon. Ma è difficile cavarsela giurando fedeltà alle sue ricette. Non solo perché alcune (università ricerca lavoro…) paiono fragili, ma per la responsabilità in dote alla politica – chiunque vinca – di fissare domani i confini della nostra autonomia, affrontando la strategia della futura constituency di un’Europa unita. Per questo si confonde chi, messo alle corde da una politica sbandata, si illude di rinnovarla a colpi d’immagine o catalogando decaloghi, anche sensati, sul rientro dal debito l’economia verde e una stretta agli sprechi….tutte mete benedette (chi potrebbe eccepire? A parole neanche Storace). Né si può ricondurre l’asse destra-sinistra solo alla campana dei diritti civili, dove è probabile Storace non la pensi come noi. Voglio dire che, a questo punto, non basta mettere in ordine l’abbiccì riformista (da apprendistato a ZetaTiElle). E non basta snocciolare un pacchetto alternativo al filotto rigorista. Sul punto, per altro, le ipotesi serie non mancano, e a volerle studiare, rendono bene il senso di marcia. Il nodo però – insisto – è che, se vogliamo traslocare questi e altri obiettivi dal cielo sulla terra, la condizione prima è nel riorganizzare un campo, il nostro, ormeggiando le discriminanti su cui fare leva per la ricostruzione del Paese. Quindi, conterà la concezione di democrazia, indipendenza, autonomia. E conterà il ruolo che affideremo alla persona, nella libera espressione di sé e nella tutela piena dei suoi diritti. Umani, in primo luogo, che sempre più sono la sola dimensione su cui la politica potrà rifondarsi nel nuovo secolo. Diciamo che chi avrà il mandato a frequentare il tavolo dei potenti, di Europa e della Terra, dovrà mettere in valigia questo ben di dio: il destino di una nazione, la sua identità, e poi economia, cultura, il modello sociale e la spinta del civismo, i concetti di giustizia democrazia rappresentanza. Dovrà contestare l’idea di fare dell’Europa una grande Germania trainata da un export senza limiti. La verità è che scommettere solo sulla ripresa di una domanda esterna potrebbe rivelarsi un’illusione. E allora bisogna puntare altrove, archiviando il capitalismo imperniato su finanza privata e bolle. Finanza, per altro, tutta da regolare e per riuscirci servirà una nozione moderna di pubblico in grado di rilanciare la domanda dentro il più vasto mercato globale, perché questo ancora siamo, noi europei. Infine, con la mano mancina servirà riscrivere forme e regole della civiltà del lavoro, con la destra il perimetro del prossimo modello sociale, compatibile inclusivo e democratico. Ma soprattutto servirà una politica che torni non solo a immaginare l’avvenire (che poi ci danno dei visionari), ma ad anticiparlo. E quello, poche ciance, si fa studiando, scavando. Come alcuni hanno proseguito a fare anche in anni dove tutto pareva dirottare verso approdi garantiti. Eccole, in soldoni, le responsabilità in capo alla leadership. Che poi sono anche la via privilegiata per chi voglia ricongiungere la politica con la storia e i programmi con qualche grammo di utopia. A meno di pensare per davvero che la crisi dell’Euro sia solo un parto della tecnica e non il venir meno di una visione dell’Europa e del suo avvenire. Mi fermo, ma con una sola domanda finale: è troppo chiedere ai candidati alle primarie del centrosinistra di misurarsi con questi temi? Ed è così strano pensare, come io penso, che Bersani sia la figura adatta a dare una risposta seria ai nodi posti?


La crescita del paese e dei suoi territori La città come motore di sviluppo e progresso per il paese di ANDREA PERUZY*

principale motore di sviluppo e progresso di una nazione. È questa un’idea che si concilia perfettamente con il modello di sviluppo che prevarrà nel secolo appena iniziato e a cui il sistema economico italiano dovrà necessariamente adattarsi, pena il declino e la condanna all’irrilevanza e alla marginalità. In futuro la ricchezza delle nazioni sarà sempre più fondata sul dominio sulla scienza e la tecnologia, sulla creatività, sulla capacità di generare innovazione anche, se non soprattutto, attraverso la creazione e lo sviluppo di reti di trasmissione delle conoscenze e delle competenze. Nella realtà del nostro paese questo schema generale andrebbe declinato in maniera del tutto peculiare, in ragione della presenza, accanto ad alcune grandi aree urbane, di un territorio nel complesso densamente abitato e di aree di intensa attività economica non collocabili in un unico agglomerato urbano. Questa specificità italiana non si pone però in antitesi con i presupposti del ragionamento fatto pocanzi, ma permette invece il dispiegarsi, sebbene in modo diverso, delle stesse dinamiche prima illustrate: la partecipazione di tutti i territori, non solo delle città, alla competizione per il successo economico e la tensione verso lo sviluppo e il progresso fondata sull’innovazione e sull’efficienza dei servizi. Questo scenario idilliaco e carico di promesse, nonostante la presenza di alcune eccellenze, non trova riscontro nel complesso del sistema economico-industriale del nostro paese, alle prese invece con una drammatica crisi di competitività di cui è quanto mai opportuno, al fine di delineare una possibile via d’uscita, indagare le ragioni. Se

è vero che gran parte di questa crisi è imputabile all’assenza di una riqualificazione produttiva volta ad accrescere il peso dei settori più avanzati dal punto di vista tecnologico e al mancato riorientamento della propria specializzazione verso produzioni a maggior contenuto di innovazione e a più alto valore aggiunto, non possiamo nasconderci che non tutte le ragioni della crisi di competitività del sistema-Italia sono riconducibili alla specifica dimensione delle imprese e alla qualità delle loro produzioni. Gran parte degli studi condotti in materia concordano nel sottolineare la presenza di alcune condizioni “di sistema” che ostacolano la creazione di un ambiente favorevole alla competitività delle imprese e che, sinteticamente, proviamo ad elencare: enorme carico fiscale, elevato costo dell’energia, eccessivi tempi e costi della burocrazia e della giustizia civile, gravi inefficienze nel funzionamento della Pubblica Amministrazione, carenze nelle infrastrutture, inadeguatezza del sistema dell’istruzione e della ricerca, in particolare per quanto riguarda il trasferimento e l’applicazione delle competenze e dei saperi al processo produttivo, difficoltà e onerosità dell’acceso al credito per le imprese, soprattutto per quelle medio-piccole, che sono il tessuto portante del sistema economico italiano. Su questi aspetti il confronto con le altre realtà europee è impietoso. Secondo dati della BCE relativi allo scorso mese di luglio, l’Italia è quarta, preceduta da Grecia, Portogallo e Spagna, nella classifica per il più elevato costo del credito nell’area euro: a fronte del 6,24% di interessi che pagano mediamente le aziende italiane

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Nel 2012, secondo i dati disponibili, la popolazione che risiede nelle aree urbane ha superato, a livello mondiale, il numero di coloro che vivono nelle campagne; in base alle stime delle Nazioni Unite, nel 2050 il 75% della popolazione mondiale vivrà nei centri urbani e nelle città. Si tratta di un trend che trova conferma anche per quanto riguarda lo scenario europeo. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, infatti, “L’Europa è uno dei continenti più urbanizzati del pianeta: circa il 75% della sua popolazione vive in aree urbane. (…) Entro il 2020, circa l’80% degli europei vivrà in aree urbane. In 7 paesi, tale proporzione salirà al 90% o addirittura oltre”. Le città si confermano, quindi, luoghi sempre più in grado di attrarre grandi masse di persone, in virtù del loro essere centri di intenso dinamismo economico e sociale, luoghi di sviluppo e catalizzatori di progresso, fonte di innovazione e di crescita della produttività, sfondo del mescolarsi e del reciproco arricchirsi delle diverse esperienze portate dai loro abitanti, spesso provenienti dai contesti sociali e geografici più diversi. Nell’immaginario dei più esse sono il luogo in cui dispiegare appieno le potenzialità di crescita degli individui, poiché possiedono le infrastrutture sociali necessarie a che questo processo si compia e offrono reali possibilità di scelta per il lavoro e la carriera, soprattutto a chi è più qualificato e creativo. Questo scenario idilliaco certamente stride con i gravi problemi di integrazione economica e sociale che i grandi agglomerati urbani presentano, ma non intacca il “carico di promesse” che il vivere in città porta con sé e non inficia l’idea che esse siano, nella contemporaneità, il * Andrea Peruzy. Segretario Generale della Fondazione Italianieuropei

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per un finanziamento di durata tra uno e cinque anni, le aziende tedesche pagano il 4,4%, quelle francesi il 4,14%, le finlandesi addirittura il 3,61%. Un discorso simile può essere fatto per il costo dell’energia, che ci vede ultimi in Europa per quanto riguarda il costo dell’elettricità per l’industria (0,13 euro a kilowattora a fronte di 0,11 della Germania e 0,07 della Francia) e molto indietro rispetto agli altri competitors europei per quanto riguarda il costo del gas. Secondo i dati della Banca mondiale abbiamo anche il record europeo del prelievo fiscale sugli utili delle imprese (68,5%), mentre per quanto riguarda il costo della burocrazia, esso pesa per 26,5 miliardi di euro all’anno solo sulle PMI, una “zavorra” che, secondo l’Antitrust, fa perdere 61 miliardi di euro a tutto il sistema industriale italiano. Poco incoraggiante è anche il confronto con le realtà economiche extraeuropee, che ci vede, nella classifica relativa al livello di competitività dei singoli sistemi economici nazionali stilata dal World Economic Forum posizionati al 42° posto, molto dopo Germania, Stati Uniti, Regno Unito (rispettivamente al 6°, 7° e 8° posto) e Francia (21° posto). Anche in quella sede, non si manca di sottolineare le “debolezze strutturali” che gra-

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vano sulla generale performance dell’Italia sul fronte della competitività. Certo si tratta di condizioni penalizzanti che, realisticamente, non è pensabile rimuovere dalla sera alla mattina. Ciò non implica, però, arrendersi all’impotenza. Il riordino del sistema fiscale in senso favorevole al rilancio della crescita, ad esempio, sarebbe opportuno costituisse un elemento centrale di un programma di governo progressivo e riformista. Allo stesso modo, sarebbe opportuno operare un alleggerimento degli oneri burocratici che gravano sulle imprese puntando soprattutto sulla semplificazione: una riforma a costo zero che consentirebbe di liberare risorse per la crescita. Bisogna poi immaginare un’azione volta a favorire quella che Gianfranco Viesti definisce una nuova “mobilitazione imprenditoriale”, ossia la creazione di nuove imprese innovative, in grado di competere nel sistema internazionali con produzioni collocate nella fascia alta della catena del valore grazie alla capacità di tradurre in attività di mercato le conoscenze e i talenti disponibili nelle università e nella ricerca e in un mondo giovanile ad alta qualificazione che è disponibile ma è attualmente fuori dal mercato del lavoro.

Si tratterebbe di un’azione possibile anche a fronte della scarsa disponibilità di risorse che la congiuntura attuale impone, poiché si tratterebbe di una politica industriale fatta non di intervento pubblico diretto nell’economia o di finanziamenti a pioggia, ma di semplificazioni e detassazioni, di credito mirato e agevolato, di sostegni tecnici e consulenziali, quindi di misure a costo quasi zero, o in ogni caso estremamente inferiore a quello che comporta l’unica politica “industriale” attualmente ancora in campo: la Cassa integrazione. Si creerebbe così un ambiente favorevole alla creazione di nuove imprese innovative che possono costituire un perno cruciale della ripresa. A questo proposito salutiamo con favore il cosiddetto “Decreto Crescita 2.0” approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 4 ottobre e la proposta, avanzata dal ministro Passera, di dare vita a un grande patto tra governo, imprese e sindacati per rilanciare la produttività. Un intervento governativo rapido e incisivo per la ripresa e la crescita è quanto mai opportuno; auspichiamo però che in esso non venga tralasciata quella dimensione locale indispensabile affinché quest’azione possa avere successo e possa dispiegare i suoi effetti benefici sul tutto il territorio nazionale, Mezzogiorno compreso.


Un balzo nel moderno per un’agenda riformista di una nuova Italia

Uno dei leaders della sinistra italiana che stimo di più ha sintetizzato la posizione del PD con una formula efficace: con Monti, oltre Monti. Ebbene, io penso che sia venuto il momento in cui i contenuti, sottintesi dalla formula “oltre Monti”, vengano esplicitati e divengano idee forza e punti di programma (e di azione politica!) per un’ “Agenda riformista” di una nuova Italia.“Un balzo nel moderno” scrive Alfredo Reichlin in uno dei suoi brillanti interventi (Classi dirigenti e modernità). Cioè un passaggio di fase storico-politica e non il semplice superamento – a colpi di austerità – di una congiuntura negativa. Gramsci adoperava l’espressione “crisi organica” per sintetizzare i caratteri di periodi storici di questo tipo. Pensiero e azione riformista. Allora mi chiedo, se la sfida fondamentale è un’Europa federale, cosa aspetta il PD ad acquisire un rapporto organico con il PSE di programma – dagli Eurobond alla riforma dei trattati – ma anche politico, di protagonismo in una rinnovata comunità dei progressisti europei. Intendiamoci, il rinnovato interesse per una posizione “neosocialdemocratica” che emerge nel PD ma anche in altri movimenti e partiti socialisti europei non può e non deve essere letto come una posizione nostalgica, un tentativo di riportare indietro le lancette della storia a quella che Eric Hobsbawm nel suo indimenticabile “Il secolo breve” ha definito “L’età dell’oro”. Quando Stefano Fassina scrive e parla di una contaminazione del pensiero keynesiano con Schumpeter credo segnali un’esigenza di questo tipo. Più lucidamente, Massimo D’Alema ha sottolineato l’esigenza ancora aperta di una riflessione non eurocentrica sui significati

e i destini del socialismo e quindi di un’attenzione a quei movimenti progressisti che sono emersi in maniera propria ed originale come risposta attiva ai fenomeni della globalizzazione ben lontano dalla nostra Europa. Valga per tutti l’esempio del Brasile di Lula, non a caso definito da Federico Rampini “la più grande socialdemocrazia del mondo”. Voglio dire che la contaminazione con pensieri non di matrice socialista è una delle sfide più suggestive che sta di fronte non solo a noi, ma a tutto il movimento progressista europeo; ci sono filoni di pensiero liberale contraddistinto da grandi intellettuali – penso ad Amartya Sen, per fare un nome – che possono parlarci in profondità (di questo segno ci sono pensatori e movimenti europei di indubbio interesse – basti pensare a Ralf Dahrendorf -), c’è il pensiero liberal americano che segna di sé tanta parte del Partito Democratico. Io sono stato un ammiratore di Edmondo Berseli, il cui ragionamento ruota tutto intorno ad una lettura moderna e progressiva della dottrina sociale della Chiesa. Ma si ammetterà che c’è un pensiero ed una pratica socialista a cui sarebbe sbagliato guardare come un retaggio del passato, con una lettura di essa tutta in chiave passatista come quella che forniva un personaggio la cui mediocrità ad oggi è a tutti evidente come Francesco Rutelli. Vi ricordate, alcuni mesi fa, la polemica contro la FEPS, D’Alema, Bersani, in seguito all’appuntamento di Parigi intorno ad Hollande ed altri dirigenti dei partiti socialisti europei? Senza paura del ridicolo alcuni esponenti del PD si sperticarono in appoggio ad un notabile senza popolo come poi si è dimostrato Bayrou. Con chiarezza e sincerità vorrei sottolineare

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di RICCARDO CONTI

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che sarebbe operazione discutibile ridurre questa esigenza alla formazione di una corrente “neosocialdemocratica” nel PD, perché penso che tutto il PD debba fare questo passo europeista e debba avere il coraggio di impegnarsi, con altri, in una ricerca di nuove sintesi di cultura e pratica politica. Con altri amici e compagni, in primis Leonardo Domenici, piuttosto, abbiamo intrapreso un percorso di adesione diretta, individuale e collettiva, al PSE, come stimolo al PD a vincere resistenze e titubanze. La stessa polemica sul blairismo e su un socialismo troppo incline a compromessi subalterni con il pensiero unico neoliberista, critica che può essere estesa all’insieme del socialismo europeo degli anni Novanta, trovo abbia punte troppo astiose, quasi a liberarsi di un peso e non sempre sia sorretta da un’analisi sufficientemente critica (che uomini come Bill Clinton hanno invece impostato) utile per il futuro. Con un rischio paradossale, proprio della sinistra italiana, e cioè quello di ricondurre ad una propria anche nobile autoreferenzialità una discussione sul mondo e di scaricare sui propri limiti contraddizioni frutto di un equilibrio più generale. Insomma, in questo mondo globale e finanziarizzato, “l’economia del debito”, come

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viene definita da Lorenzo Bellicini, è frutto della vittoria dei conservatori ed ha il marchio della Thatcher e di Reagan. È lì che finisce “l’età dell’oro”. È ad un’alternativa a quel modo di pensare che riduce la politica ad un’ancella della finanza, per cui come scrive Reichlin “I mercati decidono, i tecnici amministrano, i politici vanno in TV”, che noi, socialisti, progressisti, cattolici… i neoriformisti del XXI° Secolo, dobbiamo lavorare. Pensiero e azione riformista. Appare difficile, nella deriva del berlusconismo, di fronte allo scadimento evidente di personale politico che ha invaso istituzioni, non solo locali, all’emergere del rapporto malato ma dirompente della peggiore politica con la peggiore società civile, non accedere ad una decisa azione di moralizzazione della vita pubblica e di riacquisizione di valori di sobrietà della politica. Vale il ragionamento fatto prima sul blairismo: la corrosione delle istituzioni ci ha investito e ci riguarda profondamente. Non sto a citare i casi, sono evidenti e clamorosi. Tuttavia, l’orizzonte del riformismo non può esaurirsi nell’orizzonte della riduzione dei costi della politica. Penso in particolare ad un’azione strisciante ma via via più evidente di ricentralizzazione di tutto l’appara-

to istituzionale, con un attacco alle autonomie, ai corpi intermedi della società, e un tentativo di rivalutazione postuma di uno stato centrale come quello italiano, immemore di grandi filoni di pensiero e di critica, dal meridionalismo, ad un certo pensiero liberale, all’autonomismo socialista e cattolico. Una specie di tabula rasa storicamente inaccettabile ed infondata. Allora io penso che oltre che rincorrere campagne di vario tipo che oggi sciolgono le province, domani le regioni, dobbiamo trovare e proporre il bandolo della matassa in una nostra proposta autonoma, radicale, di riforma dell’apparato istituzionale. Ho letto con piacere una bella intervista di Claudio Martini, dove pacatamente si ragiona anche di riforma del titolo V della Costituzione, ma si ricorda anche che in quegli anni l’avvicinare le decisioni al territorio e ai cittadini era un’istanza diffusa e posta con forza da tanta parte di opinione e di forze economiche e sociali oggi intente a demolire qualsiasi forma di federalismo. A proposito di federalismo, ricordo ancora, non un secolo, ma un anno fa, un brillante anchorman come Enrico Mentana che alla festa delle Cascine ironizzava su di noi, tradizionalisti, rispetto alle performances della Lega. La riforma delle istituzioni non si può


XXI° Secolo: città e regioni nella prospettiva di Stati uniti di un’Europa per tanta parte culla di città e regioni. Penso che un’ Italia articolata in regioni riformate ( ricondotte alla loro funzione legislativa e di programmazione, sfrondate da impropri compiti di gestione diretta, ripensate in una logica di efficacia ed efficienza istituzionale, magari, in alcuni casi, accorpate) e in alcune centinaia di “città” sia il modello istituzionale a cui fare riferimento rispetto a nuove geografie socio-politiche, a logiche di economicità e di effettiva rappresentanza dei territori e della cittadinanza più attiva. Penso ad un’azione , certamente ardua, di riformismo istituzionale, con la progettazione di due istituzioni di tipo nuovo, le città metropolitane, che sono già in Costituzione, e le città “regionali”, da ricalcare sulle aree urbane, sulle aree distrettuali, su aree a sviluppo locale. Sotto di esse i municipi, come istanze di rappresentanza diretta dei cittadini. Inventandosi con le città metropolitane e le città “regionali” i nuovi Comuni, con Sindaci eletti direttamente, giunte autorevoli, ampie funzioni di governo e rappresentanza. È evidente che in questo schema non servirebbero più le province( che pure potrebbero concorrere non poco alla progettazione dei nuovi enti ). È al-

trettanto ovvio che andrebbero ricalibrate, con logiche di concorrenza e di adeguatezza territoriale, le funzioni e le competenze istituzionali. Innovativo dovrebbe essere anche il percorso con cui costruire questo nuovo assetto istituzionale, che io immagino come un percorso in larga parte pattizio, superando quegli aspetti di conformità formale – per cui il Comune di Roma è uguale a quello di un piccolo comune di montagna – ma non di obiettivi e di risultati che informa di sé l’apparato istituzionale italiano in una logica ancora napoleonica. Le città metropolitane dovrebbero essere frutto di un patto tra Parlamento, Regione e Comuni interessati, le città “regionali” tra Regione e Comuni interessati. Statuti della autonomie, quindi, dentro una cornice istituzionale snella, chiara, esigente, per quanto riguarda i costi standard, i riferimenti di compatibilità , la definizione degli obiettivi, il conseguimento dei risultati. Romano Prodi adoperava una bella espressione, a cui mi è capitato più volte di fare riferimento: “Fare da sé, ma non da soli”. Questa mi pare la cornice ideale e culturale in cui iscrivere una radicale riforma delle istituzioni. Pensiero e azione riformista. Con associazioni importanti come Italianieuropei e Centro

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pensare seguendo la logica del pendolo, ieri tutto alle regioni, domani tutto allo stato. E i comuni. Mi sono imbattuto in questi giorni in un interessantissimo articolo di Alberto Asor Rosa, che brillantemente conduceva un’analisi della “nazione senza popolo”, proponeva di sciogliere le regioni, ed esaltava l’istituzione comunale come quella con le maggiori radici storiche nel nostro paese. Vero. Soltanto che ricordo benissimo le polemiche di tre, quattro, cinque anni fa, non un secolo fa, sulla Toscana “felix”, dove Asor Rosa accusava noi, Regione Toscana, PD toscano in particolare, delle peggiori nefandezze perché volevamo dare troppo potere ai comuni e troppo avevamo dato loro centralità istituzionale. La logica del pendolo. Cosa intendere per riforma radicale delle istituzioni? Ho presente un bel saggio di Paolo Perulli, “Il Dio contratto”, ho presente cose interessanti che ho letto nel “libro bianco sul governo delle città italiane”, curato dal Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, ma ho presente anche tanti dibattiti tra di noi, elaborazioni “antiche” sui comprensori, sulla nuova geografia istituzionale, sullo sviluppo locale. Penso che la riforma delle istituzioni debba essere una grande occasione per proporre l’autonomismo del

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di Riforma dello Stato abbiamo iniziato un percorso di lavoro comune sul tema delle città, delle reti, delle reti di città. Questa rivista ospita da tempo dibattiti e discussioni sulla nuova geografia dell’Italia. Italia della Convergenza, Italia della Competitività, Italia della Coesione. Una ricerca che intreccia attenzione alle forme economiche e alle nuove forme di civismo e che tende a superare immagini tradizionali dell’Italia, che non corrispondono più interamente alla geografia economica e sociale di un’Italia solcata dai fenomeni della globalizzazione e da nuovi dislivelli e dualismi. Sono temi per un’agenda riformista per ricostruire l’Italia. In particolare le città, perché è clamoroso come nell’agenda di una forza politica di sinistra che contribuisce al governo della grande maggioranza delle città, nel paese delle cento città, manchi proprio il tema delle politiche urbane, di una politica nazionale delle città, dell’economia delle città. In realtà si tratta di rimodulare il nostro sguardo sull’Italia. Negli anni scorsi ebbe molto successo la letteratura sui distretti industriali, fino a ,come rileva Calafati in un suo bel libro sulle “Città della Terza Italia”, avere portato il concetto di sviluppo locale ad essere identificato con sviluppo distrettuale. Penso che oggi l’accento vada posto

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sull’economia urbana, cioè su quell’insieme di servizi, prestazioni, qualità, che solo una vita urbana di livello fornisce ad un paese, alla sua reindustrializzazione, alla sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro e, più in generale, nel mondo. Attraverso le città acquisire quello sguardo unitario che possa portarci a trattare i grandi temi della modernità non più a fette ma in maniera integrata. Fenomeni enormi hanno legato la finanziarizzazione dell’economia alla vita urbana: la “città a frattali” di cui parla Giulio Sapelli, le “città a rete” dove il rischio è quello di un’internazionalizzazione passiva (rischio ben corso dalle città italiane, basti pensare al turismo e alle città d’arte), città dominate da quel trait-d’union con la grande finanza che è stata la rendita urbana. Un nuovo autonomismo forte ha bisogno di una grande politica nazionale per le città. Ha bisogno di recuperare una grande urbanistica, e nella poliarchia urbana un ruolo autorevole di nuove istituzioni. Il gap italiano può essere ben riassunto in tema di autorevolezza delle istituzioni nella poliarchia urbana da un dato che ricavo da un bello studio di Roberto Camagni: se a Monaco di Baviera, attraverso sistemi accorti di concertazione e governance volti all’equo uso del suolo, le trasformazioni ur-

banistiche hanno portato un 30% del loro valore in investimenti nella “città pubblica”, a Milano nello stesso periodo hanno portato l’8%. “Città pubblica” sta a significare piazze, luoghi, centri… qualità. E quindi, poi, appetibilità e valore della città. Ma significa anche tassazione patrimoniale, ripartizione di oneri, rapporti avanzati tra pubblico e privato. Con un risultato paradossale avere città che si sono ingrossate ma si sono contemporaneamente sottocapitalizzate, fenomeno che ha contribuito non marginalmente alla stasi produttiva ed economica del nostro paese, fenomeno che ha contribuito non marginalmente ad una mutazione sociale ed antropologica di ceti e classi. Penso alle belle pagine sulle nuove forme di disuguaglianza urbana che ha scritto Walter Tocci, con quella bella immagine delle trasformazioni delle periferie romane da luogo dell’”altrove temporale” a luogo dell’”altrove spaziale”. Di quale riforma fiscale volta alla patrimoniale parliamo se non guardiamo alle città e all’universo urbano? Di quale efficienza di servizi? Di quale accessibilità? Di quale nuovo welfare? Insomma, i grandi temi della ricostruzione del paese. Il “balzo nel moderno” di cui parla Reichlin è tanto intrecciato ad una grande politica per le città che da anni il nostro paese non conosce.


Esiste la terza Italia? 9


Regioni, macro-regioni e strategia della crescita di Nicola Bellini* Nel gran parlare di strategie di crescita che ha caratterizzato l’estate del 2012 ciò di cui più si è sentita la mancanza è proprio la dimensione strategica. A rileggere con attenzione quanto è stato detto e proposto, vediamo infatti soprattutto tattiche, unificate dallo scopo di fare “ripartire” il motore inceppato dell’economia nazionale, e solo occasionali riflessioni su quale sia la direzione nella quale un Paese come il nostro può provare a muoversi, ovvero su quale sia la struttura produttiva economicamente, socialmente ed ecologicamente sostenibile per un nuovo, non effimero ciclo di crescita. In realtà anche la riproposizione di antichi dilemmi sulla natura e sui limiti dell’intervento pubblico in economia (che dalle riletture keynesiane si affretta sino alla disinvolta evocazione del fantasma delle partecipazioni statali) suggerisce un interventismo delle tattiche, accompagnato però ad un inconsapevole liberismo delle strategie, in una specie di rassegnazione da “piccolo Paese” rispetto al determinismo dei grandi trend dell’economia globale. Ciò è per altro in palese controtendenza rispetto a quanto sta avvenendo in tutti i grandi paesi industrializzati, dove invece anche forti limitazioni all’intervento pubblico non vengono disgiunti da un ragionamento collettivo su quali possano essere i posizionamenti competitivi praticabili e difendibili nel medio termine e da azioni mirate per realizzarli. L’assenza di dimensione strategica si vede anche nella difficoltà a porre la questione italiana in un contesto più ampio, assumendo qualche chiave di lettura utile delle trasformazioni in corso su scala globale e non limitandosi alla interpretazione finanziaria della crisi (che ha l’indubbio vantaggio di permettere il transfert dei sensi di colpa nel tempo e nello spazio), come se la malattia italiana fosse solo una questione di spread e non invece quella di un ritardo gravissimo nel riposizionamento competitivo. Specialmente la dimensione temporale è oggetto di una rimozione collettiva. È una crisi percepita come parentesi nella storia del capitalismo e non come fase di epocale transizione nella “divisione internazionale del lavoro” e tanto meno come finestra di opportunità, che però ora si avvia a chiudersi, lasciandoci a competere, non più da posizioni di superiorità tecnologica * Nicola Bellini. Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa

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e di “saper fare”, con una moltitudine di nuovi paesi, emersi e non più emergenti. In questo scenario le Regioni italiane scontano tutta la loro debolezza. Essa deriva in primo luogo da un incompiuto cammino di riforma, cui non ha giovato il tramonto della prospettiva federalista, nel bene e nel male connessa al ripiegamento della Lega. Le ragioni della finanza pubblica hanno ulteriormente contribuito al riaffermarsi di una cultura politica ed amministrativa di stampo centralista, che è fortemente radicata nel Paese e nelle sue élite. Il governo Monti la esprime pienamente nella sua componente tecnica, non quella dei fantasiosi “professori”, bensì quella – molto più concretamente fattiva - degli alti gradi della burocrazia romana. Difficile immaginare che in questa fase le Regioni siano in grado di surrogare le carenze romane con strategie regionali. E suona quasi paradossale che proprio in questi mesi da parte dell’Unione Europea venga alle Regioni un invito pressante ad elaborare delle nuove ed originali strategie di politica dell’innovazione. Si tratta di uno di quei passaggi che difficilmente emergono all’attenzione di un dibattito ampio e che tendono a rimanere nel chiuso dei circuiti di discussione tecnico-politica. Eppure è un passaggio politicamente assai rilevante. La parola d’ordine che viene da Bruxelles è quella della “smart specialisation”. Il termine ha origini e significati peculiari in alcuni lavori recenti della ricerca economica sul tema del rapporto tra sviluppo e innovazione, ma, pur nella versione elegantemente banalizzata di cui si è appropriata la politica europea, assume nondimeno il carattere della provocazione. In estrema sintesi Bruxelles sta dicendo alle Regioni d’Europa che la loro possibilità di attingere alle risorse finanziarie dei nuovi Fondi Strutturali dipende (si tratta infatti di una vera e proprio “condizionalità ex ante”) dall’esistenza di una strategia che: a) non sia una “strategia fotocopia”, tipico risultato dei meccanismi di trasferimento delle politiche e delle cosiddette “buone pratiche” per semplice imitazione, che produce un appiattimento di obiettivi e strumenti sulle priorità di moda; b) compia delle scelte di specializzazione, ossia focalizzi gli


emergere rappresentazioni identitarie di una certa consistenza. L’ipotesi di un’Italia del centro a me continua ad apparire di straordinaria debolezza. È una visione che, per i motivi in gran parte enunciati nel lavoro sopra citato, appare fondata su antiche suggestioni intellettuali e politiche più che su riscontri fattuali ed è affidata ad una progettualità troppo incerta e discontinua, anche quando pragmatica e non tentata dall’evanescenza di grandi, quanto improbabili disegni infrastrutturali. A monte della scelta di quale aggregazione, sta però la questione del perché aggregarsi. Su questo non c’è molta chiarezza. Non dobbiamo nasconderci il rischio che nuovi esercizi di “assemblaggio” territoriale transregionale possano debordare in una riflessione geopolitica troppo vaga e tendenzialmente inconcludente, se alla questione delle appartenenze e degli assemblaggi non viene dato significato concreto. È in effetti qui che la sfida della smart specialisation incrocia il tema dei grandi riassemblaggi regionali, perché scelte forti di specializzazione coraggiosa hanno più credibilità se collocati in contesti più ampi. Gli stessi documenti comunitari invitano opportunamente ad abbandonare l’attenzione esclusiva alle connessioni interne dei sistemi dell’innovazione per guardare anche fuori, posizionandosi rispetto ai grandi network globali della ricerca e della formazione avanzata ed alle catene globali del valore, vero paradigma della ristrutturazione in atto nei cicli produttivi. La massa critica e i potenziali si accumulano certo all’interno dei contesti regionali, ma anche sviluppando le relazioni di cooperazione con altri contesti regionali. In altri termini, ciò che sosteniamo è che oggi una condizione essenziale dello sviluppo dei territori è costituita non solo dai requisiti di coesione, capitale sociale, institutional thickness etc. che abbiamo ereditato dalla letteratura distrettuale, ma anche dalla disponibilità di un patrimonio quantitativamente e qualitativamente significativo di relazioni esterne. Guardare a regioni più ampie significa prefigurare spazi relazionali in cui si mobilitino risorse e si creino opportunità nuove per aumentare la massa critica e i potenziali

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investimenti su alcune molto specifiche e ben individuate potenzialità distintive della Regione. Dietro l’esercizio tecnico, la sfida politica per governi regionali indeboliti, come quelli italiani, appare poderosa. Secondo la Commissione, la selezione dovrebbe avere sulla base di processi fondati su analisi fattuali (“evidence-based”) che coinvolgano attivamente gli stakeholder. Dal dialogo dovrebbero emergere le aree con maggior massa critica o potenziale, soprattutto realizzato grazie ad iniziative di diversificazione dalle basi di conoscenza esistenti in direzione delle industrie emergenti. I primi riscontri dipingono un quadro della situazione italiana profondamente distante dai desiderata della Comunità, anche laddove (si pensi in particolare all’Emilia Romagna) la politica dell’innovazione ha sviluppato modelli di intervento sistematici ed aggiornati. L’idea di processi “troppo” partecipati (ossia oltre le prassi attuali di concertazione) si mostra rischiosa, potendo condurre a blocchi politici e cognitivi a difesa degli assetti attuali dei sistemi produttivi. È difficile immaginare che le tecnocrazie regionali abbiano, se non la capacità, certo la forza per governare un processo di policy sovraccaricato di aspettative incerte, instabili e fuzzy. Per altro nemmeno la blindatura dei processi di programmazione all’interno delle segrete stanze regionali sembra permettere di svincolarsi dai meccanismi di consenso e dal “rifiuto di essere esclusi”, che comunque produce politiche di ecumenica inclusività. È su questo sfondo che va ricollocata la riflessione, che è già stata oggetto di un contributo di chi scrive insieme a Riccardo Conti, sulle aggregazioni macro-regionali. In quel lavoro ci si concentrava sul destino, per molti versi emblematico, della Toscana. Vi si contrapponevano due ipotesi: quella dell’esistenza di due grandi aggregazioni macro-regionali dell’Italia contemporanea, l’Italia della competitività (il Centro-Nord del paese) e l’Italia della convergenza (il Mezzogiorno), più recentemente ripresa in un convegno della Rete delle città strategiche; e quella della appartenenza ad un’Italia terza, l’“Italia di mezzo”, resa coesa da fattori di integrazione (sia per analogia che per complementarietà) sul piano politico, economico e sociale tali da farne

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delle nostre specializzazioni e/o per trovarvi le necessarie complemetarietà. Mantenere, estendere o creare questo patrimonio relazionale esterno diventa un elemento centrale di una politica regionale. Possiamo identificare quattro tipi di tali spazi relazionali. Innanzi tutto, dobbiamo guardare agli spazi economici. Un ovvio riflesso è quello di immaginare versioni ampie di sistemi produttivi geograficamente auto-contenuti, sul modello dei distretti e dei cluster, ma un modo alternativo e oggi verosimilmente più utile è quello di pensare in termini di sistemi aperti, dove segmenti di catene del valore sono connessi tra loro da relazioni materiali (logistiche, ad esempio) o immateriali (ad esempio grazie alle reti di cooperazione della formazione e della ricerca), aumentando l’attrattività del territorio in quanto offrono a investitori (e residenti) un ventaglio più ampio di opportunità. In secondo luogo, vi sono spazi dell’innovazione, che si possono realizzare allargando le dimensioni degli attuali “sistemi regionali dell’innovazione” su scala inter-regionale, ma anche aprendoli per permettere dinamiche più intense di “open innovation” e di co-invenzione di nuove applicazioni. In terzo luogo vi sono gli spazi della politica, da intendersi sia come ambiti di policy learning (l’apprendimento attraverso lo scambio di, e la contaminazione tra, buone prassi) sia come veri e propri spazi di progettualità (attraverso politiche comuni o integrate). In quarto luogo, vi sono gli spazi culturali ed identitari, che divengono ovviamente anche ambiti di legittimazione politica: in altri termini, spazi in cui “la storia conta” e la condivisione di un heritage facilita l’identificazione di interessi collettivi, mentre – circolarmente – una prassi positiva di collaborazione contribuisce a rafforzare le percezioni di un’identità comune. Non stupisce che questi spazi relazionali non siano necessariamente sovrapponibili con esattezza. In altre parole, esistono certamente vantaggi nel consolidamento istituzionale di un aggregato macro-regionale, ma esiste anche una possibile ed auspicabile “geografia variabile” dei patrimoni relazionali dei territori. È qui che forse sta la debolezza vera di una certa insistenza sull’idea di una macro-regione centrale. Un’altra debolezza, questa volta condivisa dall’ipotesi del “Centro-Nord”, è quella di farsi contenere entro gli spazi dello Stato nazionale. Una ri-articolazione del regionalismo italiano deve seguire anche strade diverse, ossia in primo luogo quella delle cooperazioni transfrontaliere, che ormai definiscono aggregati quantitativamente rilevanti quanto e sovente più di molti degli stati membri dell’Unione. Queste cooperazioni assumono forme diverse, per nulla omogenee: dalle Euro-regioni con una strutturazione istituzionale più formalizzata e consolidata sino a modalità di cooperazione più flessibili e disarticolate; da approcci top-down con una visione politica

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e strategica elaborata ex ante a processi di costruzione di aree di cooperazione a partire dai progetti. È anche vero che troppo spesso il loro impatto è sfuggente. Lo stesso documento guida di questa fase storica delle politiche regionali, il giustamente celebrato “Rapporto Barca”, ne fa’ una rappresentazione singolarmente schematica, scettica e, tutto sommato, ingenerosa. In gioco in effetti vi è più di uno strumento aggiuntivo (e magari marginale) delle politiche place-based. Assistiamo invece al disegnarsi di una diversa geografia dell’Europa ed anche di una diversa meta-geografia, nel senso che le mappe mentali su cui si costruiscono scelte pubbliche e private ne sono modificate. Si pensi solo all’emergere di nuove capitali (con relativo “headquarters effect”), che si definiscono in funzione di nuove aree transnazionali: Copenhagen, Lione, Barcellona, Amburgo... Un’ulteriore prospettiva è quella delle aggregazioni interregionali che non dipendono dalla prossimità geografica, ma si realizzano in ragione di analogie e complementarietà nella forma di reti “virtuali”. Si tratta di un fenomeno di proporzioni importanti. Già oggi a Bruxelles i processi di formazione delle politiche comunitarie fanno riferimento ad una quarantina di reti di regioni che svolgono una funzione di lobby presso le istituzioni comunitarie. Se guardiamo a settori come quelli della cooperazione allo sviluppo, della promozione commerciale o delle collaborazioni scientifiche ed accademiche, alle mappe regionali e macro-regionali si sovrappone un reticolo di relazioni su scala continentale e globale, che oggi costituisce un elemento imprescindibile e di alto valore nel patrimonio relazionale dei territori, fondamentale – ad esempio – nella gestione del rapporto tra globale e locale e nelle politiche dell’internazionalizzazione economica. In alcuni casi, che, semplificando, possiamo ricondurre alle regioni economicamente più forti, alle grandi aree metropolitane ed alle “isole dell’innovazione”, questi outward linkages sembrano assumere un’importanza uguale, se non maggiore di quella delle relazioni di area vasta, affiancando alla prossimità geografica delle elettive “prossimità virtuali”. In conclusione, solo un’attenzione bilanciata all’insieme delle opportunità e delle sfide che derivano da questa varietà di modalità di aggregazione può oggi servire a costruire un adeguato patrimonio relazionale a sostegno dello sviluppo dei nostri territori. La costruzione di spazi relazionali adeguati per le economie e le società regionali costituisce oggi una grande, quanto poco riflettuta, opportunità per un regionalismo italiano in crisi di ruolo, potendo essere un contributo concreto e significativo che le politiche regionali (e solo esse) possono oggi dare ad una strategia di crescita. Su questo – credo – dobbiamo intenderci. Dopodiché possiamo ricominciare a discutere di Toscana, di Terza Italia e di Centro Nord...


COMMENTI di RICCARDO VARALDO*

Regioni, macro-regioni e strategia della crescita

Smart specialization: per il futuro italiano l’unica strada percorrebile è quella della ricerca e dell’innovazione

Da tempo la politica industriale in Italia è una “terra di nessuno” mentre con la crisi molte imprese cercano di sopravvivere per guadagnare tempo, rendendo più costosi e dolorosi aggiustamenti senza futuro, cioè senza respiro strategico. Questo è ormai così evidente che anche i più accaniti industrialisti stanno ormai giungendo alla conclusione che ci sono stabilimenti e parti della nostra industria senza speranza, perché non più competitivi e sostenibili nella nuova competizione globale. Per cui sarebbe meglio abbandonarli adesso al loro destino invece che più tardi, evitando inutili dispersioni di fondi pubblici. Ma su questo punto di vista le opinioni sono molto divergenti mentre pesa una massa inerziale che ostacola il cambiamento. Ci sono almeno due diverse impostazioni di fondo della politica industriale: quella della difesa dell’esistente e quella illuminata del cambiamento. Ma in termini di strumentazioni c’è una sostanziale convergenza: l’unico vero strumento è quello dell’aumento della produttività, con leve la qualità del capitale infrastrutturale, del capitale umano e del capitale organizzativo, ed un unico catalizzatore, quello dell’innovazione tecnologica. Nel presidio di tutti questi ingredienti l’Italia è tremendamente in ritardo e non riesce a recuperare; e la Toscana forse ancora più di altre regioni. La conseguenza è che la crescita langue da decenni, con gli effetti che si vedono e si contano (crisi aziendali, tagli occupazionali, disoccupazione crescente, giovani senza lavoro, fuga all’estero dei talenti, ecc.). La grave crisi mondiale, con la sua forza dirompente, ha messo a nudo debolezze strutturali e ritardi antichi che l’Italia teneva “sotto il tappeto”, e ha aggravato la nostra vulnerabilità perché è aumentata la velocità del cambiamento e delle trasformazioni. L’Italia mentre non ha saputo capire in tempo utile, come policy makers e classe imprenditoriale, l’esigenza di una ricostruzione dei fondamentali per la crescita, in un’economia globalizzata basata sulla conoscenza, ora non è neppure capace di affrontare il grave deficit di produttività che condiziona e rende non competitiva la sua industria manifatturiera. Per andare nella nuova direzione, che in fondo è quella europea della “smart specialisation”, c’è bisogno innanzitutto di capire se l’Italia - e quindi il governo, le parti sindacali, le

associazioni imprenditoriali – ritiene una priorità il rinnovamento della base industriale del Paese e se, all’interno di questa priorità, vuole finalmente assegnare, non a parole ma con i fatti, alla ricerca, all’innovazione e al capitale umano qualificato un ruolo strategico, così come hanno fatto i Paesi più avanzati e anche i Paesi emergenti più dinamici. Questo doppio punto non è nell’agenda del Paese per cui non c’è speranza che si possa riprendere la strada della crescita. La crescita c’è solo laddove si sanno ricercare e creare in modo organico nuove opportunità di investimento e quindi di occupazione qualificata. Ma questo, in mercati saturi, può accadere solo se e in quanto con la ricerca e l’innovazione si aprono nuove strade, percorribili e sostenibili, ovvero nuovi campi produttivi, per soddisfare nuovi bisogni emergenti e nuovi mercati, capaci di attrarre investimenti e offrire adeguate prospettive di remunerazione dei capitali impiegati. In Italia non c’è carenza di capitali ma mancano sane e fondate opportunità di investimento. Siamo in ritardo, da un lato nei processi di rinnovamento e ricostruzione delle basi tecnologiche, produttive e occupazionali di parti consistenti dell’industria, da un altro nello sviluppo di nuove tecnologie e nuovi campi produttivi. E su entrambi questi versanti incide il mancato rinnovamento culturale, generazionale e professionale della classe imprenditoriale. Siamo in sostanza arroccati nella difesa precaria dell’esistente, mentre trascuriamo la costruzione del nuovo, in mancanza di una visione strategica e di un programma del Paese per il futuro. Per questo sono seriamente a rischio il nostro futuro di Paese industriale moderno e quindi leve essenziali della crescita dell’economia, dell’occupazione e delle esportazioni, con il rischio di accentuare il ritardo rispetto ai Paesi, vecchi e nuovi, che sono all’opera per dar vita ad un rinascimento industriale fondato sull’innovazione. Se non si assume piena consapevolezza della svolta globale in atto nell’assetto organizzativo e tecnologico del mondo industriale è inutile insistere con la retorica della crescita. Ma per questo occorre un profondo, serio e illuminato rinnovamento della cultura e della politica industriale, che stenta a prodursi, ed anche della mentalità e dei comportamenti dell’imprenditoria italiana.

* Riccardo Varaldo. Presidente della Scuola Superiore di Sant’Anna

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COMMENTI di ALBERTO BRAMANTI*

Regioni, macro-regioni e strategia della crescita

Oltre il principio di territorialità: funzioni e reti funzionali

Lo scritto di Nicola Bellini si inserisce in modo molto appropriato in un dibattito che non ha ancora guadagnato lo spazio e l’attenzione che meriterebbe, stretto com’è tra la politica “gridata” (ideologia padana o retorica identitaria) e le riflessioni confinate agli addetti ai lavori. Già, perché se la crisi ha dato largo spazio a un centralismo statalista e livellatore – la logica dei tagli lineari e di una pressione fiscale crescentemente insostenibile, senza alcun ampliamento della base imponibile – la ripresa e la crescita non possono che passare dai territori, dalle regioni, che purtroppo, in questa fase, non stanno dando grande prova di sé. Vorrei iniziare riprendendo, tra i molteplici spunti, due questioni sollevate che mi paiono di forte rilevanza: il riconoscimento della “geografia variabile dei patrimoni relazionali dei territori” e la domanda, troppo spesso elusa, del “perché vale la pena aggregarsi?”. Lo farò usando – e spero in questo di non forzare troppo il

* Alberto Bramati. Università Bocconi, Milano

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pensiero dell’autore – altre affermazioni “forti” e meritevoli di qualche riflessione aggiuntiva contenute nello scritto. La chiave interpretativa appropriata mi pare essere racchiusa nel riconoscimento che la crisi non può essere ridotta a una questione di spread ma tocca il ritardo accumulato nel riposizionamento competitivo dell’intero “sistema paese” e dei suoi territori. Chi compete oggi nell’economia globale sono i “luoghi”, sono dei territori circoscritti (spesso urbani) – certamente inseriti in specifici contesti nazionali in grado di potenziarli o depotenziarli –, sono delle agglomerazioni spaziali di assets materiali e immateriali (in cui hardware, software e brainware, la fanno da padroni), (Bramanti e Salone, 2009). Sono le città, le aree metropolitane, le global city-regions, che accumulano e scambiano conoscenze e competenze e potenziano la creatività, esercitando una forte attrattività nei confronti di quella che Florida (2005) ha chiamato, con


riferimento – senza perdere troppo in termini di densità delle reti – più si rafforza l’ipotesi di una macroregione (nel caso in specie quella del Nord) che può godere dei vantaggi del consolidamento istituzionale senza perdere ricchezza sui patrimoni relazionali (Bramanti, 2010). Con riferimento alle macroregioni transfrontaliere, in specifico nel caso italiano, sono – come riconosciuto dall’articolo – ad “impatto sfuggente”. Il caso da manuale della macroregione Baltica, sempre citato, è in realtà molto differente e vede tra i protagonisti sostenitori più convinti proprio gli stati nazionali. Sono solo due le macroregioni transfrontaliere (italiane) che forse potranno avere un futuro (con molti “se” e molti “ma” che è difficile oggi dipanare). La prima è la macroregione Alpina che coinvolge sei differenti nazioni ed evidenzia margini di cooperazione molto interessanti e ancora nella fase dei rendimenti crescenti (si pensi solo alla salvaguardia dell’ecosistema alpino, ai temi energetici e di fruibilità dell’area). La seconda è la macroregione Adriatico-Ionica che pure coinvolge sei paesi ed apre alla cooperazione coi Balcani, tema politicamente caldo e di forte interesse anche per l’Unione Europea. In entrambi i casi esiste un elemento geografico centrale (le Alpi, il mare Adriatico-Ionio) che dà unitarietà alla macroregione, ma poco potranno le singole regioni (NUTS 2) se non convincere/costringere i rispettivi stati nazionali ad implicarsi seriamente nei progetti. Interessante rimane allora, dal mio punto di vista, la macroregione del Nord – di cui in realtà Bellini non discute se non per sollevare il tema di quale possa essere il suo confine a sud (comprensivo o meno della Toscana) – il cui significato va argomentato proprio nella direzione della risposta alla seconda domanda sollevata: la questione del perché aggregarsi. Il Nord può e deve aggregarsi come macroregione per una molteplicità di ragioni molto bene espresse in un recente intervento di Paolo Perulli (2012) che proverò sinteticamente a richiamare aggiungendoci del mio. Innanzitutto il Nord è la piattaforma territoriale delle medie imprese che possono trainare la crescita del sistema produttivo italiano, e dunque del paese. Queste imprese leader: «sviluppano alla scala del Nord le proprie relazioni con i fornitori, nel Nord selezionano i dirigenti per formare le proprie squadre manageriali, e nel Nord cercano e trovano i servizi avanzati necessari al proprio sviluppo.» (Perulli, 2012:3). In questo contesto Milano è l’ottava global city al mondo in relazione alla connettività dei servizi avanzati alle imprese con le altre città mondiali. Al tempo stesso, però, il Nord si contraddistingue per un reticolo urbano molto denso che senza quasi soluzione di continuità innerva l’intero Nord geografico da Torino a Trieste e da Bolzano a Rimini (Toldo, 2009). Non a caso le aree urbane che sono cresciute di più negli ultimi 40 anni, all’interno di questa macro

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un’efficace operazione di marketing, la “classe creativa”. Ecco allora che i territori divengono il punto di snodo tra reti corte (della fiducia, dei mercati del lavoro locali, delle conoscenze informali, delle istituzioni di prossimità) e reti lunghe (della finanza, delle catene del valore, della commercializzazione e del presidio dei mercati globali), svolgono la funzione di gateway – di porta di ingresso e di snodo di contatto – tra l’economia locale e il mondo; si articolano e si modellano complementando e contaminando (ibridando) spazi relazionali – i quattro richiamati da Bellini: spazi economici, spazi dell’innovazione, spazi della politica, e spazi culturali e identitari – “non necessariamente sovrapponibili con esattezza”. Un passo dopo l’altro si arriva così al cuore del ragionamento: i territori contano, ma non necessariamente quelli definiti da confini amministrativi, le regioni amministrative così come le conosciamo; i territori, piuttosto, quali crocevia di reti di imprese allungate. Da qui al tema delle “macroregioni” il passo è breve, e viene in primo piano il dibattito di un Nord quale piattaforma territoriale delle teste pensanti delle medie imprese leader studiate da Mediobanca e dell’offerta di quei servizi (KIBS) che accompagnano tali imprese nella competizione internazionale (Bramanti, 2010). La sottolineatura sulle geometrie variabili dei patrimoni relazionali dei territori apre dunque al nodo delle macroregioni e qui Bellini introduce due possibili caveat di cui tener conto rispetto all’insistenza sull’idea di una macroregione centrale. Con il primo warning l’autore vuole ribadire la geografia variabile delle differenti funzioni, con il secondo paventa la possibilità di rimanere schiacciati entro i confini nazionali. Pur comprendendo il suo punto di vista mi pare che l’autore ne usi per contestare (sia pure in punta di fioretto) significato e pregnanza di una eventuale macroregione del Nord. Sulle implicazioni delle due debolezze introdotte da Bellini mi sento di dissentire pur consapevole che manca qui lo spazio per argomentare compiutamente il mio punto di vista. Due brevi osservazioni in merito. Le macroregioni, comunque intese, non possono che definirsi sulla base di un principio di territorialità anche fisica. Le funzioni, invece, seguono logiche a-spaziali e le reti funzionali, certamente della massima importanza, sono sempre più raramente “governate” dai territori. Più frequentemente li anticipano e li travalicano, solo a volte, li trainano. Le reti dei centri di ricerca, delle università, dei grandi ospedali, delle fiere, delle istituzioni culturali, degli aeroporti possono persino rischiare di rimanere isolate dai territori che “accidentalmente” le ospitano; la sfida, semmai, diviene proprio questa: radicare territorialmente la grande infrastruttura/ istituzione così che, da un lato, i costi di uscita siano troppo alti e pertanto non le convenga spostarsi e, dall’altro, che vi sia uno scambio fruttuoso con il livello territoriale più prossimo. Certo è che più si dilata la scala geografica di

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area, sono quelle agglomerazioni con almeno 100 mila abitanti nell’arco di 10 km (Rimini, Bergamo, Vicenza, Brescia, Parma–Reggio Emilia–Modena, Verona e Trento). Questa solida maglia urbana, innervata da un sistema infrastrutturale in via di potenziamento – che pure dovrà essere ancora razionalizzato – risulta sinergica ed attrattiva nei confronti di quelle reti produttive che stanno ampliando il proprio raggio di azione (precedentemente circoscritto, in molti casi, alle realtà distrettuali). Infine, giova richiamare che sinergie, alleanze e fusione tra i players delle multi-utility territoriali vanno rapidamente ridisegnando gli spazi di supporto e di competitività per il sistema delle imprese che seguono comportamenti localizzativi che le addensano lungo corridoi e nodi. Le nuove geografie ridisegnate dalle isocrone dei tempi di percorrenza dei collegamenti ferroviari a più alta velocità commerciale tendono così a rafforzare il disegno di una macroregione del Nord unitaria e non è un caso che le (poche) grandi opere infrastrutturali che si sono mosse nell’ultimo decennio (la maggior parte ancora in via di completamento), hanno riguardato la chiusura degli anelli mancanti di una rete che innerva il Nord e da cui dipenderà largamente la sua accessibilità futura e, dunque, la sua capacità di lavorare in rete. La parola ora spetta alla politica, il dialogo e i raccordi

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sinora largamente mancanti tra le grandi regioni del Nord potrebbero rimettersi in moto e avrebbero significativi punti di ancoraggio (qui appena inizialmente enunciati) per collaborare costruttivamente alla realizzazione di una nuova global city-region del Nord, dentro la competizione europea (Resmini e Torre, 2011).

Principali riferimenti Bramanti A., Salone C. (2009), a cura di, Lo sviluppo territoriale nell’economia della conoscenza: teorie, attori, strategie. Franco Angeli, Milano. Bramanti A. (2010), “La questione settentrionale: una lettura in chiave economico territoriale”. Lorenzini S., Rabellotti R., a cura di, Federalismo e crescita: è possibile una relazione virtuosa?. Franco Angeli, Milano, pp. 51-83. Florida R. (2005), The Flight of the Creative Class. Harper Collins Business, New York. Perulli P. (2012), Il Centro-Nord. Conferenza internazionale RECS “Rappresentare l’Italia”. Cuneo, 1-2 marzo. Resmini L., Torre A. (2011), a cura di, Competitività territoriale: determinanti e politiche. Franco Angeli, Milano. Toldo A. (2009), “La macroregione policentrica a geometria variabile come scenario strategico per città e territori del Nord-Ovest italiano”. Bramanti A., Salone C., a cura di, op. cit., pp. 275-296.


COMMENTI di ALESSIO GRAMOLATI*

Regioni, macro-regioni e strategia della crescita

Macro-Regioni con un approccio globale ed europeo

La crisi mette in effetti in discussione tanti luoghi comuni e molte certezze sulle quali, per decenni, si è cercato di impostare le politiche economiche. Bellini ha ragione nell’affermare che il crollo di oggi non è solo il portato di un colossale flop finanziario, contenibile attraverso le tradizionali ricette liberiste, ma una vera e propria “fase di epocale transizione nella divisione internazionale del lavoro”. In questa accezione, è chiaro che non solo la dimensione nazionale delle politiche economiche deve essere riparadigmata, ma anche quella sub nazionale e regionale. Il tema dell’azione economica regionale assunto, forse, con più modestia e senza pensare che questo possa “surrogare” l’intervento degli stati nazionali o, peggio ancora dell’Europa, assume, quindi, una centralità ineludibile. Altrettanto necessario sarebbe collegare quanto sopra ad una nuova visione geoistituzionale di Regione. L’idea delle macro-regioni non è nuova. Su questo esercizio si sono cimentati sia politici che “tecnici”, sempre con scarsi risultati. Questo non vuol dire che non sia necessario affrontare il nodo, ma con approcci più legati ad una visione globale, quanto meno europea, delle prospettive di crescita. Se, effettivamente, sarebbe sbagliato affrontare la questione prevedendo subito scenari costruibili solo sulle carte geografiche, è, invece, necessario sostenere queste ipotesi con una analisi del contesto e delle prospettive che si stanno consolidando intorno a noi. Da alcune parti si fa riferimento alla prossima programmazione dei fondi strutturali. Per noi è questa una grande occasione per creare quei partenariati interregionali necessari a soddisfare le condizioni che Bruxelles metterà per un loro organico utilizzo. È in questa prospettiva che anche una

realtà come l’Italia di mezzo può dire la sua costruendo un coordinamento che si presenti alla concertazione con la Commissione Europea sui programmi operativi, non come singole regioni, ma come soggetto interistituzionale portatore di una proposta di programmazione fatta di obiettivi strategici condivisi e realizzabili su un’area più vasta di quella regionale. A questo livello potrebbero essere quindi riproposti alcuni temi sui quali le regioni centrali hanno già una acquisita propensione quali: - L’implementazione delle strutture logistiche mirate al rafforzamento dei corridoi e dei programmi già previsti dall’Unione Europea (Corridoio 1, TEN.T, ecc.); - La politica cooperativa transfrontaliera sia adriatica che tirrenica; - La valorizzazione del territorio, del paesaggio e dell’agricoltura; - La costituzione di reti dell’innovazione, della ricerca, della formazione che traccino una dimensione nuova per le competenze storicamente maturate dai distretti industriali; - Il rilancio della cultura e dell’arte come sfida per un turismo di qualità. Una simile prospettiva potrebbe effettivamente rendere concreta e praticabile l’idea di una nuova regione. Una regione che si colloca nel dibattito sulla nuova Europa, non sul versante della mera rivendicazione localista, ma sul terreno più proprio dello sviluppo. Si tratta cioè di stabilire quanto e cosa l’Italia di Mezzo sia in grado di offrire all’Europa nelle sue sfide di crescita e di modernizzazione che si è data con il programma 2020.

* Alessio Gramolati. Segretario Cgil Toscana

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COMMENTI di ANDREA BARDUCCI*

Regioni, macro-regioni e strategia della crescita

Una riforma istituzionale possibile basata su affinità culturali, sociali ed economiche

Il dimezzamento delle Regioni recentemente proposto dal Ministro per la Semplificazione Patroni Griffi ha il grosso pregio di aver affrontato un tema finora ritenuto tabù. Peccato che il dibattito su un argomento così importante si sia sviluppato nel momento in cui è esplosa la polemica sull’utilizzo improprio dei cosiddetti “rimborsi spese” da parte di alcuni gruppi consiliari regionali. Le riforme istituzionali rappresentano uno dei passaggi più delicati per la vita di una Nazione, quindi le proposte di riordino dovrebbero essere elaborate in un clima sereno, senza subire condizionamenti di tipo contingente. Non possiamo dimenticare, ad esempio, come negli ultimi due anni il dibattito sul ruolo delle Province sia stato accompagnato, e direi viziato, da una campagna mediatica che puntava a delegittimare il ruolo degli enti intermedi. Una campagna populista che ha negato, di fatto, la possibilità di un dibattito sereno sull’argomento. Come era logico aspettarsi, lo stesso vento populista sta agitando, anzi inquinando, il dibattito sulle Regioni, soprattutto alla luce della proposta di referendum per l’abolizione delle Regioni avanzata dalla Lega Nord con la conseguente creazione di tre macro aree. I motivi strettamente strumentali che sottendono a questa iniziativa sono fin troppo chiari, soprattutto se si considera la volontà più volte espressa di far coincidere la macro area del Nord con i confini virtuali della cosiddetta Padania. La discussione sulle Macro-Regioni deve quindi sforzarsi di ragionare esclusivamente sul merito della questione, evidenziando i benefici di un eventuale riordino istituzionale, senza cedere a valutazioni emotive, seppur giustificate da casi di mala politica. Merita dunque concentrarsi sulla reale validità sulla proposta del Ministro. L’idea di Patroni Griffi prende spunto dagli studi che furono compiuti nel 1992 della Fondazione Agnelli per prospettare un’Italia divisa in 12 MacroRegioni, ricondotte a ruolo di legislazione e programmazione subordinata gerarchicamente allo Stato. Tale studio evidenziava già all’epoca come Regioni italiane più piccole fossero svantaggiate in una competizione che si stava sempre più spostando dal piano nazionale a quello europeo. Indicazioni e motivazioni di merito che la Provincia di Firenze ha più volte rilanciato anche in un passato recente, nel momento in cui suggerì la creazione di una Grande Provincia della Toscana centrale comprendente i territori di Firenze, Prato e Pistoia. Suggerimento che, purtroppo, al momento, non è stato accolto dalla normativa varata dal Governo Monti. Dopo il tema delle Province siamo ora ad affrontare la questione dimensionale che interessa le Regioni. Di primo acchito, l’iniziativa del Ministro Patroni Griffi suscita consensi, non fosse altro perché mette fine ad un paradosso più volte emerso durante la discussione sulla riduzione delle Province: possibile che esistano Regioni che contano meno abitanti * Andrea Barducci. Presidente della Provincia di Firenze

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della sola Provincia di Firenze? Adesso questa domanda trova una risposta pratica nella proposta di Patroni Griffi che prevede l’ingresso del Molise nella Marca Adriatica insieme a Marche ed Abruzzo. Ma le questioni numeriche legate agli abitanti e all’estensione territoriale non possono rappresentare i soli parametri validi per ragionare in termini di Macro-Regioni. La guerra dei numeri ha già prodotto guasti, incomprensioni e polemiche quando si è discusso dell’accorpamento delle Province. Ripetere questo errore sarebbe deleterio. Ecco perché occorre avviare una seria discussione sull’accorpamento delle Regioni, coinvolgendo direttamente le comunità dei cittadini. Un percorso condiviso che dovrebbe evidenziare affinità culturali, sociali ed economiche tra Regioni vicine o confinanti. Questa forma di autodeterminazione dovrebbe portare a sviluppare in modo spontaneo forme di integrazione propedeutiche ad una vera fusione in successive Macro-Regioni. In questo senso le istituzioni locali, soprattutto dell’Italia centrale, non partono da zero. Nell’ottobre 2009 la Provincia di Firenze ha aderito al Patto di Cagli, sottoscritto da Presidenti, Assessori e Sindaci di Marche, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e Lazio. Il Patto rappresenta una sorta di ‘cahier’ tra rivendicazioni di diritti, emergenze socio-economiche e proposte di lavoro da sottoporre al Parlamento e al Governo. Il Patto Affronta temi emergenti che coinvolgono Regioni limitrofe, come ad esempio il problema delle infrastrutture (“trattativa unitaria per il completamento della Fano-Grosseto), i fondi europei (“progettare lo sviluppo per macro regioni per beneficiare dei contributi che arrivano dall’Europa”), il federalismo fiscale, il coordinamento per l’Appennino centrale (“puntare sui distretti rurali”), la chiusura delle scuole e dei servizi nelle piccole comunità. Questa prima intesa tra le Regioni ovviamente non ha la pretesa di fissare già una prospettiva di unificazione, che invece va articolata in modo più rispettoso delle singole affinità, ma serve invece per mettere a fuoco una serie di temi comuni all’Italia centrale che meritano un approfondimento, a cominciare da una risposta alla crisi economica anche in termini di politiche per l’innovazione; dalla necessità di modernizzazione delle infrastrutture su gomma e su ferro; dall’esigenza di progettare questa parte del Paese per intercettare le opportunità che provengono dall’Europa, pensando questi territori come area di reale interesse europeo. E poi i temi del federalismo fiscale, che va riempito di contenuti, criteri e risorse. Infine la necessità di coordinare gli interventi nelle zone di confine con particolare attenzione alla fascia appenninica e l’urgenza di rafforzare gli investimenti nel settore della formazione e, allo stesso tempo, di garantire una presenza, più capillare possibile, dell’offerta didattica.


di MAURO GRASSI

Regioni, macro-regioni e strategia della crescita

Macro-Regioni come aggregazione “a maglia libera”

La domanda a cui pare rispondere Nicola Bellini con la sua nota è: quale (nuova) regione per quale (nuova) politica. Ed è una domanda ben posta. Perchè purtroppo viviamo una fase penosa del dibattito nazionale sulle Istituzioni locali e regionali che scaturisce dall’obiettivo, giusto ma che non può funzionare da fondamento per una Riforma del paese, del risparmio sui costi della politica e di un nuovo corso di moralizzazione della politica. Molti di noi sono sensibili ai problemi della semplificazione degli strumenti e delle procedure di intervento pubblico, che dovrebbe portare con sé un risparmio sui costi di governance, e sono sensibili ad una maggiore moralizzazione della vita pubblica, con la fine dei privilegi e delle malversazioni del ceto politico, ma da qui a pensare che questi temi siano il “centro” su cui far ruotare la modifica della struttura istituzionale del paese, il passo è lungo. Abbiamo cominciato dalle Province. Le leviamo. Ne togliamo una metà. Lasciamo le più grandi e accorpiamo, quasi a caso, le restanti. Le facciamo con eletti di se-

condo livello. Ma forse è meglio se restano ad elezione diretta. Insomma di tutto di più fino ad arrivare ad una proposta che, nel caso della Toscana, rischia di lasciare Arezzo da sola ed invece Massa Carrara, Lucca, Pistoia e Prato aggregate fra di sé, senza tener conto né della storia, né della geografia, né dell’economia, né, in sintesi, neppure del buonsenso. Non parliamo poi delle competenze. Come dire un ruolo marginale con dei confini a caso: questa è la riforma delle Province proposta da un Governo tecnico da cui ci si aspettava, ed io ero e rimango fra quelli, un livello di qualità di scelte e di proposta decisamente superiore ai “pateracchi” a cui ci aveva abituato la precedente storia governativa. Non siamo arrivati ancora alla fine della “sceneggiata” sulle Province che ecco si profila, sugli echi di una ripulsa generalizzata prodotta dalle gesta di Batman, nuovo leader regionale del PDL del Lazio che fra ruberie, festini e cattivo gusto ha superato di gran lunga la esaltante epopea berlusconiana, il ripensamento su ruolo, dimensioni e struttura delle Regioni.

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COMMENTI

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Alcuni commentatori, stanchi di dover lasciare Roma per scrivere i propri articoli dovendo andare nelle altre città italiane per occuparsi di politica, hanno preso la palla al balzo e si sono lanciati in filippiche mai ascoltate a favore dell’efficiente e lungimirante “stato centrale” italiano. Gli scempi della Sicilia, le buffonate del Lazio e gli intrallazi della Lombardia sono emersi come la prova provata della inesistenza di gruppi dirigenti regionali e quindi, si è scritto, che si ritorni tempi di “Roma caput mundi” e alle fulgide e sfavillanti imprese dei Ministeri italiani. Ed ecco allora fra la vergogna di dover difendere consiglieri regionali fannulloni e mariuoli e l’ansia dal doversi rappresentare come gruppi dirigenti nazionali il buon Borghezio, l’immarcescibile Mastella e il capopolo Scilipoti a qualcuno è venuta l’idea di difendere l’istituzione regionale ma, in ottemperanza alla logica dei costi, attraverso il passaggio “penitente” verso una grande aggregazione territoriale. Ed eccoci così arrivati alle tre grandi macroregioni. Via i tanti consiglieri e assessori sparsi per lo stivale, a mangiare e bere alle spalle dei contribuenti, facciamone pochi, ben selezionati, e mettiamoli a governare delle grandi regioni che se non saranno “buone” saranno almeno “poche”. E qui si inserisce la riflessione di Nicola Bellini. Ma a che servono regioni così grandi? Perchè dovrebbero essere migliori e più efficienti di quelle più piccole? E all’interno di quale Stato federale dovrebbero inserirsi? Così, a prima battuta, direi che le regioni in uno stato federale devono poter rappresentare delle “unità riconoscibili”. Avere un minimo di identità storica, geografica, economica, politica e sociale sì da rappresentare qualcosa “in più” dello stare già assieme nello stato nazionale. Se non c’è questo “di più” lo stato federale non ha senso. Allora basta e avanza uno stato centrale che si autorga-

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nizza anche con agenzie e strutture a livello dei diversi territori. A cosa servono in questo caso consigli, governi e norme diversificate se la comunità che sta sotto questo “grande organismo” non si sente partecipe di nulla che non sia già dentro l’appartenenza allo stato nazionale? Se ha un senso avere una sanità toscana (che risponde cioè a dei valori più forti e diversificati di una precisa comunità) penso che non abbia alcun senso avere una sanità emilianamarchigianaumbralazialetoscana. In che senso sarebbe diversa da quella italiana? Se è solo un problema di decentramento amministrativo, basterebbe che il sistema nazionale si organizzasse in tre agenzie territoriali e il tutto sarebbe risolto. E allora, come ho avuto modo di proporre all’Irpet circa 20 anni fa (e anche altri Istituti proposero cose simili) ha un senso un certo accorpamento teso ad eliminare le regioni più piccole (proponevo in quello studio 12/13 regioni). Ma non ha davvero alcun senso puntare su macroregioni che non aggiungono nulla allo stato nazionale e che non danno alcun contributo in termini di coesione e rappresentazione delle comunità locali. Altra cosa sono le aggregazioni che, come sostiene Bellini, possono nascere sulla base di reti, associazioni e gruppi dedicati alla soluzione di problemi comuni, alla realizzazione di progetti innovativi e alla creazione di “force de frappe” nel contesto politico e istituzionale europeo. Ma sono aggregazioni che nascono a maglia libera e che tali devono restare. Tutti ruoli che le regioni italiane vere, quelle che non si sono perse solo e principalmente nell’autonomia del malaffare, hanno cercato di fare, pur con alterne fortune, fino ad oggi. E che dovrebbero fare ancora di più. Con l’aiuto anche di un’Europa più amica e meno simile ad un’acida professoressa di matematica.


Immagini dalla Toscana 21


I profili sistematici e le esperienze nella definizione concorsuale delle scelte di piano1 di silvia viviani *

La visione Tre punte del problema: • scarsità delle risorse sia pubbliche che private, • nuova fiscalità a servizio della città, • innovazione degli strumenti di pianificazione per intercettare le risorse pubbliche che sosterranno le città intelligenti, solidali, ambientalmente efficienti. Occorrono riforme nazionali, una politica dello Stato, coesione territoriale e istituzionale come filiera che si occupi di città e di rilancio della crescita quali componenti di un progetto complessivo, grazie al quale si possano utilizzare tanto i fondi strutturali comunitari quanto la rendita urbana, attivando procedure concorsuali e concorrenziali nell’attuazione dei piani, producendo nuovo welfare urbano (nel quale va inquadrata la questione del social housing altrimenti destinata a politica settoriale). I governi locali dovrebbero essere messi in grado di gestire attivamente, (e non solo di amministrare ricadute), le principali questioni che attengono al governo del territorio, campo dell’agire pubblico a sostegno della ricostruzione sociale ed economica; con innovati contenuti, (riduzione degli sprechi, efficienza nell’uso delle risorse, qualità dei progetti di infrastrutturazione e modernizzazione e dei programmi di rigenerazione urbana), convinta applicazione della sussidiarietà verticale (pubblico-pubblico), efficienza nella sussidiarietà orizzontale (privato-pubblico), coinvolgimento degli interessi differenti nel preservare e creare bene comune, rinnovata etica dei diritti.

Al centro: la Città, la coesione territoriale, l’approccio place based. L’INU ha lavorato a Genova, nello scorso settembre 2011, alla IX Biennale degli urbanisti e delle città d’Europa su città gateway, smart planning, connessioni, economie, popoli, ossia: • città come sede di risorse per la ripresa competitiva e coesa dello sviluppo, • città pensate come una grande infrastruttura funzionale e territoriale a sostegno della società e dell’economia, con uno sguardo non vincolato dai limiti amministrativi ma attento ai luoghi; • risposta alla crisi come cambio di passo, componente comune a politiche europee per la città, in un nuovo modello di sviluppo operoso, lungimirante. Un cambio di passo che, in qualunque progetto di riorganizzazione culturale, politica, sociale, non può essere tenuto separato dalle politiche di rigenerazione degli spazi urbani, perché le città sono occasione e matrice di crescita, sociale, civica, economica e culturale, tanto più quanto più esse sapranno integrarsi in una rete efficiente che garantisca attività di ricerca e diffusione di conoscenza, accessibilità e inclusione sociale, innovazione al servizio di una corretta organizzazione delle risorse e sensibile al contesto. Al centro dell’attenzione sta dunque il governo della città, oggetto prioritario di politiche pubbliche coordinate, che accettino la sfida di gestire l’incertezza, di investire sulle pratiche di governance, di impegnarsi nella cooperazione e nella definizione dei livelli adeguati dell’assetto istituzionale.

* Silvia Viviani. Vice presidente INU 1 Convegno Concorsualità e pianificazione – La definizione comparativa delle scelte urbanistiche, INU Toscana - ANCI Toscana, Firenze, 19 aprile 2012.

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A ciò risponde il modello della coesione sociale e territoriale, la dimensione europea dei progetti urbani, per intercettare e soddisfare la domanda alla quale si rivolge il progetto di città contemporanea. Il che, in altri termini, sostanzia la possibilità di parlare del futuro senza poterne indicare uno sviluppo certo e lineare, capitalizzando il civismo urbano d’Europa e accettando la difficoltà della gestione del conflitto, come occasione per generare impatti, ossia cambiamento. La crescita inclusiva e sostenibile della città europea non si immagina senza politiche di coesione sociale e territoriale, che permettano il riequilibrio insediativo per una effettiva e concreta soluzione alle disuguaglianze e alle sperequazioni: fra centralità e marginalità, fra città e moderna campagna, fra luoghi urbani. Vi è bisogno, perciò, di sostegno all’operatività della governance multilivello, per rafforzare le scelte strategiche dei decisori locali, mantenendone le differenze di contesto ma eliminando le solitudini di gestione.

Gli strumenti In questo scenario si situa la possibilità – anche la necessità - di riformulare gli strumenti della pianificazione, con stili e comportamenti, teorici e pratici, non autoreferenziali. Se il futuro delle nostre città non può più essere atteso o pre-veduto, ma va scelto e costruito, allora i piani, strutturali e operativi, che non intendiamo abbandonare, possono essere i prodotti adeguati per promuovere e gestire un simile processo, per le loro profonde differenze di effi-


piani comunali, ha evidenziato un allungamento dei tempi, fattore che, invece, può – deve - essere governato, anche rendendo il PS “tavolo” sul quale attivare piani e progetti. Soprattutto, il PS si configura forte nelle scelte irrinunciabili ma anche scenario di possibilità, con una robusta visione strategica, ma rispettoso delle limitazioni imposte dalla conoscenza rispetto agli obiettivi di sostenibilità. La mancanza della certezza di prevedibilità, anziché indebolire lo strumento, lascia spazio da un lato a un maggior rigore vincolante per i capisaldi non negoziabili, riferibili alla difesa dai rischi, alla riduzione del consumo di suolo, alla rigenerazione urbana, all’efficienza ambientale del patrimonio edilizio esistente, e dall’altro a una rinnovata centralità del territorio che può farne fattore non settoriale dello sviluppo. Così si assume una prospettiva di lunga durata, nella quale, oltre a definire obiettivi e delineare scenari al futuro, si devono individuare azioni concrete e verificabili per la crescita urbana sostenibile, solidale e intelligente. Il successo è basato sul consenso che caratterizza la formazione di un piano strategico e perequato, in quanto la visione del futuro deve essere

condivisa. Il PS diventa adeguato scenario per il corretto e immediato utilizzo delle risorse, anche in assenza della disciplina prettamente urbanistico-edilizia (il RU) che è una componente della gestione operativa. Così è possibile cogliere l’opportunità di utilizzare risorse pubbliche sempre più scarse, per le quali occorre aver pronto il quadro delle condizioni di limite (lo Statuto del PS) e lo scenario della programmazione (la Strategia del PS). Pensiamo al nuovo ciclo di fondi strutturali 2014-2020, sostanzialmente rivolto alle città, e alla sfida competitiva che riguarda le aree urbane e il modo di concepire il rapporto tra dinamiche economiche e dinamiche urbane. Tale visione è da tempo sostenuta anche dalle azioni europee (Settimo Programma Quadro della Comunità europea per le attività di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione 2007/2013), dove pianificazione e monitoraggio dei flussi di energia sono incluse nel contesto dei piani urbanistici delle città “intelligenti”. Con parole chiave come tecnologia, conoscenza e competitività, oggi la UE sostiene le smart cities, realtà urbane che promuovono il benessere socio-economico, uno sviluppo urbano

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cacia e di contenuto. I nuovi strumenti possono permettere di gestire progetti sconosciuti, che matureranno in condizioni diverse dal presente, ma valutabili e comparabili, in quanto riferiti a un ordine necessario, il piano pubblico, fatto di regole, obblighi e vincoli, e in quanto concorrenti alle politiche pubbliche, determinate in quel piano o in esso coordinate. Il futuro prospettabile – non prevedibile - risiede in nuove politiche dei diritti, progetti sociali lungimiranti, promozione e tutela delle forme produttive, tutte quelle garanti del mantenimento degli equilibri ambientali e della libertà di costruire occasioni di vita e di lavoro. L’attenzione va rivolta alla messa a punto dei contenuti ma soprattutto dell’efficacia di PS e RU, e del loro reciproco rapporto, ove al primo è dato un ruolo stabile e al secondo una nuova efficienza operativa. Certo, una componente che deve essere tenuta sotto controllo è quella dei tempi. Se la netta separazione tra PS e RU della LR 1/2005 convince ancora, essa deve essere garantita in termini di certezza, trasparenza, adeguatezza, accettabilità dei tempi. Il recente Rapporto IRPET, dedicato alle ipotesi quantitative di crescita contenute nei

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equilibrato, energeticamente sicuro e sostenibile, nonché le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione. Il futuro della sostenibilità complessiva riguarda soprattutto le realtà urbane di medie dimensioni, con profili di comunità dotate di un numero di abitanti tra 100.000 e 500.000, un bacino d’utenza inferiore a 1,5 milioni di persone e almeno un’università. I parametri per qualificarsi smart sono economici, sociali, culturali, ambientali, abitativi gestionali. Questo ci richiama la necessità di pianificare per reti di città, per policentrismi territoriali. Infatti, le azioni di sostegno alle città che dimostrano l’impegno nell’innovazione, con particolare rilievo alla rigenerazione dello stock edilizio e all’efficienza energetica, alla pianificazione della città e dei distretti, all’efficienza dei trasporti

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e all’intelligenza delle reti elettriche, inducono anche alle politiche di coordinamento, alla cooperazione urbana e territoriale. L’approccio congiunto è premiale, sotto ogni aspetto. Il che significa lavorare con la pianificazione strutturale non costretti nei confini amministrativi, ma calibrati sulle reali condizioni di contesto. La pianificazione strutturale diventa occasione per politiche e accordi territoriali, volti all’equilibrio di area vasta e per l’efficienza ambientale degli ambienti urbani secondo una visione sistemica. Il PS, pur applicato al territorio entro i propri confini comunali, non potrà fare a meno di confrontarsi con l’area vasta, sarà la base per sviluppare governance multilivello, per costruire accordi territoriali, per applicare la perequazione territoriale. Nella maggior parte dei casi si potrà procedere a piani strutturali coordi-

nati o associati. La revisione dei PS vigenti potrà avvenire senza rifare tutto il processo singolarmente, ma coordinandosi per quel che serve. Si deve, pertanto, promuovere l’aggregazione intorno a un progetto di territorio, che corrisponda a responsabilità di governo, a chiarezza di visioni. Si tratta, insomma per la pianificazione e l’urbanistica, di sostenere il progetto di un nuovo modello sociale e urbano con un progetto qualitativamente connotato, che deve relazionarsi alle recenti trasformazioni strutturali, senza essere mero riflesso di quelle trasformazioni. Un progetto che deve contenere: • il contenimento dell’uso di suolo, o “governo della città diffusa”, • il riuso del patrimonio edilizio che ha concluso il suo ciclo di vita, • l’accrescimento dell’efficienza energetica territoriale, • la ricostruzione di un ambiente urbano con adeguati spazi pubblici e dotazioni urbane, • la connessione alle trasformazioni urbanistiche di significative compensazioni ambientali, per incrementare la capacità di rimozione degli inquinanti atmosferici, migliorare il micro-clima urbano, determinare benefici paesaggistici, ricreativi, culturali, sociali, economici e psicologici, • la promozione di mobilità meno dipendente dal trasporto privato su gomma, • la contabilità energetico-ambientale per parti di città, per reti e sistemi urbani. L’impatto previsto è una modifica dei comportamenti pubblici e privati, individuali e collettivi in modo che: • la sostenibilità non sia un fine, ma un prerequisito, • l’efficienza energetica non sia un obiettivo ma una modalità ordinaria attraverso la quale riprogettare i luoghi urbani, • la salute urbana si coniughi con la percezione estetica, • la prestazione ambientale non sia una misura di superficie ma una condizione delle capacità d’impresa. Certamente, il piano da solo non basta. Bisogna occuparsi di politica fiscale locale e di autonomia, di tasse di scopo in libera disponibilità per i Comuni, contributo della società al proprio rinnovamento.


Sarebbe questo un tema concreto e sostanzioso per la partecipazione, un banco di prova per la solidarietà collettiva e per le tensioni verso l’autotutela che le comunità locali esprimono, che potrebbero diventare azioni costruttive, uscendo dalle secche delle difese e delle offese, delle barricate e delle arroganti indifferenze. La cultura della pianificazione è chiamata a fare la sua parte. Agli urbanisti spetta ridare slancio alla dimensione spaziale e alla corretta gestione urbana, coerentemente all’approccio place based, che permette di allocare risorse sulla riconoscibilità del luogo e della comunità, secondo princìpi di coesione e di re-distribuzione delle risorse. Qui sta anche il riposizionamento della figura dell’urbanista. Il posto in società per l’urbanista contemporaneo, capace di riprendere parola, autorevole, sta nel fatto che egli dispone di una sua cassetta degli attrezzi per ideare, comporre, rigenerare l’assetto funzionale e formale dello spazio urbano dell’Europa mediterranea.

Concorsualità- concorrenza Mentre il PS è per sua natura di lunga durata, il RU evolve a seguito dell’innovazione nei metodi della progettazione. Il RU si allontana dal tradizionale PRGC per acquistare una più incisiva valenza progettuale, operatività immediata, capacità di promuovere concorrenza per la qualità degli interventi. Come noto, si compone di due parti, definite dall’art. 55 della Lr 1/2005, l’una dedicata alla gestione, a tempo indeterminato, e l’altra alla trasformazione, la cui valenza è a tempo determinato. Esso va dotato di fattibilità. Poiché nel corso del maturare e mutare delle condizioni e della realtà sociale ed economica e del progressivo definirsi delle politiche di governo comunale, si formano successivi RU, ognuno di essi non può prescindere dalla partecipazione attiva dei soggetti sul territorio, pubblici e privati, e, allo stesso tempo, non può non contenere chiaramente gli indirizzi politici di governo che sostanziano la sua natura di atto pubblico. Il quadro previsionale strategico, (art. 55 comma 5 della LR 1/2005), in concomitanza con l’avvio della VAS del RU, fornisce il quadro degli obiettivi specifici e compone la cornice per gli interventi pubblici e privati che sono soggetti a durata li-

mitata. La decadenza delle previsioni operative pubbliche e private, la complessità degli interventi nella città esistente da riqualificare, la pluralità delle dotazioni urbane e territoriali da realizzare, la necessità per l’Amministrazione di catturare il plusvalore – finora bloccato nelle rendite intoccabili delle proprietà immobiliari - per costruire la città pubblica, la possibilità di alimentare equamente lo sviluppo economico tramite la perequazione e la compensazione, suggeriscono la via della partecipazione responsabile nelle scelte operative dotate di fattibilità, a fronte di un chiaro e certo “piano pubblico”, sul quale valutare, comparare e far concorrere le proposte private. Il passaggio dal Piano strutturale al Regolamento Urbanistico non è meccanismo automatico. Ricordiamo il Regolamento 3R/2007, Art. 8: … la localizzazione e il dimensionamento delle singole previsioni edificatorie sono affidati in via esclusiva al Regolamento urbanistico, al quale il piano strutturale riserva una pluralità di opzioni pianificatorie, coerenti e compatibili con i contenuti statutari e strategici del piano medesimo. L’avviso pubblico si configura come una “chiamata di interesse”, confronto pubblico concorrenziale non vincolante per l’Amministrazione comunale, che deve dotarsi di strumenti idonei a regolare la partecipazione dei privati. Il PS stabilirà i criteri con i quali attivare la concorrenza secondo regole di trasparenza e gli indicatori da utilizzare per la valutazione delle proposte e le forme di partenariato pubblicoprivato. I campi nei quali individuare indicatori di valutazione saranno principalmente quelli riferiti alla sostenibilità economico-finanziaria, all’interesse pubblico, alla qualità del progetto. Anche in fase attuativa del RU si può incentivare la qualità degli interventi promuovendo forme disciplinate di concorrenza, contrastando la rendita, che si è dimostrata fattore di freno all’innalzamento complessivo della qualità urbana. La priorità assegnata alla rigenerazione urbana e alla salvaguardia dei valori ambientali e paesaggistici, il contenimento del consumo di suolo e l’uso ottimale dei servizi, che induce concentrazione negli ambienti urbani, incrementano la rendita di posizione e riducono risorse disponibili per le componenti del processo deputate a generare la qualità finale dell’ambiente costruito: la

progettazione e la realizzazione dell’opera. Governare la fase in cui il diritto ad edificare si lega all’area significa garantire i livelli di qualità auspicati e spostare parte della rendita verso la collettività. A ciò può servire una procedura comparativa e competitiva che metta in concorrenza tutte le aree potenzialmente idonee all’edificazione individuate dal RU. Principali indicatori di qualità saranno le dotazioni urbane, ivi compresa l’edilizia residenziale sociale, le infrastrutture materiali e immateriali, la qualità dell’impianto urbano ed architettonico, l’eco-sostenibilità delle costruzioni, il contributo alla eliminazione dei degradi sociali e urbanistici e all’inclusione sociale. Tuttavia la concorsualità non può essere considerata argomento già risolto in modello. Va proseguita la sperimentazione delle tecniche, che saranno varie e diverse, e la cui efficacia dipenderà dall’innovazione introdotta negli strumenti, fermi restando i princìpi e i valori della pianificazione, che tutela gli interessi generali, deve garantire imparzialità di trattamento e trasparenza delle scelte. E molto dipenderà dalle capacità della classe dirigente, politica e tecnica: campi nei quali l’investimento non deve essere fermato. La Toscana si è mossa presto sulla via delle riforme, forte del patrimonio sul quale poteva innestarle: abitudine all’elaborazione politica e culturale, presenza di una classe politica coesa e motivata, condivisione di valori, radicato tessuto produttivo, obiettivi di qualità, riconoscimento di tratti identitari, tradizioni civili, lunga durata delle amministrazioni locali di sinistra, identificazioni comunitaria nei patrimoni culturali, mediazione degli interessi in forma collettiva, crescita economica coniugata con la qualità ambientale, e classe tecnica coesa. Se non si mette in dubbio questa risorsa, si possono attivare i mutamenti necessari, utilizzare tecniche innovative di sostanza, non avere paura e non arroccarsi nelle procedure per rallentare i processi….come se fosse la via giusta per controllarli. Mi riferisco a valutazione, partecipazione, perequazione, compensazione, ai vari metodi e alle diverse tecniche che possono sostenere la concorsualità, affinché il soggetto pubblico sia in grado di governare pianificando, promuovendo progetti e stipulando contratti per la città.

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Calenzano: “una città di periferia” La pianificazione che costruisce identità e sviluppo

di VANESSA BORETTI*

* Vanessa Boretti . Segretario Pd di Calenzano

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Penso a Calenzano, al paese dove sono nata e dove ho iniziato a muovere le mie prime esperienze politiche e di volontariato. Mi vengono alla mente tante immagini significative, dal borgo medievale alle belle colline punteggiate di ulivi di San Donato, dalla campagna di Legri al bellissimo profilo, maestoso ed imponente, dei monti della Calvana. Ma penso soprattutto a quanto Calenzano si sia trasformata nel corso degli ultimi 15 anni: da periferia piuttosto anonima, cerniera tra Prato e Firenze, area depressa degli anni Sessanta e soggetta quindi ad uno sviluppo industriale molto selvaggio ed impattante, a cittadina che ha recuperato una propria identità ed una propria personalità, attraverso un grande programma di interventi di riqualificazione e ad un piano di investimenti molto ambizioso. Questa riflessione mi porta ad un’ulteriore considerazione, ovvero che l’intervento dell’uomo sul paesaggio circostante non è negativo a prescindere: il paesaggio non è immobile, non è fermo e non è immutabile. Va tutelato ma non va posto sotto una teca di vetro, per ammirarlo nella sua fermezza, quasi fosse un bel dipinto; il paesaggio va vissuto e va gestito. Spetta quindi alle scelte politico amministrative decidere come, affinché l’intervento umano abbia un senso e sia utile, efficace e “democratico”, possibilmente non rispondendo all’emergenza ma tentando di disegnare una prospettiva di lungo respiro.

Penso che troppo spesso si sia affermata la convinzione secondo la quale temi come paesaggio e territorio siano “da addetti ai lavori”; non c’è niente di più politico della scelta di come governare questi due beni pubblici preziosissimi. Scegliere di organizzare il paesaggio e il territorio secondo certi principi piuttosto che altri, da il senso dell’idea di comunità che abbiamo e quindi la dicotomia destra /sinistra non solo è attualissima, ma si manifesta con chiarezza anche in questo caso. Credo che chi si propone di governare un paese e di ridargli una dignità e un senso civico, debba porre questi temi come massima priorità nella propria agenda politica e noi, riformisti democratici, dobbiamo puntare senza indugi ad affermare che sviluppo e tutela devono andare a braccetto perché sono complementari e non alternativi. Le politiche per il governo del territorio e del paesaggio sono un grande fatto di democrazia e la tutela dei beni culturali ed ambientali possono oltre tutto essere un fattore cruciale di sviluppo culturale, civile ed economico. Siamo in una fase difficile per il nostro Paese, con una profonda crisi economica, sociale e civile, eredità di politiche liberiste disinvolte e ciniche e di un capitalismo finanziario che ha pensato a generare soldi dai soldi tradendo anche i suoi principi originari. Un modello basato sull’apparire e sul possedere che ha svilito il lavoro e la produzione, ha generato squilibri, ingiustizie e disuguaglianze; una


crisi che riguarda anche il modo di intendere i grandi beni pubblici tra i quali stanno appunto anche il paesaggio e il territorio. E allora è nostro compito dare una lettura moderna e progressista che ribalti questa impostazione e che riaffermi la centralità del lavoro, del sapere, del rispetto del territorio e dell’ambiente più in generale, non inteso come conservazione ma come utilizzo intelligente e come leva strategica per la ripresa. Se noi affermiamo, per esempio, che tra i nostri obiettivi poniamo la lotta alla rendita e le politiche di riqualificazione urbana, abbiamo detto una cosa innovativa, al contempo rispettosa della conservazione intelligente, e abbiamo anche già individuato uno dei settori sui quali puntare per far ripartire il paese. Calenzano ha fatto scelte precise in questo senso; è cresciuto, si è dotato di tante funzioni, ha riempito il suo tessuto urbano, ma ha anche deciso, con

gli adeguati strumenti di governo del territorio, di puntare proprio alla riqualificazione, al riuso, alla trasformazione e alla tutela del territorio aperto, avendo ben presente che siamo di fronte ad una risorsa scarsa e contesa. È stata fatta una riflessione complessiva su tutto il territorio, cercando di vederlo nella sua interezza, con i suoi limiti e i suoi difetti ma anche con le sue potenzialità, dando ad ogni parte una propria dignità, valorizzando le specificità in una cornice condivisa di interesse collettivo e non di soddisfazione di singoli bisogni. Abbiamo lavorato sul risparmio energetico e sulle fonti alternative decidendo di costruire un cogeneratore a biomasse che riscalda con il proprio calore molte abitazioni private e diversi edifici pubblici; abbiamo ospitato convegni, seminari e corsi di bioarchitettura non perché fosse di moda ma perché abbiamo scelto un certo percorso che è tuttora in evoluzione.

E tra le tante scelte fatte, in termini di riqualificazione, ne cito una che mi sta molto a cuore e che dà il senso di cosa Calenzano abbia deciso di diventare: ormai dieci anni fa, abbiamo scelto di ospitare la facoltà di disegno industriale dell’Università di Firenze e lo abbiamo fatto con una finalità precisa. Legare la vocazione produttiva di un territorio al sapere e all’innovazione, fare di quel luogo il punto di rilancio e di riqualificazione dell’intero centro cittadino, accanto ad altre funzioni importanti come lo studentariato e la nuova biblioteca comunale, mi pare un bel messaggio sul tipo di società e di comunità che vogliamo. Per tutto questo, sarà un onore ospitare a Calenzano, a primavera del nuovo anno, un grande momento di riflessione e di approfondimento sul paesaggio e sul territorio con grandi esperti e personalità di spessore: sarà un’occasione per continuare a crescere e per portare il nostro piccolo contributo.

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Flussi di materia, riciclo, green economy, green industry di VALERIO CARAMASSI*

La Banca d’Italia ha stimato in 5 punti percentuali il calo dei consumi delle famiglie negli ultimi quattro anni e si prevedono ulteriori cali soprattutto in rapporto all’erosione dei risparmi fino ad oggi adoperati per mantenere livelli accettabili che, comunque, stima Confcommercio, hanno fatto un balzo indietro di 14 anni tornando ai livelli del 1998. Anche i consumi alimentari (7% di tutti i consumi), che riguardano direttamente la produzione e i consumi di imballaggi, e che pure hanno avuto negli ultimi decenni un andamento anticiclico, secondo Banca Intesa/San Paolo, sono calati nel 2011 dell’1,5% (ma Federalimentare ha valutato un – 2%). Nell’anno in corso si prevede un ulteriore calo del 2%. A dicembre del 2008 il prezzo del petrolio era a 30$ al barile. Ad aprile di quest’anno lo stesso barile toccava i 130$. Prometeia valuta che fra il 2007 e il 2014 (anno in cui si prevede poco più di un punto di crescita del Pil nazionale) il reddito degli Italiani sarà tornato ai livelli del 1986. È però l’intera Europa che arranca mentre gli analisti sono concordi nel prevedere per il 2012 una crescita dell’economia mondiale del 4%. Questa percentuale non è lontana da quella registrata prima della grande crisi avviatasi con la bolla dei subprime americani nell’estate 2007. Ma è la composizione geografica che si è radicalmente modificata disassando investimenti, produzione e commerci dall’occidente (Usa, Canada e Europa) ai cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) e an-

* Valerio Caramassi. Presidente e AD Revet Spa

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che a parte dei Paesi Africani. Sopra la media mondiale viaggiano dunque non solo le economie fino a poco fa chiamate emergenti (la Cina è tornata ad accusare rallentamenti: aumenta “solo” dell’8%), ma anche quelle di Paesi come Vietnam, Etiopia, Thailandia. Al netto di tutte le considerazioni sulle economie occidentali i problemi derivati dalla rivoluzione informatica, che ha reso le transazioni finanziarie globali incontrollabili ancorché ancora prive di quelle pluriannunciate regole, ciò che si nota è che la manifattura, alla faccia delle ideologie postindustrialiste decantate per un

ventennio, determina ancora, e di più, la solidità delle singole economie. Germania in testa. Ciò a cui si assiste è “solo” una profonda ridislocazione geografica delle produzioni che determina a sua volta un altrettanto profondo disassamento dei flussi di materia che alimentano il metabolismo economico e industriale. Se i “Brics” sono definiti la fabbrica del mondo insomma, vuol dire anche che è in quei Paesi che si determinano gli utilizzi di energia e di materia incorporate nei prodotti che inondano i mercati occidentali. E dunque vuol dire che, al netto della speculazione finanziaria sulle

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commodities (materie prime, appunto), è li che la domanda di energia e di materia è in tumultuosa e confusa crescita. Ciò ha rivoluzionato, e sta rivoluzionando, insieme ai mercati anche i prezzi è il fatto che si scambiano 900 milioni di barili di petrolio al giorno mentre se ne producono 90 milioni. Mentre le transazioni finanziarie rendono evanescenti i riferimenti basati sulla domanda e sull’offerta, altrettanto non è per i flussi fisici. Questi sono ben visibili e quantificabili. Non a caso si è scatenata una vera corsa all’accaparramento strategico non solo delle cosiddette “terre rare” (materie che alimentano l’hardware delle nostre società informatizzate), ma anche delle materie classiche come rame, carbone, zinco, ecc....Per non parlare delle commodities alimentari il cui impatto con i futures provoca pericolosi sussulti nei Paesi del nordafrica. La questione delle materie prime si è fatta così acuta che persino la Commissione Europea ha redatto un documento strategico che mira a rendere governabile questo ingrediente indispensabile a qualsiasi metabolismo economico. È vero che il problema delle materie prime, rispetto a quello energetico, scorre silenziosamente e in modo inosservato dai media. Ma è anche vero che se non recupera velocemente l’attenzione dovuta (almeno l’attenzione riservata all’energia), il rischio per l’economia europea è quello di andare incontro a potentissimi fattori traumatici. Per questo il vicepresidente della Commissione Europea Tajani ha più volte indicato nel risparmio di materia e nel riciclo, insieme ovviamente a politiche strategiche di approvvigionamento, i fulcri di una nuova politica industriale. La questione riguarda, ovviamente, anche l’Italia anche se questa, sembra una maledizione, è pericolosamente in ritardo rispetto alla Germania. Anni di esasperata ed unilaterale attenzione a tutto ciò che non era industria (e con essa di svalorizzazione del lavoro manuale), insieme ad un indebolimento oltremisura dell’appa-

rato della ricerca e produttivo, hanno ridotto l’industria italiana a qualche nicchia eccellente ma senza sistema. E senza fare sistema, senza cooperare, non c’è competizione dei singoli che possa tenere. Postindustrialismo e antindustrialismo non hanno affatto prodotto una maggiore sostenibilità ambientale, bensì hanno prodotto svarioni proprio nel governo (e nel consumo) del territorio accompagnati da un indebolimento senza pari della ricerca applicata. Su questo punto, tra l’altro, non guasterebbe una riflessione anche dei movimenti ambientalisti. La crisi, paradossalmente, dovrebbe aiutare ad abbandonare vecchi schemi che hanno contrapposto industria e sostenibilita’ ambientale. E il tema delle materie prime e delle materie prime seconde può essere l’anello di congiunzione fino ad oggi negletto. Il riciclaggio non è (solo) salvaguardia e sostenibilità ambientale. Il riciclaggio è soprattutto nuova politica industriale. La green economy non è (solo) sviluppo dell’energia rinnovabile bensì è (soprattutto) sviluppo delle filiere di riciclaggio di materia. Innanzitutto di quella materia che può essere indirizzata proficuamente ad alimentare filiere di produzione sostenibile. I risultati della ricerca sul riciclaggio delle plastiche miste (plasmix) che ha visto protoganista la Revet a seguito di un accordo con la Regione Toscana e il Corepla, dimostrano innanzitutto questo. Questi risultati non sono annoverabili (solo) nel capitolo delle politiche di gestione sostenibile dei rifiuti. Rappresentano a tutti gli effetti una nuova politica industriale. Questo è comunque il salto, culturale prima e politico poi, che siamo chiamati a promuovere. Ben oltre e ben altro dunque, dalle dispute sulle modalità della raccolta differenziata. Quando si parla di arredamenti per esterni destinati agli acquisti verdi delle amministrazioni comunali; quando si parla di produzione di particolari per automotive che vengono montati sulla sui veicoli della Piaggio; quando si parla si

riutilizzo nella bioedilizia del vetro che non può essere avviato alle vetrerie; quando si parla di pannelli fonoassorbenti destinati alla ambientalizzazione delle opere stradali e autostradali; quando si parla di profilati cavi e di particolari per prefabbricati indirizzati a situazioni di protezione civile e ai campeggi; quando si parla di articoli nel settore “consumer” già presenti nel circuito commerciale della GDO, si parla di “Riprodotti in Toscana”, si parla di manifatturiero, di nuova industria, di industria sostenibile. E in questo modo, non solo si indica un virtuoso percorso pedagogico (si rivedono gli sforzi fatti per differenziare i rifiuti), ma si pratica e si inaugura appunto, una nuova fase delle politiche industriali: quella dell’industria sostenibile. La Toscana sta facendo da apripista, ma la questione è questione nazionale ed Europea, come detto. E in questa difficile contingenza economica occorre uno sforzo per mirare anche le politiche degli incentivi. Sia in rapporto alla sproporzione esistente fra cio’ che è destinato alla raccolta e ciò che è destinato al riciclo; sia fra cio’ che è destinato al recupero energetico dai rifiuti e cio’ che, invece, è destinato a favorire lo start-up dei prodotti realizzati con materie prime seconde realizzati con quelle frazioni critiche che il mercato recepisce solo come dis-valore. Proveremo a trovare sponde parlamentari più larghe di ciò che abbiamo già trovato (solo) con gli Ecodem. Ma abbiamo bisogno che l’associazionismo ambientalista, come quello industriale come quello sindacale mettano a fuoco bene questo moderno e cruciale nodo: differenziare non è riciclare; riciclare è fare industria sostenibile. Da soli non ce la possiamo fare. Facciamo un passo avanti, tutti insieme. “La società del riciclo” (come ci indica la direttiva europea) o diventa pienamente e compiutamente “economia e industria del riciclo” (come ci indica la Commissione Europea) oppure, per le frazioni critiche, rischia di rimanere rinserrata in nicchie esemplificative di scarso significato economico.

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La fine dei centri commerciali? Presto per dirlo ma nuovi modelli si fanno strada

di MAURIZIO IZZO*

* Maurizio Izzo. Responsabile comunicazione Sicrea. Direttore OpS

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Quando Turiddo Campaini ha annunciato l’abbandono del modello degli ipermercati per Unicoop Firenze ha certificato la fine di un sistema che in Italia ha avuto il suo periodo di massima diffusione attorno agli anni ’70. Un modello che l’Italia, così come l’Europa, aveva importato dagli Stati Uniti. È qui infatti che già a partire dalla prima metà degli anni ’30 (il Country Plaza di Kansas City è del 1923) nasce e si sviluppa un nuovo sistema di vendita che, noi lo scopriremo solo più tardi, si nutre di tre elementi fondamentali: la quasi assenza di pianificazione urbana e la conseguente grande disponibilità di terreni edificabili, la disponibilità (economica e culturale) delle famiglie a spostarsi in auto per fare acquisti e l’attitudine a considerare la spesa, anche alimentare, un fatto episodico. Tre elementi che in Europa e in Italia non sono mai stati troppo frequenti ma che soprattutto la crisi economica ha quasi del tutto cancellato. Nonostante questo in Italia esistono circa 1.000 centri commerciali e una discussione sulla loro attualità e funzionalità è appena iniziata. Certo il concetto stesso di “consumo del territorio” ha posto un primo stop al diffondersi di queste strutture e casi di abbandono e di ripensamento sono all’ordine del giorno anche in Toscana, l’ultimo caso riguarda proprio Unicoop Firenze che titolare di una licenza per la costruzione di un nuovo iper nel comune di Scandicci ha di fatto rinunciato, fino a che il Comune non è intervenuto revocando la licenza. Dunque niente nuovi iper, niente grandi centri commerciali, fine dei “non luoghi” come li definì Marc Augè? Presto per dirlo ma appunto il tema

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Toscana Oggi, marzo 2012

è diventato attuale. Ma cos’è oggi un centro commerciale? Il modello nel corso degli anni è rimasto fedele all’originale e nessuno degli operatori del mondo della grande distribuzione ha saputo o voluto fare sperimentazioni, così oggi come 70 o 80 anni fa in un centro commerciale troviamo un supermercato di grandi dimensioni, una serie di negozi, qualche servizio, ristoranti e bar. Grandi spazi, molta luce e il tentativo, spesso patetico, di ricostruire un ambiente il più possibile umano ispirato ai vecchi centri delle città. La piazza è per esempio immancabile nei centri commerciali ed è spesso il centro da cui si diramano i corridoi che portano ai negozi, al super, ai servizi. Da luogo del risparmio i centri commerciali sono diventati presto luogo di ritrovo e di socialità. Tutti hanno in mente la quantità di giovani, che soprattutto nelle città di medie e grandi dimensioni, si danno appuntamento per trascorrere intere giornate all’interno di un centro commerciale ma il modello ha esercitato il suo fascino anche su anziani e famiglie. Proprio questa frequentazione passiva, il luogo che attrae di per sé, ha suscitato le critiche più forti sulla natura dei centri commerciali, fino a definirli appunto luoghi asociali e alienanti, privi di identità. In occasione della liberalizzazione delle aperture domenicali la discussione si è fatta anche più accesa evidenziando il rischio che “i centri commerciali diventino luoghi in cui l’uomo contemporaneo partecipa di una cultura di massa mercificata, dominata dalla logica del profitto e innestata in un sistema in grado di generare bisogni falsi su cui non ha alcun controllo1”. Tutto questo sarebbe


probabilmente rimasto un bel dibattito culturale se la crisi economica non avesse messo in evidenza alcune delle contraddizioni insite nel modello stesso di centro commerciale, almeno per il nostro paese. Ecco che allora anche il mondo della grande distribuzione comincia a interrogarsi sul futuro di queste strutture, un’indagine apparsa di recente su una rivista specializzata parla senza mezzi termini di “morte dei centri commerciali ossia del precoce invecchiamento di quelle strutture – di solito a forma di “scatoloni” – che, atterrate sul territorio, deturpano il paesaggio, rendono la viabilità della zona un incubo e, almeno sino a un po’ di tempo fa, rappresentavano lo standard socialmente accettabile di destinazione del tempo libero e delle risorse finanziarie di giovani e anziani2. Quello che è cambiato è sotto gli occhi di tutti ed è uno degli effetti della crisi, lo shopping è sempre meno motivo di attrazione per le persone che anzi rifuggono l’impulso a comprare e pianificano con attenzione, luoghi e momenti dell’acquisto. Insieme quindi all’abbandono di un modello si pone il problema di una trasformazione delle strutture attuali. Da qui nasce l’idea e il progetto a cui Sicrea e Unicoop Firenze hanno dato vita. Un centro commerciale di medie dimensioni, quello di Ponte a Greve, tra Firenze e Scandicci dove si erano liberati circa 600 metri quadrati di superficie commerciale è la scintilla grazie a cui tutto parte. Il Centro di Ponte a Greve è uno di quelli di ultima generazione, innovativo già nelle scelte delle forme e dei materiali, frutto della collaborazione tra lo studio dell’architetto fiorentino Paolo Antonio Martini e lo studio di progettazione londinese di Chapman Taylor, leader europeo

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nel campo dell’architettura commerciale. 7.500 metri quadrati di superficie commerciale con oltre 1.200 posti auto hanno fatto di questo centro uno tra i più attrattivi della provincia di Firenze con una media di frequenze settimanali stimata intorno alle 40/45.000 presenze. La proposta che Unicoop Firenze avanza è quella di pensare a un utilizzo per quello spazio che non sia solo commerciale ma che contribuisca a portare dentro al centro attività di carattere culturale e sociale. Sicrea accetta la sfida e la condivide con sei aziende toscane tutte, a vario titolo, impegnate nel campo della comunicazione e dell’ITC. Nasce una delle prime esperienze di rete di impresa (legge n.122 del 20110) e da questa collaborazione un progetto per la realizzazione del primo centro multimediale situato dentro a un centro commerciale, con servizi di caffetteria, un bistrot e una libreria. È uno spazio nuovo nella concezione in cui le due attività di tipo commerciale, il bistrot e la libreria, si integrano perfettamente con le attività di comunicazione. OpS è il nome del centro aperto alla fine di giugno, acronimo di Open Space, lo spazio molto aperto come recita il claim pubblicitario. Aperto perché tutti gli spazi sono condivisi, perché l’ingresso a OpS è anche uno degli ingressi al centro commerciale ma anche perché tutte le attività si svolgono davanti al pubblico, sotto gli occhi di chi venuto a fare la spesa si trova coinvolto in dibattiti, presentazioni, degustazione e quant’altro. Cuore di OpS è l’auditorium. Lo studio SAA, che ha realizzato il progetto, lo ha pensato come una struttura che interagisce con il centro commerciale mettendo in relazione i cittadini con la politica, la cultura, l’intrattenimento e la comunicazione. Una piazza

multimediale: studio televisivo e radiofonico, set per la produzione di programmi, sede di incontri e dibattiti, la casa dei food show e delle presentazioni di prodotti gastronomici e non. L’auditorium è sempre on line, collegato con i maxi schermi dentro al centro commerciale, sul canale web del centro, sul digitale terrestre. Qui già in queste prime settimane si sono svolti incontri e presentazioni a cui hanno partecipato centinaia di persone che vanno ad aggiungersi a quelle che hanno potuto seguire l’evento in tv o sul computer. Le principali emittenti radio televisive sono partner di OpS e da qui realizzano propri programmi o usufruiscono delle opportunità date dalla struttura trasmettendo in diretta quanto succede tra le mura di Ponte a Greve. Lo spazio offre anche una straordinaria opportunità di comunicazione alle aziende, che qui trovano una vetrina di presentazione per i propri prodotti e servizi potendo contare sulla straordinaria affluenza al centro commerciale. Una particolare attenzione è dedicata al rapporto con le aziende toscane dell’agroalimentare che a OpS hanno trovato la possibilità di rivolgersi contemporaneamente a un pubblico reale, quello che ogni giorni fa la spesa al supermercato, insieme a quello virtuale dei media collegati. Ora a Ponte a Greve si può andare a fare la spesa, passare dalla farmacia o dall’ufficio postale, ma anche essere coinvolti in un dibattito, partecipare a una degustazione, essere protagonisti di un programma televisivo. Ma anche semplicemente bere un caffè mentre sui monitor scorrono immagini e informazioni. Non sarà la fine “dei non luoghi” ma OpS un’identità all’interno di un centro commerciale la sta cercando.

Re.d, divisione di M&T specializzata nel concepting e nel design di spazi commerciali e pubblici.

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l’Economia delle città Commento a un’esperienza comune

di MARTA LEONORI*

L’economia delle città e lo sviluppo territoriale definiranno la possibile strada per la crescita futura dell’Italia. La rapida urbanizzazione che il nostro paese e l’intera Europa hanno conosciuto, caratterizzata da una concentrazione della popolazione che potrebbe portare la percentuale della popolazione urbana sul totale di quella mondiale al 70% entro il 2050, ci spinge a riflettere su quale sarà l’impatto che questo progressivo e accelerato inurbamento produrrà sul territorio e sul paesaggio, sul sistema economico-industriale e sull’occupazione. La qualità delle politiche per lo sviluppo urbano diventa perciò decisiva per la definizione del futuro che vogliamo immaginare per il paese. Tali politiche necessitano, ora più che mai, di azioni coerenti e di forti sinergie, della definizione, insomma, di un’agenda compiuta, che permetta di superare l’episodicità degli interventi che abbiamo conosciuto finora. È un auspicio, questo, cui si fa riferimento anche nei documenti della Commissione europea relativi alla Politica di coesione comunitaria per il periodo 2014-20, in cui si invitano i paesi membri a dotarsi di programmi e strategie di sviluppo urbano integrati e ambiziosi. In questo campo, nell’ultimo periodo, l’Italia ha fatto grandi passi avanti – dalla definizione del Piano per le città all’istituzione del Comitato interministeriale per le politiche urbane –, non si è però riuscito ancora a porre rimedio al carattere estremamente frammentario delle misure adottate. Positiva è, in tal senso, la funzione di coordinamento e concertazione delle politiche urbane attribuita al Comitato presieduto dal ministro Barca.

Allo stesso tempo, dopo le riforme degli enti locali approvate negli anni Novanta, è forse arrivato il momento di avviare una nuova stagione di riforme che si interroghino sul ruolo che hanno oggi le città e sulle responsabilità politiche e amministrative di chi è chiamato a guidarle, e che incentivino la promozione e lo sviluppo di reti tra città. In sintesi, è necessario mettere a sistema le migliori esperienze presenti nel nostro paese e avviare una nuova stagione di riformismo urbano. Nella ridefinizione delle politiche urbane bisogna trovare quel coraggio che non si è avuto con le Regioni, oggetto in questi giorni di decreti ministeriali che tentano di ridisegnarne ruolo e funzionamento. Occorre un’azione di riforma che risponda all’esigenza di mettere a sistema e coordinare, di aggiornare e di razionalizzare la disciplina urbanistica, ma che richieda allo stesso tempo un’alta dose di innovazione, così come è avvenuto negli anni Novanta. Quella spinta si è oggi esaurita, anche a causa di una perdurante crisi economica che impone una razionalizzazione delle risorse, ma anche una diversa organizzazione degli aspetti fiscali e un riequilibrio e una ridefinizione delle priorità. Le città devono avere la capacità di adattarsi e trasformarsi anche per rispondere alle esigenze sociali e collettive. Costituiscono infatti il principale elemento di prossimità delle istituzioni con i cittadini. Per questo possono essere uno spazio privilegiato di analisi e osservazione dei cambiamenti sociali, ma devono essere anche in grado di rispondere alle mutate esigenze della popolazione. Sulla base di queste riflessioni, la Fondazione Italianieuropei, il Centro per la Riforma dello Stato e

* Marta Leonori. Direttrice Fondazione Italianieuropei

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l’Associazione Romano Viviani hanno costituito un osservatorio che ha visto la partecipazione di accademici, urbanisti, ricercatori, rappresentanti di associazioni e centri di ricerca, professionisti, politici e amministratori locali. Obiettivo dell’osservatorio, che attraverso numerosi appuntamenti seminariali ha elaborato dossier di documentazione e approfondimenti, è quello di costruire un’opportunità di riflessione e di proposta sul tema della rendita e dell’economia urbana, partendo da un’analisi della situazione attuale e degli strumenti legislativi e di regolamentazione in vigore, per definire nuovi progetti di crescita e sviluppo urbano. In questo contesto si inserisce il convegno nazionale, che si è tenuto a Roma il 15 ottobre scorso, organizzato da Italianieuropei, CRS e Associazione Viviani a partire dai contributi pubblicati nella rubrica dedicata allo sviluppo delle città, apparsa sul numero di settembre della rivista “Italianieuropei”. Consapevoli che esiste un deficit di politiche per le città, ben rilevabile nelle agende politiche e di governo, il lavoro che abbiamo intrapreso ha voluto riportare nel dibattito pubblico il tema dell’economia urbana, approfondendo in particolare tre aspetti considerati prioritari. In primo luogo, gli strumenti per combattere la rendita, come gli oneri di urbanizzazione e il fisco. Oneri di urbanizzazione primaria, oneri di urbanizzazione secondaria e contributo sul costo di costruzione costituiscono i principali elementi del sistema contributivo definito negli anni Settanta. Da allora sono radicalmente cambiate le esigenze delle città e le caratteristiche tecnologiche delle opere di urbanizzazione, e conseguentemente sono cambiati anche i loro costi. Il sistema contributivo va quindi reso ora coerente con le dotazioni territoriali di cui le città necessitano e il suo impiego va vincolato

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alla loro realizzazione e manutenzione. I Comuni, al fine di contrastare il dilagante consumo di suolo, sono chiamati ad applicare un “contributo di sostenibilità”agli interventi edilizi effettuati su terreni di nuova edificazione. Un contributo che i Comuni potranno impiegare per effettuare investimenti nella riqualificazione urbana e compensando i greenfields consumati con nuovi spazi da creare nella città riqualificata. I proventi di questi contributi e imposte potranno essere impiegati dai Comuni per finanziare la riqualificazione delle infrastrutture e delle attrezzature pubbliche negli ambiti di rigenerazione urbana. Il secondo argomento approfondito è quello del consumo di suolo, affrontato nel nostro paese con un certo ritardo rispetto alle altre realtà europee e recentemente oggetto di un decreto del governo. Per ragionare su questo tema bisogna partire dalla considerazione – tanto evidente quanto fondamentale – che il suolo è una risorsa naturale finita. Il suo consumo, d’altra parte, non è stato oggetto di reali e invariate limitazioni. Sull’edificabilità delle aree libere è stata al contrario esercitata un’ampia discrezionalità, essendo fonte di entrate per gli enti locali. È necessario oggi creare un sistema di principi che permettano di evitare un consumo di suolo che ecceda comprovati fabbisogni. Il tema del consumo di suolo, inoltre, riguarda insieme diversi piani: quello urbanistico, quello dei vincoli ambientali e paesaggistici e quello della proprietà fondiaria. È necessario, a tale proposito, scegliere le priorità di governo del fenomeno tra una riforma generale di principio e una manovra articolata che si affidi agli strumenti (in prevalenza di pianificazione) oggi esistenti. È poi necessario fornire, a livello legislativo nazionale,

le definizioni di consumo di suolo, di suolo consumato e di suolo libero, e fare in modo che vengano utilizzati al meglio gli strumenti dei quali le singole amministrazioni già ora dispongono. Infine, l’osservatorio ha approfondito le diverse ipotesi di dismissione del demanio pubblico e di trasformazione immobiliare. La politica si è occupata spesso, negli ultimi anni, del legame tra patrimonio immobiliare pubblico e debito pubblico, attraverso le privatizzazioni delle attività industriali pubbliche, le cartolarizzazioni del patrimonio immobiliare degli enti pubblici e infine, di recente, tentando di ridurre il debito vendendo parte del patrimonio immobiliare dello Stato. Privatizzazioni e cartolarizzazioni non hanno però prodotto sempre gli effetti sperati. Ogni ipotesi di dismissione del patrimonio immobiliare pubblico non può però prescindere da una riflessione sulle città e sulle modalità di gestione degli strumenti della pianificazione. Negli ultimi anni, caratterizzati da una progressiva diminuzione dei trasferimenti diretti agli enti locali, con il federalismo demaniale si è tentato di trasferire a questi ultimi i beni immobili di proprietà dello Stato e di affidarne a questi la valorizzazione. Tali politiche hanno risposto prevalentemente a una logica finanziaria, a cui va però affiancata una altrettanto incisiva logica urbanistica, che preveda una effettiva valorizzazione dei beni, senza dover necessariamente procedere sempre all’alienazione del patrimonio pubblico. L’apporto per le casse pubbliche delle risorse economiche così recuperate, inoltre, potrebbe avvenire sia attraverso la messa a valore dei cespiti, che attraverso le ricadute fiscali e i tributi conseguenti alle attività economiche di trasformazione attivate.

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Recensione del libro “Falce e Tortello” di Anna Tonelli

di ANDREA VIGNOZZI*

* Andrea Vignozzi. Studente in Scienze Politiche, Firenze

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Il libro di Anna Tonelli, Falce e tortello - storia politica e sociale delle Feste dell’Unità (Ed. Laterza, 2012), fin dalla copertina, presenta una serie di istantanee della storia del Partito Comunista Italiano: delle energie che riusciva a liberare e del suo ruolo nella società, un ruolo che si esplicava nelle attività amministrative degli enti locali, delle regioni, nelle sezioni, nelle federazioni. E che si viveva, un po’, anche nelle feste. Dalle “scampagnate” alla Festa Democratica della Fortezza del 2008, passando per il periodo del gigantismo e del sorpasso. Si inizia nel 1945, con la scampagnata di Mariano Comense. Ma andiamo con ordine. Partiamo dal 25 Luglio del 1943, ldalla fine del governo fascista e dall’arresto di Mussolini. Si tratta di un momento di felicità dopo vent’anni di oppressione e il PCI bolognese, per viverlo al meglio, decide di organizzare un grande ballo di piazza. Poco importa se c’è il coprifuoco, bisogna festeggiare,e lo si fa ballando. Ci sono poi gli anni bui dell’occupazione nazista e la resistenza. Dopo il buio, però, sorge sempre il sole, e con la Liberazione e il 25 Aprile nasce la necessità di rimarcare una presenza. Prendendo spunto dalle feste organizzate dai comunisti francesi, le feste “de l’humanité”, si inizia ad organizzare una festa a Mariano Comense. Per non chiamarle feste del PCI, si sceglie il nome del giornale di partito:”L’Unità”. Le prime sono feste di popolo; non c’è, nel programma, l’intervento politico, semplicemente si festeggia. Fino al 1948. Quando Pallante spara a Togliatti e il “Migliore” chiude, una volta ristabilitosi, la festa ai Fori Imperiali. Un comizio potente, forte, i cui echi si sentono ancora oggi. Gli anni ‘50 e ‘60 sono gli anni del boom e anche le feste

si adeguano: iniziano ad apparire i primi stand commerciali. La festa diventa occasione per farsi riconoscere quale forza politica in grado di governare; diviene una dimostrazione di capacità organizzative. Questi sono anche gli anni in cui i comunisti devono lottare per poter fare la festa, così la professoressa Tonelli disegna magistralmente il profilo del “compagno che lavora”, del tesserato che chiede le ferie per andare ad occuparsi del “villaggio”: scene di una vitalità e di una passione che spesso, anche oggi, rimangono sotto traccia. Nel 1964 muore Palmiro Togliatti e gli sussegue alla segreteria Luigi Longo, il comandante “Gallo”. Sono anni in cui il partito esprime un iscritto ogni suoi tre votanti. L’apice di socializzazione politica di quegli anni, però, è il 1968 con l’avvento alla politica di una generazione nuova, il “movimento studentesco”. Sono anni di scontro e di acutizzazione del dibattito politico, e qui Longo compie un capolavoro. Mentre il movimento viene quantomeno ignorato dai “partiti fratelli”, il PCI riesce a distinguersi, condannando l’intervento sovietico in Cecoslovacchia e riuscendo così a catalizzare attorno a sé i “capelloni”, i dirigenti che poi riusciranno nel loro compito storico, portare la sinistra al governo, con il governo D’Alema del 1998. Con l’arrivo di questa generazioni arrivano anche gli anni del boom elettorale, con la grande tornata delle amministrative e delle regionali nel 1975 e con il mancato sorpasso del 1976, segnato dall’invito di Montanelli a “turarsi il naso e votare DC”. Nel 1972, intanto, Longo lascia la segreteria e diventa Presidente del Partito. Gli sussegue alla guida dei comunisti italiani Enrico Berlinguer.


Sono gli anni di piombo, gli anni del terrorismo e del grande fallimento della solidarietà nazionale, ma sono anche anni di grande vitalità per il comunismo italiano. Forte è la contestazione contro il Vietnam e alle feste risuonano le canzoni di denuncia, scritte da cantautori ormai noti come Gianni Morandi. E crescono anche i numeri: a Firenze si arriva a 300 feste nel 1974. Ma non solo numericamente: anche le feste nazionali diventano sempre più grandi, in modo direttamente proporzionale ai risultati elettorali. La festa delle Cascine, del 1975, serva da esempio: qualità politico-culturale altissima, con risultati economici negativi, un circolo destinato a proseguire con la festa del 1988 a Campi e che, al momento della svolta, porterà ad una situazione critica le casse della federazione. Si arriva agli anni ‘80, e finalmente, alle elezioni europee, il PCI diventa il primo partito. Ma il segretario più amato è tragicamente scomparso, colpito da ictus durante un comizio a Padova, ed è sostituito da Natta. Sono anni interessanti, in cui la sinistra arretra in tutto il resto del mondo, in Inghilterra governa la Tatcher

e negli USA Ronald Reagan. In Italia, però, le feste si istituzionalizzano, assumono i caratteri, come riporta una relazione di Fabio Mussi, di un “fenomeno di massa”, diventano sempre di più e sempre più lunghe. E la festa sale agli onori, diventando un mezzo per tenere sempre una “connessione sentimentale” con la società, inserendo sempre più contenuti politico-culturali. Fanno il loro debutto le feste tematiche nazionali. E così si arriva alla svolta della Bolognina. La più grande rottura nella storia della sinistra italiana trova un unico punto di continuità nelle feste, che si confermano nelle loro roccaforti storiche, in particolare l’Emilia. Nasce il PD e le feste cambiano nome. Non tutte,ma molte lo cambiano, e diventano Feste Democratiche. La prima festa nazionale è alla Fortezza di Firenze. Esaminata dalla professoressa Tonelli sulla base delle statistiche raccolte in base ai sondaggi che richiese allora il PD, si rende evidente anche sul lato dell’analisi una perdita rispetto alle feste dei decenni precedenti, si manifesta quasi una nuova forma di “gigantismo” del lato commerciale. Una festa

insostenibile, che porta ad una versione aggiornata delle Cascine che, ancora oggi, fa vivere un parco nel cuore della città per venti giorni sul finire dell’estate. Si sta parlando, insomma, di un libro che fornisce numerosi spunti interessanti per analizzare le feste e che, per ovvi motivi, può soltanto abbozzare caratteristiche comuni, ma che sarebbe interessantissimo andare a ricercare nelle migliaia di feste sul territorio, per comprendere e capire il fenomeno di massa che è ormai diventata la “Festa de l’Unità”. Un esempio per tutti: mi sono capitati sotto mano i dati della Festa de l’Unità di Legri, a Calenzano. Più di 500 volontari in un mese, 100000 visitatori, oltre 100 iniziative musicali, culturali, politiche, 25000,00 € di utili destinati ad associazioni di volontariato del luogo. Eccole qua, le feste. Un importante momento di elaborazione di un progetto collettivo, ma un’occasione anche per un territorio per riuscire a ritrovare la sua anima più vera, fatta di associazioni, corpi intermedi, relazioni sociali. La festa come spaccato della società, a disposizione di una forza politica che la opera e la plasma.

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Post keynesiani Abbiamo scelto questa volta uno degli innumerevoli posts che Krugman pubblica quotidianamente sul suo blog. Il tema è l’Europa – le origini della crisi dell’euro - e, a parte l’attenzione agli atti nel nuovo Presidente della BCE, argomenti simili si trovano con più ampiezza al capitolo 10 del suo ultimo libro (“Fuori da questa crisi, adesso!”), in un piccolo saggio del gennaio del 2011 scritto per Times Magazine (“Can Europe be saved?”) nonché in vari articoli che la Fondazione Romano Viviani regolarmente invia per posta elettronica a molti di voi. Non sono, dunque, novità. Ciononostante, lo proponiamo per ragionare di noi. Partendo da una domanda: abbiamo mai letto altrove, in questi anni, che il disastro europeo ha le radici in una crisi sul lato della bilancia dei pagamenti? Non intendo improvvisare un ragionamento di teoria economica per il quale non avrei strumenti sufficienti. Intendo pormi una domanda politica, per la quale, forse, si possono maneggiare strumenti più semplici.

di MARCO MARCUCCI Io direi che talora è capitato di sentir dire che, negli anni nei quali l’euro sembrava procedere a vele spiegate, dietro bolle immobiliari come quella spagnola c’erano, in buona misura, i capitali tedeschi. Ma dal dire questo al ricostruire le gravissime difficoltà dell’euro come conseguenza di uno squilibrio nel conti correnti tra centro periferia, ce ne corre. Il realtà il pensiero unico che abbiamo avuto a disposizione ci ha raccontato che tutta la spiegazione consisteva nei debiti, anche se paesi come la Spagna e l’Irlanda avevano addirittura avanzi di amministrazione e l’Italia stessa aveva deficit calanti. E, prima della crisi del 2008, il ‘pensiero unico’ ci diceva semplicemente che l’euro era stato un grande affare. In fondo i nostri titoli sul debito venivano trattati allo stesso modo di quelli tedeschi, si godeva di uno ‘spread’ alla rovescia. Qua si pone un primo problema. La spiegazione tedesca alla crisi, semplicemente, fa a cazzotti con

molti dati di fatto. Il complesso dei paesi in difficoltà (i GIPSI) aveva nel 1999 un rapporto debito/ PIL quasi del 90 per cento, nel 2007 era sceso al 75 per cento. Se, con la crisi, quel rapporto è tornato a schizzare in alto, è difficile evitare di pensare che le cause siano state altre. E le altre cause non sembrano affatto misteriose: semplicemente la crisi ha lasciato scoperti tutti coloro che si erano avvantaggiati dell’euro, i flussi di capitali dal centro si sono bloccati, quegli affari sono finiti e le bolle sono scoppiate, in questo si è inserito il meccanismo speculativo della scommessa sui paesi più deboli; da lì la loro recessione ed un rapporto debito/ PIL più grave di mese in mese. Ora, se tutto questo lo si continua a spiegare unicamente in termini di debito, significa che si ha una determinata idea dell’Europa. Una Europa, direbbe Krugman, che “calza” solo sui più forti: liberi di fare affari nei momenti buoni e liberi di fare la morale in quelli cattivi. Si badi: è una idea fortissima e non del tutto priva di una sua appa-

Aggiornamento sull’euro: I pericoli di una sofferenza senza scopo. Dal blog di Paul Krugman, 26 settembre 2012 è come se vivessi in un città con la sindrome da fuso orario1, il che significa che è tempo che torni ad occuparmi dell’euro (mi ero piuttosto concentrato sulle elezioni americane, dato che, dopo tutto, è il mio paese; ma continuando con un occhio a seguire l’altra parte dello stagno). La storia di fondo della crisi dell’euro rimane la stessa: è essenzialmente una crisi da bilancia di pagamenti, male interpretata come crisi fiscale, e la domanda chiave è se la svalutazione interna possa effettivamente funzionare. Cosa sto dicendo? Ebbene, si: le radici della crisi dell’euro non stanno nella dissolutezza dei Governi ma in vasti flussi di capitali dal centro (soprattutto dalla Germania) alla periferia durante gli anni buoni. Questi flussi di capitali hanno acceso un boom nella periferia, facendo crescere bruscamente salari e prezzi nei paesi GIPSI rispetto alla Germania:

“Jet lag city” è anche il nome di una canzone famosa. Il “Long term refinancing operation” (LTRO) o piano di rifinanziamento a lungo termine consiste in interventi finanziari effettuati dalla Bce guidata da Mario Draghi a seguito dell’inizio della crisi del debito sovrano dei paesi europei. Tale operazione può essere riconducibile alle operazioni di quantitative easing effettuate dalla Fed.

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rente ‘eticità’; si può ben capire perché e quanto sia diffusa in Germania. Ciononostante, è un’idea che trascura un aspetto. Con la nascita dell’euro, l’Europa ha cominciato a diventare altro. Avere una moneta unica ed assieme politiche finanziarie pubbliche completamente distinte, avere squilibri e non avere gli strumenti per governarli, significa prima o poi mettere a rischio la moneta unica. Perché i forti sono liberi di far tutto, mentre i deboli non sono più liberi di svalutare. Il rimedio della cosiddetta “svalutazione interna”, ovvero di una deflazione che non si avvale della svalutazione delle monete nazionali, assomiglia un po’ ad una situazione di questo genere: è come se si desse un passaggio in macchina a dei passanti, si facesse grande amicizia e, una volta deciso di mettersi assieme e di condividere la sorte, dopo una buona partenza, in una notte freddina li si lasciasse a piedi nei campi, peraltro invitandoli a praticare il rimedio di una dolorosa autocritica. Ma quei pellegrini potevano, in passato, decidere di non avventurarsi in zone perigliose o di farlo con qualche precauzione. Ora, non più. Il fatto che la reciprocità si fosse rotta sul lato dei più deboli, per mesi ed anni è stato taciuto. C’è voluto che la Banca d’Italia, settimane fa, spie-

gasse che il nostro spread naturale non avrebbe superato i 200 punti, per cominciare timidamente a parlarne. Dunque, abbiamo trascurato di raccontare la cosa più importante, ed abbiamo contribuito a rendere la crisi illeggibile. Nello stesso modo si è taciuto che una austerità che non porti altro che una diminuzione della domanda pubblica, non può che aggravare la crisi. Più o meno tutti, implicitamente o esplicitamente, hanno fatto propria l’idea che Krugman definisce della “fata turchina della fiducia”; ovvero che la chiave di tutto sarebbe stata la fiducia di investitori, appagati dalla disponibilità a soffrire dei paesi in crisi. Ed anche qua, per dire così, battiamo la testa in uno scoglio simile: è evidente che non si sono fatte avanti fate turchine, è evidente che economicamente era un nonsenso. Non è evidente solo nel caso della Spagna; ad esempio è chiarissimo nel caso dell’Inghilterra, dove pure la crisi ha ormai una durata maggiore di quella degli anni Trenta. Nel caso nostro, l’unica attenuante era che, in qualche modo, dovevamo pagare il prezzo dell’essere finiti fuori gioco per effetto delle comiche berlusconiane. Eppure, se la domanda globale si riduce, se l’austerità

Poi la musica si è interrotta. La combinazione di economie periferiche profondamente depresse (il che significa deficit di bilancio in salita) e di paure di un collasso dell’euro si è risolta in un attacco ai bonds degli stati periferici. Ma alla radice resta il problema della bilancia dei pagamenti. Ed ogni soluzione non può non includere il rimettere costi e prezzi in linea. Questo è il contesto nel quale si devono osservare gli atti di Mario Draghi. In due occasioni, sinora – la prima con il LTRO2 dello scorso autunno, poi con il programma per acquistare debito sovrano, egli si è mosso per limitare i rendimenti fuori controllo dei bonds, cortocircuitando una possibile “spirale finanziaria fatale” di prezzi dei bonds in caduta, collassi bancari e vertiginose fughe di capitali. Ed ecco i rendimenti dei bonds (medie mensili, con i dati più recenti che si fermano a settembre).

non viene subito spesa in investimenti diversi, la crisi è maggiore. Ebbene, Krugman è un potente incentivo a ragionare della debolezza di questa nostra condizione politica. In America sembra oggi tutt’altro che un predicatore isolato. Nel 2009 protestò con energia contro la debolezza dello “stimulus” obamiano, poi gli hanno dato ragione quasi tutti. Per mesi ha chiesto una politica monetaria più audace alla Federal Reserve, giorni fa Bernanke ha annunciato una svolta. Verso Jean-Claude Trichet espresse critiche feroci; oggi è nelle condizioni di osservare che Draghi sembra “aver capito tutto”. Il punto è che questo economista-giornalistapolitico americano ci spinge a misurarci con un approccio organico e costruito con tenacia, nel quale un po’ alla volta teoria economica e fatti finiscono con disporsi in modo persuasivo. Più o meno questa è l’impressione che si trae dai veri pezzi del suo ragionamento: che si tratti della crisi europea, di quella americana, del fenomeno più generale delle cosiddette “trappole di liquidità” o dell’andamento dei tassi di interesse e dell’inflazione. Alla fine dei conti, si ha la netta sensazione che se il ‘racconto’ non è quello giusto, è il rapporto con la realtà che si logora.

Un buon risultato, dal suo punto di vista. Ma c’è ancora bisogno di “svalutazione interna”: una caduta considerevole dei prezzi e dei costi in rapporto al centro (ovvero, alla Germania). E questo è un processo lento e penoso. Cosa ha a che fare l’austerità con questa storia? In gran parte, non ha niente che fare. Eliminare in via straordinaria due punti di deficit strutturale produrrà una modesta differenza nella solvibilità di lungo periodo, e non accelererà granché il passo della svalutazione interna. Tuttavia deprimerà l’occupazione ancora maggiormente e provocherà peraltro una quantità di sofferenze dirette attraverso tagli ai programmi sociali. Perché farlo, dunque? In parte perché l’Europa è ancora alle prese con la falsa teoria secondo la quale si tratta fondamentalmente di una crisi fiscale; in parte per rassicurare i tedeschi, che restano convinti che quei vagabondi degli europei del Sud se la stiano cavando con poco. In effetti, è una politica del farsi male per il gusto di farsi male. Il che ci riporta alla domanda: può andare avanti in questo modo? Può andare avanti così, nel momento in cui i popoli delle economie in sofferenza dicono di non poterne più? Le notizie dalla Spagna, con le ampie proteste e le voci di secessione, ci dicono che questo momento può avvicinarsi rapidamente. Per di più, se la Grecia da un po’ sembra non essere più l’epicentro, anche là le cose sembrano vice al collasso. Io penso che Draghi abbia davvero agito benissimo. Ma non può fare il lavoro delle svalutazioni interne per suo conto, e non può salvare l’Europa se i suoi dirigenti pensano che farsi del male gratuitamente sia una politica salutare.

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L’Associazione Romano Viviani si propone come un punto di riferimento per tutte le professionalità e i saperi legati alle tematiche del governo del territorio e dello sviluppo locale. Costituita avendo come riferimento la straordinaria eredità culturale e morale di Romano Viviani, essa si colloca nell’area politica e culturale della sinistra laica e riformista, senza tuttavia negarsi a feconde contaminazioni laddove sia possibile dialogare sulle cose con altre sensibilità politico-culturali. Per raggiungere i propri obiettivi culturali, l’Associazione Romano Viviani promuove – in autonomia, o in collaborazione con altre entità pubbliche e private – iniziative di studio, ricerca e formazione. In particolare, l’Associazione Romano Viviani si popone di: • promuovere, organizzare, fi nanziare, patrocinare conferenze, seminari, convegni, congresi, tavole rotonde, incontri ed altre analoghe iniziative di dibattito pubblico inerenti lo scopo sociale; • istituire borse di studio e premi; • curare e produrre pubblicazioni periodiche e monografi che, materiali informativi, supporti multimediali; • promuovere indagini scientifi che e ricerche applicate; • organizzare e sostenere attività di formazione; • promuovere o partecipare alle attività, all’organizzazione e alla costituzione di associazioni che abbiano scopi identici o analoghi a quelli fi ssati nello statuto dell’associazione. Attraverso la propria attività, l’Associazione Romano Viviani persegue la diff usione di uno spirito consapevole e responsabile nella gestione dei processi territoriali, improntato alla ricerca di uno sviluppo coordinato con l’idea di Territorio Capace, e agendo accortamente attraverso la gestione del mix limitiopportunità. Tentiamo di aggregare intelligenze e competenze, di dare spazio soprattutto alle passioni dei più giovani. Nell’Associazione lavora un gruppo crescente di ragazzi a cui interessa la promozione e il dibattito delle idee. Tutte le attività dell’Associazione sono portate avanti da volontari e sono fi nanziate attraverso le quote associative. Per promuovere le iniziative cerchiamo sponsorizzazioni ad hoc. Sul sito internet, www.associazioneviviani.org, è possibile trovare la richiesta di adesione all’Associazione Romano Viviani, oltre alle informazioni sulle iniziative in programma e su quelle già svolte. Nei prossimi numeri della rivista pubblicheremo il lavoro sull’Archivio di Romano Viviano. Da qui ci poniamo, quindi, un nuovo obiettivo che vedrà un riassetto anche nell’organizzazione e che avrà nella rivista uno stimolo anche maggiore partendo dal titolo Scelte Pubbliche. 38


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