Storia dell'arte ok

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ALICE TARTAGLIA

STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA



Storia ed eventi del dopoguerra in Europa . . . . . . . pag 4

2

Diffusione dell’informale in Europa . . . . . . . . . . . . . . pag 16

3

Autori e opere emblematiche. . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 20

4

Prestiti da altre culture . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 26

5

L’informale in America. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 30

6

America potenza del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 34

7

Esponenti del movimento. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 40

8

Pittura ad inchiostro giapponese . . . . . . . . . . . . . . pag 48

9

Gli Indiani d’America . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 50

10

Storia ed eventi in Cina. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 54

11

Il verismo socialista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 58

12

Autori ed opere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 60

13

Pittura tradizionale cinese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 66

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La nascita dell’Happening . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag 70

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Il gruppo Gutai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag 74

16

La fusione fra astrattismo e surrealismo . . . . . . . . pag 84

17

Tradizioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 86

18

Storia ed eventi del Giappone . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag 88

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Approfondimento: intervista a Shimamoto . . . . . .pag 94

INDICE

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STORIA ED EVENTI DEL DOPOGUERRA

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La seconda guerra mondiale chiudeva un’epoca di conflitti che diversi storici hanno definito come la “Guerra dei Trent’anni del Novecento”. Le notevoli perdite umane e le devastazioni subite, sia dalla Germania e dall’Italia che dai paesi alleati, aprirono in Europa, nell’immediato dopoguerra, uno scenario di distruzione senza precedenti nella storia. Uno scenario che comprendeva tuttavia anche dei cambiamenti epocali: la scomparsa definitiva dell’antico regime (ma non per tutta l’Europa) e l’avvio di un nuovo corso storico democratico. Almeno per quelle nazioni che avevano già conosciuto la secolarizzazione che aveva prodotto l’impressionante sviluppo economico e scientifico del secolo scorso, che si basava sul dinamismo di una cultura protestante. Le nazioni, invece, ancora oppresse da poteri interni forti costituivano per la maggior parte l’Europa mediterranea, tra cui l’Italia. Per queste ragioni, nell’immediato dopoguerra si accentua il divario tra l’Europa del Nord e quella del Sud. Ma la devastazione apportata dalla guerra, e dall’uso indiscriminato della nuova tecnologia nucleare, fece crescere col tempo crescere la consapevolezza della necessità di contrastare l’accentramento del potere, e dunque la necessaria nascita di una nuova Europa, libera dall’asservimento a un potere forte. Al contrario nel primo dopoguerra prevalse la diffidenza verso quei paesi che si erano resi maggiormente responsabili dell’inizio del conflitto, e si ritenne opportuno imporre determinate misure cautelari e di controllo da parte dei due paesi che uscirono rafforzati dall’indebolimento dei paesi europei: la Russia e l’America, che si spartirono l’Europa stessa in due grandi blocchi. Un blocco occidentale liberale, sotto l’egida degli Stati Uniti, mentre il lato orientale dell’Europa restò sotto il controllo dell’URSS. L’Europa mediterranea si schierò senza riserve dalla parte del blocco americano, doveva ancora crescere la presa di coscienza della necessità di un’Europa unita, che evolverà nel corso della seconda metà del Novecento, vediamone gli antefatti. Il nuovo liberalismo democratico apriva la ricostruzione e l’avvio anche di una nuova fase economica, che in tutto l’Occidente si svolse per quasi trent’anni all’insegna di una rinnovata crescita straordinaria della produzione e dei consumi. Da molti studiosi tale periodo venne definito come “l’età dell’oro” del capitalismo. Beni di consumo come l’automobile, la televisione e il frigorifero divennero oggetti di uso quotidiano e cambiarono la vita delle famiglie. Anche l’assetto mondiale cambiò completamente. L’Europa perse l’egemonia politica a favore di due superpotenze extraeuropee: l’U.S.A. e l’U.R.S.S., che si spartirono il mondo dividendolo in zone sottostanti alle due diverse sfere d’influenza politica. L’egemonia delle due superpotenze non si limitava, infatti, come era sempre accaduto in passato al loro predominio militare, ma consisteva anche in un’affiliazione a modelli politicoistituzionali ed economici, richiesta implicitamente a quei paesi che sceglievano di schierarsi. In sostanza era una scelta di un’idea ben precisa di società e del suo modello istituzionale: o quello liberista e democratico americano; o quello comunista, ma con una struttura centralizzata come quello della Russia sovietica. Così l’età dell’oro del capitalismo correva su un filo del rasoio, sempre in attesa di essere sovvertita dal suo modello contrario. E cospicui proventi della super produzione di massa venivano immolati per una corsa ad armarsi da parte delle due superpotenze, coadiuvate dai paesi affiliati, nell’esternazione di una vera e propria guerra fredda che colpiva la tranquillità quotidiana e accendeva diverse tensioni, ansie e malcontenti. Anche geograficamente l’Europa si ritrovò divisa in due, dopo diverse tensioni protratte 4


per circa tre anni e che portarono al limite dello scoppio di un altro conflitto. Nell’aprile del 49 con il Patto Atlantico si sancì il nuovo assetto europeo: da una parte i paesi slavi e balcanici, dall’altra i paesi latini e anglosassoni. La Germania venne spartita in due aree geografiche distinte: La Germania dell’Est e La Germania dell’Ovest, con tante ripercussioni che si faranno sentire nel corso degli anni futuri e ancora nell’attuale, sia demograficheetniche che culturali. A proposito dell’aspetto demografico, il nuovo corso economico produsse una grande incentivazione demografica nell’immediato dopoguerra. La popolazione ben presto assistette a quello che venne definito un vero e proprio baby-boom, che ebbe il suo apice nei paesi sotto l’influenza americana e soprattutto all’inizio degli anni 60. La babyboom generation negli anni successivi causò, grazie al proprio numero, la congestione delle strutture formative e produttive destinate ad accoglierla, e le tensioni sociali si riaccesero, causando la fine dell’epoca del benessere. Ma questa fase storica si analizzerà nei capitoli dedicati agli anni 70. Tornando all’immediato dopoguerra l’incremento economico interessò soprattutto i paesi della sfera d’influenza americana. Come si è detto si parlò di un vero e proprio miracolo economico, reso possibile da un elevato livello di cooperazione e solidarietà internazionale e da una notevole stabilità monetaria. La stabilità degli scambi internazionali era stata garantita dall’adozione del sistema monetario del gold dollar standard, basato sulla convertibilità del dollaro in oro, che rese possibile la costituzione di un fondo monetario internazionale (FMI). Queste misure favorirono un eccezionale sviluppo degli scambi commerciali. L’espansione economica si accompagnò quindi a un accentuato processo di internazionalizzazione, che rese sempre più interconnesse le diverse economie nazionali.


Uno dei più importanti fattori per l’innesco del nuovo corso economico europeo fu costituito dalla grande disponibilità di manodopera a basso costo. La meccanizzazione dell’agricoltura lasciò senza lavoro una fascia di popolazione, che si riversò nelle aree industrializzate, determinando un’enorme migrazione dalle campagne alle città. Se da una parte questo evento fu traumatico dall’altra portò migliori condizioni di vita, dando vita a quel processo di integrazione di consumi e di produzione di prodotti di massa, su cui si basava soprattutto il modello dell’economia americana. Una sostanziale differenza tra l’Europa e l’America, era la consistenza del reddito individuale, che per gli americani di allora era di molto superiore. Inoltre, diverso era l’intervento statale nella pubblica impresa e il costo dei servizi sociali, che mantenevano alto il costo della spesa sociale in Europa. In sostanza l’incremento economico e le uscite hanno avuto, in Europa, un bilancio positivo finché non sono intervenuti i fattori di crisi degli anni 70. Già nell’immediato dopoguerra, i ceti medi americani avevano raggiunto un alto tenore di vita e venne ritagliato su di loro l’American way of life, il logo pubblicitario che serviva a vendere i prodotti americani. Il nuovo modello di vita americano fu esportato quindi, a ridosso degli scambi internazionali di merci americane, in tutto il mondo, e divenne responsabile della diffusione di un’illusione di benessere collettivo a cui tutti potevano aspirare. Una delle icone di questo progresso inarrestabile fu proprio la Coca Cola, che diventò l’immagine di un’epoca e di uno stile di vita. Gli europei, così come nel resto del mondo, iniziarono a rincorrere un più alto tenore di vita, sull’imput dato dall’American way of life. 6


Ma altra e non risibile differenza, era il ritardo in cui si muoveva l’Europa rispetto l’America nell’adottare questo nuovo stile di vita, impostato sui consumi, sul tempo libero consentito da servizi connessi a strutture urbane. Tutto ciò fu causa, soprattutto in Europa, di uno sviluppo improvviso e disorganico, responsabile di disagi legati all’abbandono di legami sociali fondati su una vita rurale, che vennero meno all’unisono, senza poter essere efficacemente sostituiti, creando solitudine, spaesamento e mancanza improvvisa di riferimenti e un degrado immediato dei valori sociali e familiari. Gli artisti europei puntualmente registrarono questi disagi e questi entusiasmi nelle loro opere, che affrescarono l’immaginario collettivo del dopoguerra.

IL PIANO DI AIUTI ECONOMICI MARSHALL E LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI La devastante rovina causata dalla seconda guerra mondiale impose una serie di risoluzioni atte alla salvaguardia della sicurezza mondiale. Si comprese che la politica doveva essere essenzialmente transnazionale, superando quei limiti geografici e culturali che l’avevano sempre portata a definire dei concetti di “popolo” legati a valori etnici, culturali e demografici, non più attinenti al reale. E dunque anche l’economia non poteva che essere transnazionale, e nel panorama internazionale di certo l’America assumeva un ruolo importante non solo come potenza militare. Anche se nella spartizione, perché poi alla fine questo si determinò, dell’Europa e di conseguenza del mondo (attraverso le colonie e i paesi del terzo mondo che ancora si trovavano sotto i diversi mandati e protettorati delle nazioni europee) le posizioni militari acquisite rivestirono una grande importanza. Così nei diversi incontri che accompagnarono gli esiti della guerra, i tre grandi protagonisti di questi vertici raggiunsero degli accordi di spartizione delle aree di influenza a secondo della loro presenza militare. I tre grandi protagonisti furono il presidente americano Roosvelt, il primo ministro inglese Wiston Churchill, e infine Joseph Stalin Segretario Generale del Partito comunista dell’URSS e detentore di tutte le maggiori cariche politiche e istituzionali sovietiche. La Gran Bretagna appoggiò la supremazia americana, comprendendo che per quanto riguardava l’area di influenza occidentale occorreva una potenza economica che si facesse carico della stabilità dei cambi monetari (gold dollar standard), rendendo possibile la convertibilità di una moneta forte in oro. Sia la Gran Bretagna che gli Stati Uniti avevano molto in comune. Oltre a una storia comune e un’appartenenza culturale vi erano condivise anche delle scelte economiche. Dagli anni ‘30 in poi, proprio grazie al presidente americano Roosvelt che aveva dato corso al New Deal, l’America aveva appoggiato, seppure con dei correttivi moderatori, le teorie economiche dell’economista inglese John Keynes, che contrastavano con il liberismo di inizio secolo. Secondo Keynes lo stato doveva intervenire nell’economia pianificandola secondo le proprie esigenze sociali, con il principale obbiettivo di ridurre le disuguaglianze del reddito, e con quello di incrementare l’occupazione. Non credeva infatti che il liberismo senza un controllo da parte dello stato e senza una formula correttiva potesse garantire l’incremento dell’occupazione. Inoltre, a garanzia della buona evoluzione dei due principi, Keynes raccomandava l’apporto dello stato nel welfare, incrementando la partecipazione dello stato nella sanità e nell’istruzione, investendo i profitti delle tasse nell’evolvere il benessere e il livello di capacità relazionale e produttiva dei cittadini. Su quest’ultimo punto gli americani si resero più prudenti. Tuttavia l’applicazione di questa filosofia monetaria determinò la golden age economica del dopoguerra di tutta l’area atlantica, ovvero quella posta sotto l’influenza americana. E le cose andarono bene e si determinò un grande sviluppo economico fino a primissimi anni


70, quando i paesi arabi si allearono (economicamente) per alzare il prezzo del greggio, iniziando una vera e propria contromossa aggressiva verso l’Occidente. Ma andiamo per gradi. Dei paesi mediorientali delle loro realtà politiche ne parleremo in seguito. Nel frattempo i tre grandi protagonisti del dopoguerra arrivarono a disegnare l’Europa in questo modo: la cosiddetta area atlantica si estendeva comprendendo l’Europa fino alla zona occidentale della Germania, e, come se si tracciasse una linea verticale, tutta l’Italia e dunque parte del Mediterraneo. Dai balcani in poi verso est, comprendendo tutta la parte orientale della Germania, la Polonia la Cecoslovacchia e parte della penisola scandinava erano invece sotto l’influenza dell’URSS. Una situazione a sé stante avevano la Grecia e la Spagna, tuttavia vicine all’area atlantica. A sostegno dei paesi dell’area atlantica e per incrementarne lo sviluppo e dunque l’acquisizione delle regole commerciali della politica economica americana, l’America pianificò un programma di aiuti economici chiamato Piano Marshall, con il nome del generale inglese vicino all’economista Keynes. Questo programma di aiuti economici fu decisivo per sviluppare le economie dei paesi europei e porli definitivamente sotto l’egida americana, adottandone anche le regole monetarie e imponendo un piano di commercio e di scambi a lunga durata, che stabilirono anche l’orientamento della politica europea dei successivi decenni.

LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI Per le suddette ragioni si arrivò a capire la necessità di istituire un’associazione internazionale che fosse capace o comunque che si occupasse a tempo indeterminato di garantire la pace nel mondo: a San Francisco nel 1945 si costituì l’ONU, con l’obiettivo che tutte le nazioni del mondo arrivassero a farne parte, e ognuna si facesse garante della volontà di risolvere in maniera pacifica tutti i possibili conflitti. L’ONU estese progressivamente la propria area di intervento nei settori come la sanità, l’educazione, la scienza, la cultura e il lavoro, istituendo delle agenzie che si occupassero di questi temi a livello internazionale. Pertanto le suddette agenzie arrivarono alla formalizzazione di una carta universale: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, attuata nel 1948 che sancisce il diritto di ogni essere umano non solo alla vita, alla libertà e alla sicurezza, ma anche all’istruzione, a una magistratura imparziale, alla protezione sul luogo di lavoro, alla parità tra i sessi. L’umanità seppure a fronte di una grande tragedia aveva fatto un grande passo in avanti, anche se l’Onu rimase, e ancora, in seconda linea rispetto alla politica delle grandi potenze. Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, il cui testo completo è stampato nelle pagine seguenti. Dopo questa solenne deliberazione, l’Assemblea delle Nazioni Unite diede istruzioni al Segretario Generale di provvedere a diffondere ampiamente questa Dichiarazione e, a tal fine, di pubblicarne e distribuirne il testo non soltanto nelle cinque lingue ufficiali dell’Organizzazione internazionale, ma anche in quante altre lingue fosse possibile usando ogni mezzo a sua disposizione. Il testo ufficiale della Dichiarazione è disponibile nelle lingue ufficiali delle Nazioni Unite, cioè cinese, francese, inglese, russo e spagnolo. DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI (Preambolo) ..Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri

della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della 8


libertà, della giustizia e della pace nel mondo; Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo; Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione; Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni; Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà; Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali; Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni; L’ASSEMBLEA GENERALE proclama la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere,


con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione. ARTICOLO 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. ARTICOLO 2

Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità. ARTICOLO 3

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. ARTICOLO 4

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.

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ARTICOLO 5

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti. ARTICOLO 6

Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica. ARTICOLO 7

Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione. ARTICOLO 8

Ogni individuo ha diritto ad un’effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge. ARTICOLO 9

Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato. ARTICOLO 10

Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. ARTICOLO 11

1. Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa. 2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. ARTICOLO 12

Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni. ARTICOLO 13

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese. Articolo 14 1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. 2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.


ARTICOLO 15

1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza. ARTICOLO 16

1. Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione. Essi hanno eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento. 2. Il matrimonio potrà essere concluso soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi. 3. La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato. Articolo 17 1. Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà. ARTICOLO 18

Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti. Articolo 19 Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere. ARTICOLO 20

1. 2.

Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.

ARTICOLO 21

1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti. 2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese. 3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione. ARTICOLO 22

Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità. ARTICOLO 23

1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 12


Eleanor Roosevelt

2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. 4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi. ARTICOLO 24

Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite. ARTICOLO 25

1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. 2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.


ARTICOLO 26

1. Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito. 2. L’istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l’amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l’opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace. 3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli. ARTICOLO 27

1. Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici. 2. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore. ARTICOLO 28

Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.

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ARTICOLO 29

1. Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità. 2. Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica. 3. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite. ARTICOLO 30

Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati.


DIFFUSIONE DELL’INFORMALE IN EUROPA

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I primissimi anni 40 registrarono una scarsa produzione artistica. Era inevitabile visto gli enormi disagi causati dalla guerra almeno in Europa. La guerra, tuttavia, produsse anche un “sentire comune”, ma ancora di più, come si è visto nell’apparato storico, le risoluzioni politiche ed economiche che poi si presero, contribuirono a sollecitare un “sentire collettivo” che si avviava verso una condivisione di: esigenze, sensazioni, percezioni, aspettative, sogni, progetti, cognizioni, “un terreno comune” che spaziava dall’America al Giappone, e formava così la base per la futura globalizzazione. Con simili premesse si può comprendere come e perché si sia sviluppato un movimento artistico dalle caratteristiche simili, ma anche comprensivo di peculiari differenze, e che in tal modo si sia diffuso in un’area internazionale che comprendeva tutti i paesi sotto la sfera di influenza americana, in un margine di tempo di due decenni: gli anni 40 e gli anni 50. Tale movimento forse nacque in Europa, prendendo l’avvio a Parigi, ancora capitale intellettuale europea, ma si diffuse, o si generò in maniera autonoma, presto in America e in Giappone, primo paese extraeuropeo affiliato alla sfera d’influenza statunitense. Questo movimento prese il nome di Informale, nome coniato da Michel Tapié critico parigino, che ebbe l’acume di riprenderlo da un titolo di un’ opera di un artista che poi diventò uno dei più insigni maestri dell’Informale stessa: Jean Dubuffet. Parigi era stata fin dall’inizio della guerra la ville lumiere, la città che bene o male aveva dato asilo agli artisti di tutto il mondo, da lì erano uscite le novità più importanti di una sperimentazione formale che, grazie alle avanguardie sembrava non avere fine. La scelta dell’Informale si presenta subito come un bastian contrario rispetto al corso delle cosiddette avanguardie. Se esiste, infatti, una prima non-avanguardia si tratta proprio dell’Informale. Disse bene Michel Tapié quando asseriva che l’Informale voleva fare tabula rasa di tutte le condizioni e i linguaggi formali affermati in precedenza. L’ Informale sanciva, infatti, un nuovo corso. Mentre, nella prima metà del 900, le Avanguardie avevano dato importanza alla creazione e alle novità affermate dai nuovi linguaggi, l’Informale negava l’egemonia creativa, ovvero l’egemonia umana della creazione, sottolineando invece l’importanza della relazione. Rinnegava, quindi, la progettualità del disegno a favore di una causalità informe che lasciava spazio all’affermarsi di altri agenti importanti nell’evento artistico: la materia con cui veniva composta l’opera, il segno, il gesto, la causalità. Chiaramente gli spunti di ciò erano stati offerti soprattutto dal Dada e dal Surrealismo, ma a differenza di questi l’Informale affermò una linea “astratta e non”, dove per lo più l’assenza di figurativo voleva essere non una scelta di un linguaggio astratto, ma una non-scelta. Un’indeterminazione voluta, né figurativa, né astratta. Le motivazioni di ciò si riscontrano, nell’Informale, proprio in una negazione del formalismo delle avanguardie. Non a caso la scelta dei riferimenti ricade proprio su un’avanguardia “anomala”: il Dada, che a sua volta aveva scelto di fare tabula rasa dei linguaggi precedenti per affermare un linguaggio formale aperto a trecentosessanta gradi, che ammetteva sia l’astratto che il figurativo. In una misura minore anche il Surrealismo (con Juan Mirò) ammetteva l’astratto, ma il limite delle due correnti consisteva e permaneva comunque in uno statuto da rispettare. L’Informale finalmente andava oltre le regole statutarie, si riferiva a un internazionalismo mai visto precedentemente, e poneva in analisi l’individuo più che il suo linguaggio, la sua esistenza più che il suo formalismo. Del resto si stavano affermando a livello internazionale le idee Esistenzialiste, Sartre ne indicava la possibilità di applicazione dalla letteratura (dall’arte 16


dunque) ad un più ampio versante etico ed umanista, offrendone una lettura atea. La negazione di un progetto formale era senz’altro solidale anche a una critica ad un’ umanità che si era resa responsabile di un evento catastrofico come la seconda guerra mondiale, e per questo motivo non era depositaria in maniera affidabile di un linguaggio qualsiasi. Che nascondeva il linguaggio umano? Quali deviazioni erano insite nello stesso codice? Di certo era difficile, all’alba del nuovo giorno sorto dopo la seconda guerra mondiale, avere fiducia in un genere umano che si era macchiato dei peggiori delitti immaginabili. Così l’Informale decise saggiamente di fare Tabula rasa dei linguaggi delle Avanguardie, di riferirsi alle fonti primarie e primordiali dell’individuo, quelle di un individuo vergine, epurato dalle implicazioni sociali, privo del linguaggio e tutto emozioni e sensazioni. Iniziò pertanto a trascrivere un non-linguaggio del gesto e del segno non significante, ma tutto strabordante del senso, dell’emozione e della percezione primordiale. Un altro fattore importante dunque subentra, quello dell’esperienza. L’esperienza è un fatto ancora sociale, ma tutto racchiuso in un’accezione individuale, e tale è la sfera che si determina in un movimento che avrà la sua portata nel raccogliere una costellazione di diverse espressioni individuali, pur connesse in un sentire internazionale: ciascun individuo rappresenterà quindi un proprio linguaggio, una propria gestualità, raccontando un mondo condivisibile, ma con una cifra stilistica assolutamente individuale, che farà capo al proprio sé. Un’altra condizione essenziale, oltre a quella del gesto che registra le emozioni astratte tratte dall’esperienza individuale, è il rispetto per la materia naturale e non con cui viene costruita l’opera. Non solo, ma anche gli accidenti causali determinati dalla sua posa in opera. Si determina una coscienza forte della relazione con la materia, con la natura Jean Dubuffet, The Cow with the Subtile Nose (1954)


delle cose, con il tempo che le trasforma. Finalmente l’uomo si rende cosciente della sua vulnerabilità, del suo limite fisico e temporale nel determinare la realtà che lo contiene. La materia viene rispettata come secondo agente nel costituirsi dell’opera, la scelta del colore o del supporto diventa non-casuale e rispettosa di un’ autority dell’opera che viene quindi condivisa con la materia, con il tempo e con lo spazio. L’artista diviene cosciente di non essere l’unico autore dell’opera, ma che nel costituirsi del processo operativo subentrano altri fattori non prevedibili e che non accettano un’imposizione al fare dettata da un unico autore. Chi più e chi meno, ciascun artista informale tratterà la materia, lo spazio e il tempo con grande rispetto, evidenziando la loro presenza come coproduttori dell’opera stessa, limitando la propria responsabilità creativa; come se l’opera stessa fosse in realtà frutto di un team di autori. Subentrano gli apporti di una filosofia extraeuropea quella orientale, che grazie al contatto con il Giappone si faranno sentire anche per le espressioni immediatamente future. L’esperienza forte della guerra ha portato l’individuo –artista a fare i conti con una realtà che non è plasmabile cartesianamente come l’uomo occidentale aveva sempre supposto, ma che reagisce ed evolve e produce un suo effetto nello spazio, nel tempo e nelle cose, che compongono un tutto che contiene l’uomo, e che evolve in continua risposta e trasformazione. Questa relazione complessa non è rappresentabile in una sola immagine, ma in un insieme di immagini, composte attraverso la materia, il gesto, lo spazio e il tempo quindi e il segno.

18 Michel Tapiè



AUTORI ED OPERE EMBLEMATICHE

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JEAN DUBUFFET (LE HAVRE 1901 – PARIGI 1985) Jean Dubuffet è tra gli artisti più emblematici dell’Informale. Il termine stesso Informale è stato tratto da una delle sue note scritte in un saggio che accompagnava la sua memorabile personale: Mirobulus, Macadam et C.- Haute Pates, alla galleria Drouin nel 1946 a Parigi. Fu la mostra che determinò la sua eclatante affermazione, l’evento parigino più importante dell’anno nell’immediato dopoguerra. La mostra era presentata dal critico Michel Tapié, che estrapolò proprio il termine Informale dal volumetto di note tecniche di Dubuffet, dal titolo Prospectus aux amateurs de tout genre che accompagnava la mostra e che comprendeva il saggio: Notes pour les fins-lettrès che si apriva con l’affermazione “Partant de l’Informe”. Le opere di allora erano strabordanti di materia, e lui stesso incitava a costruire l’opera partendo da una macchia, senza un progetto a priori ma partecipando all’evento del manifestarsi della materia stessa. Erano le stesse idee sull’automatismo e sulla libertà assoluta del gesto creativo sviluppatesi nel Surrealismo di anteguerra, e che ora venivano riprese dagli artisti che vedevano in quel movimento il riferimento da cui ripartire. In particolare Dubuffet proseguiva da anni una ricerca sperimentale su quello che lui definiva Art Brut, ovvero il disegno eseguito al di fuori di qualsiasi modello estetico, dall’uomo qualsiasi, da chi non era del mestiere, meglio ancora dai bambini, o dagli alienati. La motivazione era risalire alla forza creativa originaria al di là di qualsiasi linguaggio o schema culturale. Anche questa particolare tendenza proveniva dal movimento Surrealista. Nel novembre del 1947 s’inaugura, sempre grazie principalmente a Dubuffet, Le foyer de l’Art Brut nella cantina della galleria Drouin, e nel 1948 si forma La compagnie de l’Art Brut, che comprendeva oltre Dubuffet lo stesso André Breton, ovvero l’ideatore del Surrealismo, gli autori Paulhan, Ratton, Roché e il critico Michel Tapié. La fortuna dell’art brut di Dubuffet fu consistente al punto che Tapié stesso fu tentato di cambiare il termine di arte informale con Art brut. Inoltre non tutti gli artisti che si dedicavano alle poetiche del gesto e della costruzione della materia potevano definirsi informali, e questo generava parecchie polemiche. Dubuffet stesso aveva delle obiezioni su questo punto. Ragionando sull’arte alienata, l’arte diversa e dunque creata da persone “non normali”, Tapié conia il termine di Art Autre, perfettamente calzante a tutti gli artisti del dopoguerra. Sebbene più pertinente il termine ebbe fortuna solo negli anni 50, ciò che rimase definitivamente fu comunque l’Informale, più usato a partire dagli anni 60 in poi, a movimento definitivamente concluso. Nelle opere di Dubuffet, almeno fino alla fine degli anni 50, permane una sorta di iconografia della figura umana, che si fa strada negli impasti di colore ed altro, provocando crepe sottili e ingorghi di colore, di sabbia , e segni incisi. Toni scuri e terrosi a volte passaggi contrastanti tra zone opache ed altre vetrificate. Così ad esempio nell’opera Monsieur Macadam, che dà il nome alla mostra, che allude al fondo stradale (denominato appunto macadam) fatto con ghiaia frantumata. Anche queste particolari incursioni nelle materie reali, usate nella quotidianità, non erano affatto casuali. JEAN FAUTRIER (PARIGI 1898 – CHETENAY MALABRY 1964) Jean Fautrier insieme a Dubuffet può ugualmente definirsi l’iniziatore dell’Informale. La sua formazione avviene a Londra tra il 1908 e il 1914, dove visse con la madre avendo per questo occasione di frequentare la Royal Academy e la Slade School of Art, scuola

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ufficiale d’arte la prima e l’altra una privata, sulla scia di quanto avveniva anche a Parigi, dove alle scuole ufficiali con carattere accademico si affiancavano degli ateliers o scuole private di carattere più sperimentale. A Londra Fautrier fu particolarmente attratto dalle opere di William Turner, dove gli oggetti e le forme erano assenti e l’attenzione era tutta catturata dal senso di infinito dello spazio aperto del cielo, e dalla luminosità del colore, inteso e trattato come luce naturale. Una lezione che mise particolarmente a frutto durante la seconda guerra mondiale. L’artista fu tra quelli che riuscirono a esprimere gli orrori della guerra in modo esplicito e diretto. La produzione che ebbe immediatamente consenso fu quella creata tra il 19431945, dal titolo emblematico: Otages, una serie di 33 tele, tutte con lo stesso titolo Otage appunto, che in francese vuol dire ostaggio. Parigi in quelle date era occupata dai tedeschi, e gli “ostaggi”rappresentano bene la condizione in cui si trovavano i cittadini parigini, completamente alla mercé delle rappresaglie e della crudeltà nazista, in un luogo e in un tempo dunque dove ogni diritto alla dignità della vita era messo in discussione. Gli otages, in sostanza, erano delle alte paste date con la spatola, con colori teneri e sfumati che ricordavano i cieli e la luminosità di Turner. All’interno di ogni spatolata si poteva assaporare un piccolo mondo rinviante a uno spazio infinito. Ma, a differenza delle opere dell’artista inglese, lo sguardo era bloccato a un tratto da una segno inciso nel colore, sottolineato e demarcato da una linea nera che voleva essere una forma eppure non lo era, ma che rimandava ai contorni residuali di qualcosa di organico come una testa, un braccio un lembo di pelle. Qualcosa che un tempo era stata pur una forma ma ora non lo era più, aveva perso i connotati comprensibili di appartenenza all’esistenza della vita sia umana che animale; sembrava appunto quanto rimaneva di un corpo, e le spatolate dunque, dopo il primo incanto provocato dalla luminosità del colore, apparivano

Jean Fautrier. La Juive (The Jewess), 1943


a una riflessione razionale come tagli inferti a una carne ferita e slabbrata, residuo di uno scempio. Naturalmente ciò destava ancora più orrore, proprio per la forma indiretta, non immediatamente comprensibile a un primo sguardo. Infatti grazie al colore accattivante lo spettatore veniva inevitabilmente catturato inizialmente, addirittura compiaciuto, ma poi si allontanava doppiamente disgustato, una volta compresa l’allusione mortifera e devastante. L’artista continuerà questo linguaggio creando, come tutti gli artisti dell’informale, una propria cifra stilistica riconoscibile, pur nell’assenza dei codici formali, ora figurativi ora astratti, che contraddistingueva l’arte delle precedenti avanguardie.

LUCIO FONTANA (ROSARIO DE SANTA FÉ 1899 – COMABBIO, VARESE 1968) Lucio Fontana e Alberto Burri sono senz’altro gli artisti più importanti ed emblematici dell’Informale italiana, che diede un forte contributo attraverso anche l’opera di altri artisti. Lucio Fontana nasce in Argentina da un padre italiano architetto e scultore (Luigi), passa la sua adolescenza con soggiorni altalenanti tra l’Italia e l’Argentina e inizia il suo percorso artistico come scultore. Gli anni della guerra li passa in Argentina, ma il suo potenziale più originale inizia a venir fuori al suo rientro in Italia, nel 1947 a Milano, attraverso la concezione dello Spazialismo, con la pubblicazione di due manifesti, che volevano formulare le caratteristiche di un nuovo movimento di natura astratta, che travalicava i confini del quadro invadendo lo spazio. Cosa che lui stesso iniziò a fare grazie ai primi ambienti di cui il primo fu Ambiente spaziale con forme spaziali e luce nera, realizzato nel 1949 nella Galleria Il Naviglio: un elemento di cartapesta arricciata e di forma circolare imbevuto nella vernice fluorescente e posto su un soffitto viola. Mentre il secondo ambiente venne realizzato nel 1951 al di sopra dello scalone d’onore del Palazzo della Triennale, con un tubo di neon lungo circa 100 metri, arrotolato in volute convulse, che rinviavano a una

22 Fontana, “Attese”


Fontana, supporto bucato

scrittura casuale e di getto. Nel contempo realizza delle tele dove il supporto viene bucato con diversi strumenti, sempre in forma spiraleggiante e che rimandava ai vortici delle costellazioni. Queste opere vengono esposte per la prima volta nel 1952, con i titoli emblematici di Concetti spaziali. Lo stesso titolo prenderanno le opere che, a partire dal 1958, comprenderanno dei tagli anziché buchi, frutto di un gesto unico, improvviso e senza ripensamenti. Tuttavia questi ultimi saranno accompagnati da un sottotitolo: Attesa per le tele con un solo taglio, Attese, per le tele con tagli molteplici. I tagli saranno realizzati su supporti dipinti in modo monocromo, o con colori neutri o con colori primari, tali da creare maggior contrasto per sottolineare il rilievo e le ombre delle lacerazioni. Il senso della parola “Attesa” è duplice. Da una parte coglie l’attimo in cui viene realizzato il taglio come frutto dell’ attesa del “momento giusto”da parte dell’artista; preceduto, dunque, da un tempo di ricerca di carattere riflessivo e meditativo, in cui si raccoglie l’energia dell’azione e la precisione del gesto. Dall’altra, allude al senso di aspettativa che produce la scoperta di uno spazio altro. Uno spazio che sta al di là delle convenzioni della superficie bidimensionale del quadro, che viene travalicata nella speranza di trovare il luogo di un’espressione libera, e dai contenuti nuovi; che possa accompagnare il progetto di un mondo rinnovato.

ALBERTO BURRI (CITTÀ DI CASTELLO 1915 – NIZZA 1995) Alberto Burri si laurea in medicina nel 1940, ma viene travolto dagli eventi bellici, che lo conducono a trovarsi come prigioniero di guerra in Texas, nel 1944. Probabilmente fu lì che iniziò ad approcciarsi alla pittura in forma autodidatta. Nell’immediato dopoguerra si stabilì a Roma, dove ancora non si era diffusa l’informale, che ebbe immediato consenso al Nord e un avvio più rallentato nella capitale, dove era forte una corrente figurativa di carattere realista-socialista. Del resto si risentiva anche del clima politico, della presenza a Roma di Palmiro Togliatti, allora leader, di grande rilevanza storica, del Partito Comunista Italiano, investito anche di un potere di mediazione politica-diplomatica nei rapporti con l’U.R.S.S. Perciò, occorre attendere il 1951, per vedere formarsi a Roma un gruppo di artisti le cui opere erano di natura astratta: il gruppo Origine, di cui Burri fece immediatamente parte. Egli iniziò subito una ricerca di carattere assai originale e sperimentale, applicando brandelli di sacchi di iuta su opere pittoriche. Quasi a cancellare la forma con la materia. Tuttavia si trattava di una materia non naturale, ma residuo della società umana. Una materia povera


tratta probabilmente dalle sue memorie giovanili di un mondo rurale, contadino, dove le sementi e i prodotti della terra erano raccolti, trasportati e immagazzinati in sacchi di iuta. Chissà quante volte visti sopra i mezzi di trasporto rurali, nelle cantine, esposti nelle strade al sole per far essiccare il loro contenuto. Insomma un’ immagine quotidiana di un mondo che apparteneva fortemente alla memoria dell’artista, una memoria condivisa probabilmente con tanti altri, ma ora immagine sconnessa di un tessuto culturale distrutto (quello contadino), disperso in una città dove non appare connessione sociale tra gli individui, che sembrano non possedere memoria collettiva alcuna, se non il loro povero spezzone di vita individuale. Tale lacerazione della storia e della memoria rappresentano i Sacchi di Burri. Immagini appartenenti a un immediato passato, fuoriuscenti come residuo, ricucitura, traccia dolorosa poiché persa e non più attiva. Sacchi circondati dai colori delle terre bruciate della campagna. Anch’esse ormai memoria passiva di un mondo scomparso, grazie allo spostamento dalle campagne alle città di grandi masse di popolazione rurale, di cui Burri ne rappresenta un esempio eclatante, però capace di narrarne i drammatici disagi in un linguaggio visivo e di grande impatto. Dal 59 in poi Burri sperimenta altri materiali come i legni, i ferri e il cellophane o plastiche, che lavora lacerandoli e segnandoli con il fuoco della fiamma ossidrica. Dopo il ciclo delle lacerazioni con il fuoco, Burri sperimenta un altro materiale: un miscuglio di caolino, bianco di zinco e vinavil, la colla a freddo dei falegnami, il tutto steso su cellotex e lasciato asciugare con l’intervento anche di alcune fonti di calore. Il risultato furono delle superfici mosse da una screpolatura naturale, molto simile a quello delle terre argillose in estate. Ancora una volta le immagini forti della memoria affiorano, ma questa volta il risultato è un’armoniosa simbiosi tra un luogo artificiale (sempre nell’immaginario evocativo dell’esperienza visuale) e un luogo naturale. Almeno questa è la sensazione che trasmettono i Cretti, così vennero chiamate le opere che appartennero tutte a uno stesso ciclo,e di cui alcune furono realizzate in grandi dimensioni ambientali, come nel cimitero di Gibellina in Sicilia.

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Moodboard: Alcune opere di Alberto Burri


PRESTITI DA ALTRE CULTURE

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Uno dei più importanti scambi culturali dell’arte contemporanea europea della prima metà del Novecento si è attivato con l’arte e con gli artisti giapponesi. L’interesse dell’Occidente (Europa) verso l’arte giapponese, è nato anche prima, fin dalla metà dell’Ottocento. Il primo esempio invece da parte nipponica, è la costituzione dell’ Accademia Nazionale delle Arti a Tokyo nel 1876; per incentivarla il governo chiese l’intervento di artisti occidentali, tra cui il torinese Antonio Fontanesi, che soggiornò alcuni anni a Tokyo. Da questa data in poi i contatti “diretti” (e non attraverso i soli manufatti come in precedenza) tra gli artisti occidentali e gli artisti giapponesi si intensificarono, determinando la consuetudine di un soggiorno europeo, per gli artisti giapponesi, considerato essenziale per la seria formazione dei giovani artisti. L’inevitabile conseguenza fu la diffusione delle avanguardie europee in Giappone fin dal 1910. Non solo, ma anche, di riflesso, la diffusione soprattutto a Parigi dei diversi stili di arte giapponese, sia di carattere tradizionale che del nuovo stile contemporaneo che si stava concretizzando e affermando. Una delle figure più importanti, testimone dell’apprezzamento europeo, fu la presenza attiva di Tsuguharu Fujita a Parigi, ormai residente nella capitale francese ed esponente apprezzato nel movimento surrealista. Tra gli esponenti di spicco delle avanguardie giapponesi che hanno soggiornato nelle capitali europee per diverso tempo, si possono citare i più famosi, tra cui Sejii Togo, Kambara Tai (leader dell’avanguardia futurista), Murayama Tomoyoshi (fondatore dell’avanguardia dadaista) Koga Harue (metafisica surrealista) Hasegawa Saburo, Yoshihara Jiro (avanguardia astrattista). Innegabile, dunque, la possibilità di ricondurre alle espressioni di calligrafia e di pittura a inchiostro dello stile tradizionale giapponese, almeno per qualche aspetto creativo, sia la scrittura automatica di Henry Micheaux che l’esperienza dei lettristi (degli anni 50); grazie anche alle affermazioni degli autori stessi. Il Lettrismo, in particolare, sull’esempio delle scritture automatiche di Henry Micheaux, si diffuse a Parigi nell’immediato dopoguerra, parallelamente alle prime esperienze informali, grazie ad Isidore Isou. Tapié comprese subito la valenza espressiva dell’arte giapponese, sia tradizionale che moderna, al punto che sin dagli inizi degli anni 50 vede nell’Informale non un gruppo europeo ma un movimento di carattere internazionale, che si estendeva dall’America al Giappone passando per l’Europa. Infatti, sempre negli anni 50 a Parigi fu ancora Tapié a presentare le mostre dei maestri di calligrafia tradizionale Hisao Domoto, e Testuguru Insho, e in seguito Sofu Teshigara. Significativamente Hisao Domoto iniziò, dalla data della mostra parigina, a confrontarsi con la pittura ad olio, provando a fare le sue opere di calligrafia a grandi dimensioni con i colori ad olio e ottenendo ottimi risultati. Inoltre dal 1949 Michel Tapié dà inizio ad un sodalizio con l’artista George Mathieu, “scoperto” dal critico francese e da lui presentato (l’anno successivo) al gallerista René Drouin, la cui galleria aveva sostenuto sin dagli inizi sia Michel Tapié che gli artisti dell’Informale. Con Mathieu e grazie alle opere di quest’ultimo, Michel Tapié scopre i termini di “veemenza” e di “parossismo” che poi adopererà ampiamente negli anni successivi, parlando dello “stile” di buona parte degli artisti informali. Le opere di Mathieu erano gestuali e segniche; fondi compatti che contenevano dei segni ben precisi, netti, espressi con una grande vitalità, tale da ricordare in modo immediato, evidente e visibile la vitalità e l’energia dell’esistenza. Così come nelle calligrafie giapponesi, protese ad esprimere l’energia vitale in atto. La familiarità dell’intento creativo e del risultato segnico dell’arte Informale con le opere caligrafiche, 26


non sfuggì a Michel Tapié, né all’autore stesso (Mathieu), e nel 1958, andarono insieme in Giappone (Michel Tapié già era stato una prima volta nel 1957), dove Mathieu rimase per un lungo soggiorno. Per comprendere alcuni aspetti e alcune similitudini tra le opere informali sia occidentali che giapponesi, occorre fare un passo indietro e considerare il fenomeno di “apprendimento” che il Giappone operò nei confronti dell’Occidente e in particolare delle Avanguardie Europee. Sia all’inizio dei contatti nippo-europei che in seguito, agli artisti giapponesi pervenivano a una serie di informazioni estetiche e linguistiche, estranee alla loro cultura; e dunque prive dei connotati temporali e linguistici che le differenziavano tra loro. Un esempio: alla fine dell’Ottocento si diffonde in Giappone uno stile considerato moderno e occidentale che era una sorta di fusione di tutti i linguaggi artistici del fine-secolo; ovvero, Simbolismo, Postimpressionismo, Impressionismo erano articolati insieme in sorta di miscuglio parossistico. E in seguito le avanguardie giapponesi si affermarono con le stesse modalità. Nelle opere di Kambara Tai e di Sejii Togo, considerate futuriste, affioravano, ad esempio, espressioni cubo-futuriste ed espressioniste all’unisono. Ancora, in quelle di Murayama Tomoyoshi convivevano elementi del dadaismo berlinese insieme ad altri del costruttivismo russo e dell’astrattismo della Bauhaus tedesca. Un altro esempio; Koga Harue articolava una sorta di fusione tra il Surrealismo, la Metafisica, il Dadaismo e l’Astrattismo. In sostanza elementi astratti ed elementi figurativi venivano manipolati in una fusione inusuale per le avanguardie occidentali, che al contrario avevano sviluppato una demarcazione più netta tra i due linguaggi. La spiegazione di tutto ciò non è risolvibile soltanto nella considerazione di un’estraneità culturale, da parte giapponese, che azzerava le differenza tra i valori astratti e quelli figurativi. Ma è necessario comprendere che il soggiorno europeo, per gli artisti giapponesi, si svolgeva di solito in un tour di Seiji Togo, opere cubo-futuriste / espressioniste


Henri Michaux, “scrittura automatica”

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diverse capitali europee, che portava all’apprendimento e all’accostamento simultaneo di diverse avanguardie insieme. La fusione dei messaggi era perciò inevitabile. Non solo, ma Parigi stessa era diventata, nella prima metà del Novecento, una costellazione di diversi linguaggi e di diverse avanguardie che convivevano per alcuni periodi. Basti pensare alla compresenza di personalità come Matisse, Picasso, Juan Gris, Delauny, Magritte e gli altri surrealisti. Una fusione di linguaggi a cui non sfuggirono gli stessi artisti occidentali; si pensi al periodo Dinar di Picasso, ad esempio. Naturalmente per gli artisti giapponesi tutto ciò era portato ad accentuarsi, grazie alla tendenza ad un figurativismo sintetico e bidimensionale, quindi tendente all’astratto, connaturato già nella propria figurazione tradizionale. L’esempio più chiaro appare nelle opere di Saburo Hasegawa, considerato il fondatore dell’avanguardia astratta giapponese. L’artista arriva nel 1937, dopo il suo soggiorno in Occidente, a concepire un tipo di astrattismo non geometrico. Le sue opere sono svincolate dalla griglia geometrica in uno spazio infinito, simile a quello delle improvvisazioni kandiskyane, ma dove campeggiano elementi biomorfici, materici e segnici, non solo ma anche gestuali. In poche parole l’Informale ante-litteram. Anche le sue affermazioni ammettono, nel suo saggio: Per individuare la pittura d’avanguardia” del 1937, di indicare al contempo e all’unisono sia nel Surrealismo che nell’Astrattismo i valori dell’avanguardia di allora. Ma comprendendo che, per gli artisti giapponesi, si trattava comunque sia di un Surrealismo che di un Astrattismo differente; visti con gli occhi della propria cultura e della propria tradizione estetica. Vedendo le opere di Hasegawa, quindi, non si può non lasciare spazio alla considerazione che, alla nascita dell’Informale europea possa aver contribuito un prestito culturale non europeo; probabilmente una lettura extraculturale, giapponese, delle nostre avanguardie europee. Un’ immagine riflessa, di rimando, arricchita di elementi estetici appartenenti ad un’altra identità culturale.


L’INFORMALE IN AMERICA

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In America, la conoscenza dell’arte contemporanea europea si diffuse da quell’evento storico, rappresentato dalla mostra del 1913 che prese, dal luogo (una sala d’armi di un reggimento), il titolo di Armory Show. Dove, com’è noto venne presentata la pittura contemporanea europea dall’Ottocento fino agli allora contemporanei Picabia e Duchamp (comprendendo il romanticismo fino alle avanguardie allora succedute e l’inizio dell’arte astratta). Una mostra che fece grande scalpore, presentando agli americani in una sola volta la nascita e la crescita dell’arte contemporanea di un secolo. Naturalmente le reazioni furono inizialmente negative, e la stampa si divertì a coniare espressioni fin troppo dirette e schiette. Parlando del Nu descendant l’éscalier di Duchamp si divertirono, infatti, a trovare parafrasi descrivendolo, ad esempio, come un’”esplosione in una fabbrica di legname”. Ma, proprio quel grande clamore, fece comprendere, alle menti più raffinate, che il futuro dell’arte contemporanea americana si era già delineato e naturalmente sarebbe stato di natura astratta. Uno dei più grandi critici d’arte, dell’arte astratta americana, emerse proprio negli anni ’40’50: Clement Greemberg. Il critico sostenne che la vera arte era quella non influenzata dal kitsch, ovvero dalle espressioni edulcorate di massa, divulgate dalla comunicazione, sempre di massa in tutte le sue forme. Il critico affermò che l’astrattismo quindi di nuova generazione che stava emergendo in America fosse in sostanza una sorta di vera “arte per l’arte”, che egli interpretava come l’evoluzione del Cubismo e dell’Espressionismo. Ma il nuovo astrattismo era ancor più radicale, poiché raffinava nella ricerca, sempre a detta di Greemberg, il valore formale come valore puro a sé e relazionante alla sola porzione di spazio del quadro, anche se carico dei valori esperenziali forniti dall’artista. Dunque, per questo critico, l’opera era completamente separata dalla realtà; in linea con le teorie purovisibiliste europee. Greemberg concepiva il nuovo astrattismo americano come una nuova avanguardia, un’evoluzione delle avanguardie europee, e che lui stesso indicò come Espressionismo astratto. Dal nome si comprendeva come egli tenesse a ricondurla alle avanguardie europee di inizio secolo. L’America, secondo Greemberg, rielaborava dunque una lezione tutta europea e dava l’avvio a quel fenomeno tipico del secondo dopoguerra che prenderà il nome emblematico di Neo-avanguardie. Un titolo che riconosceva, seppure nella politica l’America sembrerà contraddire questo messaggio, il forte legame culturale con l’Europa. Che tuttavia l’America stesse elaborando una sua particolare e specifica identità era sotto gli occhi di tutto il mondo. Nel 1952 Harold Rosenberg, un altro grande critico coniò più o meno per gli stessi artisti, precedentemente definiti espressionisti astratti, la definizione di Action Painting. Gli artisti avevano affinato la loro espressione e per alcuni di essi la forma si univa al valore del gesto, dello spazio e del tempo in maniera intrinseca e inscindibile. E’ il caso di Jackson Pollock, di nazionalità prettamente americana (nato negli Stati Uniti), che fece del gesto l’atto contemporaneamente progettuale e creatore. Il suo linguaggio si delineò definitivamente con i dripping, concepiti nel 1947. L’artista stendeva le sue tele a terra e, camminandoci anche sopra, con il movimento del braccio e del corpo, costruiva la sua spazialità astratta, facendo sgocciolare direttamente il colore dai barattoli di vernice. I nuovi artisti astratti americani vennero posti subito sotto l’attenzione internazionale con la loro presenza alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra. Immediatamente dopo, furono esposti alla Biennale di S. Paolo del Brasile, e al contempo nelle più famose gallerie 30


europee. Nel 1956 al MOMA si inaugurò la mostra Artisti moderni negli Stati Uniti replicata nel 1958 con un’altra dal titolo simile: The new american painting. Tuttavia il critico Michel Tapiè, tra i pochi allora, ricondusse il movimento newyorkese nel’ambito dell’Informale. E’necessario ricordare che sempre lo stesso critico, considerato come il padre di questo movimento, non ritenne l’Informale come un fenomeno prettamente europeo. Anzi lo interpretò come un fenomeno dichiaratamente internazionale, il primo nella storia dell’arte. Tanto è vero che si preoccupò di attuare una ricerca allargata agli artisti nel mondo, trovando così, come si è detto, il gruppo giapponese Gutai ad Osaka, che in pieno isolamento dal resto del mondo, o quasi, concepiva un tipo di arte completamente autoctona, ma affine a delle espressioni che potevano definirsi come “riconducibili” all’Informale. La motivazione che ne diede Tapiè fu l’affermazione che, senz’altro, alle origini di questo grande movimento, ci fosse, come soglia comune e condivisa, la rilettura delle avanguardie europee. Ma era innegabile anche l’importanza degli avvenimenti storici e il loro influsso sulla realtà e sugli artisti. Il clima era quindi simile grazie anche a un comune sentire, imposto dalla seconda guerra mondiale. Questo “momento di tutti” produsse una stessa evoluzione di nuovi linguaggi che rielaborarono gli elementi formali delle avanguardie, ciascuno però con espressioni originarie della propria cultura e della propria libertà creativa. Come se l’Informale fosse proprio un ricondursi si ai linguaggi delle avanguardie del primo Novecento, ma per decostruirli definitivamente; in una sorta di tabula rasa (andando oltre in questo persino al Dadaismo) che potesse predisporre l’arte internazionale a voltare definitivamente pagina, proseguendo in un’innovazione totale, finalmente decentralizzata dalla cultura europea. Infatti è molto difficile affermare che l’arte Informale nacque in Europa prima che in altri paesi. Le opere considerate informali di alcuni artisti Gutai risalgono al 1940. La stessa


Donna luna di Jackson Pollock é del 1942, data della sua prima personale nella galleria della famosa collezionista Peggy Guggenheim. E’ vero che questa opera è intrisa di motivi surrealisti ed è vicina a Mirò, ma non si può non apprezzare il carattere selvaggio, segnico e gestuale che ne fanno un’opera innegabilmente pre-informale, ma anche tra le prime opere realmente “americane”, specchio della propria cultura “selvaggia”. Si deve ricordare anche che le prime opere informali di Fautrier e di Dubuffet sono all’incirca del ’43. In sostanza questo linguaggio comune lo si deve essenzialmente al dramma della seconda guerra mondiale. Ma spicca e si delinea soprattutto la voglia di raccontarlo nella “propria lingua”. Nell’Action painting emerse tutto il carattere forte, libero della giovane cultura americana, che oltrepassava i valori dell’astrattismo. Una cultura che credeva disperatamente nei valori individuali e soprattutto all’esito, al frutto portato da quei valori: la libertà, valore primario e fondante del Nuovo Continente. Non a caso Jackson Pollock si interessò delle culture indiane in Arizona, vedendo nelle culture tribali autoctone una possibilità di rileggere la lezione europea con occhi nuovi, comprendendola come “altro”, facendola propria, con i propri ideali di libertà. L’atto creativo diventa liberatorio, esce dall’alveo di pura espressione di alta conoscenza, di linguaggio, ma diventa tutt’uno con la forza esperienziale dell’individuo che si traduce nel gesto. Tale gesto diventa strumento di decostruzione dei linguaggi europei di riferimento, una tabula rasa appunto. Quindi l’America con le Neo-avanguardie inizia il suo processo liberatorio di completo distacco dalla cultura europea. L’Action Painting introduce lo spazio-tempo dell’azione, che sarà un apporto forte e determinante, da parte della cultura americana, per condurre una svolta decisiva nella storia dell’arte contemporanea.

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AMERICA POTENZA DEL MONDO

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Il Novecento assiste, come è noto, all’imporsi di un nuovo contesto politico internazionale: il primato dell’America sul mondo. Un primato politico, economico, militare e infine anche culturale. Gli Stati Uniti si sono affermati nel corso del Novecento sul resto del mondo mantenendo in generale un dualismo parossistico, probabilmente dovuto a una divisione sostanziale, culturale, storica e non solo geografica tra Nord e Sud; legata ad avvenimenti storici risalenti ai tempi della colonizzazione. In generale questo dualismo si è espresso con due caratteri antitetici e coesistenti nella Confederazione: da una parte un atteggiamento democratico, moderno estremamente positivo che di certo ha rappresentato una preziosa guida internazionale nel corso del secolo precedente; dall’altra uno sprezzante dispotismo che ha mirato all’egemonia e alla discriminazione. La costruzione della supremazia americana sul mondo è stata graduale, partendo dai primi anni del secolo e soprattutto avvantaggiandosi del suo intervento minimo alla “grande guerra”. Infatti il suo intervento, quando ormai la 1a guerra mondiale era alla fine, è costato, sia in vite umane che in risorse, ben poco rispetto agli stati europei, che al termine della guerra risultarono devastati ed economicamente a terra. Ma la sua supremazia è nata ed è cresciuta anche per una profonda distanza ideologica, oltre che storica, dalla vecchia Europa, anche con un senso di rivincita e di definitiva separazione ed emancipazione da quella che in fondo era stata in passato una “matrigna padrona” piuttosto che una “madre patria”, sentimento interamente condiviso sia dal Nord che dal Sud. Pertanto la sua supremazia, così come affermano la maggior parte degli studiosi sull’argomento, è cresciuta insieme a un senso di diffidenza e di distanza che la portarono a un “isolazionismo” ideologico che poi si estenderà dall’Europa al mondo. Nei confronti degli stati europei, alle spalle di questo atteggiamento, che si diffuse in tutte le classi sociali dalle basse alle più alte, c’era la diffidenza verso un’Europa che si piccava da sempre di avere una supremazia storica e civile smentendosi poi essa stessa, poiché fu per due volte, nel corso del secolo, la diretta artefice delle catastrofi umane più grandi della storia. Non solo, ma la comprensione delle complicate vicissitudini e dei rancori storici che dilaniavano l’Europa sfuggiva a chi quelle divisioni e tensioni politiche non le poteva condividere, grazie al godimento di uno stato di diritto ben diverso e più democratico. Per questo la Rivoluzione Bolscevica del 1917-19 apparve al popolo americano completamente incomprensibile, per lo meno per la massa dei ceti bassi e medi. Opinione naturalmente rafforzata appositamente ad arte dal governo americano e dalle famiglie che detenevano il potere economico. In sostanza, in America si estese presto un’opinione negativa riguardo ai russi e al comunismo. I più vedevano la rivoluzione bolscevica come una “malattia ideologica” . E verso la fine della 1a guerra mondiale si diffuse, in America, il timore di un “contagio” rivoluzionario che dalla Russia sovietica potesse dilagare nel nuovo continente. L’ondata di scioperi che si propagò nel 1919 rafforzò questi timori e da lì in poi esplose in America una vera e propria nevrosi collettiva, denominata red scare, paura dei rossi, che in qualche modo si poté poggiare su una tensione sociale preesistente e una divisione storica già vissuta in America e non ancora definitivamente superata: l’aparthaid. 34


Tanto è stato scritto su questo tema, una tensione sociale che ha dilaniato sin dall’inizio la genesi dell’America, fondando l’origine storica di un atteggiamento schizofrenico e nevrotico di un popolo che nasce diviso in due (Nord e Sud) e con un pensiero dicotomico, portato a considerare la realtà come divisione duale di opposti: l’uguale e il diverso, il libero e lo schiavo, il buono e il cattivo, il ricco e il povero. Questo atteggiamento nevrotico di separazione che in un primo momento si manifestò con l’aparthaid, fa parte integrante di uno stato che già nella sua genesi si è formò con un dualismo, strappando la terra ad un diverso: il selvaggio, tali erano ritenuti gli antichi abitanti e legittimi proprietari del suolo americano. La stessa fondazione dell’America nasce su un dualismo che si trasformerà poi in una volontà di dominio, portando il sentimento di rivalsa di un intero popolo, che risulta già geograficamente “separato” dal resto del mondo, a estendersi anche verso l’Europa e dall’Europa al mondo. La supremazia economica dell’America, seguita a breve giro da quella militare, ha confermato, infatti, quella volontà americana di supremazia sul mondo che ha caratterizzato buona parte della seconda metà del Novecento. La cosiddetta “Guerra fredda” con la Russia, si può considerare come uno dei più significativi episodi di conferma di una necessità incolmabile, da parte dell’America, di mantenere una solida supremazia sul resto del mondo, inteso come “inaffidabile”, “nemico”. La guerra fredda, iniziata fin dal ‘46 con l’accordo di Yalta perdurò, si può dire, fino a metà degli anni ‘80, cessando per la disfatta del “nemico” con la grande crisi del governo sovietico russo. Questo fenomeno di continua tensione verso gli stati comunisti, durato circa quarant’anni, si portò dietro un interventismo militare americano cosiddetto “a scacchiera”, che si estese contro quei paesi extraeuropei che si erano schierati con il “nemico sovietico”; Stalin, Roosevelt and Churchill,Tehran in 1943


un “agglomerato” di paesi denominato “fronte rosso”. Un esempio per tutti: Il Vietnam, contro cui gli americani si sentirono in diritto di intervenire per impedire l’espandersi della politica comunista, contrastando la libertà dei vietnamiti di autodeterminarsi. Tornando agli inizi del secolo, l’”americanismo” prodotto dall’atteggiamento isolazionista, determinò già negli anni 20, un altro mito collettivo che poi ebbe a diffondersi. Il cosiddetto “sogno americano” che credeva nella mitologia del successo individuale e considerava le disuguaglianze come frutto delle diverse qualità personali. Una vera e propria filosofia dell’individualismo, che se da una parte aveva di buono la rivalutazione dell’individuo, come semplice portatore di vita e non di privilegi, dall’altra spinse alla nascita dell’”individualismo economico”, che portò alle concentrazioni di grandi capitali nel ristretto giro di poche famiglie, dando il via alla nascita di grandi imperi finanziari o corporation. Lasciando anche ampi spazi alle manovre speculative fino al primo grande tracollo finanziario del ‘29. La crisi del ‘29, infatti, causò una vera e propria battuta di arresto al “liberismo economico”, grazie anche all’opera del presidente democratico Franklin Delano Roosvelt, che, considerando i nefasti risvolti del liberismo economico selvaggio, decise di porre dei limiti e dei controlli da parte dello stato. Egli riuscì, applicando le nuove teorie economiche dell’inglese John Maynard Keynes, non solo a far uscire l’America da una crisi colossale, ma anche a impostare un nuovo tipo di economia definito New Deal. Una sorta di “liberismo corretto” da un ampio controllo ed intervento statale, rivolto a contenere l’accumulo di capitali e a controllare le speculazioni. Non solo, ma rivolto anche, con l’avvio e l’ampliamento di grandi opere pubbliche, a favorire l’occupazione e dunque a proteggere le fasce più deboli della nazione. Al punto che Roosvelt riuscì a essere rieletto e con il 60% dei voti, un caso quasi unico nella storia degli Stati Uniti.

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Il New Deal era alle radici del successo elettorale di Roosvelt, infatti, grazie alla sua politica economica indirizzata al risanamento e all’innalzamento della qualità di vita della maggioranza, ottenne sia il consenso dei lavoratori e dei piccoli imprenditori, che della popolazione di colore dei paesi del Sud. Con la clamorosa conferma al mandato di Roosvelt, la nazione aveva dato prova di essere in grado anche di superare il proprio individualismo, e ciò paradossalmente rafforzò, invece di diminuirlo, il cosiddetto “americanismo”; arricchendo di contenuti quello che dagli anni ‘30 in poi si diffuse in tutto il mondo come “il sogno americano” o “american life way”, affiancando al valore del successo individuale quello della solidarietà collettiva, una vera e propria american way che iniziava ad avere anche dei risvolti positivi. Questa sorta di “mezzo miracolo” roosveltiano, che tuttavia verrà ridimensionato dagli storici degli anni ‘60, poté realizzarsi anche e soprattutto grazie all’assenza di privilegi originati da retaggi e stratificazioni giuridiche feudali, e quindi all’assenza di caste, di ceti nobiliari (grave fardello europeo purtroppo ancora attuale e di altre parti del mondo). Inoltre, altro punto senz’altro positivo, il successo fu dovuto anche al pragmatismo puritano sassone, di un popolo di origini protestanti, caratteristica sana che ha reso la popolazione americana meno predisposta a conflitti ideologici e a deleghe dittatoriali. Tale apertura e consapevolezza di un’origine unica, democratica ed uguale per tutti, sosteneva il cittadino americano, soprattutto quello di alcuni stati in cui queste prerogative erano più forti, nell’accogliere diversità etniche (non in tutti gli stati, soprattutto parlando di quelli del Sud che rimanevano, infatti, più chiusi e tradizionali), Queste peculiarità riuscirono a portare il “popolo roosveltiano” oltre al consueto e drammatico dualismo descritto in precedenza. Ciò si sviluppò negli stati del Nord lasciando ancora gli stati del Sud in una situazione travagliata che esploderà a breve negli anni 60. Naturalmente gli stati che brillarono maggiormente per il loro senso d’apertura furono quelli di New York e della California. Altri aspetti di questo ventennio, cruciale (1932- 1952) per il futuro del resto del mondo, sono da considerare. Lo storico Richard Hofstadter affermò che il punto forte del New Deal e la grande novità rispetto al passato è stata l’alleanza, generata dalla necessità, tra mondo intellettuale e quello economico. E questo consenso produsse una partecipazione popolare mai realizzata prima e del tutto eccezionale. Mentre per William Leuchtemburg la politica


roosveltiana rappresentò solo una mezza rivoluzione, assolutamente incapace di sovvertire il sistema che in fondo rimase il medesimo, con gli stessi meccanismi di controllo del potere e dell’economia, e con una struttura non manifesta di stratificazione sociale gerarchica. Ellis Harwley ha invece diviso i mandati presidenziali di Roosvelt in tre fasi, con tre orientamernti diversi: la prima, dettata dalla necessità è caratterizzata da una pianificazione e un intervento centralizzato da parte dello stato. La seconda, tra il 1934 e il 1937, sempre suggerita dallo stato di necessità, si è caratterizzata come una lotta consapevole dello stato contro i monopoli privati. La terza, una volta fuori dalla crisi e dunque da uno stato di necessità, si è indirizzata, invece verso un rafforzamento della spesa pubblica in una direzione bellica, lasciando, per il restante mercato, ancora una volta il “via libera” al liberismo economico. Quanto lo storico Harwley avesse avuto ragione lo dimostrarono poi i fatti che si avvicendarono nella seconda metà del Novecento, che vide il manifestarsi dell’aggressivo espansionismo dell’imperialismo americano, resosi clamorosamente evidente con lo scoppio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Tuttavia l’esperienza roosveltiana aveva fondato un precedente storico positivo, importante e incancellabile, significativo e attivo per l’evolversi del futuro. La popolazione americana aveva vissuto e fatto propria l’esperienza della solidarietà collettiva. Non solo, ma grazie alle due guerre mondiali e alla politica di apertura sociale, molti artisti, scienziati, e intellettuali europei e asiatici si stabilirono come esuli nel territorio statunitense, portando la propria cultura. Ecco che tutto ciò formò delle nuove generazioni di giovani americani pronte a smantellare il mito individualista e a formare un nuovo sogno americano, quello della “fratellanza tra individui liberi”. Sogno che interessò soltanto una parte della popolazione, quella più giovane e che non si estese ai cosiddetti conservatori, ma che indirizzò un movimento di opinioni che si diffuse in tutto il mondo nel ventennio dei ‘60 e ‘70; e a cui vanno ricondotte determinate battaglie e cambiamenti di costume, nonché l’inizio di una svolta economica e di qualità di vita di carattere mondiale, tutta impostata

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ESPONENTI DEL MOVIMENTO JACKSON POLLOCK Jackson Pollock nato nel Wyoming si delinea fin dall’adolescenza come uno spirito libero e inquieto. Una delle esperienze più eclatanti, ma che senz’altro lo formarono nella sua ricerca espressiva, fu il suo contatto diretto con le tribù degli indiani Navajos in Arizona. Durante il suo soggiorno presso i Navajos, Pollock entrò in diretto contatto con la cultura degli indiani, e con le loro arti divinatorie espresse attraverso le pitture di sabbia colorata. Queste esperienze unite alla sua formazione che si svolse in due particolari “zone” degli States, rappresentate dalla California e da New York (che forgiarono le personalità più libere e creative di quegli anni da John Cage a Jack Keruac e a tanti altri) finirono per fare un’amalgama formativo dalle caratteristiche veramente esplosive e innegabilmente libertarie. Nel 1935, a New York, entra a far parte, fino al 1943, nella divisione murales del Federal Art Projiect, e inizia ad appassionarsi dell’arte di Siqueiros e Orozoco. Ecco che il formato da cavalletto diventa immediatamente estraneo; per lui lo spazio dell’arte non è più il quadro ma il grande formato del muro o il pavimento delle pitture di sabbia. In altre parole lo spazio dell’arte diventa “ambiente”. Ma tutto ciò si sedimenta con il tempo nella sua coscienza. Da Siqueiros impara l’uso degli smalti sintetici, pistole per verniciatura a spruzzo e dunque altri strumenti rispetto ai classici pennelli. Nel 1943 Peggy Guggenheim, fondatrice della galleria Art of this Century, gli organizzò la sua prima personale con opere che, seppure vagheggiavano una vicinanza al Surrealismo di Mirò e al periodo Dinard di Picasso, avevano una loro innegabile originalità, e soprattutto non si potevano definire né astratte, né riconducibili alla figurazione, in sostanza andavano oltre l’astrattismo, come nell’opera Donna luna del 1942. La mostra riscuote subito un notevole successo e l’artista diventa uno dei protagonisti della galleria. Il successo è l’ultimo ingrediente che accende

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Donna Luna, Pollock

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definitivamente la fiducia in se stesso ed espande lo spirito della ricerca. Di lì a poco, nel 1946, Pollock collauderà un’immagine costruita attraverso sgocciolamenti di colore, ma che in realtà potrà definirsi come il frutto di un vero e proprio happening, e che al di là dell’immagine rappresenterà la fusione in atto dello spazio-tempo. Andando anche oltre all’automatismo distaccato di Max Ernst, che, precedentemente a Pollock, si limitò ad osservare le oscillazioni casuali di un barattolo di colore con un buco in fondo, che rientravano nel contesto del gesto automatico e casuale surrealista. Pollock, stendendo tele di grande formato sul pavimento, mette in atto una sorta di trance creativa che gli permette di diventare tutt’uno con ciò che sta creando attraverso lo sgocciolamento di colore. Camminando sulla tela a seconda della scelta degli interventi da realizzare, sceglieva il colore che faceva sgocciolare direttamente dalla scatola di vernice. Queste opere Pollock le definì dripping semplicemente, ma ora possiamo definirle sicuramente come pre-happenings che di lì a poco si manifestarono, impostando un’arte completamente nuova e dalle caratteristiche “estetiche” complesse, intrecciate però totalmente con il mondo dell’esperienza vitale dell’individuo. Il successo fu rafforzato dall’intervento dei due famosi critici Clement Greenberg e Harold Rosenberg, ma l’individuo-artista fu preda sempre più di una frenesia ansiosa che lo portò a bere alcolici e forse a causa di ciò a morire in un incidente stradale nel 1956.

WILLEM DE KOONING (ROTTERDAM 1904-1997) Che la definizione di Action Painting calzasse soprattutto a Pollock era innegabile. Ma, sia nelle mostre che nei libri il gruppo di artisti che questa stessa definizione indicava ha sempre compreso in qualche modo anche l’olandese De Kooning, Franz Kline, Sam


Francis, Mark Rothko e altri. Tutti i vari sottogruppi dell’Informale hanno avuto questo tipo di problemi, anche perché in fondo questo grande movimento raccoglieva al suo interno un macrocosmo di individualità specifiche, ognuno con un proprio originario linguaggio o cifra stilistica. Perciò bene o male le definizioni che hanno raccolto determinati gruppi erano ritagliate in realtà sulle personalità artistiche più note. Si è parlato più esattamente di Espressionismo astratto per De Kooning, di Colorfield Abstract per Rothko, ma la cosa più importante e capirne le loro motivazioni estetiche, che univano comunque questi artisti al di là delle definizioni. Ad esempio per De Kooning i punti di riferimento della formazione della sua arte sono, ugualmente a Pollock, sia Picasso che il Surrealismo, e in particolare la gestualità automatica del Surrealismo. Non solo ma l’importanza del gesto e della materia anche in De Kooning, così come in Pollock, hanno fatto trasbordare l’immagine dal quadro, trasformandola in campo. Un campo dove l’artista non è più un semplice officiante, ma in cui entra, partecipando alla pari delle componenti in azione. De Kooning, europeo trasferito negli Stati Uniti nel 1926, incarna su se stesso l’esempio del cosiddetto sogno americano. Arrivato come semplice decoratore e imbianchino, si fa presto strada arrivando all’apice delle sue possibili aspettative, entrando nelle cerchia degli intellettuali neworkesi e stringendo amicizia con l’artista Arshile Gorky e con i critici Rosenberg e Greenberg e in seguito con Pollock. Nel 1948 insegna al Black Mountain College, la più autorevole scuola dell’avanguardia in America. Fino ad approdare a una delle più importanti università americane la Yale University. Nei suoi dipinti, che solitamente accolgono un’immagine femminile riconoscibile, la pittura è stratificata da sciabolate di segni, che creano una zona materica dove, al di là della

42 Woman Painting- Willem De Kooning


Willem de Kooning, Gotham News

figura, si raccoglie una concentrazione di gesti, una stratificazione di tempo-azione. La poca riconoscibilità dell’icona è simile a quella presente nei quadri di Fautrier. Non si può non parlare di astrazione ma come in tutte le opere informali, l’astrazione si fonde con l’icona superando sia il codice linguistico astratto che quello figurativo.

FRANZ KLINE (WILKES-BARRE-PENNSYLVANIA 1910, NEW YORK 1962) Tra tutti (insieme a Pollock) è senz’altro l’artista più vicino al concetto di action. Nato anche lui in America, si avvicina lentamente alla gestualità astratta. Ci riesce negli anni 40, trasferendosi a New York definitivamente e conoscendo Jackson Pollock e come lui morendo prematuramente e all’apice della carriera nel 1962. Partito da opere figurative nel 47 è vicino ai risultati astratti di Pollock, arrivando ad affermare di non voler dipingere le cose che vedeva ma le sensazioni che le cose comunque gli suscitavano. Che ci sia un carattere introspettivo che comunque riconduce i gesti e i segni alla realtà esperita è innegabile; ed è un carattere comune a tutti gli artisti astratti americani, che riescono a superare la regola astratta grazie al loro ricondursi pragmatico a qualcosa di reale: la sensazione. In questo atteggiamento si intravede il rifermento kandiskyano, e in particolare il primo astrattismo dell’artista russo, quello cosiddetto lirico, ancora libero dalla schiavitù della regola e del codice linguistico e stilistico che lo stesso Kandinsky adottò (astrazione geometrica). All’inizio degli anni ’50 Kline riduce all’essenziale la sua poetica abolendo i colori e riducendo la sua tavolozza al solo bianco e nero. L’artista per ampliare la forza della sua gestualità abolisce i pennelli ed usa delle pennellesse da imbianchino. La tela a grandi formati fa il resto, trasformando l’opera in uno spazio-ambiente. Sembra che l’artista abbia guardato anche all’esperienza di Mondrian, ma attraverso la propria gestualità carica di esperienza del reale. Sembrerebbe che Kline osi sfidare Mondrian, operando similmente ma in antitesi alle sue teorie geometriche. Mondrian come è noto si affidava alla regola del quadrato proprio perché non voleva assolutamente concedere nulla all’emozione, poiché anche se umana essa riconduceva comunque al reale naturale esperito, era un ponte verso la natura che lui negava. Kline al contrario avvalendosi di questo ponte si affida totalmente alla forza della sua sensazione ingigantita dal suo affidarsi al reale naturale, senza limitazioni. Anche se il bianco e nero sarà un punto di riferimento solido nella sua arte, verso la fine degli anni 50 il colore riemerge nelle sue opere. Dapprima timidamente e poi con


Franz Kline: In Color

vere e proprie esplosioni e tempeste di colore. Fino ad approdare a delle opere che tautologicamente hanno il titolo dei colori che le compongono, come in Yellow, Orange and Purple, del 1959, che pur comprendendo sempre le sciabolate nere, questa volta appaiono sommerse e in lotta con il colore. L’artista, al quale venne richiesto di spiegare il perché del suo ritorno al colore, spiegò, poco prima di morire, che per lui il colore non era possibile considerarlo un’aggiunta, un “in più” rispetto alle opere che lo avevano reso noto in tutto il mondo, ma che rivendicava a se stesso la libertà di dipingere sia a colori che in bianco e nero. Poiché il bianco e nero stesso era nato dalla voglia di essere libero dal colore, o libero dalla aspettativa dello spettatore che cercava nel pittore l’espressione di una forma riconoscibile. In realtà la motivazione del suo stesso dipingere era la ricerca di una libertà assoluta, senza confini; poter realizzare l’impossibile e cioè il poter essere totalmente liberi persino da se stessi.

MARK ROTHKO (DVINSK, RUSSIA 1903- NEW YORK 1970) Russo di origini ebraiche si stabilì in America all’età di 10 anni, seguendo la famiglia immigrata. Ventenne si stabilisce definitivamente a New York dedicandosi all’arte. Il suo percorso si evolve dal figurativo alla scoperta e condivisione del Surrealismo, fino ad un’elaborazione astratta. Condividendo, dunque, gli stessi percorsi formativi degli altri artisti, arrivando ad una formulazione di “campo” pittorico in cui il gesto si annulla nella stratificazione temporale. A mio avviso il concetto di “campo” è primariamente importante, e rappresenta una caratteristica che accomuna tutti gli artisti newyorkesi (che hanno condiviso sia gli ambienti formativi che il momento storico). Il concetto di “campo” va oltre il valore formale ed include, lo ripeto, il valore temporale e spaziale dell’esperienza dell’individuo. Se si offre priorità a questo valore di spazio-tempo si può vedere l’affinità innegabile tra questi artisti, al di là delle questioni esclusivamente stilistiche. Dare più importanza al valore stilistico, in questo caso, sarebbe come se in un documento si trascurasse il contenuto a favore del lettering o calligrafia in cui è stato scritto. Per lui 44


si parlò di affiliazione ad un altro gruppo denominandolo Colorfield Painting. Tuttavia in tutti i manuali di storia dell’arte appare a fianco a Pollock. C’è un incongruenza. E in effetti condivise le esperienze di Pollock e gli stessi riferimenti. Lui stesso, condividendo gli stessi riferimenti astratti e surrealisti presenti in Pollock, ebbe a dire nel 1945: “Litigo con l’arte surrealista e astratta solo come uno litiga con il padre e con la madre, riconoscendo l’inevitabilità e la funzione delle mie radici”. Nel 1945 ebbe la sua prima personale nella galleria di Peggy Guggenheim, ed entrò a far parte della cerchia degli artisti della galleria tra cui c’era anche Jackson Pollock. L’artista raggiunse la piena astrazione nel 1949, tre anni dopo l’inizio dei dripping di Pollock. In quegli anni ridusse quelle che nelle sue opere precedenti definite multiforms si presentavano con più macchie di colore, a opere con solo tre macchie e poi due. Ma queste cosiddette macchie erano in realtà, o così ben presto si delinearono, come porzioni di “campo”, intendendo per campo il valore stesso dello spazio-tempo infinito. Le macchie monocrome avevano solitamente l’aspetto di rettangoli orizzontali in posizione sovrapposta l’uno all’altro, ricordando il valore formale del paesaggio o dello spazio aperto. I bordi delle macchie non esistevano, erano incredibilmente sfumate e a volte impercettibili, offrendo la sensazione, a chi le guardasse, di perdita dello sguardo nell’infinito.

Franz Kline - Black and white


White Center (Yellow, Pink and Lavender on Rose), Mark Rothko

Rothko infatti dava un estrema importanza al momento della fruizione dello spettatore, che doveva combaciare con la sensazione esatta del creatore dell’opera, creando un ponte comunicativo di emozioni; così come avverrà negli happenings dei primi anni ‘60, dove artista e fruitore si annulleranno diventando un tutt’uno partecipe. Perché questo potesse avvenire l’artista, nelle opere (che dall’inizio degli anni ’50 erano di grandissimo formato) dalla metà degli anni 50 in poi, predispone che lo spettatore si trovi di fronte all’opera (sollevata di poco rispetto al pavimento) calcolando anche una certa distanza di fruizione, in modo tale che egli potesse percepire la sensazione di trovarsi dentro l’opera, immerso nello stesso spazio-tempo dell’artista artefice. Rothko stendeva il colore stratificandolo, fino a raggiungere una potenza di luce e di vibrazione che offriva allo spettatore la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di vivente e vibrante di luce. La scelta dei colori era sapiente, accostamenti arditi a volte stridenti a volte assonanti, alcuni tesi alla vicendevole esaltazione dei timbri, ma sempre in rapporto allo spettatore. Come in Red over dark blue on dark grey del 1961, dove su una grande tela di grigio scuro fiammeggia in alto una porzione di rosso sfrangiante, la cui luce fa emergere con fatica la porzione di blu in basso. Offrendo così tempi di percezione diversi che innescano un percorso-tempo nello spettatore.

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PITTURA AD INCHIOSTRO GIAPPONESE

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Il nuovo continente già dalla fine del secolo scorso era meta dell’immigrazione da parte di tutto il mondo. Ma i giapponesi iniziarono ad immigrare in America soprattutto nel periodo tra le due guerre. Una delle motivazioni era l’intenso militarismo giapponese attivato negli anni trenta a spese delle popolazioni vicine, quali Cina e Indonesia. Un’altra ancora era l’allargamento del cosiddetto “viaggio di formazione” che fino a quel periodo vedeva in Parigi e in Europa la meta preferita, praticamente esclusiva, per i giovani giapponesi. Ma da quando New York riusciva ad attrarre i maggiori maestri europei, anche qualcuno dei giovani giapponesi, almeno per raggiungerli, approdò in America. Di fatto intorno agli anni ’40 si diffusero in ambienti intellettuali statunitensi, maggiori conoscenze sulle filosofie orientali. Per diffondersi poi più ampiamente negli anni ’50, anni in cui l’esercito americano occupò il territorio giapponese, approfondendo un rapporto “diretto”, anche se da conquistatore. L’arte giapponese, quella tradizionale, aveva diverse forme di artigianato, ciò che in Giappone era considerato arte per eccellenza e non una forma decorativa, era però la “pittura a inchiostro” o suiboku-ga. Arte antichissima, ereditata dalla Cina, era una fusione tra poesia e pittura, tra calligrafia e meditazione, una forma complessa di elevazione intellettuale e spirituale. Monaci, poetesse cortigiane, principi, samurai erano potuti diventare capiscuola riconosciuti, una

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tecnica tutta basata sul gesto, non era certo alla portata di tutti. Era legata a una pratica di meditazione che portava a una sorta di trance, condizione molto simile in Giappone a tutte quelle “arti”, dal teatro alla lotta e alla danza che avevano come reale strumento il corpo, o meglio la fusione di psiche-mente e corpo. I materiali erano essenziali: carta di riso, pennello e inchiostro nero, l’unico colore ammesso, almeno nel genere più considerato. Tutto si basava sull’apprezzamento del “minimo”. Questi materiali poveri e semplici erano adatti a sottolineare la minima inflessione della linea. La linea rivestiva infatti una notevole importanza, poiché era considerata come una sorta di tracciato dell’osmosi tra l’artista e il mondo. I manufatti non erano concepiti con un intento di mimesi nei confronti della realtà, ciò che si voleva vedere emergere era la reazione psicologica ed emotiva di fronte alla vita stessa, tutta di carattere introspettivo. Né bastava la lettura razionale della mente, era apprezzato l’insieme osmotico dell’intero individuo resosi evidente in un solo gesto, ma non solo. Che tutto ciò si avvalesse di una condizione astratta era evidente. La condizione astratta dell’immagine era poi garantita dallo stesso oggetto dell’opera: la parola. Gli ideogrammi, infatti, erano in genere i veri protagonisti della pittura a inchiostro, vere e proprie icone astratte già per sé stesse; poesie arricchite da vaghe immagini alcune volte più definite, altre volte ridotte a un ideogramma. La storia della pittura a inchiostro è lunga e racchiude svariati secoli e tanti stili. Lo spazio bianco, lungi dal non rappresentare altro che spazio vuoto, s’intendeva come la somma di tutti i fenomeni allo stato latente. Lo spazio bianco prendeva forma là dove le pennellate erano assenti; in effetti in più trattati su tale tecnica si apprende che l’azione e la non-azione e i loro effetti si compenetrano, costruiscono un movimento fatto di equilibri e squilibri il cui insieme forma l’opera. In una lettura occidentale, non astratta (alcune volte anche in quelle astratte), si tenderebbe a vedere l’espressione dell’autore esclusivamente nella gestualità segnica dell’artista, tralasciando lo spazio bianco come incompiuto; così facendo si traviserebbe invece la qualità essenziale dell’opera giapponese, che vuole “essere” e non rappresentare. D.T. Suzuki afferma che la asimmetria e lo squilibrio sono prerogative dell’arte giapponese; esse riflettono una profonda meditazione della realtà, e non esprimono l’idea di volersene impossessare tramite una forma simmetrica. Si può affermare che il concetto del “bello”, così come è stato storicamente inteso in Occidente è assente nell’arte giapponese. La pittura a inchiostro, tramite la povertà dei suoi elementi, mira a sottolineare variazioni minimali ma profonde e reali della mente umana in un contatto vivo e reale con il mondo, riducendo la complessità di questo rapporto-vita alla sua essenzialità. Molti artisti statunitensi ne sono stati influenzati, sicuramente Le scritture bianche di Mark Tobey ne sono un bellissimo esempio accreditato.


GLI INDIANI D’AMERICA

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La formazione culturale del nuovo continente è la storia pregressa di un fitto sistema di acculturazioni e di convivenza di diverse culture. Questo già prima dell’arrivo degli spagnoli. Eminenti antropologi non a caso hanno svolto proprio qui i propri studi per la varietà enorme dei diversi sistemi sociali adottati dagli indigeni americani, in luoghi diversi ma nelle stesse epoche. Come ricorda uno tra questi studiosi, Peter Farb, al passaggio dei “bianchi” si estendevano dal Sud al Nord, dall’Est all’Ovest, agglomerati sociali che andavano dalla semplice orda, a tribù con complicate ripartizioni in clan, a principati e infine a veri e propri stati, nel caso ad esempio delle popolazioni atzeche. Anzi, gli studi antropologici ebbero la loro fortuna proprio qui in America. Il rispetto per il “diverso” nasce da questi studi. Tuttavia sono stati necessari ben 500 anni per comprendere e tollerare la diversità, e tuttora, in tutto il mondo contemporaneo, le tensioni sociali generate dalla diversità culturale sono all’ordine del giorno. Ma molti artisti hanno aperto la strada verso questa grande conquista, basti pensare a Gauguin, Picasso e nell’immediato dopoguerra anche a Jackson Pollock. Così la sua esperienza nelle tribù dei Navaho fu dettata probabilmente dalla curiosità verso quei manufatti straordinari di cui i Navaho restano ancora i depositari di antiche tradizioni artigianali: sia della tessitura di coperte e arazzi che delle loro famose pitture di sabbia. Ma anche dal senso di appartenenza culturale suscitato da un forte legame con il territorio, sentito e vissuto

sia dagli indiani che da chi non apparteneva all’etnia indigena, ma condivideva gli stessi luoghi. E in ogni caso chi si occupava di arte contemporanea era spinto alla ricerca del nuovo e del diverso, era la lezione stessa delle avanguardie (il Cubismo, l’Impressionismo, il Simbolismo e il loro guardare alla forma “primitiva”) e questa fu la risposta di Pollock. I Navaho sono uno degli esempi riusciti di acculturazione e di esempio di fusione culturale. Probabilmente provenienti dal Nord come orda, si stabilirono a fianco delle tribù Pleblo e Zuni al tempo dell’invasione spagnola. Da popolo di seminomadi cacciatori divennero delle tribù stanziali, prendendo a prestito dai Pueblo buona parte dei loro usi e costumi e la suddivisione in clan, con la relativa formazione tribale. Divennero anche, per questa loro apertura culturale, tra le popolazioni indigene, coloro che ebbero diversi contatti con i bianchi (non sempre felici, i Navaho erano consueti a numerose razzie verso i coloni, per non parlare delle reazioni orribili da parte dei bianchi, che costituirono una delle pagine nere della storia degli Stati Uniti), imparando l’inglese e adottando le coltivazioni di ortaggi del vecchio mondo, oltre al mais. Questo li rese tra i più abili coltivatori di quelle zone, lo stesso significato della parola Navaho ha il

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Navajo sand painting

senso di “ottimo coltivatore” nel loro linguaggio. Le pitture su sabbia avevano un senso rituale così come tra i Pueblo, ed erano legati a cerimonie. Le loro raffigurazioni erano rappresentative di un complicata mitologia e il senso stesso del cerimoniale era spesso quello di rafforzare il delicato equilibrio dell’individuo all’interno di un universo, dove ogni cosa era predisposta e aveva un suo posto. Ogni individuo all’interno della tribù aveva un suo ruolo e un suo legame a un clan di appartenenza, ed ogni clan aveva dei particolari compiti in cicli rituali e cerimonie religiose di natura agro-lunare. Le pitture di sabbia erano fatte da diversi sciamani, appartenenti a diversi clan a seconda del tipo di cerimonia. Erano in genere dei mandala, ovvero di forma circolare disseminate sul suolo, dove al centro era l’ente naturale (lago, montagna vegetale, animale ecc.) da cui scaturiva la forza benefica che manteneva l’equilibrio cosmico. Ad esempio una famosa pittura, più volte replicata secondo un tipico cliché, riprendeva le immagini del lago, con i diversi emblemi dei clan-nuvola al centro, e ai quattro angoli si addensavano i diversi tipi di piogge legate alle quattro ripartizioni e corrispondenti a quattro differenti coltivazioni (in genere canapa, cotone, mais). Intorno vi erano le rappresentazioni del ragazzo-arcobaleno e della ragazza-arcobaleno che costruivano un cerchio non completo, la raffigurazione dell’arcobaleno stesso. Erano di uno stile figurativo ma geometrico, stilizzato in perfette forme geometriche, che ne facilitava la realizzazione, visto il materiale minerale usato. Da queste pitture scaturiva la forza benefica che regolava il mondo navaho. tecnica tutta basata sul gesto, non era certo alla portata di tutti. Era legata a una pratica di meditazione che portava a una sorta di trance, condizione molto simile in Giappone a tutte quelle “arti”, dal teatro alla lotta e alla danza che avevano come reale strumento il corpo, o meglio la fusione di psiche-mente e corpo. I materiali erano essenziali: carta di riso, pennello e inchiostro nero, l’unico colore ammesso,


almeno nel genere più considerato. Tutto si basava sull’apprezzamento del “minimo”. Questi materiali poveri e semplici erano adatti a sottolineare la minima inflessione della linea. La linea rivestiva infatti una notevole importanza, poiché era considerata come una sorta di tracciato dell’osmosi tra l’artista e il mondo. I manufatti non erano concepiti con un intento di mimesi nei confronti della realtà, ciò che si voleva vedere emergere era la reazione psicologica ed emotiva di fronte alla vita stessa, tutta di carattere introspettivo. Né bastava la lettura razionale della mente, era apprezzato l’insieme osmotico dell’intero individuo resosi evidente in un solo gesto, ma non solo. Che tutto ciò si avvalesse di una condizione astratta era evidente. La condizione astratta dell’immagine era poi garantita dallo stesso oggetto dell’opera: la parola. Gli ideogrammi, infatti, erano in genere i veri protagonisti della pittura a inchiostro, vere e proprie icone astratte già per sé stesse; poesie arricchite da vaghe immagini alcune volte più definite, altre volte ridotte a un ideogramma. La storia della pittura a inchiostro è lunga e racchiude svariati secoli e tanti stili. Lo spazio bianco, lungi dal non rappresentare altro che spazio vuoto, s’intendeva come la somma di tutti i fenomeni allo stato latente. Lo spazio bianco prendeva forma là dove le pennellate erano assenti; in effetti in più trattati su tale tecnica si apprende che l’azione e la non-azione e i loro effetti si compenetrano, costruiscono un movimento fatto di equilibri e squilibri il cui insieme forma l’opera. In una lettura occidentale, non astratta (alcune volte anche in quelle astratte), si tenderebbe a vedere l’espressione dell’autore esclusivamente nella gestualità segnica dell’artista, tralasciando lo spazio bianco come incompiuto; così facendo si traviserebbe invece la qualità essenziale dell’opera giapponese, che vuole “essere” e non rappresentare. D.T. Suzuki afferma che la asimmetria e lo squilibrio sono prerogative dell’arte giapponese; esse riflettono una profonda meditazione della realtà, e non esprimono l’idea di volersene impossessare tramite una forma simmetrica. Si può affermare che il concetto del “bello”, così come è stato storicamente inteso in Occidente è assente nell’arte giapponese. La pittura a inchiostro, tramite la povertà dei suoi elementi, mira a sottolineare variazioni minimali ma profonde e reali della mente umana in un contatto vivo e reale con il mondo, riducendo la complessità di questo rapporto-vita alla sua essenzialità. Molti artisti statunitensi ne sono stati influenzati, sicuramente Le scritture bianche di Mark Tobey ne sono un bellissimo esempio accreditato.

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Navajo Sand Art


STORIA ED EVENTI IN CINA

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Mao Zedong ha rappresentato per la Cina contemporanea una figura di vitale importanza, e nessuno più di lui, almeno per questa nazione, è stato in grado di produrre un cambiamento così radicale nel corso del Novecento. La Cina con la sua guida acquista non solo la completa indipendenza nazionale ma la sopravvivenza della sua popolazione. Prima dell’avvento di Mao nelle campagne cinesi l’età media non raggiungeva i 33 anni e la mortalità infantile era altissima, valori ancora oggi superiori a quelli attuali africani. Una conquista che certamente non è stata indolore, soprattutto per gli storici ceti benestanti, ma che ha portato la Cina alla attuale prosperità economica. Al punto da poter ipotizzare, nei prossimi anni, di un possibile sorpasso degli indici dei valori sociali ed economici americani e di vederla, quindi, diventare la prima potenza economica nel mondo; attualmente ne è al secondo posto. Il cambiamento perciò è stato immane e si è attuato nell’arco di poco più di 50 anni. Il partito comunista di Mao Zedong, di iniziale ispirazione al modello sovietico, conquistò il consenso della popolazione, come è noto, attraverso la “lunga marcia”, dove in un anno (1934-35) i 100.000 contadini di Mao attraversarono il paese dalla zona del Kianhgsi a quella settentrionale dello Shangsi affrontando in modo impari le truppe armate del presidente Chiang Kai-shek, che attuava una politica ambigua nei confronti delle potenze straniere, in contrasto con gli interessi nazionali. Dopo l’evento i generali del Guomindang, costrinsero il presidente ad accettare un’alleanza con il partito comunista per fronteggiare insieme il nemico comune giapponese che si era già impadronito della Manciuria. Finita la seconda guerra mondiale con la sconfitta del Giappone, il governo di Chiang Kai-shek, favorendo i piani di spartizione del mondo che prevedevano che l’area della Cina si sottomettesse all’influenza occidentale, ruppe però l’alleanza con il partito comunista e iniziò anzi a perseguirlo. Mao rispose con un’intensificazione delle confische delle terre dei ricchi a favore della popolazione povera. In un solo anno, nel 1 ottobre del 1949 le truppe dell’armata rossa cinese entrarono a Pechino proclamando la Repubblica Popolare Cinese, e Chiang Kai-shek fu costretto a fuggire nell’isola di Taiwan. Il consenso della popolazione cinese verso Mao era dunque altissimo. L’esperienza comunista cinese mostrava una relazione forte tra la questione sociale e la questione nazionale, ovvero tra la lotta di indipendenza dalle forze e dagli interessi delle potenze straniere e la confisca delle terre dei ricchi latifondisti, che erano anche le stesse persone che si avvantaggiavano dei rapporti e commerci con gli occidentali. Le terre venivano 54


poi distribuite ai contadini poveri e non proprietari. La Cina, nell’immediato dopoguerra, contava 500 milioni di abitanti, di cui 4/5 erano contadini. L’imperativo di Mao, in quella data, fu quello di continuare la riforma agraria estendendo a tutto il paese una legge che imponeva l’esproprio del latifondo a favore della ridistribuzione delle terre, e l’esclusione dei latifondisti dai diritti civili e politici. Questa politica mutò il volto della Cina, poiché un ceto plurisecolare di nobili e di notai fu estromesso dal potere e 50 milioni di ettari di terra furono distribuiti, senza alcun onere, a 300 milioni di contadini. Tuttavia le strutture di partito accentrarono i compiti di istruzione, oltre quelli sanitari e di polizia. Ben presto dunque si formò un tipo di struttura sociale e formazione civile accentrata e diretta allo scopo di mantenere e allargare la cooperazione e il consenso al partito comunista; ancora lontana dal modello russo, ma con aspetti altrettanto dittatoriali come il controllo e la repressione del dissenso. Per contro alle donne venne assicurato il diritto al voto e al divorzio, contrastando uno stato di schiavitù di metà, dunque, della popolazione, che si protraeva da migliaia di anni. La positività di questi cambiamenti si dimostrava perciò maggiore degli inconvenienti. La politica estera degli anni ’50 fu contrassegnata da una “naturale” vicinanza con il regime sovietico, che costò alla Cina l’immediata ostilità degli Stati Uniti e dell’Onu. Ma fu soprattutto il piano quinquennale del 1953, che prevedeva l’avvio all’industrializzazione, completamente diretto dai tecnici sovietici e appoggiato dalla Russia che sancì un forte allineamento della Cina al modello sovietico. Tuttavia Mao favorì, a differenza di Stalin, una modernizzazione graduale, rispettando soprattutto i contadini, avendo cura di mantenere i generi di prima necessità a prezzo politico e non imponendo la modernizzazione a costo di sacrifici, rinunciando per esempio alle spese militari che si mantennero al 4% del bilancio statale. Inoltre già nel 1955, all’avvio della destalinizzazione della Russia, Mao si preoccupò di inviare segnali distensivi agli Stati Uniti. Mentre economicamente la via di progresso maoista dava degli ottimi risultati, nel settore culturale non si poteva affermare altrettanto. L’alfabetizzazione dei ceti poveri era un problema prioritario e fu risolto con un’organizzazione accentrata politicamente, emarginando e sacrificando i rappresentanti culturali che poi corrispondevano alla classe benestante e precedentemente dominante, che a differenza dei contadini aveva ricevuto un’istruzione. Perciò tutti gli esponenti di cultura venivano visti con sospetto e nel migliore


dei casi isolati politicamente e socialmente. Tuttavia, sentendo crescere delle tensioni sociali, Mao nel 1957 fa un primo tentativo di liberalizzare la vita culturale con il progetto cosiddetto ”cento fiori”: consistente nell’offrire spazi a esponenti della cultura tradizionale in cooperazione con gli esponenti culturali del partito, cercando di favorire il confronto, il dialogo da cui sarebbero dovuti nascere “cento diversi modi di esprimersi, cento differenti linguaggi, cento mescolanze di cultura nuova e di cultura tradizionale”. Come si poteva prevedere il dialogo aprì spazi anche alle critiche e comunque ad una libertà di pensiero che travalicava le intensioni di apertura, determinando un brusco ripensamento soprattutto delle persone che affiancavano Mao al potere e che determinarono la chiusura di questo spiraglio e un ritorno al precedente “status”. Non solo, ma si pensò bene di abbandonare la cultura per concentrarsi ancora sull’economia. Ancora una volta prevalse il modello sovietico, e si stabilì un nuovo piano quinquennale, così come era in uso in Russia, con un grande obbiettivo, la parola d’ordine fu: “grande balzo in avanti”. Il piano prevedeva la sostituzione delle precedenti aggregazioni sociali contadine organizzate in cooperative con delle cellule di partito che organizzavano anche 100.000 abitanti, e che avevano una completa autonomia perfino di voto, e di organizzazione dei servizi sociali e culturali. Il tipo di economia della “cellula” era strutturata sulle risorse del territorio, che ne stabiliva la competenza agricola o industriale. Tuttavia era per la maggior parte caratterizzata da competenze agricole o sul settore terziario, di servizi sociali per la collettività: scuole, ospedali e polizia. Il piano servì anche a fronteggiare un imponente incremento demografico, e molti abitanti delle città furono trasferiti nelle campagne, con la scusa di un progetto di “unificazione” delle caratteristiche sociali e culturali della popolazione. Con questa scusa si spostarono in maniera coatta dalle città alle campagne anche molti intellettuali, che nel progetto “cento fiori” avevano suscitato ansie circa il formarsi di aree di dissenso. Il “grande balzo in avanti” non si realizzò, anzi il piano incassò un vero e proprio fallimento, Mao by Andy Warhol

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poiché si indirizzò su un autoconsumo che non lasciava margini per un incremento e per lo sviluppo, non riuscendo al contrario a far fronte all’esponenziale aumento demografico e alla necessità di nuove risorse e consumi. Addirittura si creò una grande carestia, responsabile della morte di un innumerevole numero di abitanti. Ma il fallimento economico della fine degli anni ’50, non causò un abbassamento del generale consenso che continuava a godere Mao e il partito comunista. Servì però a cambiare rotta politica, e dunque all’allontanamento dal modello sovietico, a una apertura della politica estera e a nuovi progetti avviati nel corso degli anni sessanta.


VERISMO SOCIALISTA

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Così come nella politica anche nella cultura il modello russo giocò, nella nascente Repubblica Popolare Cinese, un ruolo fondamentale. Mao stesso ebbe cura di impostarne le basi nel celebre discorso a Yan’an nel 1942, ben prima della formazione della repubblica popolare. In quell’occasione Mao dichiarò esplicitamente gli intenti di predisporre l’arte e la cultura alle esigenze prioritarie della popolazione e del partito. Ma ciò che aveva in mente Mao (soprattutto nel’arte visiva), come apparve poi chiaramente negli anni successivi, era il modello russo: Il realismo socialista, che soddisfaceva più che altro le esigenze del partito, comunicandone un’idea propagandistica di progresso e di consenso. Non solo, ma, ancor più che in Russia, lo stile “realista” rappresentava in Cina, un vero e proprio taglio con l’antico assetto, poiché essa non annoverava una tradizionale pittura realista, bensì bidimensionale; e il nuovo corso della storia aveva una necessità prioritaria di eliminare anche le immagini del passato, che ne avrebbero potuto riproporre gli usi, i costumi, e un tipo di educazione che di certo non si adattava alla nuova organizzazione sociale. Così gli indici stilistici e addirittura tutta l’attività artistica fu pianificata e comunicata fin dal luglio del 1949, con il primo congresso dei Lavoratori dell’arte e della letteratura, che sancì la creazione dell’”Associazione degli artisti” sotto la direzione del Ministero della Cultura che aveva il compito di rieducare e impiegare gli artisti, che risultavano regolarmente assunti e stipendiati, per lavori di decorazione delle grandi opere pubbliche e di tutto ciò che necessitava un’icona che rendesse visibile e comprensibile l’uso del tale

Fu Baoshi

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edificio pubblico, o la necessità di raccontare le vittorie storiche del Partito. Persino la grafica delle pubblicazioni si ebbe cura di pianificarla e di progettarla con un realismo che illustrava per lo più l’immagine di Mao o quella dei lavoratori divisi in categorie lavorative. A capo dell’Associazione degli artisti era stato posto Xu Beihong, che già nella precedente Repubblica si era imposto per un certo talento diventando in giovane età insegnante all’università di Pechino. Ma soprattutto era tra tutti l’artista più convinto che per rinnovarsi occorreva esprimersi sia con la tecnica della pittura ad olio, che in un linguaggio realista occidentale, da lui appreso direttamente in ripetuti soggiorni in Europa dal 1919 al 1936. Ma la pittura ad olio era ancora estranea culturalmente agli artisti cinesi e le incongruità a volte risultavano palesi. Per questa ragione Mao si decise a prendere in considerazione una via più graduale di cambiamento, permettendo la possibilità di esprimersi con la tradizionale tecnica della pittura classica guohua, la pittura secolare di paesaggio con tecnica ad inchiostro. Nel 56-57 dal Ministero della Cultura avvia il progetto “Cento fiori”. Con l’imperativo di Mao “Che il passato serva il presente” si tentava di avviare un passaggio più graduale al realismo socialista, evitando anche il rischio che la secolare forma d’arte venisse praticata in clandestinità, diventando un emblema di dissenso. Del resto era possibile impiegare l’antico stile in forma simbolica, piegando l’iconografia tradizionale ad un’accezione celebrativa. Come ad esempio nella grande opera della Sala del Popolo dell’artista Fu Baoshi, un grandioso paesaggio di 5 metri x 9 che illustrava la grandezza della Cina e intitolata con un verso di una poesia di Mao “Tale è la bellezza delle nostre montagne e corsi d’acqua” del 1959. Opera che illustra, con una prospettiva surreale tutta l’ampiezza dei luoghi significativi della Cina: dalla Grande Muraglia, alle montagne innevate, ai deserti del nord e alle risaie del sud. Con una prospettiva realista ne sarebbe risultato impossibile la realizzazione. L’opera è stata utilizzata spesso come fondale per le fotografie ufficiali delle delegazioni straniere in visita in Cina.


AUTORI ED OPERE

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SHI LU (FENG YAYAN 1919-1982) Fu uno degli artisti che attuarono una scelta difficile: e cioè il cercare di far progredire la tradizione nei nuovi eventi senza cancellarla; modernizzando il patrimonio culturale facendolo incontrare con le nuove esigenze rappresentative. Una delle opere più esemplari di questo tentativo è Combattendo nello Shaanxi settentrionale. Il dipinto di oltre 2 metri rappresenta il momento dove la Lunga marcia trova maggiore resistenza nella regione settentrionale e riesce ad avanzare trovando nelle barriere montuose una protezione e una difesa naturale, che gli permise di restare invitta pur non avendo adeguati strumenti per contrastare le forze armate nemiche. Tutto l’impianto è tratto da una tipologia di paesaggio tradizionale della dinastia Song, fatto ad inchiostro su carta, con i dettagli delle rocce che si sfumano diluendosi e sparendo nella nebbia delicatamente tracciata a filo di pennello. Mao compare sulla sommità, stagliandosi sulla nebbia in una posizione meditativa e con lo sguardo rivolto al paesaggio sottostante, lievemente tracciato e sfumato in lontananza. Il dipinto acquista un valore sia simbolico che moderno, con una semplice idea che è quella di far dilagare sulle rocce sottostanti Mao un colore rosso vivo, che allude alla vittoria finale della marcia e alla svolta storica del destino di tutto il paese. La tradizione si fonde con le nuove idee, il colore acquista un carattere non rappresentativo ma simbolico, mantenendo la necessità della narrazione voluta dal controllo politico sulla produzione degli artisti. Persino l’inserimento della figura umana (quella di Mao) come protagonista è una novità, rispetto ai canoni tradizionali che non raffiguravano le figure umane, poiché contestualizzavano le pitture togliendo il senso di maestosità e di infinito dei paesaggi naturali. Oppure erano

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soliti ritrarre l’uomo minuscolo, quasi invisibile rispetto alla monumentalità naturale. Non solo ma della tradizione l’artista rispetta anche la prospettiva resa in diagonale e vista dall’alto, some se l’osservatore fosse ancora più maestoso di quel paesaggio. Ma proprio questo suo essere un fedele interprete della tradizione gli valse aspre critiche da parte del pubblico politicamente attivo e dalle cariche più alte. Al punto che durante la Rivoluzione Culturale fu talmente incompreso da essere condannato, per aver implicitamente offeso e calunniato il presidente Mao proprio con quest’opera che lo ritraeva lontano dalle masse. L’artista che era talmente sensibile da essersi scelto un nome d’arte, così come era in uso nel XVIII secolo durante la raffinata dinastia Qing, richiamandosi al grande pittore Shitao e al letterato di maggior rilievo della Cina moderna Lu Xun, non riuscì a riprendersi nemmeno dopo la fine della prigionia. Al punto che morì a soli sessantadue anni in un ospedale di Pechino. Lasciando tuttavia delle bellissime opere di stile calligrafico. Uno stile calligrafico che continua la ricerca dell’artista nel suo spirito di interprete moderno della tradizione.

FU BAOSHI (1904-1965) Anche Fu Baoshi fu un rappresentante di quella cerchia di artisti che, all’indomani della presa al potere del comunismo, ebbe il difficile incarico di trovare una mediazione tra la pittura tradizionale guohua e le nuove esigenze moderniste e di rinnovamento. Tutto ciò era chiaro allo stesso Mao, che intelligentemente comprese quanto fosse impossibile un cambiamento radicale che spazzasse via una cultura millenaria, impostata su uno stesso percorso linguistico. Mentre infatti la storia europea era costellata da forti e continui cambiamenti, e da numerosi “innesti” e prestiti culturali, la storia culturale cinese appariva come una linea continua dell’evoluzione di uno stesso pattern culturale. Perciò, da bravo comunicatore qual’era, anche per questa occasione Mao coniò uno slogan che offrì una indicazione non equivocabile: “Che il passato serva il presente”. Così Fu Baoshi si applicò all’impresa. Uno dei primi cambiamenti che si poté apportare al vecchio stile fu proprio quello di sfruttare la tendenza tradizionale a suggerire porzioni di paesaggio grandiose. Oltre alle prospettive di tipo intuitivo a grand’angolo, dunque, Fu Baoshi aggiunse la grandiosità dei mezzi, ovvero opere di grandi dimensioni che si


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rendevano così anche rappresentative. Grazie a queste sue qualità venne incaricato di realizzare un grandioso dipinto che celebrasse la Cina, concepito per offrire un’identità specifica alla Sala del Popolo, destinata a riunire le più alte cariche del governo a Pechino. Un grande incarico dunque. Così come era consuetudine nella guohua tradizionale il dipinto prese il titolo da una frase contenuta in una poesia, ma questa volta il poeta prescelto era proprio Mao; e il dipinto prese il titolo di: Tale è la bellezza delle nostre montagne e corsi d’acqua 1959. La grandiosità trovò spazio in 9 metri di lunghezza e circa 6 metri di altezza, misure consone alle nuove esigenze rappresentative. Il paesaggio che vi era tracciato comprendeva tutta la Cina, dalla Grande Muraglia, alle montagne innevate del nord; comprendendo le zone deserte degli altopiani centrali e le fertili risaie del sud, nonché gli sbocchi al mare del fiume giallo nella parte orientale del paese. Soltanto con un tipo di prospettiva intuitiva si sarebbe potuto arrivare a schiacciare l’intera Cina in una “mappa ideologica”, ma di cotanto effetto. Da lì a poco negli anni ‘60 e ‘70 il realismo e la nuova tecnica ad olio porterà ad una prospettiva esatta di tipo occidentale, e le immagini a grande effetto di lontananza non saranno più realizzabili, o meglio verranno abbandonate a favore di altri soggetti “più ravvicinati”, più verosimili, ma meno simbolici. Il dipinto accolse il favore di Mao che era solito ricevere anche le visite dei presidenti e ministri stranieri nella Sala del Popolo e amava farsi ritrarre nelle fotografie ufficiali, proprio davanti al dipinto che magistralmente rappresentava tutta la sua terra. 62


QI BAISHI (1863 1957) Uno degli artisti preferiti di Mao era l’anziano Qi Baishi. Spesso negli incontri ufficiali regalava i suoi dipinti alle autorità straniere in visita. Una stima che condivideva con altri numerosi amatori, tanto che nel 1953 il vecchio artista venne eletto presidente dell’Associazione degli artisti cinesi. Eppure il suo stile era totalmente tradizionale, i suoi soggetti, realizzati rigorosamente nella tecnica della pittura ad inchiostro, comprendevano scene quotidiane tratte dal repertorio tradizionale della guohua: gamberi, pesci, fiori, paesaggi sempre accompagnati da calligrafie poetiche, provenienti da esempi della tradizione Ming, con particolare riguardo alle opere dell’artista tradizionale Xu Wei. Oppure in riferimento alla tradizione Ch’ing, con scene riprese da artisti come Bada Shanren o Zhu Da. In sostanza la tradizione più classica, persino risalente alle rappresentazioni care alla iconologia buddista, come il vecchio accovacciato che crea quasi un cerchio, o ancora il bufalo domato. Una delle iconologie più consuete alla rappresentazione sacra buddista, è infatti la rappresentazione del bufalo, descritta in varie fasi e con diverse scene,. Appare particolarmente controverso l’atteggiamento di Mao e delle autorità, che da una parte insistevano sull’esigenza di rinnovamento e poi offrivano appoggi e incrementavano proprio l’attività degli autori che come Qi Baishi seguivano i dettami più tradizionali. Probabilmente la ragione va cercata nella particolare storia di questi artisti. Ad esempio per quanto riguarda Qi Baishi era di umile origine, proveniva da una famiglia di contadini, e vista la sua costituzione particolarmente fragile e inadatta al lavoro nei campi fu avviato, dopo le scuole dell’obbligo, a un apprendimento di un lavoro artigianale come quello di falegname. Perciò iniziò come autodidatta a dipingere per suo diletto. La semplicità delle rappresentazioni, l’ingenuità della tecnica, la mancanza di raffinatezza saranno delle peculiari costanti delle opere dell’artista, che forse proprio grazie a questo carattere “popolare” lo renderanno l’artista preferito da Mao. Infatti, proprio la sua mancanza di studio e di virtuosismo, restituiva tuttavia della particolare freschezza e vitalità a delle immagini che altrimenti sarebbero risultate in qualche modo anche obsolete, nella ripetitività dei soggetti e delle composizioni. Le sue opere sono conservate nei maggiori musei di Pechino.

Qi Baishi, “Shrimp”


LIN FENGMIAN (1900-1991) Forse uno dei pochi interpreti cinesi del Novecento che riuscirono a trovare una fusione straordinariamente funzionante tra l’arte occidentale e quella orientale. Il suo segreto, è proprio quello di essersi recato sul posto. Infatti appena ventenne ebbe il coraggio di andare in Occidente a Parigi, e lì compiere i suoi studi di formazione nella scuola di belle arti. Per mantenersi faceva il pittore di insegne pubblicitarie. Risedette a Parigi per quattro anni dal 1920 al 1924, proprio gli anni in cui le Avanguardie dei primi del Novecento, si amalgamavano nel linguaggio sintetico ed astratto che prese poi il nome di “Ecole de Paris”. Momento ideale per un artista orientale. La lezione degli artisti giapponesi era ormai parte della storia artistica parigina e faceva da antecedente storico e da supporto per i formalismi di sintesi astratta che erano ormai presenti in tutte le avanguardie. Sinanche nel cubismo che da analitico si era trasformato in sintetico, grazie alla forza innovatrice del movimento astratto. Ciò che FengMian riuscì ad apprendere nel suo periodo parigino, in maniera direi naturale e organica fu proprio il sintetismo astratto di Matisse e di vanGog. A questa naturale tendenza espressiva aggiunse la millenaria forza sintetica e simbolica cinese e il “matrimonio” riuscì perfettamente, potenziando un linguaggio che tuttavia non aveva ancora ultimato la sua perfezione e la sua forza espressiva. A questo ottemperò un’altra causa fortuita o calcolabile all’interno dell’ ipotesi di un proseguio a completamento del viaggio formativo occidentale. Da Parigi, infatti Lin si spostò in Germania e in Austria, dove tra l’altro si sposò con una aristocratica austriaca di nome Roda…,ma il matrimonio ebbe una fine fatale, che si portò via sia la moglie che il figlio neonato con un parto disastroso. Un evento infelice che riportò l’artista in patria, con un dolore da dover gestire, ma anche con un apprendimento straordinario che apportò l’evoluzione completa e riuscita di un incontro tra due culture, quella espressionista parigina (Matisse) e quella espressionista tedesca (Nolde) in una situazione di elaborazione sintetica di un nuovo pattern e di evoluzione di un nuovo linguaggio. Una delle grandi innovazioni stilistiche di Lin é la potenzialità espressiva del colore. L’artista dimostrò di essere un grande colorista, collegandosi alla gamma dei colori della ceramica del periodo Song. Un colorismo che si incontrò felicemente con la gamma nordica, profonda, dei colori degli acquarelli di Nolde. Purtroppo le opere dell’artista vennero in gran parte distrutte sia dalla guerra cinogiapponese, che da un dissidio questa volta tutto interno, ovvero dalla cosiddetta Rivoluzione culturale, e anche e soprattutto all’inizio del piano quinquennale del ‘56 dove l’artista venne fatto oggetto di aspre critiche, in quanto fautore di stili decadenti e borghesi occidentali, al punto che dal ‘56 al ‘60 l’artista ebbe problemi con la legge, tali da spingere la sua famiglia (moglie e figlia) ad allontanarsi. Alla fine di questo periodo venne finalmente reintegrato con la campagna di pacificazione di Zhou Enlai. 64


Lin Fengmian, unknown title


LA PITTURA TRADIZIONALE CINESE

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Nell’ottavo secolo in Cina, dove si era affermata la dinastia mongola che rese ufficiale la religione buddista divenuta ormai religione di stato, si diffuse un’arte che rifletteva le due grandi scuole buddiste cinesi. Nel Nord si era stabilizzata nel buddismo la teoria gradualista del monaco Shen Xiou. Nel Sud si estese quella immediata del monaco Hui Neng, dove al contrario si pensava che l’illuminazione si potesse ottenere anche immediatamente, senza una preparazione graduale. Rispettivamente la pittura che illustrava le due grandi scuole si divise in quella di corte, che seguiva il pensiero gradualista, e dunque riguardava la scuola del Nord, e quella che invece si rifaceva ai fondamenti della concretizzazione immediata legata al pensiero di Hui Neng, che si diffuse nel Sud e che caratterizzò la scuola del Sud. Con il tempo la seconda ebbe un consenso maggiore, in particolare si apprezzava la stretta unione tra pittura e calligrafia, ovvero la“poesia calligrafica”, che ben presto si diffuse anche negli altri paesi estremorientali, come ad esempio il Giappone. Alla maniera di Wang Wei (699-759), epoca Song (960-1280) Poeta ed erudito, nonché, secondo la tradizione, uomo di nobile carattere e di elevati sentimenti, Wang Wei (699-759) fu considerato dagli eruditi Ming e Qing (1644-1911), come il fondatore della tradizione dei letterati cinesi e i suoi paesaggi come le espressioni delle più alte virtù confuciane, sebbene siano giunte a noi solamente delle copie di epoche successive, diverse tra loro per stile e per tecnica. Questo artista determinò le principali caratteristiche della pittura di paesaggio cinese buddista in generale, e dunque stabilì un canone che si estese alle epoche successive. Ma in particolare il suo stile fu imitato dalla scuola del Sud. Si affermò soprattutto l’uso del grande formato orizzontale, della prospettiva ad uccello e della poesia calligrafica che solitamente era posizionata lateralmente rispetto al paesaggio. La pittura di paesaggio si raggruppò in tipologie cicliche che rimandavano alle quattro stagioni: primavera, estate, autunno e inverno, che spesso 66 Wang Wei Poem “Now where was I?”


LI Zhaodao “Emperor Minghuang’s Journey into Shu Tang Dynasty”

erano da intendere come metafore della vita umana. Secondo le teorie di Dong Qichang, i capostipiti della Beihua (pittura settentrionale), furono invece Li Suxun (metà VII secolo- 715?) e Li Zhaodao (VIII secolo) che portarono alla perfezione uno stile pittorico estremamente particolareggiato nei dettagli, meticoloso e minuzioso, con attenzione soprattutto alla realizzazione delle rocce che venivano rappresentate con particolari pennellate ad inchiostro non diluito. Questo stile successivamente si arricchì di colori, con l’utilizzo di colori vivaci con predominanza di azzurro e verde, per sottolineare la distanza dell’inquadratura. Quest’ultimo genere che successivamente verrà distinto anche in daqinglu (grande blue-e-verde) e xiaoqinglu (piccolo blue-e-verde), assieme al gongbi, il “tratto meticoloso”, più realista, costituì, da un punto di vista prettamente tecnico, uno degli elementi base per dipingere secondo lo stile accademico Alla maniera di Li Zhaodao (VIII secolo), epoca Song (960-1280) La definizione “blu-e-verde” derivò dai pigmenti di minerale blu e verdi che vennero uniti al carbonato ramato d’azzurrite e malachite. Talvolta veniva aggiunto anche dell’oro (diluito come se fosse pigmento) lungo i bordi delle rocce per regalare all’opera una complessiva brillantezza e luminosità. Il genere blu-e-verde, definito anche “paesaggio d’oro-e-verde”, durante l’epoca Song, ( XII sec), cioè quando l’inchiostro monocromo era oramai più popolare, venne considerato uno stile arcaico e rappresentò alla fine un genere tipico della pittura accademica. La distinzione tra grande e piccolo non era legata al formato ma alla forza espressiva del colore: l’uno brillante, l’altro tendente a sfumare sempre di più, con l’aggiunta di una leggera velatura porpora applicata per smorzare la brillantezza del colore.


L’antico libro Chieh Tzu Yuan Hua Chuan (Letteralmente Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape) uno dei manuali di pittura più diffusi e arrivato dal 1679 fino ai nostri giorni, molto semplicemente così definisce le caratteristiche delle due scuole: “La divisione del buddismo nelle Scuole del Nord e del Sud ebbe inizio in epoca T’ang. Lo stesso accadde nell’ambito della pittura, sempre in epoca T’ang.” La Scuola del Nord venne fondata dal Li Ssuhsun e da suo figlio. Il loro stile venne seguito e sviluppato da Chao Kan, Chao Po-chu e Chao-Po-su, nonché più tardi da Ma Yuan e da Hsia (Kuei) Yen-chih. La Scuola del Sud ebbe inizio con Wang (Wei) Mo-chieh, che eseguiva lievi sfumature all’acquarello e inaugurò il metodo del kou che (contorno interrotto). Questo stile fu utilizzato e sviluppato da Chag Tsao, Ching Hao, Kuan T’ung, Kuo Chung-shu, Tung Yuan, Chu-juan e dai Mi, padre e figlio, fino ai quattro grandi maestri dell’epoca Yuan. La situazione nel campo della pittura presentava analogie con quelle del Buddismo al termine dell’epoca dei Sei Patriarchi (Hui-neng 637-713). Quando il Ma-chu e il Yun-men (branche della Scuola del Sud del buddismo Zen) cominciarono a fiorire e si assistette al declino della Scuola del Nord.”

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Spring outing painting by Zhan ZiQian


LA NASCITA DELL’HAPPENING

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Per tutta la prima metà del Novecento, il Giappone, così come nelle discipline tecniche e nelle forme culturali, e anche nell’organizzazione economica, decide di acquisire dall’Occidente buona parte della struttura organizzativa e delle tecniche moderne, di cui il Giappone, vissuto nel completo isolamento rispetto all’Occidente per ben due secoli e mezzo, era completamente all’oscuro. Si tratta di una forma, prima della seconda guerra mondiale, di acculturazione volontaria,di cui i vertici politici del paese ne pianificarono dettagliatamente l’avvio. Tale decisione portò una trasformazione radicale di tutta la nazione, in circa un secolo da una struttura feudale si passò a una moderna e progressista, basata sullo sviluppo industriale. La scelta maturò dalla constatazione di uno stato di estrema debolezza e di assoluta impossibilità di competizione nei confronti dell’Occidente, armato del progresso tecnologico e industriale. Da lì l’accettazione della necessità di mettersi in parità e di consentire l’evolversi dello stesso progresso tecnologico e scientifico. In arte questo determinò la divisione in due scuole di pensiero: una protezionistica e indirizzata verso la cura e la continuazione dell’antica tradizione nihonga; e l’altra a favore del rinnovamento guardando alle nuove scuole di pensiero occidentali denominata yoga. All’interno della prima si protrassero le cosiddette scuole che avevano una struttura feudale: un gruppo di discepoli e un maestro, attivi a mantenere lo stile del maestro nelle diverse discipline. Le tecniche si estendevano dalla calligrafia o pittura ad inchiostro chiamata suiboku-ga, alla pittura di paesaggio, alla decorazione su grandi pannelli di carta, all’ikebana, alla ceramica, la xilografia e ad altre forme tradizionali. Nello yoga si svilupparono delle forme individuali di apprendimento e di studio e di progressiva affermazione del proprio stile. Così come accadeva negli autori occidentali. Naturalmente presero sempre più spazio quelle discipline che avevano una grande tradizione in Occidente, come ad esempio la pittura ad olio, del tutto sconosciuta prima dell’impatto con la cultura occidentale. Per apprendere meglio le tecniche e i modelli formali, visto che nel proprio paese non c’erano ancora dei punti di riferimento sicuri e autorevoli, divenne consuetudine il “viaggio di formazione in Occidente”. Gli autori che avevano possibilità, o quelli più coraggiosi che nonostante i pochi mezzi erano pronti ad affrontare le insicurezze e un difficile percorso di auto sostentamento in un paese straniero. Naturalmente la meta preferita fu Parigi e presto, nei primi decenni del Novecento si diffusero anche in Giappone il Post-impressionismo, il Surrealismo e l’Astrattismo. Un posto a parte ebbe il Futurismo, che attraverso Marinetti si diffuse già dal 1910, contemporaneamente all’affermarsi stesso della tendenza futurista in

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Saburo Hasegawa, Supreme Goodness is Like Water

Italia e a Parigi. Questa pronta diffusione fu dovuta grazie sicuramente al grande attivismo di Marinetti, ma probabilmente anche per la chiarezza del messaggio futurista, che guardava al futuro e al rinnovamento, obbiettivi comuni anche per gli artisti giapponesi che invece avevano difficoltà a comprendere le altre avanguardie. Come per esempio l’Impressionismo o l’Espressionismo, tendenze che gli stessi occidentali avevano desunto dalle opere tradizionali giapponesi, e che per i giapponesi non rappresentavano infatti delle novità (stampe ukiyo-e). Finalmente durante gli anni ‘30 si stabilizzarono soprattutto due tendenze: una astrattista e l’altra surrealista, in fondo anche in Europa si determinò questo. In Giappone, tuttavia, si tese a riaffermare l’antica struttura a gruppo, che si stabilì paradossalmente anche in Occidente. Tutto ciò fu forse dettato da un fenomeno di sincretismo culturale. In parole povere così come in Giappone era in uso da sempre il raggrupparsi di alcuni discepoli intorno ad una figura identificata come leader o maestro, anche in Occidente divenne usuale formare dei gruppi di artisti intorno a una figura leader. Evidentemente l’impatto culturale stava creando una doppia trasformazione: sia in Occidente che in Giappone. Al di là delle volontà individuali, quasi in una forma automatica l’Oriente stava apprendendo dall’ Occidente e così l’Occidente dall’Oriente. Del resto anche in Occidente in tempi più antichi operavano le cosiddette botteghe che funzionavano in fondo anche come scuole di formazione, soprattutto prima del ‘500, quando ancora non esistevano Accademie di belle arti. Anche in Giappone, sulla stessa modalità dell’Occidente si formò l’Accademia Imperiale delle belle Arti, verso la fine dell’’800, e proprio per emulare l’Occidente. Ma la tradizione di seguire un “maestro” era così forte, che continuò ad affermarsi, soprattutto se quest’ultimo era stato in Occidente e aveva ottenuto dei progressi stilistici da questo viaggio di formazione. Dopo la seconda guerra mondiale la linea astratta si affermò maggiormente rispetto a quella surrealista. Fu determinante l’esigenza di rifiutare l’icona o l’immagine che restituiva una dolorosa sensazione di collegamento con una realtà che, seppure surreale, affiorava comunque dall’immagine iconica. E dunque l’astrattismo di Saburo Hasegawa, così forte e nuovo divenne uno dei punti di riferimento del dopoguerra. In particolare perché era un


astrattismo di carattere lirico e antropomorfo, come quello di Mirò, che superava i rigori dell’astrattismo geometrico affermando un altro linguaggio più ancestrale, archetipale e segnico. Anche un altro grande artista era riuscito ad andare oltre all’astrattismo geometrico: Jiro Yoshihara. Con un colpo da vero maestro egli riuscì ad intuire le potenzialità astratte dell’antica calligrafia, affermando il superamento del rigore geometrico dell’astrattismo con l’antropometria del gesto del braccio, e con la linea continua e organica della calligrafia in corsivo, ovvero attraverso il recupero della pittura calligrafica giapponese. Si affermò così un tipo di Informale gestuale, segnica, testuale che al tempo stesso riuscì a recuperare l’antica tradizione e ad anticipare le Neo-avanguardie degli anni 70. Yoshihara riuscì ad anticiparle sulla linea di Pollock, ovvero attraverso il gesto che al contempo era anche azione. Egli le anticipò introducendo inoltre un legame indissolubile tra il gesto e il simbolo, lo stesso che esiste tra l’azione e la comunicazione, che sono in fondo i due strumenti antropomorfi e concreti delola comunicazione, attraverso i quali l’uomo si rapporta e gestisce la propria relazione con il reale. E’ un’anticipazione di tutte quelle forme artistiche anche occidentali che si interessarono al testo, alla parola e al linguaggio. Si anticipa così quelle correnti denominate “concettuali” negli anni 70.

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Blue Calligraphic Lines on Dark Blue - Jiro Yoshihara


IL GRUPPO GUTAI Shozo Shimamoto “The 2th Gutai Art Exhibition” Ohara Hall, Tokyo, 1956.

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Il gruppo Gutai si formò nel luglio del 1954, con 16 giovani artisti che si riunirono sotto la direzione di Jiro Yoshihara, nella città di Ashiya. Questa città si trova nella zona conosciuta con il nome di Kansai. Tale zona comprende le città di Kobe, un porto commerciale di scambi internazionali, Osaka, importante centro industriale sia economicamente che culturalmente, e infine Kyoto, l’antica capitale, apportatrice di una grande eredità culturale. La distanza tra ognuna di queste città equivale all’incirca a trenta minuti di treno. Tali caratteristiche fanno della regione del Kansai, il centro più importante sia economicamente che culturalmente della parte occidentale del Giappone. Nel dopoguerra la maggior parte degli artisti, prescindendo quelli affiliati a corporazioni ufficiali, era organizzata in gruppi, i quali annualmente bandivano un concorso pubblico accogliendo così dei nuovi soci. In Ashiya, nel 1948, ad opera di Yoshihara nacque un gruppo dal titolo istituzionale: Associazione artistica della città di Ashiya. Anche questo gruppo organizzava un’esposizione annuale la cui partecipazione era regolata da un bando pubblico. In questo modo Yoshihara prese contatto con i giovani con i quali formò in seguito il gruppo Gutai. In Occidente una cosa del genere sarebbe stata giudicata ufficiale e conservatrice, o in ogni caso difficilmente avrebbe avuto a che fare con la avanguardia. Mentre gli intenti che univano gli artisti e Yoshihara erano proprio quelli di creare qualcosa di nuovo, una nuova avanguardia, così come lo era stato il Dada occidentale, formatosi dopo la prima guerra mondiale. Il gruppo si formò effettivamente nel 1955 in occasione della 1°Mostra all’Aperto realizzata nella pineta della città di Ashiya. La scelta di esporre all’aperto comportava l’indirizzarsi in due ben precise direzioni. La prima era quella di rifiutare il consueto circuito espositivo 74


ufficiale e quindi di schierarsi all’opposizione e in modo avanguardistico rispetto all’arte ufficiale. La seconda era quella di superare la realizzazione del cosiddetto “quadro”, che di certo non era idoneo agli spazi naturali. Ciò che esposero in quell’occasione gli artisti gutai, così come negli anni seguenti, era quanto di più disparato possibile. Kanayama arrivò ad esporre persino un semaforo vero. In sostanza erano degli oggetti che lo spettatore doveva azionare o percorrere, o installazioni articolate nello spazio nelle quali lo spettatore doveva introdursi. In breve lo spettatore per poter usufruire di queste opere doveva “agire”, “esperire”. Ma in molti casi l’azione era eseguita dall’artista stesso e lo spettatore diventava pubblico dell’Happening. Come in Entrate per favore dove Kazuo Shiraga prendeva a colpi di scure un’enorme catasta a forma di fascina, realizzata con fusti di albero dipinti di rosso. Dovevano essere delle opere le cui dimensioni fossero capaci di coesistere con le dimensioni ambientali degli spazi naturali. Il gruppo realizzò diverse mostre all’aperto o in spazi alternativi come ad esempio in un teatro. Gli artisti sentirono l’esigenza di comunicare queste esperienze e di confrontarsi con altri artisti anche all’estero. La prima cosa che gli artisti giapponesi crearono insieme fu quindi un bollettino, una rivista denominata Gutai, ovvero Concreto, che poi divenne il nome stesso del gruppo. Il bollettino era pressoché un annuario o un semestrale, e conteneva le immagini delle esposizioni realizzate durante l’anno. Le prime esposizioni erano tutte impostate su un nuovo tipo di espressione, e sottolineo la parola espressione anziché tecnica o linguaggio. Non si trattava infatti di realizzare un nuovo stile, ma finalmente quella di esprimere la necessità di riconoscersi pienamente in un modello culturale che rappresentasse la “propria” arte contemporanea e non una mera copia dell’arte occidentale. Non solo, ma i giovani artisti di allora sentivano più di ogni altra generazione la voglia di voltare pagina, di cancellare il passato soprattutto quello recente. Lo stesso Yoshihara accantonò il suo passato artistico e si ripropose di lavorare e crescere insieme al gruppo per esplorare e sperimentare un campo nuovo e trovare un’espressione più diretta. Ciò che venne fuori dal gruppo, fu un tipo di espressione Kazuo shiraga “please get in”


che coinvolgeva sia il corpo dell’artista che quello del pubblico. Ovvero un tipo di azionismo “arricchito” dall’assemblaggio e dall’uso di oggetti, o materie, che riuscivano a coinvolgere le percezioni sensoriali dello spettatore. Era un azionismo a tutti gli effetti, realizzato anticipando l’Occidente di almeno un lustro. La componente oggettuale poteva avere delle lontane similitudini con l’arte programmata, che tuttavia comparve appunto almeno 5 anni più tardi. Oltre dell’Arte Programmata, il Gutai può a buon diritto riconoscersi come anticipatore dell’Happening, dell’Azionismo e delle Neo-avanguardie in genere. Il bollettino a questo riguardo fu uno strumento prezioso, in quanto testimonianza delle opere che per il loro carattere effimero erano consumate nell’atto stesso dell’esporle. E dunque insieme a un video e alle foto il bollettino rimase l’unico strumento di riporto e di riferimento di quelle opere. Fu anche uno strumento di diffusione e di comunicazione; scritto anche in inglese infatti, girò nelle capitali più importanti per l’arte contemporanea e probabilmente ciò spiegherebbe la diffusione posteriore di forme analoghe occidentali di performance, happening e azionismo. Nell’azione Gutai il linguaggio e gli stili precedenti e contemporanei occidentali scomparvero, è vero, ma è innegabile riconoscere che essi funsero da catalizzatori, implicitamente sollecitarono le nuove opere, come brace sotto la cenere. Lo stesso atto di abbandonarsi al sentire, oltre a essere un caposaldo dell’arte orientale, è anche un’applicazione della sperimentazione dell’arte contemporanea (dall’Impressionismo in poi tutta l’arte contemporanea poggia sull’interiorizzare o esternare la “sensazione” del reale, vedi Bergson). Ma proprio sul filo della percezione, l’arte contemporanea giapponese incontra l’arte tradizionale (nei suoi linguaggi più disparati che comprendono anche le arti marziali) e finalmente si unisce nel Gutai e forgia un nuovo modello culturale. Sembrerebbe dunque che l’azionismo Gutai sia proprio l’espressione della maturazione di uno scambio di modelli culturali, attivo e fecondo da circa un secolo. Il gruppo, ebbe un grande successo, soprattutto ad opera del critico francese Michel Tapié che li contattò nel 1957, ma il vero successo avvenne circa 40 anni dopo con il riconoscimento della Biennale di Venezia. Il gruppo rimase coeso per circa 18 anni. Si sciolse nel 1972 alla morte del suo leader Jiro Yoshihara.

JIRO YOSHIHARA (OSAKA 1905-1972) Jiro Yoshihara pur essendo figlio di un ricco industriale non riuscì a realizzare il suo più grande desiderio che era quello di studiare arte in Occidente. Assecondando, infatti, i voleri paterni intraprese studi di economia e si occupò delle industrie di famiglia. Perciò in arte era un autodidatta. Ma la sua passione era così forte e determinata che diventò lo 76


Detail of Red Circle on Black’ (1965) by Jiro Yoshihara

stesso un grande artista, occupandosi di ambedue i ruoli. Perciò la sua maturità artistica avvenne tardi, comprese la via astratta intorno al 1934, e solo in quegli anni iniziò ad essere apprezzato, esponendo nelle rassegne dell’Associazione Nika, l’associazione ritenuta più autorevole per l’arte astratta e diventandone membro nel 1941. Anche se negli anni ‘30 era difficile potersi esprimere liberamente, in quanto il potere militare imponeva comunque determinate griglie espressive; ma spesso facilmente arginabili con un semplice titolo aderente alle richieste. Ad esempio nel 1943 dipinse L’aereo nella pioggia, opera però astratta e dipinta di getto con una sola pennellata. Nel 1948 fonda l’Associazione d’arte di Ashiya, vicino la città di Osaka. Nel 1952 inizia a coniugare l’arte astratta con la calligrafia e la pittura a inchiostro, e questo sarà il momento di svolta che presto lo porterà al Gutai. Significativamente, realizza queste opere con la pittura ad olio, unendo la gestualità veloce della pittura a inchiostro con quella pittorica occidentale, svincolata dall’attimo presente. Perciò l’opera contiene le ambedue possibilità temporali: l’attimo presente del gesto immediato della pittura a inchiostro giapponese e la stratificazione della pennellata come è stato in uso e tuttora in Occidente. Nel 1954 forma il gruppo Gutai con altri 15 componenti tutti giovani sotto i trent’anni tra cui suo figlio Yoshihara Michio, inoltre il gruppo originario comprendeva Tsuruko Yamazaki, Masanobu Masatoshi, Shimamoto Shozo, Arai Toshio, Inokuma Jenijiro, Onishi Shigeru, Kukushima Hideko, Yoshida Toshio, Yoshihara Hideo, Funai Yu, Fujikawa Toichiro, Ueda Tamiko e Isetani Kei. Dopo un anno Yoshihara incontra, grazie a Shimamoto gli artisti Shiraga Kazuo, Tanaka Atzuko, Murakami Saburo, Sadamasa Motonaga e Kanayama Akira raggiungendo la cifra di 21 componenti, ma ben presto il gruppo crescerà in maniera impressionante fino a quasi un centinaio di membri. L’arte di Yoshihara servirà da esempio per tutto il gruppo, perché non a caso l’artista, verso la fine del suo percorso, riprenderà con tecniche occidentali dei contenuti e una poetica tutta orientale, comprendendo che la strada per il superamento della acculturazione occidentale era proprio nella fusione alla pari degli elementi culturali occidentali e orientali. Nel corso della sua maturazione artistica, Yoshihara ricevette spesso, soprattutto all’inizio, delle critiche da altri autori importanti come Leonard Fujita, che segnalarono quanto le sue opere fossero dipendenti dagli stili delle avanguardie occidentali. Queste critiche fecero crescere in lui la determinazione a staccarsi dalla dipendenza iconica verso i modelli occidentali, e a trovare finalmente la strada che rendesse la sua arte completamente nuova e originale. Da lì la consapevolezza di spingere il proprio gruppo a fare altrettanto. La sua arte nell’ultimo periodo della sua vita si incentrò su un tipico soggetto tradizionale del buddismo zen: il cerchio. Il cerchio è un soggetto vuoto e pieno al contempo, rinvia


alla vita e alla morte fuse in un’unica entità, alla materia e alla non-materia, è il simbolo dell’universo che ci ha creati a sua immagine, così come ricorda anche Leonardo nei suoi disegni. I cerchi di Yoshihara erano in prevalenza in bianco e nero. A questo proposito l’artista esprime un ulteriore legame con la cultura tradizionale, in particolare con quella della propria regione, poiché nell’ambito della pittura tradizionale è esistita, per secoli, una divisione (simile a quella presente in Cina) tra le regioni del Nord e del Sud, in quanto nel Nord la pittura era spesso policroma, nel Sud era per lo più monocroma. Questa divisione si sviluppò a partire dal XIV secolo, quando nel Sud si passò al dipingere gestuale con una sola pennellata, metodo che si sposava con l’ideale della conoscenza immediata; caratteristica della corrente zen fondata da Hui-neng ed espressa in modo significativo dal termine inglese sudden-zen. La conoscenza immediata dava espressione al tutto, ovvero all’uno e all’informe, all’intero universo fatto di materia e di anti-materia. Il cerchio di Yoshihara sembra ben interpretare queste affermazioni, poiché i cerchi dell’artista non hanno in realtà una forma compiuta e stabile. E’ sempre presente in essi un elemento di instabilità: un tratto mancante, una escrescenza, un’imperfezione significativa e messa in evidenza. L’artista ebbe innumerevoli riconoscimenti, soprattutto dopo la sua morte, sia in Oriente che in Occidente.

KAZUO SHIRAGA (AMAGASAKI 1924-2008) Fu uno degli artisti determinanti nel percorso del gruppo Gutai, anche se non fu uno dei soci fondatori. Apparteneva al gruppo 0, gruppo che tuttavia decise di confluire pressochè al completo, nel 1955 nel gruppo Gutai. Gli artisti che confluirono nel gruppo di Yoshihara erano le personalità più importanti del gruppo 0, ovvero: Shiraga stesso, Atsuko Tanaka, Akira Kanayama, Saburo Murakami e Sadamasa Motonaga. Il gruppo decise di unirsi al Gutai grazie alla condivisione della personalità carismatica di Yoshihara, che tutti riconobbero come leader e maestro, e ad opera dell’artista Shozo Shimamoto, che

78 Shiraga - Between Action and the Unknown


Shiraga - action painting

mise in contatto il gruppo 0 e il gruppo Gutai. Shiraga si laureò nel 1948 in arte nell’antica città di Kyoto. Rimase nel gruppo fino alla fine partecipando a tutte le attività: alla realizzazione del bollettino, fu uno dei promotori delle azioni e degli happening, insieme a Shimamoto ebbe l’idea del video, e insieme a Tanaka propose di realizzare gli happenings in un teatro e favorì lo sviluppo dell’azionismo all’aria aperta. Inoltre insieme agli altri membri coadiuvò nella realizzazione del progetto più ambizioso di Yoshihara, che era quello di fondare una Pinacoteca dedicata completamente alla ricerca del gruppo, liberandolo dalla necessità di cercare gallerie e altri luoghi istituzionali che si occupassero di far crescere il lavoro di ricerca. Proprio per queste ragioni il gruppo Gutai decise di realizzare una propria Pinacoteca, contattando le gallerie commerciali come strumento esterno dal gruppo stesso e rivolgendosi soprattutto alle gallerie e ai collezionisti occidentali, almeno in un primo momento e alla galleria Tokyo dell’omonima città che seguì il gruppo sin dagli esordi. Shiraga ancora più del proprio maestro era fervente praticante del buddismo zen, e influenzò tutto il gruppo Gutai esortandolo a riscoprire le idee e la pratica del suddenzen. Così come Yoshihara stesso, egli riscoprì il modo di interpretare le idee, la poetica del sudden-zen nell’arte contemporanea, mettendo a punto una sorta di pitturaazionismo. Il punto di partenza fu senz’altro l’artista americano Jakson Pollock e il suo dripping. Tuttavia si può dire che l’artista giapponese riuscì a interpretare per primo il dripping di Pollock come un vero e proprio azionismo. Shiraga era maestro di arti marziali perciò arrivare a questa idea non gli fu affatto difficile. Anzi direi che l’azione pittorica si possa definire come una conclusione ovvia, rappresentata dall’applicazione di una tecnica performativa di fusione tra corpo e mente, che in Giappone era strettamente collegata anche alle arti marziali, mentre in America, perché no, alle danze rituali e ai disegni totemici, correlati alle Avanguardie europee. In fondo anche nel jazz non si può non ravvedere il debito al ritualismo delle tradizioni africane. Gli americani avevano già avviato questo tipo di ibridazione tra tribale e contemporaneo. Pollock realizzava i suoi dripping, infatti, impegnando tutto il corpo in una fusione immediata tra braccio, materia, psiche, e spesso entrava praticamente in trance, passeggiando sulle tele che disponeva per terra. Shiraga volle andare oltre, pensando alla necessità di non aver impedimenti, creò un’osmosi completa tra il corpo, la psiche e la materia. Con l’aiuto di una corda agganciata al soffitto e al centro della tela, liberò il proprio corpo dal peso, imprimendo, attraverso i piedi che “spandevano” il colore al posto del braccio, il concetto del moto immediato, della forza e della determinazione della volontà e della psiche, senza impedimenti spaziali; ponendo il colore sulla tela e lavorandolo poi in questo modo. La tela naturalmente era posta sul pavimento, diventando palcoscenico e traccia dell’azione pittorica. In questo modo riuscì a realizzare opere mirabili, esteticamente alla pari dei capolavori di Pollock. Le sue opere si trovano, infatti, nei più grandi musei del mondo. Nel corso della sua vita divenne un monaco zen riuscendo a coniugare le due figure di artista e di monaco, così


come accadeva in passato. I più grandi artisti della pittura ad inchiostro in Giappone erano spesso dei monaci zen. . ATSUKO TANAKA (OSAKA 1932-2005) Una delle numerose donne presenti nel gruppo, e una delle più attive e propositive a fianco del leader e di suo marito Akira Kanayama. Si unì al Gruppo Gutai nel 1955 assieme ai membri già citati del Gruppo 0 di cui faceva parte. Allora aveva 23 anni, una ragazza esile e di piccola statura, fu lei principalmente a ispirare il marito verso l’azionismo. Ella aveva già nel Gruppo 0 un concetto di arte-ambiente, ispirato probabilmente all’artista italiano Lucio Fontana di cui conosceva le opere e la teoria dello Spazialismo. Aveva potuto seguire gli studi di arte fino al completamento nel college della Kyoto City University of Arts, dove aveva conosciuto sia Akira Kanayama, l’allora compagno di studi che diventerà poi suo marito, che gli altri membri del Gruppo Zero, di cui grazie a Kanayama, ne era diventata membro essa stessa. Con l’aiuto sempre di Kanayama, che le rimarrà accanto per tutta la vita, era diventata esperta di circuiti elettrici, e riuscì a ideare opere ambientali come ad esempio Timbri che costruivano ambienti attraverso il moto del suono nello spazio. Non solo, ma l’energia elettrica era da lei concepita come un derivato dell’energia vitale, e costruì dei bellissimi congegni indossabili, in questo modo il performer arricchito di colori e di energia visibile rendeva le proprie azioni, come quelle in Gutai sul Palcoscenico del 1957, straordinarie e immediate senza alcuna regia precedentemente organizzata, come nei prepared piano di John Cage, l’unico esempio contemporaneo in Occidente che si poteva avvicinare alle opere dell’artista giapponese. Per le opere di Atsuko Tanaka tuttavia, non era lo strumento ad essere arricchito di oggetti di uso quotidiano però estranei all’uso strumentale, ma il corpo umano, che, arricchito e preparato con lampadine,oggetti non indossabili, o estranei al concetto stesso del vestire e destinati ad un uso diverso, splendeva con tutta la sua energia arricchita della visibilità della luce elettrica colorata. Grazie, infatti alle lampadine colorate, i cui circuiti intrecciati insieme costituivano una sorta di tessuto, il performer si poteva muovere nello spazio rendendolo partecipe e

80 Tanaka - electric dress


Tanaka - unknown title

offrendogli in questo modo semplice e incantato visibilità. In quegli anni vedere una cosa simile era veramente inusuale, nemmeno Fontana era arrivato a tanto. L’esempio di Cage non è casuale, poiché un gruppo che può dire di essere l’immediata derivazione occidentale del Gruppo Gutai è senz’altro il Gruppo Fluxus, tra i cui membri vi erano infatti, oltre Cage stesso, diversi orientali e la stessa poetica era molto vicina a quella Gutai. Poetica che voleva sottolineare come la vita stessa partecipasse in maniera simbiotica alla creazione dell’artista, e come in realtà gli artefici dell’opera erano molteplici, né l’artista poteva arrogarsi l’esclusiva sulla paternità dell’opera. Anzi, l’opera poteva dirsi veramente arte solo se riusciva a rendere visibile il processo vitale insito nella materia, nell’ambiente e nell’artista stesso, coadiuvato dalla presenza attiva dello spettatore. Per questo non poteva esserci una regia ma tutto doveva accadere nell’istante dell’incontro: l’incontro tra lo spettatore, l’artista, la materia (la pasta pittorica ad esempio in Shiraga) e gli oggetti scelti e preparati per l’incontro. Lei e suo marito rimasero con il Gruppo Gutai fino al 1965 partecipando attivamente a tutte le iniziative, in quell’anno si sposarono e fuoriuscirono dal gruppo, cambiando anche città di residenza, da Osaka si spostarono a Nara, una piccola cittadina che si trova a circa 40 kilometri a Sud di Tokyo. Probabilmente la decisione di spostarsi in quella cittadina, oltre che a necessità oggettive, fu determinata anche da scelte religiose. Da diverso tempo, infatti la coppia sentiva l’esigenza di dedicarsi maggiormente alla pratica buddista, e la città di Nara ospitava un tempio al quale loro si affiliarono. Le opere di Atsuko Tanaka sono nei maggiori musei del mondo come il MOMA di New


York, e l’autrice ebbe i massimi riconoscimenti anche in Patria. Morì a 74 anni a causa di una malattia polmonare.

SHOZO SHIMAMOTO (OSAKA 1928) Grazie a questo artista, che fu forse quello più vicino a Yoshihara, il Gruppo 0 si convinse a sciogliersi confluendo nel Gruppo Gutai, chiedendo con determinazione a Yoshihara di diventare il loro leader e maestro. Dal 1948 in poi Shimamoto, infatti, si pose sotto la direzione di Yoshihara e insieme a Masanobu e a Yamasaki seguì il gruppo Gutai sin dal suo nascere, collaborando in tutte le esposizioni. L’opera di Shimamoto si distinse in modo particolare nelle “azioni” di cui si ricordano: Opera da percorrere esposta nella I Esposizione alla Sala Ohara; Lancio del colore nella Seconda Manifestazione di Arte Gutai all’Aria Aperta e Distruzione dell’oggetto, in Arte Gutai sul Palcoscenico, nonché la musica sperimentale, di cui fu l’autore in quasi tutte le azioni. Una nota interessante è il constatare che l’artista fin dal 1950, eseguiva delle opere che comprendevano dei tagli, dei buchi e delle bruciature sulla tela in tutto simili alle opere di Fontana e di Burri ma in anticipo rispetto agli artisti italiani. Questo si deve senz’altro all’intensa attività dell’università dove erano iscritti, non solo, ma anche alla grande sete di novità di questi giovani artisti che li portò a impadronirsi di una grande documentazione che sostenne le loro opere, che si distinsero infatti per il loro essere scaturite da uno studio cosmopolita, che non si fermava di certo agli autori nazionali. Le opere con i “buchi” sono frutto di una gestualità estrema che si traspose poi nelle azioni, in particolare

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in Lancio del colore, azione che venne filmata e fotografata per la rivista americana Life nel 1956. Dopo lo scioglimento del gruppo per un periodo Shimamoto smise di dipingere in onore al maestro, e per alcuni anni lavorò come organizzatore di mostre e di eventi, e anche come diffusore nel mondo delle opere del gruppo Gutai. Ma verso la fine degli anni 70 riprese la sua attività artistica e in particolare continuò a esprimersi attraverso l’azionismo. Riprese alcune azioni di Duchamp e collegò i suoi interventi alla mail art. Il misticismo del gruppo Zero e del gruppo Gutai continuò in lui attraverso il suo interesse alla via dello zen, che lo portò a formulare una via spirituale attraverso la pratica artistica, intesa come l’antica suiboku-ga. Con la differenza che il prodotto finale non era più nel disegno ma nell’azione stessa del lancio del colore e delle diverse performance, che l’artista mise a punto negli anni che seguirono la sua ripresa artistica. Una degli ultimi eventi messi a punto in diverse città europee è il Lancio del colore, con l’artista sospeso a una gru all’altezza di circa 25 metri. Tuttavia la consapevolezza dell’importanza delle azioni non si palesò da subito, come ricorda con semplicità Shimamoto “I giovani artisti Gutai che si erano raggruppati attorno a Jiro Yoshihara volevano portare in una direzione nuova il lavoro fatto dai maestri calligrafi (in particolare da Nantenbo). Nei caratteri scritti da Nantenbo si trovavano “nijimi: sfumature/ sbavature”, “kasure: sbiadimenti”, “tobichiri: schizzi/spruzzi” e “tare: gocciolature” ed altri effetti che non erano esprimibili con la pittura ad olio di quel tempo” Perciò trovarono altre formule di espressione. Quello che si comprende dalle parole dell’artista è tuttavia l’esplicita volontà di rinnovare la tradizione ma di confermarne al contempo l’attualità del suo valore.

Shimamoto - bottle crash


LA FUSIONE FRA ASTRATTISMO E SURREALISMO

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A ridosso degli anni 50 il critico Yoshiaki Tono scrisse in un celebre articolo Astrattismo e Surrealismo sul quotidiano Yomiuri Shimbun , un resoconto dell’arte giapponese del secondo dopoguerra: “come comprendere oggi l’Astrattismo e il Surrealismo insieme, ovvero quelle che si presentavano prima della seconda guerra mondiale come le correnti stilistiche più affermate in Occidente.” Il critico giapponese in questo articolo descriveva come, per gli artisti giapponesi che si erano accostati alla cultura occidentale, queste due correnti avessero delle radici in comune. Ed erano, infatti, state apprese come due avanguardie dalle caratteristiche simili e fuse in uno stesso stile. Gli esempi erano innumerevoli, tra cui si potevano annoverare nomi anche famosi come Saburo Hasegawa e Jiro Yoshihara. Come era stato possibile? Precedentemente si è visto come era di uso comune fondere le diverse avanguardie in una sorta di stile internazionale, di Postimpressionismo o cosiddetta Ecole de Paris, consuetudine comune tra gli stessi artisti occidentali di diversa nazionalità, o che semplicemente erano lontani da Parigi, ed erano portati a vedere nei diversi stili una sorta di dizionario di forme a cui attingere. Parigi, città che in tutta la metà del ventesimo secolo rappresentò la ville lumiere, la capitale delle avanguardie. A maggior ragione la distanza sia culturale che geografica, parlando del Giappone, acuì questa tendenza ad unire le diverse avanguardie in uno stile comune. Ma come mai eleggere proprio questi due stili così diversi tra loro? In genere gli occidentali

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Jiro Yoshihara - untitled


tendevano infatti a fondere si, le diverse avanguardie, ma scegliendo o una linea astratta (cubismo, espressionismo, astrattismo) o una linea figurativa che a sua volta poteva dividersi in oggettiva (purismo, novecentismo, valori plastici) o surreale (metafisica, nuova oggettività, surrealismo). A quanto pare per i giapponesi la linea figurativa si affermò esclusivamente come surreale. Questo dato è interessantissimo e ci mostra il carattere più profondo della cultura giapponese e la reale differenza tra la cultura occidentale e quella nipponica. Nell’apprendimento dell’immaginario iconografico dell’arte moderna occidentale da parte del Giappone, l’immagine figurativa oggettiva non attecchì, tutto venne in realtà registrato e appreso come formula astratta, e dunque la fusione tra Astrattismo e Surrealismo divenne inevitabile. Grazie a ciò gli artisti elaborarono infatti una formula astratta molto particolare, organica e non geometrica, che in molti casi somigliava alla loro scrittura a ideogrammi. Dal segno si passò facilmente alla gestualità che ricordava e riportava gli artisti al contesto della loro calligrafia tradizionale. Per questa via gli artisti giapponesi riuscirono ad anticipare l’Informale internazionale ritrovando e recuperando la loro cultura tradizionale. Come nota a questa considerazione, va detto che anche gli artisti americani si riferirono alle due avanguardie: Surrealismo e Astrattismo, ma considerandole distinte. Scegliendo poi di operare loro stessi una fusione, incentivata probabilmente proprio dall’esempio giapponese, favorito dai contatti diretti con il Giappone avvenuti dagli anni 40 in poi, e soprattutto incentivato dalla presenza stessa degli artisti sia astratti che surrealisti, emigrati grazie alla guerra proprio in America. Max Ernst per esempio diventò il marito di Peggy Guggenheim, o Matta, Kandinsky, Mondrian e altri scelsero di vivere proprio a New York.


LA FUSIONE FRA ASTRATTISMO E SURREALISMO

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La Nihonga è una corrente artistica che, nata nella seconda metà dell’800, si riproponeva di dare maggior vitalità a quelle forme tradizionali d’arte come la pittura su carta e su seta. Naturalmente nasce proprio a causa dell’apparire di nuove forme pittoriche e in genere artistiche influenzate dall’arte occidentale, che presero a loro volta il nome di Yoga (altrimenti non ci sarebbe stata nessuna necessità di sottolinearne la compresenza e al contempo la loro separazione ). La nascita della Yoga risale anch’essa verso la seconda metà dell’800, dopo il 1853, data in cui le navi americane entrarono con la forza nei porti giapponesi, contravvenendo alla chiusura di questi ultimi al traffico marittimo con i paesi occidentali. Restrizione imposta dallo Shogun Tokugawa circa 250 anni prima, per proteggere non solo la cultura e la tradizione giapponese, bensì soprattutto la sovranità del popolo, che lui giudicava minacciata dall’invadenza di coloni cattolici, per la maggior parte olandesi, insediati dopo la seconda metà del 500. La scissione totale che si determinò con il mondo occidentale produsse un isolamento che mantenne le caratteristiche culturali orientali del Giappone assolutamente intatte, fino alla data dell’impatto diretto con le navi americane. L’incontro immediato con la cultura artistica occidentale moderna produsse una diffusione improvvisa di tecniche e modelli referenti a un modello sociale estremamente diverso, mettendo in crisi quelle tradizionali. La pittura tradizionale in alcuni casi fu addirittura sostituita dalle nuove forme culturali, non trovando una graduale ibridazione come invece era accaduto per tutte quelle culture che avevano avuto un costante contatto culturale con l’Occidente. L’inizio della Nihonga coincide con l’arrivo dell’artista Tomioka Tessaia a Kyoto, l’antica capitale imperiale, che nel corso del Novecento si delineò come la città dove la cultura tradizionale giapponese trovò un rifugio e una sede. L’artista contribuì a rifondere vitalità alle formule tradizionali, coadiuvato dall’opera di Shiokawa Bunrin e Kono Bairei. Tra le forme tradizionali oltre alla pittura ad inchiostro già affrontata (si rimanda al capitolo che riguarda l’America nel secondo dopoguerra) una breve parentesi si deve fare per quelle forme tradizionali che interessano le tecniche del movimento del corpo, come la danza e la bushido o arti marziali. Queste ultime hanno un posto di riguardo nell’imagenerie tradizionale giapponese, al punto da riuscire a influenzare (come si è visto) l’arte contemporanea del secondo dopoguerra, che finalmente inizia a far affiorare dei fenomeni di paritetica fusione culturale tra la cultura occidentale e quella nipponica. Esistono tante tecniche di arti marziali, si suddividono in due categorie: con le armi e senza armi. I guerrieri samurai dovevano essere maestri almeno di una tecnica di tutte e due le categorie. Le arti performative oltre alla bushido devono tanto anche a un tipo di religiosità legata ad antiche tradizioni, che 86

Tomioka Tessaia


Miko-Mai si basa ancora molto sull’espressività del corpo. Il sincretismo buddista-shintoista in Giappone ha mantenuto infatti viva fino ad oggi la ritualità sciamanica, che si basava sulle potenzialità della danza. La maggior parte dei rituali shintoisti erano articolati in danze sciamaniche eseguite nei templi. Erano danze propiziatorie, divinatorie e di invocazione delle forze originarie della natura, riconosciute come Kami o dei. Gli officianti erano per lo più ragazze, anticamente vergini definite Miko, le loro danze Miko-Mai si basavano e tuttora su movimenti circolari. Spesso le Miko erano le giovani figlie del sacerdote del tempio e si occupavano della cura del tempio stesso per tutta la durata del loro celibato. Le danze erano ampliate da nastri e ventagli e dai loro abiti che avevano delle ampie maniche che esaltavano i movimenti circolari delle braccia. Vestivano una giacca candida e tuttora, che si chiama haori e dei pantaloni rosso fuoco, detti hakama. I movimenti circolari portavano le ragazze a cadere in trance soprattutto nei rituali. Le danze erano impostate sulla musica dei tamburi che diventava gradualmente più incalzante. Ma le danze più impegnative erano quelle che invocavano il dio, rituali di possessione veri e propri che venivano chiamate Kagura. In queste danze era presente anticamente lo sciamano, nei rituali più recenti il sacerdote buddista (yamabushi), che aveva anche il compito di officiare e mediare la presenza del dio. Così come spiega Daniele Sestili, esperto di danze e di musicologia rituale giapponesi, “Il vocabolo Kagura è attestato già nell’antologia poetica Man’youshuu VIII sec.) e compare in altri documenti ufficiali di poco posteriori. Sarebbe la contrazione, secondo la teoria più accreditata, di kami+kura, che significa “residenza degli dei”. Un’altra interpretazione vede invece il vocabolo come contrazione di kamigakari , “possessione”. Comunque sia le due interpretazioni rimandano a un rito in cui la divinità è considerata esser presente. Ancora oggi fanno tradizionalmente risalire l’origine del Kagura alla danza di possessione eseguita dalla dea Uzume di fronte alla “Caverna Celeste”. Tale episodio mitologico è narrato in due cronache pseudo-storiche dell’VIII secolo, il Kojiki e il Nihonshoki. Più verosimilmente in ambito accademico si propone quale epoca della nascita del Kagura il periodo che va dal III al VI secolo, cioè quello in cui si avvia l’unificazione del Giappone sotto il clan Yamato. L’episodio narra della dea solare Amaterasu che, adirata per le malefatte del fratello Susanoo, si rinchiude nella cosiddetta “Caverna del cielo”, facendo piombare il mondo nell’oscurità. Le altre divinità si riuniscono in consiglio ed escogitano un piano per placare e far uscire Amaterasu. La danza culminerà con la danza sul tamburo della dea Uzume. La danza viene descritta come eseguita in stato di trance su un recipiente capovolto, usato a mò di strumento di percussione. L’episodio si presenta pertanto come un archetipo di cerimonia volta a rinvigorire l’energia vitale del sole, in cui danza e musica svolgono un ruolo centrale” .


STORIA ED EVENTI DEL GIAPPONE

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Dal 45 fino al 50, un lustro, forse il più difficile nella storia giapponese. Un paese, una nazione, una cultura di cui tanto è stato scritto, ma la comprensione della quale è ancora lungi da venire. Tuttavia la realtà giapponese è evidente e sotto gli occhi di tutti, un paese indenne fino a quella data, la cui popolazione era stata fino ad allora al riparo dalle invasioni, a cui tutti gli altri popoli sono stati sottoposti nell’arco millenario della storia. Un concetto integro di popolo, di nazione, quindi, quasi unico al mondo. E’ sostanzialmente questa, la caratteristica storica, che fa dei giapponesi un popolo particolare, coeso e con un profondo e radicato senso di appartenenza alla propria terra. Non solo ma con un concetto di cooperazione e di solidarietà reciproca tali che hanno fatto sì, che da una disfatta mostruosa e pesante, grazie alle bombe atomiche che ne hanno rappresentato un’esperienza di distruzione unica e pari se non più devastante dell’olocausto, il paese potesse comunque risorgere; anzi, assurgere addirittura a diventare una delle maggiori potenze industriali del dopoguerra, per trasformarsi, negli anni 80, nella prima potenza finanziaria e tecnologica anche se non politica. La capacità di affrontare dunque e di vincere le sfide, seppur partendo da una posizione svantaggiosa é un’esperienza storica intrinseca e costante del popolo giapponese. Resta da capire come e perché si sia sviluppato in Giappone, nell’inizio del Novecento, quell’idea aggressiva di “panasiatismo” che l’ha portato ad allearsi con la Germania nazista e l’Italia fascista, coinvolgendolo nella seconda guerra mondiale. Probabilmente l’idea di raggiungere una supremazia mondiale (che si nascondeva dietro il voler ottenere il predominio sull’Asia) era un obbiettivo irrinunciabile, proprio perché condiviso e ambito anche dagli altri stati europei e non; rappresentando, perciò, la vera ragione dello scoppio della seconda guerra mondiale. L’espansione tedesca preoccupava infatti l’Inghilterra già precedentemente alla prima guerra mondiale, anzi ne fu all’epoca la vera causa dello scoppio del primo conflitto. Il declino della supremazia inglese in Asia e nel mondo, in realtà innescò una vera e propria corsa all’avvento di una nuova supremazia mondiale, corsa dalla quale nessuno voleva essere escluso. E che stabilì una

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Hirohito

rete di squilibri, di aggressioni dove alla fine rimasero impigliati tutti i maggiori paesi del mondo per un intero secolo, compreso il Giappone. Il Giappone comprese, però, negli anni 60, nel pieno della guerra fredda, che la vera supremazia non poteva essere né politica, né tantomeno militare, ma che negli anni futuri tutto si sarebbe giocato sul tavolo del potere economico. E da lì in poi cominciò a strutturarsi in un’economia potente al punto tale da poter arrivare a far contare il proprio parere e la propria azione, seduto allo stesso tavolo delle maggiori potenze mondiali. Il 2 settembre 1945 i rappresentanti del Giappone firmarono la resa alle truppe alleate e il paese venne posto sotto il governo del Supreme Command of the Allied Powers (Scap). L’epurazione dei responsabili della guerra fu meno severa rispetto alla Germania: l’imperatore, i quadri burocratici e gli ufficiali di polizia rimasero al loro posto, furono condannati soltanto gli alti gradi militari. Tuttavia il cambiamento imposto con la forza dagli americani fu notevole e travolse le tradizioni culturali del paese, imponendo, appunto, un nuovo stile di vita. Fu cancellata, ad esempio, l’adesione obbligatoria allo shintoismo, e al culto dell’imperatore come figura divina. Questo comportò una forte rottura con il passato. Nel 1946 l’imperatore Hirohito (1901-89), salito al trono nel 1926, annunciò la propria rinuncia all’origine divina, e nel contempo venne adottata una costituzione che garantiva i diritti individuali e favoriva le autonomie locali. A livello economico, ma solo per contrastare, inizialmente, le grandi famiglie zaibatsu che detenevano il monopolio economico ed erano state particolarmente coinvolte nelle decisioni della politica di espansione che aveva portato alla guerra, gli americani liberalizzarono l’associazionismo sindacale e portarono all’approvazione di leggi antimonopolistiche. Decisioni subito smentite, dopo il consistente avvio di scioperi, che fecero fare dei passi indietro al governo di occupazione, causando la proibizione dello sciopero generale. Al punto che, in seguito, gli americani tornarono completamente sui propri passi, manovrando la politica interna giapponese così come hanno fatto anche in altri paesi (ad esempio l’Italia), grazie a dei cospicui finanziamenti elargiti ai partiti antidemocratici, miranti ad escludere il partito comunista e quello socialista dal governo. Grazie a ciò, infatti, alle elezioni del 1949 il Partito liberale ottenne la maggioranza assoluta, a discapito


Hiroshima

del partito socialista che vide la riduzione dei propri seggi da 143 a 48, subendo di conseguenza l’estromissione dal governo. Il governo liberale dipendeva quindi dalla politica americana, e l’occupazione rappresentò un periodo nel quale gli Stati Uniti lavorarono per destrutturare il paese, riplasmandolo a favore sia della propria politica internazionale, che mirava a mantenere la supremazia militare mondiale conquistata definitivamente grazie alla seconda guerra mondiale, sia a favorire la propria politica economica. Nell’ambito della guerra fredda il Giappone diventava, così, un baluardo di forza strategica in mano agli Stati Uniti per contrastare il fronte asiatico rosso rappresentato dalla Russia e dalla Cina; un obbiettivo quest’ultimo troppo importante per non essere perseguito ad ogni costo. Perciò gli occupanti americani adottarono anche delle ulteriori strategie di politica interna: oltre a rafforzare il partito liberale anziché forzare in modo assoluto gli equilibri interni, pensarono fosse più proficuo portare il vecchio nemico (le famiglie zabaitsu) garante della fazione nazionalista in un’area di influenza occidentale. Gli americani cessarono così le ostilità verso le zabaitsu, lasciando nuovamente ampio margine di movimento alle grandi famiglie sul nuovo nascente mercato, mirando a trasformare il paese nipponico oltre che in un baluardo americano in Asia, anche in un nuovo mercato per le eccedenze dei prodotti agricoli di casa propria. Politica che gli Stati Uniti avevano messo in atto anche in Europa. Dopo questo processo che potremo definire di trasformazione e di acculturazione al modello americano, nel 1950 gli Stati Uniti rinunziarono ai propri crediti di guerra e i due paesi firmarono un patto di alleanza che comprendeva la presenza stabile di basi militari americane come quella di Okinawa. Nonostante le forzature e i nuovi indirizzi economici e politici imposti dagli americani, il Giappone non potette cambiare, tuttavia, un’educazione culturale, coltivata da millenni e favorita dall’integrità etnica della popolazione. Alcuni storici si sono espressi a favore di quest’ultima individuandola e definendola come familismo, ovvero un’estensione della solidarietà e dell’autorità genitoriale e filiale vigente in famiglia. Personalmente direi che questa caratteristica, estesa in tutte quelle culture che ancora conservano un forte 90


culto dei morti, in Giappone si arricchisce di un altro aspetto particolare che io definirei come sincretismo cullturale. Da sempre è esistito in Giappone la tolleranza religiosa e la compresenza di diverse religioni, con osservanza sincretica di culti shintoisti, confuciani, taoisti e buddisti. In diverse date storiche ora è prevalsa una, ora l’altra religione, ma mai si è assistito a persecuzioni mirate alla definitiva scomparsa di una religione a favore di un’altra. Fatta eccezione delle terribili persecuzioni indirizzate verso il cristianesimo, anzi verso i prodromi della sua diffusione alla fine del 1500 e inizi del 1600, ad opera del primo shogun Iyesasu Tokugawa. Ma dietro questa reazione intollerante e aggressiva c’erano motivi politici e militari. Lo shogun, era al corrente dei risvolti della cosiddetta “cristianizzazione” dell’America latina, e della colonizzazione che ne seguì; perciò si può ipotizzare che la sua reazione sia stata mossa, seppure duramente, a difesa del proprio popolo e della sua indipendenza e sovranità. Al contrario, il sincretismo religioso ha determinato nell’arco dei millenni un’educazione diffusa e attiva nel popolo giapponese verso la solidarietà, il rispetto dell’autorità, e il reciproco soccorso, grazie al senso di appartenenza culturale ad un medesimo codice sociale di tipo laico, aldilà di eventuali affiliazioni religiose. Ciò ha potuto determinare una socializzazione diffusa e condivisa, che ha trasposto nella vita pubblica valori e regole della convivenza familiare, non solo, ma anche antiche regole di fedeltà feudale. In sostanza sono grosso modo queste le ragioni che hanno determinato in Giappone l’esistenza di un concetto di bene comune, al quale si riferiscono anche quelle culture che hanno un’educazione forte e attiva verso il riconoscimento di appartenenza a un concetto di popolo. Dal 1950 al 1973 lo sviluppo economico del Giappone fu di gran lunga il maggiore del mondo. Il prodotto interno lordo crebbe del 9,3perc l’anno, e il reddito procapite raggiunse l’8perc l’anno. Opinionisti e storici attribuiscono questo successo a una forza di autodeterminazione e capacità organizzativa sconosciuta agli altri paesi occidentali. A mio avviso il successo giapponese è stato frutto del processo educativo (favorito dal sincretismo religioso) di cui sopra, che forgiava gli individui ai valori della lealtà, dell’obbedienza e della collaborazione in vista di un bene comune. Lo stesso carattere


del capitalismo ne fu trasformato. La libera concorrenza, che in Occidente causava danni indiscriminatamente, in Giappone fu controllata da regole che implicavano anche obblighi morali, e vincoli al soccorso reciproco, ovvero a quello, da parte delle singole imprese di aiutare altre imprese in difficoltà. Obblighi stabiliti su regole di comportamento di uso comune definite Makoto, che richiedevano la sincerità reciproca e l’automiglioramento. Tutto ciò contribuì sia alla prosperità che alla stabilità politica. Tuttavia ci furono delle tendenze simili allo sviluppo occidentale, come ad esempio il grave squilibrio che si formò nell’agricoltura, che rese il paese dipendente dalle importazioni, soprattutto americane, e che impose l’attuazione di misure di protezione, ad esempio verso il riso.

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INTERVISTA A SHIMAMOTO

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- LA SUA ATTIVITÀ ARTISTICA SEMBRA CARATTERIZZATA DA DUE ELEMENTI FORTISSIMI, PRESENTI FIN DAGLI ANNI ’50: LA PRODUZIONE DI “OPERE” E LA CREAZIONE DI EVENTI. CHE RAPPORTO C’È, NEL SUO LAVORO TRA OPERA ED EVENTO? Una volta facevo delle opere che erano l’espressione di un violento lancio di bottiglie. Sia la televisione che i giornali venivano spesso a vedermi, ma non per pubblicare le opere così create, bensì lo scenario della loro produzione. All’inizio mi è capitato anche di arrabbiarmi quando constatavo che l’opera finale non veniva presentata, ma alla lunga ho cominciato a pensare diversamente e sia a proporre qualche idea per cambiare l’ambientazione, che a tenere un certo atteggiamento apposta per quelle occasioni. Per questo direi che la relazione tra opera ed evento mi è stata insegnata dai giornalisti. - IL LANCIO DI BOTTIGLIE PIENE DI COLORE È LA TECNICA CHE PIÙ CARATTERIZZA IL SUO LAVORO. QUALI SONO LE MOTIVAZIONI CHE LA SPINSERO A QUESTA SOLUZIONE? I giovani artisti Gutai che si erano raggruppati attorno a Jiro Yoshihara volevano portare in una direzione nuova il lavoro fatto dai maestri calligrafi (in particolare da Nantenbo). Nei caratteri scritti da Nantenbo si trovavano “nijimi: sfumature/sbavature”, “kasure: sbiadimenti”, “tobichiri: schizzi/spruzzi” e “tare: gocciolature” ed altri effetti che non erano esprimibili con la pittura ad olio di quel tempo. Kazuo Shiraga comincio` a disegnare con i piedi stando sospeso ad una corda fissata sul soffitto, Saburo Murakami aprì buchi saltando e squarciando in volo grandi fogli di carta precedentemente fissati su dei telai. Io, che ero fisicamente debole se confrontato con loro due, pensai di lanciare il colore in bottiglie o a farlo esplodere con un cannone. E’ da tanto che produco opere mediante lancio di bottiglie. Lanciare con violenza, con dolcezza, impiegare una tela grande o piccola, sono tutte delle varianti. Cerco anche di soddisfare le eventuali richieste degli organizzatori o di adattare i contenuti della performance allo scenario. Penso che il lancio di bottiglie come metodo di pittura sia ancora adesso una forma di studio dell’ignoto. Trovo stimolante più di ogni altra cosa il fatto che si materializzi l’espressione di un quadro imprevedibile. Il significato più grande di questo fenomeno potrebbe proprio essere zen. Tuttavia, anche adesso sono in cammino e per questo non bisogna pensare che io abbia raggiunto l’illuminazione. - QUESTO ASPETTO DEL SUO LAVORO CI PORTA A COME LEI INTENDE IL RUOLO 94


DELL’ARTISTA. Probabilmente io mi discosto parecchio dal concetto di artista che si ha in generale. Il fatto di voler vivere un’esperienza nata dal caso va ancora più avanti della semplice ricerca della libertà, è una realtà fissata nel mio cuore. Sono alla ricerca della verità. - LA TECNICA, NELLA CONCEZIONE SIA OCCIDENTALE CHE ORIENTALE DELL’ARTE, HA SEMPRE AVUTO UN’IMPORTANZA FONDAMENTALE: DOPO LE GRANDI RIVOLUZIONI ARTISTICHE DEL NOVECENTO, DI CUI LEI È UNO DEI PROTAGONISTI, COSA È LA TECNICA ARTISTICA OGGI? La tecnica è un elemento importantissimo nell’arte. Io però cerco un mondo che sia il più distante possibile dalla tecnica artistica tradizionalmente così considerata. Per questo, nel mondo dell’arte (in Giappone), nessuno mi ha dato rilevanza. Sono arrivato all’età di 80 anni e non c’è stato un solo museo in Giappone a farmi una mostra personale. - LEI AMA, ED HA AMATO MOLTO, LAVORARE CON GRUPPI DI ARTISTI. CHE SIGNIFICATO HA, PER LEI, LA COLLABORAZIONE CREATIVA CON GLI ALTRI? Nel periodo del Gutai, quale primo discepolo di Jiro Yoshihara, avevo il ruolo di organizzatore ed elemento legante del gruppo. Per me però era sempre stato difficile prendere contatto con gli artisti stranieri. Quando nel 1976 diventai direttore del gruppo Artist Union (AU), venni a sapere della mail art ed entrai in comunicazione con diverse migliaia di artisti di tutto il mondo. Questo sistema di comunicazione con tanti artisti che non conoscevo mi ha reso molto felice. Artist Union (AU) era un gruppo composto di artisti che avevano raggiunto una posizione di relativa importanza nel corso degli anni ’60. Accadde, però, che artisti che si erano laureati in università prestigiose e avevano imparato le tecniche fondamentali, tendevano ad allontanarsi dal gruppo, mentre ne diventavano membri gli artisti meno colti e quelli con handicap fisici o mentali. Questo tipo di artisti senz’altro esce dal quadro dell’arte normalmente conosciuta, ma è grazie a loro che nasce un’arte completamente nuova che supera il senso artistico comune. Sono stato, poi, professore universitario per più di 40 anni, anche se non mi sono comportato come un normale professore. Al momento ho circa 200 allievi .Questi allievi, spesso, hanno molte imperfezioni se confrontati con l’immagine più comune di artista, ma sono proprio queste a generare nuovo vigore. - RICOSTRUENDO GLI ANNI DI GUTAI LEI HA DETTO CHE CIÒ CHE VI SPINGEVA ERA L’IDEA CHE L’ARTE DOVESSE ESSERE TOTALMENTE LIBERA. CHE SIGNIFICATO

Shimamoto


HA LA PAROLA LIBERTÀ NEL SUO CONCETTO DI ARTE? Durante la guerra per noi la libertà non esisteva. Nel dopoguerra ci fu resa la libertà e all’inizio fummo un po’ disorientati, ma capimmo poi più di ogni altra cosa la straordinarietà della libertà. La vita era piena di problemi, ma la libertà è la chiave della felicità. E’ stata una gioia infinita esprimere la libertà attraverso il mondo dell’arte. - UNA DELLE PIÙ IMPORTANTI SUE REALIZZAZIONI RECENTI È IL MONUMENTO ALLA PACE DI HEIWA NO AKASHI A SHIN NISHINOMIYA, L’ARENA DI CEMENTO CHE LEI RIGENERA CON UN LANCIO DI BOTTIGLIE COLORATE OGNI ANNO, A PATTO CHE IL GIAPPONE NON SIA ENTRATO IN GUERRA? Il tutto cominciò nel 1986 quando Bern Porter venne a farmi visita. Bern Porter era un fisico nucleare che aveva partecipato al Progetto Manhattan durante la Seconda Guerra Mondiale, ma che rimase poi sconvolto dal fatto che una bomba fosse stata sganciata su Hiroshima nonostante l’imperatore si fosse già arreso.. Bern Porter si pentì del suo contributo a quell’esperimento, divenne mail artist e cominciò a fare pellegrinaggi nel mondo per chiedere perdono. Nel mio atelier piangeva dicendo che per espiare i suoi peccati non sarebbero bastate otto condanne a morte. In quel momento decisi di promuovere la pace nel mondo e dissi anche a lui le mie idee pacifiste. Dopo aver saputo delle mie attività, Bern Porter mi propose come candidato al Premio Nobel per la Pace, che però non presi. Continuai comunque a promuovere la pace e nel 1999 diedi inizio al progetto Heiwa no Akashi. - COME PENSA CHE L’ARTE POSSA DIVENTARE UNO STRUMENTO DI PACE? Non voglio usare l’arte con leggerezza come strumento di pace perchè l’arte e la pace sono due cose molto diverse. Quando feci visita a Bern Porter nel 1987, constatai come stesse conducendo una vita austera di espiazione e avesse rifiutato l’uso di ogni apparecchio di qualsiasi tipo. Anche se la sua casa sembrava di lusso, nella sua stanza non c’era niente. Il frigorifero non era nemmeno collegato alla corrente, e teneva in camera solo la mail art per la pace. Mangiava mezza cipolla ogni giorno e pregava per la pace dell’anima delle vittime. La sua era una vita davvero eroica. 96


Ci sono molte azioni che legano l’arte e la pace, però questo legame non deve essere affermato con leggerezza. E’ una cosa delicata e difficile e la strada non è ancora stata spianata. Per questo è un tema che vale la pena di affrontare ed è il tema della mia vita.


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