Albert Camus

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Francesco Lamendola

ALBERT CAMUS: L'UOMO IN RIVOLTA

Questo è il testo registrato della conferenza tenuta dall'Autore per l'"Alliance Française" lunedì 27 novembre 2006, alle ore 16,00, presso il Palazzo dell'Umanesimo Latino, in Riviera Garibaldi 13, a Treviso. Rispetto a quelli letterari, già piuttosto noti, sono stati prvilegiati gli aspetti filosofici dell'opera dello scrittore franco-algerino, con particolare riguardo al saggio "L'homme révolté" e alla sua concezione del "pensiero meridiano", ossia di un pensiero (umanistico e mediterraneo) per la vita, in contrapposizione al pensiero (storicistico e tedesco) "della mezzanotte" che, esaltando la storia e quindi l'esistente, si è rivelato incapace di fronteggiare il dramma della "dismisura" e della potenziale autodistruzione della civiltà europea scatenato dalle forze incontrollabili della modernità. Sempre per l'"Alliance Francaise" il prof. Lamendola aveva già tenuto, lunedì 12 dicembre 2005, una conferenza sull'opera letteraria di Verne, intitolata "Jules Verne: un'interpretazione".

[Vengono mostrate con il proiettore alcune immagini fotografiche riguardanti la vita di Albert Camus.] Lo straniero, nell'edizione Bompiani, che vedete. La copertina si riferisce al film che fu tratto dal romanzo, di Luchino Visconti, del 1967. Gli interpreti furono Marcello Mastroianni, Anna Karina, Bernanrd Blier, Bruno Cremer. È un film di Visconti che ha fatto discutere; non è considerato tra i suoi capolavori. Perché? Be', per esempio il Mereghetti, uno dei nostri maggiori critici cinematografici, ha affermato che "Visconti ha scelto una sorta di realismo onirico, ma ha finito per trasformare Meursault in un Oblomov". Meurasult, il protagonsta di questo romanzo, è un personaggio caratterizzato da una sorta di indifferenza nei confronti della vita. Indifferente accoglie la notizia della morte della madre; indifferente intreccia una relazione con una ragazza; con una sorta di apatia, di "non capir beme come", uccide un Arabo su una spiaggia - siamo in Algeria - e con indifferenza accoglie la condanna a morte. Qui, appunto, c'è Marcello Mastroianni. L'altro romanzo importante, che ha dato la celebrità - anche presso un pubblico europeo e mondiale - a Camus è La peste. Con La peste, in realtà, si passa da una dimensione di esistenzialismo nichilistico, da una dimensione di assurdo esistenziale, di angoscia, di sofferenza, di solitudine alla dimensione della speranza. La peste - peste che va intesa in senso metaforico - è comunque descritta come una vera pestilenza. Una mattina gli abitanti di Orano, in Algria, si svegliano e scoprono numerosi topi morti, che sono immersi nel sangue e nel vomito. Da questo inizio, apparentemente quasi surrealistico, si 1


passa a un'atmosfera sempre più drammatica, in cui la cittadinanza, e in particolare un gruppo di medici, sono sempre più coinvolti, e scoprono i valori della solidarietà, i valori dell'impegno collettivo; e quindi questo romanzo è all'insegna di una visione dell'uomo e del mondo diversa da quella che si vedeva ne Lo straniero. Si potrebbe paragonare un po' il secondo romanzo al cosiddetto pessimismo agonistico di Lepardi; nel senso che, pur restandoi convinto dell'assurdità del tutto, Camus ne La peste rivolge un appello alla solidarietà umana, e sostiene che dobbiamo combattere contro l'assurdo, cercando di dare noi un senso all'esistenza. Camus è stato anche un sostenitore della battaglia contro la pena di morte.. Insieme allo scrittore inglese Arthur Koestler si è impegnato in questo senso, e ha scritto un saggio, Contro la ghigliottina, di cui vedete qui la copertina, in cui - non in nome di un generico buonismo, non in nome di un filantropismo sdolcinato, ma ribadendo la responsabilità degli atti umani, e quindi ribadendo la necessità di sanzionare reati gravi - sostiene tuttavia che lo stato non può ergersi a giustiziere di quegli individui che commettono reati, che infrangono la legge morale, poiché lo stato - che dispone di ben altri mezzi per far rispettare la giustizia e la convivenza - se ricorre alla pena di morte, commette un abuso e una sorta d'imbarbarimento in nessun modo giustificabile. Qui abbiamo ancora una copertina de Lo straniero, nell'edizione successiva - sempre della Bompiani; un'altra foto di Camus, con l'inseparabile sigaretta. Questa è una foto dell'ultimo peridodo, una delle ultime fotografie - è ancora la copertina de L'uomo in rivolta, sempre della Bompiani; e qui abbiamo alcune altre foto. Anche questa è una foto celebre. Qui abbiamo i festeggiamenti per l'indipenenza dell'Algeria, nel 1963. Camus teneva molto alla sua "algerinità". Quando suo padre mortì poco dopo la battaglia della Marna, nel novembre del 1914, egli scrisse in seguito che suo padre era morto "per un Paese che non era il suo. Camus ha sempre ribadito la propria dimensione "mediterranea", più che francese. E in effetti, aveva tentato di entrare nel giornalismo in Algeria; ma, avendo scritto un articolo contro il governo, questo si adoperò perché nessun giornale algerino gli desse più la possibilità di lavorare; e quindi fu letteralmente costretto a trasferirsi in Francia, dove cominciò a lavorare per Paris-Soir, per altri giornali, per altri quitidiani. Poi, durante la Resistenza, collaborò a Le Combat e fu anzi tra i principali animatori di questo importante foglio clandestino della resistenza anti-tedesca. Si può dire, pertanto, che il governo francese ottenne l'obiettivo opposto a quello che si era prefisso, quando aveva cercato di "falciargli l'erba sotto i piedi" in Algeria. Alcuni autori parlano a questo proposito di una dimensione - come possiamo dire - di inconscio coloniale in Camus. Segnalo in particolare la casa editrice Fayard che ha pubblicato Cultura e imperialismo di Edward Said, il quale sostiene che Camus, insieme a George Orwel,l è stato uno degli autori europei in cui il rapporto inconscio dell'Europa con il problema coloniale, il problema dell'imperialismo, è più sentito. Entrambi furono celebri per la chiarezza e la semplicità del loro stile; entrambi videro nella guerra civile spagnola un laboratorio politico fondamentale; entambi furono impegnati sul fronte antifascista; entrambi furono testimoni, a seconda guerra mondiale conclusa, dello sgretolamento degli imperi coloniali. La posizione di Camus fu una posizione particolarmente delicata quando scoppiò, poi, la guerra per l'indipendenza algerina; perché - a differenza di Sartre, per esempio, - Camus rifiutò di lasciarsi ingabbiare in una 2


delle due alternative "sechche": o con il colonialismo francese, o con l'indipendenza radicale. Lui avrebbe auspicato una sorta di compromesso, una convivenza; anche perchè, nato in Algeria - da genitori francesi, ma nato in Algeria - si sentiva anch'egli "algerino" e riteneva che i Francesi d'Algeria, insieme agli Algerini, avrebbero dovuto formare una patria in cui le due due civiltà, le due culture, le due religioni potessero convivere. Qui abbiamo alcuni paesaggi algerini… La dimensione "mediterranea", comunque, è importante perché - come diremo tra poco - ne L'uomo in rivolta egli dedica un ampio capitolo conclusivo a Il pensiero meridiano, inteso come il pensiero del mezzodì, il pensiero mediterraneo, il pensiero della luce, del colore, della vita; contrapposto a un'Europa settentrionale, un'Europa dominata dallo storicismo tedesco che, invece, secondo lui era il pensiero della mezzanotte, il pensiero delle tenebre. E, come diremo tra poco, lui che ha sempre avuto nostalgia per il sole, per la luce, per i colori - c'è anche una sensualità nella sua dimensione mediterranea, anche a livello narrativo - e, del resto, lui disse che un bambino povero (e lui ebbe un'infanzia povera; dicevamo che rimase orfano di padre quando aveva meno di un anno di età; la sua famiglia ebbe grossi problemi economici, lui poté studiare a fatica - problemi anche di salute, poi, come credo sappiate, tanto che dovette anche abbandonare il gioco del calcio, che era la sua grane passione - lui disse che anche un bambino povero, dove ci siano il mare e il sole, non trascorrerà mai un'infanzia veramente povera. Quindi questa dimensioione dei colori, dei profumi, della vegetazione, della luce del Mediterraneo è sempre presente nel suo pensiero - più avanti diremo in che senso il pensiero meridiano lui lo vede come una possibile alternativa alla decadenza, alla crisi della modernità e alle ombre minacciose con cui la società europea si andava avviando verso la propria autodistruzione. Questa, almeno, è l'analisi che egli fa. Questa è una delle ultime fotografie… Si è occupato molto anche di teatro - ha scritto Caligola, fra l'altro; si è occupato anche di riduzioni teatrali di altri autori; per esempio, Requiem per una monaca di William Faulkner. I suoi interessi, quindi, vanno dal giornalismo al romanzo, al saggio filosofico, al teatro. Questa foto di Nietzsche era appesa nel suo studio. Nietzsche costituisce un punto di riferimento inderogabile del suo pensiero. Qui, ancora, abbiamo immagini della Kasbah… Insomma, una grande nostalgia per questa sua infanzia, per questa sua dimensione mediterranea che non verrà mai smentita. [Qui finisce la proiezione delle fotografie; la conferenza prosegue liberamente.] Camus muore nel 1960, prima di poter assistere alla conclusione della drammartica guerra d'indipendenza algerina. Stavo dicendo che a quell'epoca Sartre ha preso una posizione molto pù esplicita e molto più secca di Camus; ma in realtà, fra i due la rottura c'era già stata, nel 1951-52; perché nel 1951 esce L'uono in rivolta, e questo testo segna la rottura che poi si approfondisce; perché - estremamente in sintesi - la posizione di Camus viene accusata da Sartre, sostanzialmente, di essere piccolo-borghese, di essere una scelta ambigua; perché, invece di fare una chiara scelta di classe, Camus preferisce parlare non dentro le masse, ma a nome delle masse. In particolare, quello che Sartre non accettava era la diffidenza, per non dire la critica spietata che Camus fa del concetto stesso di rivoluzione; in quanto Camus sostiene che la rivolta dell'uomo per costruire una società migliore è sempre approdata a esiti disastrosi, che hanno creato condizioni ancora più 3


oppressive; e questa sua sfiducia nelle rivoluzioni, a Sartre è sembrata una specie di diserzione dal campo della sinistra. Ricordiamo che Camus si era iscritto - per un breve periodo, in verità - al partito Comunista Francese; ma aveva sempre mantenuto una sua posizione critica, anche nei confronti della politica dell'U.RS.S., per esempio. E, se da un lato si era dimesso da un posto governativo nell'UNESCO, per protesta, quando l'O.N.U. aveva accettato l'ingresso della Spagna franchista, perché Camus riteneva illegittimo che un governo come quello di Franco venisse accolto nelle Nazioni Unite - tuttavia non risparmiò critiche alla politica sovietica, in particolare alla repressione dei moti, delle rivolte operaie scoppiate a Berlino Est nel 1953. Stavamo dicendo che il percorso da Lo straniero a La peste è un percorso dal nichilismo esistenzialistico alla dimensione della solidarietà e della speranza. Meursault, il protagonista de Lo straniero - è un po', se vogliamo, una specie di "uomo senza qualità" nel solco di quegli anti-eroi dei primi anni del Novecento che da Rober Musil a Franz Kafka, allo stesso Proust, allo stesso Joyce, passando per Thomas Mann, per Pirandello e Svevo, arrivano all'esistenzialismo. Negli ultimi giorni, in attesa della condanna a morte, Meursault riceve la visita del prete della prigione, il quale cerca di convertirlo; ma Meursault lo respinge sdegnosamente, gli dice che non ha tempo per Dio proprio perché gli rimane poco tempo da vivere. Vi leggo l'ultima pagina - il romanzo fu pubblicato nel 1942. "Partito lui, ho ritrovato la calma. Ero esausto e mi son gettato sulla branda. Devo aver dormito, perché mi son svegliato con delle stelle sul viso. Rumori di campagna giungevamo fino a me. Odori di notte, di terra e di sale rinfrescavano le mie tempie. La pace meravigliosa di quell'estate assopita entrava in me come una marea. In quel momento, e al limite della notte, si è udito un sibilo di sirene. Annunciavano partenze per un mondo che mi era ormai indifferente per sempre. Per la prima volta dopo tanto tempo ho pensato alla mamma. - Infatti il romanzo si apre con Meurasult che riceve la notizia della morte della mamma e si reca per assistere al funerale. Ma la mamma è già morta; era da tempo ricoverata in una casa di riposo, in un ospizio. - Mi è parso di comprendere perché, alla fine di una vita, si era preso un "fidanzato"; perché aveva giocato a ricominciare. Laggiù, anche laggiù, intorno a quell'ospizio dove vite si stavano spegnendo, la sera era come una tregua melanconica. Così vicina alla morte, la mamma doveva sentirsi liberata e pronta a rivivere tutto. Nessuno, nessuno aveva il diritto di piangere su di lei. E anch'io mi sentivo pronto a rivivere tutto, come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza. Davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo, per la prima volta, alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori, il giorno della mia esecuzione; e che mi accolgano con grida di odio." Questa era la conclusione de Lo straniero. Passerei direttamente a L'uomo in rivolta, che è il saggio filosofico a cui vorrei dedicare il nucleo di questa conversazione. L'uomo in rivolta: in rivolta contro chi? Riisponde Camus: "Che cos'è un uomo in rivolta? È un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo no? 4


Significa, ad esempio, "le cose hanno durato troppo", "fin qui sì", al di là no", "vai troppo in là" e anche "c'è un limite oltre il quale non andrai". Insomma, questo no afferma l'esistenza di una frontiera. Si ritrova la stessa idea di limite nell'impressione dell'uomo in rivola che l'altro "esageri", che estenda il suo diritto al di là di un confine oltre il quale un altro diritto gli fa fronte e lo limita. Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un'intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull'impressione, nell'insorto, di avere "il diritto di…". Non esiste rivolta senza la sensazione d'avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione. Appunto in questo lo schiavo in rivolta dice ad un tempo di sì e di no." Nel saggio L'uomo in rivolta ritorna più volte la figura di Ivan Karamazov. Per chi ha presente il romanzo di Dostoevskij, si tratta del fratello medio della famiglia Karamazov. Più grande di Alioscia, più piccolo - di poco - di Dimitrij, è l'intellettttuale dei tre. È colui che fa il "gran rifiuto" nei confronti di Dio, che pronuncia il "no definitivo" nei confronti di Dio, sostenendo che anche soltanto la sofferenza di un bambino sarebbe un motivo sufficiente per rifiutare il paradiso e per rifiutare Dio, con tutta la sua promessa di paradisi: perché la salvezza o è per tutti, oppure non ha senso. "Il dramma di Ivan - scrive Camus - nasce dall'esservi troppo amore senza oggetto. Quest'amore che, negato Dio, rimane inutilizzato, ci si decie allora a trasferirlo sull'essere umano in nome di una generosa complicità." Mettiamo un po' di carne al fuoco per avere anche più spunti di riflessione. "La rivolta metafisica - scrive Camus - è il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione e contro l'intera creazione. È metafisica perché contesta i fini dell'uomo e della creazione. Lo schiavo protesta contro la condizione che gli viene fatta all'interno del suo sato: l'insorto metafisico contro la condizione che gli viene fatta in quanto uomo. Lo schiavo ribelle afferma che c'è qualche cosa in lui che non accetta il modo in cui lo tratta il suo signore; l'insorto metafisico si dichiara frustrato dalla creazone. Sia per l'uno che per l'altro, non si tratta soltanto di una pura e semplice negazione. In ambedue i casi, troviamo infatti un giudizio di valore in nome del quale l'insorto rifiuta la sua approvazione alla condizione che gli è propria. Lo schiavo che si erge contro il signore non si cura, notiamolo, di negare questo signore in quanto essere. Lo nega in quanto padrone. Nega che abbia il diritto di negare lui, schiavo, in quanto esigenza. Il signore è decaduto nella misura stessa in cui non risponde ad une'sigenza che trascura. Se gli uomini non possono riferirsi a un valore comune, riconosciuto da tutti in ciascuno, allora l'uomo è incomprensibile all'uomo. Il ribelle esige che tale valore sia chiaramente riconosciuto in lui perché sospetta o sa che, senza questo principio, il disordine e il delitto regnerebbero sul mondo. Il movimento di rivolta appare in lui come una rivendicazione di chiarezza e d'unità. La più elementare ribellione esprime, in modo paradossale, l'aspirazione a un ordine. Parola pe rparola, questa descrizione conviene all'insorto metafisico. Egli si erge su di un mondo in frantumi per rivendicarne l'unità, oppone il principio di giustizia che sta in lui al principio d'ingiustizia che vede all'opera nel mondo.(…) La storia della rivolta metafisica non può dunque confondersi con quella dell'ateismo. Sotto un certo aspetto, anzi, essa si confonde con la storia contemporanea del sentimento religioso. Più che negare, l'uomo in rivolta sfida. Primitivamente almeno, non sopprime Dio, gli parla semplicemente da pari a pari. Ma non si tratta di un dialogo cortese. Si tratta di una polemica animata dal desiderio di vincere. Lo schiavo comincia col reclamare giustizia e finisce per volere la sovranità. Ha 5


bisogno di dominare a sua volta. La sollevazione contro la condizione si coordina in una spedizione smisurata contro il cielo per ricondurne un re prigioniero di cui si pronuncerà dapprima la destituzione, e poi la condanna a morte. Qui viene in mente la figura di Prometeo, che infatti Camus tratta specificamente come tipica figura del titanismo ribelle; e qui possiamo vedere anche, se volete, una dimensione tardo-romantica o psot-romantica presente in Camus. Nei suoi slanci di titanismo prometeico, viene in mente lord Byron; vengono in mente anche altri autori del romanticismo - per certi aspetti anche, come dicevo prima, Leopardi. Arrivo al pensiero meridiano, che è la parte finale del saggio, in cui Camus cerca di fare una proposta. Contro le tenebre della modernità, che tendono a gettare una buia notte sull'Europa, Camus propone, come rimedio, quello che egli chiama il pensiero meridiano, cioè il pensiero della luce, il pensiero solare. Un pensiero di tradizione mediterranea che incomincia con i presocratici e arriva, su su, fino alla grande stagione rinascimentale del naturalisno: di Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Nel capitolo intitolato Il pensiero meridiano, egli afferma: "La ricolta cozza instancabilmente contro il male, dal quale non le rimane che prendere un nuovo slancio. L'uomo deve signoreggiare in sé tutto ciò che deve essere signoreggiato. Deve riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Dopo di che, i bambini moriranno sempre ingiustamente, anche in una società perfetta. Nel suo sforzo maggiore, l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo. Ma ingiustizia e sofferenza perdureranno, e, per limitate che siano, non cesseranno di essere scandalo. Il "perché" di Dimitri Karamazov continuerà a risuonare, l'arte e la rivolta non moriranno se non con l'ultimo uomo. "C'è un male, senza dubbio, che gli uomini accumulano nel loro desiderio forsennato di unità. Ma un altro male sta all'origine del loro movimento disordinato. Davanti a questo male, davanti alla morte, l'uomo dal più profondo di sé grida giustizia. Il cristianesimo storicista non ha risposto a questa protesta contro il male se non con l'annuncio del regno, poi della vita eterna, che richiede la fede. Ma la sofferenza logora la speranza e la fede; rimane allora solitaria, e senza spiegazioni. Le folle del lavoro, stanche di patire e di morire, sono folle senza Dio. Il nostro posto è quindi al loro fianco, lontano dai vecchie dai nuovi dottori. Il cristianesimo storico rinvia oltre la storia la guarigione del male e dell'omicidio che sono tuttavia sofferti nella storia. Anche il materialismo contemporaneo crede di rispondere a tutti gli interrogativi. Ma, servo della storia, accresce il dominio dell'omicidio storico e insieme lo lascia senza giustificazione tranne nell'avvenire il quale, anch'esso, richiede la fede." Mi pare molto acuto come qui Camus ha colto quella dimensione non solo storicistica, ma anche escatologica, presente nello stesso marxismo. Questa è, sostanzialmente, la ragione della rottura con Sartre: perché se Sartre, da buon marxista, crede nella dialettica della storia, cioè crede che quando l'ultimo dominio di classe sarà stato infranto, allora verrà restaurato il regno di Dio sulla terra - il regno di Dio storicizzato, cioè Dio che è diventato la Storia (del resto questa derivazione da Hegel la vediamo anche nell'idealismo, la vediamo in Croce, in Gentile). Camus, invece, non ci crede; Camus la considera una grande menzogna; ed è convinto che - purtroppo - la tendenza dell'uomo al dominio sull'uomo sia una tendenza astorica, e sia una tendenza che risiede nella sua stessa natura. In ambedue i casi bisogna aspettare -in ambedue i casi, cioè sia nel caso della fede religiosa, sia nel caso della fede marxista - e intanto l'innocente non cessa di morire. Da venti secoli a 6


questa parte, la somma complessiva del male non è scemata nel mondo." - Questo è un discorso radicalmente anti-progressista. - "Nesuna parusia, né divina né rivoluzionaria, si è compiuta. Un'ingiustizia rimane inerente ad ogni sofferenza, anche la più meritata agli occhi degli uomini. Sempre grida il lungo silenzio di Prometeo davanti alle forze che l'opprimono. Ma nel frattempo, Prometeo ha visto gli uomini volgersi anch'essi contro di lui, e schernirlo. Costretto tra il male umano e il destino, il terrore e l'arbitrio, non gli resta che la rivolta per salvare dall'omicidio quanto ancora può essere salvato, senza cedere all'orgoglio della bestemmia. "Si comprende allora che la rivolta non può fare a meno di uno strano amore. Coloro che non trovano quiete né in Dio né entro la storia si danno a vivere per quelli che, come loro, non possono vivere; per gli umiliati. Il movimento più puro della rivolta si corona allora del grido lacerante di Karamazov: "Se non sono salvi tutti, a che serve la salvezza di uno solo!" Qui vediamo, per esempio, il protagonista de La peste. Il protagonista de La peste è uno che non trova quiete né in Dio - per parafrasare queste righe - né nella storia. E tuttavia sente forte, invincibile, il desiderio di spendersi per quelli che "non possono più vivere", gli umiliati - e gli offesi (aggiungiamo noi) per usare un'espressione, ancora, dostoevskiana. Per quello che riguarda il pensiero meridiano c'è un bel saggio, che vi segnalo, di Mario Alcaro, uno studioso italiano, Filosofie della natura, in cui si prende particolarmente in esame l'aspetto della proposta del pensiero meridiano. Mario Alcaro, passando in rassegna le pagine dedicate al pensiero meridiano, osserva che Camus, per giungere alle sue conclusioni sul pensiero meridiano, in qualche modo prende posizione contro la modernità, contro la tarda modernità. "La rivoluzione del XX secolo sostituisce a Dio la storia. Quest'ultima viene divinizzata; essa cancella la misura delle cose e dell'uomo, perché riconosce solo il principio dell'efficacia e del successo, e quindi ci consegna solo un mondo - sono parole di Camus - dominato dai mercanti; una cultura, quindi, intrinsecamente nichilista. La storia cancella la misura delle cose. Gli uomini dell'Europa, abbandonati alle ombre, si sono distolti dal punto fisso e irraggiante. Credono ormai solo alla potenza e alla storia e non si accorgono che questa loro unica fede si converte in un meccanismo omicida e smisurato, contro cui diviene sacra una nuova rivolta, in nome della misura e della vita. Non credono più a ciò che è, al mondo e all'uomo vivo. L'Europa non ama più la vita: questo è il suo segreto." Pensate che parole profetiche, nel 1951: L'Europa - non l'Occidente; ripeto: l'Europa, non l'Occidente: c'è una dimensione specifica, che oggi si tende ad annacquare per una serie di ragioni; ma l'Europa è l'Europa; l'Europa non è gli Stati Uniti - l'Europa non crede più alla vita, non ama più la vita; questo- dice Camus - è il suo segreto. "Per questo hanno voluto cancellare la gioia dalla scena del mondo. Negando la giusta grandezza della vita, hanno dovuto puntare tutto sulla loro eccellenza." Ecco qua: il maximum e non l'optimum. "In mancanza di meglio, hanno divinizzato sé stessi, e la loro sciagura ha avuto inizio." Sembrano parole di San Paolo, dall'Epistola ai Romani. "E la loro sciagura ha avuto inizio." E poi, ancora: "Allorquando Dio viene espulso dall'universo storico, nasce l'ideologia tedesca - lo storicismo tedesco - nella quale l'azione non è più perfezionamento, ma pura conquista, cioè tirannia." Che cosa si conclude da questo ragionamento? Si conlcude: primo, che la madre di tuti i problemi della modernità è una manipolazione sconfinata, da parte del pensiero strumentale, del pensiero calcolante; la quale richiede che si faccia di nuovo ricorso alla 7


natura come a un suo limite e a una sua misura. Il ritorno alla natura come ritorno al senso del limite, da parte di una umanità che ha smarrito - di una cultura europea che ha smarrrito - il senso del limite e il senso della misura. Secondo: Camus vede nel XX secolo un contrasto profondo fra la storia divinizzata e la natura: da una parte manipolazione tecnologica e dall'altra istanze basilari della vita ed equilibrio naturale; e individua nel Mediterraneo, nel pensiero meridiano, il possibile antidoto a questa degenerazione. Guardare al Mediterraneo, dunque, come a un possibile antidoto alla volontà di potenza e di dominio dell'uomo occidentale. Adesso svogliamo noi qualche riflessione. "L'uomo, certo, non si riassume nell'insurrezione sono ancora parole di Camus; ma la storia di oggi ci costringe a dire che la rivolta è una delle dimensioni essenziali dell'uomo: è la nostra realtà storica. A meno di fuggire la realtà, dobbiamo trovare in essa i nostrio valori. Si può, lungi dall'universo religioso e dai suoi valori assoluti, trovare una regola di condotta? È questa la domanda posta dalla rivolta." È ancora la grande lezione di Nietzsche. All'annuncio di Nietzsche "Dio è morto", l'uomo è in grado di elaborare dei valori relativi che possano sostituire i valori assoluti del Dio che è morto, oppure no? Questa è la grande sfida, sulla quale Camus gioca la sua partita. La rivolta trae l'uomo dalla sua solitudine: celebre la frase di Camus "mi rivolto, dunque siamo"; che, parafrasando e capovolgendo il senso del cogito cartesiano - mi rivolto, dunque siamo - opera la scoperta della fraternità, della solidarietà, della uscita dalla condizione di isolamento, di finitezza, di solitudine dell'io. A questo punto, però, ci possiamo chiedere se sia proprio così. Ancora Camus: "Al Dio personale, la rivolta può domandare personalmente dei conti. Non appena questi regna, la rivolta si aderge nella sua più fiera risolutezza, a pronunciare il no definitivo"; e cita Caino, cita Prometeo, cita Ivan Karamazov. "Il no definitivo"; quindi Camus, in nome di un umanismo integrale, è colui che pronuncia il no definitivo ai valori assoluti e all'idea di Dio. Il no definitivo è un "no" romantico. Prima abbiamo ricordato Byron; possiamo ricordare anche un certo Leopardi, il Leopardi che scrive l'Inno ad Ahrimane. È un inno quasi satanico, nella sua celebrazione del non-senso del mondo. Nell'Inno ad Ahrimane Leopardi, praticamente, identifica Dio con il Male. Infatti c'è quella famosa pagina dello Zibaldone in cui scrive: "Tutto ciò che esiste è male; e l'unica cosa buona è il non esistere." Camus è figlio di questa concezione del mondo. Il "no definitivo" lo abbiamo visto, a livello metafisico, in Nietzsche; lo vediamo, a livello scientifico, in Darwin, in Marx, in Freud: i grandi "no" di fine Ottocento e del primo Novecento. Darwin che, oltretutto, muove da una visione religiosa - sapete, lui studiava per diventare pastore anglicano - in base alla teoria dell'evoluzione è arrivato alla conclusione che, pur sforzandosi di vederla, la Provvidenza non riesce a vederla, nel meccanismo dell'evoluzione; quindi arriva alla conclusione di un mondo senza Dio. Marx - be', è inutile dire; Freud, con la sua visione di un inconscio che ribolle dentro di noi, carico di pulsioni vergognose, di forze distruttive, di desideri inconfessabili. Cosa hanno prodotto questi "no definitivi", anche solo nel campo della discussione, nel campo delle opinioni? Be', a me pare che il darwinismo abbia prodotto- attraverso il darwinismo sociale - lo sfruttamento di classe, l'imperialismo, le due guerre mondiali, la giustificazione della 8


violenza, ora di classe, ora degli stati; il marxismo, attraverso l'odio di classe, ha prodotto l'universo concentrazionario, l'Inquisizione "rossa"; la psicanalisi ha portato lacerazioni, dubbi, impotenza, disperazione perfino all'interno dell'io - la scissione dell'io, la disgregazione dell'io, e ci ha consegnato l'immagine di un uomo stravolta, delirante, letteralmente "ossessa" da forze infere, come diceva il filosofo Evola. Non abbiamo assistito alla nascita del tanto auspicato Über-Mensch nietzschiano, dell'Oltre-uomo (malamente tradotto con "Super-uomo"); bensì abbiamo assistito, nel corso del Novecento, alla comparsa di uno schiavo della sua stessa volontà di dominio, di uno schiavo che - dopo aver adorato la Storia, come Hegel o Croce, e la scienza da essa prodotta (lo scientismo, il positivismo, il pragmatismo, l'utilitarismo, tutti questi "-ismi" che hanno divinizzato scienza e tecnica) - si è fatto servo e strumento della tecnica stessa, cioè di un Logos strumentale e calcolante che bada unicamente alla razionalità dei mezzi e non si pone il problema della razionalità dei fini. C'e, nel razionalismo contemporaneo, questa tragica contraddizione: che il Logos strumentale ha saputo, e sa, calcolare perfettamente l'efficacia e la potenza dei mezzi, ma non si pone il problema dei fini. Dove stiamo andando? Perché stiamo facendo queste cose? Ancora Camus: "In realtà la rivolta, senza pretendere di risolvere tutto, può almeno fronteggiare. Da quell'istante, il meriggio zampila e scorre sul movimento stesso della storia." Ancora, dunque, l'idolatria della storia? Camus: "La sola regola che sia oggi originale: imparare a vivere e a morire e, per essere uomo, rifiutare di essereDio." Ancora: "Il mondo resta il nostrio primo e ultimo amore." Ripeto: "Il mondo resta il nostro primo e ultimo amore." Ancora: "Noi dobbiamo condivere le lotte e la sorte comune"; e ancora: "Rifaremo l'anima di questo tempo e, in Europa, creeremo un mondo che non escluderà nulla." Possiamo chiederci: ma è proprio così? Quando Camus afferma che "il mondo resta il nostro primo e ultimo amore" - che è poi la lezione di Nietzsche: la "fedeltà alla terra", l'amor fati - se intendiamo "terra" e "mondo" come entità auto-sussistenti, se le identifichiamo con l'Assoluto (una forma di pantesmo, come pensava Spinoza) -, se le divinizziamo, compiamo una vera e propria inversione di valori. "Lo Spirito - cito Paramahansa Yogananda, il grande mistico indiano - è diventato materia attraverso processi di materializzazione; la materia, dunque, procede dalllo Spirito; è un'espressione parziale dello Spirito; è l'Infinito, che ha l'apparenza del finito; è l'Illimitato che appare limitato. La materia è lo Spirito in una sua ingannevole manifestazione: non esiste di per sé." Non esiste di per sé: la fisica post-einsteniana, la fisica quantistica - curiosamente - si sta avvicinando alle stesse conclusioni. C'è una convergenza tra il pensiero mistico orientale e, in particolare, indiano - e le ultime acquisizioni della fisica dei quanti. Assolutizzare il mondo significa, quind, invertire radicalmente l'ordine delle cose; innalzare l'illusione, il nulla, al livello ontologico dell'essere; fondare, cioè, una vera e propria religione del nichilismo nel senso più proprio del termine; costruire una visione del mondo basata su una illlusione radicale. Per filosofi come Severino è la stessa metafisica che porta al nichilismo, perché proietta l'Essere a distanze irraggiungibili. Ma non è vero: non è la metafisica a fare questo, bensì l'aver assolutizzato il dualismo apparente della metafisica. Il "mondo" di cui parlava Camus, inteso - in qualche modo - come una cartesiana res extensa - è apparenza e nulla; 9


l'Essere è invece l'Assoluto, cioè il Tutto. La società contemporanea è nichilista non perché la tecnica sia il risultato inevitabile della metafisica, come afferma Severino; ma perché abbiamo perduto il vero senso della metafisica: che non è quello - quantitativo - di fare da pendant alla fisica, al "mondo" (di qua la fisica, di là la metafisica); bensì quello qualitativo- di ricondurci all'Oikos, alla vera casa dell'Essere; che è dentro di noi, non fuori. È relativamente facile, mediante la tecnica, esercitatare forme di domino sulla realtà esterna, materiale; molto più complesso, perché presuppone una crescita spirituale lunga e paziente, esercitare il dominio su noi stessi, lottando contro le tentazioni della hybris, della "dismisura". Ecco qua la dismisura; ecco qua da dove ha inizio la smania di dominio da parte dell'uomo occidentale moderno - moderno, intendo post-cartesiano, post-galileiano, post- rivoluzione scientifica del 1600. Ma non era di qui che aveva preso le mosse il pensiero meridiano di Camus? Possibile che egli non si sia accorto della contraddizione? Possibile che non abbia visto che, amando solo il mondo, si ricade inesorabilmente nell'idolatria dell'esistente: cioè della storia, cioè della scienza, cioè della tecnica, cioè della mera quantità. Come diceva René Guénon: il Regno della Quantità - e non della Qualità. Insomma: c'è un filo rosso che lega, a mio parere, il titanismo post-romantico, anche di Camus, all'umanesimo assoluto, a una sorta di ebbrezza della dismisura i cui esiti ultimi sono, al limite, stregoneria, satanismo nel senso profondo della parola, cioè come autoidolatria oggettivante. Ricordiamo che nel mito platonico di Atlantide - nel Timeo e nel Crizia - si sostiene che quella civiltà, pur così progredita e così saggia, andò in rovina proprio per un eccesso di hybris, di dismisura; e, specificamente, per aver praticato meglio, perché i suoi sapienti avevano praticato la magia nera: metafora di questa rivolta di un mondo chiuso in sé stesso, auto-referenziale, che diventa autoidolatria oggettivante. Tutti i tentativi di creare valori in qualche modo -come si può dire -, creare valori in una esistenza limitata al concetto di "mondo" chiuso in sé stesso, fanno capo al funzionalismo, a ciò che è funzionale. Il mondo diviene tragico perché unicamente rivolto nella direzione dell'utile, dell'utilitario. Ecco la negazione definitiva espressa da Karl Jaspers - non so se pronuncio bene il tedesco - "Das Scheitern is das Letze, "far fiasco è l'ultima parola". Queste tremende parole di Karl Jaspers, il grande maestro dell'esistenzialismo tedesco, "far fiasco è l'ultima parola", risuonano come un monito nei confronti della hybris occidentale. Questa citazione di Jaspers è presente in un altro autore francese contemporaneo: François-Albert Viallet, nel libro Lo Zen: l'altro versante, del 1971. Insomma: se la trascendenza è resa impossibile dal titanismo, cede i suoi caratteri alla storia, che diventa il vero Deus absconditus della modernità; e quindi si ricade in quella idolatria della materia, del Logos calcolante, della scienza e della tecnica, da cui si era creduto di poter evadere. Cerchiamo ora di delineare un paesaggio di speranza, perché il pessimismo di Camus è raggelante, anche se è apprezzabile la sua dimensione agonistica, la sua dimensione di rivolta disincantata, cioè la sua consapevolezza che storicamente, oltre che metafisicamente, la rivolta non ha prodotto altro che universi concentrazionari e, come lui dice, "volonterosi carnefici umanisti", che nei sotterranei celebrano i loro tristi trionfi. Probabilmente si riferiva, per esempio, alla purghe stalinane, ai milioni di Europei che hanno trovato la morte in nome di uno stato e di un modello sociale che voleva sostituirsi 10


a Dio; e con lo stesso puritanesimo - movimento che ha avuto origine, secondo Camus, col giacobinismo e con la Rivoluzione francese. E con lo stesso puritanesimo feroce con cui l'Inquisizione medioevale mandava al rogo gli eretici, la stessa cosa è stata fatta nel Novecento in nome di un mondo migliore basato sulla Storia, la Storia chiusa in sé stessa. Possiamo individuare margini di speranza e sentieri di fiducia nel futuro e indicare alle giovani generazioni percorsi di speranza nel futuro, dopo aver delineato un quadro così cupo, se perfino un uomo dal rigore morale indubbio, come Camus, non ha saputo sottrarsi all'attrazione di un immanentismo chiuso in sé stesso, che finisce per diventae il contrario di quell'umanesimo che aveva auspicato? Bene, anche solo restando nel campo della cultura francese - che, probabilmente, è anche quello da voi meglio conosciuto, poiché nell'ambito della AllianceFrançaise, suppongo che ci sia un'attenzione specifica per questa cultura - sono almeno tre gli autori che potrebbero darci una parola di conforto: Emmanuel Mounier, Michel Foucault e Gabriel Marcel. La lezione di Mounier - che poi è stata ripresa da un grande pensatore trevigiano, ingiustamente non abbastanza conosciuto: Luigi Stefanini, e quindi dal personalismo stefaniniano - mi sembra essere questa: noi dobbiamo recuperare il concetto di persona, e più precisamente di persona finita, che riconosce la propria finitezza, ma anche - nel campo del sensibile - la propria assolutezza e universalità; cioè che non vi è nulla al sopra della persona - nel campo del sensibile - se non la persona stessa. E, contemporaneamente, questa persona finita aspira a tradscendere la propria finitezza, in una perenne tensione verso la Persona Infinita. È un movimento che cerca di tornare all'origine: dall'Assoluto ha preso inizio, e all'Assoluta desidera ritornare. Michel Foucault ha individuato nel cambiamento moderno dell'episteme uno dei più grandi drammi del linguaggio, e quindi anche della cultura moderna. Cioè, Foucault sostiene che il linguaggio sempre più ha divorziato dalle cose, per diventare il linguaggio del pensiero. Noi dobbiamo quindi recuperare, secondo la lezione di Foucault, e ricucire lo iato fra res cogitans e res extensa, mediante la riscoperta di un linguaggio che non esprima solo il pensiero, ma anche le cose; un linguaggio significante che torni ad aderire alle cose, che torni a evocare le cose, a coinvolgere le cose. Per cui noi, oggi, siamo spiritualmente chiusi in una specie di circolo, in una specie di cerchio asfittico, di una epsteme autoreferenziale, solipsistica. Per reagire a ciò, dobbiamo, in qualche modo, reagire al mito onnipervasivo di una razionalità analitica e riscoprire - come nella poesia - il valore ontolgico della parola-cosa. Qui c'è tutta la lezione di Heidegger - dobbiamo, cioè, rimetterci in cammino verso il linguaggio; dobbiamo recuperare la dimensione profonda della comunicazione tra noi e le cose, mediante il linguaggio. Praticamente, da Kant in poi dalla separazione tra Noumeno e fenomeno - si è verificato questo fatto curioso della cultura occidentale, che è arrivato all'acme con Hegel, con l'hegelismo, con l'idealismo: il linguaggio è il linguaggio del nostro pensiero; non è più il linguaggio che esprime le cose. Noi abbiamo, quindi, perso il conatto con le cose, perso il contatto col mondo. Da qui, il delirio solipsistico e la smania di onnipitenza di cui parlavamo prima. Infine, Gabriel Marcel - che, come sapete, è il maggiore esponente del cosiddetto esistenzialismo cristiano. Per Gabriel Marcel noi dobbiamo superare le angustie di quella che lui chiama la riflessione primaria, imperniata cioè sul "cogito" cartesiano; e aprirci, con quella che lui chiama la riflessione secondaria, al mistero dell'altro, nella sua sacrale e 11


inesauribile inseità; passare dall'"io penso" al "noi siamo". Passaggio che, come abbiamo visto, Camus - ne L'uomo in rivolta - aveva bensì individuato, ma non aveva - in qualche modo - esplorato fino alle sue ultime conseguenze. Perché? Per il limite intrinseco del suo pensiero, e cioè un amor fati che coincide col "mondo"; e, di fatto, rende impossibile l'uscita dall'"io" e il riconoscimento del "tu". Torno a dire che, in questo, il pensiero orientale ci può essere maestro. Per esempio, nel pensiero di un grande filosofo indiano, Sri Aurobindo, troviamo il concetto della supermente o sopra-mente, cioè il concetto - cui noi Occidentali, da Cartesio in poi, siamo molto restii - che al di sopra, e non al di sotto, della razionalità, esiste un'altra forma di comprensione del mondo, che non è irrazionale, bensì sovra-razionale. Noi dobbiamo in qualche modo recuperarlo. Altrimenti, resteremo sempre chiusi in questo linguaggio che esprime idee e pensiero, ma non cose; in questo immanentismo che ci preclude la possibilità di stabilire un rapporto con l'altro, una apertura al "tu". Restiamo chiusi, come diceva Leibnitz, come tante monadi senza porte e senza finestre. Leibnitz: ancora il 1600, ancora la rivoluzione scientifica, Galilei, Cartesio; ancora il dramma della divisione radicale tra res cogitans - il pensiero, l'uomo - e res extensa, tutto il resto. Anche le piante, anche gli animali; tutto il resto; anche il nostro stesso corpo. Solo in una prospettiva trascendente si può cogliere veramente il "tu". E qui mi piace citare - e concludo - una bella frase di Luigi Stefanini, il quale affermava: "Quanto più entro in me stesso, tanto più trovo l'altro; quanto più scendo nell'altro, tanto più trovo me stesso." Vi ringrazio. [Segue il dibattito. Domanda]: "Ma se Camus ama tanto il pensiero meridiano, perché ammira Nietzsche? Mi sembra un po' una contraddizione: o no?". [Risposta di F. Lamendola]: "Sì. Se c'è qualche altra domanda, in modo da poterle prendere magari tutte insieme… Altrimenti rispondo subito alla signora." [Altra domanda] "Ho apprezzato moltissimo questa conferenza del professore, anche perché lo conosco da molto tempo. E mi sono venute alla mente alcune analogie; vorrei che mi aiutasse a verificare se possono essere valide. Ernst Bloch, un critico che si interessava anche dell'arte in generale, parlava di una 'coscienza anticipante': l'artista prevede, ha in sé qualcosa che lo proietta nel futuro. Ora, mi sovviene il discorso che fa Baudelaire ne 'Les fleurs du mal'. Verso la fine parla anche di 'rivolta' e 'morte'. Così, mi pare che i poeti e gli scrittori francesi abbiano dato questo messaggio per il futuro. Anche Mallarmé, per quanto concerne il linguaggio, parlava - come gli altri 'poeti maledetti' - di rinnovamento, di purificazione, di ricerca delle origini del linguaggio. Volevo sapere se è possibile una analogia che possa avvicinare Camus, come 'coscienza anticipante' di oggi, e Baudelaire, 'coscienza anticipante' dell'Ottocento." [Risposta di F. Lamendola]: "La prima domanda: se Camus ammirava tanto Nietzsche, perché celebra il pensiero meridiano? In realtà, c'è una dimensione "meridiana" nel pensiero nietzschiano. In particolare, nello Zarathustra - che, come voi sapete, fu composto sulle rive del Mediterraneo, oltre che in Engadina -, a Nizza; e che emana il profumo, la freschezza, gli aromi del Mediterraneo, del Sud; c'è una dimensione di luce, di luminosità, di azzurro - ci sono dei verdi e degli azzurri, una sensualità che avvicina lo stile di Nietzsche, nello Zarathustra, a quello di Camus. Certo, il pensiero di Zarathustra è, dichiaratamente - un "pensiero del tramonto"; però, al di là di questa dichiarazone 12


programmatica, esso prende le mosse da una svolta epocale. "Ma come, non lo sapete? Dio è morto." E quindi, da qui bisogna andare avanti. E tuttavia, c'è la sensazione che, per Nietzsche, più che di un tramonto si tratti di un'alba, nel senso che il tramonto di Dio coincide con l'alba dell'uomo, o meglio, con l'alba di ciò che dall'uomo deve nascere, ossia l'Oltre-uomo. Quindi vi è una dimensione luminosa, gioiosa: spesso Zarathustra danza con i suoi animali, spesso si abbandona all'ebbrezza; e dicono che, fino agli ultimi giorni della sua vita - prima di impazzire - anche Nietzsche (secondo la sua padrona di casa, a Torino, che lo spiava dal buco della serratura) si abbandonasse a vere e proprie danze, da solo. Quindi, questa dimensione dionisiaca, "meridiana", mediterranea, meridionale, esiste in Nietzsche. Pertanto, se una contraddizione c'è, è in Nietzsche stesso, più che in Camus. Per quanto riguarda l'accostamento a Baudelaire, penso senz'altro che si possa fare: poiché vi è una coscienza anticipante in Baudelaire, come vi è una coscienza anticipante in Camus. Perché Camus ha saputo cogliere, con anticipo di almeno mezzo secolo, una serie di nodi - con estrema lucidità -, ciò che lo ha reso un pensatore amato e popolare, ma anche sostanzialmente isolato; perché non etichettabile, non incasellabile in nessuno schema. Considerato un traditore dai comunisti; considerato un traditore dai conservatori - perché chiaramente, anche nella vicenda dell'Algeria, egli non era dalla parte dei poteri costituiti. Una dimensione, quindi, di solitudine. Sì, Camus è stato un grande veggente: e, come Hölderlin - se vogliamo - ha scoperto anche nel linguaggio stesso (come in quella pagina finale de Lo straniero, che vi ho letto prima) una dimensione, stranamente, di tranquilla sensualità e di gioia quasi cosmica. Il cielo stellato, il ricordo dolce della mamma, che in ospizio aveva avuto il suo ultimo "amore": tutto questo ci dice più cose su Meursault - e quindi su Camus, di quante non ce ne abbia dette tutto il resto del romanzo se è vero che in noi ci sono tante più cose di quello che non crediamo che ci sia, e di quello che appaia. Meursault provoca una reazione di ripulsa in coloro che lo accostano, perché fin dall'inizio la sua indifferenza - per esempio, quando si reca all'ospizio per dare l'estremo saluto alla mamma morta - il suo atteggiamento di apatia sembra quello di un cattivo figlio, di un figlio che non ama sua madre, che non si sente toccato dall'evento. Invece, in quell'ultima pagina che vi ho letto si vede che lui, addirittura, ha un moto di rivolta - ecco, ancora, la rivolta -: "Nessuno ha il diritto di giudicarla, nessuno ha il diritto di dire nulla. Mia madre ha capito che, proprio quando si è alla fine, si ricominciare, si può gioire di tutta la pace e l'armonia del mondo". Certo, il dramma di Camus è questo. Avere intuito, ed essere arrivato fin sulla soglia, fin sull'orlo di questo senso di unione cosmica - quindi di ritorno alla natura ma anche di ritorno all'Essere, al Tutto, quindi alla nostra vera casa, all'Oikos; ma di essere rimasto, appunto, un passo al di qua, proprio per i presupposti della sua visione filosofica: che, essendo radicalmente immanentistica e di rigoroso amor fati, amore del destino, amore del "mondo" così com'è, si preclude fatalmente la possibilità di scoprire la dimensione sovramondana implicita nel mondo stesso. E quindi deve portare in sé le stigmate dolorose perché Meursault è un personaggio sofferente, come è un pellegrino sofferente Camus (altro che Oblomov!, Oblomov non soffre). C'è qualcosa in lui di straniero, di viandante tormentato; cioè di un amore disperato non solo per la terra, ma anche per quel Dio contro il quale si rivolta. 13


Avrete notato quel brano de L'uomo in rivolta in cui Camus scrive che lo schiavo in rivolta non nega l'esistenza del signore; nega il diritto del signore a tenerlo in quella condizione assurda. E quindi, in realtà - come per Leopardi, a me pare - si può cogliere (forse Camus si rivolterà nella tomba, ma - a me pare) si possa cogliere una dimensione religiosa, in Camus. Una dimensione religiosa che rimane bloccata, che rimane ingabbiata, che non riesce a esplicitarsi proprio per i presupposti del suo pensiero; ma là dove il pensiero razionale si ferma, noi intuiamo che c'è comunque uno slancio dell'amima, di quel pensiero sovra-mentale di cui parlavamo prima, che tradisce in lui una nostralgia di assoluto che razionalmente non vuole ammettere, ma che si evince chiaramente da tutte le sue pagine. Anche nel Mito di Sisifo, per esempio. Ecco - la domanda di Livio Locatelli - Il mito di Sisifo è tutto incentrato sul problema del suicidio. E quell'altro saggio giovanile, Il rovescio e il diritto, dove il "rovescio" è il mondo della storia, con le sue contraddizioni, con il suo grumo di sofferenze; e il "diritto" è il mondo luminoso della natura. Quindi, come Leopardi accusava la natura di essere nostra matrigna, e la odiava, e invitava gli uomini a una crociata contro di lei - ma al tempo stesso la amava, perché ne amava la bellezza; così ne Il mito di Sisisfo (come nel Dialogo fra Plotino e Porfirio nelle Operette morali di Leopardi) c'è una lunga disquisizione sul tema se sia lecito o no il suicidio, dato che l'uomo si trova a vivere - l'uomo onesto, per lo meno, deve riconoscere di trovarsi costretto a vivere - in una condizione assurda. E il suo dramma è quello di un grido che rimbalza contro l'assurdità del mondo. E la risposta è "no": il suicidio non è lecito, essenzialmente perché esattamente come nel Dialogo di Plotino e Porfirio - sarebbe una fuga, una fuga dalla responsabilità; sarebbe una scorciatoia. Noi siamo gettati nel mondo - per dirla con Heidegger -; ma, una volta che siamo gettati, siamo anche dei combattenti. Non possiamo disertare, dobbiamo lottare fino al'ultimo. È, questo, anche il messaggio de La ginestra, del pessimismo agonistico di Leopardi: dobbiamo lottare fino in fondo per affermare la nostra dignità. Non per sperare di vincere: per affermare la nostra dignità. Grazie.

Francesco Lamendola

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