Francesco Lamendola
PER POTER RISPONDERE ALLA CHIAMATA BISOGNA ANCHE SAPERSI PERDONARE
C'è un aureo passo di Nietzsche in cui il filosofo tedesco, con la sua brutale franchezza (almeno negli scritti; perché nella vita privata era dolcissimo, tanto che le portinaie e le fruttivendole di Torino lo chiamavano "il santo"), afferma: «Quanto a me, ti ho già perdonato; ma che tu possa aver fatto questo a te stesso, come potrei perdonartelo?». Bella frase; eppure, abbiamo l'impressione che Nietzsche sia stato troppo severo nel giudicare il prossimo. Forse la maggior parte delle persone sono più severe con sé stesse di quanto egli non paresse immaginare se appena ci si sforza di spingere lo sguardo un po' oltre la superficie. Da parte nostra, la frase di Nietzsche si potrebbe rovesciare così: «Quanto a te, so che mi hai già perdonato; ma che io abbia fatto questo a me stesso, come potrei perdonarmelo?». Sì, è vero: non è questa la prima impressione che si ricava dall'osservare il comportamento abituale delle persone. Si ha piuttosto l'impressione che esse, generalmente parlando, siano anche troppo indulgenti con se stesse e che siano fin troppo propense a perdonarsi; laddove usano, nei riguardi del prossimo, tutt'altra bilancia, e se la legano al dito per dei torti veri o immaginari che, in confronto ai propri, dovrebbero addirittura scomparire. Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano effettivamente così come sembrano? Senza voler rubare il mestiere allo psicologo cosa che non desideriamo affatto la nostra impressione è che le cose stiano, in realtà, in maniera completamente diversa. Tanto per cominciare, la società odierna ci offre lo spettacolo di persone in apparenza sicure di sé, "determinate" (come si usa dire, scimmiottando il vocabolario inglese), estroverse e decisamente intraprendenti; ed è un'immagine in gran parte falsa e fuorviante. Timidezza, insicurezza, paure d'ogni genere, sensi di colpa sono molto più diffusi di quanto non si creda e straziano a sangue la vita d'innumerevoli persone. È la disperazione, la "malattia mortale" di cui parlava Kierkegaard, derivante dall'avere impostato tutto il proprio progetto di vita nella sfera del relativo e nel continuo andare a sbattere contro le sue pareti invisibili, così come la mosche che, ronzando, sbatte e torna a sbattere contro i vetri della finestra oltre i quali vede, ma per lei irraggiungibile, l'azzurra vastità del cielo. Se questo è vero, se l'inautenticità della vita che conduciamo ha per effetto quello di disattendere la chiamata, di ignorare la propria vocazione e, quindi, di farci scivolare senza rimedio lungo il piano inclinato della disperazione, come mai la società contemporanea sembra tutta presa dalla volontà di celebrare se stessa come un'epoca di liberazione senza precedenti, un'epoca apertamente e dichiaratamente protesa alla realizzazione del proprio edonismo? Il fatto è che la società di massa si caratterizza proprio per la camaleontica disinvoltura con cui le persone indossano una maschera dopo l'altra, si nascondo dietro una facciata dopo l'altra. I grandi scrittori di fine Ottocento e dei primi del Novecento (l'epoca, appunto, che vede l'avvento della società di massa), che sempre anticipano sociologi e psicologi, lo avevano visto benissimo e ne avevano fatto il centro della loro riflessione. Sei personaggi in cerca d'autore, Enrico IV, Uno, nessuno e centomila di Pirandello; Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno di Italo Svevo; La
morte a Venezia di Thomas Mann; Alla ricerca del tempo perduto di Proust; per non parlare di Ibsen, Strindberg, Pessoa, Unamuno, Maupassant, E.H. Forster, K.Mansfield, A. Jarry, Cezar Petrescu (non il Petrescu "realista" ma quello de La sinfonia fantastica), J.L. Borgés ruotano pur nella loro diversità , del tutto o in buona misura, attorno a questa "scoperta". Gli esseri umani, oggi, vogliono disperatamente sembrare diversi da quello che sono; vogliono simulare una sicurezza, una energia e una felicità che non possiedono; e, in ciò, sono diventato straordinariamente abili, al punto da riuscire a ingannare non solo gli altri, ma perfino se stessi. Però ci riescono, come direbbe il buon vecchio Kierkegaard, "solo fino ad un certo punto": perché l'orizzonte del relativo, entro il quale hanno deciso di autoconfinarsi, è tutto costruito sul "fino ad un certo punto". E il "fino ad un certo punto" è il regno dell'inautenticità, della completezza mancata, della vocazione tradita; dunque, dell'angoscia e della disperazione. Ciò premesso, torniamo al nostro assunto iniziale: che molte persone, oggi, pur sembrando fin troppo inclini a gettarsi dietro le spalle colpe ed errori (la spiritualità preferisce parlare di peccati, ma questa parola è ormai decisamente fuori moda: dunque, per non turbare la pace dei nostri bravi intellettuali laici d. o. c., per ora lasciamola perdere), in realtà non sanno compiere l'arduo movimento dello spirito che consiste nel perdonarsi. E questo avviene per una ragione abbastanza semplice: per potersi perdonare, è necessario prima essere capaci di fare i conti con se stessi; e, prima ancora, essere capaci di guardarsi dentro, di leggersi la propria verità profonda, di riconoscersi e, quindi, di scegliersi. Se io mi scelgo, vuol dire che sono quello che volevo essere; o, almeno, ci sto provando: ma se non mi sono scelto e vivo a caso, "gettato nell'esistenza" (direbbe Heidegger) e nel mio essereperlamorte, magari indossando numerose maschere nessuna delle quali lascia trasparire il mio vero io: allora come potrei mai perdonarmi nel senso profondo del termine? Chiariamo una volta per tutte, a scanso di equivoci, che perdonarsi (non perdonare gli altri, cosa in realtà più semplice) non significa affatto tirare un colpo di spugna sul male commesso. Il tradimento di una persona che di noi si fidava; l'aver approfittato di qualcuno che ci si offriva indifeso; l'essere venuti meno alla parola data, a un impegno preso, a un sacro dovere da compiere, sono colpe gravi e, pertanto, dure da accettare. In genere, almeno a livello razionale (ma l'inconscio la pensa diversamente), è molto più facile addossare la colpa agli altri, magari lambiccando e arzigogolando i ragionamenti più tortuosi e le furbizie più inverosimili al fine di autogiustificarsi. «Sì diciamo a noi stessi è vero che ho mancato all'impegno preso, è vero che ho tradito la parola data e che ho deluso chi di me si fidava; ma è stato lui, in fin dei conti, a spingermi in questa situazione, a costringermi ad agire così: non mi ha proprio lasciato scelta». Insomma, facciamo come il lupo della favola di Fedro che incolpa la pecora di avergli sporcato l'acqua bevendo, a dispetto del fatto evidente e incontrovertibile che la pecora si trova più a valle lungo il fiume e, pertanto, in nessun modo avrebbe potuto farlo. Possiamo, infatti, barare con la nostra coscienza; ma non con il nostro inconscio. I sogni verranno a turbarci; improvvisi scatti di euforia e altrettanto improvvisi veli di depressione ci sottoporranno a una vera e propria doccia scozzese di continui alti e bassi del nostro stato d'animo; un senso diffuso e inspiegabile di malessere, di inquietudine, di tensione interiore ci toglierà il sonno e la pace dell'anima. A Dio non la si fa, dice il dottor Manson dopo aver appreso che la sua adorata Cristina è finita sotto le ruote di un'automobile; altrettanto bene potremmo dire: alla propria coscienza non la si fa. Se abbiamo agito male, in qualche modo lo sappiamo, anche se saremmo pronti a giurare il contrario: e il senso di colpa s'incarica di straziarci a sangue come le Erinni fecero con Oreste dopo ch'egli aveva ucciso, per vendicare il padre, la madre Clitennestra. Ma che cosa vuol dire, allora, perdonarsi? Perdonarsi vuol dire accettare la propria responsabilità, ammettere la propria colpa, e reagire con un salto di qualità del nostro livello esistenziale, trasformando la caduta in occasione di ripresa e il fango in metallo prezioso con cui tesserci un
nuovo vestito di luce e di amore. Perché il nostro obiettivo ultimo, la meta cui sempre dovremmo tendere, è la risposta alla chiamata; e non possiamo rispondere se non sappiamo perdonarci. Saremmo come un soldato che si rifiuta di andare avanti, con la scusa che il fucile si è inceppato: saremmo dei disertori. Troppo comodo servirsi del senso di colpa per chiudere gli orecchi alla chiamata; troppo comodo farsi schermo della propria caduta per sedersi in poltrona (e sia pure una poltrona irta di spine!) invece di avanzare lungo il pendio della montagna. Anche perché non dobbiamo permettere alla nostra astuzia di confondere due ordini di eventi profondamente diversi: il trauma della sofferenza per un male subito o per un male commesso. Solo il male commesso provoca la caduta; il male subito può piegarci fino a terra negli spasimi dell'angoscia, ma non corrisponde a una caduta, perché è immune da colpa. Del male subito non dobbiamo perdonare noi stessi ma, eventualmente, gli altri; del male commesso dobbiamo perdonare noi stessi. Ed è, lo ripetiamo, cosa più difficile che perdonare gli altri: perché implica che noi ci esaminiamo severamente ed emettiamo, con la nostra stessa coscienza, un verdetto di colpevolezza, senza accampare attenuanti più o meno generiche. Un giudice esterno possiamo anche prenderlo in giro; il nostro giudice interiore, no. Questo lo sa anche un bambino che ha rubato la marmellata dalla credenza; lo sa, nel senso profondo del termine: e certamente lo sa un adulto, per quanto indurito dall'egoismo e reso cinico dall'abitudine a usare e gettare i sentimenti del prossimo, così come si usano e si gettano le cose in regime di smaccato consumismo. È possibile, se non probabile, che una delle ragioni per le quali l'uomo contemporaneo è così scisso e nevrotico, così insensibile nei rapporti con gli altri, così superficiale e distratto nell'inseguire un proprio miraggio di piacere e di felicità, sia propria questa drammatica incapacità di guardarsi dentro, di condannarsi per il male commesso e, infine, di perdonarsi e di ripartire con rinnovato slancio nelle sfide e nei rischi dell'esistenza. Non si dimentichi che perdonare se stessi vuol dire anche, nei limiti del possibile, tentar di rimediare al male commesso. Si tratta di un nostro preciso dovere: sforzarci di ristabilire, per quanto sta in noi, l'armonia cosmica turbata dal nostro atto colpevole, dalla nostra azione ingiusta. In effetti, per chi abbia la disponibilità ad udire e accogliere la propria chiamata, si apre un circuito virtuoso per cui potranno anche verificarsi crudeli sofferenze, ma non cadute: dunque, in linea di massima, non sensi di colpa. Pare che madre Teresa di Calcutta, negli anni della sua "oscurità", soffrisse terribilmente per il silenzio di Dio; ma non per una colpa non perdonata a se stessa. Invece la persona inautentica, che non è mai stata capace di riconoscersi e, quindi, di scegliersi, perché non ha mai prestato ascolto alla chiamata, sarà condotta dalla logica perversa dell'inautenticità a commettere uno sbaglio dopo l'altro, a infliggere agli altri un male dopo l'altro (anche non volendolo) e a relegarsi da sé stessa nell'inferno del senso di colpa sterile, perché privo di ogni speranza di redenzione. Perdonarsi, significa redimersi. Se non sappiamo perdonarci, non potremo neppure redimerci. E continueremo a sprofondare nel fango, ogni giorno un poco di più; per quanto lieta e sorridente possa essere la maschera che ci saremo calata sul volto, per quanto facile possa sembrarci ingannare gli altri, e perfino noi stessi, sul fatto che va tutto bene, benissimo: come meglio non potrebbe andare. Francesco Lamendola