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Quattro piccole storie per un mondo che cambia Giulia Bondi

Speciale svolta Islam

Giulia Bondi

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Le fotografie scattate dal cellulare sono di Ilyess

Quattro piccole storie per un mondo che cambia

Ilyess e Naoufel hanno 30 anni, Fauzi 29, Zouhaier soltanto 17. Vengono dalla Tunisia e sono sbarcati sull’isola di Lampedusa prima del 5 aprile 2011, data fatidica che il Governo italiano ha fissato come spartiacque tra chi avrebbe avuto diritto a sei mesi di “Permesso di soggiorno per motivi umanitari” e chi no. Nei primi 8 mesi dell’anno, oltre 50mila persone hanno raggiunto l’Italia e almeno 1.600 (dati Unhcr) sono morte in mare. Ragazzi tunisini in cerca di un futuro migliore o forse simpatizzanti del vecchio regime. Profughi in fuga dalla Libia in guerra. Giovani già in viaggio da molti mesi attraverso il deserto per scappare dall’Etiopia, dall’Eritrea, dalla Somalia. Nel massimo affollamento dell’isola di Lampedusa molti di loro hanno dormito per strada, qualcuno ha sfondato le porte delle case, altri sono stati accolti, nutriti e vestiti da associazioni e famiglie. Come denunciano le organizzazioni internazionali (Unhcr, Iom) e le associazioni attive sull’isola (Arci, Melting pot), chi è passato al Centro di primo soccorso e accoglienza (Cpsa) di Lampedusa ha trovato condizioni di sovraffollamento e negazione di diritti. Per i giovani sbarcati prima del 5 aprile, una volta lasciata l’isola siciliana ci sono stati giorni o settimane nelle basi militari o tendopoli dette “Cai” (Centri di accoglienza e identificazione). Dai centri, la maggioranza ha cercato di raggiungere la Francia, con in tasca permessi temporanei che, oltre a non dare il diritto a lavorare, non sempre sono bastati a varcare il confine, a causa di ulteriori condizioni imposte dal Governo francese. Passare la frontiera di Ventimiglia è stata per molti un’esperienza rocambolesca. Alla fine dell’estate 2011, Ilyess e Naoufel vivono in Francia, Fauzi e Zouahier in Italia. Il loro futuro dipende dalla possibilità, incerta, di ottenere un permesso di soggiorno definitivo. Il loro presente è molto diverso dalle aspettative che avevano prima di partire.

ILYESS Ilyess è minuto, con un bel sorriso. Viene da Zarzis, ha 30 anni e a Lampedusa ha incontrato Anna, un’infermiera in pensione che lo ha rifornito di abiti puliti, di una cartina dell’Italia e una busta con un po’ di soldi. L’obiettivo di Ilyess è la banlieue di Parigi, dove suo fratello vive da quattro anni, senza documenti, e fa consegne per una pizzeria. Lì spera di poter fare il suo lavoro, decoratore d’interni, come spiega mostrando le foto sul cellulare: pavimenti in ceramica e pareti dipinte si alternano ai primi piani della sua ragazza. “Puoi stare come sans papier anche per qualche anno – sostiene – basta non dare nell’occhio, non fare mai niente contro la legge, neanche prendere la metro senza biglietto”. C’è chi si paga il viaggio dalla Tunisia vendendo la macchina o la moto, lui

i mille euro li ha risparmiati in quattro o cinque mesi di lavoro. Ha deciso di fare harraga, il viaggio da clandestino, perché a Zarzis non vedeva prospettive. Ci aveva già provato, ma la polizia costiera tunisina li aveva fermati quasi subito e lo scafista gli aveva reso metà dei soldi. Dopo Lampedusa, il 3 aprile Ilyess è trasferito alla tendopoli di Trapani, nell’area dell’ex aeroporto militare di Kinisia, dove alloggia per 13 giorni con altri 750 giovani. Qui, scatta foto col cellulare documentando le condizioni di vita, gli scioperi della fame, una rivolta con tentata fuga. Ritirato il permesso temporaneo, raggiunge prima Messina, poi Roma, Modena, Milano e Ventimiglia, dove riuscirà a passare il confine dopo ore di attesa, grazie anche alla presenza di una troupe di giornalisti. “Davanti a loro”, spiega Ilyess, “la Polizia di frontiera non ha potuto rimandarmi indietro”. Ilyess ha con sé un po’ di denaro e ha un indirizzo a Parigi. Due condizioni che, assieme al permesso del Governo italiano, gli danno diritto a entrare in Francia, anche se non di lavorare. Arriva a Parigi, ma si sente solo e deluso. A Zarzis aveva una casetta con il portico e il giardino, i suoi hanno un po’ di terra con qualche olivo, il pomeriggio portava in spiaggia il nipotino di pochi anni. Ora ha un posto letto nella banlieue, il lavoro da imbianchino in nero quando lo chiamano, ogni tanto i soldi per una birra. Gli altri giorni, su Facebook, inganna il tempo giocando a Cityville e postando video dei rapper maghrebini.

NAOUFEL Naoufel, 32 anni, ha i capelli in ordine e il look da dandy anche dopo una settimana sulle panchine del parchetto di Lampedusa. A Djerba faceva il fotografo e in un mese scattava 8mila dinari di foto ricordo per i turisti. A lui andava il 10%, il resto al “padrone”. Per la Tunisia, 800 dinari (400 euro) è un buono stipendio, ma di lasciarsi sfruttare Naoufel non ne voleva più sapere. “Da quando Ben Ali, 23 anni fa, ha portato il capitalismo in Tunisia – conclude – qualcuno lo ha saputo sfruttare molto bene”. Sulla possibilità di cambiamento nel suo Paese, Naoufel è scettico. A fine 2010 aveva già tentato di “bruciare il confine”, arrivando in Turchia e poi in Grecia, da dove, dopo Capodanno, avrebbe dovuto imbarcarsi per l’Italia con un documento falso. Invece, il 13 gennaio, la polizia greca lo ferma, e Naoufel si ritrova su un aereo per Tunisi. Nella capitale tunisina, sotto coprifuoco, è il giorno dell’ultimo discorso di Ben Ali. Il rimpatrio è rimandato a cinque giorni dopo, quando il Presidente e la sua famiglia sono già fuggiti. Naoufel passa un mese a Tunisi, poi s’imbarca di nuovo con altri 280, di cui 4 donne. Dopo 24 ore di mare, Lampedusa. “Molti dei ragazzi che sono qui finiranno per tornarsene indietro”, sostiene Naoufel: “Non per i rimpatri, ma perché non hanno un mestiere e non hanno contatti”. Lui, invece, sostiene di avere un progetto redditizio, di import-export tra Parigi, Tunisi e Dakar. Qualche mese dopo, però, la situazione è diversa. A Marsiglia, Naoufel non ha con sé l’attrezzatura da fotografo, che era di proprietà dell’hotel, e l’unica altra offerta d’impiego, come fornaio, la rifiuta perché gli orari sono troppo pesanti. I mesi da disoccupato, dipendente dalla generosità e dall’amicizia di alcuni connazionali, sono durissimi, e Naoufel passa le giornate davanti al mare tra sigarette e caffè. Non gli è passata la voglia di fare progetti, e sta offrendo una consulenza a un altro giovane tunisino che vorrebbe aprire un ristorante a Djerba. Solo a metà estate trova un posto come idraulico, naturalmente in nero. Per il permesso di soggiorno, il suo datore di lavoro gli

suggerisce di “andare in Italia e comprarsi una finta assunzione da una ditta”. Ha sentito dire che è facilissimo.

FAUZI “Nessuno di noi vive ancora una vita normale”, esordisce Fauzi, 29 anni, mentre sorseggia il caffè al tavolino di un bar. Lui a Lampedusa è sbarcato il 14 marzo e per 9 giorni ha vissuto al Cpsa, in stanza con altre 8 persone. Gli manca Tunisi, dove è nato “nel quartiere più bello”, dice mostrando foto in cui al mare si alternano i monti. Faceva il meccanico, ma “con uno stipendio da 300 dinari non puoi costruirti nulla”. Il Paese, dice, sta cambiando ma è ancora corrotto, “per fare qualunque cosa devi pagare”, sostiene. Lui ha deciso di partire all’improvviso, ha venduto la bici e il computer per pagare il biglietto. Dopo i giorni di Lampedusa, il 23 marzo lo trasferiscono alla tendopoli di Bari, dalla quale fugge subito, con altri sessanta: “Un’anziana ci ha dato indicazioni per la stazione”. Poi raggiunge Sassuolo, vicino Modena, e dopo 22 giorni in una casa abbandonata, insieme allo zio e ad altri due giovani, un carabiniere gentile gli dà l’indirizzo del centro stranieri, dove “con il numero che mi avevano dato a Bari”, lo aiutano a presentare domanda di soggiorno. Ora Fauzi

ha un alloggio comunale, frequenta un corso e va in giro a portare il suo curriculum. Le giornate si consumano nell’attesa, a volte passa ore sdraiato sul letto a guardare il soffitto. La madre, a Tunisi, è malata, ma non può andare a trovarla finché non ha un permesso regolare. Intanto ha trovato un’associazione di volontariato e andrà a dare una mano per tenere pulito un parco.

vani donne e altri minorenni. A guardare le loro facce, jeans, berretti e giacche a vento, i ragazzini non hanno quasi nulla di diverso dai loro coetanei della Magliana, del Pilastro o di Scampia. D’accordo con la mamma, Zouhaier ha deciso di lasciare la scuola a metà anno e partire, ma studiare gli piaceva, e vorrebbe tanto continuare. Magari arrivare fino all’università, diventare un informatico. Della Tunisia, gli mancano i pomeriggi all’internet point e non vede l’ora di riaprire Facebook, con la foto del profilo che lo ritrae in kimono e cintura rossa. Di due cose Zouhaier è orgoglioso: la sua città, Sidi Bouzid, “dove tutto ha avuto inizio”, e le sue medaglie agli ultimi campionati nazionali giovanili di taekwondo. A differenza degli altri ragazzi, lui non fuma, resta in disparte, parla a voce bassa. La legge italiana vieta di rimpatriare i minorenni e prevede un percorso di integrazione, al termine del quale potranno ricevere il permesso di soggiorno. Dal 2009, però, la legge 94 (il cosiddetto “pacchetto sicurezza”), che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina, ha portato un paradosso: “Molti ragazzi – denuncia Save the Children – arrivano in Italia a 17 anni, non fanno in tempo a concludere il percorso, e a 18 diventano automaticamente clandestini”. Altri minori (dal 15% al 60%, a seconda delle Regioni) scappano dalle comunità, restano soli e senza documenti e spesso finiscono preda di criminali e sfruttatori. Nel caso di Zouhaier, fortunatamente, la faccia da bravo ragazzo non mente. Nella casa-famiglia cui è stato assegnato, in provincia di Frosinone, ha imparato subito un ottimo italiano, segue un corso di formazione professionale e non vede l’ora di iniziare la scuola. Pazienza se in Tunisia era vicino alla maturità e qui gli toccherà prima prendere la licenza media.

Stefano Manca

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