UP Magazine 04 - Primavera 2018

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magazine arezzo NUMERO 04 primavera 2018 UP LUOGHI acquedotto vasariano up sport orlando fiordigiglio up eccellenze oklahoma university

riccardo biagioni passione garden



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| UP LUOGHI |

riccardo biagioni

acquedotto vasariano

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orlando fiordigiglio

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sommario | U P I N S TA G R A M |

#UPMAGAREZZO

una piazza grande... da togliere il fiato | UP ECCELLENZE |

oklahoma university nel giardino d'arezzo sboccia la meglio goventù d'america

| UP PEOPLE |

sara lovari

la ricerca del desiderio

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| UP PEOPLE |

giacomo cianchi

un business che spicca il volo

| UP ARTE |

daniele marmi tra palco e realtà | UP TECH |

hack cortona

avete 24 ore: programmate il vostro hack

| U P C U R I O S I TÀ |

il lebbrosario di san lazzaro

\ UP MAGAZINE AREZZO \ PRIMAVERA 2018

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| magazine arezzo Redazione e Amministrazione Atlantide Audiovisivi srl Via Einstein 16/a – Arezzo Tel. 0575 403066 www.atlantideadv.it

Anno II – N° 4 Primavera 2018 Direttore Responsabile Cristiano Stocchi Vice Direttore Maurizio Gambini Redazione Andrea Avato Chiara Calcagno Mattia Cialini Matilde Bandera Marco Botti Art Director Luca Ghiori Fotografie Lorenzo Pagliai Hanno collaborato Ilaria Vanni Stampa Grafiche Badiali - Arezzo Pubblicità Atlantide Audiovisivi Srl

UP EDITORIALE

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giovani gia' grandi Il quattro, in numerologia, è la rappresentazione del senso pratico, della concretezza, della costruttività delle idee in senso tangibile. Quattro sono le stagioni, gli elementi, le fasi lunari, i punti cardinali. E’ un numero importante che trasmette forza esaltando le fondamenta. Non potevamo sbagliare il quarto numero di Up. Noi che raccontiamo sogni e progetti ma, soprattutto, raccontiamo imprese. Abbiamo comunque deciso di osare puntando, per la nostra storia di copertina, non su un imprenditore illustre e affermato con anni di esperienza alle spalle ma su un ragazzo che con intuito e creatività sta rinnovando e reinterpretando l’attività di famiglia. Di giovani menti brillanti parleremo anche nelle pagine tech dedicate al primo hackathon al mondo organizzato fuori dal contesto accademico, in un luogo che profuma di storia, di arte e di

cultura come Cortona. E poi il profilo di un 34enne che sa combattere e sferrare pugni ma che conserva un animo gentile che coltiva con la stessa dedizione con cui allena i muscoli. Attori di talento, ormai diventati celebri volti tv, che continuano a investire nel teatro della propria città e artisti che vivono il mondo per poi raggiungere l’obiettivo di esporre nella loro terra. E ancora studenti americani che si innamorano di Arezzo e della bella Italia grazie al lavoro dell’Oklahoma University e giovani visionari che allevano anatre ornamentali richieste da collezionisti di tutto il Paese. Vi porteremo, inoltre, a conoscere due luoghi tanto affascinanti quanto significativi di Arezzo. Questo è il nostro quarto numero. Buon Up a tutti!

UP LUOGHI acquedotto vasariano up sport orlando fiordigiglio up eccellenze oklahoma university

seguici

riccardo biagioni passione garden

nicazione W W W . A T L A N T I D E A D V . I T

In copertina Riccardo Biagioni Up Magazine Arezzo è stampato su carta usomano che conferisce naturalezza e stile al giornale. In questo numero per la copertina abbiamo scelto il PANTONE Neon 802 C.

maurizio gambini

magazine arezzo NUMERO 04 primavera 2018

Direttore responsabile

SSIONI, CENTI, CO A.

cristiano stocchi

Reg. al tribunale di Arezzo il 12/06/2017 N° 3/17

Vice-direttore

Up Magazine Arezzo è una rivista a distribuzione gratuita


Redazione

chiara calcagno

Redazione

mattia cialini

Redazione

Andrea Avato

REDA ZIONE matilde bandera

Redazione \ UP MAGAZINE AREZZO \ PRIMAVERA 2018

francesco fumagalli

Tipografo

lorenzo pagliai

Fotografo

marco botti

Redazione

Luca Ghiori

Art-Director

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UP COPERTINA

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riccardo biagioni PASSIONE GARDEN

DI ANDREA AVATO

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rentadue anni da compiere a novembre, un amore intenso per l'equitazione, un diploma da geometra in tasca. Riccardo Biagioni è la seconda generazione che avanza, il figlio che prenderà il posto del padre (e della madre), il futuro da scrivere dopo il presente. Cresciuto a pane e giardinaggio, in cuor suo aveva progettato di diventare architetto, specializzazione in paesaggistica. Poi l'azienda ha preso un'altra direzione e c'è stato subito bisogno di lui. Riccardo studia il mercato, valuta soluzioni, decide nonostante l'età verde. Ma il verde per Show Garden è una filosofia di lavoro più che un semplice colore e non rappresenta un ostacolo, neppure in riferimento alla carta d'identità. Modi accomodanti, toni pacati, una

visione moderna del business: emerge l'immagine di un uomo giovane e dalle idee chiare, con una grande passione per l'attività ereditata dai genitori, reinterpretata alla luce di una diversa sensibilità. "A me servirebbero giornate di almeno 36 ore - esordisce Riccardo con un sorriso. Ho mille hobby e coltivarli tutti è impossibile. Però a Maxter, il mio cavallo, non rinuncio: ho fatto concorsi in passato, adesso mi accontento di lunghe passeggiate per scaricare lo stress. Il contatto con la natura mi rimette al mondo". Una volta sceso di sella, c'è da mandare avanti l'mpresa, ormai da anni punto di riferimento del centro Italia nel settore del garden. "Da noi i clienti trovano le piante e tutto l'universo collegato: vasi, terra, concimi, articoli per

animali. Anche le attrezzature per vivere meglio il giardino: barbecue, piscine, vasche''. Il verde in tutte le sue tonalità, insomma. Con un segreto in apparenza banale (ma solo in apparenza) che sta alla radice del successo di Show Garden. "Siamo una famiglia e da famiglia ci comportiamo. Con mio padre Fabrizio, mia madre Mara, la mia fidanzata Giulia c'è un'identità di vedute che ci accomuna. Quando dobbiamo decidere, lo facciamo collegialmente: a qualcuno potrà sembrare un dettaglio marginale, ma non è così’’. Ognuno ha i suoi settori di competenza e Riccardo, da quando ha cominciato a recitare una parte attiva, si occupa dell’attività di comunicazione, dei social e del commerciale. “La miglior forma di promozione, a mio parere,

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UN ’A Z I E N DA D I V E N TATA U N PU NTO D I R IFE R IM E NTO NE L SU O SET TO RE. P RO GE T T I PA R A L L E L I P E R D IVE R SIFIC AR E GLI INVE STIM E NTI E ACQ UI S I RE NU OVA CL I E N T E L A . L A FID U C IA NE LLE R ISOR SE D I U N TE R R ITO RI O CHE HA P OT E N Z I A L I TÀ I N E S PR E SSE DA VALOR IZ Z AR E . R ICC AR D O BI AGI O N I , T REN TA D U E A N N I , R ACCONTA COSA HA IM PAR ATO DAL PAD R E FABRI ZI O E D OV E VU OLE P ORTAR E SHOW GAR D E N


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resta sempre il passaparola. Se i clienti parlano bene di te, altri ne arriveranno. Poi è chiaro che promuovere l’immagine dell’azienda è fondamentale e per questo noi facciamo pubblicità a trecentosessanta gradi, sfruttandone ogni forma. Il fulcro della nostra comunicazione, comunque, resta la pianta. Il core business è lì”. L’assortimento è vastissimo e completo. Piante da appartamento, da esterno, stagionali, erbacee perenni, carnivore, bonsai, aromatiche, da frutto: da Show Garden non c’è richiesta che cada nel vuoto. E in più, assecondando una tendenza che si è sviluppata negli ultimi anni, tornando di moda quasi all’improvviso, c’è tutto ciò che occorre per coltivare l’orto. Anche l’orticello fatto in casa, magari in piccoli spazi ritagliati in giardino o all’interno di cassette sistemate in terrazza. “Oggi c’è una maggiore sensibilità verso l’ambiente e il mangiare sano, anche nei ragazzi giovani. Moltissime perso-

una passione ereditata dai genitori che riccardo reinterpreta alla luce di una diversa sensibilità

ne vengono da noi e acquistano piante da orto, semi, innesti selezionati. Pomodori, cetrioli, peperoncino sono i più gettonati. Riscoprire sapori genuini è piacevole. E l’orto porta relax”. Intorno alle piante e al colpo d’occhio splendido che c’è quando si varca la soglia del garden, ruota però un mondo variegato e composito. Nel periodo di dicembre, per esempio, il villaggio di Natale diventa un’attrattiva formidabile per curiosi, collezionisti e appassionati del settore. Presepi moderni con statuine in movimento, oggettistica, addobbi, decorazioni, idee regalo, luci e lucine che brillano a intermittenza creano un’ambientazione unica che piace ai bambini ma anche, e soprattutto, agli adulti. “In quei giorni ospitiamo clienti da mezza Italia, dobbiamo ampliare il parcheggio per le auto. Ogni anno il successo aumenta e ci fa piacere, perché significa che abbiamo visto giusto. Più che un villaggio natalizio, lo defini-

rei un percorso sensoriale, giocato sulle emozioni”. A proposito di emozioni. Il conto alla rovescia per l’inaugurazione della fattoria didattica è già cominciato. E questo per Riccardo è l’obiettivo più importante da raggiungere nei prossimi mesi. “Apriremo a ottobre, contiamo di portare centinaia di studenti ogni anno a vedere con i propri occhi gli animali da cortile del nostro territorio: oche, galline, la capretta, l’asino, il maiale. Organizzeremo visite guidate tramite convenzione con le scuole ed è uno sviluppo dell’azienda su cui abbiamo riflettuto molto, puntandoci con decisione. Gli animali verranno allevati nel modo migliore e ospitati in una nuova ala del garden, che sarà ampliato e ingrandito. I prossimi saranno mesi di grande trasformazione per noi: c’è un po’ d’ansia ma anche tanta soddisfazione per essere arrivati a un punto di svolta”. Un po’ come quando cominciò la


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"la gente va fuori città a cercare ciò che le serve, noi abbiamo l’ambizione di portare gente ad Arezzo" collaborazione con “Campagna amica” di Coldiretti. Dal 2013 si possono acquistare presso Show Garden i prodotti migliori dell’agricoltura locale, alimentando così il sostegno alla filiera agricola dal produttore al consumatore e contribuendo a sostenere le campagne di difesa del territorio. “In vendita ci sono anche verdura e frutta che produciamo nel nostro orto: due ettari di coltivazioni che curiamo quotidianamente. Alimentazione, turismo, ecologia, ma anche salute e benessere si intrecciano tra di loro e non possiamo non tenerne conto”.

Una realtà imprenditoriale molto particolare, che ha diversificato i suoi investimenti e ha in progetto di svilupparsi ancora, seguendo un filo conduttore che va avanti dai primi anni ’80. E questo ci porta anche al rapporto di Riccardo con Fabrizio, fondatore dell’azienda quando il business stava tutto nella progettazione e realizzazione di giardini, unitamente a una piccola quota di produzione di piante. “Mio padre è ancora attivo e presente. E’ una guida per me, è uno che ha tanta esperienza e un intuito formidabile: riesce a comprendere se un investimento può essere redditizio o meno, se una decisione può portare benefici oppure no. Lo ascolto, lo seguo, abbiamo un rapporto strettissimo”. Oggi è cambiato il mondo, fuori e dentro. Show Garden è un self service assistito: il cliente entra, sceglie e compra. Ma prima di procedere all’acquisto, può contare sulla consulenza di personale qualificato, che per ogni tipologia di prodotto mette sul tavolo consigli, indicazioni, descrizioni dettagliate dei singoli articoli, in modo da orientare e

ottimizzare più possibile la scelta finale. “A fine anni ’90 c’è stata la prima svolta: meno giardini, più piante. Poi i vasi. Poi tutto il resto. A un certo punto lo spazio a disposizione non bastava più e abbiamo spostato la nostra location. Nel 2011 ci siamo trasferiti qui dove siamo adesso e dove stanno per cominciare i lavori di ampliamento”. I numeri sono incoraggianti e danno l’idea di un’attività in piena salute. “Vogliamo invertire il trend: la gente va fuori città a cercare ciò che le serve, noi abbiamo l’ambizione di portare gente ad Arezzo. Questo è un territorio con potenzialità inespresse che vanno valorizzate: ognuno può fare la sua parte, dall’amministrazione alle grandi imprese, dal singolo cittadino alle associazioni di categoria. Noi ci mettiamo impegno e passione, investiamo sulla formazione del personale, abbiamo sedici dipendenti che diventeranno venticinque nel periodo dell’apertura del nuovo Show Garden. Siamo una piccola-media azienda, una di quelle che costituiscono la spina dorsale dell’economia italiana. E ne siamo orgogliosi”.


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UP LUOGHI

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L’ACQUEDOTTO VASARIANO 12 \ UP MAGAZINE AREZZO \ PRIMAVERA 2018

geolocalizzazione A nord-est di Arezzo, dove via Gamurrini incontra via Tarlati, una serie di arcate contrassegna da oltre quattro secoli quella parte della città. Sebbene i turisti spesso le confondano per volte di epoca romana, siamo davanti agli elementi più riconoscibili di un’infrastruttura realizzata a cavallo tra Cinquecento e Seicento: il cosiddetto Acquedotto Vasariano. Andiamo a conoscere meglio la storia di questa mirabile opera di ingegneria idraulica, di recente sottoposta a un complessivo restauro finanziato dall’ente che ancora oggi ne è proprietario: la Fraternita dei Laici.

L’acqua in città, un problema annoso Nel I secolo d.C. la romana Arretium, a quei tempi era servita da un acquedotto che incanalava l’acqua dall’Alpe di Poti, in località Fonte Mura. La conduttura svolse a lungo il suo compito, ma alla fine del XIII secolo versava ormai in condizioni di semiabbandono. Il grande pittore, architetto e storiografo Giorgio Vasari racconta che Jacopo del Casentino fu incaricato dal Governo cittadino, a metà del Trecento,

di progettare un nuovo tracciato. Nell’edizione delle sue “Vite” del 1568 egli riporta che l’artista di Pratovecchio «ricondusse sotto le mura d’Arezzo l’acqua», facendo terminare la condotta alla Fonte Veneziana, nei pressi dell’attuale Palazzo di Giustizia. Informazioni che vanno tuttavia prese con le molle, perché la biografia del pittore casentinese è considerata alquanto arbitraria e piena di contraddizioni.


UN ' I N F R A ST R U T T U R A FA SCINO SA R EA L IZ Z ATA TR A IL CINQ U ECENTO E I L S E I C E N TO, M IR A BIL E OP ER A DI INGEGNER IA IDR AUL ICA. N E L L A ZO N A N O R D EST DI A R EZ ZO, DOV E V IA GA M UR R INI SI IN C RO C I A CO N V I A TA R L ATI, UNA SER IE DI A RCATE R ECENTEMENTE S OT TO P O ST E A R ESTAURO CAT TUR A NO L'AT TENZ IONE. E A B R E V E , G R A Z I E A L L A BR IGATA A R ETINA A M ICI DEI M ONUMENTI, SA R À I N AU G U R ATO IL P ERCOR SO P EDO NA L E CO N UN SISTEMA D I I L LUM INA Z IONE NOT TUR NA DI MARCO BOTTI

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IL MISTERIOSO PASSATO Agli inizi del XVI secolo l’acquedotto trecentesco era ridotto in pessimo stato. Nel 1527 la Fonte Veneziana smise di funzionare e tra i colpevoli del disservizio, Vasari indicò anche quegli aretini che sfruttavano l’acqua per i loro comodi, ad esempio per annaffiare gli orti. La deficienza di approvvigionamento idrico, che nei mesi estivi provocava disagi alla popolazione, era ormai insostenibile poiché i pozzi pubblici e privati,

da soli, non erano in grado di soddisfare tutte le esigenze. Intorno al 1560 la Fraternita dei Laici, a sue spese, decise di portare una nuova conduttura dentro la città e costruire una fonte nella piazza principale. I rettori chiesero i permessi al granduca Cosimo I e ai Provveditori delle Fabbriche medicee, quindi affidarono il progetto proprio a Giorgio Vasari, a cui si deve la prima fase degli studi di

fattibilità e il nome con cui è chiamato l’acquedotto. L’artista aretino si dedicò in primis alla ricerca degli antichi “doccioni” nella valle di Cognaia, alle pendici di Poti. Nel contempo esaminò il modo per deviare l’ultimo tratto della vecchia infrastruttura e livellare il terreno per portare le acque captate fino alle mura cittadine. Da lì bisognava infine giungere in Piazza Grande attraverso un tunnel sotterraneo.


i lavori

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Nel 1574 Vasari morì, lasciando tutto in stato embrionale. Seguì un nuovo periodo di stallo finché, nel 1590, i rettori della Fraternita dei Laici, con il benestare del nuovo granduca Ferdinando I dei Medici, incaricarono l’architetto fiorentino Raffaele Pagni di riprendere in mano il progetto. L’autorizzazione ufficiale a costruire il nuovo acquedotto, finanziato dalla Fraternita con 120.000 scudi, arrivò il 16 maggio 1593. I lavori andarono avanti alcuni anni e furono conclusi nel 1603 da un altro architetto toscano, Gherardo Mechini. Il disegno finale, che è quello che ammiriamo ancora oggi, consiste in due parti sotterranee e una parte esterna. La prima fase comprende una galleria filtrante di presa nella zona di Cognaia, dove le acque vengono canalizzate per raggiungere l’area bassa della collina di San Fabiano attraverso un percorso in lieve pendenza. Lì inizia la fase esterna, fatta di 52 arcate monumentali utili a sostenere la condotta pensile fino ai piedi della collina di San Donato, quella dove sorge la Fortezza Medicea. A quel punto l’itinerario torna a essere sottoterra attraverso una galleria che sfocia nella parte inferiore di Piazza Grande, andando ad alimentare la fontana progettata nel 1603 sempre dal Mechini.

Le conserve In via delle Conserve, a est della città, si possono ancora ammirare i depositi con copertura a botte che fungono da punti di raccolta e purificazione per le acque convogliate dalla falda di Cognaia, che da qui iniziano il loro viaggio verso Arezzo.

Durante i lavori di ristrutturazione della “conserva grande” e della “conserva piccola”, negli anni Trenta, furono ritrovate due teste di cavallo e una testa leonina tardo cinquecentesche di materiale lapideo. Facevano quindi parte di un insieme di serbatoi comunicanti e attraverso le loro bocche l’acqua passava da una vasca all’altra per la decantazione. Adesso le tre protomi sono ammirabili nel chiostro del Museo di Arte Medievale e Moderna. Nella stessa zona si notano anche gli “smiragli” o pozzi d’aerazione, che esternamente appaiono come dei grandi tombini poliedrici di pietra.

la valorizzazione Alla fine del 2017 la Fraternita dei Laici ha inaugurato all’interno del suo storico palazzo di Piazza Grande una stanza denominata “Sala dell’acquedotto”, dove si possono ammirare disegni e documenti che riguardano l’infrastruttura, studi di operazioni migliorative e indagini sul suo stato di salute nei secoli, nonché un video che ne racconta le principali vicende. Pezzo forte è l’enorme tela a olio denominata “Pianta del condotto vasariano di Arezzo e della Fonte della Piazza”, eseguita nel 1696 dal cartografo e impresario edile Giovan Battista Girelli, dove si ammira il percorso completo dell’acqua da Cognaia al centro di Arezzo. In futuro gli archi verranno valorizzati tramite un percorso pedonale e un adeguato sistema di illuminazione notturna. La Brigata Aretina degli Amici dei Monumenti, infine, ha già dato la sua disponibilità a sostenere il restauro delle due edicole sacre posizionate in uno degli archi dove si uniscono via Gamurrini e via Tarlati. A quel punto la passeggiata

intorno all’acquedotto sarà a tutti gli effetti una delle più belle e ambite dell’intero territorio.

Il restauro Il 20 novembre 2014 il vicesindaco reggente del Comune di Arezzo Stefano Gasperini e il primo rettore della Fraternita dei Laici Liletta Fornasari firmarono l’accordo di programma per il risanamento e il restauro conservativo della conduttura per un costo stimato di 350.000 euro. In base alle intese, la Fraternita avrebbe eseguito gli interventi accendendo un mutuo e anticipando le spese, mentre il Comune, utilizzatore dell’acquedotto e titolare del diritto di enfiteusi (il diritto reale di godimento su un fondo di proprietà altrui), le avrebbe restituite in dieci anni. Nel febbraio 2017 il nuovo Magistrato guidato da Pier Luigi Rossi, in carica dal novembre 2015, dette il via ufficiale al recupero assieme al sindaco Alessandro Ghinelli. Il progetto e i lavori, affidati all’architetto Fabrizio Di Sangro e supervisionati dalla Soprintendenza ABAP di Siena, Grosseto e Arezzo, sono oggi in dirittura d’arrivo. Gli interventi hanno visto la rimozione totale dell’intonaco a malta bastarda e la posa in opera di intonaci a base di malta di calce idraulica naturale e pozzolana. Il consolidamento murario è proseguito con la rasatura pigmentata senza successiva tinteggiatura. Nel frattempo è stato portato avanti il ripristino del sistema di copertura degli archi con lastre di pietra serena scanalate. Da ricordare, infine, il restauro delle due guardiole, dei vani tecnici e del sistema idraulico della condotta, che consente il corretto deflusso delle acque ed elimina le dannose infiltrazioni.


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#upmagarezzo Una Piazza Grande da togliere il fiato

S

iamo felici che l'invito a condividere le vostre foto di Piazza Grande con l'hashtag ufficiale #upmagarezzo abbia visto una nutrita partecipazione di igers, aretini e non: è stato davvero difficile scegliere solo alcuni dei magnifici scatti che avete pubblicato.

DI MATILDE BANDERA

Grazie per averci mostrato questo amato luogo con i vostri occhi e per averci aiutato a condividerne la bellezza su instagram. Per il prossimo numero di Up Magazine, in uscita in estate, vi invitiamo a dare libero sfogo alla creativitĂ : condividete i click di Arezzo e provincia che abbiano

come tema l'estate e i suoi colori con gli hashtag #upmagarezzo e #arezzodestate: sceglieremo i piĂš suggestivi per le due pagine dedicate ad instagram e li condivideremo sul profilo @upmagazinearezzo. Abbiamo tante idee in mente per chi ama Arezzo e la fotografia, aiutateci a far crescere la nostra community.


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UP ECCELENZE

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nel giardino d'arezzo

sboccia la meglio gioventu' d'america L’UNIVERSITÀ DELL’OKLAHOMA, LA PIÙ PRESTIGIOSA TRA QUELLE PUBBLICHE NEGLI STATI UNITI, HA APERTO UNA SEDE DISTACCATA NEL CENTRO STORICO DEL CAPOLUOGO. UN ESPERIMENTO VINCENTE CONDOTTO DAL DIRETTORE KIRK DUCLAUX: “L’ESPERIENZA IN ITALIA CAMBIA LA VITA DI QUESTI GIOVANI”. E CONTRIBUISCE A FORMARE LA FUTURA CLASSE DIRIGENTE A STELLE E STRISCE DI MATTIA CIALINI

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A San Zeno sono stati organizzati corsi di formazione e concerti per dare dell'impianto un'immagine diversa

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“A

rezzo ti cambia la vita”. Parola di ex studentessa americana. La sede della University of Oklahoma – in zona San Domenico – ha cortili ordinati e saloni pregevolmente restaurati. Al centro delle pareti ci sono delle targhe. Intere porzioni della struttura sono dedicate agli allievi che, dopo la laurea e il successo lavorativo, hanno deciso – come forma di gratitudine – di far cospicue donazioni all'istituzione in cui si sono formati. “Spending a semester abroad is truly a life changing experience. There are so many beautiful experiences and people that I have encountered that have truly shaped my views on the world". E' la grata testimonianza che campeggia nella home page del sito della sede aretina della University

of Oklahoma. Suona più o meno così: "Trascorrere un semestre fuori ti cambia la vita. Ho fatto così tante esperienze favolose e ho incontrato persone così splendide che hanno plasmato il mio punto di vista sul mondo”. Insomma, è anche merito d'Arezzo se alcuni ex studenti, oggi parte della classe dirigente americana, hanno fatto fortuna. L'altra fetta spetta di diritto all'istituzione incarnata dal direttore Kirk Duclaux, che nell'arco di una decina d'anni ha attratto risorse (e nuovi allievi) come una calamita. Con ricche ricadute per il territorio ospitante. “Nel 2015 – assicura Duclaux – abbiamo iniettato nell'economia aretina un milione e 100mila euro, tra pernottamenti, buoni pasto, trasferimenti”. Come ha fatto un piccolo ma pregiato pezzetto d'America ad

innestarsi così bene in Toscana? Per capirlo, occorre fare una salto di là dall'Atlantico e planare nel cuore degli Usa, a Norman: terza città dell'Oklahoma con 110 mila abitanti e sede dell'università statale. Trentamila iscritti da tutto lo stato e pure da fuori: è l'accademia pubblica più prestigiosa degli Stati d'Uniti. Il campus è una città nella città. Da qui è partito l'impulso per cercare una sponda nel paese del Rinascimento e la missione è stata affidata al vulcanico Kirk Duclaux, professore di storia dell'arte. “Io ero già in Italia – racconta – a Firenze. Prima di scegliere Arezzo abbiamo visitato diverse località: Mantova, Padova, Roma, Lucca. Cercavamo una soluzione intermedia: non una città caotica, ma nemmeno un luogo sperduto. Ad Arezzo abbiamo trovato la dimensione ideale. E' ben collegata dai treni, c'è l'uscita dell'A1 ed è grande


Il progetto dell'OU in Italia è partito ufficialmente in uno scantinato, con una manciata di studenti. Poi la sede in centro storico e infine il quartier generale nell’ex convento di Santa Chiara

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come Norman. E poi – esclama in un genuino slancio d'entusiasmo – è bellissima”. Scorre l'elenco di opere d'arte e monumenti, scavi archeologici e musei. “Una Firenze più raccolta. Ma c'è tutto, anche l'Università”. Il progetto dell'OU in Italia è partito ufficialmente in uno scantinato, nella vecchia casa di Kirk, con una manciata di studenti. Poi è stata trovata la sede in centro storico, in Corso Italia, e posti letto dislocati in piazza San Francesco. Ma il successo del progetto ha permesso alla sede aretina della University of Oklahoma di investire ulteriormente, prendendo possesso, circa sette anni fa, dell'ex convento di Santa Chiara in zona San Domenico, che è stato recuperato, sistemato (con profitto anche per il pubblico decoro) e convertito a nuovo quartier generale dell'istituzione. Conta oggi 47 posti letto, tre aule,

il giardino, la mensa, la biblioteca, la sala lounge, una great hall con pianoforte e una zona sotterranea archeologica, con pozzo etrusco e suggestive catacombe. Al complesso si aggiunge l’Annex in San Francesco, con altre tre aule, il laboratorio comupter e gli uffici amministrativi. E l'andirivieni di gioventù americana tra San Domenico e San Francesco è continuo, ha rivitalizzato tratti di strade battuti finora dai residenti del centro storico, che sono sempre di meno. “Abbiamo 30-40 studenti diversi ogni semestre: qui continuano gli studi che avrebbero fatto negli Usa, ma in un contesto completamente diverso. L'attività si intensifica d'estate, con i campus. Ospitiamo contemporaneamente fino a 50 allievi, 500 diversi nell'arco di pochi mesi. Arrivano in Italia, magari la conoscono per stereotipi, quando vanno via ne

sono innamorati. E tornano. Adorano l'arte, la Storia. Il cibo. Spostandosi a piedi nel centro storico scoprono la varietà e la bontà della cucina tipica di questo luogo”, aggiunge Duclaux. E l'interazione con gli “indigeni” non si ferma qui. Ogni anno, come racconta il coordinatore della struttura Lucio Bianchi, l'University of Oklahoma si apre agli aretini con il Big Event che vede impegnati studenti italiani e americani insieme in un progetto sociale. Tredici giovani coinvolti il primo anno, lo scorso sono stati dieci volte di più (circa 140). Negli anni hanno ridipinto sottopassaggi (alla stazione ferroviaria, ad esempio), realizzato murales, piantato arbusti nei parchi, ridato dignità a strutture fatiscenti. “E' un modo per farci conoscere dagli aretini. E per dimostrare affetto alla meravigliosa città che ci ospita”, chiude Duclaux.


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UP PEOPLE

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la ricerca del desiderio SA R A LOVA R I H A MANTE NU TO VIVA L'AM BIZ IONE D I M E T TERE I N M O ST R A L E S U E O P E RE A P OPPI E D OP O SE T TE ANNI C E L'HA FAT TA, T R A S FO R M A N D O I L CASTE LLO D E I CONTI GU ID I IN U N'IM PE RDI BI LE M E TA P E R GL I APPASSIONATI D I ARTE CONTE M P OR ANE A DI MATILDE BANDERA

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on è facile credere nell'arte", ha detto Sara Lovari all'inaugurazione de "La ricerca del desiderio". E, aggiungiamo noi, non è facile per un artista guadagnarsi da vivere con l'estro e il talento. Anche lei, difatti, ha iniziato pensando di non poter vivere di questo. Casentinese di nascita, classe 1979, ha assecondato le aspettative della famiglia e si è laureata in economia, lasciando all'arte il ruolo marginale di una passione da coltivare nei ritagli di tempo, finché qualcosa non è cambiato. Dal 2007 iniziano ad arrivare premi e riconoscimenti, le sue opere vengono ospitate nelle grandi gallerie di Milano, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Giappone. Ma Sara è legata al suo territorio ed è qui che vuole rimanere, qui dove sono le sue radici, dove tutto è cominciato, dove ogni cosa è fonte di ispirazione. Le tue opere sono intrise di emotività e passione. Come riesci a trasmettere le tue emozioni allo spettatore? Nelle mie creazioni, da sempre, c'è una scala cromatica molto riconoscibile, che rimanda ai colori neutri e della terra. Ho iniziato con le tele per poi passare agli assemblaggi, alla scultura in carta, mentre ora mi sto cimentando nella lavorazione del ferro. Traggo ispirazione da emozioni semplici in momenti ordinari: viaggiando in bicicletta o in macchina, durante le passeggiate in campagna. Utilizzo oggetti di recupero insieme ad altri che acquisto alla Fiera di Arezzo o da antiquari del territorio: libri antichi, chiavi, cassetti. Non sono mai oggetti anonimi, devono avere delle storie. Li trasformo e li assemblo per fargliene raccontare di nuove: cerco di trasmettere un messaggio che parli di amore, riflessione, nostalgia. Cosa ha stimolato e influenzato maggiormente la tua creatività?

Vengo da una famiglia semplice e ho avuto un'infanzia bellissima, ho sempre vissuto circondata da tanti amici. Ho studiato in una pluriclasse e credo che questo, contrariamente a quanto si possa pensare, abbia stimolato molto ciascuno di noi: oggi abbiamo tutti una vita professionale appagante, siamo realizzati e felici. I miei genitori disegnavano abiti e il loro lavoro ha ispirato alcune delle mie opere di cartone, che spesso tratto come fosse tessuto, tra cui la camicia Mauro, dedicata a mio padre. Nel tuo futuro artistico e personale cosa c'è e cosa vorresti che ci fosse? La collaborazione con la galleria Barbara Paci di Pietrasanta rappresenta un trampolino di lancio verso nuovi spazi espositivi e nuovi clienti, anche all'estero. Voglio sfruttare al massimo queste opportunità, senza però cambiare nulla del mio modo di lavorare perché ci tengo a rimanere riconoscibile, e soprattutto non vorrei vivere in nessun altro posto che non sia casa mia. È proficuo sfruttare anche altre forme di comunicazione per diffondere i miei progetti. Nel caso di "Bébé Géant", la performance itinerante che ha coinvolto città come Bologna, Venezia, Milano, Napoli e Roma, ho fatto indossare ai passanti un paio di "scarpe giganti" di oltre un metro di lunghezza, realizzate in cartone, chiedendo poi feedback sulle emozioni provate durante la prova: il video è stato fondamentale per rendere comprensibile in pochi minuti quest'incredibile esperienza. Mi piacerebbe imparare a saldare il ferro, perché per ora mi sono limitata a progettare le sculture e vorrei arrivare in fondo alla realizzazione di ogni opera, ma credo che ognuno abbia la propria collocazione e mi piace collaborare con altri professionisti. Sono convinta che da soli si vada poco lontano, mentre uniti si può fare un bellissimo viaggio.


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un business che spicca il volo O CH E , A N AT R E , CO LOM BI E TR AM P OLIE R I DA TU T TO IL M O N DO : GI ACO M O C IA N C H I A LLE VA PR E Z IOSI U CC E LLI OR NAM E NTALI. RI CHI ESTI DA CO L L E Z I O N I ST I E DA GE STOR I D I AGR ITU R ISM I, P OSSONO A RRI VARE A CO STA R E F I N O A 1. 5 00 E U RO. IM M E R SA NE L VE R D E D I P ONTE ALLA C H I A S SA , P O GGI O D I P ONTE È U N’ IM PR E SA NATA PE R PASSIO N E E D I V E N TATA U N INASPE T TATO SU CC E SSO COM M E RC IALE DI MATTIA CIALINI

la passione di mio nonno per gli uccelli acquatici, li usava come richiami. Un interesse coltivato anche da mio padre Antonio e nato in seno alla caccia, ma che poi si è svincolato da quest'ambito. Sviluppandosi pienamente una decina di anni fa. Gli animali di Poggio di Ponte sono destinati esclusivamente alla vendita come ornamenti, non per scopi venatori. Abbiamo iniziato quasi per divertimento ed è diventato un business. Oggi abbiamo 400 coppie, lasciate libere in due ettari di proprietà. Facciamo circa 1.200 nascite l'anno e riusciamo a vendere tutti i nuovi arrivati. Non da pulcini, ovviamente. Gli esemplari sono vendibili dopo 6-7 mesi, quando si comincia a riconoscere il sesso. Cerchiamo di essere rispettosi della natura e dei suoi cicli, forniamo agli uccelli mangimi specifici a base di pesce, ma mangiano anche tutto quello che trovano nel verde dell'allevamento: erba, larve, insetti. E non usiamo antibiotici, anche perché questi animali sono molto resistenti”. Giacomo Cianchi divide il suo tempo a metà, tra Poggio di Ponte e l'azienda di preziosi di famiglia, la Gems & Gold di Arezzo, di cui cura l'aspetto commerciale. Ad aiutarlo nell'avventura di allevatore ci sono un collaboratore (per la pulizia settimanale delle voliere), il padre e la fidanzata Diletta: quest'ultima si occupa delle vendite, attingendo a piene mani dalle risorse social. “E una grande mano nella cura dell'ambiente, oltre agli irrigatori, la danno le oche: sono dei tagliaerba precisissimi”. L'allevamento pare un campo da golf. Vento in poppa per Poggio di Ponte, ma all'orizzonte ci sono nuove sfide. Come un'integrazione sempre più stretta tra tecnologia e natura: “Faremo un esperimento con le telecamere nei nidi, li monitoreremo durante le nascite di giugno. Successivamente installeremo occhi elettronici in punti strategici dell'allevamento per effettuare riprese h24”.

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’è una luce epica che scolpisce la collina, tra una pioggia e l’altra. Appena prima del crepuscolo, appena prima della primavera. Manca solo l’arcobaleno per l’idillio vagheggiato dal turista d’Oltreoceano. Ma di macchioline iridescenti è punteggiato il prato verde della tenuta: sono oche, anatre, colombi e trampolieri. Avifauna varia e variopinta, centinaia di becchi, penne e zampe. Nessun esemplare scappa al passaggio d'uomo, anzi. Un volatile si avvicina, maestoso nel piumaggio, più curioso che minaccioso. Siamo nel regno di Giacomo Cianchi: Poggio di Ponte. Un universo parallelo (e bucolico) che si apre battendo un angolo un pò nascosto fuori Ponte alla Chiassa. È la più grande struttura del genere in Italia, uno dei punti di riferimento europei per l'allevamento di uccelli ornamentali. Idea bizzarra per i più, ma che, alimentata da autentica passione, si è rivelata scommessa redditizia. “Eh sì, il mio allevamento – spiega Giacomo – è l'unico del Centro Italia. Ci sono altre realtà al Nord, io lavoro soprattutto con il Meridione”. Ma chi potrebbe volere un'anatra ornamentale? “Agriturismi per lo più. Ma anche collezionisti”. Che sono disposti a spendere cifre importanti pur di avere volatili rari ed esotici. “Qui si trovano coppie a partire da 70 euro, ma si può arrivare anche a 1.500 euro per l'anatra dalle orecchie rosa”. Ci sono specie da tutto il pianeta. “Faccio qualche esempio: tra le autoctone abbiamo il fischione europeo, l'alzavola, il mestolone e il codone. Tra le alloctone, l'anatra mandarina orientale che è diffusa in Cina e Giappone, l'anatra sposa che è originaria della Carolina, negli Stati Uniti, e per toccare un continente remoto ci sono l'alzavola castana dell'Australia e la casarca paradisea della Nuova Zelanda”. Un melting pot avicolo unico. Ma come è nata questa “follia” di successo? “Ho ereditato


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a mattina a scuola, il pomeriggio insieme all'inseparabile amico Luca: giocando con il Commodore 64, guardando i film di Fantozzi, improvvisando i nostri primi cortometraggi. I miei 13 anni. Iniziò in quel periodo anche il folle amore per i Depeche Mode che mi ha cambiato la vita e di cui porto ancora i segni. Ok, è un’altra storia e rischio di divagare. In una di quelle spensierate giornate, Luca mi annunciò, non senza un pizzico di orgoglio (che doveva rimanere celato) che avrebbe avuto un fratello. Il primo aprile del 1985 nacque Daniele. Per questioni di necessità (ma, ora posso dirlo, anche di affet-

tuoso legame) il nuovo arrivato entrò prepotentemente nel piccolo club privato. Non sconvolse le nostre abitudini ma, fin da subito, fu obbligato a tenere il passo nonostante la notevole differenza di età. Mi ricordo quel simpatico bambino che interpretava scene epiche come “la cena a casa della contessa” nel Secondo tragico Fantozzi. Un piccolo fenomeno. Adesso quel bimbo è diventato Daniele Marmi: attore, comico, cabarettista. Diplomato alla scuola Internazionale Circo a Vapore di Roma diretta da Silvia Marcotullio e Fiammetta Bianconi, ha fondato il gruppo comico Progildan, con cui è riuscito a vincere con-

corsi come il “Delfino d’oro" e meritarsi la menzione d’onore al “Premio Alberto Sordi” a Faenza. Interprete teatrale in numerosi spettacoli, protagonista di “Zelig Off”, di “Central Station”, testimonial “Ceres” e “10 e lotto”, nel cast de “I delitti del BaLume”. Oggi lavora al Teatro Stabile di Torino. Ma io e tuo fratello possiamo prenderci il merito di averti “iniziato” all’arte comica? Ebbene sì. Le interminabili maratone-Fantozzi mi hanno fatto innamorare della comicità, ma il teatro mi è sempre piaciuto. Sono state due amiche a portarmi alla prima scuola, Il piccolo teatro di Arezzo. Loro poco


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dopo abbandonarono tutto; io invece sono rimasto. Da lì ho capito che era la mia passione. Quali sono state le tue tappe formative? La mia prima insegante al Piccolo Teatro è stata Silvia Martini. Era completamente pazza, nel senso buono. E’ lei che mi ha fatto scattare la scintilla. Dopo quattro o cinque anni sono passato alla Libera Accademia, perché tutte le altre scuole aretine di teatro volevano unirsi per realizzare un grande musical. Io però i musical non li tollero proprio, mi annoiano. Alla Libera Accademia sono rimasto per qualche anno. Infine Roma. Ho cominciato il mio percorso alla Scuola Internazionale di Teatro Circo a Vapore, dove ho studiato il metodo Jaques Lecoq, che si concentra sulla fisicità, sulla maschera, sulla “clownerie”. Il Piccolo mi ha incantato, la Libera Accademia mi ha dato un buon metodo di studio ma la scuola di Roma mi ha permesso di cambiare il passo. Di qui il lavoro. Dopo il diploma, a 22 anni, ho subito provato a fare cose mie tra cui una riscrittura di un testo di Antonio Murri, “Stavolta mi ammazzo sul serio”. Poi ho conosciuto Gilberto Pellegrini e Cristian Materazzi. Con loro ho fondato un trio comico, Progildan, e abbiamo cominciato a fare delle serate al circolo Aurora di Arezzo. Nel 2009 abbiamo partecipato a Zelig Off; quello è stato il nostro trampolino, da lì sono venuti altri programmi come Metropolis e Central Station. Il vero lancio teatrale c'è stato con lo spettacolo I Rusteghi con Eugenio Allegri e la regia di Gabriele Vacis. Era il 2011. Da quel momento ho cominciato a far parte del Teatro Stabile di Torino e oggi vivo in tournée per sei mesi l’anno. Nel 2018 cosa può offrire Arezzo a un giovane che vuole cimentarsi con la carriera teatrale? Ad Arezzo non ci sono scuole che offrono riconoscimenti a livello europeo.

Quelle sono solo a Torino, Milano, Genova, Roma. Secondo me ad Arezzo si possono muovere i primi passi, ma poi è necessario andare altrove per diventare un attore professionista. Quali sono le ultime produzioni teatrali in cui sei stato impegnato? Il Nome della Rosa per la regia di Leo Muscato, che ha registrato oltre 80 mila spettatori, 133 repliche in tutto il mondo. Sono tornato pochi giorni fa. Dal teatro alla tv: prima lo spot Ceres, poi i Delitti del Barlume, produzione Sky, dove impersono da molte stagioni il poliziotto Cioni.

Come sei arrivato a questi ruoli? Per lo spot… sarà stato culo? Serviva un personaggio simpatico e hanno scelto me tra migliaia. Bella esperienza. Quando vado a Roma c’è una mia gigantografia in un bar. Troppo divertente! Per la serie invece devo ringraziare Paola Rota, assistente della direttrice casting, che avevo conosciuto a Torino. Lei sapeva che la produzione aveva bisogno di un personaggio toscano, ironico e ha indicato me. Sono con loro da quattro anni, è un gruppo di lavoro piacevole e rilassato. Sarà anche perché giriamo all’Elba, d’esta-


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te! Hai un rapporto particolare con i colleghi del cast? Si, con Guglielmo Favilla che è l’altro poliziotto. Ma con tutti c’è un bellissimo feeling, la barista Erica Guidi, Stefano Fresi che è entrato quest’anno, ma anche Michele Di Mauro che interpreta il commissario Tassone e soprattutto tutti i mitici vecchietti. Ci manca Carlo Monni, era una persona fantastica. Ci svegliava ogni mattina in albergo verso le sette e ci chiedeva di fare il bagno in mare. Una volta lo accompagnammo io e un collega, lui si tuffò dalla scogliera e poi arrivò sul

set come se nulla fosse. Passare dal teatro alla tv o viceversa oggi è automatico? O l’attore di teatro resta tale? Credo che un vero attore sia in grado di fare sia teatro che tv. Oggi tutti vogliono diventare celebri. E per fare questo la tv sembra il mezzo più veloce. La richiesta è molto più alta rispetto ad alcuni anni fa. Quindi non è così automatico passare al cinema o alla tv, partendo dal teatro. A volte ottenere una parte è questione di fortuna. Accade spesso che l’agenzia abbia esigenza di un personaggio, anche a livello tecnico e televisivo. Poi c’è chi preferisce il teatro, chi il cinema, chi Ia tv. Io sono innamorato del teatro, ma è vero che la tv può fornire anche dei guadagni più alti. Il teatro rimane qualcosa di romantico, ma trova sempre meno spazio e meno supporto economico. Funziona così anche per i più giovani? La percezione per un giovane è che basta proporsi e insistere. Questo è il clima che hanno creato i vari talent. Il sacrificio dello studio e della preparazione sembra passare in secondo

piano. La cultura del “tutto e subito” rischia di azzerare la consapevolezza che per ogni cosa serva preparazione. A 18 anni si deve già essere famosi, non c’è tempo per prepararsi. Come si struttura il tuo progetto tutto aretino? Gestire da fuori il Teatro Virginian è difficile. Per fortuna ci sono Mirco Sassoli e Alessandro Marini. La produzione più importante in cantiere è realizzata dalla nostra compagnia, La Filostoccola. Si tratta de “La Commedia degli Errori”, uno spettacolo a due voci, la mia e quella di Alessandro, la cui regia è affidata, felicemente, a Eugenio Allegri. La prima assoluta sarà in programma per il 30-31 maggio al Teatro Virginian. Qual è il tuo rapporto con Arezzo oggi? Io di Arezzo amo tutto. Ogni volta che sono in giro parlo sempre della mia città e porto tanti colleghi a visitarla e a vedere la Giostra. Sono interista e di Porta del Foro, ahimè. Quello che più mi spiace è fare tanto per portare un’offerta teatrale ad Arezzo e ricevere poco in cambio. Se amate la cultura, date una mano al Virginian.


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MILLE CAREZZE IN UN PUGNO |

UP SPORT

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UNO CHE PRENDE E DÀ CAZZOTTI PER SPORT, LO IMMAGINIAMO SPACCONE, ESUBERANTE, CON LO SGUARDO CATTIVO E IL GUSTO DI MENARE LE MANI. ORLANDO FIORDIGIGLIO È L’ESATTO CONTRARIO, POCO SOCIAL E MOLTO ANTIDIVO. QUANDO NON SI ALLENA, LAVORA ALL’ENEL (O FORSE È IL CONTRARIO). ARETINO D’ADOZIONE, RACCONTA LA SUA BOXE, LA SUA FAMIGLIA, LA SUA VITA. E IL SOGNO DI CONQUISTARE IL TITOLO EUROPEO DI ANDREA AVATO

tanto una volta in vita mia. Avrò avuto 16 o 17 anni, ero appena uscito dalla discoteca con i miei amici. Poi non è più successo”. Mai mai? Mai. Chi fa boxe, non picchia. Una volta il grande Marvin Hagler incontrò un gruppetto di persone che cominciò a insultarlo. Non reagì. “Mi allontano dall’ignoranza” spiegò poi. La boxe è autocontrollo. Non a caso era soprannominato “il meraviglioso”. E' stato il mio modello. Lui diceva: "sono un pugile da quando mi sveglio a quando vado a dormire. Cerco solo di nasconderlo". Il pugilato è ancora la noble art di una volta? Oppure parliamo di un’altra epoca e di un altro sport? E’ ancora un’arte nobile. A parte quando girano troppi soldi. E oggi succede spesso. Qual è il fascino di prendere e

dare cazzotti? La sfida con te stesso. Inquadrare un obiettivo e raggiungerlo. Misurarti con le difficoltà. Questo non è uno sport di squadra dove puoi trovare l’alibi o scaricare le responsabilità su qualcun altro. Qui vittoria e sconfitta dipendono da te. Hai praticato sport di squadra tu? Da ragazzino giocavo a calcio. Facevo il terzino d’assalto. Sei nato in Campania ma abiti qua da quando eri piccolo. Ti senti napoletano, aretino o una via di mezzo? Io non mi abbatto, ho grande spirito di sacrificio, mi piace la generosità. In questo credo di essere napoletano. Tutto il resto è aretinità. Com'è Arezzo vista da uno che ci vive ma che non ci è nato? Una sintesi perfetta tra sud e nord. Per il cibo, per il clima, per la qualità della vita.

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l ring è uno specchio. Se sei un uomo, si vede. Se sei un codardo, si vede’’. Via Buonconte da Montefeltro, accademia pugilistica aretina, tardo pomeriggio di metà aprile. Orlando Fiordigiglio racconta la sua boxe, la sua famiglia, la sua vita, che poi sono una cosa sola. Napoletano di Torre del Greco, aretino d’adozione, poco social e molto antidivo, è testimonial della onlus "Gli occhi della speranza", ha quasi 34 anni, una compagna, un figlio di diciotto mesi e un carattere che mai lo assoceresti a un pugile. Perché forse è uno stereotipo fuorviante e abusato, ma se pensi a uno che prende e dà cazzotti per sport, te lo immagini spaccone, esuberante, con lo sguardo cattivo e il gusto di menare le mani. Lui no. Lui è l’esatto opposto. “Ho fatto a pugni per la strada sol-

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Orlando Fiordigiglio è nato a Torre del Greco (Napoli) il primo luglio 1984. Trasferitosi ad Arezzo in tenerà età, ha iniziato a combattere alla palestra Calamati Boxe. In parallelo all’attività pugilistica, lavora come impiegato all’Enel. Ha una compagna, Giulia, e un figlio piccolo, Giovanni. Professionista dal 2010, è stato campione italiano e campione europeo EU superwelter (2013). Ha conquistato il titolo internazionale WBC nel 2014 e la cintura intercontinentale IBF nel 2016. Adesso si allena ad Arezzo con Tommaso Donati e a Ravenna con Bartolomeo Gordini.

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E poi? Una città dove è difficile emergere, ma nessuno è profeta in patria. Arezzo ormai è casa mia. Mi manca soltanto un quartiere da tifare alla Giostra. Non dirmi che il Saracino non ti piace... Mi piace moltissimo, vado in piazza tutti gli anni. Però non parteggio per nessuno, anche se abito a Porta del Foro e quindi un po' giallocremisi mi sento. C’è un angolo di Arezzo dove ti rifu-

gi, che ti piace visitare, che ti ispira buoni sentimenti? La Pieve e tutta la zona alta del centro storico. Lì ci vado spesso. Tu sei un pugile professionista che ha conquistato titoli internazionali, ma lavori come dipendente all'Enel. Mi spieghi com’è possibile? Ho pensato spesso di dedicarmi soltanto alla boxe, ma il posto fisso mi dà la tranquillità economica per allenarmi come voglio io. Finché reggo, faccio entrambe le cose.

E' una faticaccia, immagino. Vuoi la mia giornata tipo? La mattina sono all’Enel a Montevarchi. In pausa pranzo mi alleno. Lavoro di nuovo, stacco alle 16.30 per la merenda, poi palestra fino alle 20.30. Una volta alla settimana faccio i guanti a Firenze, due volte alla settimana a Ravenna. Questo tutto l'anno? Sì. Fino a un po' di tempo fa, con l’Enel avevo anche la reperibilità notturna. Se c'era qualche guasto, mi chiamavano e dovevo uscire. Adesso la notte dormo,


contento. Dall’altra sarei molto preoccupato: vado in ansia quando combatte qualcuno della palestra, figuriamoci se ci fosse Giovanni. Tu credi in Dio? Sì, la fede è una risorsa da cui attingo quotidianamente. E a proposito di quello di cui parlavomo prima… Cosa? Don Alvaro, il parroco del Duomo, è il mio mental coach. Sa sempre cosa dirmi, come dirmelo e quando. E’ vero che sei troppo corretto sul ring? E’ un appunto che mi muovono in molti. E forse hanno pure ragione, ma non cambio. Rocky Balboa era legatissimo a Mickey Goldmill, il suo allenatore. Tu hai qualcuno che ti ha insegnato a boxare? Paolo Calamati. E’ stato il mio punto di riferimento per tanti anni. Quando è morto, ha lasciato un vuoto grandissimo. Era il mio Mickey, veramente. E’ stato il momento peggiore per te? No, perché la determinazione ad andare avanti raddoppiò. Ho temuto di smettere quando è morta mia zia, aveva solo 47 anni. Mi accorgevo di non essere quello di prima, stavo mollando. Io sono la colonna portante della mia famiglia, tutto ruota attorno a me e ne sentivo il peso. Poi la sognai una volta, mi diceva di continuare. E ripresi coraggio. I pugili, solitamente, fanno gli sbruffoni, parlano tanto. Tu no. E’ veramente un pregio o dovresti essere più sfrontato? A me la boxe tranquillizza, pensa un po’. E poi è il mio carattere. Ho una collezione vastissima di berretti e cappellini ma non li metto mai. Ostentare non mi piace, non è nelle mie corde. Cosa c’è nel tuo futuro? Voglio il titolo europeo, voglio portare in alto il nome mio e di Arezzo. Due volte ci sono andato vicino e non ce l’ho fatta. Alla terza sarebbe diverso, me lo sento.

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per fortuna. Ti servirà un mental coach, Orlando. Non ho tempo... Le energie mentali le trovo fissando l'obiettivo nella mia testa. E vado avanti. Giulia, la tua compagna, cosa pensa di questa tua vita che gira intorno al ring? E' gelosa, scontenta? No. Mi capisce. Mi aiuta. Mi dà sostegno. Forse perché l'ho conosciuta proprio in palestra. Addirittura. Sì, venne a fare boxe per un periodo. Mi chiese: "Ma tu dove sei stato finora che in giro non ti ho mai visto?". Eppure abitavamo a poca distanza. Dov'eri stato Orlando? In palestra ad allenarmi e ad allenare i ragazzi. Mi piace moltissimo e cerco di trasmettere sentimenti oltre che consigli tecnici. Ci riesci? O gli adolescenti di oggi

sono troppo complicati da coinvolgere? Finora ci sono riuscito. Questa palestra ospita anche giovani con difficoltà sociali, che hanno sbagliato nella vita e devono recuperare. Qua dentro siamo una famiglia e non è un modo di dire, è la verità. Tu sei sempre stato generoso, altruista per indole o sei diventato quello che sei un passo alla volta? La filosofia di lavoro della palestra l’ho ereditata e non posso non citare il mio presidente Aldo Sassoli, un esempio. Poi ci ho messo del mio perché io sono così. Hai una storia da raccontare che ti è rimasta nel cuore? Ne avrei tante, credimi. Penso a Ibrahim, un ragazzo kosovaro di 18 anni. Viveva in povertà, non vedeva i suoi genitori da non so quanto tempo. La comunità Don Bosco lo ha mandato da noi. Ho scoperto una persona buona, di cuore, che ha ripreso a studiare e si è dedicato alla boxe con passione. Ha vinto nove incontri su undici, è riuscito a tornare a casa per salutare la sua famiglia. Noi adesso lo chiamiamo Fortunato. Quanti ce ne sono di ragazzi così che passano da qui? Abbastanza. Io sono felice, la palestra crea l’uomo prima del pugile. Vedi quel cartello lì al muro? C’è scritto “devi ridere”. Quando qualcuno comincia a lamentarsi, a mugugnare, gli dico di rileggerlo cento volte. Pure quando prende un gancio in pieno viso… Certo. Il pugilato è anche fare a pugni. Ma non solo. Io a 14 anni mi vergognavo perfino della mia anima, ero timido, cicciottello, insicuro. La palestra, l’allenamento mi sono serviti per affrontare la vita. Se Giovanni, tuo figlio, tra qualche anno ti dicesse che vuole fare il pugile, ne saresti felice? Penso a questa cosa ogni giorno. Non gli direi di no, da una parte mi farebbe


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DI CHIARA CALCAGNO

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lzi la mano chi sa cosa sia un hackathon. Crasi tra le parole hacker e marathon, un hackathon non è altro che una maratona informatica, una specie di grande raduno di programmatori, sviluppatori, designer, ingegneri esperti del web e semplici appassionati che, per un breve tempo, si riuniscono per cercare soluzioni a problemi informatici. O per creare queste soluzioni. Nessun timore, non ha niente a che vedere con gli hacker (quei geniali ficcanaso) né con lo sport (via le scarpe da jogging). Ma servono ingegno, creatività, competenze, visione e si gareggia divisi in team. In pratica, sintetizzo, si prendono dei giovani nerd, talentuosi e brillanti, si chiudono in una stanza con computer, tablet e thermos di caffè e si aspetta che la magia si compia. Dopo 24 ore si riaprono le porte e si ammirano le innovative invenzioni che sono riusciti a produrre. Progetti che forse cambieranno il mondo. O che per lo meno miglioreranno piccoli universi. Roba da americani, verrebbe da dire. Invece no, perché uno dei più particolari hackathon italiani si svolge nell’in-

cantevole Cortona. Ed è il primo al mondo a non essere organizzato in ambito accademico ma allestito in un contesto affascinante come quello del Centro convegni Sant'Agostino, complesso del XIII secolo nel cuore della città. Una cross contamination tra arte, esperienza umanistica e tecnologia. L'iniziativa, denominata HackCortona, è nata due anni fa dall'intuizione della Banca Popolare di Cortona. Nonostante una storia ultracentenaria, l’istituto di credito del territorio ha deciso di guardare al futuro e investire sulle nuove generazioni, spingendole a creare nuove possibilità di lavoro in una zona tanto suggestiva quanto stimolante. «Volevamo regalare qualcosa al territorio», spiega Roberto Calzini, direttore generale della Banca Popolare di Cortona. «Qualcosa sì di tangibile ma che fosse un invito e una dimostrazione. Una chiamata nei confronti degli imprenditori locali perché sappiano capire le opportunità di sviluppo di una “Silicon Valley in Valdichiana”. Abbiamo perciò scommesso sulle menti brillanti di giovani appassionati di informatica che mettono le loro idee al servizio della comu-


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"La nostra è una terra straordinaria. è bellezza che rilassa e stimola la mente. Partiamo da qui e mettiamo al centro l'uomo"

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nità per risolvere piccoli e grandi problemi quotidiani. Ma HackCortona non è solo una competizione che si affronta con il sorriso, è un’occasione di confronto, di studio, di apprendimento. Molti progetti sono nati successivamente da gruppi di lavoro che si sono incrociati alla manifestazione e questo è il traguardo più importante». Un impegno coraggioso che ha avuto bisogno dei partner giusti: adesso sono coinvolti KCL Tech, tech society del dipartimento di informatica del King’s College London, la Scuola Normale Superiore di Pisa, Isti Cnr, centro di studi e ricerca tra i più importanti in Italia e, ovviamente, il Comune di Cortona che si è prestato ad un’azione sinergica di promozione. E poi alcuni sponsor che sostengono l’evento e forniscono pasti e zona riposo. I ragazzi, provenienti da ogni parte d’Italia e del mondo, hanno ventiquattr’ore per lavorare ad un hack. Mente libera. Fuori i problemi, gli studi, il lavoro, le discussioni con i genitori o il partner: concentrazione sul codice, sull’interfaccia e sulla migliore strategia di marketing per presentare il progetto e lanciarlo sul mercato. Gruppi di 8-10 persone, differenti professionalità, diversi modi di pensare e vedere lo stesso dilemma e la stessa soluzione. E’ possibile partecipare come gruppi o singolarmente e l’iscrizione è gratuita. Allo scadere del tempo, ai giovani viene data l'opportunità di illustrare le proprie creazioni di fronte ad

una giuria di esperti che ha il compito di giudicare e premiare l’idea migliore o più originale. «La nostra è una terra straordinaria – continua Roberto Calzini. Ci parla attraverso i frutti, i colori, attraverso l'eternità di un dipinto, di una costruzione. E' bellezza che rilassa e stimola la mente. Partiamo da qui. L’intento di questa particolare iniziativa, in questo particolare contesto, è quello di portare e diffondere la cultura e la sensibilità verso i valori di un’economia basata sulla conoscenza e sulla tecnologia, che ponga però al centro l’uomo e la sua capacità di fare e intraprendere. Sempre nel rispetto delle risorse ed in continuità con la propria storia. Oggi è poco più che un gioco, ma le sinergie tra l’economia immateriale e l’utilizzo consapevole del territorio sono reali e ancora poco esplorate: basti pensare al mondo dell’agricoltura, della produzione del cibo e della valorizzazione turistica». Nel corso delle edizioni precedenti, sono state sviluppate applicazioni per il riconoscimento facciale degli animali, per la mappatura dei nei e altre per individuare l’autenticità di un gioiello in oro o argento. Studenti universitari o giovani appassionati di informatica hanno contribuito, dalla Valdichiana, a dare vigore alla scena tech italiana. Innovatori, curiosi, sognatori e spiriti indomiti: pronti a liberate la creatività. L’appuntamento è al prossimo hackathon.


2017

hackcortona.com

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www.popcortona.it


Il lebbrosario di San Lazzaro |

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U P C U R I O S I TÀ

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UN POSSENTE EDIFICIO LUNGO VIA ROMANA CHE NELLA SECONDA METÀ DEL DUECENTO ERA LA STRUTTURA MEGLIO ATTREZZATA PER ACCOGLIERE I MALATI DEL TERRITORIO. NEL CORSO DEL TEMPO FU TRASFORMATO IN CENTRO PER LA LAVORAZIONE E IL COMMERCIO DI CEREALI, ATTIVITÀ PORTATA AVANTI PER PIÙ GENERAZIONI DALLA FAMIGLIA GUDINI FINO A POCHI DECENNI FA

C

i sono luoghi davanti ai quali passiamo in continuazione, ma presi dal trantran quotidiano non cogliamo la storia che ancora trasuda dalle loro pietre. Eppure le tracce del passato sono lì, ben visibili e desiderose solo di essere osservate e riscoperte. È questo il caso dell’antico lebbrosario di Arezzo, il possente edificio che si incontra lungo via Romana, nella zona che prende il nome di San Lazzaro proprio dall’ex ospedale di origine medievale. La costruzione è già documentata nella seconda metà del Duecento, il secolo in cui ci fu la maggi ore diffusione della lebbra in Occidente. Si calcola infatti che in quel periodo funzionavano in Europa circa 19.000 lazzaretti, che ospitavano le persone colpite dalla terribile malattia infettiva. Fondato dalla Comunità di Arezzo, il San Lazzaro era la struttura meglio attrezzata per accogliere i malati del territorio. Se la famiglia del paziente non poteva pagare la degenza, il Comune concedeva il ricovero gratuito. L’entrata nel lebbrosario segnava purtroppo un punto di non ritorno per il malcapitato e l’inter-

DI MARCO BOTTI

namento aveva un carattere di cerimonia funebre, perché per la collettività il lebbroso era un morto vivente. A partire dagli anni Trenta del Quattrocento l’ospedale aretino fu interessato da un generale rifacimento. A quel secolo apparteneva anche il loggiato, di cui affiorano oggi molti elementi nella facciata, come le sei arcate tamponate, parti di colonne e resti di capitelli in stile ionico. All’interno del complesso uomini e donne vivevano in settori separati, c’erano inoltre la casa dello “spedaliere” e un oratorio per le funzioni religiose. Dal XVI secolo l’ospedale di Santa Maria del Ponte (o Sopra i Ponti), il più importante della città, visse una grave crisi finanziaria. Per incrementarne le entrate Comune e Fraternita dei Laici tentarono più volte invano di chiudere il lazzaretto, con l’obiettivo di devolvere le sue rendite al nosocomio principale. Lo stato di disagio si acuì nei primi decenni del XVII secolo. Il 3 dicembre 1623 l’accorpamento delle due strutture ospedaliere andò finalmente in porto e il San Lazzaro, ormai privo di lebbrosi, si trasformò in convalescenziario.

Il 29 ottobre 1784 l’ex lazzaretto e il suo oratorio, considerati da tempo “inutili e di niuno uso”, furono acquistati dai Dini per 530 scudi. Il loro grande stemma familiare è visibile sulla facciata. Nel 1819 il sacerdote Antonio Dini, come recita un’iscrizione parzialmente perduta, fece realizzare una nuova chiesetta. Dalla metà dell’Ottocento l’intero complesso passò alla famiglia Gudini, i cui discendenti sono tuttora i proprietari dell’immobile. Il San Lazzaro venne trasformato in centro per la lavorazione e il commercio di cereali, attività portata avanti per più generazioni fino a pochi decenni fa. Nella sua storia plurisecolare il lebbrosario di Arezzo è stato luogo di grande dolore, ma anche lodevole esempio di sanità pubblica medievale. Non sono mancati nemmeno gli episodi curiosi, come la scaramuccia tra sessi opposti del 1603. Nel rapporto dettagliato, custodito oggi nell’Archivio di Stato di Arezzo, si scaricarono tutte le responsabilità sulle donne e sulla loro – testuali parole – “lingua pestifera”. “Errare è umano; dare la colpa a un altro lo è ancora di più” scrive Max Jacob. I maschi lo sapevano bene anche allora.


Nel lontano 1935, Donato Badiali fonda in Arezzo la “Tipografia Badiali”. La sede dell’azienda era ubicata in locali posti sotto le famose Logge del Vasari, nella prestigiosa Piazza Grande. L’ attività in questi locali, ha visto il succedersi di tutte le innovazioni tecnologiche di quei tempi. Dalla stampa tipografica con caratteri mobili, alla Linotype, madre delle più moderne fotocomposizioni. Nei primi anni ’70, Vittorio Badiali, sempre attento ai cambiamenti tecnologici, fonda anche la “Litostampa Sant’Agnese”. In questa azienda hanno visto la luce, le prime macchine da stampa offset e le prime fotocomposizioni. Nei primi anni ’80, grazie all’incremento dell’attività, è stata costruita

GRAFICHE BADIALI SRL Vi a M . C u r i e , 2 - 5 2 1 0 0 A R E Z Z O ( A R ) I TA LY Te l . + 3 9 0 5 7 5 9 8 4 1 2 0 grafichebadiali@grafichebadiali.it w w w. g r a f i c h e b a d i a l i . i t la nuova sede, dove tutt’ora l’azienda opera. Da allora, l’acquisizione delle tecnologie più moderne, hanno reso la “Grafiche Badiali” azienda leader del settore, in tutta l

provincia di Arezzo. I continui investimenti, ci hanno permesso, in questi ultimi anni, di portare all’interno

dell’azienda, la maggior parte delle lavorazioni, a vantaggio di un maggior controllo della qualità e dei servizi offerti alla nostra clientela. Infatti, l’esperienza acquisita e tramandata in quattro generazioni, in questi 80 anni di storia, ci consente di non essere semplicemente dei fornitori, ma un vero e proprio partner. Attenti ad ogni aspetto del nostro lavoro, dal 2011 abbiamo deciso di dotarci delle certificazioni ISO 9001:2008 per la qualità dei processi aziendali ed FSC per il prodotto, prestando grande attenzione e sensibilità, alla provenienza delle materie prime. Realizziamo cataloghi, brochures e depliant con i più vari sistemi di rilegatura sia nelle piccole che nelle grandi tirature, pieghevoli, manifesti, materiale commerciale, moduli in continuo, shoppers ed ogni tipo di packaging e gadget personalizzato, espositori e cartelli vetrina di ogni forma e formato. La nostra clientela è in genere altamente fidelizzata e distribuita in ogni settore merceologico: moda e tessile, eno-gastronomico, oreficeria, imprese di servizi, arredamenti, illuminazione e molti altri. Tra i nostri clienti annoveriamo: Prada, Graziella Group, Unoaerre, Textura, AEC Illuminazione, Monnalisa, Calzaturificio Soldini, CEIA, Gruppo Bancaetruria, Scart Group, Marchesi Antinori, Nannini Bags. Nel corso del 2015, abbiamo acquistato una nuova macchina da stampa f.to 70x100, la Roland 700 Evolution, la prima di questo modello venduta in Italia, la quinta in tutta Europa. Questa macchina a 5 colori con gruppo di verniciatura, ci permetterà ancora di più di

offrire quei servizi, che oggi una clientela sempre più esigente chiede. Se ci viene chiesto il perché di questo investimento così importante, in un momento di forte contrazione economica, a noi piace rispondere con un’aforisma di Albert Einstein: E’ dalla crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato.


FORTI PASSIONI, IDEE VINCENTI, UN PIZZICO DI FOLLIA.

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