UP Magazine Arezzo 08 - Primavera 2019

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magazine arezzo NUMERO 08 primavera 2019 UP LUOGHI storie della vera croce up arte madonna del parto up intervista vittorio sgarbi

Maria Maddalena Piero della Francesca



sommario

MARIA MADDALENA

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| UP LUOGHI |

STORIE DELLA VERA CROCE

30 | UP PEOPLE |

SAVERIO LUZZI

“SONO PIERO E DO RESPONSO A LE DEMANDE” | U P I N S TA G R A M |

#ITESORIDIPIERO #UPMAGAREZZO

| UP ARTE |

LA MADONNA DEL PARTO OMAGGIO ALLA FEMMINILITÀ

| UP ARTE |

RESURREZIONE

IL DIPINTO PIÙ BELLO DEL MONDO

| UP PEOPLE |

LUIGI LUCHERINI l'arte dell'ingegnere

| U P I N T E R V I S TA |

VITTORIO SGARBI SGARBI E ABBRACCI

| U P G U STO |

TERRA DI PIERO

| U P C U R I O S I TÀ |

IL PIERO perduto

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| UP COPERTINA |

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| U P I N T E R V I S TA I M P O S S I B I L E |


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In copertina Maria Maddalena di Piero della Francesca Up Magazine Arezzo è stampato su carta usomano che conferisce naturalezza e stile al giornale. In questo numero per la copertina abbiamo scelto il PANTONE 484 C

Bella la copertina di questo numero di Up, vero? Quando nella consueta riunione di redazione è nata l’idea di dedicare la rivista a Piero della Francesca, ci siamo guardati negli occhi e ci siamo domandati se ne saremmo stati all’altezza. Poi abbiamo fatto una prova di stampa e nessuno ha più avuto remore: sì, era la scelta giusta e ne valeva assolutamente la pena. Troppo intrigante la sfida di cimentarsi con uno dei maestri della pittura, con un genio che ha rivoluzionato il suo tempo e che per Arezzo è un fiore all’occhiello. Le pagine che seguono non sono trattati di storia dell’arte: non era questo il nostro intento, non avrebbe rispecchiato la filosofia del giornale e ci avrebbe condannato a qualche brutta figura. Abbiamo soltanto cercato di mettere in evidenza un percorso conoscitivo che ci porta a spasso

per il nostro territorio, mettendoci di fronte a capolavori assoluti che il mondo ci invidia e che noi, abituati come siamo a trovarceli davanti agli occhi, rischiamo di non apprezzare più fino in fondo. Dalla Maddalena alla Leggenda della vera Croce, dalla Madonna del parto alla Resurrezione: è come se Piero ci prendesse per mano e ci accompagnasse da Arezzo a Sansepolcro, passando per Monterchi, lungo un cammino di emozioni e suggestioni. Prendetevi un po’ di tempo e leggetelo questo numero del magazine: come al solito mescola storie, ritratti, luoghi, personaggi, interviste, fotografie e stati d’animo. Dentro c’è la storia e l’attualità, il bello in varie declinazioni, la passione sotto le sue molteplici forme. Dentro c’è Up!

Vice-direttore

Up Magazine Arezzo è una rivista a distribuzione gratuita Reg. al tribunale di Arezzo il 12/06/2017 N° 3/17

L’ARTE, IL BELLO, LA PASSIONE. UP STAVOLTA è SPECIALE

maurizio gambini

Anno III – N° 8 Primavera 2019 Direttore Responsabile Cristiano Stocchi Vice Direttore Maurizio Gambini Redazione Andrea Avato, Chiara Calcagno Mattia Cialini, Matilde Bandera, Marco Botti Art Director Luca Ghiori Fotografie Lorenzo Pagliai Si ringrazia Stefano Casciu Direttore Polo Museale della Toscana Rossella Sileno Direttore Basilica di San Francesco Annamaria Ippolito Curatore Basilica di San Francesco Serena Nocentini Direttore Ufficio diocesano per l'Arte sacra Silvia Mencaroni Assessore cultura e turismo Comune di Monterchi Lina Guadagni Direttore dei Musei Civici di Monterchi Lions club Arezzo host Giulio Cirinei Alessio Metozzi Patrizia Fazzi Stampa Grafiche Badiali - Arezzo Partners

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Direttore responsabile

Redazione e Amministrazione Atlantide Audiovisivi srl Via Einstein 16/a – Arezzo Tel. 0575 403066 www.atlantideadv.it

cristiano stocchi

magazine arezzo

UP EDITORIALE


Redazione

chiara calcagno

Redazione

mattia cialini

Redazione

Andrea Avato

REDA ZIONE matilde bandera

Redazione \ UP MAGAZINE AREZZO \ PRIMAVERA 2019

francesco fumagalli

Tipografo

lorenzo pagliai

Fotografo

marco botti

Redazione

Luca Ghiori

Art-Director

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UP COPERTINA

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Maria Maddalena Il capolavoro riscoperto

DA OPERA MINORE, DEFILATA IN PROSSIMITÀ DELLA SAGRESTIA E PER ANNI SEMINASCOSTA DALL’INGOMBRANTE CENOTAFIO IN MEMORIA DI GUIDO TARLATI, A MIRABILE COMPENDIO DI FEMMINILITÀ, REALISMO E NATURALEZZA. L’AFFRESCO, CUSTODITO ALL’INTERNO DEL DUOMO DI AREZZO, HA TROVATO IL GIUSTO RICONOSCIMENTO ARTISTICO SOLO NEGLI ULTIMI DECENNI, DOPO DIVERSI RESTAURI. OGGI È CONSIDERATO UNO DEGLI ESEMPI PIÙ FULGIDI DEL GENIO PIERFRANCESCANO DI MARCO BOTTI

Da opera minore a capolavoro pierfrancescano "Fece anco nel Vescovado di detta città una Santa Maria Madalena a fresco, allato alla porta della sagrestia”. Con queste poche parole Giorgio Vasari, nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori del 1568, liquida quasi en passant uno dei più grandi capolavori del Rinascimento presenti ad Arezzo, custodito nella parete sinistra della cattedrale. Stiamo parlando della Maddalena di Piero della Francesca, che assieme al ciclo della Leggenda della Vera Croce della basilica di San Francesco è

ciò che possiamo ancora ammirare di quello che l’artista di Sansepolcro ha realizzato in città. L’affresco ha trovato la giusta fortuna critica soltanto negli ultimi decenni. A lungo, infatti, è stata considerata un’opera minore di Piero, mentre oggi è reputata all’unanimità come una delle più affascinanti figure femminili eseguite dal maestro biturgense.

La presenza ingombrante del Cenotafio La collocazione defilata, in prossimità della porta della sagrestia, di certo non ha favorito fin da subito la valoriz-

zazione dell’opera. A questo possiamo aggiungere che nel 1783 le venne infelicemente addossato, quasi a nasconderla, il grandioso Cenotafio eseguito nel 1330 dai senesi Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura per celebrare il defunto vescovo e signore della città Guido Tarlati. In origine, infatti, il complesso marmoreo si trovava a destra dell’altare maggiore, nella cappella del Santissimo Sacramento, ma fu spostato nell’attuale posizione per volere del vescovo Niccolò Marcacci. Nel 1820, dulcis in fundo, fu inserita anche un’acquasantiera nella parte inferiore dell’affresco, che qualche danno aggiuntivo lo fece. Poi, per fortuna, venne rimossa. Nonostante la posizione appartata,

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non mancò di evidenziarla Gabriele D’Annunzio nella serie Le città del silenzio, inserita nel volume Elettra del 1903, quando parlando di Arezzo trasfigurò la santa – definita “Fiore di Magdala” – in Atena priva dei classici attributi guerrieri perché al servizio delle muse.

Chi era Maria Maddalena

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Detta anche Maria di Magdala, un villaggio di pescatori sulle sponde del lago di Tiberiade, secondo i Vangeli Maria Maddalena era una donna che Gesù liberò da sette spiriti cattivi. Da allora entrò a fare parte dei discepoli più devoti e fedeli. La tradizione la vuole prostituta redenta e questo – pensate un po’ – è solo perché nella pagina evangelica precedente all’episodio dell’esorcismo, riportata da Luca, si narra della conversione di una peccatrice che cosparge di olio profumato i piedi di Gesù, per poi asciugarli coi suoi capelli. Quindi, senza nessuna connessione, Maria di Magdala è stata identificata erroneamente con quella prostituta anonima, creando un equivoco plurisecolare. La Maddalena seguì Gesù fino alla fine sul Monte Calvario. Fu presente quando Giuseppe d’Arimatea depose il corpo del Signore nel sepolcro, così come fu lei a trovare la pietra rimossa che lo chiudeva. Si racconta che corse ad avvertire Pietro e Giovanni, i quali arrivarono alla tomba scoprendo l’assenza di Cristo. Mentre i due apostoli tornavano a casa, lei rimase sul posto e incontrò Gesù sotto altre sembianze, che in un secondo momento riconobbe. È l’episodio conosciuto come Noli me tangere (“non mi trattenere”). La prima testimone oculare della Resurrezione è venerata come santa e viene celebrata dalla chiesa cattolica il 22 luglio.

I restauri del passato Un primo recupero della Maddalena di Piero fu eseguito nel primo Novecento. Un altro restauro conservativo è quello di Leonetto Tintori degli anni Sessanta.

L’ultimo intervento importante è del 1994, eseguito da Guido Botticelli sotto la direzione tecnica di Stefano Casciu, attuale direttore del Polo Museale della Toscana, che fu indispensabile per fermare il degrado. Come racconta lo stesso restauratore, “l’intervento si svolse secondo la consolidata metodologia applicata per gli affreschi nell’ambito toscano, opportunamente verificata momento per momento sulla realtà materica e artistica dell’opera”. Nell’occasione fu confermato che il lavoro era stato eseguito a fresco in sette giornate consecutive, facendo uso di uno spolvero meticoloso per il trasferimento del disegno. Riguardo i colori della figura femminile, Piero usò terre verdi e rosse e il bianco di San Giovanni, che è il bianco per eccellenza dell’affresco, fatto di carbonato di calcio.

Una donna unica tra quelle del pittore biturgense Non si può rimanere indifferenti di fronte al magnetismo che trasmette l’opera. La femminilità e la bellezza profana della Maddalena di Arezzo colpiscono subito l’osservatore. Come scriveva la compianta soprintendente Anna Maria Maetzke, una per cui Piero della Francesca fu quasi una ragione di vita, essa “non ha confronti con le altre figure di donna di tutta la sua carriera”. La santa è collocata in piedi, all’interno di un arco a tutto sesto dipinto con decorazioni e fregi formati da eleganti palmette e altri elementi. L’artista dà profondità alla nicchia giocando mirabilmente con le colonne, i capitelli e l’arcata. Sullo sfondo, purtroppo, il cielo azzurro è quasi perso perché eseguito con tecnica a secco, così come l’aureola dorata. La Maddalena di Piero è giunonica nelle forme, straordinaria per il realismo quasi fiammingo e la naturalezza dei capelli sciolti che le coprono le spalle. Sono gli stessi che, secondo la tradizione, la donna usò per asciugare i piedi di Gesù dopo averli cosparsi di un unguento contenuto nel vaso di ve-


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LA TECNICA DELL'AFFRESCO

L’affresco è una antica tecnica murale nella quale i colori sono stesi sull’intonaco ancora umido. Poiché si asciuga in fretta, esso non consente ripensamenti. Ogni volta si può intonacare soltanto la porzione di parete che l’artista è in grado di dipingere nell’arco della giornata. Esso dovrà farlo con estrema precisione e velocità, prima che la malta asciughi. L’intonaco è realizzato unendo sabbia di fiume, polvere di marmo o pozzolana, calce e acqua. I colori sono invece ottenuti dalla macinazione di sostanze minerali e vegetali, che applicate sul fondo umido penetrano e ne divengono parte integrante. Visto che non si possono fare correzioni, queste ultime sono eseguite intervenendo con la pittura a secco. Se si trovano in condizioni climatiche buone, gli affreschi hanno una conservazione lunghissima, quasi illimitata. Da qui la fortuna che questa tecnica ha avuto per secoli e secoli.



biografia di piero della francesca

Nasce Piero di Benedetto de' Franceschi a Borgo Sansepolcro

1445

Un dettaglio dell'affresco raffigurante il vaso di vetro nella mano sinistra di Maria Maddalena, dove era contenuto l'unguento utilizzato sui piedi di Gesù

Anno d'inizio del Polittico della Misericordia di Sansepolcro

1452 Anno d'inizio del ciclo La leggenda della Vera Croce

1459 tro della mano sinistra, altro simbolo iconografico tipico del personaggio, di cui il genio rinascimentale accentua la resa tridimensionale e la lucentezza. Una seconda lettura fa riferire il recipiente a quello di oli aromatici, con cui la seguace unse il corpo di Cristo nel sepolcro.

Uno sguardo profondo e umano L’incarnato del volto è indimenticabile. Umanissimo per le guance appena arrossate, le labbra carnose e il collo valorizzato dalla luce che lo colpisce da sinistra. La donna ha uno sguardo dolce e pensieroso, profondo ed espressivo, certamente meno ieratico di tutte le altre figure femminili pier-

francescane. L’abbigliamento, eseguito con colori densi e accesi, merita un discorso a parte. Tutta l’opera è infatti risaltata dal verde della veste e dal binomio bianco-rosso del mantello. Le pieghe e i drappeggi delle stoffe danno un volume magistrale a tutta la figura. Con un movimento sicuro la Maddalena tiene con la mano destra un lembo del manto rosso foderato di bianco. La leggera torsione del corpo in direzione opposta al viso toglie, infine, gli ultimi residui di staticità alla scena. Il dipinto fu eseguito in un arco di tempo compreso tra il 1459 e il 1466. Erano gli anni in cui veniva portata a compimento La Leggenda della Vera Croce in San Francesco, capolavoro dell’arte universale e oggi il principale biglietto da visita turistico di Arezzo.

Piero della Francesca viene chiamato in Vaticano da papa Pio II

1467 Ritorna a Sansepolcro per ricoprire importanti cariche pubbliche

Negli anni Quaranta viaggia in Toscana, Umbria, Marche, Emilia e Romagna. Nel 1445 gli viene commissionato, a Sansepolcro, il celebre Polittico della Misericordia. Nel 1451 lavora a Rimini nel Tempio Malatestiano. Nel 1452 subentra al defunto Bicci di Lorenzo nella realizzazione del ciclo La Leggenda della Vera Croce nella chiesa di San Francesco, ad Arezzo, che porterà a termine, lavorandoci in momenti diversi, entro il 1466. Nel 1454 arriva anche l’incarico per il Polittico di Sant’Agostino della sua città e sempre agli anni Cinquanta dovrebbe appartenere La Madonna del Parto per Monterchi. Nel 1459 è in Vaticano per una committenza di papa Pio II. Negli anni Sessanta dipinge per il Palazzo dei Conservatori di Sansepolcro la celebre Resurrezione. Allo stesso decennio appartengono il Polittico di Sant’Antonio per Perugia e la Flagellazione di Cristo di Urbino. Nel 1467 viene richiamato a ricoprire importanti cariche pubbliche nella sua città. Tra 1465 e 1474 realizza capolavori per Federico da Montefeltro, duca di Urbino, oggi conosciuti come la Pala di Brera, il Dittico dei duchi e la Madonna di Senigallia.

1492 Sepoltura dell'artista nella Badia di Sanspolcro

Dopo la morte, viene sepolto nella Badia di Sansepolcro il 12 ottobre 1492, giorno della scoperta dell’America.

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1416/17

Piero di Benedetto de’ Franceschi, meglio conosciuto come Piero della Francesca, nasce intorno al 1416/17 a Borgo Sansepolcro. Pittore e teorico di scienze matematiche e geometria, si forma con il maestro Antonio d’Anghiari e quindi si trasferisce a Firenze nel 1439 per collaborare con Domenico Veneziano.


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U P I N T E RV I S TA I M P O S S I B I L E

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Sono Piero. E do responso a le demande 12 \ UP MAGAZINE AREZZO \ PRIMAVERA INVERNO 2019 2019

IL GENIO DI BORGO SANSEPOLCRO SI CONCEDE PER LA PRIMA VOLTA AI TACCUINI DI UN GIORNALISTA. DALL'ENIGMA SULL'ANNO DI NASCITA AL PEPATO INCONTRO TRA IL FRATELLO MARCO E BONANNA BACCI, LA MODELLA DELLA MADDALENA. INTERVISTA IMPOSSIBILE, MA VEROSIMILE, A UN MAESTRO DELLA PITTURA (E DEL SOTTILE UMORISMO) DI MATTIA CIALINI

B

uongiorno, maestro. “Lo est?” Per me sì, è un'emozione incontrarla. “Per qual cagione siete fermo al mio cospetto?” Vorrei porvi delle domande sulla vostra vita, se non vi crea disturbo. “In verità, mi indigna alquanto esser distolto dal mio cogitare ma, se non v’è petitio di pecunia, darò responso a le demande. Purché lecite”. Grazie maestro, possiamo dunque cominciare? “Bene, o messere vestito in buffa guisa. Principiamo”. Ci deve svelare il primo grande mistero della sua vita. Quando è nato?

Da quel che scrive il Vasari, nel 1406. Perché alla sua morte, nel 1492, le attribuisce un'età di 86 anni. Ma risulta che i suoi genitori siano sposati soltanto dal 1410. E' nato nel 1411 o nel 1412, essendo il primogenito? “Churiosità sachrosanta, o buffo interrogante. Ma non svelerotti l'arcano”. Perché? “Da secoli est una disputa su lo anno che donna Romana, matre mia amatissima, scodellommi. E Giorgio de' li Vasari, che io non chonobbi, fu bono meco ne li scritti sua. Eviterei a lui una cacìna figura. Io fui edotto in geometria et in mathematica, lui mica tanto”. Intanto lo sta prendendo in giro. Pare che lei abbia un sottile gusto per l'u-

morismo. “Rivelerotti lo anno di nascita mio in un orecchio, son magistro nel crear mistero”. Vabbè, lasciamo perdere. Tra l'altro, risulta che Vasari non sia stato “bono” con lei. Ne “Le vite” lei ha proprio un ruolo marginale. “Chuello est perché lo Vasari doveva magnifichare la Toscana. Et io tosco non sono. So' del Borgo!” Ma quella leggenda per cui Vasari sbagliò apposta date e dettagli delle sue opere per sminuire il suo valore? “Chalunnie. C'è dietro la pulchra storiella di Marcho, frate mio, e Bonanna de' li Bacci. Che non confermo et non smentirotti”.


Uno dei soldati dormienti ai piedi del Cristo nella Resurrezione. È un probabile autoritratto di Piero della Francesca

Però ce la racconti. “Servivami una madama come modella per la Magdalena del Domo de 'Rezzo. Et Maria de Magdala, ante de lo incontro con Christo...” Era una prostituta. “Bene. Illo tempore havevo un conto in sospensione con Luigio Giovanni de' li Bacci, patre de la Bonanna. La chuale - Bonanna de nome et de facto - servivami da modella per ambo motivi: avere una pulchra pulzella da pitturare in guisa de la Magdalena et vendicarmi sottilmente de lo tirchio babbo suo. Tutta 'Rezzo avrebbe visto la fijola sua come peripatetica nel Domo!” E che c'entra suo fratello Marco?

“Quel disghraziato rischiava de mandare lo piano mio a lo monte. Poiché de la pulzella s'era invaghito. E pareami che ella richambiasse. Dissi lui: “Hai moglie et fijoli, vergognati dinanzi a Iddio!. Lo ricacciai al Borgo prima de lo fattaccio”. E poi? “Beh, terminai la pittura e – con sommo complacimento – mirai lo compiuto laboro. Lo diabolico piano completo era. A illo punto, lo frate mio poteva ancho far ritorno a 'Rezzo e satisfare le voglie de li lombi sua”. Sì, ma Giorgio Vasari? “Chuello artista millantatore, venti lustri dopo, prese in isposa Niccolosa

Bacci, pronipote de la Bonanna. Il matrimonio celebrossi in Domo, sotto lo dipinto mio. Che onta per lui quando chonobbe la istoria de quella pittura!” Maestro, mi pare che abbia perso l'aplomb parlando di Vasari. Mi dica, quindi, lui si vendicò? “Io, all'epoca, ero già concime per li flori. E lo Vasari, accidenti a lo archivio suo, errò deliberatamente date et informationi de la vita mia ne li scritti sua, attribuendo meco meno valore de li Magni de lo Rinascimento. Et fino a lo 1800 la pittura de la Magdalena ignota ai più est stata”. Cambiamo argomento, è vero che suo padre fu molto duro?

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“Borgo Sanseplocro nel '400 era magno e ricco oppido: abitavanovvi 4.300 cristiani! Lo patre mio rispettabile homo era in questo Borgo. Era conciatore et di pelli e di panni, ricco merchante. Sì come ne lo laboro severo era, parimenti lo era ne la magione sua”. Si conciliò mai con suo padre? “Sempre pacato ebbi modo di essere. Et anche lo patre mio presi per lo bon verso de lo pelo. Modestamente, lo genio mio utile fu nel negotio di familia”. In che senso? “Cosa est il guado?” Il punto più basso di un fiume. “Est ancho una planta utilissima ad tingendum. Illo tempore erano nella valle tiberina magni campi de guado. Da lo guado ottenevansi il colore indaco per la tintura de li panni. Pria, il turchino ar-

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rivava soltanto dalla lontana Bagdad e costava un occhio de lo capo. Sicché, io inventai una technica nova per tirare fora lo colore da lo guado con la gualchiera de proprietà de lo patre mio. Et inchrementai lo guadagno per la familia mia”. Come è diventato pittore? “Sempre lo fui, ancho da fanciullo. Lo patre mio mandommi presto ad affinar lo mestiere, perché lo talento manifesto era. Camaldoli, a exemplo, era vivace centro de cultura e pittura. Et poi fui in contatto con la schola florentina. Ma mai pinsi a la maniera tosca, la fede mia stabat ne la proportione, ne la mathematica, ne la geometria: ma maxime ne la ratio, assai rara all’odierno tempore ”. Perugia, Firenze, Roma, Ferrara, Ur-

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Dettaglio di un volto nel Polittico della Misericordia in cui Piero della Francesca ha forse voluto rappresentare se stesso

bino: è stato un giramondo. “Andavo là, ove la mia arte richiesta era. E, parimenti, dove lo grano assicurato per ingrossar la borsa era in gran copia, unitamente ad un alloggio e al mangiar cotto. Ma ‘l Borgo Sansepolcro sempre fuit casa mia et ivi ogni volta feci retorno”. Non ha avuto eredi. “Volli bene a familiari et amici, serbai amore mio a la chanoscenza, a la beltade, a la verità, a la ricerca”. Non ha mai nemmeno avuto allievi, perché? “Li compagni di lavoro mia li trovavo in loco. Romani a Roma, aretini a 'Rezzo, urbinati a Urbino. Una nova squadra per ogni diverso laboro. Ma tanti possono essere li allievi miei. Ne li scritti di prospectiva parlo a l'ideale mio discepolo”. Ha avuto una lunga vita, ma negli ultimi anni era diventato cieco. “Ebbi da lasciare la pittura per via d’un catarro a li occhi. Scrissi li tractati su la commensuratio. La eredità – dopo lo mio trapasso - andò ai fijioli di Marcho, lo caro frate mio, pria di me trapassato, all'altro frate mio Antonio e alla di lui prole. Lasciai però ancho un po' de beltade ne lo mondo e multe sollicitationi per far le menti cogitare. Qua e là, dentro e fora de le terre de 'Rezzo. Chuelle sunt un regalo per tutti voialtri che le potete guatare”. L'intervista è sospesa tra episodi verificati e altri di fantasia, che ho cercato di rendere verosimili in accordo alle testimonianze sulla personalità di Piero della Francesca. Ringrazio di cuore Donatella Zanchi, profonda conoscitrice di Piero della Francesca, a cui ho chiesto consulenza, anche per l'entusiasmo con cui ha accolto l'iniziativa. A lei devo la revisione dell'articolo e l'integrazione in alcune sue parti. L'episodio di Marco e Bonanna è tratto da “La Maddalena di Piero della Francesca” di Maria Luisa Ghianda pubblicato su Doppiozero https://www.doppiozero. com/materiali/fuori-busta/la-maddalena-di-piero-della-francesca


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V I A

M O N T E

F A L C O

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A R E Z Z O


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UP LUOGHI

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il tempo della vera croce È “IL” LEGNO IL PROTAGONISTA: QUELLO DELL’ALBERO PIÙ ANTICO, QUELLO FRA LE CUI VENATURE ERA SCORSO IL SANGUE DI CRISTO, QUELLO IN GRADO DI ACCOMPAGNARE ATTRAVERSO LA MORTE E RIDARE LA VITA. UN LUNGO, INTENSO E STRAORDINARIO VIAGGIO PER IMMAGINI, FRA GEOMETRIA, ESTETICA E SIMBOLISMO. SOSPESO FRA STORIA E... LEGGENDA DI CHIARA CALCAGNO

C’

è stato un tempo in cui quella croce non era soltanto il simbolo della cristianità. Non un oggetto davanti al quale inginocchiarsi chiedendo aiuto o perdono. C’è stato un tempo in cui la semplicità di due legni che, perpendicolarmente, si trafiggono, doveva esercitare un potere tale da muovere interi popoli. Le persone si consumavano dallo struggente desiderio di avere un contatto con quel sacro simbolo: la voglia di vederlo, baciarlo, comprenderlo. La croce della morte e della rinascita, delle sofferenze e della speranza, del giudizio e della salvezza.

La realizzazione Corre l'anno 1452 quando Bicci di Lorenzo, artista designato dalla ricca famiglia di mercanti di Arezzo, i Bacci, per dipingere il ciclo di affreschi dentro la chiesa di San Francesco, muore lasciando incompiuto il lavoro. Subentra così Piero della Francesca, che si dedica all'opera con lentezza: l’ultimo pa-

gamento documentato è del 1466. Nel mezzo, persino un soggiorno a Roma, chiamato da papa Niccolò V per dipingere le stanze vaticane. Quando si appresta a decorare la cappella Bacci, sa che dovrà riuscire a inquadrare la sua arte rivoluzionaria, geometrica e prospettica in un vano gotico; concepire qualcosa di dirompente su una strada già troppe volte battuta da altri.

Storia di una leggenda Tema scelto? La storia della Vera Croce, desunta da un’opera medievale celebre, la “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine. Protagonista "Il" legno: quello dell'albero più antico, quello fra le cui venature era scorso il sangue di Cristo, quello in grado di accompagnare attraverso la morte e ridare la vita. La storia di questa leggenda è lunga e complessa: un groviglio di tradizioni, varianti e interpretazioni che abbraccia pellegrini, racconti di viaggiatori e testi sacri fra mito e storia.

Nella versione di Jacopo da Varagine la narrazione inizia al tempo di Adamo, quando il primo uomo, sentendo la morte toccargli la spalla, manda il figlio Seth alle porte del Paradiso per ottenere l'olio della misericordia. L'arcangelo Michele, invece, dona al giovane i semi dell'albero della vita, invitandolo a collocarli sotto la lingua del padre al momento della sepoltura. Da questi germoglia l'albero destinato a diventare leggenda. Si passa al 967 a.C. quando il re Salomone, durante la costruzione del tempio di Gerusalemme, ordina che la pianta venga abbattuta e utilizzata. Ma gli operai non riescono a trovare collocazione al materiale dell'albero: i rami sono sempre o troppo corti o troppo lunghi e, anche se vengono tagliati a misura, sembra abbiano il potere di ridursi o ampliarsi. I lavoratori, spazientiti, decidono di usare la pianta come semplice passerella sul fiume. La regina di Saba, trovatasi a varcare il torrente, ha la visione del futuro della tavola e si inginocchia in adorazione. Avverte della profezia Salomone che, preoccupato per i lutti e le sciagure

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La pittura di Piero è maestosa, in grado di forgiare figure che occupano solennemente gli spazi loro riservati in un gioco di equilibri formali

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che avrebbe portato al popolo ebraico oppure intenzionato a proteggere l’oggetto, decide di farlo sotterrare. Le tracce si perdono fino all'anno della morte di Gesù quando il legno viene ritrovato e con esso costruita la croce. Poi nuovo oblio fino al 312. E' la notte prima dello scontro con Massenzio e, all'imperatore romano Costantino, appare in sogno una croce, luminosa e potente con la scritta "in hoc signo vinces". L'imperatore diventa baluardo della Cristianità, decidendo di guidare le sue truppe sotto il simbolo della croce e, nella battaglia di Ponte Milvo, conquista una storica vittoria. Costantino invia allora la madre Elena a Gerusalemme per cercare la croce della crocefissione e lei, per assolvere il compito, tormenta e tortura gli ebrei. Uno di essi, guarda caso di nome Giuda, calato

in un pozzo e afflitto dalla fame, rivela il luogo della sepoltura. Vengono così alla luce le tre croci del Golgota, quella di Gesù e quelle dei due ladroni. Per capire quale sia quella autentica, Elena sfiora con i legni un defunto che, al contatto con la Vera Croce, risorge. Il legno viene diviso in diverse parti e il più grande viene lasciato a Gerusalemme. La città santa custodisce le reliquie fino al VII secolo quando l'impero persiano, guidato dal re Cosroe II, riesce a espugnare le mura e la croce viene trafugata. Dopo anni di sanguinose battaglie, il sacro simbolo è recuperato dall'imperatore di Bisanzio, Eraclio, con la vittoria sulle rive del Danubio. Il re, vestito da umile pellegrino con in spalla la croce, torna a Gerusalemme il 21 marzo del 630, acclamato dal popolo.

Una maestosa panoramica dal basso del ciclo della Vera Croce nella Cappella Bacci di Arezzo

L’ordine sconvolto Questa la storia dipinta da un punto di vista cronologico. Un ordine che non combacia con quello estetico, matematico e teologico-filosofico che guida la mano di Piero della Francesca. “Dipingere – diceva – non è altro che disegno, proporzione di misure e colore”. L’opera, per lui, assume valore nell’impatto


d’insieme. Tutto deve essere studiato e calibrato. Tutto ha una sua collocazione precisa. Sia nella forma, sia nel significato. Da un punto di vista iconografico, Piero aveva a disposizione come modelli gli affreschi di Agnolo Gaddi nel coro di Santa Croce a Firenze, quelli di Cenni di Francesco nella cappella della Croce di Giorno a Volterra e quelli di Masolino nella cappella di Sant'Elena a Empoli. Decide di andare oltre. Proviamo a stendere, come un rotolo di pergamena, le tre pareti dipinte da Piero e mettere a confronto quella di destra con quella di sinistra. I dipinti sono disposti su tre registri distinti. Nei lunettoni archiacuti, in alto, la scena è divisa verticalmente da un albero, nei rettangoli di mezzo figurano scene di corte con a sinistra spazi all’aperto e a destra aree al chiuso o ben

delimitate. Nel registro in basso le due battaglie con, in entrambi i casi, a sinistra i vincitori e a destra i vinti. Adesso la parete frontale: al centro i due profeti sono speculari, sotto, in rilievo, le diagonali dei legni e, in basso, le due annunciazioni, le chiavi di volta della storia. Non è solo forma. Come in un orologio, la prima scena toccata dalla lancetta è quella in alto a destra. Si svolgono tre momenti ai piedi dell’albero: Adamo morente che chiede al figlio di procurarsi l’olio della misericordia, il dialogo fra Seth e l’arcangelo Michele e la morte del primo uomo sulla terra accompagnata dalla disperazione e dallo sgomento dei presenti. Eppure la protagonista è la rigogliosa pianta, è di essa che si narrano le vicende. Non a caso, infatti, l’altra lunetta, quella di sinistra, chiude e completa il ciclo. La croce di Cristo, il nuovo

albero della vita, viene riportato a casa, a Gerusalemme. Al peccato originale di Adamo si contrappone la devozione di Eraclio che, con abiti da pellegrino, scende da cavallo per compiere il gesto da umile servitore. Centrale è la croce salvifica alla fine del suo tormentato viaggio. Anche le scene nel riquadro in mezzo si comprendono insieme. Alla destra il legno che viene riconosciuto dalla regina di Saba e quindi sepolto dal re Salomone. Alla sinistra la croce che viene dissotterrata, riportata alla luce da Elena e, di nuovo, riconosciuta con il compimento di un miracolo. Scene di battaglia: i tratti sono rallentati, i personaggi quasi statici. Quella di sinistra più cruenta e soffocante - si combatte l’idrolatria – contrapposta a quella di destra volutamente non violen-

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A sinistra, alcuni dettagli dei dipinti pierfrancescani della “Leggenda”, tra cui, in basso, il “Sogno di Costantino”. A destra, la facciata della Basilica di San Francesco ad Arezzo

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ta, qui anche la natura e la quiete trovano spazio. Passiamo poi ai due momenti in cui l’angelo si presenta per portare un messaggio dal cielo modificando l’andamento della storia dell’uomo. A sinistra l’annunciazione a Maria, una scena non prevista nella leggenda della Vera Croce. La palma che l’angelo stringe fra le mani al posto del tradizionale giglio, crea molti dubbi sull’interpretazione della notizia. A destra di nuovo un angelo. Questa volta ha in mano una croce, il simbolo che condurrà l’esercito alla vittoria. E’ l’elegante e celeberrimo notturno di Piero, una delle pietre angolari della storia della pittura. Le tenebre trapuntate di stelle si arrendono alle prime luci dell’alba. La tenda, aperta e sorvegliata da due guardie, lascia intravedere l’imperatore Costantino, addormentato, mentre un altro personaggio, ai suoi piedi, veglia sul sonno. Egli guarda verso lo spettatore attirando la sua attenzione per poi direzionarla verso la guardia, voltata di spalle. La lancia, stretta nella mano di quest’ultimo, indica l’angelo. L’occhio vede la croce prima di spostarsi sul dormiente, poi, conseguentemente, sull’altra guardia che tende la mazza verso il primo personaggio. Si chiude il cerchio. La luce mistica sembra emanata dal sacro oggetto. Accende il giaciglio, lasciando nella penombra i soldati e lo sfondo.

Uno stile unico La pittura di Piero è maestosa, in grado di forgiare figure che occupano solennemente gli spazi loro riservati in un gioco di equilibri formali. Uno studio geometrico certosino, linee rette e curve, vuoti e volumi, colori compositi. La forma diventa sostanza, nel complesso armonico che il pennello sa costruire, la calma placida delle figure riflette quella dell'artista, che


invita lo spettatore alla meditazione di fronte allo spettacolo che ha di fronte a sé. "Est rebus in modus", diceva il poeta latino Orazio: l'equilibrio, il giusto "mezzo", la fuga dagli eccessi. Le passioni umane fanno largo alla razionalità e, quindi, alla bellezza nella concezione rinascimentale pierfrancescana. La luce tenue, il tempo sospeso, gli sguardi profondi, l'atmosfera eterna. Piero ci conduce per mano in una ricerca religiosa e al contempo laica, attraverso un' illuminata consapevolezza. Un invito all’incontro e al dialogo etico e culturale.

I tanti ammiratori L'incanto della Leggenda della Croce, narrata da Piero della Francesca, ha attirato e continua ad attrarre ad Arezzo migliaia di visitatori da tutto il mondo,

desiderosi di concedersi un respiro di eterna bellezza. Fra questi ci sono stati Gabriele d'Annunzio che ha definito gli affreschi di San Francesco «il giardino di Piero», Andrè Suarès, William Weaver e i premi nobel Josè Saramago e Gabriel Garcia Marquez. Anche Pier Paolo Pasolini si trovava ad Arezzo negli anni 60 per far visita all'amico Ninetto Davoli che prestava servizio militare in città; la visita alla cappella Bacci ispirò il componimento poetico “La ricchezza” che apre la raccolta “La religione del mio tempo”. Il ciclo della Vera Croce è presente in una delle scene più famose del film “Il paziente inglese” del regista americano Antony Minghella: Hana e l'arteficiere entrano in una chiesa abbandonata. La facciata è quella del Duomo di Montepulciano ma l’interno è quello della cappella Bacci. Una visione

di perfezione, arte e spiritualità in mezzo a tanta devastazione. Nell'album Banga del 2012 di Patty Smith c'è una canzone dal titolo Constantine's dream, scritta grazie al sodalizio artistico con la Casa del vento, che inizia così: “In Arezzo I dreamed a dream”.

E la crocifissione? Ma perché in un ciclo di affreschi che narrano le vicende della croce di Cristo non figura il momento della crocifissione? Perché il crocefisso già è presente. Come in ogni chiesa. Piero lo sa bene. Basta fare qualche passo indietro e notare che i dipinti non fanno altro che incorniciare ed esaltare la Vera Croce, sospesa sopra l’altare. Non più simbolo di patimento, ma di umana liberazione.

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L'ordine cronologico della leggenda non combacia con quello estetico, matematico e teologico-filosofico che guida la mano di Piero della Francesca


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lindaemmestory

The State Hermitage museum

#upmagarezzo #ITESORIDIPIERO DI MATILDE BANDERA

#iTesoriDiPiero sono ammirati e studiati in tutto il mondo, tanto che l’Hermitage di San Pietroburgo ne ha ospitati ben undici durante la rassegna "Piero della Francesca Monarch of Painting", la più vasta sull'artista fino ad oggi. Due opere in esposizione, rispettivamente gli affreschi del San Giuliano e del San Ludovico, sono state concesse per la trasferta dal Museo Civico di Sansepolcro. Su Instagram sono stati condivisi moltissimi post sulla mostra: ve ne proponiamo due di @lindaemmestory, che ringraziamo per aver seguito l’evento. Vi invitiamo a continuare a taggare i vostri post su Arezzo e provincia con l’hashtag ufficiale #upmagarezzo, per condividere con noi il vostro punto di vista sulla città e le sue bellezze.

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UP ARTE

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omaggio alla femminilità A MONTERCHI, A METÀ STRADA TRA AREZZO E SANSEPOLCRO, I VISITATORI POSSONO AMMIRARE LA MADONNA DEL PARTO, SINTESI DEL PENSIERO TEOLOGICO, SCIENTIFICO E ARTISTICO DEL RINASCIMENTO. CONSIDERATA UNA DELLE OPERE PIÙ FASCINOSE DI PIERO DELLA FRANCESCA, È LA CELEBRAZIONE AUSTERA E SOLENNE DELLA MATERNITÀ DI MATILDE BANDERA

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A

rrivare nel piccolo borgo di Monterchi attraverso la valle del Cerfone è un'esperienza suggestiva, che circa 30.000 visitatori ogni anno decidono di compiere esclusivamente per ammirare dal vivo la bellezza e l'enigmaticità della Madonna del parto, affresco salvo per miracolo nonostante molti terremoti e tentativi di trafugamento, grazie all'affetto e alla devozione dei monterchiesi. Il capolavoro, databile tra il 1459 e il 1460, è stato commissionato a Piero della Francesca probabilmente dai priori di Monterchi, in seguito all’esigenza di costruire un convento francescano all'antica chiesa di Santa Maria di Momentana. Ciò che ne rimane oggi rappresenta un frammento dell'opera originale, ed è custodito in una teca climatizzata e antisfondamento presso un museo intitolato alla stessa opera, diretto dalla dottoressa Lina Guadagni. La Madonna del parto incanta i visitatori con le sue linee morbide e la sua postura fiera: Piero della Francesca, confermando ancora una volta uno

schema narrativo rivoluzionario, ha scelto di ritrarre una scena biblica trasformandola in un evento del suo tempo. Maria viene rappresentata come una dama dell’epoca, in uno stato di gravidanza visibilmente avanzato: indossa la gamurra, la tipica veste delle gestanti, in grado di allargarsi sia lateralmente che frontalmente. Proprio da quell'apertura sul ventre, posta al centro dell'opera, la Madonna mostra fiera il mistero della vita che cresce dentro di lei esprimendo consapevolezza e tristezza. Se da un lato infatti sa che suo figlio verrà al mondo come frutto di un amore divino e che non è in grado di spiegare, dall'altro ne conosce già il destino, poiché lo perderà nel momento stesso in cui si sacrificherà per gli uomini. Tutto in quest'opera è perfezione, corrispondenza, misura: a partire dalle linee geometriche in cui è inscritta la scena, fino ad arrivare ai dettagli impossibili da percepire ad occhio nudo e che ho potuto cogliere grazie all'accurata descrizione della direttri-

ce Guadagni, nel mostrarmeli ingranditi in un monitor a disposizione dei visitatori all'interno del museo. Zoomando sulle varie porzioni dell’affresco possiamo cogliere alcuni particolari, come il sottile velo perlinato che avvolgeva la testa della Madonna, di cui è rimasta una traccia appena percettibile; i leggeri segni lasciati dal colore che testimoniano i sette giorni impiegati per la realizzazione dell'opera; fino ad arrivare al motivo a righe della parte superiore della tenda, di cui è rimasto un piccolissimo frammento. Ma questi sono “solo” dettagli. Ciò che rapisce letteralmente lo sguardo è la luce quasi perlacea, sprigionata dal volto di Maria, tipica di una donna in dolce attesa: Piero le ha attribuito quest'ulteriore caratteristica, regalandoci un'opera di una bellezza smisurata e innovativa. Sebbene infatti per una donna sia oggi di uso comune posare per delle foto ricordo durante le settimane di gravidanza, un tempo questo particolare periodo di preparazione e cambiamento veniva vissuto con molta riservatezza dalle interessate. Era quindi decisamente inusuale immaginare


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una donna incinta mostrarsi in quella postura dignitosa e piena di decoro, anziché mascherare il suo stato. Gli angeli posti a lato della Madonna tengono aperta la sontuosa tenda, luogo di incontro tra Dio e gli uomini nell'antico testamento, rivelando allo spettatore il compimento di quest'atto divino e rendendolo partecipe dell'omaggio che Piero della Francesca ha

voluto fare all’essenza stessa della femminilità. Con i suoi lineamenti gentili e la raffinatezza di una grande dama del Rinascimento, Maria potrebbe essere una donna qualunque se dalla sua figura non trasparissero la regalità, la santità e la spiritualità percepibili sin dal primo sguardo. Nella sua semplicità, questo capolavoro è considerato la sintesi di tutto il

pensiero teologico, scientifico e artistico del Rinascimento, che ha saputo, e sa ancora, comunicare emozioni uniche e messaggi di speranza all'intera umanità: la Madonna del parto suscita una profonda sensazione di rispetto verso la grandiosità della Natura, che consente il perpetrarsi di qualcosa di così elevato e importante come la creazione di una nuova vita.


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Il dipinto più bello del mondo LA PRESENZA DELLA RESURREZIONE RISPARMIÒ SANSEPOLCRO DAI BOMBARDAMENTI NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE. IL MOTIVO? IL VISIONARIO AUTORE BRITANNICO ALDOUS HUXLEY L'AVEVA DEFINITA "LA MIGLIOR PITTURA DI SEMPRE". E IL CAPITANO ANTHONY CLARKE, CHE AVEVA LETTO IL TESTO, ORDINÒ IL CESSATE IL FUOCO. I SETTE ASPETTI PER CUI L'OPERA RAPPRESENTA UN CAPOLAVORO CHE “SALVA” L'UOMO ANCHE NEL 2019


DI MATTIA CIALINI

"I

l dipinto più bello del mondo”. E' il 1925. Parola di Aldous Huxley, scrittore maestro di George Orwell e autore dei classici distopici Brave New World e The Island. Huxley si riferisce alla Resurrezione che Piero della Francesca dipinse nel palazzo del Governo cittadino di Sansepolcro (oggi museo civico) a metà del Quattrocento. Pesante, eppure affascinante l'affermazione: perché pronunciata da uno scrittore visionario. Un precursore, capace, già un secolo fa, di porre dilemmi brutalmente attuali oggi: l'ingegneria genetica, il controllo delle masse, la radice del libero arbitrio. Ma quanto lontano arriva lo sguardo di Huxley? Potrebbe aver ragione anche sul primato del pittore biturgense? L'arte di Piero della Francesca è stata relegata ai margini per secoli, soltanto nell'Ottocento – grazie all'interesse sviluppatosi Oltremanica – fu rivalutata. Come mai? Una chiave per interpretare il successo di Piero riscosso negli ultimi decenni è senz'altro attribuibile alla modernità della sua opera. Universale, senza tempo. Forse, in grado di spalancare strade del pensiero non ancora battute. Perché (anche) di filosofia discute Piero nei suoi dipinti. A margine di questa speculazione, c'è poi un episodio: di quelli che paiono costruiti a tavolino, o almeno ingigantiti ad arte, per potenziare l'aura leggendaria attorno alla Resurrezione pierfrancescana. Perché se non possiamo sostenere con certezza quanto quest'opera sia stata cristianamente “salvifica” - ispirando nei secoli la rettitudine dei fedeli biturgensi o dei forestieri visitatori - da qualche tempo si hanno le prove di un salvataggio concreto, operato dalla bellezza di questo dipinto. Era il 1944 e Sansepolcro si trovava a

fare i conti con l'occupazione tedesca da un lato e i bombardamenti degli Alleati dall'altro. L'esercito britannico guidato dal capitano Anthony Clarke, improvvisamente, decise di risparmiare la città. Memore delle parole del saggio “Along the road: notes and esseys of a tourist” di Huxley del 1925, in cui lo scrittore magnificava la pittura di Piero raccontando del viaggio intrapreso da Arezzo a Sansepolcro, Clarke ordinò il “cessate il fuoco”, proprio per risparmiare il “dipinto più bello del mondo”. Pareva poco più di una favola, ma i diari di Clarke, recentemente ritrovati, avvalorano il racconto. E se delle opere di Piero a Sansepolcro occorrerebbe scrivere a lungo, per ragioni di spazio mi concentrerò sulla Resurrezione (e il maestoso polittico della Misericordia mi perdoni). Ma cosa può mai raccontare, a noi abitanti della Terra del 2019, un'opera vecchia di quasi sei secoli? Provo a dire, senza troppe pretese, dove risiede per me la grandezza del dipinto. In sette punti.

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L'imitazione della realtà. Siamo alla metà del '400 quando Piero si mette all'opera: raggiunge una vetta mai toccata fino ad allora, procedendo in quell'ascesa avviata da Giotto che rivoluziona volumi, spazio e colore nella pittura. L'arte figurativa è sublime: le morbide pieghe dei tessuti; la placida luce proveniente dall'alto-sinistra (impercettibile faro puntato da un abile fotografo); il tenue alito di vento che muove il vessillo impugnato dal Cristo.

2

La potenza del Cristo. Immaginiamo di avere una macchina del tempo e di approdare nel palazzo del governo di Sansepolcro nel 1564, anno in cui l'opera era di certo ultimata. Pensiamo alle immagini delle crocifissioni medievali di cui erano piene le piccole chiese di campagna come le grandi cattedrali cittadine. E adesso osserviamo lo stupore di un umile biturgense che per la prima volta si imbatte in quel dipinto maestoso. Non c'è buio, non c'è cupezza: ma solo luce e colore. C'è un grande Cristo atleta: un piede

fuori dal sepolcro, il forte braccio vessillifero e l'addome scolpito. Solare, sereno: la sofferenza è già vinta, il tormento è alle spalle. Che messaggio di rottura: il corpo umano è bellissimo. Non va umiliato, né punito, né rinnegato per ottenere la salvezza eterna.

3

L'umanesimo rinascimentale. Fu l'aretino Francesco Petrarca l'ispiratore dell'umanesimo che diede il via, in Europa, al recupero dei testi classici, greci e romani. Filosofia, letteratura, teatro. Ma l'omaggio di Piero ai grandi del passato avviene attraverso l'arte a lui congeniale: la pittura. Se il Cristo è dipinto a mo' di scultura, quasi un dio greco, i riferimenti ai classici sono espliciti nell'architettura di cornice. Le colonne scanalate con capitello corinzio, il basamento, l'architrave. Una sorta di romano arco trionfale, che celebra la più grande delle vittorie: quella sulla morte.

4

Proporzioni e geometria. Piero dà vita a una composizione armonica, matematicamente studiata. Gli elementi sono in calibrato equilibrio, né assenza, né eccesso. La scena ha una cornice reale, i suoi quattro bordi. E' inserita in una cornice dipinta, l'architettura classica. Ma la figura chiave, quella del Cristo, è iscritta entro un'ulteriore cornice, quella definita in basso dalla linea orizzontale del sarcofago e inquadrata verticalmente dai due alberi più grandi del fondale. La testa di Gesù è il vertice di un triangolo che scivola sulle sue spalle, che relega i soldati dormienti a basamento. Tridimensionalmente possiamo vedere una piramide, ovvero un tetraedro (o tetragono), un solido indeformabile. Tetragono è, metaforicamente, un uomo solido, resistente, impassibile. Come quel Cristo.

5

La Natura che muta. E' inverno alla sinistra di Cristo (alberi spogli, rinsecchiti), è estate alla destra (chiome folte e verdi). Una lettura alla occidentale, da sinistra verso destra, potrebbe suggerire una narrazione, quindi una scansione temporale: Morte

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La Resurrezione di Piero della Francesca, affresco realizzato tra il 1450 e il 1463 (225x200 cm). Museo Civico di Sansepolcro


Il capitano britannico Anthony Clarke. Durante la Seconda Guerra Mondiale fece cessare il fuoco sulla città di Sansepolcro per preservare il dipinto della Resurrezione

a sinistra (il prima) → intervento di Gesù nel mezzo (Resurrezione) → Vita a destra (il dopo). La figura divina è il mezzo per vincere la morte. Un racconto nascosto, che ribadisce – una volta ancora - il tema evangelico chiave: la Pasqua e la sconfitta della morte.

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Il sonno dell'umanità. I quattro soldati si trovano sotto il Cristo, nella classica opposizione alto/ sacro vs. basso/profano. Tutte le figure umane dormono. Ma non tutte allo stesso modo. I soldati che dovrebbero far la guardia al sepolcro non vedono niente, perché non possono: ma un barlume di speranza c'è. Sono disposti a cerchio. Il primo soldato, in primo piano a sinistra, ha il volto completamente coperto, il secondo, in primo piano a destra, lascia intravedere parte del suo volto. Il terzo, in secondo piano a destra, lascia vedere metà della faccia. L'ultimo, che completa l'ellisse, in secondo piano a sinistra, ha il volto aperto e illuminato, toccato dall'asta di Cristo. Sembra il più vicino a destarsi. I volti paiono imitare una fase lunare, dal novilunio alla luna piena. Il soldato più luminoso, col volto interamente scoperto e più vicino all'asta di Cristo, potrebbe avere le fattezze del pittore.

7

La salvifica bellezza. “La bellezza salverà il mondo”, fa dire Dostoevskij al principe dell'Idiota. Quella di Piero, durante il Secondo conflitto mondiale ha salvato almeno una città. Già, ma nel caso, quale attributo può rendere un dipinto il più bello del mondo? Il messaggio della Resurrezione cristiana, teologicamente centrato? La bellezza formale dell'opera? Il racconto di Piero sa tenere insieme gli

opposti: l'inverno/morte e l'estate/vita, ad esempio. Un racconto unico, in cui la dimensione temporale è sospesa. O meglio, interamente compresa. Possiamo cogliere tutti gli elementi nello stesso sguardo: l'inverno che è stato a sinistra, la Pasqua (la Resurrezione di Cristo) che è il presente al centro, l'estate che verrà a destra. Per comprendere il racconto, Piero coinvolge anche noi spettatori: ci fa guardare il Cristo, poi ci fa allargare lo sguardo, successivamente ci fa concentrare sul piano umano, quello dei dormienti, e infine ci fa tornare al Cristo. E che succede in questo processo di successive focalizzazioni? Dopo aver colto il messaggio immediato della Resurrezione, indugiamo sui dettagli intorno. Ci accorgiamo degli elementi curvilinei (la natura del fondale, le figure umane), oltre quelli rettilinei (gli alberi, l'asta di Gesù, le architetture, il sarcofago). Poi torniamo a guardare il Cristo. E' lui il ponte tra alto e basso, tra sinistra e destra, tra natura e cultura (architettura), tra umano e divino. Il suo volto è estremamente umano. Lo sguardo è frontale, verso l'osservatore. Le palpebre leggermente calate. Negli occhi ci sono pace e armonia, saggezza e coscienza. Quel Cristo è un ideale cui tendere, ma alla portata umana. Non è distante, non siderale. Tocca l'umanità con l'asta. E' un modello da cui trarre ispirazione, non qualcosa di astratto. Il Cristo pierfrancescano è l'assenza di sofferenza, è bellezza e verità. E' la vittoria sulla morte. Lancia un messaggio universale, perché

la morte vinta, prima che ancora cristiana, è quella della paura. Chi vive nella sofferenza, nella preoccupazione, nell'affanno, nel timore, è già morto. Chi vive col cuore leggero è vivo. La strada che il Cristo traccia è quella da seguire, non ci sono (più) divinità vendicative da temere, non c'è minaccia di inferno che terrorizzi l'uomo. Il Medioevo è alle spalle, l'Umanesimo è la viva modernità. E il sentiero da battere è quello della comprensione del mondo, della verità, della bellezza. Non più spalle curve e occhi bassi. Ma petto in fuori e balzo atletico per uscire dall'oscurità (il sepolcro, il passato, la paura irrazionale). Lo sguardo del Cristo è immerso nel presente, nell'hic et nunc, passato e futuro stanno dietro e avanti all'uomo, a noi. Ma adesso non ci riguardano, come del resto ogni preoccupazione, ogni timore che trova origine – scioccamente - nel passato o nel futuro. Ma né il primo si cambia, né il secondo si prevede: ecco la consapevolezza, la forza tranquilla, vigile e razionale, del Cristo-Uomo che si trova al centro dell'architettura divina. A cui l'umanità (rappresentata dai soldati) deve tendere e che, con l'avvento del Rinascimento, si sta risvegliando. L'uomo nuovo ha appreso la grande lezione dei classici, sa che “in medio stat virtus”: così Cristo si presenta, né magro, né grasso, né sorridente, né disperato, umile eppure fiero. Conscio, retto, mai spaventato. Persegue la verità e per farlo sale sulle spalle dei giganti passati per osservare il mondo da un punto di vista nuovo e privilegiato: sa che deve conoscere se stesso (Socrate) e che deve elevarsi da sofferenze, passioni e desideri, come i seguaci dell'Epicureismo. In un altro tempo, in un altro luogo, un grande saggio trovò la verità nella profonda e sottile Via di Mezzo (ovvero, lontano dagli eccessi), era il Budda. Strade diverse, simili conclusioni. Ecco la straordinarietà universale del messaggio pierfrancescano.


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Riflettori sulla Cattedrale

DOPO AVER CONTRIBUITO AL RESTAURO DELLA MADDALENA, L’ASSOCIAZIONE LIONS CLUB AREZZO HOST PARTECIPERÀ A UN’ALTRA INIZIATIVA IMPORTANTE PER LA CITTÀ: L’ILLUMINAZIONE DEL CAMPANILE DEL DUOMO CON SEI PROIETTORI AL LED, CHE LO RENDERANNO VISIBILE ANCHE DI NOTTE SU TUTTO IL TERRITORIO. IL PRESIDENTE SAVERIO LUZZI CI RACCONTA COME E PERCHÉ È NATO QUESTO AMBIZIOSO PROGETTO DI MATILDE BANDERA

2018, nel racconto dei lunghi lavori di restauro che hanno interessato Villa La Ripa per essere riportata agli antichi splendori. Appassionato d'arte rinascimentale, dopo aver sognato e trasformato in realtà la sua dimora e l'attività vitivinicola, Saverio Luzzi si è dedicato alla valorizzazione di altri beni culturali a lui cari. "All'interno del duomo sono custoditi tesori come la Madonna del Conforto e la Maria Maddalena, opera che amo particolarmente e che a parer mio esprime tutta l'apertura mentale di Piero della Francesca. Nella Maddalena vengono rappresentate in modo delicato e puntuale le varie sfaccettature dell'animo femminile: è sensuale ed elegante al tempo stesso, peccatrice eppure santa. Emana una luce straordinaria e in qualità di presidente dei Lions non posso che esprimere soddisfazione per aver contribuito al suo restauro nell'anno 1964. Promuovendo oggi l'illuminazione del campanile del duomo intendiamo chiudere il cerchio attorno ad un luogo ricco di fascino e di storia, servendo la nostra città con un'ulteriore esaltazione del patrimonio artistico, in grado di rendere orgogliosi gli aretini e di attrarre turisti da ogni parte del mondo". Il Lions Club Arezzo Host è il club più antico della città: è un'associazione attiva dal 1957 e che fa parte del Lions International, nata negli Stati Uniti oltre cento anni fa e composta da cittadini senza alcuna particolare appartenenza politica, filosofica o religiosa e che si sono distinti per meriti professionali e umanitari, con lo scopo di migliorare le loro comunità. Si tratta dell'associazione di servizio più grande del mondo in cui i membri sono scelti per cooptazione, con oltre un milione di soci. "Sono diversi i soggetti che hanno contribuito, assieme al Lions Club Arezzo Host, alla realizzazione di questo ambizioso progetto. In primis voglio ringraziare l'avvocato Raffaello Giorgetti e l'ingegner Jacopo Magi per il particolare impegno nel trasformare un desiderio di vecchia data in realtà. E poi la Soprintendenza ai monumenti della città, Estra per il contributo economico, la curia per il sostegno al nostro progetto."

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crigno ricolmo di arte, storia e spiritualità per tutti gli aretini, il duomo di Arezzo è da sempre considerato il cuore della città, oltre che per la sua funzione di aggregatore sociale, soprattutto perché rappresenta un vero e proprio "indicatore" del centro storico, grazie al suo imponente campanile, concepito per essere visibile da molto lontano, in virtù della cuspide di 21 metri progettata dall'architetto Castellucci. Forse non tutti sanno che l'attuale campanile è il terzo che venne costruito per il duomo: il primo infatti, unito alla cattedrale, danneggiava le preziose vetrate per via delle vibrazioni prodotte dal suono delle campane. Ne fu costruito quindi un secondo, leggermente più lontano, che però risultava instabile per via della falda acquifera sottostante. Si giunse così al terzo ed ultimo, costruito nell'attuale posizione, che venne in seguito unito alla cattedrale tramite la costruzione degli appartamenti dei custodi. Nella sua versione definitiva, il campanile del duomo di Arezzo è un monumentale punto di riferimento geografico che attrae da sempre l'attenzione di cittadini e turisti e che merita maggiore risalto, secondo Saverio Luzzi, l'attuale presidente in carica del Lions Club Arezzo Host: "Abbiamo deciso di valorizzare uno dei punti nevralgici della città mettendolo letteralmente "in luce". L'operazione avrà luogo entro la fine dell'anno e ha coinvolto diversi soggetti tra cui la Aec illuminazione, eccellenza del nostro territorio dal prestigio affermato e riconosciuto a livello internazionale. Il progetto, a cura dell'architetto Borgheresi, prevede l'illuminazione del campanile attraverso sei proiettori led dal basso verso l'alto, che lo renderanno visibile in tutto il suo splendore e gli permetteranno di mantenere la sua funzione unificante all'interno della città, anche di notte". Il profondo senso di appartenenza del dottor Luzzi, neuropsichiatra di fama internazionale, verso il proprio territorio, nonché la sua sensibilità artistica, erano emersi in occasione della prima intervista pubblicata su Up Magazine dell'inverno del


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L’arte dell’ingegnere

VENDICÒ UN AFFRONTO CON UN REGALO ALLA CITTÀ. LA TELEFONATA A BERLUSCONI, IL PARTICOLARE INCONTRO COL MAESTRO MUTI E IL CONCERTO DELL’ORCHESTRA FILARMONICA DELLA SCALA NELLA BASILICA DI SAN FRANCESCO. DIVORATORE SERIALE DI LIBRI, LUIGI LUCHERINI HA DEDICATOLA VITA A SFOGGIARE LA SUA ARETINITÀ

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DI CHIARA CALCAGNO

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l telo bianco che nascondeva i dipinti venne abbassato in vista della grande serata. Il maestro Muti, intento nelle prove, si bloccò di colpo. Piccolo di fronte alle figure che animano la cappella Bacci, alla grandezza di Piero della Francesca, si perse per infiniti attimi nell’ammirazione. “Poi, con la voce rotta dall’emozione mi disse ‘E’ il più bel palcoscenico nel quale abbia mai avuto l’onore di esibirmi’. Sorrisi d’orgoglio ma a me non diceva niente di nuovo”. Luigi Lucherini, classe 1930, tecnico nel campo dell'ingegneria civile, dell'urbanistica, dell'architettura e del design industriale, titolare di uno studio associato con 20 professionisti che ha affidato ai figli nel 2000, è stato eletto due volte sindaco di Arezzo. Fu durante il suo primo mandato che gli affreschi della cappella Bacci a San Francesco furono restaurati a cura di Banca Etruria e restituiti alla città e al mondo intero. “Ma durante la cerimonia pubblica di presentazione, mi fu negato il discorso previsto dal protocollo. Parlarono D’Alema, la Melandri e altri membri del Governo ma io, che ero il primo cittadino di Arezzo, non venni invitato sul pulpito e, quando mi alzai per dire due parole, un addetto portò via il microfono. Non dissi una parola. Decisi di vendicare l’affronto facendo un regalo alla città. Uno di quelli che forse solo io avrei potuto ottenere. Chiamai Silvio Berlusconi, mio amico da anni, gli raccontai l’episodio e gli presentai la mia richiesta: un concerto dell’orchestra filarmonica della Scala, diretta dal maestro Riccardo Muti, nella basilica di San Francesco”. Non fu certo facile organizzare l’evento. Nonostante la disponibilità dell’orchestra e di Muti, che offrì la sua prestazione gratuitamente, fu necessario trovare gli sponsor che potessero coprire le spese di 80 musicisti, ospiti di Arezzo – ci pensò la Mercedes Benz – e studiare, nel dettaglio, ogni disposizione nel luogo sacro. Ma, in poche settimane, Lucherini riuscì ad allestire il concerto. E la magica serata fu un successo. “Pensare che l’incontro con Muti non fu proprio dei migliori. Sicuramente fu memorabile. Entrando in chiesa, avvolto nel lungo mantello, inciampò su un copricavo e finì a terra insieme alla nevicata di fogli che componevano il suo enorme spartito”. Grande sportivo Luigi Lucherini, divoratore seriale di libri. Ne ha oltre 1500 nella sua

collezione, di ogni genere. Fin da giovane amava l’architettura, ispirato dalle opere del grande Frank Lloyd Wright. Capì la strada che avrebbe voluto percorrere e ripose nel cassetto il sogno da medico. Che non era il suo. “Mio padre era convinto che in famiglia dovessero esserci un ingegnere e un medico. Mio fratello frequentava già la facoltà di ingegneria a Bologna e a me, secondogenito, toccò medicina. Inutile dire che non andavo entusiasta di questa imposizione. Credo sia stato non il primo ma il mio secondo svenimento durante una lezione all’obitorio a convincere i miei che forse non era la mia futura professione. Seguii così le orme di mio fratello”. Laurea in ingegneria elettrotecnica all’università degli studi di Pisa con specializzazione in elettronica, Lucherini si è dedicato all’architettura come libero professionista ottenendo grandi risultati anche all’estero. Ha costruito sontuosi hotel in Kenya, negli Emirati Arabi, nelle grandi metropoli europee. Sua persino la prestigiosa ambasciata dell’Arabia Saudita a Il Cairo. Per tutta la vita si è dedicato a sfoggiare la sua aretinità. “Mi infastidisce sentir dire ‘abito vicino Firenze’. Io sono di Arezzo e sono orgoglioso della storia trimillenaria, del folclore, della cultura e delle tradizioni della mia città. Troppo a lungo, per cinque secoli, gli aretini sono stati calpestati e depredati. La Fortezza medicea ha le bocche da fuoco puntate in direzione della città, non a difesa della stessa da aggressioni esterne. Servivano a tenere schiavi i cittadini, non a proteggerli. Il comune ha faticato a sviluppare l’orgoglio aretino”. A 34 anni fu accolto nel Lions club di Arezzo come membro numero 23. E furono proprio 23 le persone che si fecero carico del restauro della Maddalena. Le opere durarono oltre un anno. “La forza dello sguardo, fiero e sereno, di Maria Maddalena fu la nostra ricompensa”. A 89 anni, trascina una valigia carica di aneddoti, importanti esperienze e ambiziosi traguardi. E, dopo aver percorso le strade del mondo, ogni volta che può, l’ingegnere si concede una rilassante camminata nella parte più antica del centro. Preferibilmente di sera, ascoltando il rumore dei suoi passi. “La bellezza si trova ovunque. Ma sempre ci sarà un luogo che riuscirà a riempirti davvero sia gli occhi sia il cuore. Per me è Arezzo, casa mia”.


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Vittorio Sgarbi, 67 anni, è critico d'arte, opinionista e personaggio televisivo. Attualmente è anche sindaco di Sutri (Viterbo)

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U P I N T E RV I S TA

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Sgarbi e abbracci

IRASCIBILE, POLEMICO, PROTAGONISTA DI INFUOCATE RISSE TELEVISIVE, HA LA STRAORDINARIA CAPACITÀ DI AMMALIARE LE PERSONE CON LE SUE LEZIONI DI BELLEZZA. IL CRITICO D’ARTE PIÙ NOTO D’ITALIA AMA PIERO DELLA FRANCESCA PER LA SUA “SOFISTICATEZZA INTELLETTUALE”, ADORA AREZZO PERCHÉ È UNA MISCELA DI CULTURE, DETESTA I POLITICI SENZA SENSIBILITÀ. IN QUESTA INTERVISTA CI HA PARLATO DI DIO, SCUOLA, PROSPETTIVE E RIMPIANTI. E LO HA FATTO A MODO SUO DI ANDREA AVATO

S

econdo Vittorio Sgarbi, chi non ha mai visto la Leggenda della vera Croce è un italiano a metà. Chi non conosce Piero della Francesca, non può comandare il Paese. Chi non ha visitato Arezzo, è colpevole di un reato che nel codice penale non esiste ma che è odioso come pochi: sbadataggine culturale. Il critico d’arte più noto, irascibile, polemico di tutti, quello delle risse in televisione, ma con l’eccezionale, rarissima capacità di ammaliare la platea che ascolta le sue lezioni di bellezza, è innamorato del genio della prospettiva da sempre. Non l’ha mai nascosto, l’ha sempre detto, quasi ostentato, perché divulgare è una missione. Qualche anno fa, quando era assessore al comune di Urbino, lanciò l’idea del percorso pierfrancescano: dalle Marche alla Toscana, passando per Sansepolcro e Arezzo, lungo una strada tracciata dalle opere dell’artista. Non solo. Nel 2014 Sgarbi sentenziò: “Gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo sono l’architrave dell’arte universale assieme ai dipinti di Giotto

nella Cappella Scrovegni a Padova e di Michelangelo nella Cappella Sistina a Roma”. Professore, è sempre della stessa idea? Ovvio. Piero della Francesca è il punto di riferimento per tutta l’arte italiana e non solo. Dovrebbe essere d’ispirazione anche per la politica. Com’era quella storia di Agnelli, Berlusconi e Piero? Era il 1992, in parlamento si votava per eleggere il presidente della Repubblica. Al Quirinale poi salì Scalfaro. Agnelli era senatore, parlando con lui scoprii che non conosceva la Leggenda della Vera Croce e lo rimproverai. Non ha fatto in tempo a venire ad Arezzo però. E Berlusconi? Neanche lui è mai stato a San Francesco. E’ inimmaginabile guidare l’Italia senza conoscere un artista di questa levatura, è un segnale inquietante. Come abitare alle Maldive e pensare di essere in montagna. Perché per la politica è così difficile fare cultura? Non è difficile, è semplicemente una

dimenticanza scellerata. L’Italia è conosciuta grazie alla sua creatività, eppure questa cosa è percepita dagli amministratori in modo imperfetto, limitato. Le città crescono, anzi crescerebbero con la cultura. Invece stanno abdicando come Roma, come Milano. La gente è correa di quello che succede? Un po’ sì. Gli italiani hanno una fortuna immensa, vivono circondati dalla bellezza: ad Arezzo aprite la porta della basilica di San Francesco e vi rendete conto che siete dei privilegiati. In America non lo possono fare, hanno delle costruzioni orribili. Voi potete ammirare Piero tutti i giorni. Il problema qual è? Manca sensibilità, manca conoscenza, manca consapevolezza del bello. La Maddalena in Duomo è un’opera solitaria, un monumento in sé. Ti fa capire come Piero della Francesca riesce a conquistare lo spazio. Lei qualche anno fa si domandava perché Arezzo fosse poco nota e visitata. Si è dato una risposta? Perché l’Italia è uno strano Paese. Arez-

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Vittorio Sgarbi osserva dall'esterno la cappella Bacci ad Arezzo

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“Gli italiani hanno una fortuna immensa. Vivono circondati dalla bellezza” zo è Piero, è Mecenate, è Guido, è Vasari, è Cimabue. Io dico: andateci. Intorno c’è un territorio meraviglioso, scopritelo con i vostri occhi. Le va riconosciuto che, da questo punto di vista, sta dando il buon esempio. Sono venuto molte volte, ci tornerò. La Madonna del Parto di Monterchi la portai alla Biennale di Venezia nel 2011, ma ancora attende uno spazio che la onori compiutamente. Eppure è un’opera rivoluzionaria in cui convivono eternità e quotidianità. Chi governa le nostre città e deturpa i luoghi dell’arte compie un delitto imperdonabile. È sempre dell'idea che il San Sebastiano a Sansepolcro vada restaurato? Sì, è trascurato e sottostimato, abbandonato su una parete. Non è certo che sia di Piero della Francesca ma in ogni caso appartiene a un artista della sua cerchia più stretta. Gliel’ho detto al sindaco, spero mi ascolti. La Resurrezione è veramente il dipinto più bello del mondo? Più bello anche della Gioconda: lo scri-

veva Aldous Huxley. Il capitano dell’aeronautica inglese Tony Clark, uomo colto, lo aveva letto. E nel 1944 non rispettò l’ordine di bombardare Sansepolcro, uno dei pochi casi in cui il mondo ha salvato la bellezza. Fu un segnale del cielo senza l’intervento di Dio. Anzi, Piero si sostituì a Dio in qualche modo. Qual è il fascino di Piero della Francesca secondo lei? La sua sofisticatezza intellettuale. E’ uno degli artisti che guardo con maggior soddisfazione. Da sempre. Spiegare l’arte alle persone è più facile di prima. O più difficile? E’ più facile, questi sono tempi propizi. Addirittura? L’arte non è mai stata popolare, è sempre stata aristocratica. Oggi per fortuna non lo è più. Quando disse che era favorevole all’abolizione della storia dell’arte dalle materie scolastiche, lanciò una provocazione o lo pensava per davvero? Lo pensavo e lo penso. Non è la scuola il veicolo giusto per l’arte. Semmai è la

tivù, la carta stampata, il libro. Nemmeno la matematica serve a scuola, tutto quello che viene insegnato a scuola suscita repulsione. Ci sarà qualche eccezione. C’è, per fortuna. Ma io ho studiato greco e algebra e sono materie che non conosco. Conosco l’arte, che ho studiato dopo. Si corre il rischio di avere sempre più capre in giro però. Ma guardi che le capre ci saranno sempre. Essere una capra o meno dipende dai comportamenti oltre che dalle conoscenze. A proposito di Piero e delle prospettive. Quali sono quelle di Vittorio Sgarbi oggi? Non ho prospettive, nel senso che la mia visione del mondo è istantanea. Vivo alla giornata, quel che accade accade. E qualcosa accade sempre. Rimpianti? Nemmeno uno. I rimpianti hanno durata breve, passano più in fretta di tutto il resto.


FORTI PASSIONI, IDEE VINCENTI, UN PIZZICO DI FOLLIA.

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terrA di pierO 38 \ UP MAGAZINE AREZZO \ PRIMAVERA 2019

UN LOCALE A DUE PASSI DAI CAPOLAVORI DI PIERO, DIVENTATO LUOGO DI RIFERIMENTO IN PIAZZA SAN FRANCESCO, CUORE DEL CENTRO STORICO CHE SA CONIUGARE ARETINITÀ E OSPITALITÀ, SNODO CRUCIALE DELLA VITA NOTTURNA E GIOIELLO TRA I PIÙ APPREZZATI DAI TURISTI. CRISTIANO DURANTI L’HA APERTO DICIOTTO ANNI FA ED È STATA UNA SCELTA FELICE: “PRODOTTI DI PRIMA QUALITÀ, VINO BUONO, COMPAGNIA. QUESTA È UNA VECCHIA BOTTEGA MODERNA. ED È LA MIA VITA”

DI ANDREA AVATO

E

clettico, dinamico, socievole, rustico. Cristiano Duranti mette in fila quattro aggettivi per definire se stesso e, in parallelo, anche il locale che gestisce da quasi diciott’anni. Si chiama “Terra di Piero” e si trova nel cuore del centro storico, in quella piazza San Francesco che riesce a coniugare aretinità e ospitalità, snodo cruciale della vita notturna e gioiello tra i più apprezzati dai turisti. “Facevo l’agente di commercio, quest’attività l’ho avviata per passione – racconta Cristiano – e ho rischiato di smettere presto. Ho aperto il 10 agosto 2001, un mese dopo ci fu l’attentato alle Torri Gemelle, a gennaio del 2002 arrivò l’euro. Un disastro. Però non mi sono buttato giù, ho metabolizzato la fatica, ho assecondato le mie inclinazioni e sono andato avanti. Si lavora sei giorni su sette, dalle 10 di mattina fino a quando c’è gente, che nel fin settimana vuol dire fare le ore

piccole. Ma io adoro stare in mezzo alle persone, mi dà adrenalina”. Sposato con Serena, due figlie di 13 e 10 anni (Alice e Matilde), aretino del Bagnoro, amante del vino, amante della compagnia, amante delle sue origini, Cristiano ha dato alla città un luogo di riferimento, di ritrovo, una certezza. “All’inizio facevo fatica a lavorare mentre gli altri si divertono, poi ho imparato a divertirmi anch’io e adesso è molto più facile”. “Terra di Piero” è un posto dove assaggiare prosciutti e salumi di prima qualità tagliati al coltello, assortimenti di formaggi, salmone, frutta, tutti prodotti di eccellenza. E ovviamente, dove degustare una selezione di vini raffinata, con una scelta molto vasta. Eclettismo, per l’appunto. “La mia è una vecchia bottega moderna. Mi sento un bottegaio, simile a quelli di una volta perché la passione è identica, anche se è


“Amo il vino buono e stare in mezzo alle persone. Mi danno adrenalina”

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cambiato il contorno: c’è internet, c’è un turismo diverso, il cliente è più difficile da accontentare. Importante è la ricerca: ancora vado in Borgogna di persona a prendere un pinot nero che amo moltissimo… Il vino è vivo e in evoluzione come il nostro palato, l’ho sempre pensata così: a diciotto anni bevevo cose che oggi non apprezzo più. Poi c’è il resto, ci sono le emozioni dentro il bicchiere e quelle te le danno anche le persone, le storie e i luoghi. Il vino cambia sapore se conosci chi lo fa, come lo fa e dove lo fa: la mia bottega l’ho impostata su questi princìpi”. Tavolini all’aperto sulla piazza, un gazebo che ripara dalla pioggia e dal sole, il bancone all’interno e, finalmente, un altro ambiente accanto a quello originario. Il dinamismo di cui parlavamo all’inizio emerge anche da qui: “Dopo quasi diciott’anni in ventotto metri quadrati, ho ampliato il locale. Ho quattro dipendenti, con me lavoravamo in cinque e sembravamo un tetris vivente: dovevamo prendere le misure, incastrarci alla perfezione, sennò non si passava. Questa stanza in più mi ha dato vita, come succede quando riesci a concretizzare un’idea a cui tieni molto. Ci ho messo un tavolo unico, grande, che serve per socializzare: i clienti si siedono vicini anche se non si conoscono, si scambiano saluti, opinioni, bicchieri. Bello, no?”. Bellissimo, viene da rispondere, anche perché questa è la “Terra di Piero” di nome e di fatto. Accanto agli aperitivi,


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ai crostini, ai brindisi, ci sono capolavori che il mondo ci invidia e questa miscellanea di sacro e profano dà alle serate della piazza un’atmosfera unica. “L’idea del nome del locale nasce dai miei genitori ed è un omaggio a Piero della Francesca, alle sue opere d’arte che hanno rivoluzionato la pittura. In passato abbiamo organizzato visite e degustazioni a San Francesco, in Duomo, alla Pieve: un clima informale ma molto stimolante, anche perché è impossibile non avere a cuore meraviglie del genere. Arezzo deve sfruttare la sua attrattività, sia in maniera turistica che per la vita di questa piazza, ormai indirizzata verso le attività di food and beverage. E forse è giusto così. La concorrenza a me va benissimo: io porto gente, gli altri locali portano gente, così si cresce. A patto che ci siano intelligenza e rispetto. In qualche modo siamo arrivati a un equilibrio”. Questo traspare pure dai rapporti di lavoro interni a “Terra di Piero”, mai mordi e fuggi e sempre impostati sulla complicità, sul medio periodo, sulla stabilità. Sulla socievolezza per l’appunto. “Non mi piace cambiare staff velocemente e in fretta. Dobbiamo lavorare gomito a gomito tutti i giorni, più feeling c’è e meglio è. Per questo ho sempre cercato collaboratori con le mie stesse attitudini: Gabriele è stato qui quattro anni, Chiara è con me da cinque, Daniele era un mio compagno di scuola. Per fare le cose per bene, bisogna affezionarsi alla cucina, ai prodotti, ai tavoli, ai clienti. E ci riesci

soltanto con il tempo. Arrivi a un certo punto e ti viene tutto naturale, che poi è il motivo per cui la gente frequenta questo locale: clima sereno, educazione, spontaneità. Anche i turisti si sentono a casa”. Il segreto del successo, quindi, sta nel clima familiare, nella suggestione di uno degli angoli più belli della città, nella qualità delle cose che si mangiano e si bevono, in un background lungo ormai diciotto anni, pieno di ricordi, di episodi curiosi, di aneddoti. “Una volta entrò Juliette Binoche, l’attrice. Ordinò del vino e un tagliere. Non l’aveva riconosciuta nessuno, tranne Sergio che le fece avere un biglietto. C’era scritta una frase di un suo vecchio film: “les amants du PontNeuf”. Lei sorrise, fu cordialissima e molto discreta. Ancora me la ricordo, le consigliai un Sangiovese, il vitigno toscano per eccellenza e uno dei miei preferiti insieme al Pinot nero e al Nebbiolo. Se dovessi invitare un ospite

illustre gli offrirei questi. Amo i vini che non annoiano”. Siamo alla fine dell’intervista e manca l’ultimo aggettivo: rustico, cioè scontroso nei modi esteriori. “Ogni tanto qualcuno ce lo mando a quel paese… L’ho detto, sono del Bagnoro, sono schietto, a volte capita. Ti racconto questa: un giorno entra un signore di mezz’età, stavamo facendo le pulizie. Il locale non era ancora aperto, glielo dico ma lui non se ne va. Anzi, chiede un caffè e gli spiego che noi il caffè non lo facciamo, che poteva andare al bar di fronte. Niente da fare, insiste e allora, litighiamo. Mezz’ora dopo mi telefona un’amica e mi dice: devo presentarti una persona importante. Vado e mi trovo davanti il signore di prima: era Gianfranco Soldera, uno dei più grandi produttori italiani di vino. Ci salutammo con un po’ d’imbarazzo, non ebbi la forza di dirgli che avevo sempre comprato le sue bottiglie”.



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U P C U R I O S I TÀ

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Il Piero perduto L E O P ER E CHE AV EVA M O E CH E NON CI SO NO P IÙ, ESP O STE ALL’ESTERO O F INITE NEL L E CA SE DEI COLLEZIONISTI. ECCO A LCUNI DEI CA P OLAVORI CH E IM P R EZ IO SISCO NO LE GALLERIE D'A RTE DI TUT TO IL MOND O DI MARCO BOTTI

Il battesimo di Cristo della badia di Sansepolcro, attualmente alla National Gallery di Londra

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a fortuna critica di Piero della Francesca è qualcosa di relativamente recente. Dalle lodi cinquecentesche di Giorgio Vasari nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, bisogna infatti attendere la seconda metà del XIX secolo per una complessiva riscoperta. Nello stesso periodo l’artista diventa appetibile anche per i collezionisti, in particolar modo per quelli stranieri, che si dimostrarono più perspicaci. È tuttavia con le pubblicazioni di Bernard Berenson del 1897 e soprattutto di Roberto Longhi del 1913 e del 1927, il quale definisce lo stile pierfrancescano “sintesi prospettiva di forma-colore”, che l’importanza e l’unicità del maestro biturgense è pienamente rimessa in luce. Per questi e altri motivi, alcuni capolavori creati nel territorio aretino non sono più nel loro luogo originario ma smembrati o finiti altrove. Volete qualche esempio? Il Battesimo di Cristo della Badia di Sansepolcro, attualmente alla National Gallery di Londra, i vari santi che componevano lo smembrato Polittico di Sant’Agostino, nato per l’omonima chiesa della città natale e oggi in parte disperso e in parte disseminato tra il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona, la National Gallery of Art di Washington, il Museo Poldi Pezzoli di Milano, la Frick Collection

di New York e la National Gallery di Londra, senza dimenticare l’affresco con Ercole ritrovato nella casa di famiglia di Piero, sempre a Sansepolcro, adesso alla Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Altro argomento sono le opere di cui parla Vasari, che sono completamente scomparse da Arezzo. La più nota, perché ben documentata, è lo Stendardo processionale della compagnia della Santissima Annunziata di Arezzo, commissionato alla fine del 1466 e consegnato due anni dopo. L’artista e biografo aretino parla anche di affreschi nel porticato del santuario Santa Maria delle Grazie, dove accanto alle Storie di San Donato, eseguite dal collaboratore Lorentino d’Andrea, Piero avrebbe dipinto un San Donato in trono con putti. Nella chiesa del convento olivetano di San Bernardo avrebbe invece realizzato un San Vincenzo in una nicchia “che è molto dagl’artefici stimato”, mentre nel convento francescano di Sargiano, per i frati zoccolanti, egli fece una cappella con il Cristo orante nell’orto di notte che lo stesso Vasari definì bellissimo. Se consideriamo attendibili le attribuzioni vasariane, è inutile dire che oggi ci mangiamo le mani per queste perdite. Capitolo a parte sono il Sant’Antonio Abate della pieve di San Polo o la Madonna in trono col Bambino di Santa Firmina, assegnati a Lo-

rentino d’Andrea, per i quali periodicamente si torna a parlare di una possibile mano di Piero o comunque dell’utilizzo di cartoni del maestro. Se il nome del genio rinascimentale, come abbiamo scritto, è tornato a interessare la critica tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, vanno ricordati anche i viaggiatori che passando da Arezzo non potevano fare a meno di visitare i suoi affreschi, pur trovandoli deteriorati. Ecco cosa scriveva lo scrittore Edward Hutton nel 1904 parlando della basilica di San Francesco, dopo aver elencato le opere di Spinello Aretino e Lorentino d’Andrea: “ma quello che veniamo a vedere a San Francesco non sono i lavori di pittori come quelli elencati, ma gli affreschi belli e vigorosi di Piero della Francesca dipinti nel coro. Si tratta di opere che non hanno pari in Toscana, né probabilmente altrove”. Ancor più entusiasta fu il poeta André Suarèz nel 1928, che annotò: “pur se rovinati dal tempo, gli affreschi di Piero della Francesca ci mettono di fronte a uno dei tre o quattro maggiori artisti d’Italia, e che resta all’altezza del proprio rango fra le più alte espressioni artistiche d’Europa. Firenze offre al passante numerose meraviglie nei suoi musei, nelle sue chiese e nelle sue piazze. Ma nessuna delle pitture di Firenze ha la qualità di questa Leggenda della Croce”.


Nel lontano 1935, Donato Badiali fonda in Arezzo la “Tipografia Badiali”. La sede dell’azienda era ubicata in locali posti sotto le famose Logge del Vasari, nella prestigiosa Piazza Grande. L’ attività in questi locali, ha visto il succedersi di tutte le innovazioni tecnologiche di quei tempi. Dalla stampa tipografica con caratteri mobili, alla Linotype, madre delle più moderne fotocomposizioni. Nei primi anni ’70, Vittorio Badiali, sempre attento ai cambiamenti tecnologici, fonda anche la “Litostampa Sant’Agnese”. In questa azienda hanno visto la luce, le prime macchine da stampa offset e le prime fotocomposizioni. Nei primi anni ’80, grazie all’incremento dell’attività, è stata costruita

GRAFICHE BADIALI SRL Vi a M . C u r i e , 2 - 5 2 1 0 0 A R E Z Z O ( A R ) I TA LY Te l . + 3 9 0 5 7 5 9 8 4 1 2 0 grafichebadiali@grafichebadiali.it w w w. g r a f i c h e b a d i a l i . i t la nuova sede, dove tutt’ora l’azienda opera. Da allora, l’acquisizione delle tecnologie più moderne, hanno reso la “Grafiche Badiali” azienda leader del settore, in tutta l

provincia di Arezzo. I continui investimenti, ci hanno permesso, in questi ultimi anni, di portare all’interno

dell’azienda, la maggior parte delle lavorazioni, a vantaggio di un maggior controllo della qualità e dei servizi offerti alla nostra clientela. Infatti, l’esperienza acquisita e tramandata in quattro generazioni, in questi 80 anni di storia, ci consente di non essere semplicemente dei fornitori, ma un vero e proprio partner. Attenti ad ogni aspetto del nostro lavoro, dal 2011 abbiamo deciso di dotarci delle certificazioni ISO 9001:2008 per la qualità dei processi aziendali ed FSC per il prodotto, prestando grande attenzione e sensibilità, alla provenienza delle materie prime. Realizziamo cataloghi, brochures e depliant con i più vari sistemi di rilegatura sia nelle piccole che nelle grandi tirature, pieghevoli, manifesti, materiale commerciale, moduli in continuo, shoppers ed ogni tipo di packaging e gadget personalizzato, espositori e cartelli vetrina di ogni forma e formato. La nostra clientela è in genere altamente fidelizzata e distribuita in ogni settore merceologico: moda e tessile, eno-gastronomico, oreficeria, imprese di servizi, arredamenti, illuminazione e molti altri. Tra i nostri clienti annoveriamo: Prada, Graziella Group, Unoaerre, Textura, AEC Illuminazione, Monnalisa, Calzaturificio Soldini, CEIA, Gruppo Bancaetruria, Scart Group, Marchesi Antinori, Nannini Bags. Nel corso del 2015, abbiamo acquistato una nuova macchina da stampa f.to 70x100, la Roland 700 Evolution, la prima di questo modello venduta in Italia, la quinta in tutta Europa. Questa macchina a 5 colori con gruppo di verniciatura, ci permetterà ancora di più di

offrire quei servizi, che oggi una clientela sempre più esigente chiede. Se ci viene chiesto il perché di questo investimento così importante, in un momento di forte contrazione economica, a noi piace rispondere con un’aforisma di Albert Einstein: E’ dalla crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere superato.


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