SIRIO MALFATTI
due settimane ancora
Collana BibliHospice Due settimane ancora Autore: Sirio Malfatti © Ponte Blu Edizioni • 2014 Consiglio editoriale: Sandro Spinsanti, Ayres Marques, Gigliola Capodaglio Stampa/impaginazione
• Recanati • 10/2014
ISBN 978-88-98132-06-5
In copertina: Insieme a te (terracotta di Sirio Malfatti)
Alla memoria di Sara
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LA SINDROME DI SHEHERAZADE Tra la medicina e le arti esiste un’intesa consolidata nel tempo. Sono numerosi i professionisti della scienza medica che si concedono, quale “riposo del guerriero”, momenti privilegiati in cui si dedicano alla musica o alla pittura. Per non parlare dell’ambito artistico più frequentato: la letteratura. Esiste un’ “Associazione di medici scrittori italiani” che indice concorsi letterari. Anche il dottor Sirio Malfatti fa parte di quell’élite che alterna volentieri bisturi e penna. Coloro che godono il privilegio della sua amicizia sanno che dai cassetti della sua scrivania può far emergere romanzi polizieschi, con un commissario emulo di Maigret… Ma questa volta il dottor Malfatti ha imboccato una strada diversa. Ha indossato i suoi racconti come un fonendo da appendere al collo; li ha messi nella sua cassetta degli attrezzi con cui pratica l’arte medica. Ha usato i racconti per accompagnare l’ultimo tratto del percorso terreno di Caterina, una paziente affidata alle sue cure in hospice. Ancor più: con i suoi racconti ha sostenuto la sua lotta con il respiro per due settimane ancora. Sullo sfondo si profila la figura di Sheherazade, che inventa racconti per restare in vita. Come le infermiere dell’hospice, Sirio Malfatti è consapevole che gli ospiti che spiccano da quel trampolino il salto nel grande “oltre” danno a chi li assiste più di quanto ricevano. Caterina, insieme a quei malati che ha accompagnato fino alla fine, gli ha “ricordato di non essere solo un medico”. Neppure un medico idealizzato come James Kildare. Ma la lezione da trarre è ancora più vasta di quanto si è soliti mettere sotto l’etichetta di ”umanizzazione” dei professionisti sanitari; riguarda la medicina stessa: nella medicina c’è più della medicina! “Qien solo medicina sabe, ni aún medicina sabe” (“Chi conosce solo la medicina, non conosce la medicina”), sentenziava José de Letamendi, cattedratico di patologia generale all’università di Madrid e umanista celebre della seconda metà dell’Ottocento. Potremmo anche dire: la medicina che conta (e deve contare con rigore: i gradi della temperatura, la percentuale dei liquidi corporei, il numero delle gocce di sedativo da somministrare…) va a braccetto con la medicina che racconta. La prima è la medicina basata sulle prove scientifiche di efficacia (Evidence Based Medicine, in inglese), la seconda sulla narrazione e sull’ascolto ( ). Due facce di un’unica medicina, indissolubilmente unite come un Giano bifronte, ambedue indispensabili per praticare una buona medicina. Di recente una consensus conference organizzata dall’Istituto Superiore di Sanità ha definito la Medicina Narrativa come una metodologia di intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa: “La narrazione è lo strumento fondamentale per 5
acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura”. Ovvero, grazie alla narrazione si costruisce insieme un percorso di cura personalizzato e condiviso. Gli esperti di Medicina Narrativa non menzionano scarpette da ballerina, gite al mare, negoziazioni di quando iniziare la sedazione palliativa o la dispersione delle ceneri al mare, alla presenza dei delfini… Ma c’è tutto questo, e anche di più, in una medicina che sia fatta con la scienza e con il cuore. E a tutti noi, che ci aspettiamo il triste privilegio di ricevere buone cure durante il viaggio che ci toccherà fare attraverso malattie e decadenza fisica, rimane un auspicio: che la buona medicina non sia riservata esclusivamente all’ultimo tratto di strada. Le cure di fine vita, così come vengono praticate da Sirio Malfatti e da tanti altri professionisti della palliazione, hanno rivoluzionato la medicina che aveva privilegiato il guarire e dimenticato l’accompagnare. Ora i valori fondamentali della palliazione devono contagiare tutti gli altri segmenti del percorso, anche quelli che non si affacciano sulla morte; così che “James” (Kildare) non sia una felice eccezione, ma la regola. Sandro Spinsanti
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INTRODUZIONE Se l’Hospice di Cure Palliative fosse una nave alla scoperta di un nuovo mondo, e un po’ lo è, questo scritto sarebbe il suo diario di bordo. Con la storia degli ultimi giorni di Caterina, fino all’approdo alla terra dove entra solo chi non c’è più. Immaginario con personaggi veri o reale e attori di fantasia? Vedete voi, sottocoperta tutto è possibile. Negli Hospice le persone alla fine della vita desiderano raccontarsi ed essere ascoltate. Ma solo dopo aver trovato sollievo al dolore e alle altre sofferenze e se hanno intorno a sé una “casa” accogliente dove si muovono i propri cari e i nuovi amici. Qui la terapia del dolore e dei sintomi non è solo scienza medica, ma anche amore e rispetto, perché ogni cura è personalizzata, costantemente rivalutata, condivisa e al momento giusto, sospesa: quando è meglio non fare più niente. Caterina era su questa nave e le novelle del suo amico medico l’hanno accompagnata nelle ultime due settimane, giorno dopo giorno, aprendola ad emozioni, memorie e sogni. Per lei è stata la riscoperta del mondo della fantasia, che in qualche modo le ha riacceso la spiritualità. Per lui, allievo di Ippocrate, lo sforzo di convincersi che non si cura solo con le medicine ma soprattutto con umanità. Lo aveva dimenticato. La scia che lascia questo veliero è la speranza che ogni persona possa avere soddisfatta la richiesta di trovare sollievo al soffrire. Insieme alla certezza che ogni sanitario debba riconoscere in questo diritto un suo dovere di agire.
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13 febbraio «Dottore!... Che vuol fare?». «Susy! L’aspiratore al massimo!». «Dite di non accanirsi e poi… ». «Non è la sua ora! Solumedrol 500! Svelta, chiama le altre!». «Paola!... Stella!». «Ecco, è venuto fuori tutto quello che poteva! Dai! Respiratore a pressione positiva! Stringi forte la mascherina e aumenta l’ossigeno! Dai, che ce la fa!». «Tosse! Apre gli occhi… guardi, si sveglia!». «Deve svegliarsi! Non è ancora il suo momento, è stato un ab ingestis, ha inalato il vomito. Ce la può fare, deve farcela! Dobbiamo ancora parlare insieme di tante cose». «L’abbiamo lasciata sola un momento…». «Abbassa l’ossigeno a cinque, non rantola più. Controlla la saturazione. Caterina!… Caterina!… Stringimi la mano!». «Saturazione a 98, è tutto passato!». «Credo di sì. La maschera ora le dà noia, metti quella nasale, così è più libera. Caterina! Caterina! Stringimi la mano!». «Dottore, guardi, vuol dire qualcosa… Caterina, tranquilla, va meglio». «Susy, la fisiologica più veloce… Caterina, ci fai gli scherzi?». «Do… tto… re! Che schifo di minestra! Mi ha fatto venire la tosse, ma cosa ci mettete dentro? Gli scorpioni?». «Ti è andata di traverso, ma ora è tutto a posto». «Così si ricomincia». «Sarebbe a dire?». «Dottore, riparte il conto alla rovescia». «Caterina, hai già dimenticato che dobbiamo fare ancora qualcosa insieme?». «Ricordo tutto! Ci pensavo quando si è fatto tutto nero, credevo di andarmene. Ho ancora la tosse, aiutami a sedere… Mi dispiaceva perché è una bella idea: le nostre novelle!». «Susy, aggiungi questi antibiotici in terapia. Preparali ed inizia subito».
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«Dottore, me ne stavo per andare, vero?». «Non mi chiami più James?». «Sì, come il Dottor Kildare che sognavo la notte da bambina». «Io volevo diventare come lui». «Come età non ci siamo, ma per il resto gli somigli. Allora? Stavo per andarmene?». «Senza salutarmi?…». «Peccato! Ora saprei cosa c’è dopo e invece devo restare paralizzata in questo letto e immaginarlo soltanto». «Nel pomeriggio torno e parliamo del nostro progetto, così ti distrai». «James, non manca tanto tempo, hai parlato di settimane… ». «Mi hai obbligato tu ad essere sincero, ma in queste cose a volte si sbaglia di parecchio». «Mi sto preparando, e due settimane bastano. Meno sarebbe poco, ma di più, caro Dottore, non lo sopporterei proprio con i tubi che ho dappertutto». «Almeno i dolori li abbiamo mandati via… ». «Sì, ma lo sai come ci si sente da paralizzati? A volte sembro serena, ma tutto questo è contro natura! Come fanno quelli che stanno così per anni? E la notte? Con le medicine mi rintontite, ma sai quant’è che non dormo?». «Caterina ti abbraccio, sono da te prima di sera e resto finché non ti sei stufata. Intanto cerco di immaginare l’inizio della nostra prima storia». «Da qui non scappo, e scusa se un po’ rido e piango. Scrivi qualcosa che parli del buio, non lo scordare». «Ciao, torno presto».
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Povera Caterina! Sembrava guarita, ma due anni fa il male si è riaffacciato. Chemioterapia e poi radioterapia sulle ossa, ma non c’è stato niente da fare, ora le gambe sono paralizzate e il respiro è faticoso. Si può far poco se l’aria non ti arriva più, è insopportabile. Presto cominceremo con una sedazione, prima leggera e poi sempre più profonda e da quel punto non potrò più comunicare con lei, se ne sarà già partita lontana. Davanti a me resterà solo la valigia delle sue cose e dei suoi sogni. Ha la mia età, siamo due sessantenni: lei vedova da cinque anni e senza figli, io incapace tutta la vita di vivere in compagnia. Ma più passa il tempo e vedo persone andarsene, più mi convinco che sia meno doloroso chiudere gli occhi da soli, senza lasciare affetti. Anche se intorno a me vedo l’esatto contrario. Potevo essere in pensione, ma in quest’ Hospice per pazienti alla fine della vita per malattie tumorali, ho trovato una luce dimenticata. Il James plurispecializzato, con camice e fonendoscopio, è cambiato. È rinata la voglia di prendermi cura davvero dei malati, con storie e sentimenti da proteggere. Chi lavora qui è considerato come quei soldati mandati in missioni da cui non si torna: “Lavori in Hospice? Non ti invidio, come fai a resistere?”. “Chissà in che stato sei quando torni a casa!”. Per me la realtà è diversa. L’Hospice è l’unico ambiente d’ospedale (e in quarant’anni ne ho visti!) dove con i tempi giusti si possono unire professionalità e umanità. Ecco la differenza: qui non manca il tempo! Ed è una cosa importante, perché dà modo di svolgere un’azione dimenticata e difficile: ascoltare. Che non è sempre facile perché si ascolta con tutto il nostro essere: con gli occhi, le labbra, e le mani, che capiscono quando stringere e quando sfiorare. E con tutto il corpo, capace di leggerezza e di proteggere se occorre. Con Caterina ho dovuto tirar fuori tutta la fantasia di cui sono capace. Qui, dove la sofferenza e la perdita camminano per mano con forti sentimenti ed emozioni indimenticabili, la fantasia ci aiuta a porgere ogni giorno qualcosa di nuovo. La lettura di una poesia tornata alla mente di un paziente, l’immagine di un luogo che amava, una musica che lo aveva accompagnato in anni migliori… Tutto può affiorare in un colloquio affettuoso. Ed a volte una di queste piccole chiavi apre la mente al desiderio di riconciliarsi con i propri cari o con qualcuno più in alto in cui molti confidano. 10
Ora, Caterina, su questa scrivania cerco di dar vita a quello che mi hai chiesto. Quando ti ho confidato che scrivevo novelle per colorare le mie notti da solo, tu subito con quel pensiero veloce hai sussurrato: «Scrivine una per me! Per le paure ed i sogni rimasti sogni, forse mi sentirei più serena». «Caterina, dammi un titolo e dopo il tramonto te la porterò come del pane fresco fatto in casa». «Così potremo parlare come bambini di cose che altrimenti ci spaventano». Riuscirò ad accontentarla? Desidera che cominci con una novella sul buio: risvegliarsi chissà dove nel nero assoluto! Non le ho detto che temo anch’io qualcosa di simile, specialmente se è accompagnato da silenzio, immobilità e solitudine. Eppure, con queste storie devo tirar fuori per lei un po’ di luce, anche se la realtà è che il suo sguardo perso nel vuoto sembra escludere qualsiasi idea di speranza.
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Povero James! Con la neve che c’è, stasera vuol tornare. Dice che è il suo lavoro, ma non è vero, cerca di starmi vicino. Quando è qui mi sento protetta, so che proverà ad addolcire il mio sfacelo. Questa confusione mi assorda, ma non sono rassegnata. Mi sono adattata ma non l’ho mai accettato. Non è giusto finire in questo modo! Non ne parlo, mi fa star peggio. Quante cure e sofferenze! I vetri si sono appannati, non scorgo più la neve cadere. Rivedo il passato, ma sono immagini grigie e ferme: mio marito, quei ragazzi di scuola di trent’anni di vita. Tanti fotogrammi: visite, esami, terapie… Fermi e senza colore. È successo a me, sono io che mi sto spengendo paralizzata in questo letto. Non è la storia di qualcun altro, questa è la mia fine. Tra dubbi e domande è l’unica certezza che ho. James, torna presto, siedi vicino e tieni la mia mano! Sopporto tutto se ci sei tu, parlami di cosa succede fuori. Saperti accanto mi fa accettare anche l’idea che tutto finirà, purché sia tu a chiudermi gli occhi e ad abbassare il lenzuolo su di me. Sì, ora che stai scrivendo qualcosa per questa Caterina, vivo un’attesa che avevo dimenticato.
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«Salve, scrittore delle nevi». «Ciao, ha detto l’infermiera che hai riposato un paio d’ore». «A me è sembrato un minuto». «Sei riuscita a mangiare?». «Semolino e mela grattugiata». «Senti, potremmo farti… ». «James, non voglio altri nutrimenti. In vena mi basta un po’ d’acqua, sale e zucchero! Il più che tu dici l’ho provato per settimane e sono stata peggio». «Stasera sei combattiva!». «Se l’hai scritta, calmami con la novella». «È tutta qui, sulle due facce di questo foglio». «Mi piace, James, è concentrata. Ma oggi sono troppo stanca per leggere». «Leggo io e se ti vedo dormire sarò contento lo stesso». «No! Se ciondolo il capo come chi sta per addormentarsi, pizzicami il braccio, voglio conoscere la fine della storia». «D’accordo, ma dopo tre pizzichi ti lascio in pace. E capirò di essere divenuto uno scrittore al Valium». «Se funzionasse davvero così, ti farei venire a leggerne una tutte le notti». «Affare fatto! Comincio… ». «Il titolo?». «Poco originale: “Al buio”, come avevi suggerito». «Ma va bene, è semplice e si capisce già la trama». «Caterina, mi prendi in giro prima di averla letta?». «Vai avanti, ora sono felice e mi capita sempre meno… ». «Al buio… ».
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Iª Novella AL BUIO Nel castello di re Ido, che aveva ogni potere su persone e cose, venivano accolti con gioia i sapienti di popoli vicini e lontani, e grazie ai loro consigli tutti vivevano nel modo migliore. Un giorno, nella grande sala gremita di gente, entrò un uomo che camminava aiutandosi con un bastone ed indossava un abito dai colori splendenti. Procedendo lento ma sicuro, si fermò quando fu davanti al gruppo dei saggi. Uno di loro, sfiorando le sue sete colorate, chiese: «Sono lievissime e sgargianti, vestite tutti così nel tuo paese?». «Solo i ciechi dalla nascita come me» rispose il nuovo arrivato. «Non sembri privo di vista, ti ho visto giungere qui senza urtare nessuno». «Riconosco ogni soffio e rumore e il mio corpo sente tutto ciò che lo circonda». A queste parole i sapienti si strinsero intorno a lui, e il più anziano disse: «Se è davvero così, conoscerai il colore dei miei occhi». «Certo!» replicò l’altro «Blu come il mare profondo!». «Hai indovinato, ma che ne sai tu dei colori dell’oceano se non l’hai mai visto? Io credo che tu stia mentendo!». Allora colui che affermava di non vedere, si coprì il capo con il mantello scuro che portava in braccio e sussurrò a bassa voce: «Chiedetemi ciò che volete, io risponderò dall’oscurità che mi circonda». Portarono oggetti di ogni tipo e pergamene in varie lingue, ed egli dal suo buio riconobbe ogni cosa e lesse ogni scrittura. Mentre quei dotti si interrogavano stupiti, re Ido si avvicinò, alzò il drappo che copriva l’uomo misterioso e chiese con dolcezza: «Parlami del tuo modo di vedere l’azzurro del cielo sereno». «Maestà, è l’insieme di tante vibrazioni: trasparenze di vetri delicati, luci e calore del sole, volo di uccelli, brezza e sapori di venti lontani, silenziose speranze… ». «Il colore è ben poco in confronto a tutto questo». «Sì, mio re. E nel buio che voi immaginate sia dentro di me, avverto distintamente ciò che ho detto». «Un mondo più ricco di quello che vediamo noi». «Fin da bambino ho cercato di sentire con mente e corpo ciò che gli occhi non potevano vedere».
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Re Ido fece alloggiare quell’uomo nella stanza più grande e vi portò i quadri e gli arazzi più belli ed ogni altra opera d’arte che possedeva. Poi invitò al castello i ciechi del reame, perché imparassero anche loro i modi segreti per vedere di nuovo. Quando tutti furono capaci di questo nuovo tipo di vista, il sovrano andò a trovare nella sua stanza l’artefice di questo miracolo e lo trovò con le mani appoggiate su un dipinto. «Questa tempesta sull’oceano odora ancora di salmastro». «Amico» disse il re «Esiste un buio peggiore di quello di chi è cieco?». «Sì, quando l’anima ha perso la speranza». «È un’oscurità che spaventa». «Più di ogni altra cosa, Sire, e non ci sono parole per vincerla». «Che colore ha ai tuoi occhi?». «Il nero assoluto!». «Che tinte useresti per contrastarlo?». Il cieco si avvicinò al camino e soffiò più volte sul ciocco d’abete incenerito. Quando il fuoco riprese a danzare, rispose: «Mio re, quelle di tutto l’arcobaleno, ma non basteranno». «Manca qualcosa, forse soffiare come hai appena fatto?». «Sì, è il linguaggio con cui comunicano le anime». «E può riportare colore anche nel buio senza fine?». «Maestà, anche se non vince sempre, l’amore è l’unica luce che abbiamo». Quella notte, nel cielo più nero, le stelle brillarono come non si era mai visto. «Avevo ragione, Caterina, ti sei addormentata». «Ascoltavo ad occhi chiusi». «Prima che io cominciassi a leggere dicevi di sentirti felice». «Ora di più, ma ti prego, non parlare, non dire niente… ». «Se vuoi, ti lascio in pace. Fammi solo cenno con il capo». «Gabri, ho spento la luce, Caterina vuole riposare. Lasciatela dormire». «D’accordo Dottore». «Buonanotte». «Buonanotte».
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14 febbraio «Sì, pronto! Ma che ore sono?». «Le cinque e mezzo, Dottore. Scusi se l’ho chiamata, ma Caterina stamani è strana. Non vuol farsi lavare e dice piangendo che vuol restare al buio». «Lasciatela stare finché non arrivo». «Sì, sì, ma poi cominciamo con le terapie e gli altri servizi e salta tutto. Secondo me è uscita di testa». «Stefania, dille che mi hai parlato e che quando arrivo la voglio trovare pulita e profumata». «Non so se funzionerà, sembra proprio decisa». «Sussurrale all’orecchio che lo ordina Re Ido». «Chi?». «Re Ido!». «E chi sarebbe?». «Dille così». «Ci provo, Dottore. Arrivederci e mi scusi». «A tra poco». È facile dire: “è uscita di testa”, penso invece che cerchi una via di fuga. Caterina ha sempre voluto le luci accese, anche di notte, ed ora vuole stare al buio. Sarà forse entrata nella novella? Sto fantasticando, cerco solo di farle sentire che in quel labirinto, la cui porta d’ingresso è la paura e quella di uscita la pace, sarò sempre accanto a lei. Che cosa succederà nei prossimi giorni? Riuscirò a dare risposte sincere come le carezze? Ancora il telefono, oggi si comincia bene! «Pronto!... Dimmi Stefania». «Dottore, Caterina si è fatta lavare e ora è calma». «Bene!». «Re Ido ha funzionato!». «Ma dai!... ».
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Accidenti, da tanto non mi guardavo allo specchio in questo modo! Ehi, il tempo corre e se ne va e parlo tanto con gli altri ma non con me stesso. Forse è la paura? Ascolto ogni giorno domande difficili e dolorose e cerco di trovare risposte o almeno parole che possano consolare, ma con il vero “James” taccio. Perché? Forse nei dialoghi quotidiani esaurisco ogni energia? Oppure, senza accorgermene, parlo con il me che è nei pazienti? O, semplicemente, ho bisogno del silenzio per ricaricarmi? Forse è tutto questo. È che io non ho certezze profonde, ma se le avessi, forse sarebbe più difficile un ascolto aperto e rispettoso. E la fantasia, che soccorre chi come me naviga nel dubbio, è spesso più fragile se ci siamo dati risposte definitive. Io cerco di tenere aperte quelle finestre dell’infanzia che fanno comunicare con il prossimo: è vero, entrano anche incertezze e sofferenze, ma almeno possono uscirne parole e sentimenti più autentici. Comunque oggi è un altro giorno, vai a lavorare Dottor “dei dubbi”.
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«Dottore, stamani abbiamo provato con il thè, ma non ha tenuto neanche quello. Beve poco, è disidratata». «Lo so Stefania, continuiamo con le fleboclisi di fisiologica e glucosata, è l’unica cosa che accetta». «Nel reparto dov’era prima, per nutrirla le avevano messo il sondino». «E dopo due giorni se l’è strappato via. Era eccessivo, lei lo ha capito da sé». «Dottore, vado in medicheria, se ha bisogno mi chiami». «OK… Ed ora a noi, Caterina… Buongiorno!». «Buongiorno Dottor James, sto da schifo ma profumo come una rosa». «La pressione è a posto e il polso stamani è tranquillo. Hai dolori qui?». «Come si sentirebbe la tua pancia dopo quello che mi hai fatto fare?». «L’intestino era fermo da una settimana… ». «Sii sincero, James, d’ora in avanti andrà sempre peggio? Con quest’affanno fra un po’ non parlo più». «Ti aumento l’ossigeno». «No, lascia così, prosciuga il naso. Mi disturba tutto, non ce la faccio più… Sai cosa vorrei più di ogni altra cosa?». «Pensieri tristi o belli?». «Belli». «Essere sul mare sotto il sole?». «Proprio questo! Te lo ha suggerito il cieco del castello di Ido?». «Rimpiangi sempre il mare perché ti cullava leggera». «Invece sono un peso morto. Mi basterebbe vederlo da lontano uno spicchio di oceano». «Potrei scriverci una novella, Caterina, ma dimmi qualche tua sensazione per farmi fantasticare un po’». «Le mani nella sabbia, gli occhi chiusi e il pensiero che vola via lontano… ». «Sentirsi liberi». «Specialmente dal male. James, sei pensieroso?». «Quando hai parlato di uno spicchio d’oceano, mi è venuta un’idea: si potrebbe fare!». «Che cosa?». «Vedere insieme il mare!». «Non so cosa darei! Ma in questo stato… ». «Caterina, ascolta! Ci arriviamo in ambulanza e poi portiamo la barella al muretto, sul promontorio. Da lì si vede l’infinito». «Ce la farò?». «Io dico di sì! E prenderesti anche un po’ d’aria!». «Non vedo l’ora, anche se sono mezza morta». 18
«Che parole grosse! Me ne vado, torno tardi col buio». «Che ormai non mi spaventa più!». «Se riesco ti porto un’altra novella: “Le mani nella sabbia”, mah!». «Doc, è proprio il giorno giusto per un regalo, è San Valentino». «L’avevo dimenticato!». «Non è buon segno per un bell’uomo come te». «Anche i complimenti, non li ricordavo… ». «James, pensami, ho tanta paura!». «Questo abbraccio è per San Valentino. Ricordalo, ti porto sempre con me!».
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Speriamo sia per domani e che abbiano pensato a tutto. Caterina può peggiorare da un giorno all’altro e a quel punto addio ultima gioia! «Pronto! Croce Rossa? C’è il signor Pilade? Ah, è lei». «Dottore, eccomi! Tutto bene! Domani alle 14 arriviamo all’ Hospice e in un’ora andiamo e torniamo. Per fortuna il tempo sarà bello». «Grazie Pilade. Ascolti, alle spese ci penso io». «Neanche per idea! Si fa fuori servizio, da volontari veri, al resto ci pensa la Croce Rossa». «Ringrazi tutti!». «Grazie a voi per quello che fate». San Valentino: la festa degli innamorati! Per me gli innamorati si pensano e si parlano ogni giorno, non c’è bisogno di una festa o di un regalo. Eppure Caterina ci pensava. Immobile in quel suo letto, ma ci pensava. Forse ricordava un giorno lontano, quando per la prima volta scambiò un dono con un ragazzo. O le è riaffiorata alla mente l’immagine di suo marito. Non lo so, ma per lei questa data ha un significato. Ed io mi sono impegnato a festeggiarla con un’altra novella, nata dal ricordo del mare e del sole: “Le mani nella sabbia, gli occhi chiusi e il pensiero che vola via lontano”. Non percepisce più la sua originale fisicità! Ora nuove sensazioni, lente ma inesorabili, hanno preso il dominio: l’incapacità di muoversi, il peso di ciò che era lieve, l’impossibilità di atti naturali, odori che non avrebbe mai pensato potessero appartenerle, quel respirare difficile e tante altre privazioni che chi è sano non conosce. Non sentirà più il contatto della sabbia, per questo il suo pensiero vola via da quel triste letto, forse in un’isola dove ogni cosa può nascere ancora, perché il mare rigenera. Come lenire questa inconsolabile sofferenza? Posso darle solo un’affettuosa vicinanza, forse suscitare in lei interesse per qualcosa che amava. E provocarle un sorriso: sì, è ancora capace di sorridere. “Le mani nella sabbia”… Mi sdraio sul divano e ad occhi chiusi cercherò anch’io di volare lontano alla ricerca di un’ispirazione. IIª Novella 20
LE MANI NELLA SABBIA Isior viveva da sempre nel deserto e ne conosceva i segreti. Per aiutare a sopravvivere chi abitava in quei luoghi aridi, aveva inventato tante cose: dallo specchio che nelle notti fredde raccoglieva l’acqua invisibile dell’aria, al piccolo congegno che attaccato alla zampa del cammello indicava il percorso fatto dall’alba al tramonto. Era ormai vecchio quando la sua fama giunse alle grandi e ricche città oltre le distese di sabbia. Aksum, un re guerriero di quei luoghi, volle conoscerlo per prenderlo al suo servizio. Quando i suoi inviati giunsero alla piccola oasi, Isior li accolse con il pane, il sale e questo saluto: «Entrate, oggi la mia casa è la vostra». Il capo di quegli uomini replicò con voce dura: «Devi venire con noi, costruirai per il mio re una macchina che misura il tempo». Il vecchio, che era stanco e malato, scuotendo il capo rispose: «Non posso, morirei in viaggio. Dite al re che tra sei lune potrete tornare ed egli avrà ciò che chiede». «Attento, se non sarà così, distruggeremo queste palme e chi vive sotto di esse». Da quel giorno Isior studiò il movimento del sole e della luna e i cambiamenti delle ombre nei diversi momenti della giornata. Dalle stelle aveva capito che ogni cosa ritorna ciclicamente al suo posto e che ogni azione ha un inizio e una fine. Eppure non riusciva a costruire qualcosa che misurasse lo scorrere del tempo. Quando ormai mancava un giorno al ritorno dei guerrieri di Aksum con la loro terribile promessa, il vecchio si gettò sulla sabbia del deserto e stringendola nei pugni cominciò a gridare: «Inutile rena che da sempre accompagni la mia esistenza, così mi ricompensi per averti sempre studiato e rispettato?». Poi, rivolto al sole, aperte leggermente le mani, fece scendere un filo di sabbia verso il viso. E mentre guardava la fine pioggia dorata scendere su di lui, d’improvviso qualcosa si accese nella sua mente. Corse alla capanna ed uscì con un piccolo recipiente di vetro. Lo riempì con la sabbia che era sotto ai suoi piedi e poi, dolcemente, ne fece discendere a terra il contenuto. Ripeté mille volte quel gesto, cambiando l’inclinatura e tappando in modi e tempi diversi la piccola bocca d’uscita. Poi, preso un contenitore identico, fece passare quella sottile polvere del deserto da uno all’altro, tenendo accostate le loro strette estremità. 21
Quella notte nella piccola casa di Isior le candele non si spensero mai. Al mattino i guerrieri inviati dal re presero in consegna un piccolo oggetto che serviva a misurare il tempo. Se una mano attenta capovolgeva il piccolo recipiente appena tutta la rena aveva finito la sua discesa, il ciclo riprendeva e ognuno poteva conoscere l’ora del giorno e della notte. Rimasto solo, il vecchio si distese soddisfatto sul mantello accogliente del suo amato deserto. Rifletteva sulla vita e considerava quanto fosse piccolo l’uomo. Tutto, anche la cosa più insignificante come la sabbia, può generare le idee ed i sogni più grandi, perché ogni cosa è scritta ed è già intorno a noi. Basta aprire la finestra dell’immaginazione e saper ascoltare.
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«James, ora sai perché ti vorrei sempre vicino!». «Te l’ha suggerito Isior?». «Sì, altrimenti chi girerebbe la mia clessidra del tempo? Rispondi… ». Senza volerlo, ho portato Caterina a riflettere sul tempo che ancora le manca. Ne abbiamo discusso spesso, eppure adesso sembra farlo con minore angoscia. Saranno state le immagini del vecchio saggio e della sabbia del deserto a portare quel misto di accettazione e fatalità che le parole da sole non riescono a dare? Immagini che entrano più facilmente quando abbiamo perso tutto ciò che prima avevamo, o come da bambini, quando tutto è ancora da scrivere. «Caterina, pensa alla gita al mare di domani, così stanotte dormirai». «Sei abile a cambiar discorso, lo spero tanto». «Non cambio discorso, è che non so cosa dire». «Perché non conosciamo cosa c’è dopo». «Mi stai suggerendo un’altra novella?». «James, forse si va nel difficile». «Non ci pensare: il titolo!». «“Cosa c’è dopo”». «Esclamativo o interrogativo?». «Fai te». «Posso scherzare? Ah, saperlo!». «Caro Dottore, mi fai sempre ridere». «A domani!». «Clessidra permettendo, ciao».
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Respiro male… sono così debole… Che sollievo non svegliarsi più. E dopo? Che angoscia! Eppure sono curiosa per la prossima novella di James… Come è possibile? Lo immagino a casa a scrivere per me. Non vedo l’ora che sieda qui e cominci a leggere. Quasi fossi al mio primo innamoramento… Invece scorgo già i cipressi del camposanto. Non c’è nessun altro intorno a me… James, con le novelle mi dai serenità. Sono così confusa! I pensieri corrono da sé… Ti prego, dammi la mano… Portami nel tuo mondo magico!...
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15 febbraio «Caterina, metti la sciarpa sulla bocca, così». «Peccato, il cielo oggi è grigio». «Avevo ordinato una giornata di sole e cielo azzurro». «È bello lo stesso… James, cosa c’è dietro quella nebbia?». «Lo vedo, si sta avvicinando qualcosa». «Non mi avrai fatto una sorpresa?». «Quelle le faccio solo con la penna. Guarda, è proprio sotto di noi». «James, non sarà qualcuno che è annegato?». «Ma no, è il tronco di un grande albero». «Un albero morto… è venuto a trovarmi». «Hai freddo? Vuoi che torniamo?». «Non ancora». «La nebbia si sta diradando». «Così saluto i delfini». «Quali delfini, Caterina?». «Quelli che ho sognato stanotte». «Anche tu scrivi novelle?». «Hanno detto che venivano». «Possiamo immaginare di vederli». «James, c’è qualcosa là, alla scogliera… ». «Scie di schiuma… incredibile! Hanno mantenuto la promessa». «Sono qui per me! Saltano fuori dell’acqua!». «La vita che continua, ora sono scomparsi nella nebbia». «Forse li incontrerò laggiù, Dottore». «Spero sia così, Caterina». «Deve essere così, deve essere così!». «Ecco i barellieri, dobbiamo andare». «Sì, ho freddo e tanto sonno». «Venite!... Possiamo tornare».
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IIIª Novella COSA C’È DOPO? Nacquero due gemelli tanto simili che nessuno poteva distinguerli, se non fosse stato che Quivir aveva una piccola voglia rosa sulla spalla sinistra e Quemar una identica ma di color viola. Quivir amava il mare ed aiutava il padre pescatore. Su una barchetta a vela, ogni giorno esploravano le mille isolette vicine alla ricerca di pesce sempre nuovo. Ma quel giovane era inquieto ed anche se la pesca era stata abbondante, guardava l’orizzonte ed indicando nuove terre, chiedeva: «Che cosa c’è dopo, là dove tramonta il sole?». «Figlio mio» rispondeva suo padre «ci sono altre terre ma il mare è tutto uguale, cerca di essere felice di ciò che peschiamo qui». Quemar amava la campagna e ogni mattina all’alba accompagnava la madre nei campi vicini per raccogliere i frutti che in abbondanza offriva la natura. Eppure non era mai contento e additando le montagne lontane, domandava: «Che cosa c’è dopo, oltre quei monti innevati?». «Altre terre» diceva la madre «ma i loro doni sono gli stessi che vedi qua». Gli anni passarono, Quivir e Quemar divennero uomini e poi padri. I loro figli proseguirono la stessa tradizione di lavoro, ed un giorno gli anziani gemelli sentirono la stessa domanda: “Che cosa c’è dopo, oltre l’orizzonte del mare e delle montagne?”. Essi risposero: «Ci sono altre isole e terre, ma voi imparate a pescar bene e a far crescere come si deve il grano e le piante». Quando quei giovani furono grandi, vollero andare oltre gli orizzonti conosciuti. Scoprirono molte cose, ma si accorsero che più in là di ogni luogo che visitavano, c’erano nuove isole e montagne. Si posero di nuovo la domanda che prima di loro si erano fatta i genitori, ma alla fine restarono nell’ultimo luogo che avevano raggiunto. Quando furono vecchi, tornarono ad abitare nell’antica terra di origine e qui a chi chiedeva cosa c’era dopo, rispondevano: «Non chiedetevi cosa c’è dopo, ma invece da dove venite e quali sono le vostre radici. Perché “dopo” c’è sempre un altro “dopo”, e “dove” c’è solo un altro “dove”». Molti si fanno la stessa antica domanda di Quivir e Quemar. Non la fa il grano, che aspetta con ansia l’alternarsi delle stagioni e neppure gli esseri marini: essi sanno da sempre che c’è solo un grande, unico oceano. 26
«Doc, se tu fossi un amico condurresti qui Quivir e Quemar». «Proverò a cercarli, nel mondo della fantasia tutto è possibile». «Vorrei essere sulla barchetta con Quivir e suo padre per vedere all’orizzonte le isole lontane. Sarei io a spiegare che dopo c’è sempre un altro dopo». «A proposito di mare, la gita al promontorio ti ha stancato, oggi il tuo cuore batte veloce». «Ne valeva la pena, non avevo mai visto i delfini». «Anche la pressione è più bassa». «Smetti di fare il Dottore. Va tutto bene, sto soltanto morendo, non descrivere ogni momento come se fossi una cartella clinica». «Scusa». «Non farmi sentire una malata, ora sono qualcosa di diverso. Ecco, come quel tronco d’albero. Non si può far più niente, a meno che dopo… ». «… non appaiono i delfini». «E corrano felici a vivere da qualche altra parte». «Questo “dopo” ritorna sempre». «James, finché riesco a pensare, voglio riempire questo “dopo” con qualcosa di bello. Perché mi lasci la mano? È fredda stecchita?». «Ecco la mano. Sai che ora è più calda? Non dimenticarti il nuovo titolo». «Già, la quarta novella. Quante ne faremo ancora insieme?». «Non lo so, Caterina» «Non perderle, potrai farci un libro… dopo». «Un libro?». «Sì, come le Mille e una notte. Tu le leggi dopo il tramonto, e la persona malata vive un altro giorno, fino alla prossima novella. E così via, per tutto il tempo che vorrai». «Fosse vero ti porterei a casa e diverrei la tua Sheherazade». «James, puoi tirarmi più su? Respiro male». «Eccoti a posto. È tardi, devo vedere gli altri pazienti, a domani». «Aspetta! Il titolo, due parole per queste gambe che non si muovono più». «Come fossero una medicina?». «Le tue novelle sono più di una medicina per me. Sai che non ricordo più come si muovevano?» «Prova con un’immagine, Caterina. Torna a quando avevi sedici anni». «Prendevo lezioni di danza classica». «Una ballerina con il tutù». «“Stai sulle punte!” gridava l’insegnante. E a casa passavo ore ritta sulle scarpette». «“Stai sulle punte”, mi piace. Stanotte dovrò salire anche io su un palcoscenico A domani!». «Buona notte, Nureyev». 27
Ballavo sulle punte? È la storia di un’altra o ero io? Ballavo sulle punte… Chi ha vissuto al mio posto? Mi sembra di esser sempre stata qui. Prima, andavo spesso in chiesa. Non ricordo perché. Non ce l’ho con nessuno… Ma finire così... Ballavo sulle punte… James sta scrivendo per me. Sono confusa, ma aspetto la sua voce. Un po’ di luce… di fantasia… Ballavo sulle punte…
“Stai sulle punte”… Non ho mai ballato, eppure devo infilarmi le scarpette da punta e costruire qualcosa che dia un po’ di pace a Caterina. I suoi ricordi stanno svanendo, presto dimenticherà perfino cosa è successo il giorno prima. Eppure, la sua capacità di immaginare e di entrare nelle fantasie aumenta giorno dopo giorno. Forse è per questo che aspetta le novelle, quasi fossero i passi che non può fare. Non voglio pensare a quando non ci sarà più. Lei ha riempito il mio tempo e la mia immaginazione come nessun altro. Non sono io a fare qualcosa per lei, è lei che sta dando significato a questa parte della mia esistenza. Devo dirglielo. “Stai sulle punte”… Avanti, James, l’orchestra ha cominciato a suonare, disegna i passi per la danza di Caterina.
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16 febbraio «Dottore, vado da Caterina per un saluto». «Certo, Padre, ha appena finito le medicazioni. La sua pelle è sempre più fragile, va trattata come quella di una farfalla». «Che tra poco spiccherà il volo?». «Sì, ci lascerà presto». «Era mia parrocchiana». «La conosceva già?». «Una donna generosa, dava lezioni gratuite ai nostri ragazzi. Dolce e paziente». «E con una fantasia che mi riempie di meraviglia. Perfino in questo stato!». «Il suo è un lavoro difficile, Dottore». «Come il suo, Padre». «Possiamo solo ascoltare, è difficile trovare le parole adatte. Ma io dovrei fare anche qualcos’altro… ». «Stare vicini con rispetto è già molto». «Non prega insieme a me». «Un uccello ferito non canta». «Dirò una preghiera per lei». «Silenziosa, Padre. Salirà più in alto, il cuore di Caterina è già là». «Io entro, Dottore, ci vediamo». «Arrivederci».
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«James, nei sogni accadono cose che nella realtà non vorremmo fare». «Stavi dormendo, non hai visto chi è appena andato via?». «No, mi sono svegliata quando sei entrato tu». «Parlavi di sogni». «Pregavo! Era un po’ che non capitava, avevo troppa rabbia dentro». «Ne hai tutte le ragioni, Caterina». «Sì, ma è inutile prendersela con qualcuno. Sono in questo stato, punto e basta». «Ricordi che preghiera era?». «Non sentivo le parole, ma di sicuro pregavo». «Ti dispiace averlo fatto?». «Non lo so, ma è come aver chiesto scusa, e a me non pare di aver fatto del male a nessuno». «Caterina, io non prego, o almeno non come fanno tanti, ma non credo che pregare sia chiedere scusa o qualche favore». «Bagnami le labbra, James, sono secche». «Ecco fatto». «Un po’ più su, per favore». «Il vantaggio di esser magra è che ce la faccio da solo». «Invece tu sei un ciccione». «Non c’è male». «E allora, cos’è per te pregare?». «Non pensi che se uno prega sia perché crede che qualcuno lo ascolti?». «Quel qualcuno non è stato un padre buono con me». «Ad un padre si può dire solo: grazie!». «Forse per quella che ero prima, non per come sono ora». «Caterina, non ho scelto questa parola nel senso di ringraziare». «Grazie vuol dire grazie!». «Per me, affidarsi, avere fiducia». «James, hai fatto Medicina o hai studiato dai Gesuiti?». «Sono contento che tu ogni tanto sorrida. Ora, ricordi le parole del rito del matrimonio: “Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore?”». «Sì, “e nella salute e nella malattia”, le ho ancora in testa». «Chi ha fede ha fatto la stessa promessa, non al coniuge, ma a chi sai tu». «Con possibilità di divorzio!». «E di riconciliazione!». «Dottore, non so più a chi e a che cosa credere». «Agli scrittori di novelle?». «Certo! Ne sto toccando uno ora». «Allora socchiudi gli occhi mentre abbasso le luci». «Sono pronta, James, comincia pure». «Stai sulle punte…». 30
IVª Novella STAI SULLE PUNTE Jacqueline era nata piccola e tale era rimasta anche alle scuole elementari. Suo nonno, che era un medico condotto, un giorno le suggerì: «Se cammini sulle punte dei piedi, diverrai più alta». E così fece in ogni circostanza della vita. Le costava fatica, e a volte era doloroso camminare con i polpacci induriti, ma niente la scoraggiò mai. Quando fu una signorina, l’insegnante di danza classica le disse: «Stai sulle punte e imparerai come si danza». Jacqueline così vide per la prima volta le scarpette da punta delle ballerine e scoprì che con queste era facile camminare in punta dei piedi come aveva fatto con fatica da quando era nata. Nella città dove abitava, tutti ormai conoscevano la ragazza che camminava in un modo diverso da tutti gli altri. Sposò e divenne mamma, e dovunque fosse non perse mai quest’abitudine. Invecchiando, le fu difficile mantenere quella strana andatura perché si era appesantita e le ossa scricchiolavano. Allora, con la volontà che aveva sempre messo in ogni cosa, iniziò una dieta impegnativa e in poco tempo divenne così fine da sembrare trasparente. Nelle giornate ventose, sia perché con quelle scarpette camminava in punta di piedi, sia perché era leggerissima, la graziosa vecchina portava con sé una borsetta piena zeppa di monete. E solo grazie a questo piccolo tesoro non veniva portata via per aria. Ormai molto avanti con gli anni, un giorno che il libeccio soffiava fortissimo, Jacqueline incontrò una ragazza scalza che chiedeva l’elemosina appoggiata al portone di una chiesa. Carezzandola, le chiese: «Qual è il tuo numero di scarpe?». «Non lo so, non le ho mai portate». «Credo che queste ti andranno bene». Così si tolse le scarpette da punta e le mise ai piedi della povera. «Sono tue, sembrano fatte per te, e prendi anche questi pochi soldi, a me non servono più». Appena Jacqueline lasciò la borsetta, un turbine di vento la circondò e la portò in alto, sempre più lontano, fino a quel luogo ancora sconosciuto dove tutti camminano in punta di piedi. 31
Manca poco a mezzanotte. Come passa veloce ogni cosa! Se quel sapiente del deserto si fosse dimenticato di inventare la clessidra, forse oggi potrei tentare di fermare il tempo. Ma tu, Caterina, non lo desideri. Vuoi solo andartene come un delfino all’orizzonte o come Jacqueline, che volò via in punta di piedi. Sarei felice se queste immagini lievi potessero alleggerire il peso che porti, ma non basteranno. Sono le ultime piccole cose che tu riesci ancora a chiedere ad un uomo che da tempo si è per fortuna ricordato di non essere solo un medico. Poco fa, dopo l’ultima novella, il tuo sorriso mi ha chiesto di lasciarti al buio, senza parole, senza gesti. Eppure, in quella tua solitudine che mi escludeva sapevo che le mie fantasie giocavano con la piccola luce che è ancora in te. Le scarpette da punta mi danzano nella mente ed avvertono che devo fare ancora qualcosa. La notte ed i sogni mi parleranno nel loro linguaggio misterioso e forse con il sole di domani conoscerò il tuo desiderio nascosto.
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17 febbraio «Abbiamo molti tipi di scarpette da punta. Se mi dice per che tipo di ballo, sarà più facile portarle quelle giuste». «Per qualcosa di simile alla morte del cigno». «Danza classica, andiamo sul sicuro! E il numero?». «Uno qualunque, anzi, le più piccole che ha». «Scusi, sono per una bambina?». «No, ma è come se lo fosse. Mi correggo, sono per una bambina». «Sui nove, dieci anni? Altezza normale? Va bene, porto vari modelli». «Non importa, ne basta uno». «E il colore? Ne abbiamo diversi». «Preferirei il rosa». «Se non entrano, le riporti che le cambiamo.». «Sono sicuro che queste andranno bene». «Faccio un pacco regalo?». «Una cosa semplice». «Se è la prima volta che le porta, faranno male. Prenda anche dei cerottini trasparenti». «Non è più una ballerina, servono solo come ricordo». «E non camminerà più in punta di piedi?». «Lo farà, certo che lo farà!». «Deve stare attenta, può farsi male». «Stia tranquillo, non succederà». «Posso chiederle come si chiama?». «Jacqueline, si chiama Jacqueline». «Scarpette da punta… ». «Io le ho viste oggi per la prima volta, sono leggerissime!». «Saranno tue, James, non lasciarle qui quando non ci sarò più». «Riposeranno sopra il camino di casa mia, calde e pronte per Jacqueline». «Vedi quella busta sul comodino? Aprila». «“Per la famiglia di Ahmad”. E quest’assegno?». «Per i genitori di quel ragazzo». «Ah… il giovane marocchino che non ha i soldi per l’università. Una bella cifra, Caterina. Se studia come deve, avremo un altro medico». «È tutto quello che ho, poso anch’io la mia borsetta con le monete così potrò volare in quel paese lontano». «Oggi stesso Ahmad avrà il suo biglietto per il treno della speranza». «Sono tanto stanca, questo braccio non si alza quasi più. Ma non importa, tanto fate tutto voi». «Hai coraggio, io non sarei capace». «Sono solo assuefatta a qualcosa che mi ha svuotata ed ora è al posto 33
mio. Dottore, non credevo che fosse così difficile morire». «Ma noi a questo “qualcosa” non la diamo vinta e si va avanti con le novelle». «A costo di finire l’ultima quando sto per andare via». «A proposito di novelle, il dono ad Ahmad ti ha fatto venire qualche idea?». «James, ti stai accorgendo che non ho quasi più voce?». «Sì, così posso starti ancora più vicino». «Quando ho pensato all’assegno, ho ricordato una frase di mio papà: “Fatteli bastare!”. «“Fatteli bastare” lo diceva anche il mio, insieme alla paghetta della settimana. Come ci stavo attento, ho imparato allora ad esser più grande». «Non so cosa ci tirerai fuori… Mi puoi alzare la testa?». «Ecco, e bagnati le labbra, Caterina». «Hai guardato il sacchetto della pipì? Come va?» «Giusta, i liquidi non ti mancano». «Alla fine seccherà tutto?... Ehi, non rispondi alle domande da dottore?». «Risponderò quando accadrà». «Sì, aspettiamo». «Ti lascio, finisco il turno e nel pomeriggio vado dal tuo Ahmad». «E la novella?». «La scrivo dove capita, a volte anche ai semafori rossi. Non ti preoccupare, prima di notte riposerà sul tuo guanciale». «James, se con il ghiacciolo passa quest’arsura, provo a dormire. Grazie a te, per i sogni posso scegliere». «Delfini o Jacqueline?». «Delfini». «Ciao». «Ciao, e ricorda: “Fatteli bastare”».
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«Dottore, non potremmo mai sdebitarci per questo dono». «Se suo figlio Ahmad studierà bene, Caterina avrà la sua ricompensa». «È vero che sta per morire?». «Sì, signora Amira». «Quante volte è venuta in questa casa per insegnare a Ahmad… e senza volere un soldo!». «Suo marito è tornato in Marocco?». «È arrivato un bambino nella famiglia di suo fratello». «È tutto difficile quando si è lontani». «Ma questa nascita ha portato felicità». «In autunno Ahmad potrà iniziare l’università». «Dottore, fin da piccolo voleva fare il medico». «Se è così, lo diverrà certamente». «Domattina, verrò in ospedale con mio figlio per ringraziare la signora». «Ci sarò anch’io, ma credo che la troverete addormentata, è molto stanca». «Se dorme, poi le direte che siamo venuti a ringraziarla». «Arrivederci signora Amira, la pace sia su di voi… as-salām ‘alaykum… ». «E con voi sia la pace… wa ‘alaykum as-salām».
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Vª Novella FATTELI BASTARE Il grande pittore Bartolì accolse nella sua casa il giovane Bernardo, figlio di un uomo che scontava in prigione una lunga detenzione. Lo aveva fatto per riconoscenza verso la madre, sua amata domestica per anni. Attraverso di lei aveva conosciuto i disegni del ragazzo ed era rimasto colpito dalla sicurezza di quella mano leggera. «Terrai pulita la casa e provvederai a tutto ciò che mi occorre per vivere. In cambio, abiterai nella stanza sotto il tetto e potrai fare tutti i disegni che vorrai, ma non dovrai mai entrare nel mio studio di pittore». Dopo alcuni mesi Bernardo presentò al pittore i suoi ultimi disegni a carboncino. Bartolì li guardò con attenzione e con voce decisa, disse: «Bernardo, sarai mio allievo se con questi riuscirai a dipingere il cielo di primavera». E gli mise in mano una tela bianca e tre tubetti di colore: bianco, giallo e verde. «Maestro, anche se non conosco la pittura, vedo che mancano dei colori importanti. Come posso fare il cielo solo con questi?». «Prova, fatteli bastare». Nei giorni seguenti il giovane fu più volte tentato di entrare nello studio del pittore per impossessarsi dei colori che non aveva, ma non lo fece. E gli fu ancor più difficile resistere al desiderio di rubare le monete che Bertolì lasciava dovunque, per andare a comprare le tinte che gli mancavano. Una notte, dopo mille ripensamenti, decise di smetterla con quella vita. Mise le poche cose che aveva in uno zaino e sedette un’ultima volta al suo tavolo. Scritta una lettera di ringraziamenti e saluti, prese in mano la tela ancora bianca che gli era stata data per la prova decisiva. Con rabbia vi vuotò sopra il contenuto dei tre tubetti e poi, tristemente, con le dita cominciò a mescolare quelle tre tinte. Ed avvenne l’incredibile: mentre l’indice girava e premeva sul bianco, sul giallo e sul verde, qua e là iniziavano a comparire i colori del cielo: blu scuro, blu chiaro, cobalto, indaco, acciaio, oltremare, azzurro… Aveva scoperto come nascono i colori che credeva di non possedere. Con le sue abili mani e dopo molte prove, all’alba sulla tela era nato un inno al cielo di primavera. Quando il sole fu alto, bussò allo studio di Bartolì, che subito mise la sua opera su un cavalletto. 36
«Maestro, è ciò che sono riuscito a fare». «Bernardo, sei un ragazzo onesto. Non hai voluto approfittare né dei miei colori né dei miei soldi, così hai meritato la mia fiducia». «Non ho certo fatto un capolavoro». «Hai fatto di più! Con l’impegno e la rabbia hai scoperto da solo il segreto dei colori, ed io ti insegnerò tutto quello che so fare». «Maestro, stanotte stavo per lasciare questa casa». «Tanti anni fa anch’io ascoltai dalla voce del mio maestro le stesse parole: “fatteli bastare”. E per fortuna tutti e due ci siamo riusciti». Quando leggevo a Caterina l’ultima novella, ha alzato in aria la mano che riesce ancora a muovere e con il dito sembrava voler dipingere qualcosa. Alla fine ha aperto gli occhi e con voce roca e flebile, ha detto: «Quanto amavo Monet… ». Nel mio studio in Hospice, ho subito stampato da internet alcune immagini delle opere del grande impressionista: lo stagno delle ninfee, il ponte giapponese ed i papaveri. Poi le ho messe davanti al suo viso, sussurrando: «Claude Monet è venuto a salutarti». I suoi occhi si sono illuminati e quei colori le hanno raggiunto certamente il cuore. Non c’erano parole che potessi dire, solo silenzio per rispettare una delle sue ultime emozioni. L’ho lasciata con quei fogli sul cuscino. Ora, con le luci spente per la notte, sto per addormentarmi. Il pensiero corre nel tempo, a Giverny, nello studio di quel pittore con la lunga barba bianca. Egli, dipingendo allora le sue ninfee nello stagno, non poteva immaginare che avrebbero portato gioia così lontano nel tempo e nello spazio. Buona notte anche a te, Monet!
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18 febbraio «Il più delle volte la notte resta sveglia e al mattino dorme». «Lasciamola in pace, Dottore. Vedo da qui che sembra tranquilla». «Sì, Ahmad. Poi le dirò che siete venuti». «Volevo lasciarle questo pensiero… ». «Un antico tamburello! Grazie signora Amira, lo vedrà tra poco». «Da noi si chiama Bendir, era di mia nonna. L’ho sempre portato con me». «Fa parte della sua storia, perché se ne vuole privare?». «Lei mi ha dato tutto ciò che possedeva e merita la cosa più preziosa che ho». «Grazie. E tu, Ahmad? Davvero vuoi studiare medicina?». «Se riuscirò a laurearmi, tornerò in Marocco, voglio lavorare nel mio paese». «Lo farei anch’io». «Quando mio figlio sarà un dottore, torneremo anche noi dai nostri cari». «Signora Amira, da quanto siete qua?». «Quasi dodici anni. Abitavamo nella parte vecchia di Fes, ora è una grande città e tante cose stanno cambiando anche là». «Come da noi, e non credo tutte in meglio». «No Dottore, non in meglio, ma ho troppa nostalgia». «Vi ringrazio a nome di Caterina. Arrivederci, Ahmad. Se avrai bisogno dei consigli di un vecchio medico, sono sempre a disposizione». «Grazie, Dottore». «Volevo chiedere un piacere… ». «Dica, signora Amira». «Posso dare un bacio alla signora? Non la sveglierò, farò piano». «Certo!». Ho visto dalla porta Amira inginocchiarsi al letto di Caterina e baciarle la mano che penzolava fuori. Ho sentito tutto l’amore di una madre per il proprio figlio.
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«Un vecchio tamburello!». «Ha almeno cent’anni, Caterina». «Quante cose avrà visto». «Di tutti i colori, pensa dove è nato e dove è ora». «Appena sarà finito tutto, riportalo ad Amira». «Il notaio James è a tua disposizione». «Scherza pure e ascoltami. Avvicinati, non ho più voce… Io voglio essere cremata, ho disposto tutto». «Lo so, ho visto la tua lettera nella cartella clinica». «Ma non sai ancora che le mie ceneri ti saranno consegnate». «Mi vuoi vicino anche dopo?». «Perché ora mi abbracci?». «Per non parlare». «A volte mi fai sentire mamma». «Invece a me sembra di farti da padre». «Che bella coppia siamo, Dottore!». «Di svitati». «Non ce la faccio a ridere… ». «Allora, le ceneri?». «Una parte in un bosco qualunque, ai piedi di un grande albero». «Sul promontorio di pochi giorni fa?». «Sì, mi piace. Ciò che resta, nel mare vicino, quando passano i delfini». «Caterina, è stato un miracolo averli visti una volta, figurati se tornano». «So che torneranno, e appena li vedi tuffami giù». «Lo farò». «Ora ti prego, chiama l’infermiera per girarmi sul fianco… respiro male…». «Lo faccio io, ho imparato bene. Guarda, basta tirare piano il telo… così… Ecco fatto, e ti alzo anche più su». «Grazie, va meglio». «Mi piacerebbe capirsi senza parole». «Tra un po’ dovrai esserne capace, sussurro appena». «E la sesta novella? Tamburello o che cosa?». «Non so ancora, James». «Ricordati il Bendir». «È passato di padre in figlio, per generazioni». «Commovente, suonato da nonni, padri e nipoti». «Mia mamma cantava sempre una canzone: Non ti scordar di me». «La conosco… la vita mia è legata a te… Un bel titolo, mi piace». «Forse è quella giusta per salutarsi». «Oggi novella musicale?». 39
«Doc, chiedi alla musicoterapista se l’ha tra i suoi CD, voglio ascoltarla». «D’accordo, so che arriva tra poco». «Per fortuna, oltre a te, mi è rimasta anche lei con la sua dolcezza ed i suoi canti». «Io vado, a stasera, e “non ti scordar di me”».
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«Si va con la mia barchetta a motore. Basta allontanarsi mezzo miglio dalla costa e versiamo le ceneri in acqua». «Un giorno di mare calmo, Giorgio, sai come soffro il mare». «Ma sì, tranquillo, in dieci minuti andiamo e torniamo». «Eh no, amico, qui arriva il difficile. Bisogna aspettare che passino i delfini, l’ho promesso». «I delfini? In vita mia li avrò visti due o tre volte da queste parti. E a chi l’hai promesso?». «A Caterina, è una mia paziente, le ceneri saranno le sue». «Senti, sei dottore e nelle tue cose non ci metto bocca, ma il mare è casa mia e credo che quella promessa non la potrai mantenere». «Vedremo, lei ha detto che ci saranno». «Mah!». «Proviamo dalle parti del promontorio, lei ama quel posto». «Va bene, io ti ci porto e poi aspettiamo. D’accordo?». «Grazie, Giorgio, sei un amico». «Tra quanto tempo pensi che… ». «Questione di giorni». «Mi dispiace». «Tanto anche a me». «Lei sa tutto?». «Sì». «I suoi?». «Non ha nessuno. Il personale dell’Hospice è la sua famiglia». «Ti sei affezionato come fai con tutti?». «Viene da sé, è una cosa naturale». «Mah, io credo che tu sia in lutto ogni volta che qualcuno se ne va». «Solo quando sento che non se n’è andato in pace». «Come fai a saperlo? Non te lo viene mica a raccontare». «Hai ragione, però lo sento». «Dottore, per andarcene sereni bisogna essere in pace con il Padreterno». «Allora, secondo te, chi non crede muore sempre disperato?». «Non dico questo, ma di sicuro gli manca un po’ di speranza». «Ho visto gente di fede, e anche religiosi, chiedersi negli ultimi giorni il perché del loro soffrire». «Ma è normale, Dottore, anche Gesù si fece la stessa domanda». «Sai, Giorgio, i più sereni di tutti sono quelli che nella vita sono stati pazienti e generosi». «E chi ha sempre fatto il comodo suo se ne va triste e solo?». «Spesso è così». «Mio nonno, che è stato pescatore tutta la vita, diceva: “Si muore 41
come si è vissuto”. E ti garantisco che intorno al suo letto di morte c’erano quattro generazioni di familiari, in silenzio e con rispetto». «Ti invidio, hai la fede di roccia». «No, Dottore, è solo un sassolino, però lo porto sempre dietro. E tu?». «Caro Giorgio, i sassolini io li ho persi per strada». «Spero che li ritrovi». «Stiamo a vedere. Allora ti chiamo quando sarà il momento». «Sono a tua disposizione, ciao». «Grazie, ciao».
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VIª Novella NON TI SCORDAR DI ME Ruggero era un giovane affascinante e l’alone di mistero che aveva faceva cadere ai suoi piedi molte ragazze. Nessuno poteva contare le fidanzate dei suoi primi trent’anni. Ad ogni giovinetta che corteggiava chiedeva in dono un piccolo fiore, sempre con le stesse parole: «Non conosciamo il domani. Potrei dover partire, lasciami un piccolo pegno del tuo amore, così che guardandolo, dovunque sarò, il mio cuore batterà ancora per te». E non si staccava mai dal suo prezioso libretto che in ogni pagina portava incollato un fiore insieme al nome di colei che l’aveva donato. Anche negli anni successivi continuò queste sue abitudini, riuscendo sempre a non legarsi mai per troppo tempo a nessuna donna. Il libretto era ormai arrivato alle ultime pagine e Ruggero, semplicemente guardando il fiore ed il nome, era capace di ricordare con precisione storie ed emozioni vissute. Quando ebbe sessant’anni, si innamorò per la prima volta in vita sua. Si chiamava Elisabetta, ed era una coetanea che conosceva da sempre ma con la quale aveva avuto fino ad allora solo una sincera amicizia. Fu una relazione profondamente felice ma durò poco, perché lei si spense rapidamente per una malattia inguaribile. Vennero giorni di pianto e solitudine, niente sembrava poter più portare colore e dolcezza nella sua anima. Dopo un mese, una sera gli capitò in mano il prezioso libretto delle sue antiche fidanzate, ma ora quei fiori non erano più in grado di suscitargli immagini e sensazioni. Allora pensò che gli mancava il fiore più importante, quello di Elisabetta, che mai aveva avuto per lui un simile gesto d’affetto. Se ne avesse posseduto anche un solo petalo, avrebbe forse risentito l’amore che aveva avuto per lei. E questo aggiunse tristezza al grande dolore che stava passando. Quella notte non trovava pace ed allora, aperto l’armadio dei vestiti di Elisabetta, ne prese uno e lo posò sul guanciale accanto al suo. Forse, in qualche modo, avrebbe potuto coglierne ancora la presenza. Scelse la giacca azzurra che lei amava più di ogni altra, e sdraiato sul letto ne carezzava la manica. Così facendo, si accorse che nella tasca c’era una busta con scritto: “Per il mio amato Ruggero” e il suo cuore ricominciò a battere come quando la baciava. All’interno vi era un foglietto piegato: aprendolo ne cadde un fiore, un piccolo fiore. Lo prese in mano e con tanta emozione lesse quel messaggio: 43
«Mio caro Ruggero, conosco il tuo libro segreto, ed allora ti lascio anch’io un piccolo dono. Purtroppo lo vedrai solo quando io non ci sarò più, ed è per questo che ti regalo un fiore che nel suo nome ha tutto ciò che voglio dirti: non ti scordar di me». La tristezza ed il rimpianto non si possono allontanare con un fiore, ma quel dono di Elisabetta fu la cosa più bella che Ruggero avrebbe mai potuto desiderare.
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Dove sono? Cosa è successo? Tutto è ovattato. Luce… rumori… È toccato a me. Non a qualcun altro. Fuori è buio. Un’altra notte. Perché? Un giorno in meno. Sta per finire… Muovo solo una mano. Pensare alle cose belle. Almeno le avessi qui. Il Dottore e le sue novelle. Elisabetta e il non ti scordar di me. I fiori delle sue fidanzate. Sono immobile. I delfini, la clessidra, Jacqueline… Ahmad… Monet… le ninfee… La mia musica amata. È tutto in me. Non ricordo altro. Il piccolo mondo che ho. Insieme a tutto il male. Dopo non sarò. E poi? Niente! Tutto finito! Impossibile! Chi mi aiuta? Mamma, papà… Sono io… Polvere di stelle. E il pensiero? Scomparirà? Ancora poco… Dio, che confusione... Una cosa dietro l’altra. Non mi fermo su niente. Non riesco. 45
La corrente mi trascina. Scivolo sempre di piĂš. Un appiglio. Ăˆ il mio segreto. Lo proteggo. Mi protegge. Ave Maria, piena di grazia‌
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19 febbraio Giorgio è una brava persona. Pescatore da sempre, da solo sul mare ha capito molto della vita. Nel pericolo e nella fatica ha trovato risposte che danno significato ad ogni cosa. Convinzioni limpide come la scia della sua barchetta, i toni grigi non gli appartengono. Ha fede in quel che crede, le sue non sono speranze ma certezze. È ciò che ha visto e sentito da sempre intorno a sé. Credo sia sereno e viva raramente nel dubbio. Non è lo stesso per me, anche se ho imparato a convivere con le cose complicate che accadono e con le persone nei momenti più difficili della loro esistenza. Come posso credere che di Caterina resterà solo la cenere da gettare in mare? La sua storia, lo sguardo, il suo pensiero, la voce… Solo nel ricordo? Lei spera in qualcosa dopo. È difficile vivere senza una speranza. Con le novelle, Caterina mi costringe a scavare dentro di me. Mentre io, immaginandole, cerco di raggiungere qualcosa che penso sia dentro di lei. È come se entrambi cercassimo un sentiero invisibile, un tunnel sotterraneo, dove potersi incontrare senza esser visti dal male. Spero di saperla accompagnare.
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«La diuresi delle ventiquattrore?». «Solo trecento cc, Dottore. Aumentiamo i liquidi?». «Di poco, altrimenti respira peggio». «James, posso sapere cosa succede?». «Che fai poca pipì, Caterina». «E allora, cosa vuol dire?». «Che il tuo fisico è più stanco di una settimana fa». «Lo sapevo da sola… Ma è normale, no?». «Sì, come dicevano i vecchi medici: “Lo deve fare”». «Dottore, io posso andare?» «Sì, Susy, e accosta la porta». «Ahi, ahi, porta accostata… Segnaccio, vero Doc?». «Amica cara, quando cala la pipì, insieme si abbassa la pressione e… ». «Oggi sono sette giorni da quando ho detto che mi bastavano due settimane, ricordi?» «Lo ricordo». «Ma li avrò altri sette?». «Penso di sì». «Non di più?». «Non lo so». «Mi viene da ridere, sembra di essere al mercato». «Caterina, io sono l’ambulante e tu contratti sul prezzo». «Altri sette giorni e altrettante novelle?». «Se riesco a scriverle». «James, lo sai che senza quest’affanno potrei stare un anno intero da voi?». «Lo so, ma quel disturbo è difficile da fermare». «Però non hai provato con una novella». «Un racconto per l’affanno?». «Sì, proprio così. Strizza la fantasia!». «Temo si sia consumata». «Non finché io ti do il titolo». «Va bene». «Sto pensando… Dunque:… “Non c’è più aria!” No, aspetta, forse: “Che nuvole basse!”». «Caterina, per te le nuvole basse esprimono l’affanno?». «Sì, perché opprimono lo spirito». «Invece se il cielo è sereno il respiro si apre». «Sì, ecco: “Ho respirato il cielo”». «Bello!». 48
«Al lavoro, Dottore». «A stasera». «E cerca di essere sereno». «Anche te, Caterina». «Come quel cielo… ». «Come quel cielo… ».
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«Paolo, siamo stati compagni d’università e lavoriamo in quest’ospedale da più di trent’anni. Sai bene che non dò la caccia alle streghe». «Ma ciò che dici è serio». «Non voglio parlare di un fatto specifico, anche se di sospetti ne ho avuti, ti metto solo in allarme perché non succeda più». «Cose brutte, e dubito che in altri ospedali abbiano preso delle iniziative». «Ascolta, quando delle persone sole, senza parenti stretti, sono alla fine della vita e perdono ogni difesa, a volte d’improvviso appaiono persone che dicono di interessarsi a loro. Poi, dopo ancora un po’, ecco avvocati e notai. E quello che possedevano, case, conti o altro, prova ad immaginare che fine fa». «Un testamento firmato sul letto di morte». «A volte non riescono neanche a tenere la penna in mano». «Capisci che senza una denuncia non possiamo fare niente?». «Io dico che l’ospedale dovrebbe nominare qualcuno, con i titoli giusti, che in questi casi possa funzionare da difensore dei deboli». «Se non altro sarebbe un deterrente». «Certo, Paolo, e questa persona autorizzata dovrebbe essere capace di dialogare con delicatezza con i malati diciamo “a rischio”. È chiaro che occorre aver sensibilità e capire anche le cose non dette». «L’idea mi piace, ne parlo con il Procuratore. Ma non sarà facile». «Provate a fare qualcosa, così chi ha cattive intenzioni ci penserà un po’ prima di entrare nelle stanze dove si muore». «Ti faccio sapere». «Grazie Paolo, le ultime volontà non possono essere gettate nella spazzatura».
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VIIª Novella HO RESPIRATO IL CIELO Da qualche tempo le nuvole si erano abbassate in ogni luogo della terra. Non volavano più nelle grandi altezze spinte dai venti, ma al contrario, scure e pesanti, stazionavano ovunque spostandosi in un lento movimento circolare che le riportava sempre allo stesso punto. Questo aveva creato una crisi gravissima per l’agricoltura e gli allevamenti. L’erba e tutto ciò che forniva nutrimento per gli animali non riusciva a crescere perché la luce del sole arrivava fioca e svanita. Le scorte di farina cominciavano ad esaurirsi, e così i frutti degli alberi e degli orti. Per di più i pannelli solari, ormai comuni su ogni tetto, era come se non ci fossero più. Nell’ultimo mese la temperatura dell’aria aveva cominciato ad abbassarsi perché i raggi della nostra stella venivano bloccati dalle nubi. Se qualcosa non cambiava, sarebbe iniziata una nuova era glaciale. Intanto l’aria si era fatta grigia e fuligginosa, e respirare era divenuto un problema per chi non era sano del tutto. Per strada si vedevano sempre più persone che, appoggiate ad un muro o ad un albero, tossivano e mostravano un affanno evidente. Neppure un Congresso Mondiale dei più eminenti esperti riuscì a dare un’idea su come far risalire e muovere le nuvole. In questa vicenda drammatica, c’era un unico dato confortante, anche se minimo e altrettanto inspiegabile: sopra Inishmore, una piccola isola fuori della costa occidentale dell’Irlanda, il cielo era sereno e le nuvole volavano veloci. Naturalmente le autorità avevano predisposto un blocco navale per impedire alla gente di invaderla e per dar modo agli scienziati di capire il perché di questa “singolarità”. Ma dopo altri mesi di indagini ed esperimenti, anche la scienza dovette dichiararsi incapace di capire il mistero. Un giorno, nell’ufficio di polizia di Inishmore, si presentò un vecchio eremita che viveva da anni in una grotta delle scogliere. Con voce severa, disse: «Portate qui cento bambini, uno da ogni paese del mondo. Scegliete i più gravi, quelli che non riescono più a respirare l’aria delle loro città. E le nuvole voleranno via di nuovo e tutto passerà». In altri tempi nessuno avrebbe prestato attenzione alle parole di un uomo così insignificante, ma per la gravità del momento tutti i paesi della terra fecero ciò che quel vecchio chiedeva. Dopo una settimana una nave militare approdò al piccolo porto dell’isola e le lettighe, che 51
portavano i piccoli con i loro impianti di ossigeno in funzione, furono appoggiate su quella verde erba irlandese. L’eremita passò davanti a loro e carezzandoli mentre toglieva ad uno ad uno le mascherine, disse: «Respirate tranquilli, non c’è più pericolo, siete guariti». I bambini, che non avevano mai visto un cielo sereno, respirarono bene come non avevano mai fatto, ed il primo che poté parlare, gridò con gioia: «Ho respirato il cielo!». Nei giorni seguenti, senza capire come e perché succedesse, in tutto il mondo dei forti venti freschi riportarono in alto le nuvole ed il cielo tornò quello che tutti ricordavano. L’eremita, prima di scomparire per sempre, disse alle migliaia di capi di stato e giornalisti presenti: «Risponderò ad una sola domanda». Ne avevano preparate mille: perché è successa questa disgrazia, quale ne è stata la causa, perché e come quei bambini hanno fatto cambiare le cose, e così via. Ma, riflettendo, si capì che solo l’uomo era stato la causa del disastro ed allora tutti giurarono che non sarebbe successo mai più. Così fu chiesto semplicemente: «Perché solo quest’isola ha sempre avuto il cielo sereno?». «Il cielo ama le pecore di Inishmore più di tutte le altre» rispose l’eremita e ridendo di gusto, se ne andò. Tutti videro di essere stati presi in giro e risero insieme a lui, ma non capirono.
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«Portami in quell’isola». «Sai Caterina che ci vado tutti gli anni?». «Conosci l’eremita?». «Non l’ho ancora incontrato». «Perché non hai l’affanno come me». «Forse stanotte sognerai quel cielo». «Non so più quando sogno o sono sveglia». «Stessa cosa per me con le novelle». «James, che cosa succederà?». «Piano piano ti addormenterai». «Per le medicine?». «Spontaneamente». «Soffrirò?». «Non ti accorgerai di niente». «Ho paura che l’affanno peggiori». «Caterina, se peggiora… ». «Dottore, hai promesso che mi farai dormire!». «Lo farò». «Vorrei decidere io “quando”». «Decidiamo insieme. Domani è domenica, vengo più tardi». «Potresti mettere una candela in chiesa per me?». «Lo desideri davvero?». «Se potessi, lo farei da sola». «Il Padreterno sarà sorpreso di vedermi in casa sua». «Lo hai vicino, James, io lo so». «Come lo sai?». «Lo chiami vicino a te con i dubbi e le fantasie». «Vorrei solo un po’ più di certezze». «Non ho voce… avvicinati…». «Così? Tra un po’ sarò dentro al letto». «Ascolta: come sai se una persona ti ama?». «Dallo sguardo… dalle parole… non saprei». «Doc, ti senti carezzare l’anima». «Forse qualche volta mi è successo». «Con quello lassù è la stessa cosa». «Se non sento niente?». «Tieni vivo il desiderio». «Giorni fa sembravi arrabbiata con lui». «Sì». «Cosa è cambiato?». 53
«Non lo so, James, ero come un vecchio pianoforte». «Scordato, vero?». «Le novelle hanno smosso qualcosa». «Io, un accordatore!». «Quando qualcuno ti scalda, capisci di più». «È solo fantasia!». «C’era amore». «Caterina, bagnati le labbra… così, brava». «Mi sono sentita carezzare l’anima. Tutto il male che ho, eppure… sento… » «Non ti sforzare Caterina, non parlare». «Sì… ». «È il bacino della buonanotte, riposa e vola a Inishmore».
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20 febbraio «Dimmi, Cristina». «Dottore, lo so che stamani non è di turno e viene a mezzogiorno, ma Caterina è fuori di sé. Forse se le parla al telefono si calma». «Passamela». «Il cancello non si apre!... Il cancello non si apre!... Datemi la chiave!... ». «Caterina, non ti sento bene, ma che cancello e che chiave?». «Dottore, sono Cristina, non riesco ad avvicinarle il telefono all’orecchio, non la può sentire. Alle sette era tranquilla e si è fatta lavare come sempre. Poi si è addormentata e poco fa ha cominciato a dire quelle cose». «Le avete fatto il calmante?». «Sì, il suo collega, un minuto fa». «Allora presto si addormenterà… » «Mi pare stia già sentendo l’effetto». «Cristina, cerca di ricordare: che parole ha detto di preciso?». «Non ho sentito bene, ma sembrava ripetesse sempre la stessa frase». «Quale?».. «Mi pare: “Il cancello!... Non ho le chiavi!... Non ho le chiavi!...”». «Ho capito, ci vediamo più tardi, ciao Cristina». Sogno? Allucinazione? O che cos’altro? In quei pochi ultimissimi giorni si verificano condizioni nuove che nessuno ha potuto studiare in modo scientificamente adeguato, ed allora si dice semplicemente: “È normale, sono allucinazioni!”. Ma io non sono affatto sicuro che sia tutto lì. Quante volte dai pazienti alla fine della vita ho sentito racconti incredibili. Ricordo Luigi, un uomo di settant’anni. Era molto sofferente per le condizioni ormai terminali, ed una sera avemmo questo dialogo: «Dottore, nell’angolo là in alto vicino alla finestra, poco fa c’era qualcuno con la pelle scura scura, e mi guardava». «Le ha detto qualcosa?». «No, ma mi sono spaventato». Rimasi con lui finché non fu più sereno, poi lo salutai. Al mattino entrando in camera lo vidi in pace, quasi sorridente. «Dottore, non ho più paura». «Sono contento, che cosa è successo?». «Quell’uomo scuro è tornato poco fa, sedeva qui sul letto dove ora è lei. È una brava persona, mi ha detto che stasera viene a prendermi e di avere fiducia. Chi crede che fosse?». Con Luigi ho sempre avuto un dialogo aperto e sincero. Sapeva tutto 55
sulle sue condizioni e sentivo che mi voleva bene. Così potei dirgli: «Sono sicuro che era il tuo angelo». Annuì con la testa. La sera l’angelo scuro venne veramente a prenderlo per mano. Forse l’Hospice è un ambiente dove la fantasia e le emozioni possono raggiungere vette così alte da farci immaginare ciò che non è reale, o forse esiste molto più di quanto possiamo immaginare. Stai tranquilla Caterina. Non hai le chiavi? Vengo io a portarle.
Quanto somiglia a Caterina questa candela. Immobile, anche lei si ravviva al più lieve soffio e consuma la sua piccola dote di cera. Fino all’ultima lingua di luce e all’inizio del mistero. Possono forse mille candele smuovere qualcosa che una da sola non può? No, neanche sotto questo tetto. La candela si sta consumando, ed io in questa chiesa volo con la mente. Forse per allontanare la sofferenza che vedo intorno a me o forse perché queste mura sono impregnate dei pensieri di tanta gente. Aggiungo la tua voce, Caterina. La voce di una speranza in qualcosa che porti pace e luce… tanta luce. Come vorrei scoprire qualcosa capace di dare un senso a tutto!
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VIIIª Novella NON HO LE CHIAVI Attraversato un lungo tunnel ed incontrata la luce, si giunge davanti ad un grande cancello chiuso. Si hanno le chiavi ed è facile entrare, ma per Barbara non fu così. Quando fu al cancello si accorse di non avere con sé niente per poterlo aprire. Ed era troppo alto e pesante per pensare di scavalcarlo o forzarlo. Intorno non vi era nessuno e di campanelli nessuna traccia. Anche se non capiva come il tempo scorresse in quel nuovo mondo appena scoperto, dopo un po’ si convinse che quel cancello era solo per lei. E dato che non arrivava nessuno, nonostante i molti che ogni giorno muoiono, ne dedusse che ogni persona ha un suo tunnel e un’entrata personale. Ma non aveva le chiavi. Barbara era comunque felice perché non sentiva più alcun dolore. Il letto che aveva appena lasciato le aveva infatti portato tanta sofferenza, ma ora era tutto finito. Pur non comprendendo se in quella luce il tempo scorresse o fosse immobile, si sentiva bene come quando era una ragazzina e questo le bastava. Dopo un tempo che le sembrò infinito, percepì una presenza dall’altra parte del cancello. Allora vi si avvicinò e cominciò a chiamare. «C’è nessuno di là? Per favore venite, non ho le chiavi per entrare». Comparve un vecchio dal viso simpatico. «Chi sei?» le chiese l’uomo stringendo con le mani le spesse sbarre di ferro. «Mi chiamo Barbara, e sono qui da tanto tempo, fatemi entrare per favore». «È la prima volta che qualcuno vuole uscire dal paradiso. Qui non ci sono chiavi per uscire, nessuno l’ha mai fatto». «Allora sono in paradiso?». «Certo! Io sono il giardiniere e curo i fiori che sono all’esterno». «Buon uomo, perché sono sola? Dove sono tutti gli altri?». «Ti dovevi preparare alla gioia, ora puoi voltarti». E Barbara, che aveva sempre guardato solo attraverso le grate del cancello, finalmente si voltò. In quel momento dimenticò tutta la sofferenza passata e gli occhi si aprirono su meraviglie inesprimibili. La sua anima le assaporò.
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«Non ricordo di aver gridato quelle cose». «Caterina, forse stavi sognando». «Non lo so, ma ho visto davvero un cancello». «E le chiavi non occorrevano». «Nella novella no, James, ma dove ero io, sì» «Se ti capiterà di nuovo, ricorda di voltarti». «Certo che lo farò». «Oggi hai il volto rilassato». «E una stanchezza infinita». «Ho acceso la tua candela». «Così ti ho fatto entrare in chiesa». «Sì, un piano perfetto». «Se potessi ti tirerei qualcosa». «Mi piace scherzare con te». «Anche a me, non l’ho mai fatto con nessuno». «Fa bene sorridere». «Tanto, Dottore! Ricordalo con i tuoi malati». «Non sono tutti come te». «Non importa, provaci sempre». «Prima bisogna farsi voler bene». «È vero, ma con te è facile». «A volte è difficile, Caterina». «Ricordati che ti voglio bene». «Anch’io, cara Caterina». «È tardi, vai a riposare». «A domani».
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Presto! Finalmente al cancello. Addio sofferenze. Addio povero corpo. Solo cenere. E volerà via. Ma io? Chi mi tenderà la mano? Non so niente. Perché questa prova? Mi spengo. Come una candela. Mi perderò. Nel sonno. Grazie, Dottore. Ancora una novella. Due, tre, di più. Voglio stare con te. Sognare. Sperare. Sapere che torni. Ho tanto sonno. Il cancello. Sono arrivata. Addio.
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21 febbraio C’è quella pagina di Pablo Neruda nella parte finale del Testamento di autunno che pare scritta da qualcuno arrivato a “quel cancello”. Oggi la leggerò a Caterina, ha sempre dato ai pazienti immagini di serenità e speranza. I prossimi giorni saranno difficili, l’estrema difficoltà a respirare la fa soffrire molto. Poche gocce di morfina la stanno aiutando, e lei per ora vuole ancora “esserci”. «Buongiorno, Antonio». «Buongiorno a lei, Dottore». «Non siamo già d’accordo di darci del tu?». «Grazie… Ho guardato le cartelle dei pazienti e ho visto che su quella della numero 5… » «È Caterina, Antonio, chiamala con il suo nome». «Scusa… sì, Caterina. Sopra c’è scritto che deve cominciare una sedazione, di che cosa si tratta?». «Vedi, quando negli ultimi giorni i sintomi divengono più gravi e non riusciamo a controllarli, abbiamo dei farmaci che possono addormentare dolcemente. La dispnea intrattabile è forse il principale di questi disturbi». «Capisco, la fame d’aria deve essere terribile! Ma una volta presa questa strada, si può tornare indietro?». «Quando sediamo per un episodio acuto e transitorio, è possibile. O se usiamo dosi piccole e ad intervalli. La moderna alchimia consente di personalizzare le cure e di decidere se e per quanto far dormire. Devi anche sapere che in queste circostanze estreme dobbiamo essere molto presenti, i familiari vogliono sapere se potranno ancora comunicare con i loro cari». «Ma se invece la situazione si fa sempre più grave?». «In questo caso andiamo avanti, spesso aumentando progressivamente le dosi, e si chiama sedazione profonda. Comunque è sempre la volontà del paziente a guidarci nelle scelte, se abbiamo preso questa strada è solo dopo una relazione di aiuto ricca di comunicazione con lui e la sua famiglia». «Il momento in cui addormentare lo decide il medico?». «Non da solo, è l’intera l’equipe che deve capire quando è il tempo giusto. Se agiamo tardi, avremo fatto soffrire inutilmente una persona. Se troppo presto, sarà doloroso per tutti assistere per giorni una persona addormentata ed osservare tutte le sue modificazioni fisiche. Anche se non sente più niente, né parole né sofferenze. La cosa giusta è una sedazione profonda che duri da uno a due giorni, non di più, non di meno. Ma non è facile». 60
«Secondo la tua esperienza, questa pratica anticipa la fine della vita?». «Non è così, se ben condotta mette fine alle sofferenze e dà una pace che prolunga la fine. Ciò che conta più di ogni altra cosa è la volontà di aiuto contenuta in questa terapia. Niente altro». Antonio è un giovane medico tirocinante. Ha molta dolcezza, come molti suoi coetanei appena laureati.
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Sono tornato qui pensando alle parole di Caterina: le bastavano due settimane, e oggi è l’inizio della seconda. Ho dato luce ad una candela e pregherò il sacerdote di accenderne altre sei, una al giorno, fino a domenica prossima. «Grazie, Padre, non posso passare tutti i giorni». «Niente, per carità. Per chi posso dire una preghiera?». «Si chiama Caterina». «Sta così male?». «È alla fine della vita, ma è ancora lucida. È lei che ha chiesto la candela». «Lo sa che Santa Caterina da Siena morì dopo trenta giorni che non beveva?». «La mia Caterina è come lei. Perché la Santa smise di bere?». «Dopo aver bevuto dal costato di Cristo, non volle più toccare altro». Quante storie e tradizioni hanno cercato di avvicinare l’uomo all’infinito. Per chi non crede, allo scopo di affermare un potere terreno. Per chi ha fede, con l’intenzione di mostrare come il cielo ami l’uomo. Che cosa era autentico? Che cosa dilatato o manipolato? Le miserie dell’uomo, le malattie e le disgrazie, hanno portato tanti a chiedere una speranza e a volerla toccare. Per poter continuare a vivere. In questa chiesa ho portato la richiesta d’aiuto di Caterina, ma chi vi abita, se qualcuno vi abita, la conosce già. E sa che lei non chiede miracoli, a meno che non sia un miracolo poter chiudere gli occhi in pace. Accanto al letto di queste persone, a volte ho immaginato di essere al loro posto. Forse per trovare le parole giuste da dire, ma anche per cercare di abituarmi a quello che sarà l’aspetto della mia morte. E nell’immagine di un grande cancello ora trovo qualcosa che riesce a darmi conforto. Eppure, senza una speranza, è incapace anch’essa di farmi sentire in pace.
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«E ora dietro a questa pagina me ne vado e non sparisco: spiccherò un salto nella trasparenza come un nuotatore del cielo, poi ritornerò a crescere fino a esser sì piccolo un giorno che il vento mi porterà via e non saprò come mi chiamo, né più sarò quando mi sveglio: allora canterò in silenzio» «Sul comodino, James, la voglio vicina». «È meglio questa del mio cancello?». «La poesia è il viaggio per arrivare laggiù, viene prima della tua novella». «O lassù?». «Chi lo sa? Spero lassù». «Caterina, Pablo Neruda faceva da sé, ma a me manca il titolo per oggi». «Sono così confusa… non so neanche che ore sono». «Le undici di mattina, se esco prima vado dal barbiere». «Ne hai bisogno, Dottore». «A trent’anni avevo i capelli fino alle spalle, si usava così». «Che dolore quando le terapie hanno fatto cadere i miei». «Forse sta per venirti un’idea… ». «Quando c’era il libeccio, mi piaceva stare con i capelli al vento». «Eccola: “Capelli al vento”». «Mi piace, “Capelli al vento”».
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«Al solito, Dottore?». «Paolo, li vorrei con la divisa». «Non è che usino molto… ». «A trent’anni li portavo così, forse c’è rimasta la traccia». «Cos’è questo ritorno d’antico?». «M’è venuto a mente ora». «So soltanto di capelli, ma se uno cambia c’è qualcosa sotto». «Cosa vuoi che cambi? È tutto uguale». «Sempre in mezzo ai malati?». «Già!». «Eppure, quando si vuol sembrar più giovani c’è un motivo». «No, è tanto per provare». «Io penso che ci sia una donna, è sempre così». «Una donna c’è, Paolo, ma non come pensi tu». «Lo sapevo! Oh, ma guarda qui: una vecchia riga». «Sbrighiamoci, alle due devo rientrare». «Riga e Principe di Galles, come usava prima». «Ce l’ho ancora a casa un vestito così». «Stasera lo metterei, farai colpo». «Vengo dal barbiere e trovo la macchina del tempo». «Dottore, la ditta offre anche uno dei piccoli calendari profumati di una volta». «Quelli con le donnine? Li hai conservati?». «Certo! E quando li annuso ritorno ragazzo». «Non credo che si senta ancora l’odore». «Difatti non c’è, ma basta il ricordo». «Stasera sarò come un dottore appena laureato». «E buona fortuna con la signorina».
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IXª Novella CAPELLI AL VENTO In quella parte del mondo erano stati anni di carestia. Come da sempre i ricchi continuavano a vivere come se niente fosse e la povera gente stentava a campare. A Monteverde, un piccolo villaggio sul confine di immense foreste, abitava Jenty, una giovane conosciuta da tutti per l’abilità nell’allevare ogni tipo di animale domestico e selvaggio. Le sue galline facevano due uova al giorno e le mucche più latte di tutte le altre. Purtroppo i potenti del luogo mandavano spesso la polizia a sequestrare quel poco di cibo che c’era e così, per mancanza di nutrimento, piano piano tutti gli abitanti persero i capelli. Allora Jenty, con energia e coraggio, esplorò i campi e le vicine foreste e scoprì che il vento del mattino era ricco di peli di animali, lunghi e corti, sottili e spessi, lisci e ruvidi. Cominciò a raccoglierli con delle reti di sottilissima tela di ragno e poi a suddividerli secondo la loro natura e qualità. Fu così che nacquero le sue prime parrucche, ed erano resistenti e graziose. Bastava un tocco della speciale colla di sua invenzione e quelle criniere si attaccavano per sempre alla pelle della testa di chi le indossava. Era lei a decidere quale dare a chi con speranza bussava alla sua porta, così a qualcuno consegnava quella di coniglio o di marmotta, e ad altri un misto di capra e cavallo. Per il costo non c’erano problemi, conoscendo la povertà che la circondava a chi non aveva niente le regalava. Fiera di questa sua attività era solita dire: “Ho trovato i capelli al vento, ed ora fanno parte di voi”. Quell’estate una strana epidemia colpì ogni essere umano della zona, e con l’eccezione di chi portava quelle speciali capigliature, non restò più un capello in capo a nessuno. I principi delle città, informati di ciò che faceva Jenty, inviarono degli armati a sequestrarle ogni cosa e ad arrestarla. «Ora lavorerai solo per me» le intimò Sua Maestà «e dovrai farmi tutte le parrucche che vorrò». «Io ho bisogno della mia libertà, altrimenti non ci saranno capelli per nessuno» rispose la ragazza con aria di sfida. Per i pianti e l’insistenza della regina, Jenty fu rilasciata e rimase un mese nella foresta per raccogliere al vento crini di ogni tipo. Poi tornò al castello con un grande sacco pieno di splendide chiome e davanti ai reali, nobili e grandi ufficiali calvi come gusci d’uovo, disse: «Che ognuno scelga quella che desidera e la ponga sul suo capo». 65
Poi senza salutare, se ne andò. In un attimo ognuno aveva la sua parrucca, ben attaccata grazie alla colla che era stata posta all’interno. La notte passò tranquilla, ma al mattino scoppiò la tragedia. Chi aveva la parrucca non parlava più la lingua degli uomini, ma faceva solo il verso dell’animale che gli aveva fornito la capigliatura. Così accanto al re che ragliava, il gran ciambellano squittiva e mentre la regina disperata grugniva, il capo delle guardie nitriva a più non posso. Quando ognuno di loro si accorse di non riuscire più a comunicare con gli altri, non restò altra soluzione che scappare per sempre da quei luoghi. Col tempo i cittadini riuscirono a stabilire delle regole giuste per vivere tutti insieme e da quel giorno le parrucche che avevano sul capo persero via via i crini e poi caddero a terra. Fu dopo poco che ripresero a nascere i veri capelli. Jenty non fu più vista da quelle parti. Era andata dall’altra parte del mondo, oltre l’oceano. Ora viveva in una grande vallata tra alte montagne. Ogni sera, una forte corrente d’aria saliva dal mare e lei sedeva sulla terrazza con i capelli al vento.
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«James, sembri uno di quand’ero giovane». «Con la riga e il Principe di Galles». «“Capelli al vento” mi sembra di essere stata io». «Hai portato la parrucca, vero?». «Sì, poi mi sono ricresciuti. Ma due anni fa… ». «Lo so, nella storia dopo io c’ero». «Anch’io avrei fatto come Jenty». «Caterina, che hai? Perché stringi gli occhi?». «Dottore!... Aiutami… l’occhio sinistro non vede più». «È un momento, a volte succede, poi passa». «Cosa sta accadendo?». «Il tuo sangue è più denso e in certe zone del corpo può rallentare». «Si può fare qualcosa di semplice?». «Stai tranquilla, proviamo con una flebo diversa. Susy!… Susy!». «Dica, Dottore». «Ascolta… ». «Quando parlate di medicine, lo fate sempre sottovoce». «Come i preti in confessionale, Caterina». «Susy, sei simpatica, ti voglio bene». «Anch’io, tanto, e prenditi un bacio». «Aspettate! Vedo di nuovo!». «Te lo dicevo, sono momenti». «Ma poi ritornano?». «Non credo». «Caterina, fai come me, pensa una cosa per volta». «Susy, che unghie hai?». «Eccole! Azzurre e con spruzzi di stelle». «Belle». «Se vuoi, dopo il turno ti faccio il manicure. Posso, Dottore?». «Certo che puoi, Susy, anzi devi». «Siete tutti cari, ciao Susy, grazie. Ed ora, James?». «Dovrei andare, il gatto non mangia da stamani». «Ah, la tua micia». «È la donna di casa, va tenuta bene». «Con quella iniezione due giorni fa ho dormito mezza mattina». «Lo so, l’hai in terapia da stanotte». «Così la testa se ne andrà». «Non del tutto, i sogni li mantiene». «Voglio sognare Jenty». «Anch’io. Allora ci incontriamo a casa sua?». «Sì, e mettiti una bella parrucca, Dottore». «Tu pettinati bene. Ciao». «Sì, ciao». 67
22 febbraio «Dottore, c’è il Medico Legale». «Eccomi». «Ciao, son venuto nella tua tana». «Grazie Paolo, novità?». «Sì, e buone. Il Procuratore e il Giudice sono d’accordo che qualcosa bisogna fare, e io informerò il nostro Comitato Etico perché studi il problema». «Bene, ma che cosa avete pensato di pratico?». «Esiste una nuova figura, si chiama Amministratore di Sostegno, e potrebbe entrare in azione in prima battuta». «Non è un avvocato o qualcosa di simile?». «No, sono normali cittadini inseriti in un registro comunale. Abbiamo pensato che con una particolare formazione potrebbero rapportarsi con le persone che ci segnalate, capire il problema e, se necessario, fare intervenire il Giudice Tutelare». «Mi sembra già un bel passo». «Sarà importante darne ampia comunicazione, in modo da mettere tutti sull’allarme». «Questo sì, è una forma di prevenzione». «Dopo che mi hai segnalato il problema, ho riflettuto su quanti casi di questo tipo possono accadere a casa della gente. Senza che noi ne sappiamo niente». «Prova a dare dei suggerimenti al coordinatore degli assistenti sociali, loro a casa ci vanno». «Farò così. Ora me ne vado, ma che bellezza di Reparto, almeno se in ospedale fossero tutti come questo». «Paolo, lo sai cosa ci chiedono alcuni dei nostri pazienti appena entrano qui?». «Che cosa?». «Se qui si deve pagare! Non sono abituati ad aver diritto a qualcosa di bello».
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«Come sei stata?». «Come non ci fossi più». «Allora ha funzionato?». «Sì, James, ma per poco. Poi è ricominciato, vedi come respiro?». «Io vedo le tue unghie… ». «Ci usciresti con una così?». «Blu notte! Susy ha sbagliato mestiere». «Quando mi addormenterai davvero?». «Pazienta ancora, Caterina». «Perché non ora?». «Pressione, polso e reni dicono che è presto». «Devono peggiorare ancora?». «Abbi fiducia, c’è un amico accanto a te». «Tirami più su e girami di là». «Comandi!». «E togli quest’ossigeno». «Sei arrabbiata». «Non ce la faccio più!». «Caterina… ». «Per pietà, aiutami… ». «Cristina! La fiala!». «Eccola, Dottore, era già pronta». «Cinque milligrammi?». «Sì. Ecco fatto». «Caterina, ora riposerai». «Scusate…». «Non ti devi scusare, hai ragione» «Il titolo… ». «Non importa, lo invento io». «No, io… ». «Stai per addormentarti». «“Ho sete”… ». «Cristina, bagnale le labbra». «È il titolo…». «Dottore, si è addormentata». «Però ha fatto in tempo». «In tempo per cosa?». «Sono cose nostre».
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Xª Novella HO SETE Nessuno era più felice di Sa’id, ed anche nel suo nome c’era questo significato. Viveva con i genitori e dieci tra fratelli e sorelle in una grande casa di tufo bianco nella parte antica di Damasco. Il giovane lavorava nella bottega del padre, maestro vetraio, e si occupava di colorare piccoli pezzi di mosaico trasparente. Aveva una bella voce, ma dato che cantava senza sosta la sua gola era perennemente asciutta. Per questo stava sempre a bere e non c’era fontanella zampillante che non portasse inciso il suo nome. E per essere più sicuro, non dimenticava mai di portare alla cintura una grande borraccia piena d’acqua. Un giorno il padre lo mandò a comprare dei rari colori da vetro in una città che distava un giorno di cammino. Sa’id dissetò il cammello, riempì tutte le borracce che poté trovare, e partì. Terminato il compito, già sulla strada del ritorno, una improvvisa tempesta di sabbia lo sorprese ancora in mezzo al deserto. Privo di ripari, vista una parete rocciosa vicina, si infilò in un cunicolo e rotolò senza farsi del male fino alla sua estremità. Si ritrovò in una grande sala di pietra dentro il monte, meravigliato nel vedere delle torce accese e tanti bambini che dormivano per terra. Sa’id, ripresosi dallo stupore, si avvicinò ad una vecchia che fumava il narghilè. «Donna, dove siamo?». «Non lo sai? Nella montagna del sonno». «Che significa? Chi sono quei bambini?» «Qui vengono portati i piccoli che hanno perso l’affetto dei genitori». «Perché dormono?». «Per loro è impossibile sopportare il dolore». «Posso fare qualcosa per loro?». «L’unica cosa che li può svegliare è un canto di felicità. Ma dove trovarlo?». A queste parole, Sa’id, cominciò a cantare con la voce e la gioia che aveva sempre posseduto. I bambini si destarono tutti insieme e sedettero felici intorno a chi li aveva sottratti a quel sonno paralizzante. Poi, come gli accadeva dopo il canto, lui ebbe sete e chiese alla donna: «Ho sete, posso avere dell’acqua?». «No, quella che abbiamo è poca e servirà ai piccoli durante il viaggio verso Damasco». 70
Attraversando il deserto come in una processione, seguirono la vecchia per raggiungere la città. Ma appena il canto si interrompeva, i bambini si fermavano e sbadigliando si gettavano sulla sabbia; per questo Sa’id non poté interrompere le sue melodie. La sete si fece terribile ed insopportabile, ma sapendo che c’erano da salvare delle giovanissime vite, egli non chiese mai da bere e continuò il suo dovere. Quando in lontananza apparvero le torri della città, la donna si voltò e guardando i bambini, disse: «Siete guariti, correte a casa vostra, ora c’è chi vi aspetta per darvi l’amore». E gridando felici sparirono all’orizzonte. «A te, Sa’id, che sei stato generoso e capace di soffrire, farò il dono del cammello». «Ma io ho già un cammello». «Torna a casa, capirai». Giunto in città, Sa’id bevve quattro secchi di acqua fresca dal primo pozzo che vide. Un miracolo! Era divenuto come un cammello: gli bastava bere una volta al mese e il suo canto si poteva diffondere per le strade di Damasco, non c’era più bisogno di portare la borraccia. E che dire della sua voce, la vecchia della montagna ne aveva fatto una meraviglia quale non si sentì mai più in tutto l’oriente.
Sa’id. Anch’io ho sete. Bambini correte. Un canto. Anche per me.
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23 febbraio «Dottore, vuol bene a Caterina, vero?». «Sì, Susy». «Ma non come agli altri». «Che vuoi dire?». «Non vorrebbe perderla». «So che non può vivere così». «Andrà presto sedata, Dottore, non aspettiamo...». «È presto, è ancora troppo cosciente». «A me ha detto che vorrebbe dormire e non svegliarsi più». «Lo sai, Susy, lo dicono sempre». «Ma lei ha ragione, non respira più». «È ancora troppo in sé e la diuresi è mantenuta». «Purtroppo anche la pressione tiene, poco fa era ottantacinque». «Ricordi cosa accade quando non sediamo al momento giusto?». «È vero, Dottore, è una pena vederli dormire per giorni». «Susy, in questi momenti noi dobbiamo essere forti». «È difficile, uno di questi giorni scappo». «Come faccio senza di te?». «Ma non lo vede che a volte sparisco per piangere?». «Però in un attimo ritorni a portare allegria». «Forse sono un po’ matta». «Di sicuro, ma vorrei che fossimo tutti così» «Susy, diglielo anche te». «Che cosa, Caterina?». «Che è il momento». «Ho un segreto: il Dottore non vuol lasciarti andar via perché ti vuole bene». «Se mi volesse bene… ». «Non ti sforzare, ho capito. Eccolo, è arrivato». «Ciao Caterina… ». «Dottore, se ha bisogno mi chiami. Ciao, stella». «Caterina… ». «James, è l’ora». «Per me mancano ancora delle novelle». «Quante?». «Due» «Sei sicuro?». «È una promessa». «Preparo le valigie». «Cosa ci metteresti dentro?». 72
«Se potessi portarle con me?». «Sì». «Non lo so, sono confusa, non ricordo più niente». «Posso guardare nel comodino?». «Aprilo». «Santini, delle foto… e questo cos’è?». «Un profumo». «È ancora chiuso, Caterina». «Il mio primo regalo». «Vuoi lasciarlo così?». «No, aprilo». «Forse non profuma più, proviamo». «Allora?». «Incredibile: rose! Come quelle che crescevano nel mio giardino». «Fai sentire, James… Bellissimo… ». «Vedi che non stai così male? Ho ragione io, mancano delle novelle». «Mettine un po’ qui sul collo». «E la nuova novella?». «Oggi è facile: “Profumo”» «“Profumo”? Ok, ci vediamo al tramonto». «Hai promesso… due novelle». «Caterina, questo profumo sembra fatto per te». «Solo due novelle... ». «Ho promesso». «Grazie». «Sei cara e coraggiosa».
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XIª Novella PROFUMO Un vascello che trasportava dal nuovo mondo dei fiori sconosciuti, entrò finalmente nel porto di Lisbona. La brezza della sera, scesa sul ponte della nave, agitò le piante che vi erano allineate e portò via in volo i loro pollini fino ad un campo fuori della città. I piccoli semi di vita caddero ovunque ed alcuni entrarono nella corolla di una rosa. Era la rosa tipica di quei luoghi, bellissima e delicata, ma senza spine né profumo. Quegli esseri vegetali si scambiarono i pensieri nel linguaggio dei fiori. «Non vi conosco, non siete di queste parti?». «No, veniamo da un paese lontano». «Come sono i vostri fiori?». «Non belli come te, sono grigi e spinosi». «Allora andate a cercare i vostri simili e lasciatemi in pace». «Abbiamo qualcosa che non hai». «Che cosa?». «Non senti il nostro profumo?». La rosa chiuse i suoi petali su quei piccoli semi e provò la gioia di odori sconosciuti. «Perché io che sono così bella non ho questo profumo?». «Non lo sappiamo, ognuno ha le sue qualità». «E non potremmo avere insieme dei figli così profumati?». «Forse anche colorati e armoniosi come te». Quella notte, nel campo, la fantasia di madre natura progettò nuovi esseri. Un giorno di maggio avanzato, due innamorati di Lisbona si sdraiarono nel verde prato cresciuto sulla collina. Un profumo mai sentito aleggiava intorno a loro. Inebriati ed increduli, scoprirono delle rose che non avevano mai visto, con tante spine ed un odore dolcissimo. «Perché tante spine?» chiese il ragazzo. «Per non farti avvicinare troppo» rispose la fidanzata. «Questa rosa è proprio come te… ». Lei lo guardò e cominciò a correre intorno ai nuovi fiori. Lui la raggiunse e quel giorno la natura, risvegliata dal contatto di due labbra che si baciavano, immaginò un nuovo universo di vita.
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L’effimera luce del tramonto sussurra che forse domani sarà l’ultimo giorno tra noi di Caterina. Davanti a quegli occhi, mi ripeto le domande di sempre. E lei, quali promesse potrà leggere nei nostri? Trasformeremo in dolce sonno la sua agonia? Saremo l’ultima immagine serena della sua vita? Ecco… la notte ha appena portato via i colori del cielo. Tutto tace nel freddo. Solo il cuore può continuare a credere che non può finire così.
Mamma!... Quanto tempo… Sono malata… Fai cenno di sì. Lo sapevi… Non ti sento. Avvicinati. Non puoi? Sei qui per me? Mi porti via? No… Non ancora. Domani? Senza soffrire? Sorridi… Stai vicina. Papà… Non ho più paura.
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24 febbraio «Dottore, si affacci: guardi Caterina». «È seduta senza ossigeno e sorride». «Come fa?». «Cristina, lo sappiamo, è il miglioramento prima di… ». «Ogni volta mi sembra impossibile». «Il corpo spreme le ultime energie». «Oppure?». «Chi lo sa!». «Forse qualcosa l’ha tranquillizzata?». «O qualcuno!». «Allucinazioni?». «Secondo me sono immagini rassicuranti». «Lei ci crede, Dottore?». «Tutto è possibile». «Stamani il suo sacchetto delle urine era vuoto». «Temo che accadrà stanotte». «Se dovesse morire di notte, la teniamo in camera fino alla mattina, non la lasciamo sola. E la vestiamo noi». «Ci ha visti… ». «Abbracciamola tutti insieme». «E tutti questi baci?» «Buongiorno, Caterina». «Dottore, stamani sto meglio!». «Hai riposato bene?». «Forse è stato il profumo delle rose». «Quando si parla d’amore, è tutto più facile». «James, ascoltami, è venuto qualcuno… ». «Qualcuno che ami?». «I miei genitori». «Sei stata bene?». «Tanto, mi proteggono». «Ci sono sempre vicini». «Oggi niente pressione?». «Non è necessario». «E domani?» «Domani è un altro giorno, Caterina». «“Via col vento”». «È il titolo per oggi?». «Mi piacerebbe». «Questa è difficile…». 76
«È l’ultima». «L’ultima?». «Hai promesso, non fare come i marinai». «Io sono un po’ marinaio». «No, sei dottore e hai promesso». «Vado a scrivere, il tempo vola». «Sì, vola “via col vento”».
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XIIª Novella VIA COL VENTO In un’isola non segnata sulle carte geografiche e lontana dalle rotte navigate, ogni stagione passavano tutte le correnti marine e i venti della terra. Ai saggi che vi abitavano, essi portavano notizia di ciò che avveniva in ogni più sperduto angolo del mondo. Guerre, carestie e grandi conquiste della mente dell’uomo: ogni cosa inviava una traccia che giungeva laggiù. E quei pochi uomini di sapienza, da sempre consapevoli che tutti gli esseri sono uguali, affidavano ai venti e alle maree messaggi utili per l’umanità. Nessun grande inventore confessò mai che gli era nata un’idea dopo aver letto ciò che giaceva scritto dentro una bottiglia portata dall’oceano e nessun condottiero rivelò di aver deciso una pace perché un vento gli aveva parlato. I pochi bambini che nascevano nell’isola erano educati a questa missione iniziandoli attraverso esperienze sempre più difficili. Hun-Ti sentiva da tempo nell’aria la sofferenza di tanti malati e capiva che doveva trovarvi un rimedio. Un giorno che il vento soffiava più forte verso occidente, chiese a Shun-Hai: «Maestro, come possiamo far capire agli uomini la necessità e la giusta misura nel curare il dolore?». «Hun-Ti, il tempo è favorevole, getta in aria i fiori del papavero perché possano esser portati via». «E se qualcuno li usasse senza averne bisogno?». «L’uomo fa sempre così con tutto, ma la conoscenza è la cosa giusta». Dopo alcuni anni, Hun-Ti sentì nel sapore dell’acqua dell’oceano la tristezza e solitudine degli uomini dei continenti lontani. E poiché esse divenivano più forti con il passare dei nuovi venti di stagione, tornò da Shun-Hai. «Maestro, la situazione è sempre più grave ed io non so come poterli aiutare». «Mio caro, temo sia una faccenda senza speranza. I nostri consigli sono pesanti per l’acqua del mare e troppo leggeri per i venti. Non potrebbero lasciare quest’isola in alcun modo». «Allora, Maestro?». «Hun-Ti, solo i messaggi che vengono dal cuore possono volare in alto, verso le stelle, e forse giungere dove ce n’è bisogno». «Che cosa dicono?». «Che siamo tutti fratelli: è la preghiera». «Arriverà mai in ogni luogo del mondo?». «Io non lo so, ma chi ha fatto mare e cielo lo sa». 78
Hun-Ti ed altri come lui non cessarono mai di pregare per i loro fratelli. Tanti cuori se ne accorsero anche senza ascoltare il vento o carezzare il mare.
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«James, pregherai per me?». «È solo una novella». «Da lassù ti sentirò». «Vorrei crederlo, Caterina». «Hai fatto tanto per me… ». «Abbiamo solo viaggiato insieme». «Dio!... questa stanchezza… ». «Caterina… Caterina…». «Non… re… spi… ro… più…». «Metto subito l’ossigeno». «Fammi dormire… ». «Susy!». «Dottore… » «Dieci milligrammi». «Subito, Dottore». «Ritorna… ». «Anche stanotte, stai tranquilla». «Ho paura…». «Vedi, cominci già a dormire» «Dor… mi… re… ». «Forse sognare». «Dottore, si è addormentata» «Pare di sì, Susy» «Meno male». «Telefono più tardi». «Sì, buonanotte Dottore». «Ciao, buonanotte, Caterina». «Cristina, come va Caterina?». «Dorme ancora». «Mi raccomando, appena vedete che si agita ripetete il sedativo». «Sono passate solo quattr’ore dall’ultima volta». «Sì, ma per ora sono basse dosi». «E dopo cosa facciamo?». «Cominceremo una sedazione più profonda». «Meno male, Dottore». «Se non c’è bisogno prima, vengo verso le sei». «Sì, Dottore».
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25 febbraio «Si sta risvegliando… È agitata, le manca l’aria». «Prepara la flebo per 24 ore». «Trenta milligrammi?». «Sì, se è necessario aumenteremo dopo». «Dottore, che differenza tra qui e dove lavoravo prima». «Cristina, non eri in Ostetricia?». «Sì, ci sono stata cinque anni». «Hai ragione, là pianti di gioia e qua invece… ». «Dottore, non mi ci abituerò mai, ogni volta mi sento consumare». «È la vita, Cristina, ci consumiamo tutti piano piano. Però qui si riceve più di ciò che diamo». «Questa non la capisco». «Vedi, noi ci mettiamo un po’ di fatica e qualche emozione, ma chi se ne va apre sempre davanti ai nostri occhi tutto se stesso». «Vuol dire che potremmo fare di più?». «No, va bene così, basta comportarsi come se fossimo dei cari compagni di viaggio». «Almeno si sapesse per dove». «È un treno che non porta scritta la destinazione». «Forse è meglio non conoscerla». «Una certezza l’abbiamo: ci sono solo due possibilità, o è una fine o un inizio». «Una bella differenza, Dottore! Mah, è un gran mistero». «Davvero! Vai, Cristina, porta la flebo». «Il polso è molto flebile, quasi non si sente». «Ha visto le chiazze alle gambe?». «Però ha aperto gli occhi». «Dottore! La sta guardando!». «Caterina! Siamo accanto a te!». «E non ti lasciamo, vero Dottore?». «Staremo sempre vicino a te. Ora proviamo a dormire… ». «Sarai felice, Caterina». «E ti leggerò un’altra novella, sentirai… È per il tuo angelo custode, così faremo amicizia. Va bene?». «Dottore, l’ha sentita. Guardi!». «Caterina, ti vogliamo tutti bene». «Caterina, dormi tranquilla». «Cristina, per un po’ fai 60 gocce al minuto». «Ha chiuso gli occhi, comincia ad addormentarsi». «Ancora un minuto così, poi diminuiamo». «Dottore, è vero che può sentirci anche in questo stato?». 81
«Non lo sappiamo, ma forse sì». «Caterina, sei stata una donna brava e coraggiosa». «È vero, e tanto dolce e paziente». «Non ti meritavi tutto questo». «Cosa fai Cristina? Sì, vai di là, ma non vergognarti di piangere. Non vedi che piango anch’io?».
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XIIIª Novella PER L’ANGELO CUSTODE Per gli angeli, il Creatore stabilì delle regole opposte a quelle degli esseri umani. D’altra parte la loro natura spirituale non li rendeva certo somiglianti agli uomini. Inoltre, per quelli che si erano offerti di divenire angeli custodi, le condizioni erano definite in un modo ancor più lontano dalle logiche che guidano i mortali. Avevano tutti i doni possibili: spostarsi in un attimo dove volevano, leggere pensieri e desideri delle persone, conoscere in anticipo le conseguenze di ogni azione. E, come è ben immaginabile, erano liberi da qualunque debolezza umana. Però, stando vicini all’anima loro assegnata, non potevano intervenire in alcun modo, a meno che l’ordine non fosse stato dato dall’alto. Non perché non ne avessero le capacità, ma solo perché dovevano resistere e non farlo. In pratica erano una specie di pronto soccorso solo per i casi giudicati degni di intervento dal Creatore. Quindi il loro merito principale stava in qualcosa che per noi è incomprensibile. Infatti, come l’uomo è lodevole quando si prodiga ad aiutare gli altri senza niente chiedere, dando l’amore anche a chi non lo chiede, così loro acquisivano valore nella misura opposta. Ovvero, soffrendo del dolore di chi custodivano senza intervenire. Se poi ci domandiamo se patissero davvero, la risposta è sì. Neppure la natura “angelica” poteva impedire loro la percezione della sofferenza. Ed agli occhi del Creatore, più erano grandi i dolori dei loro “protetti”, più sublime era la virtù nel resistere alla voglia di intervenire. Uno di questi custodi si chiamava Katryn. Aveva assistito già così tante anime che nessun numero avrebbe potuto contarle. Ed aveva sempre resistito a quel tipo di tentazione che davanti alle tragedie del mondo spesso assaliva anche quegli esseri. Ma con l’anima del suo ultimo custodito, successe qualcosa. Caterina aveva sopportato con pazienza la sua lunga malattia tumorale. Alla fine arrivò in Hospice per compiere l’ultimo tratto della vita. Un amico medico la assisteva e per rendere più sopportabile la sofferenza le leggeva ogni giorno una novella scritta per lei durante il giorno. Katryn, che le stava sempre vicino e che pur avendo tanti doni era privo di fantasia, ascoltava pieno di curiosità per sapere come andavano a finire quei brevi racconti. Quando però vide che Caterina era arrivata al suo ultimo giorno, temette che potesse morire prima che ai suoi orecchi angelici potesse giungere l’ultima novella. 83
Ed allora, cosa che non aveva mai fatto nell’eternità della sua esistenza, la sfiorò appena perché vivesse fino all’indomani. Così avvenne, e Katryn poté conoscere la fine del breve racconto del Dottor James, dal titolo “Per l’angelo custode”. Caterina chiuse gli occhi il giorno dopo e il suo angelo tornò nell’alto dei cieli. Quando un angelo custode cede al desiderio di aiutare gli esseri umani, non subisce una vera punizione, ma viene mandato qualche tempo sulla terra per imparare a resistere alle tentazioni degli uomini. E Katryn fu inviato in un grande Monastero a fare l’archivista di una immensa biblioteca. Vi erano tutti i libri di novelle del mondo e lui doveva prendersi cura di loro e classificarli. Solo che… non poteva leggerli.
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E così, Caterina, questo tempo supplementare della tua vita lo dobbiamo alla curiosità di Katryn. Guardando il tuo profondo sonno osservo già evidenti gli annunci del prossimo meritato riposo. Addio, compagna di questo breve indimenticabile viaggio. Non so se potevo fare di più, ti ho solo carezzato con la seta sottile della fantasia e dell’emozione. Grazie per esserti affacciata con la tua spontaneità al cancello del mio giardino incolto e senza fiori. Vi hai fatto entrare semi che da tanto non vi arrivavano. «Dottore, manca poco a mezzanotte, Caterina è tranquilla, perché non prova a riposarsi sul letto vicino? Se succede qualcosa la chiamo». «Grazie Susy, tanto resto sveglio».
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26 febbraio «Dottore… Dottore… ». «Susy… ». «Caterina non c’è più». «Caterina?... Quando è successo?». «Ora... Un minuto fa sono passata, aveva qualche pausa respiratoria ma riprendeva subito». «Lasciamola nel suo letto». «Va bene. Ora la sistemo insieme a Monica e poi le mettiamo quel suo bel vestitino azzurro». «Grazie». «Dottore, vada in cucina a prendere un caffè. La chiamo quando è tutto a posto».
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28 febbraio Due delfini seguirono la barca fino all’estremità del promontorio. S’immersero increspando appena la superficie del mare.
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INDICE 13 febbraio Iª Novella:
AL BUIO
14 febbraio IIª Novella:
LE MANI NELLA SABBIA
15 febbraio IIIª Novella:
COSA C’È DOPO?
16 febbraio IVª Novella:
STAI SULLE PUNTE
17 febbraio Vª Novella:
FATTELI BASTARE
18 febbraio VIª Novella:
NON TI SCORDAR DI ME
19 febbraio VIIª Novella:
HO RESPIRATO IL CIELO
20 febbraio VIIIª Novella:
NON HO LE CHIAVI
21 febbraio IXª Novella:
CON I CAPELLI AL VENTO
22 febbraio Xª Novella:
HO SETE
23 febbraio XIª Novella:
PROFUMO
24 febbraio XIIª Novella:
VIA COL VENTO
25 febbraio XIIIª Novella:
PER L’ANGELO CUSTODE
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Sirio Malfatti, nato e residente a Livorno. Medico internista nell’Ospedale di Livorno, presente nell’Hospice di Cure Palliative della sua città fin dalla sua apertura (2002). Una pensione addolcita dalla scrittura e dalla creta. Si è accorto solo ora di aver sempre praticato la medicina narrativa, specialmente quando non c’era più niente da fare… Sa che l’hanno inventata i pazienti.
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