Azione 05 del 27 gennaio 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Una visita allo Spazio Wetube che da un anno la RSI mette a disposizione dei giovani creativi digitali

Ambiente e Benessere La lana di legno, un prodotto ecologico e rinnovabile molto utile per combattere l’erosione del terreno»

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 27 gennaio 2020

Azione 05 Politica e Economia Donald Trump a Davos per il WEF commenta i risultati vincenti dell’economia Usa

Cultura e Spettacoli La Giornata della Memoria è l’occasione per riflettere anche sul delicato tema del perdono

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A. Romenzi91

Libia, nell’inferno dei migranti

di Francesca Mannocchi pagina 20

Davos, forum e palcoscenico di Peter Schiesser Il Forum economico di Davos è un magnete mondiale. Cinquant’anni anni dopo la sua fondazione, lo vediamo: c’è Trump, c’è Greta, per noi tutti i consiglieri federali, c’è l’élite politica internazionale e capitani d’industria e della finanza. Ci sono gli altermondisti, gli ecologisti e tutta la galassia di oppositori al capitalismo, da cui il Forum viene visto come un’icona. Eppure, 50 anni fa il Forum di Davos era nato in altro modo: un giovane ingegnere ed economista tedesco, Klaus Schwab, voleva creare una piattaforma affinché i dirigenti d’azienda incontrassero i loro stakeholder. Il pensiero di questo giovane, come lo racconta lui stesso in un’intervista alla «Neue Zürcher Zeitung» da cui traggo le citazioni, era in antitesi al concetto di shareholder (secondo Milton Friedman), limitato all’interesse dell’azionista. Schwab riteneva fondamentale per un futuro sostenibile di ogni azienda che si considerassero invece gli interessi degli stakeholder, in senso allargato anche della collettività. In questi decenni, Davos è rimasto comunque un forum, in cui idee originali e persone carismatiche si sono

presentate al mondo. Un idealismo di fondo, unito a pragmatismo, c’è ancora oggi: quest’anno si presenta nell’iniziativa di piantare un miliardo di alberi sulla terra per contrastare i cambiamenti climatici, tema che fa da sfondo a questa cinquantesima edizione. Ma certo, Davos è anche il palcoscenico della politica mondiale. Schwab ricorda che nel 1987 il ministro degli esteri tedesco Genscher pronunciò il discorso che segnò l’inizio della fine della Guerra fredda, in cui chiese al mondo di dare una chance a Michail Gorbaciov, nuovo uomo forte dell’Unione Sovietica, qui greci e turchi avevano disinnescato una guerra imminente nel 1986... Oggi forse l’importanza politica che si attribuisce al Forum è esagerata, se intesa come possibilità di stringere accordi. È diventato un palcoscenico globale, da cui annunciare i propri messaggi: il cinese Xi Jinping per ergersi a paladino della globalizzazione, Donald Trump per dire al mondo quanto lui è great e America great again, e la storiella del clima una gran fandonia, Greta per dire che il mondo brucia tuttora. Comunque, è un palcoscenico da cui non si può prescindere: meglio qualche incontro cordiale senza molti risultati che non esserci. Motivo per cui anche i nostri consiglieri federali si sono trasferiti a Da-

vos in corpore, tre dei quali (Sommaruga, Keller-Sutter e Cassis) per incontrare la neo presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e la sua delegazione da Bruxelles. Le aspettative che alcuni media avevano sollevato erano ovviamente esagerate, si è certo parlato dell’importanza di un accordo istituzionale fra Unione Europea e Svizzera ma stando attenti ad evitare ogni termine provocatorio (non si è usato il verbo «rinegoziare»). Si è trattato di una presa di contatto, di conoscersi personalmente, di spiegare che sull’accordo quadro il dibattito interno alla Svizzera è ancora in corso, di far capire che serve ancora un po’ di pazienza: adesso bisogna concentrarsi sull’iniziativa dell’UDC per l’abolizione della libera circolazione (che farebbe decadere tutti gli accordi bilaterali), al voto il 17 maggio; dopodiché si potrà riprendere il discorso. Intanto, ma questo sta avvenendo con grande discrezione, in Svizzera esponenti sindacali, cantonali e impresari stanno cercando una via d’uscita all’impasse sulle misure di accompagnamento come previste dall’accordo istituzionale con l’UE. Perché è la Svizzera che deve presentare delle proposte di modifica a Bruxelles, non il contrario, e queste non ci sono ancora. A Davos era solo il momento dei saluti e dei sorrisi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Attualità Migros

Activ Fitness: prosegue l’espansione

Benessere Dopo l’ultima nata di Vezia, si progetta un’apertura nelle Tre Valli e un secondo centro nel Bellinzonese Un modello che è esempio di versatilità e di efficienza: i cinque centri Activ Fitness aperti negli ultimi anni nel nostro cantone stanno consolidando la loro presenza sul territorio. Forti di una formula confermata dalla soddisfazione degli utenti, propongono un modello di fitness che segue una filosofia chiara: presa a carico della salute e del benessere con un programma altamente specializzato; il tutto a un costo decisamente concorrenziale. Per approfondire il tema e sottolineare la ricorrenza, abbiamo posto alcune domande a Pierpaolo Born, responsabile della società. Un bell’anniversario che dimostra un grande interesse da parte del pubblico. Può fornirci qualche dato sulla frequenza relativa agli spazi?

L’iniziativa va iscritta nell’attenzione dimostrata da Migros Ticino per la salute della popolazione, un tema molto importante per l’azienda. Dopo il grande successo della prima apertura, avvenuta nel 2014 a Losone, in pochi anni hanno aperto i battenti altri quattro centri fitness che ci hanno permesso di essere praticamente presenti nelle vicinanze delle principali località del cantone. Grazie anche alle interessanti promozioni, proposte al momento dell’apertura, siamo riusciti ad avvicinare un folto e variegato pubblico a questa attività. Giornalmente circa 1’500 soci di tutte le fasce d’età si allenano nelle nostre infrastrutture. Il nostro obiettivo principale è quello di garantire un’offerta fitness completa a un prezzo vantaggioso: ciò che ritentiamo di riuscire a fare e il successo sinora ottenuto ne è la conferma. Quali sono secondo lei i punti vincenti dell’offerta Activ Fitness?

Come ho già detto in precedenza un’offerta completa indirizzata a tutte

le fasce d’età, con un’assistenza personalizzata – non siamo una palestra virtuale – a un prezzo vantaggioso, in un’infrastruttura moderna e confortevole (climatizzazione, ecc.) e la possibilità di allenarsi 365 giorni l’anno con degli orari d’apertura estesi. Questo non solo nel proprio centro fitness di riferimento, ma anche in tutti gli altri centri ACTIV FITNESS del Ticino e del resto della Svizzera; complessivamente ben 85 ubicazioni (possibilità particolarmente apprezzata dagli studenti). Inoltre le nostre palestre godono di una specifica certificazione che permette di ottenere un rimborso parziale o totale dell’abbonamento dalla Cassa malati (copertura complementare). In questi anni abbiamo pure sottoscritto diversi accordi di partenariato con aziende o organizzazioni che sono sensibili e disposte ad investire nella salute dei propri collaboratori, facilitando loro l’accesso alle nostre infrastrutture. Ci può ricordare come si è sviluppata l’avventura Activ Fitness degli ultimi anni?

La prima apertura di Losone ha comportato l’occupazione di una superficie di 900 mq; superficie che dopo pochi mesi ha dovuto essere ampliata a 1200 mq per rispondere meglio – visto il grande successo – alle aspettative della clientela. Sulla base di questa prima esperienza sono seguite ad un anno di distanza una dall’altra quella di Lugano Centro, Bellinzona, Mendrisio e da ultimo, lo scorso mese di settembre, quella di Vezia. Losone è servita come modello. Inoltre a scadenze regolari ci impegniamo ad introdurre delle innovazioni e degli adeguamenti, come nuove attrezzature, o nuove proposte di corsi di gruppo. Particolare attenzione viene pure posta ai locali accessori (spogliatoi, ecc.) e alla pulizia di tutta la superficie.

L’ultima apertura in ordine di tempo: la palestra di Vezia.

Vincente è pure stata la ricerca di ubicazioni facilmente accessibili, con la presenza nelle vicinanze di posteggi, ma anche dei raccordi con i trasporti pubblici e il traffico lento.

Da un punto di vista concreto, come funziona una delle vostre palestre?

Tutte le palestre in Ticino propongono l’offerta completa: allenamento di forza e di resistenza con circa un centinaio di postazioni, un’ampia scelta di corsi di gruppo (in media 30 ore settimanali), uno spazio sorvegliato dedicato ai bambini e una zona Spa & relax con sauna e bagno turco. Inoltre ad ogni nuovo socio viene redatta una scheda d’allenamento personalizzata in base agli obiettivi che il cliente vuole raggiungere, poi aggiornata a scadenze regolari. Tutti servizi compresi nell’abbo-

namento annuale vengono offerti ad un prezzo di 740 franchi, rispettivamente 640 franchi per studenti, apprendisti e beneficiari AVS/AI. Questa proposta è erogata da personale qualificato che segue regolarmente corsi di formazione e aggiornamento, svolgendo le proprie mansioni con grande impegno e motivazione anche perché il fitness non è solo la loro professione, ma anche la loro passione; collaboratori che sono alla base del nostro successo e che approfitto per ringraziare. ACTIV FITNESS Ticino è ormai una realtà organizzativa con più di 120 collaboratori; particolare attenzione viene pure posta alla formazione degli apprendisti – attualmente 7 – così da garantire le nuove leve del futuro. Evoluzione futura dell’offerta? C’è

spazio per ampliare la presenza sul territorio?

Il successo ottenuto ci sprona a raccogliere nuove sfide. Oltre ad aggiornare la nostra offerta alle nuove tendenze del settore e sviluppare ulteriormente i servizi complementari a pagamento (massaggi medicali e sportivi, consulenza alimentare) le nostre intenzioni sono quelle di proporre il nostro prodotto a breve in altre regioni del Ticino. Per questo motivo stiamo cercando delle superfici con le necessarie caratteristiche nelle Tre Valli – preferibilmente a Biasca – e a sud di Bellinzona (oltre a quella di viale Stazione), senza escludere possibili altre ubicazioni. Quindi vogliamo dare la possibilità a tutta la popolazione del canton Ticino di praticare una sana attività fisica. / Red.

Tante idee belle con Forum elle

Sotto la tenda il mondo è magico

presentato il calendario di attività per la prima parte dell’anno in corso

cantastorie a Minusio dal Marocco

Febbraio-settembre 2020 È stato

La sezione ticinese dell’organizzazione femminile di Migros ha reso pubblico il nuovo programma per i prossimi mesi. A socie e simpatizzanti sono proposte numerose attività culturali che toccano vari interessi e compongono così un palinsesto di grande varietà. Il territorio della nostra regione verrà «esplorato» seguendo un itinerario culturale, artistico e gastronomico che offre molte possibilità di scoperta e di approfondimento, mentre, come di consueto, uno spazio speciale verrà dedicato agli incontri con personalità al femminile attive nella nostra realtà. In particolare è da segnalare la presenza, all’assemblea annuale di Forum elle, di Maria Bonina, direttrice dell’associazione CH2021, la piattaforma nazionale che intende celebrare i cinquant’anni dall’introdu-

zione del voto femminile in Svizzera. Maggiori informazioni nelle locandine scaricabili all’indirizzo www. forum-elle.ch, rubrica Ticino, incluso formulario d’adesione.

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Minispettacoli Un

Per la Festa della Donna, uno spettacolo al LAC con Teresa Mannino. (Laila Pozzo)

Programma Martedì, 28 gennaio Suitenhotel Parco Paradiso – Lugano Paradiso. Conosci il tuo lato più bello? – Workshop Martedì, 11 febbraio Suitenhotel Parco Paradiso – Lugano Paradiso.CenagiapponesealTsukimiTei Mercoledì, 4 marzo Teatro Sociale Bellinzona. Se la va la gh’a i röd

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Domenica, 8 marzo Sala Teatro LAC Lugano. Teresa Mannino – Sento la terra girare Mercoledì, 11 marzo Suitenhotel Parco Paradiso. Assemblea Forum elle Ticino. Ospite Maria Bonina, direttrice CH2021 Mercoledì, 1 aprile / Giovedì, 23 aprile MASI Lugano (LAC). Capolavori della Collezione Emil Bührle

Giovedì, 28 maggio Visita alla Villa Vigoni Loveno di Menaggio Venerdì, 19 giugno Ristorante Vetta Monte S. Salvatore, Cena d’inizio estate in vetta al San Salvatore Mercoledì, 9 settembre Castello di Montebello di Bellinzona. Crea il tuo salame dei Castelli

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 101’634 copie

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Nello spettacolo Sotto la tenda, vi racconto il mio Marocco di e con Abderrahim «Abdul» El Hadiri, l’attore di origine marocchina ci racconterà i propri ricordi, costruiti attraverso gli oggetti della vita quotidiana e attraverso la loro storia, ricomponendo il suo mondo nello spazio teatrale. Dal racconto di Abdul prende vita un luogo, la cui descrizione è anche un itinerario di viaggio attraverso città, montagne e deserti e che ci porterà a conoscere i tuareg e i nomadi, ad incontrare personaggi magici, e alla fine ad attraversare il mare. Biglietti in palio

«Azione» offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti omaggio per lo spettacolo. Per aggiudicarseli seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna! Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Società e Territorio Un saluto allunga la vita Ciao Table è un’iniziativa lanciata in Ticino nel 2017 con lo scopo di facilitare gli scambi sociali nei luoghi pubblici fra persone che non si conoscono pagina 6

Il talent show entra nelle scuole Stimola la creatività dei ragazzi, promuove la fiducia in se stessi e l’empatia verso i compagni: ecco perché il talent show può essere educativo

Tutto il bello dell’amore L’Associazione Passi si rivolge a ragazzi, genitori e istituti scolastici con corsi e seminari che affrontano il tema della sessualità e dell’affettività pagina 8

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Uno spazio per creativi digitali

Wetube Compie un anno lo studio

che la RSI mette a disposizione gratuitamente per realizzare una propria produzione. Lo abbiamo visitato

Guido Grilli Vi sentite dei creativi digitali? Avete idee e progetti da realizzare? Allora seguite la linea gialla. Accederete a tre stanze: nella prima trovate l’officina delle idee, nella seconda lo studio di registrazione e nell’ultima l’area editing. Siete così arrivati nello spazio RSI per giovani creativi digitali. In una parola: Wetube. Telo green screen, impianto luci, camere remotate, regia streaming, materiale di ultima generazione per dare vita alle idee più ambiziose. Persino uno zainetto bell’e pronto per realizzare video in esterno. Inaugurato nel febbraio 2019, lo spazio Wetube – ricavato nello stabile in via Canevascini 5 a Lugano-Besso, a pochi metri dagli studi radio – si appresta a festeggiare il suo 1° compleanno e i suoi primi iscritti, ad oggi 223. Tutto è gratis, eventi, materiale professionale e spazi di produzione, disponibili qui e ora per chi intende dar sfogo alla propria creatività. A guidarci nello spazio Wetube è il responsabile Federico Fridel, 28 anni, junior product manager e responsabile dei laboratori creativi per la RSI. Bachelor in lettere e filosofia e master in Gestione dei media all’USI, si dice attento soprattutto a «scoprire le nuove tendenze e i nuovi interessi legati ai contenuti digitali». «Wetube, realizzato dal capo progetto Jan Trautmann – esordisce il nostro interlocutore – rientra nell’offerta del servizio pubblico legata ai giovani e al mondo del digitale». Qual è il target dello spazio Wetube?

Sono i giovani creativi digitali della Svizzera italiana. Giovani, tuttavia, è un termine vasto che va esteso a tutti coloro che nutrono passione verso la creazione di contenuti digitali. A oggi l’età media dei frequentatori del nostro spazio è 25 anni. Il più giovane iscritto ha 12 anni ma annoveriamo anche un professore universitario. In breve, come si diventa wetuber?

Bisogna prendere un appuntamento sul nostro sito www.spaziowetube.ch, si viene invitati a visitare gli spazi a Besso e a compilare un modulo di iscrizione con regolamento annesso (se minoren-

ni occorre la firma dei genitori). Wetube è aperto dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 17, ma è accessibile tutto l’anno, 24 ore su 24, attraverso un badge per il fuori orario. Quali sono le creazioni più diffuse generate nello spazio Wetube?

Di tutto e di più: video tutorial, videoclip, recensioni, progetti scolastici, ma anche grafiche, illustrazioni e, ovviamente, montaggi video. Molti possiedono un canale youtube e nel nostro spazio trovano la tecnologia adatta per realizzare le loro produzioni. Si va dal neofita curioso allo youtuber più affermato, talentuosi o aspiranti tali.

Lo spazio non offre tuttavia un’assistenza tecnica.

Chi è poco pratico trova tutti gli strumenti per iniziare. Wetube offre anche competenze attraverso masterclass e incontri tenuti una volta al mese da professionisti del settore, anch’essi gratuiti: tecniche di ripresa, green screen, soluzioni creative low budget e altre ancora. Protagonisti degli incontri sono invece personalità di successo nel mondo del digitale, come ad esempio celebri youtuber con i quali è possibile rapportarsi a esperienze di successo. I partecipanti possono infatti richiedere opinioni o consigli.

Tutti i diritti sulle creazioni rimangono di proprietà dei frequentatori di Wetube?

Assolutamente sì. Naturalmente va osservata una «carta etica»: è possibile realizzare ogni genere di prodotto purché non vi siano contenuti illegali o contrari ai princìpi del servizio pubblico.

E per qualcuno particolarmente talentuoso può aprirsi lo spiraglio di collaborazioni con la RSI?

Chi lo vuole ha la possibilità di mostrarci le proprie produzioni o può inviarle al nostro indirizzo (wetube@ rsi.ch). Alcuni wetuber talentuosi, se ritenuti interessanti dalle redazioni della RSI, potrebbero trovare uno spazio per eventuali collaborazioni, come già è stato il caso.

Wetube si rivela anche un luogo di scambio e incontro?

Si fanno conoscenze, grazie soprattutto ai nostri eventi, ai video contest che

Lo spazio Wetube in via Canevascini a Besso conta già più di 200 iscritti. (RSI)

organizziamo, e alla vicinanza anche fisica con le redazioni giovani RSI di Spam# e FLEX. E tra coloro che hanno scoperto Wetube troviamo Ivan Sokolov, 18 anni, studente liceale a Lugano al quarto anno e Kevin Schoengrundner, 26 anni, geologo, tra i vincitori del concorso organizzato la scorsa estate da Wetube, che hanno entrambi conosciuto «un po’ per caso». Dichiara Ivan: «Il contest richiedeva di presentare un format, e realizzare il relativo video pilota su un tema che fosse legato allo sport. La mia produzione, che legava lo sport alla scienza, è piaciuta ed è passata alla Domenica sportiva della RSI. Di qui sono

nate altre collaborazioni, anche con la redazione di Spam, visibile su Facebook e su Instagram. Ora, con un mio amico disegnatore, stiamo realizzando un cortometraggio. E ci stiamo servendo della tecnologia di Wetube, davvero un prezioso spazio creativo». Dal canto suo, Kevin, non è un nativo digitale ma è appassionato di nuove tecnologie: «Da oltre 10 anni realizzo filmati, soprattutto documentari, uno dei quali, intitolato Un bosco in Laguna è stato trasmesso a novembre dalla RSI a Storie. Per me questo rimane un hobby», evidenzia il 26enne, che aggiunge: «devo dire che Wetube apre delle porte, è un buon trampolino di lancio». «Le competenze tecnologie sono sempre

più diffuse, anche tra i più giovani» – riprende Federico Fridel. «Quello che mi piace evidenziare è che i giovani hanno un grande rispetto dell’offerta che gli viene data: affidiamo loro del materiale molto costoso e finora tutti si sono mostrati responsabili. E anche gli spazi li ritroviamo sempre puliti e in ordine». L’obiettivo della RSI con la creazione dello spazio Wetube a Besso appare chiaro: non perdere il contatto con il pubblico delle nuove generazioni, ormai distante dai tradizionali mass media. «Tanti sono un’esplosione di creatività e di contenuti» – assicura il responsabile dello spazio Wetube. «E la RSI è pronta e aperta ad accogliere questo giovane pubblico social».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Idee e acquisti per la settimana

Un latte sostenibile

Attualità Valflora è il latte più venduto

dalla Migros. Da un anno è prodotto in modo rispettoso per l’uomo, gli animali e l’ambiente

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Sono 1036 i produttori svizzeri di latte che allevano 26’000 mucche che partecipano al programma «Latte sostenibile Migros», lanciato nel 2018. Questi allevatori si impegnano in favore del benessere animale, dell’uomo e dell’ambiente, soprattutto in materia di foraggiamento, allevamento e biodiversità.

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In media 5 ore al giorno al pascolo Le mucche passano un quinto del loro tempo al pascolo, ciò che favorisce il loro benessere in termini di salute, speranza di vita e fertilità.

Molta erba e fieno svizzeri L’81% del foraggio destinato agli animali proviene da prati e pascoli, sotto forma di erba fresca, fieno o altri foraggi complementari. L’alta proporzione di erba permette di migliorare la qualità del latte e incrementare la percentuale di acidi grassi insaturi. Il 99% del foraggio base come erba e fieno proviene dalla Svizzera, con ripercussioni positive sul clima.

Un frutto sorprendentemente buono Attualità La mela Jazz conquista i palati svizzeri con la sua raffinata dolcezza

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Conservazione degli habitat I produttori di latte si impegnano in favore della biodiversità, per esempio creando siepi per gli insetti o campi di fiori per impollinatori e altri ausiliari. Gli allevamenti interessati hanno ottenuto in media 21 punti (il minimo è di 13 punti), nell’ambito del sistema a punti sulla biodiversità fissato dal marchio IP-Suisse, che fa parte del programma Migros.

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Meno emissioni di CO2 Cibandosi di molta erba fresca, più digesta, le mucche emettono meno metano. Grazie ad un foraggiamento adattato, nel 2019 si è potuto ridurre quest’ultimo di 10,5 tonnellate, diminuendo così le emissioni di CO2 di 263 tonnellate, vale a dire le emissioni annuali di 56 case unifamiliari riscaldate tutto l’anno con olio combustibile. Il programma «Latte sostenibile Migros» permette anche di accrescere l’aspettativa di vita degli animali e di ridurre l’impatto sull’ambiente, migliorandone la redditività. Infine, anche i trasporti brevi del foraggio di base, di provenienza Svizzera, hanno un effetto positivo sul clima.

Novità: capsule di caffè in alu riciclabile

Azione 20%

Mele Jazz svizzere al kg Fr. 3.90 invece di 4.90 dal 28.01 al 03.02

In pochi anni la mela Jazz ha conquistato le prime posizioni tra le mele più apprezzate della Svizzera. Un simile successo per un prodotto frutticolo si è visto raramente nel nostro paese. Questa straordinaria mela è stata coltivata per la prima volta in Nuova Zelanda, nel 1985, e rappresenta il naturale incrocio tra le varietà Gala e Braeburn. Segni distintivi della Jazz sono il suo aroma sopraffino, il suo perfetto equilibrio tra acidità e zuccheri, come pure la polpa marcatamente croccante e succosa. Inoltre il frutto si conserva a lungo senza refrigerazione. Grazie al suo apprezzamento da parte dei consumatori, oggi in Svizzera la superficie dedicata alla coltivazione di questa varietà ha raggiunto 145 ettari. I meleti sono

situati principalmente nella regione del lago Lemano, nell’assolato Vallese, come pure nelle fertili zone frutticole del Seeland e del canton Turgovia, presso alcuni frutticoltori selezionati. Le mele vengono coltivate nel rispetto dei più alti standard qualitativi e sono disponibili quasi tutto l’anno sugli scaffali dei negozi. Al fine di poter gestire al meglio la coltivazione di questa nuova ed esigente varietà di mela i produttori dispongono di ampie conoscenze specialistiche. Durante l’ultima stagione, in Svizzera sono state consumate qualcosa come quasi 20 milioni di mele Jazz. Sono una vera delizia consumate crude, ma possono essere utilizzate anche come ingrediente principale per la preparazione di torte, dessert o gratin.

Le capsule Café Royal, compatibili con il sistema Nespresso, sono ora composte di alluminio riciclabile al 100%. A partire dalla fine del mese di gennaio potranno essere riportate in oltre 700 filiali Migros. Il riciclaggio avviene in collaborazione con Nespresso. Con l’alluminio recuperato si potranno per esempio fabbricare elementi per biciclette, auto o telai per finestre, mentre i fondi di caffè serviranno per produrre energia rinnovabile come concime naturale o biogas. Nei punti vendita Migros le capsule sono raccolte in speciali contenitori chiusi. Quest’ultimi vengono in seguito trasmessi al centro di riciclaggio Nespresso di Moudon, nel Canton Vaud, dove le capsule in alluminio sono separate dai resti di caffè e fuse per essere riutilizzate. La marca Café Royal è stata lanciata nel 2012 dalla Delica SA, azienda del Gruppo Migros. In Svizzera il marchio è leader sul mercato delle capsule compatibili con il sistema Nespresso.


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Idee e acquisti per la settimana

Per un bucato sempre impeccabile Attualità Spuma di Sciampagna ha il detersivo giusto per ogni tipo di bucato

Azione 33%

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sui prodotti Spuma di Sciampagna

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a partire da 2 pezzi dal 28.01 al 10.02 1. Spuma di Sciampagna Puro Lana 1000 ml Fr. 4.30 2. Spuma di Sciampagna Bianco Puro 2145 ml Fr. 10.50 3. Spuma di Sciampagna Nero Puro 1000 ml Fr. 4.–

Sugli scaffali delle maggiori filiali di Migros Ticino potete trovare tre prodotti del noto e apprezzato marchio italiano Spuma di Sciampagna. Puro Lana è un detersivo delicato ideale per il lavaggio a mano e in lavatrice di capi di lana, cachemire, seta e tessuti particolarmente delicati. Grazie alla formula con tecnologia antinfeltrente ed effetto balsamo le fibre vengono mantenute morbide ed elastiche. I capi scuri e neri sono efficacemente preservati grazie all’utilizzo di Nero Puro. Questo detersivo mantiene l’originale intensità e brillantezza dei capi, aiutando al contempo a prevenirne lo sbiadimento.

Bianco Puro lavatrice per bianchi e colorati regala al bucato lavaggio dopo lavaggio un effetto extra-white e contribuisce a prevenirne l’ingrigimento. Forte sulle macchie, ha una formula concentrata con enzimi ed è efficace anche a freddo. Il marchio Spuma di Sciampagna nasce agli inizi degli anni 30 e fin da subito si impegna nella ricerca e nello sviluppo di prodotti innovativi che possano soddisfare i bisogni dei consumatori. I primi prodotti per l’igiene e la cura si caratterizzavano per l’inconfondibile profumo francese Royal Bain de Champagne di Caron, che si riteneva

potesse portare fortuna e amore a chi lo indossava. Nei decenni successivi il nome venne associato anche a personaggi famosi del cinema italiano, come per esempio Alberto Sordi che, nel film Gastone, affermava «sei come una Spuma di Sciampagna» per indicare una persona frizzante e spumeggiante. Pure l’attrice Laura Antonelli negli anni 80 diventa la testimonial di molti spot del marchio. Un vero boom di vendite di Spuma di Sciampagna avviene a partire dal 2000, quando vengono lanciati molti altri prodotti innovativi per rispondere al meglio alle esigenze dei consumatori. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Un saluto per stare meglio

Ciao Table L’associazione amplia l’attività e la riflessione

sugli scambi sociali spontanei fra persone che non si conoscono Stefania Hubmann Le relazioni sociali allungano la vita. Studi scientifici lo provano, ma il principio è poco valorizzato. Ciao Table, un’iniziativa lanciata in Ticino nel 2017 dalla piscoterapeuta Piera Serra, si inserisce in questo contesto stimolando lo scambio sociale nei luoghi pubblici fra persone che non si conoscono. Nessun obbligo, solo un invito a salutare. Se poi la comunicazione passa, ecco che possono nascere due chiacchiere, una conversazione, una relazione sociale. Partito come tavolo condiviso in ristoranti e bar, il progetto si è aperto da un lato ad altre realtà suscettibili di facilitare il contatto fra persone sole, dall’altro alla riflessione sui fattori che influenzano lo scambio sociale, siano essi incentivi o inibitori di quest’ultimo. Ogni iniziativa è monitorata e la strategia continuamente adeguata ai feed-back.

Ciao Table vuole stimolare le relazioni sociali nei luoghi pubblici fra persone che non si conoscono Il centrotavola in plexiglas con l’invito «Qui un sorriso e un saluto alle persone vicine sono benvenuti» resta il segno distintivo di Ciao Table. Il progetto, sostenuto nella sua fase iniziale da alcuni locali storici luganesi, si è sviluppato estendendosi alla promozione di convegni e seminari. Città di Lugano, USI, Psychology and Psycotherapy Research Society con sede a Lugano, personalità del mondo accademico e numerosi volontari aiutano regolarmente Piera Serra nelle diverse attività. Il colorato centrotavola, ha così raggiunto tavoli di club, scuole di lingue e associazioni, dove non necessariamente ci si reca in gruppo. Ora si punta anche su luoghi pubblici accessibili gratuitamente, come parchi e biblioteche, con l’intento di valorizzare zone favorevoli a esperienze conviviali. «Se in questi luoghi si percepisce un’atmosfera amichevole, risulta facile e naturale scambiare un saluto e qualche parola con la persona seduta vicino», spiega Piera Serra. «Desideriamo individuare le caratteristiche che portano le persone a sentire l’altro come un potenziale interlocutore per poterle realizzare in ambienti già esistenti o da

creare con facilità. Nei parchi, ad esempio, alle singole panchine di fronte alla bella vista si possono aggiungere aree per accomodarsi più ampie con posti a sedere a forma di semicerchio. Ho inoltre notato che questi spazi liberi ed accoglienti tendono ad essere inseriti in vari contesti compreso quello commerciale. Essi non creano concorrenza alle attività di ristoro, ma contribuiscono a rendere più ospitale l’intero complesso, migliorandone l’immagine. Ne è un esempio, visto di recente in Italia, la ristrutturazione del mercato coperto di Ravenna inaugurato lo scorso dicembre». A questo scopo l’associazione intende rivolgersi a specialisti di diversi settori, coinvolgendo professionisti quali architetti, paesaggisti e artisti. I «Friendly corners», come li definisce il progetto Ciao Table, andranno ad aggiungersi a bar e ristoranti con il tavolo condiviso. Il tutto partendo da Lugano, ma aperto al mondo intero. Sulla mappa che sarà pubblicata a breve sul sito dell’associazione si trovano locali presenti ad esempio a Zurigo, Parigi e Bangkok. Ciao Table invita a segnalare e promuovere questi spazi, di cui verifica l’idoneità. L’obiettivo generale di favorire gli scambi sociali spontanei è quindi stato suddiviso in diverse attività concrete e in eventi che approfondiscono motivazioni e fattori legati a questi comportamenti. Comportamenti, ricordiamo, che assicurano benessere al singolo e all’intera società. La bibliografia pubblicata sul sito di Ciao Table permette di trovare le relative conferme. Gli scorsi mesi sono stati ricchi di appuntamenti per riflettere sul tema ampliandone la prospettiva. Al convegno «I fattori che facilitano gli scambi sociali spontanei e le amicizie», sostenuto anche dal Percento culturale Migros, sono stati esaminati ad esempio l’influenza dei dispositivi digitali sulle comunicazioni interpersonali, il ruolo dell’architettura, la solidarietà nei contesti urbani, l’impatto di emozioni e traumi sulla capacità di comunicazione. L’elaborazione dei traumi per migliorare le comunicazioni è stata approfondita da Piera Serra nell’ambito di un successivo seminario, così come la convivialità legata alla fruizione dell’opera d’arte proposta dal filosofo Silvio Joller. Per gli interessati è ancora in calendario, in data da definire, il terzo seminario con Rosalba Morese, docente e ricercatrice all’USI, su «Il cervello sociale: il piacere della condivisione e dell’appartenenza».

Nel corso dei prossimi eventi Ciao Table intende evidenziare un altro tema emerso nelle prime fasi dell’attività. Piera Serra: «Sovente a frenare il contatto è l’imbarazzo associato a una situazione di solitudine. In alcuni contesti – vedi ad esempio palestre o conferenze – questo timore è stato superato, mentre in altri è ancora vissuto da uomini e soprattutto donne come un freno che inibisce non solo il contatto, ma anche la partecipazione stessa a eventi fonti di piacere. Penso in particolare al cinema, al teatro, al ristorante. Si tratta di un concetto molto radicato a livello culturale riconducibile a due motivi psicologici. In primo luogo la specie umana si è sempre tutelata rimanendo in gruppo e fino all’epoca preindustriale essere soli significava essere ostracizzati dalla comunità a causa di colpe giudicate tali secondo la morale vigente. Il secondo motivo è legato alla crescita. Gli adulti tendono a valorizzare il contatto sociale rispetto alla solitudine, insegnando ai bambini ad interagire con i coetanei. Il primo aspetto è sicuramente prevalente e riflette un pregiudizio che va superato. Per far cadere queste resistenze irrazionali è necessario parlarne così da capire che sono tali. Abbiamo iniziato ad offrire visibilità all’argomento attraverso un post su Facebook, interrogando gli utenti». Anche sulla base di queste reazioni Ciao Table deciderà come approfondire pubblicamente la questione. Il messaggio, precisa Piera Serra, è rivolto anche ai giovani, affinché possano accettare il fatto di partecipare da soli a certe manifestazioni evitando, quando sono esclusi dal gruppo di riferimento, di rifugiarsi nei social media per cercare compensazione al bisogno di compagnia. La società e le dinamiche che la caratterizzano cambiano velocemente. Ciao Table ha colto una di queste – osservando le persone che in pausa pranzo consumano sole e in silenzio il proprio pasto – e deciso di agire sul territorio per migliorare attraverso nuove esperienze il benessere delle persone. L’associazione lavora solidalmente, senza spreco di risorse e con molta agilità. Ciò permette di capire le tendenze in tempo reale, reagire a quanto trasmettono e adeguare l’intervento mantenendo intatto l’obiettivo finale: un sorriso e un ciao per stare meglio. Informazioni

www.ciaotable.org

Il centrotavola segnala un tavolo condiviso in bar o ristoranti per facilitare i contatti, l’idea sarà estesa ad altri luoghi pubblici.

Donne unite nella maternità

Pubblicazioni Angela Notari racconta

la storia di una levatrice e quella di tutte le donne che partoriscono

Sara Rossi Guidicelli Angela Notari, da quando ha pubblicato il suo libro Quello che ci unisce (Salvioni Ed., 2019) ha ricevuto un’infinità di messaggi da parte di madri, padri, donne e uomini senza figli, persone che hanno letto o vogliono leggere il suo libro. Un libro sulla nascita: di un bambino, di un genitore. «Il mio intento infatti era di scrivere un testo per tutti, non solo per puerpere», dice l’autrice e infatti è una lettura che si adatta a chiunque: a chi è interessato al mestiere della levatrice o a chi si vuole chinare in modo lieve e profondo su una delle più grandi esperienze umane. In fondo tutti noi siamo figli di una madre: il discorso della maternità ci riguarda in quanto esseri umani. Angela Notari è diventata mamma nel 2017; dopo il parto ha conosciuto una levatrice di nome Lucia e si è innamorata di questa figura dolce e amica, tanto utile nei primi giorni e nelle prime settimane in cui ci si ritrova a casa con una persona in più, un esserino minuscolo che prende tutto lo spazio, i pensieri, l’amore. Ci si interroga: sarà giusto il mio istinto? Perché piange se cerco di fare tutto bene? Chi sono adesso, sono ancora quella di prima? Angela ha chiesto il permesso a Lucia di coinvolgerla in un libro e Lucia, umile e poco incline al mettersi in mostra pubblicamente, alla fine ha accettato. Quello che oggi possiamo leggere è un racconto a più voci che intreccia il parto di Angela, la storia di una levatrice e di tante altre donne sullo sfondo, con una miriade di dati, spiegazioni, numeri utili che riguardano il tema della nascita. «Sentivo che c’era un bisogno, prima di tutto mio, di parlarci di più, di creare sorellanza – spiega l’autrice – e poi ho desiderato permettere anche solo a un’unica persona di trovare un briciolo di conforto, un titolo utile, un’informazione o altro».

«La nascita di un bambino porta con sé un’immensa gioia, ma nuove ansie si affacciano all’orizzonte» Lucia Lorenzetti De Paris «è nata nella prima metà degli anni Cinquanta in Valle Leventina...», si racconta nel libro. Diventa presto ragazza alla pari, telefonista, volontaria in ospedale, finché sceglie la sua strada e si diploma come infermiera. Nel reparto maternità scatta la scintilla: «Si è aperto ai miei occhi il mondo della donna che mette al mondo un figlio». Da allora è passata una cinquantina d’anni. Di pagina in pagina, Lucia racconta di sé e di centinaia di altre donne, colleghe o partorienti, in reparto, al proprio domicilio o alla Casa Maternità e Nascita lediecilune. Sembra di stare sul divano con lei e Angela che chiacchierano mangiando biscotti e regalando ognuna la propria esperienza con una sorprendente generosità. Lucia ha vissuto grandi cambiamenti nei decenni di attività: uno fra tutti l’isolamento delle famiglie, la scomparsa di quella rete «famigliare accogliente e protettiva, come poteva esistere in piccole comunità o nella famiglia patriarcale

allargata (la presenza di nonne, zie e prozie)»: questo cambiamento sociale porta ogni mamma a riscoprire da sola il ruolo che d’ora in avanti le tocca ricoprire. Fatto che secondo lei però non è solo negativo, perché «permette a ogni mamma e a ogni famiglia di riscoprire il proprio modo, di non sentire la pressione di replicare modelli e comportamenti di chi li ha preceduti e magari li circonda». In questo contesto, la levatrice ha assunto un’importanza ancora maggiore: perché è un’amica, una sorella e al contempo una professionista, che fin dal pancione porta avanti una relazione con la puerpera, che a volte può anche durare tutta la vita. Anche se è soprattutto durante il parto, e subito prima e subito dopo, che ce n’è più bisogno. E a volte il bisogno è immenso. Una nuova madre va incoraggiata, non va fatta sentire inadeguata, spiega Lucia. «... qualsiasi disagio è legittimo. Per me è sempre stato importante che le mamme non fossero solo capaci di affrontare quei primi giorni, ma che vi trovassero piacere, anche solo in un piccolo gesto. Poiché se è vero che la nascita di un bambino porta con sé un’immensa gioia, nuove ansie si affacciano all’orizzonte, offuscando a volte ciò che viene definito il momento più bello nella vita della coppia e in una famiglia». Per Angela Notari è proprio questo concetto di «sorellanza» a essere centrale. Sorellanza è assenza di giudizio, ascolto, carezza. È qualcuno che viene a casa tua e riparte portandosi via il sacco dei rifiuti. È qualcuno che ti porta una teglia di lasagne da mettere in forno quando vuoi; qualcuno che ti dice: chiamami quando vuoi farti una bella doccia che vengo a casa tua a stare con il bebè. «Da quando è uscito il libro sono stata travolta dal bisogno di condividere e dalla sorellanza che teniamo nei cassetti», racconta Angela. Perché il vecchio detto che «per far crescere un bambino ci vuole un villaggio» è sempre vero, stampato in cima al cielo. Se non si vive in un villaggio, quella comunità può essere costruita con chi ci sta intorno. E nei primi secondi, nei primi giorni della nuova vita, la capo villaggio, non c’è dubbio, è certamente quella levatrice che dolcemente ti dice: «Spingi, brava, ce la stai facendo: ce l’hai fatta». Dove e quando

La prossima presentazione di Quello che ci unisce sarà l’8 febbraio alla Filanda di Mendrisio alle 16.30.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Società e Territorio

Il talent show a scuola è educativo

Il caffè delle mamme Cantare, ballare, recitare ma anche palleggiare un pallone o risolvere il cubo di Rubik,

il talent show che va al di là della competizione stimola la creatività dei ragazzi, promuove la fiducia in se stessi e l’empatia verso i compagni

Simona Ravizza «Non perder tempo con l’invidia. A volte sei in testa. A volte resti indietro. La corsa è lunga e alla fine è solo con te stesso». Il monologo che Danny De Vito recita nei panni di Larry Mann nella suite di un hotel a Wichita in Kansas rivolgendosi al giovane Bob, al termine The Big Kahuna, stavolta è portato sul palcoscenico da Filippa, 11 anni e la voglia di farsi ascoltare. Durante questa esibizione, e poi via via con tutte le altre, al Caffè delle mamme ci convinciamo: il talent show a scuola è educativo. Bisogna ispirarsi per pescarci qualche utile insegnamento da utilizzare nella vita. Alla Deutsche Schule di Milano dove vanno le nostre figlie lo organizzano da qualche anno. È un’iniziativa che nasce su richiesta degli studenti all’interno delle attività ricreative. Ma per molte di noi è la prima volta e ci fa riflettere sull’importanza di aiutare i bambini a mettersi in gioco, avere fiducia in se stessi e coltivare il proprio talento qualunque esso sia. Bimbi sul palcoscenico. È una questione che va al di là della competizione. Il talento può avere mille sfaccettature. Così a chi partecipa viene data massima libertà. Canto, ballo, recitazione, suonare uno strumento, vale tanto quanto tirare calci a un pallone, risolvere il cubo di Rubik dietro la schiena, improvvisarsi giocolieri, inventarsi una storia fantasy, proietta-

re un video girato nella propria stanza. «Comunque vada, non congratularti troppo con te stesso, ma non rimproverarti neanche – continua il monologo di Danny De Vito e adesso anche di Filippa –. Le tue scelte sono scommesse. Come quelle di chiunque altro». Crederci. Esprimere la propria passione. Vincere la timidezza. «È importante che i bambini sappiano manifestare le proprie potenzialità che devono avere nutrimento per crescere e svilupparsi – spiega la psicoterapeuta Giovanna Gaetani, assidua frequentatrice del Caffè in quanto mamma di Greta –. Bisogna dare sfogo alla voce interiore presente dentro ognuno dei nostri figli e darle l’opportunità di emergere. Un po’ come in un gioco dove creiamo uno spazio di libertà e li sosteniamo nel dare il meglio». Al di là del talent show, imparare ciò vuol dire avere gli strumenti giusti per guardare alle sfide di domani. «Non preoccuparti del futuro – recita il monologo sulla vita –. Oppure preoccupati, ma sapendo che questo ti aiuta quanto masticare un chewing-gum per risolvere un’equazione algebrica. I veri problemi della vita saranno sicuramente cose che non ti erano mai passate per la mente. Di quelle che ti pigliano di sorpresa alle quattro di un pigro martedì pomeriggio. Fa’ una cosa, ogni giorno che sei spaventato. Canta!». Aiutare i bambini ad abbandonare un po’ la ragione per dar spazio alle

Nelle prove e nel «dietro le quinte» i ragazzi si sostengono a vicenda. (Marka)

emozioni, indispensabili anche per conoscere l’altro. Credere nell’impegno prima che nel risultato. Mischiare il proprio desiderio di vincere al piacere di fare il tifo per i compagni. «Dietro le quinte i bambini si sostengono a vicenda – sottolinea la docente di Storia Paola Grignani nella giuria dell’evento –. Quel che prevale è l’empatia». Del resto, ripetono Danny De Vito e Filippa: «Non esser crudele col cuore degli altri. Non tollerare la gente che è crudele col tuo. Ricorda i complimenti che ricevi,

scordati gli insulti. Se ci riesci veramente, dimmi come si fa». Nella sigla d’inizio di un talent show per bambini dal titolo «Lasciami una canzone», che per qualche anno ha accompagnato i sabato sera con mia figlia Clotilde, i giovanissimi partecipanti cantavano Noi ragazzi di oggi diLuis Miguel: «Noi, ragazzi di oggi, noi / Con tutto il mondo davanti a noi / Viviamo nel sogno di poi / Noi, siamo diversi ma tutti uguali / Abbiam bisogno di un paio d’ali / E stimoli eccezionali».

Spiega la prof. Grignani: «Non premiamo solo la capacità, ma anche l’impegno e la creatività. Quel che vogliamo insegnargli è crederci». Dare fiducia allo sforzo e non mortificare con giudizi castranti gli errori. Un monito che può essere utile per noi genitori anche nella vita quotidiana. «Può darsi che vostro figlio abbia dei limiti, ma certamente è capace di fare molte (o alcune) cose. Valorizzatele», aveva consigliato qualche tempo fa al Caffè delle mamme Daniele Grassucci, cofondatore di Skuola.net. «Promuovere fiducia», è la parola chiave per la psicoterapeuta Gaetani. L’avvocato Raffaella Restelli è la mamma di Filippa: «La sua partecipazione al talent show della scuola è stata un’occasione anche per approfondire ancora di più il nostro rapporto – racconta al Caffè delle mamme –. In un’età in cui i bimbi cercano conferme in se stessi l’ho aiutata a mettersi alla prova sostenendola e incoraggiandola mentre faceva le prove a casa. È stato un progetto coltivato insieme in cui lei ha potuto esprimersi liberamente ed essere ascoltata da una platea di genitori e compagni». Dopotutto, il nostro ruolo principale non è quello di aiutarli a prendere il volo? Canta Jovanotti in Libera, la canzone dedicata alla figlia Teresa: «Vorrei portarti in fondo alla notte / Mostrarti il sole che sorge / stringerti forte a me / E poi lasciarti andare». Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio

Parlare di affettività e sessualità

Famiglia L’Associazione Passi si rivolge a ragazzi, genitori e istituti scolastici con corsi e seminari che affrontano

il tema della sessualità mettendo in luce il bello dell’amore e l’importanza delle emozioni Alessandra Ostini Sutto Quando si parla di sessualità, la tendenza è quella di elencare i possibili pericoli, probabilmente per un istinto di protezione nei confronti dei nostri figli. Così non fa l’Associazione Passi, che si occupa di educazione alla sessualità e all’affettività, promuovendone il bello e il buono. «Si tratta di una tematica vasta, che coinvolge scienza ed emozioni, esperienze e vissuti, sogni ed aspirazioni, nonché valori e cultura», afferma Fabia Ferrari, presidente dell’Associazione, la quale si rivolge ad un vasto pubblico, principalmente attraverso corsi e seminari (vedi Box), ma pure consulenze e conferenze, interventi nelle scuole, incontri su misura per gruppi di genitori o di giovani e incontri formativi per educatori ed insegnanti. Passi è stata fondata nel 2010: «dopo qualche anno di attività, abbiamo sentito l’esigenza di avere una struttura, un cappello che riunisse le nostre proposte e permettesse ai nostri destinatari di riconoscerci», continua Fabia Ferrari, counsellor professionale ed insegnante di metodi naturali. Le proposte dell’Associazione sono effettivamente riconoscibili, nel senso che sono accomunate da un ben determinato approccio all’educazione all’affettività e alla sessualità. «Nel mondo in cui viviamo gli spunti sul sesso di certo non mancano, dalle notizie del telegiornale ai telefilm, dalle pubblicità ai video delle canzoni, per non parlare della pornografia cui i ragazzi accedono, a volte, neppur volontariamente, attraverso gli smartphone. Si tratta, spesso, di sesso esplicito, con racconti che lasciano poco spazio all’immaginazione», spiega Fabia Ferrari. Gli animatori dei corsi di Pas-

si invece si servono di simbologie per spiegare l’anatomia o per rappresentare concetti difficili da narrare, come l’amore; ciò consente di adattare il contenuto al livello dei destinatari. Per esempio, per spiegare il ciclo, l’utero viene rappresentato con un nido che ogni mese si prepara per accogliere un bebé. Se ciò non si verifica, la stoffa rossa posta all’interno risulta inutile e viene allontanata. «Questa metafora permette di cogliere il senso dell’avere il ciclo e ciò può persino portare a ridurne eventuali fastidi fisici», commenta Fabia Ferrari. Le animatrici, per le proprie allegorie, si servono di oggetti che si possono ritrovare in ogni casa, così che possano restare uno spunto per costruire nuovi significati o per offrire al genitore l’occasione di rilanciare il tema. La famiglia gioca infatti un ruolo importante, in una duplice ottica: rendere più consapevoli i giovani riguardo ai temi della sessualità e dell’affettività e fare in modo che i genitori stessi possano dotarsi degli strumenti per affrontare queste tematiche con i loro figli. «Per questo le nostre scelte metodologiche sono basate sul confronto e la discussione. Non vogliamo limitarci a trasmettere nozioni di anatomia o fisiologia, bensì affrontare emozioni e valori che inevitabilmente entrano in gioco e fanno parte della crescita personale di ognuno», spiega Fabia Ferrari. A volte i genitori sono in difficoltà a parlare di questi delicati temi con i propri figli. «Innanzitutto, bisogna essere consapevoli che prima si inizia, più è facile. Spesso i genitori credono che i loro figli siano troppo piccoli; un timore che nasce dal fatto che essi si riferiscono ad una sessualità adulta, mentre l’argomento può essere trattato in modo appropriato all’età e allo sviluppo del bambino, permettendogli

I corsi dell’Associazione Passi Corsi mamma-figlia: Per le ragazze sugli 11 anni e le loro mamme, l’Associazione propone «Il corpo racconta», due incontri durante i quali scoprire, attraverso un approccio ludico ed interattivo, i processi del ciclo femminile, acquisire una visione positiva della femminilità, della sessualità e della trasmissione della vita. Filodeva: Un seminario residenziale di tre giorni per ragazze fra i 15 e i 17 anni; 30 ore di workshop, incontri

formativi e momenti di condivisione su amore e sessualità, ciclo e fertilità, intimità e bellezza. Corso papà-figlio: «Noi uomini» è un’occasione per conoscersi più a fondo, affrontare temi importanti, confrontarsi e crescere insieme. Il corso (per ragazzi tra gli 11 e i 15 anni) conta tre incontri; quello intermedio è un momento di riflessione sul ruolo di padre e non prevede pertanto la presenza dei ragazzi.

Nella società i riferimenti alla sessualità non mancano, bisogna rendere i giovani consapevoli sui temi ad essa legati. (Marka)

di costruirsi una propria immagine», commenta Ferrari. Purtroppo oggi capita che bambini di quinta elementare abbiano già avuto accesso alla pornografia e si siano, di conseguenza, fatti un’idea del sesso distorta. «Non sarebbe bello poter anticipare e raccontare la storia dell’amore, della confidenza e della fiducia, dello star bene e di provare piacere stando vicini, vicinissimi, persino nudi (un agio difficilissimo da immaginare verso la fine delle elementari), prima che le paure e i disagi portino timore e confusione? Non sarebbe questo racconto già un tassello alla prevenzione degli abusi?» fa riflettere Fabia Ferrari. Nel decennio di attività di Passi di per sé bambini e ragazzi non sono cambiati, è piuttosto cambiato il contesto in cui sono immersi, e questo porta, come visto, maggiore confusione. Nei più grandicelli, alla normale curiosità e al desiderio di scoprire come funziona il proprio corpo e quello dell’altro sesso, si sono aggiunte tematiche come le tecnologie di fecondazione assistita e selezionata, l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Nei genitori, dal canto loro, Fabia Ferrari trova forte il desiderio di essere protagonisti dell’educazione alla sessualità e all’affettività: «Sono consapevoli che il mondo lancia tanti messaggi sessuali e che i loro

figli hanno la necessità di potersi confrontare su questa tematica non sempre alla portata della loro età». I seminari proposti dall’Associazione Passi sono sicuramente d’aiuto ai genitori in questo loro aggiornato ruolo. Il fatto di prendersi il tempo per partecipare ad un corso con il proprio figlio o la propria figlia è di per sé positivo. Nel dettaglio, ciò consente poi di condividere un’esperienza nella sua totalità: «dai normalissimi imbarazzi e timori iniziali, al gusto di imparare cose nuove e, soprattutto, alla meraviglia di osservare cosa il nostro corpo sa esprimere: accoglienza e cura (la gravidanza ne è un sommo esempio), emozioni e relazioni», racconta l’animatrice, «pian piano si crea una situazione di confort comune, uno star comodi nonostante gli argomenti “scottanti”, tanto che alla fine capita che nessuno voglia andar via. I genitori mi riferiscono poi di come si creino complicità e alleanza, fatte di parole (“nel rientrare in auto mi ha bombardato di commenti”), fatti (“siamo andate insieme a comprare un top”) o di non verbale (“ci guardiamo complici quando si presenta una pubblicità a sfondo sessuale”)». Come riportato in apertura, Passi propone pure corsi per gli istituti scolastici, su richiesta. «Al momento abbiamo esperienze in quinta elementare e

in quarta media. In quinta può sembrare presto, ma spesso a quest’età i bambini sanno più di quanto immaginiamo. La collaborazione fra scuola, animatori professionisti e genitori è fondamentale», spiega la presidente dell’Associazione che, per i progetti nelle scuole, prevede infatti un coinvolgimento dei genitori (con un incontro precedente al corso e uno prima della conclusione) e la collaborazione e la presenza continua dei docenti. «Le lezioni di educazione sessuale previste dal programma sono importanti, ma i docenti dovrebbero essere disponibili e pronti ad affrontare queste tematiche quando le situazioni o le domande si presentano: ad educazione fisica, durante la lettura di un testo ad italiano, durante una lite a ricreazione. Quello che facciamo è quindi cercare di rendere l’ambiente favorevole al discorso della sessualità e dell’affettività, in modo da permettere un lavoro di continuità anche quando noi saremo partite», continua la presidente dell’Associazione Passi, che, per il futuro, ha diversi progetti: «Le idee sono molte ma per realizzarle mancano animatrici e, soprattutto, animatori che abbiano voglia di mettersi a disposizione e formarsi per affrontare con bambini e ragazzi queste affascinanti tematiche», conclude Fabia Ferrari.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Sarah Kaminski-Maria Teresa Milano, Il libro della Shoah, Sonda. Da 11 anni Ricordare per combattere l’indifferenza. Ricordare perché non accada mai più. Ricordare, ossia raccontare la Shoah alle giovani generazioni, perché non se ne perda la memoria. Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, dovrebbe essere un’occasione preziosa da onorare, non una vetrina editoriale per promuovere l’ennesima novità libraria sul tema. Volutamente sceglierò dunque dei libri che non sono novità, a cominciare da questo, che si presenta come una raccolta interdisciplinare di materiali narrativi, storici, artistici, documentari. Le due curatrici, note specialiste di storia e cultura ebraica, offrono testi narrativi, cioè racconti, di autori del calibro di Uri Orlev o Lia Levi; testi saggistici, documenti storici, interviste a sopravvissuti, fotografie, illustrazioni, riproduzioni di celebri dipinti. Il volume si rivolge ai ragazzi, ma

anche agli adulti che con loro vogliono condividere un momento educativo. Importante è il sottotitolo: Ogni bambino ha un nome, perché ogni vita conta, ed è un dovere di tutti fare il possibile per restituire un’identità ad ogni bambino a cui è stato oscurato il futuro. Gli approfondimenti che il volume presenta hanno infatti una particolare attenzione al mondo dell’infanzia. Storie vere, di bambini e bambine veri, in quanto per non rendere congelata e istituzionale la memo-

ria occorre mantenerla legata alla vita, ricordando che si parla di persone, come tutti noi. Brunetto Salvarani, nel testo che consegna al volume, indica il rischio che la Giornata della Memoria possa diventare un’icona, e quindi perdere il raccordo con il nostro presente. Poiché, come sottolinea Anna Foa nel suo contributo, «la Shoah non è una questione dei soli ebrei, ma di tutti». Uri Orlev, Corri ragazzo corri, Salani. Da 11 anni Uri Orlev nacque a Varsavia nel 1931 e attraversò in pieno la tragedia della Shoah. Visse nel ghetto di Varsavia con il fratellino e la madre, fino al giorno in cui la donna venne uccisa dai nazisti e i due bambini vennero deportati a Bergen-Belsen. Fu in quegli anni bui che la sua vocazione di narratore iniziò a farsi strada, perché con le storie egli si poté dare forza, e soprattutto poté offrire un rifugio al fratellino. «Nei miei racconti dischiudevo per lui

le porte di mondi fantastici, di castelli abitati da persone gentili, di tavole imbandite. Lui sognava, e per qualche attimo avevo l’illusione di sottrarlo a quell’orrore». Queste parole le ho personalmente raccolte da Orlev, molti anni fa, quando – da Israele, dove si era stabilito dopo la liberazione – venne in Italia a incontrare i ragazzi, in occasione dell’uscita di un suo romanzo fantastico, La corona del drago, che veniva ad aggiungersi alle sue altre opere per i giovani lettori, tra cui il celebre

L’isola in via degli Uccelli (Salani, come la maggior parte delle sue traduzioni italiane). Il libro che segnalo qui, forse il suo più intenso, è però Corri ragazzo corri: la storia vera di un bambino di otto anni che fugge dal ghetto di Varsavia e che in fuga trascorre molto tempo, solo, senza niente, senza protezione. Senza rassegnarsi mai, neanche quando – poiché il chirurgo si rifiuterà di operarlo, riconoscendolo ebreo – perderà un braccio. Eppure lui corre e resiste, nascondendosi nella foresta, bussando alle porte di tanti villaggi, e trovando, come nelle fiabe, aiutanti e nemici; scampa a mille pericoli, a ritmo serrato, come nelle avventure. Solo che questa non è né una fiaba né una storia d’avventura, ma una storia vera. Una storia drammatica, ma dal lieto fine. La storia di Yoram Friedman, che molti anni dopo, in Israele, Uri Orlev ha ascoltato dalla sua viva voce. E ha raccontato in questo bel libro, perché se ne serbi memoria.


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Andare a Canossa Una recente ricerca di alcuni colleghi di un’università americana, una di quelle dove sembra si riescano a trovare i fondi per effettuare indagini che altri altrove manco si sognerebbero, certifica come la conoscenza della Storia da parte dell’Americano Medio sia piuttosto lacunosa. Bella scoperta, si direbbe da questa parte dell’Atlantico, dove invece fa parte della conoscenza storica comune ad esempio il fatto che gli Americani la storia non la conoscono. Ma non è tutto. Quel che è più interessante è che spesso ciò che conosciamo del passato sono modi di dire, frasi celebri, motti proverbiali, «titoli di testa» di un ipotetico quotidiano eterno e universale che però molti farebbero fatica ad inserire correttamente nella cronologia delle res gestae dell’umanità. Dal «Il dado è tratto», «Parigi val bene una messa», «Il mio regno per un cavallo», «Toh, ci sei anche tu, Bruto?!», «Passare il Rubicone», «Vittoria di Pirro», – al controverso non proprio «accipicchia!»

di Cambronne a Waterloo, si sgrana un lungo repertorio che intreccia le nostre biografie con quelle dei protagonisti della Storia. Chi di noi, ad esempio, non è mai «andato a Canossa»? Proviamo ad immaginarci quella notte del 28 gennaio 1077. Al castello della Contessa Matilda infuria un bufera come poche. Alle sue porte un gruppo di persone intirizzite dal freddo – cavalieri, soldati, monaci, servitori, cavalli, muli… Sono saliti fin quassù, nell’Appennino Reggiano, al termine di un viaggio che li ha visti girovagare per mezza Europa a partire dalla Germania, costretti a scansare le terre dei Baroni in rivolta contro l’Imperatore Enrico IV per valicare le Alpi al Passo del Moncenisio, uno dei percorsi al tempo più difficili. I Baroni gongolavano: quale occasione sarebbe mai capitata di nuovo di dare una lezione ad un Imperatore impegnato, come tutti i suoi predecessori e tutti i loro successori, a tenere sotto con-

trollo un’aristocrazia rapace, irrequieta e complottarda? Ora o mai più: Enrico era l’anatra zoppa della situazione dopo che Papa Gregorio VII lo aveva scomunicato, gesto per il quale chiunque nella Cristianità aveva virtualmente il diritto di trattarlo come un cane randagio. Materia del contendere, il diritto rivendicato dal Papa con la Bolla Dictatus Papae di avocare a sé e soltanto a sé la prerogativa di eleggere i vescovi che fino ad allora dovevano guadagnarsi l’investitura dell’Imperatore per esercitare con piena legittimità la loro missione pastorale. Va da sé che un Imperatore in possesso delle sue facoltà mentali mai e poi mai avrebbe rinunciato al controllo della potente gerarchia ecclesiastica che gli veniva dall’essere anch’egli coinvolto in prima linea nella legittimazione dei suoi poteri: insomma, all’inizio del secondo Millennio la lotta per le investiture stava ancora spaccando a metà un’Europa divisa fra Imperiali e Papali. A scatenare l’ira di

Gregorio – perfettamente consapevole che un Imperatore scomunicato poteva anche diventare una scheggia impazzita del sistema – era stata la mossa di un altrettanto inferocito Enrico che aveva incassato la lealtà dei Vescovi di sua nomina e dunque sotto il suo controllo. Questi si erano espressi contro il tentativo di Gregorio di revocare il diritto di nomina all’Imperatore. A motivare i vescovi era stata un’anomalia nell’elezione del Papa che aveva minato alle fondamenta il loro potere di controllo (e di cronico complotto contro il Papato, diciamolo pure, tanto per aggiornare). Gregorio VII era nato da un’umile famiglia ed era sostanzialmente estraneo alle lotte curiali. Era stato eletto papa a furor di popolo dai Romani quando non era nemmeno consacrato sacerdote. La sua nomina era stata pertanto solo successivamente ed a malincuore ratificata dal Conclave che non era stato in grado di pilotarla. Insomma, quando Enrico

IV chiese le dimissioni del Papa a causa dell’irregolarità della sua elezione in forza della Bolla In Nomine Domini del 1059, Gregorio VII rispose picche e calò forse suo malgrado l’asso della scomunica. Enrico aveva però fatto i conti senza l’oste, anzi L’Ostessa, nella persona di quella formidabile Matilde di Canossa che, con un’abilissima (e fortunata) carriera di matrimoni, vedovanze ed abili manipolazioni delle bizantinissime regole di successione alle fortune di mariti e parenti morti al momento giusto, aveva accumulato terre, onori – ed una fama da far tremare i polsi a chiunque. In conflitto con l’Imperatore come gli altri Baroni, la Contessa invitò un Gregorio isolato e spaurito a chiudersi nel di lei avito castello. E lì attendere, al calduccio, che un Imperatore scalzo e infreddolito decidesse che forse era meglio finisse tutto a tarallucci e vin brulè… Ma questa è storia che conoscono anche gli Americani.

ta alle sue fondamenta, sempre pronta ad accoglierlo in caso di pericolo. Se consideriamo la famiglia come una scacchiera, dove ogni pezzo ha la sua posizione, appare evidente come il venir meno di una pedina modifichi tutto il sistema. In particolare, l’uscita di scena del padre provoca nel figlio, che trova in lui il suo referente, un senso di spaesamento, di smarrimento. Quando il padre non viene considerato tale dalla madre, il bambino tende a prenderne il posto, a sostituirlo realmente o fantasticamente, nel letto matrimoniale. Ma la realizzazione di questo desiderio inconscio si rivela una trappola perché gli impedisce di affrontare il compito della sua età: rendersi indipendente, diventare grande, realizzare se stesso. Carlo è irrequieto, instabile e aggressivo perché non sa quale sia il suo posto in famiglia. Ed è su questo che vuole richiamare la sua attenzione: aggredendola chiede ascolto, comprensione, partecipazione. Nei momenti di intimità trovi le parole per dirgli che lo avete desiderato, che la sua nascita è stata una benedizione e che il papà lo ama, nonostante trovi difficile dimostrarlo. Non a caso i problemi

scompaiono in classe, dove il maestro incarna la figura paterna, quella che con la sua presenza autorevole indica al ragazzino che cosa deve fare, come dev’essere, a chi deve somigliare. A questo punto non dovrei andare oltre perché lei mi domanda d’individuare le cause del malessere di suo figlio, non di darle suggerimenti. Eppure non posso trattenermi dall’invitarla a recuperare, per quanto possibile, il ruolo paterno di suo marito. Anche quando si cessa di essere marito e moglie si resta infatti genitori per sempre. Per condividere infine una riflessione che le fa onore, mi permetto di suggerirle la lettura di un libro, appena ristampato, dove raccolgo e commento le testimonianze di figli di genitori separati, i meno ascoltati: Quando i genitori si dividono: le emozioni dei figli, Oscar Mondadori.

che, a quanto pare, incontrano il favore di una nuova generazione di virtuosi dell’ultima ora. E meritano l’ammirazione dovuta a chi s’impegna per una buona causa, al riparo dall’insidia del dubbio, e magari del ridicolo. Per età e per pigrizia mentale non appartengo alla categoria dei convertiti. E confesso di aver reagito con sorpresa e sconcerto leggendo il «Bilancio ecologico degli spaghetti alla bolognese», pubblicato, qualche settimana fa, dalla «Neue Zürcher Zeitung», sulla scorta di un accurato documento scientifico. Gli autori, una squadra di qualificati ricercatori, denunciavano le pesanti conseguenze, sul piano ambientale, di un piatto comodo e simpatico, entrato ormai nelle abitudini gastronomiche mondiali. Sotto accusa, innanzi tutto, la carne tritata, elemento centrale del condimento, ma anche il pomodoro, quello fresco, in particolare se consu-

mato fuori stagione, oppure conservato in lattine e vasetti, che ovviamente producono rifiuti da smaltire. Non indenne neppure l’olio d’oliva, con cui si frigge la salsa bolognese. E non si salva la pasta, che magari arriva da lontano, e guai se fosse all’uovo. A sua volta, pesa sul bilancio ecologico il parmigiano grattugiato, di cui si potrebbe fare a meno. Si salva soltanto la cipolla, che ha il merito di crescere anche nei nostri orti. Del resto, i ricercatori suggeriscono possibili alternative: il tofu invece della carne. Tutto ciò in nome di un dato di fatto incontrastabile: in Svizzera il 30% dell’inquinamento ambientale proviene dai consumi a tavola. Eccoci, allora, da ticinesi, abituati al rito del «Stasera ci facciamo due spaghetti», spesso condiviso fra amici, alle prese con un inatteso dilemma. Si tratta di scegliere fra un dovere virtuoso e la libertà di sottrarsi al ridicolo.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi «Non capisco mio figlio» Gentile Signora Vegetti Finzi, Sono mamma di due bambini: una femmina di 9 anni e un maschio di 10 anni e mezzo; e molto spesso non capisco il comportamento di mio figlio. Mi provoca spesso e rompe regolarmente degli oggetti per farmi arrabbiare. Contrariamente a quello che dice il suo maestro di scuola: «lui è brillante e molto sveglio», io ho l’impressione a volte che si comporti come un bambino piccolo. Cerca in tutti modi la mia attenzione. Ogni tanto mi dice anche delle parole che mi feriscono e quando gli dico che sono offesa e triste, mi risponde con un mezzo sorriso che scherzava. So anche che è un bambino molto sensibile ma che non esprime niente verbalmente come suo papà e la sua famiglia. È anche tanto geloso della sorella soprattutto se lei mi dimostra affetto; quello che lui non si permette e mi respinge se lo voglio abbracciare o baciare, a parte la sera quando siamo solo noi due nella sua camera prima di addormentarsi. Mi chiedo da tempo se il fatto di avere avuto un cancro con delle cure molto pesanti quando lui aveva appena più di 2 anni e sua sorella 8 mesi, lo abbia

inconsciamente scombussolato. Non so se è utile aggiungere che il loro papà è stato poco presente per loro fino all’anno scorso quando ho chiesto la separazione, stanca di sentirmi sola e abbandonata, avendo dedicato i suoi interessi e il suo tempo al lavoro per, secondo me, cercare di sfuggire i problemi della vita di famiglia. Vedo bene che mio figlio non vive serenamente; è spesso nervoso, impaziente, vuole sempre comandare in casa e l’arrivo dell’adolescenza mi spaventa. È da diversi anni che cerco di capire l’origine del suo disagio. Se mi aiutasse a capirlo o mi potesse dire cosa lo potrebbe aiutare, le sarei molto grata. / Valeria Cara Valeria, suo figlio, che chiameremo Carlo, ha già vissuto, nei suoi primi dieci anni, non pochi traumi: la nascita della sorellina, la malattia della mamma, la separazione familiare. Consideri che ai bambini, anche se piccolissimi, non sfugge niente. Hanno antenne finissime per cogliere tutte le vibrazioni emotive ed esserne coinvolti. Per il primogenito, la nascita di un

fratellino o di una sorellina significa perdere improvvisamente il privilegio dell’unicità, sentirsi detronizzato dall’ultimo venuto. Una frustrazione che suscita sentimenti d’invidia e ostilità, anche se l’educazione impone di far buon viso a cattivo gioco. Per giunta, all’età di due anni ha dovuto affrontare un’altra difficile prova: la grave malattia della mamma. Per Carlo, ancora psicologicamente all’unisono con lei, ha voluto dire provare la più grave angoscia: il rischio di essere abbandonato, di restare solo. Tutto questo, mi sembra di capire, senza che il padre fosse in grado di confortarlo stringendolo in un abbraccio forte e rassicurante. Il timore dell’abbandono si è poi realizzato quando vi siete separati e suo marito se n’è andato di casa definitivamente. In questi frangenti i figli temono che, così come hanno perso un genitore, possono perdere anche l’altro. Una convinzione infantile che riattiva tutte le angosce precedenti e che accade, per Carlo, proprio nel momento della preadolescenza, quando dovrebbe accingersi a spiccare emotivamente il volo da una casa che resta solidamente ancora-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Anche le nuove virtù hanno un prezzo C’era una volta la Quaresima che, in nome della tradizione religiosa, imponeva rinunce a cui spettava un significato d’ordine morale: un momento di riscatto dopo gli eccessi goderecci del Carnevale. Quindi, niente divertimenti, considerati peccaminosi, tipo balli nei night club, scorpacciate e sbronze, insomma un invito alla moderazione a tavola, e persino un digiuno purificatore, e meno svaghi. Tanto che, il venerdì Santo alcuni cinema rimanevano chiusi. Era il prezzo da pagare per mettersi a posto la coscienza schierandosi fra i virtuosi. Si sta parlando di un’epoca non lontanissima, quando, per dirla con un luogo comune, la chiesa era al centro del villaggio, in grado di esercitare un influsso determinante sulle abitudini popolari. Da questo fardello di regole e di sacrifici ci si è sganciati, in una società laica, tollerante, che consente di scegliere liberamente ideologie

e fedi, senza subirne condizionamenti. A ben guardare, però, il bisogno e il piacere di professare un credo, per sentirsi in sintonia con il proprio tempo, sono tutt’altro che scomparsi. Certo è cambiato l’obiettivo delle nuove fedi: dall’ambito della salvezza spirituale si è spostato su quello prosaico della salute fisica aprendo l’era del salutismo. Secondo il dizionario Treccani, il neologismo definisce «l’atteggiamento di particolare, e talora eccessiva attenzione alla cura della salute». Alludendo al possibile rischio del troppo. Sta di fatto che il culto del corpo va di moda ed esige sacrifici, per altro accettati. Anche in nome di una scelta virtuosa dagli effetti allargati. Con esercizi in palestra, jogging all’aperto e diete rigorose il singolo cittadino si difende da obesità e cardiopatie, insomma dai mali del secolo. E diventa un esempio sul piano collettivo.

Negli ultimi decenni, la disponibilità al sacrificio individuale rivolto al benessere comune ha trovato un obiettivo dagli effetti che più estesi non si può: posta in gioco la salvezza del pianeta. Un concetto, a prima vista astruso, reso invece accessibile da una ragazzina che ha saputo mobilitare le folle giovanili, e non solo quelle. Sfruttando il vuoto ideologico del momento e un diffuso spirito anticasta, Greta offre l’alternativa dell’ambientalismo come àncora di salvezza da incombenti catastrofi globali. Proponendo rimedi ostici, che rimettono in discussione abitudini quotidiane che sembravano acquisite per sempre. Niente viaggi in aereo, niente auto, niente svaghi che implicano sprechi e spostamenti e, non da ultimo, una conversione alimentare secondo i canoni vegetariani e vegani. Le sorti del pianeta si decidono soprattutto a tavola. Da qui, rinunce


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Ambiente e Benessere La Borgogna dei vini Quando è la terra a decidere se un prodotto sarà eccellente o deludente

Che cos’è un’insalata? Più che una ricetta, è un «concetto»: essendo un termine generico, può di fatto declinarsi in molte varianti pagina 13

Nel cuore dell’Europa Hotelplan organizza per i lettori di «Azione» una crociera sul Danubio pagina 14

Re gatto e regina trota Quali animali dell’anno 2020 sono stati scelti il Felis silvestris e la trota

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pagina 15 Scarpata ricoperta con manto protettivo a Bogno. (© IST – SUPSI )

Lana di legno contro le erosioni

Progetti in corso Secondo il rapporto conclusivo della SUPSI la metodologia impiegata si dimostra sostenibile,

convincente e avanzata anche a livello tecnico Marco Martucci Nel nostro territorio, e in una parte non trascurabile del resto della Svizzera, la pianura è merce rara. Una buona fetta del nostro cantone si situa sopra i mille metri di quota, è solcata da valli strette e profonde, percorsa da fiumi e torrenti non di rado impetuosi. Siamo, si sa, un paese di montagna e perciò dai ripidi versanti e confrontato con valanghe, piene, smottamenti e frane. L’erosione della roccia e del suolo, il sottile e prezioso strato che la ricopre, è un fenomeno naturale che inevitabilmente spianerà, seppur in tempi ben superiori alla durata d’una civiltà, ogni monte e ogni collina. Ce ne rendiamo conto dal colore marrone dei nostri fiumi, dopo giorni d’intense precipitazioni, dai sassi e dalla terra portati a valle. Il suolo per la cui formazione sono stati necessari secoli se non millenni, in poco tempo può andare perduto. Non che in pianura manchi l’erosione; nelle grandi pianure il vento può portar via il fertile suolo in poco tempo. Ma in montagna, al vento, all’acqua, al gelo s’aggiunge la forza di gravità che fa slittare il suolo verso valle. Fenomeno naturalissimo ma che può avere per noi gravi conseguenze: perdita di suolo pregiato, danni alle costruzioni, ai centri abitati, alle vie di comunicazione, minaccia alla nostra incolumità. Alle

cause naturali di erosione possono poi aggiungersi le attività umane, come i disboscamenti, in tempi neppure troppo lontani una pratica parecchio diffusa. Anche gli attuali mutamenti climatici possono favorire l’erosione, con l’aumento di fenomeni estremi, lunghi periodi di siccità e precipitazioni intense e concentrate. Per combattere l’erosione abbiamo inventato i terrazzamenti, i muri, stupendi e testimonianza storica quelli a secco. Dove non si coltivava, abbiamo imitato la natura, con alberi o prati. La chioma degli alberi riduce l’impatto della pioggia sul suolo, le radici trattengono terra e sassi e assorbono acqua. È quasi incredibile poi quanto un semplice prato possa trattenere il suolo e contrastare l’erosione in modo sorprendentemente efficace. I prati migliori sono quelli cosiddetti magri, con decine di specie diverse, variopinti e ricchi di biodiversità. Per stabilizzare i pendii l’impiego di vegetazione si è rivelato un metodo efficace, più lento quello con gli alberi, più rapido con l’utilizzo di piante erbacee. Le applicazioni sono tante e riguardano pendii sia naturali sia originati dalle attività edili, dalle scarpate stradali e ferroviarie, ai ripidi versanti sopra costruzioni e vie di comunicazione, ai parchi e giardini, ai depositi di inerti e materiale di scavo. Prima della semina occorre preparare il terreno e

impedirne l’erosione fino allo sviluppo della vegetazione, coprendolo con un adeguato strato protettivo. Negli Stati Uniti è molto diffuso l’utilizzo della lana di legno. In Europa e in Svizzera, questo materiale rinnovabile e biodegradabile era ben noto in passato ma ormai da parecchi decenni gli si sono preferiti prodotti sintetici o a base di fibre di juta o di cocco provenienti da molto lontano. L’unica fabbrica svizzera di lana di legno è una dinamica azienda sangallese di lunga tradizione che utilizza legno svizzero di faggio, pino, abete e frassino certificato FSC. Fra i suoi prodotti figurano diversi tipi di tessuto di lana di legno studiati appositamente per il controllo dell’erosione. Questi particolari teli sono stati, insieme con le sementi di piante locali forniti da un’azienda argoviese, oggetto di un’importante ricerca pluriennale, iniziata nel 2015 e conclusa nel maggio del 2019, sostenuta da Innosuisse, l’Agenzia svizzera per la promozione dell’innovazione. Partner scientifici del progetto «Controllo sostenibile dell’erosione tramite l’uso di lana di legno svizzera» sono state due scuole universitarie professionali, la grigionese Fachhochschule Graubünden FHGR con il suo Institut für Bauen im alpinen Raum e la nostra SUPSI con l’Istituto scienze della Terra IST.

Dei quattordici siti scelti per la sperimentazione, quattro si trovano in Ticino e in questi i ricercatori di IST hanno testato i tessuti di lana di legno in combinazione con il rinverdimento attraverso semina di piante erbacee autoctone scelte appositamente. I luoghi delle prove sul campo, con situazioni a volte estreme, come forte ripidità e poca stabilità sono stati Soragno, Bogno in Valcolla, entrambi nel Comune di Lugano, un pendio sul Monte Bar e la zona detta Gramiröi a Pollegio. Sopra superfici di diverse estensioni, dopo adeguata preparazione del terreno, sono state posate differenti qualità di telo di lana di legno, fissato al suolo mediante picchetti in legno. In seguito si è provveduto a seminare un’adatta miscela di semi di piante locali e si è seguito lo sviluppo durante il tempo della ricerca, lasciando anche una parte di terreno, come controllo, senza telo protettivo. I ricercatori di IST hanno monitorato tutto l’andamento mediante osservazioni a vista, con droni e con una tecnica molto particolare, il laser scanning terrestre. Questo metodo fornisce un modello tridimensionale e consente un controllo dell’erosione mediante misure di volumi e superfici e può essere utilizzato anche per seguire lo sviluppo della nuova vegetazione. Ebbene, la lana di legno dei tessuti, oltre a trattenere il suolo durante lo

sviluppo della vegetazione, assicura il passaggio di aria e acqua, trattiene l’umidità e lentamente si decompone, rientrando nel ciclo della natura. I risultati della ricerca parlano a favore dell’impiego della lana di legno e delle sementi autoctone. Il rapporto conclusivo della SUPSI del settembre di quest’anno s’intitola «Lana di legno svizzera, il futuro della protezione contro l’erosione». Leggiamo nel rapporto che la ricerca «ha consentito di valutare positivamente la protezione dall’erosione mediante tessuti di lana di legno ricavati da materie prime rinnovabili». E ancora: «la metodologia impiegata si dimostra sostenibile, convincente e avanzata anche a livello tecnico. Fra i vantaggi: semplicità di posa, biodegradabilità, assenza di prodotti nocivi, rinnovabilità del prodotto e bilancio ecologico positivo grazie alla brevità del trasporto». Stiamo forse assistendo alla rinascita di un prodotto per troppo tempo dimenticato, il cui utilizzo non solo va d’accordo con le moderne tendenze di gestione del territorio, ma si rivela, attraverso la scelta di sementi locali, un contributo alla nostra biodiversità. E, non da ultimo, la lana di legno può dare un impulso notevole alla nostra economia forestale, attraverso un sostenibile utilizzo dell’abbondante materia prima legno.


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Ambiente e Benessere

Gioielli enologici e piccole delusioni

Scelto per voi

Bacco giramondo L’eterogenea offerta di vini prodotti in Borgogna può riservare

belle ma anche spiacevoli sorprese – 1. parte Davide Comoli Celebre per i suoi vini, la Borgogna non smentisce di certo la sua reputazione. Di fatto i vini rossi di Chambertin e i bianchi di Montrachet sono gioielli enologici unici al mondo. Ma attenzione, perché alle volte i vini borgognesi possono deludere. In effetti la produzione presenta una certa eterogeneità che andiamo a spiegare in diversi modi: da una parte il frazionamento dei vigneti in piccole parcelle, (appezzamenti di famiglia); dall’altra parte un clima che cambia spesso e vitigni non facili da coltivare. Gli amanti del vino che desiderano captare i sottili aromi e profumi della Borgogna in bottiglia, devono dunque selezionare presso produttori o negozianti tra gli innumerevoli prodotti, cercando di sbrogliare la matassa delle tante «appellations». Il fossato tra successo e fiasco, tra buona e mediocre vinificazione, tra pic-

coli vini e grandi crus, qui è molto più profondo che in tutte le altre regioni viticole francesi, ma le nuove generazioni di vignerons, che di certo non dormono sugli allori, stanno riportando i vini di Borgogna al posto che meritano nell’élite mondiale. La Borgogna è una vasta regione situata al centro est della Francia e si estende da nord a sud per più di trecento chilometri, mantenendo la stessa portata della storica provincia medievale che era il Ducato di Borgogna. Quella vinicola si divide a sua volta in sei regioni (di cui scriveremo in seguito): lo Chablis e Yonne, la grande Côte d’Or con le Hautes Côtes, la Côte Chalonnaise, il Mâconnais e il Beaujolais. La composizione del suolo gioca un ruolo determinante. I più prestigiosi sono esclusivamente di origine calcarea; la regione dello Chablis grazie al suolo calcareo e gessoso è un luogo molto favorevole allo Chardonnay.

Tempo di raccolta nel vigneto Chablis Premier Cru di Fourchaume. (Cocktail Steward)

I suoli argillo-calcarei o di marne calcaree della Côte d’Or si sono formati con la progressiva erosione degli altopiani calcarei del Jura. Da qui il motivo per cui troviamo in questa regione una superficie ridotta di terreni diversi, le cui caratteristiche si riflettono nella personalità di ogni vino prodotto. Sulla Côte Chalonnaise e nel Mâconnais, gli affioramenti calcarei sono più rari e si mischiano a terreni argillosi e sabbiosi. La maggior parte dei grandi crus della Côte d’Or sono orientati verso est e sono leggermente in evidenza, mentre le Hautes Côtes raramente arrivano ai 400 m s/m e vi si producono dei vini relativamente più leggeri. Il clima è in prevalenza continentale, gli inverni sono rigidi e freddi e le gelate, soprattutto a Chablis, sono frequenti anche in primavera. Le temperature permettono in genere alla vigna di germogliare agli inizi di aprile. Le precipitazioni sono minime tra marzo e aprile, ma intense tra maggio e giugno e raggiungono circa gli 800 mm annuali. Questo può compromettere la fioritura e quindi la vendemmia, da questo fattore si deciderà il volume della raccolta dell’uva. La Borgogna è per eccellenza la regione dei «mono vitigni». La definizione stessa del vino di Borgogna è proprio la ricerca ottimale della complessità del vino, grazie all’esaltazione delle ricchezze proprie di un solo vitigno. Di conseguenza la parola terroir deve esprimersi in modo perfetto nei vini prodotti. Il Pinot Nero è una «scommessa»: è un vitigno ingrato, ci vuole delicatezza nell’estrarre i suoi succhi, i suoi aromi sono sottili da capire e la sua vinificazione non è sempre facile. L’origine di questo vitigno è ancora parzialmente sconosciuta; in Borgogna lo troviamo già nel IV sec. Le numerose varietà di Pinot Nero testimoniano lo sforzo fatto nei secoli per svilupparne la specie. A questo vitigno (chiama-

to: Petit Verdot nello Yonne, Auvernat Noir ad Orlèans, Morillon Noir nella Loir-et-Cher e Savagnin Noir nel Jura) si devono le grandi qualità dei vini di Borgogna. Nelle annate favorevoli si producono vini che nella loro giovinezza hanno colori rosso/violaceo, con aromi di piccole bacche rosse e tannini dolci. Esso occupa il 35 per cento della superficie vitata e possiede un’ottima predisposizione all’invecchiamento, che dopo una lunga evoluzione regala splendidi vini, intessuti da grande finezza e dalla lunga persistenza gustoolfattiva. L’alter ego del Pinot Noir è lo Chardonnay (45 per cento della superficie vitata). Nulla prova che questo vitigno a bacca bianca sia originario della Borgogna, anche se un villaggio del Mâconnais porta questo nome. Si suppone che lo Chardonnay sia stato introdotto in Borgogna nel XVI sec.: è un vitigno facile da coltivare, grazie alla sua maggior resistenza alle malattie virali e crittogamiche, così come alle gelate tardive. Sopporta rendimenti importanti senza soffrire troppo nella qualità delle uve. Molto importante per questo vitigno, però, è determinare la data della vendemmia. Infatti, un eccesso di maturazione gli fa perdere parte della sua acidità. Lo Chardonnay è diffuso soprattutto nello Chablis, nello Yonne e nella parte meridionale della Côte d’Or, dove nei comuni di Montrachet e Meursault, grazie ai loro suoli marnosi, dona dei vini bianchi che sono un assoluto punto di riferimento per tutti gli Chardonnay del mondo. Altri vitigni di cui parleremo sono tra i bianchi: l’Aligoté che rappresenta circa il 5 per cento della produzione; e tra i rossi, il Gamay (per i cugini d’oltralpe Gamay Noir à jus blanc per distinguerlo dal Gamay teinturier, non ammesso nell’A.O.C. Beaujolais) che copre circa l’11 per cento del vigneto borgognone.

Noûs (Syrah) I.G.T.

A 700 m di altitudine, dominante il mare, sorge Erice (Trapani), dalle cui vigne provengono le uve per produrre il Noûs: si trovano sul territorio del comune sopracitato in località di Regalbesi. Il sole in questa zona lancia i suoi strali ardenti permettendo ai grappoli di maturare in modo ottimale e uniforme, mentre la fresca brezza che sale dal basso contribuisce ad apportare freschezza e sapidità che ritroveremo nel vino. Questo «vino di luce» è prodotto con il 90 per cento di Syrah, vitigno internazionale amante delle zone calde, e con il 10 per cento di Nero d’Avola, vitigno autoctono, capace di gareggiare con i vitigni a bacca rossa di fama mondiale. Tali uve in molti I.G.T. hanno fornito vini di gran classe. Le bucce del Noûs rimangono in contatto con il mosto per 30 giorni, dopodiché viene travasato in vasche di cemento per circa 13/15 mesi. Questo grande vino ha un colore rosso profondo, al naso si percepiscono note profonde di balsami, pepe nero, polpa di frutta, fresco e morbido, con buone sensazioni pseudo caloriche e media tannicità. Consigliato con piatti di selvaggina, capretto e carni rosse. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 18.80. Annuncio pubblicitario

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Il concetto di «insalata»

Ambiente e Benessere

In tanti anni di articoli vi ho parlato spesso di insalate: ma in tutti i casi facendo riferimento a versioni specifiche. Oggi vorrei invece definire il concetto di insalata: cosa tutt’altro che facile. Insalata è un termine generico e di ampia accezione che indica sia varie specie di vegetali a foglie mangerecce – selvatici o coltivati, da consumare crudi o cotti – sia alcune preparazioni ottenute da ciascuno di essi, dalla loro mescolanza o dal loro abbinamento con altri ingredienti. Le specie vegetali comunemente dette «insalata» comprendono le numerose varietà di lattughe (liscia, romana, iceberg eccetera) e cicorie (indivia, scarola, radicchi, tarassaco e via elencando), la rucola e il crescione, il songino o valerianella o formentino, e altre ancora.

Le verdure non sono gli unici ingredienti di un’insalata: si può spaziare anche nel mondo animale Per gustarle crude, si condiscono generalmente con olio, sale, aceto o limone. L’insalata «mista» è quella che comprende anche altre verdure crude, come pomodori, cetrioli, peperoni, ravanelli e la lista sarebbe lunga da riportare per intero: qui la fantasia può sbizzarrirsi davvero negli accostamenti. Si può comporre un’insalata anche con verdure cotte, magari accostate in modo da far risaltare i diversi colori (è conveniente, in questo caso, cuocerle al vapore. Anzi dirò di più: non ha mai senso per me cuocere in acqua una verdura, molte volte meglio cuocerla al vapore o in microonde). Ma le verdure non sono gli unici ingredienti di un’insalata: si può spaziare anche nel mondo animale – aggiungendo per esempio pollo o filetto, crostacei come gamberetti e aragosta,

tonno sott’olio o altro pesce, dadini o scaglie di formaggio, uova sode – o in quello dei legumi e dei cereali, e addirittura in quello della frutta, mescolando agli ingredienti salati arancia o avocado, pompelmo, mela, melograno e anche uva. Ogni insalata vuole naturalmente il suo condimento: oltre che la vinaigrette e la citronnette (non esistono termini equivalenti in italiano), super canoniche, si possono usare erbe aromatiche, maionese, yogurt, panna e senape, lardo e aceto (come si usa nella gastronomia francese con le insalate di sapore amaro e quelle selvatiche come il tarassaco) e anche ingredienti «forti» come capperi, olive, cipollotti, erba cipollina, acciughe o frutta secca per ravvivarne il gusto. Anche un semplice piatto di insalata, se ben preparato e guarnito, prestando attenzione alla combinazione di colori e sapori, può essere di grande effetto. Per la buona riuscita di un’insalata è necessario che la verdura sia asciugata molto bene e, se possibile, che sia preparata all’ultimo momento. Nello svolgimento di un pranzo, le insalate possono costituire portate diverse: le più semplici saranno contorni o entrée; quelle con cereali avranno il ruolo di primo piatto, quelle di mare (aragosta, per esempio) o di carne (come la capricciosa) possono far parte degli antipasti; insalate particolarmente ricche di ingredienti possono costituire dei piatti unici. In genere per condire un’insalata o quant’altro si mette prima il sale poi l’aceto (o il succo di limone) poi l’olio e si mescola, aggiungendo altro a piacere. In questa maniera però i condimenti, soprattutto olio e aceto, non si riescono a emulsionare del tutto. Meglio preparare il condimento a parte, emulsionandolo bene, e poi condire con questa emulsione l’insalata che avete preparato. Mi raccomando: condite appena prima di mangiarla, perché l’aceto e il limone «cuociono» le verdure, danneggiandole.

CSF (come si fa)

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Allan Bay

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Gastronomia Antipasto, contorno o piatto unico? Verde o ricca?

Vediamo come si fanno alcune insalate. Insalata waldorf (ingredienti per 6 porzioni). Sbucciate 3 mele, privatele del torsolo e tagliatele a dadini, spruzzandoli con succo di limone. Pelate 1 sedano rapa, tagliatelo a fettine, sbollentate per 1’ e scolate. Mescolate sedano e mele in un’insalatiera. Scottate 150 g di gherigli di noce in acqua bollente per qualche istante, scolateli,

spellateli e spezzettateli. Uniteli alle mele e al sedano e condite con 150 g di maionese diluita con 4 cucchiai di panna e 2 cucchiai di succo di limone. Insalata greca (per 6). Affettate 6 piccoli cetrioli. Tagliate a dadini 250 g di formaggio feta. Tagliate 6 pomodori a spicchi. Tagliate a listerelle 1 peperone verde. Sbucciate 1 cipolla rossa e affettatela. Unite il tutto in un’insalatiera e aggiungete 24 olive nere denocciolate. Emulsionate 6 cucchiai di olio, 1 cucchiaio di aceto, un pizzico di origano o di maggiorana, sale e pepe e condite l’insalata con la salsina. Insalata di pecorino e mele (per 6). Lavate e sbucciate 3 mele, tagliatele in quarti, eliminate il torsolo e affettatele. Mettete le fettine in una ciotola e spruzzatele con 2 cucchiai di succo di limone. Mondate e lavate 200 g di

formentino e asciugatela. Spezzettate grossolanamente 60 g di gherigli di noce. Sgocciolate le fettine di mele e mettetele nell’insalatiera con l’insalata, 150 g di pecorino morbido tagliato a julienne e i gherigli. Fate un’emulsione con olio, succo di limone, sale e pepe. Condite con l’emulsione l’insalata, mescolate e servite. Insalata svedese (per 6). Pulite 2 porri e 4 carote e tagliate tutto a julienne. Tagliate un cavolo cappuccio verde a listerelle. Riunite le verdure in un’insalatiera. Fate bollire 1,5 dl di aceto di mele con 2 cucchiai di vino bianco e 1 cucchiaio di zucchero per 1’: versatelo sulle verdure, regolate di sale e pepe, mescolate e lasciate marinare per qualche ora in frigorifero. Condite con qualche cucchiaiata di olio di semi di mais e servite.

Ballando coi gusti E ora completiamo il nostro discorso sulle insalate con due proposte interessanti.

Insalata di finocchi con carciofi

Insalata di cetrioli con pomodori

Ingredienti per 4 persone: 2 finocchi · 4 carciofi · 1 mela Granny Smith · 50 g di grana a scaglie · limone · senape in cremavolio di oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 4 cetrioli grossi · 2 pomodori · 20 noci o 40 gherigli di

Affettate i finocchi a spicchi sottilissimi. Mondate i carciofi, eliminando le foglie esterne, le spine e il fieno interno e affettateli. Tagliate a cubetti la mela, quindi tuffate i finissimi finocchi e i cubetti di mela in acqua acidulata con succo di limone. Emulsionate il succo di 1 limone con senape a piacere, sale, pepe e olio. Riunite gli ingredienti in un’insalatiera, irrorate con la salsa e mescolate. Aggiungete il grana a scaglie solo al momento di servire.

Spuntate i cetrioli, sbucciateli, affettateli, sciacquateli e asciugateli (oramai non serve più spurgarli). Tagliate a fette o a spicchi i pomodori. Immergete i gherigli delle noci in acqua tiepida, eliminate la pellicina scura di rivestimento e tritateli grossolanamente. Mettete tutti gli ingredienti in un’insalatiera. Sodate le uova per 10 minuti in acqua bollente, scolatele, sgusciatele, tritate gli albumi e passate i tuorli al setaccio. Amalgamate ai tuorli il succo di limone e insaporiteli con sale, pepe e olio. Condite le verdure con questa salsa, distribuite sopra gli albumi tritati e servite.

noci · 3 uova · prezzemolo · succo di limone · olio di oliva.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Ambiente e Benessere

Puntare davvero tutto sull’elettrico?

Motori In corso lo studio delle ricadute a 360° di questa ipotetica trasformazione epocale del mondo a quattro ruote

Mario Alberto Cucchi Elettrico, elettrico e ancora elettrico. Sembra proprio che il futuro delle auto sia solo questo, nonostante ad oggi i numeri di vendite siano ancora davvero piccoli. Non a tutti piace questo tipo di motorizzazione e inoltre lo sappiamo, un eventuale rinnovamento del parco auto circolante richiede molti anni. Ciononostante si stanno valutando le ricadute a 360° di questa ipotetica trasformazione epocale del mondo a quattro ruote. Secondo uno studio commissionato dal governo tedesco e riportato dal quotidiano «Handelsblatt», il passaggio dai motori a combustione interna alla mobilità elettrica potrebbe costare molti posti di lavoro. Secondo lo studio, entro il 2030, se ne perderebbero fino a 410mila nella sola Germania che è patria di case automobilistiche come Volkswagen, Bmw, Audi, Mercedes e Porsche. La ragione va ricercata anche nel fatto che un motore a combustione interna, benzina o diesel, è costituito da almeno 1200 parti, mentre un propulsore elettrico è molto più semplice: ne conta circa 200. Ciò significa che la mobilità elettrica comporterà meno attività di produzione di componenti. La ricaduta non sarà però solo a livello produttivo. Basti pensare alle officine che si occupano della manutenzione. I propulsori elettrici sono meno soggetti a usura e non necessitano di tanti tagliandi quanto quelli termici. Non solo: anche l’impianto frenante lavora spesso in modo differente con la frenata rigenerativa e quindi l’usura è inferiore. Insomma, l’effetto domino sarà globale.

Nella sua «semplicità», così si presenta un motore elettrico.

Il rapporto fa eco agli avvertimenti di alcuni industriali tedeschi e alcune aziende come Continental e Schaeffler che hanno già annunciato cambiamenti strutturali alle basi di impianti e risorse nell’ambito della prevista transizione verso i veicoli elettrici. Il giornale ha citato un rapporto della National Platform for the Future of Mobility (NPM), un consiglio consultivo del governo che ha affermato che nelle sole attività di produzione dei gruppi propulsore potrebbero venire tagliati circa 88mila posti di lavoro.

PassauBudapest e ritorno

I ricercatori della NPM ritengono che entro il 2030 dieci milioni di veicoli elettrici saranno sulle strade tedesche e la flotta aumenterà a 16,7 milioni entro il 2035. Ci sono però delle voci fuori dal coro. L’associazione dell’industria automobilistica tedesca VDA ha criticato i dati contenuti nel rapporto giudicandoli poco realistici, anche se secondo quanto riferito concorda sul fatto che una riduzione di circa 80mila posti di lavoro nella produzione di motori e trasmissioni possa essere reale. Intanto in Cina, il mercato oggi più

importante per le quattro ruote, il governo ha confermato che non taglierà i sussidi per le auto elettriche nel 2020. Secondo quanto pubblicato dal «Beijing News», un rappresentante del ministro cinese dell’industria e della tecnologia ha dichiarato che «la politica di sussidi ai NEV – new energy vehicles – quest’anno rimarrà relativamente stabile e non ci saranno tagli significativi». A luglio dello scorso anno, il governo di Pechino aveva lentamente iniziato un programma di riduzione degli incentivi per l’acquisto di NEV – lanciati

1 carta Migros del valore M In omaggio a camera, ni entro il 14 febbraio 2020 io di CHF 50.– con prenotaz

con un piano quinquennale nel 2016 – prevedendo di eliminarli gradualmente dopo il 2020. A seguito dei tagli però le vendite di veicoli a energie alternative, tra i quali quelli elettrici e ibridi, sono immediatamente diminuite per la prima volta in due anni proprio nel luglio scorso, e da allora hanno registrato continui cali. Sembra quasi che in Cina si comprino auto ad energia alternativa solo per risparmiare grazie agli incentivi. Così non pare essere in Europa, dove gli incentivi sono davvero pochi.

Tagliando di prenotazione Desidero iscrivermi al viaggio dal 10 al 17 luglio 2020 Nome

Viaggio Per i lettori di Azione,

Cognome

Hotelplan organizza dal 10 al 17 luglio 2020 una crociera sul Danubio

Via NAP Località

Una crociera nel cuore dell’Europa navigando sul Danubio. È quanto Hotelplan in collaborazione con «Azione» propone per l’estate

dell’anno in corso (dal 10 al 17 luglio 2020). Un’occasione incredibile per scoprire il Danubio e le sue più belle città:

Vienna, e il suo ambiente imperiale, Budapest, capitale dell’Ungheria, Bratislava e il suo castello posto a dominio sul grande fiume, Dürnstein e il suo in-

Il programma di viaggio 1. Ticino – Sankt Margrethen – Passau. Trasferimento in torpedone verso Sankt Margrethen, sosta e cambio torpedone per proseguire verso Passau. Imbarco sulla nave MS THURGAU ULTRA***** in serata. Si salpa! 2. Melk – Vienna . Arrivo a Melk in mattinata e visita del Monastero benedettino, patrimonio UNESCO. In serata arrivo a Vienna. 3. Vienna. Visita della città con possibilità di recarsi al palazzo barocco di Schönbrunn (prenotabile solo a bordo)

4. Budapest. Passeggiata tra gli imponenti edifici lungo le due sponde del Danubio. Quindi proseguimento delle visite attraverso la metropolitana e un treno panoramico, nonché la visita al mercato coperto e alla Basilica di Santo Stefano. Infine: tour leggero attraverso la notturna «Regina del Danubio». 5. Budapest – Esztergom. Escursione alla «Puszta Ungherese» con dimostrazione dell’arte equestre tradizionale. Durante il pranzo a bordo, la nave attraverserà l’ansa del Danubio,

chiamata anche «Donauknie» o «Wachau ungherese». In serata arrivo a Esztergom. 6. Bratislava. Escursione al castello. Rientro verso il porto e nel centro storico con la famosa Cattedrale di San Martino. 7. Dürnstein. Visita del centro storico medievale e degustazione dei vini locali prima di riprendere la navigazione. 8. Passau – Sankt Margrethen – Ticino. Sbarco dopo colazione e trasferimento con il torpedone verso il Ticino con cambio a Sankt Margrethen. Arrivo in serata.

Bellinzona

Lugano

Lugano

Viale Stazione 8a 6500 – Bellinzona T +41 91 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch

Via Pietro Peri 6 6900 – Lugano T +41 91 910 47 27 lugano@hotelplan.ch

Via Emilio Bossi 1 6900 – Lugano T +41 91 913 84 80 lugano-viabossi@hotelplan.ch

cantevole centro medievale. Navigare sul fiume più importante d’Europa, che riesce a unire l’Ovest ed Est del Vecchio continente, è certamente un’esperienza che vale la pena fare una volta nella vita. La crociera sarà organizzata con accompagnamento dal Ticino e per tutta la navigazione, nella formula del viaggio di Gruppo. Sul sito www.azione.ch, il dettaglio del calendario sottostante.

Telefono e-mail Sarò accompagnato da … adulti. Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso). a)

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Variante singola:

SI

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Prezzo a persona In cabina doppia ponte principale (a): da CHF 2230.–. In cabina doppia Junior Suite ponte intermedio (b): da CHF 2725.–. In cabina doppia Junior Suite ponte superiore (c): da CHF 2920.–. In cabina doppia Deluxe Suite ponte intermedio (d): da CHF 3120.–. Cabina singola su richiesta. Spese agenzia Hotelplan: CHF 70.–. La quota comprende Trasferimento in pullman privato dal Ticino a Passau a/r. Tasse portuali.

Sistemazione nella cabina prescelta. Pensione completa, bevande escluse. Pacchetto di escursioni in lingua italiana. Tutte le visite guidate e i trasferimenti come da programma. Buono Migros di CHF 50.– a cabina. Accompagnatore Hotelplan Ticino. La quota non comprende Bevande; mance (5/7 euro per persona al giorno da pagare in loco); assicurazione contro le spese d’annullamento; escursioni facoltative; extra in genere; spese dossier Hotelplan.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Ambiente e Benessere

Animali «20 punto 20»

Mondoanimale Il gatto selvatico e la trota, sono stati eletti quali Re e Regina per quest’anno anno pur non passandosela così male, altrettanto non si può dire per la trota, pesce dell’anno 2020, la quale è, secondo gli esperti della Federazione Svizzera di Pesca, «fortemente minacciata perché si trova in pessime condizioni di vita, pur essendo il pesce più amato e uno dei più pescati». Il presidente centrale della FSP Roberto Zanetti ha affermato: «Ci deve dare da pensare il fatto che una specie così forte come la trota, con una grande capacità di adattamento e tanto amata, sia minacciata di estinzione». Scegliendola come pesce dell’anno, la FSP pone l’accento sui «sette peccati capitali della civilizzazione», puntando il dito su politica e società che invita ad assumersi delle responsabilità: «Parliamo di perdita di habitat perché un quarto di tutti i ruscelli e fiumi sono incanalati, deviati e hanno subìto opere ingegneristiche di correzione; le captazioni di acqua, deflussi discontinui e residuali sono troppo scarse e minacciano i siti di riproduzione; l’immissione di liquami, sostanze provenienti da cantieri abitati, pesticidi e medicamenti causano inquinamento; le acque troppo calde, i corsi d’acqua in secca e le piene sono sintomo del cambiamento climatico, per non parlare delle malattie causate da funghi e batteri ad esso collegate; provocano danni anche la protezione troppo elevata degli uccelli piscivori come ad esempio i cormorani, e l’errata gestione causata dai ripopolamenti artificiali con trote dell’Atlantico degli scorsi anni che hanno eliminato specie di trote originali e varietà locali». Ciò basta a comprendere come la trota sia di diritto la regina dell’era «20 punto 20», in compagnia del gatto selvatico.

Maria Grazia Buletti Il suo nome latino significa «gatto dei boschi», boschi naturali ricchi di strutture (da sempre il suo habitat naturale) dove caccia topi e altri piccoli animali, si concede lunghi sonnellini al riparo da occhi indiscreti e cerca angolini asciutti e protetti in cui mettere al mondo i suoi cuccioli. È il gatto selvatico europeo (Felis silvestris), che Pro Natura ha eletto «ambasciatore 2020 dei boschi naturali, dei paesaggi rurali ricchi di nascondigli e di una protezione efficace della natura». Il felino selvatico europeo ha condiviso la sorte di tutti i predatori della Svizzera, raccontano i portavoce di Pro Natura: «È stato perseguitato senza pietà perché considerato nocivo e nella storia degli animali cacciabili in Svizzera, pubblicata nel 1976 da Philipp Schmidt, l’autore constata che nella Legge federale del 1963 sulla caccia e la protezione degli uccelli, il gatto selvatico era protetto, ma che “era come chiudere la fossa dei liquami dopo che qualcuno c’era già caduto dentro” (Philipp Schmidt, Das Wild der Schweiz, Berna 1976, pag. 341)». Secondo il sodalizio, dunque, la decisione di proteggerlo era probabilmente arrivata appena in tempo: «Oggi il gatto selvatico è ampiamente diffuso nel Giura svizzero, ma ciò che ancora non è certo è se la “tigre dei nostri boschi” sia realmente scampata allo sterminino o se le popolazioni odierne discendano da felini giunti dalla Francia». Diverso è il discorso per il nostro cantone, a sud delle Alpi, dove non vi è alcun riscontro della presenza del gatto selvatico, né in passato né oggi, e se vi

Un bell’esemplare di Felis silvestris. (© Pro Natura – Fabrice Cahez)

si possano mai insediare individui provenienti dall’Italia è un interrogativo ancora senza risposta. Se pensiamo sia facile incontrare un gatto selvatico nei boschi giurassiani dobbiamo ricrederci, spiegano gli esperti che ci invitano a tener presenti alcune considerazioni, a cominciare dal fatto che nei nostri boschi non circolano solo felini selvatici: «In Svizzera vivono circa 1,6 milioni di gatti domestici, molti dei quali godono della più totale libertà di movimento; in più ci sono migliaia di gatti inselvatichiti che vagano per campi e foreste». Ecco il motivo per cui è sempre lecito chiedersi se il felino appena avvistato sia selvatico o domestico, considerando che non sempre è facile distinguere un gatto domestico tigrato dal suo parente

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con la sua urina, mentre il periodo degli amori cade nei primi tre mesi dell’anno e, dopo due mesi abbondanti, nascono dai due ai cinque piccoli che la femmina alleva da sola». Ora vien da chiedersi perché, se gli effettivi pare siano in progressivo aumento, Pro Natura abbia messo in luce proprio questo animale selvatico: «Il gatto selvatico è stato scelto per simboleggiare l’impegno in favore di una natura che merita maggiore libertà, cosa che gioverebbe a molti luoghi dell’ordinatissima Svizzera. In ogni tratto di bosco, lungo ogni torrente, campo o prato possiamo concedere un po’ di spazio alla natura, a tutto vantaggio di parecchie specie di flora e fauna, non solo dell’animale dell’anno». E se il gatto selvatico è re per un

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Quali sono i nomi di battesimo del cantautore Mogol e del comico Checco Zalone? Troverai le risposte terminato il cruciverba, leggendo nelle caselle evidenziate. (Nomi: 6, 7 – 4, 6)

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selvatico perché per avere risposte certe servono delle analisi genetiche. Ad ogni modo, ci viene dato qualche indizio che va considerato per provare a distinguere l’uno dall’altro: «Alcune caratteristiche tipiche del gatto selvatico sono la sua corporatura all’apparenza massiccia per via della folta pelliccia a pelo lungo; il pelo grigio-marrone “sbiadito” sui fianchi, spesso con macchie bianche su gola, petto e ventre; sempre una striscia nera sul dorso; la coda folta con estremità arrotondata nera, spesso con 2 o 3 anelli neri chiaramente visibili e la punta del naso sempre rosea». Manco a dirlo «è un animale solitario, vive in territori che si estendono per diversi chilometri quadrati che marca

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

ORIZZONTALI 1. Decidono se l’imputato è colpevole 7. Ai piedi di Mercurio 8. Unitamente 9. Astro al tramonto... 10. Pagamenti a scadenza fissa 11. Componente del manto stradale 12. Accudisce i bambini 15. Piccolissima 17. Malvagia in poesia 18. Estesa tra le sue due estremità 19. Dittongo di qualità 20. Malinconica, triste 21. L’odio nel cuore... 22. Avvallamento centrale della retina 23. Il meridione 24. Dunque, quindi 25. Si può rendere... anche se non ce l’hanno prestata VERTICALI 1. C’è anche d’appalto 2. Infossatura del polmone 3. Qui in fondo 4. Arbusto con fiori a grappolo 5. Il feticcio di antiche tribù 6. Desinenza di diminutivo plurale femminile 10. Un Francesco cantante 11. Misura anglosassone per liquidi 12. Il famoso Donald americano 13. Spiazzo per polli 14. Un pizzico di tabacco 15. Espone opere d’arte 16. Piena di acredine 18. Primo... scrittore 20. Un esame radiologico 21. Un numero 22. Le iniziali del politico Rutelli 23. Le iniziali del pittore Dalì Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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IL SIGNIFICATO DEI NOMI – Significato del nome Anna. Risultante: GRAZIOSA. Significato del nome Sara. Risultante: PRINCIPESSA.

G A R O M A I P S A P C I R I N E G T M A E R

A N T R E O R R S I O A S C A T I T O N A T O

E Z I O R I N I A O I S S O A L A R E

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Politica e Economia I campi profughi della Libia Francesca Mannocchi, giornalista freelance e reporter, racconta in questo reportage sul campo libico la situazione disperata dei migranti rinchiusi nei campi profughi. Sono in realtà centri di detenzione, prigioni, carceri, gestiti (quelli ufficiali) dal DCIM (Directorate for Combatting Illegal Migration) che dipende dal Ministero dell’interno del governo di al Sarraj, interlocutore dell’Italia, Usa, Onu, Europa

Il separatismo sikh passa anche dall’Italia Si sta verificando in Italia il fenomeno degli indiani di religione sikh che chiedono asilo politico perché sostengono di essere perseguitati in India a causa della loro appartenenza al Khalistan Movement, un movimento separatista che mira a fare della regione del Punjab uno Stato indipendente dall’India pagina 20

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Il presidente americano Trump parla all’audience di Davos. (AFP)

Il trionfo della Trumponomics

WEF Mentre in patria Trump deve fare i conti con il processo di impeachment apertosi al Senato, a Davos

il presidente Usa ha celebrato il boom economico del suo Paese definendo gli accordi con Cina, Messico e Canada «i migliori di sempre»

Federico Rampini L’attenzione allo scontro sul cambiamento climatico fra Donald Trump e Greta Thunberg ha fatto passare in secondo piano il cuore del discorso pronunciato dal presidente americano al World Economic Forum di Davos. Eppure non era banale: ha celebrato il trionfo della Trumponomics. Questo termine non lo sta usando nessuno, mentre in America tutti ricordano la Reaganomics, dal nome del presidente Ronald Reagan (1980-88) che fu protagonista della rivoluzione neoliberista, vinse la guerra fredda, e governò durante un periodo di forte crescita. Trump a Davos ha rivendicato il merito del «suo» boom. Ha parlato di «eccezionale prosperità americana», di Borsa alle stelle, di una «rinascita della classe operaia» sia in termini di posti di lavoro che di salari. «L’America sta fiorendo – ha detto il presidente – e sta vincendo come non era mai accaduto». Il Gotha della finanza e i chief executive riuniti sulle montagne dei Grigioni non simpatizzano per lui, anzi lo considerano responsabile di aver sfasciato la globalizzazione e preferirono applaudire il discorso di Xi Jinping tenuto a Davos due anni prima. E tuttavia dovrebbero essergli grati: poiché l’élite dello 0,1% possiede una quota sproporzionata della ricchezza aziona-

ria, anche loro hanno tratto vantaggio dal boom trumpiano che ha proiettato gli indici di Wall Street ai massimi storici. In quanto agli operai americani, è innegabile che stiano meglio. Nel 2019 l’economia Usa è entrata nel suo undicesimo anno di crescita consecutiva, un altro record. La disoccupazione è scesa al 3,5%, cosa che non accadeva da mezzo secolo. Si può discutere se questa statistica sia veramente significativa, poiché non tiene conto del fenomeno della disoccupazione nascosta o degli inattivi scoraggiati. Ultimamente però anche questi tendono a diminuire. Le donne hanno superato gli uomini nel godere di questo boom di posti di lavoro. I salari salgono del 3%, più dell’inflazione. Poiché la stragrande maggioranza degli economisti considera Trump una sciagura, i loro commenti tendono a sottolineare il «lato oscuro» di questo boom: non solo la disoccupazione nascosta ma anche l’aumento delle diseguaglianze. Tutti problemi veri, ma che esistevano già sotto Barack Obama, al quale peraltro vanno «attribuiti» i primi sette anni di questa ripresa. C’è poi la condanna generalizzata della guerra dei dazi contro la Cina, che secondo la maggioranza degli esperti ha danneggiato i consumatori americani. Di questo danno però non si vede traccia nelle statistiche dell’inflazione: l’aumento dei prezzi al

consumo resta al 2% annuo, cioè esattamente dov’era prima dei dazi. Se i prezzi non salgono e l’occupazione cresce, non si vede dove stia nascosto il danno dei dazi. «America First» è uno slogan che non piace all’élite di Davos, però quest’ultima non vide emergere i nazionalismi economici, i sovranismi e i protezionismi, quando vennero praticati dalla Cina e dall’India, molti anni prima che apparisse sulla scena l’Amministrazione Trump. Il presidente americano naturalmente tende ad attribuirsi troppi meriti. I cicli dell’economia non vengono decisi per decreto dai governi, e il ciclo positivo negli Stati Uniti ebbe inizio col suo predecessore. Né Trump può attribuirsi la paternità di un’altra novità positiva per l’economia americana che è la raggiunta autosufficienza energetica: anche quella ebbe inizio sotto la presidenza Obama. Di suo, Trump ha aggiunto come carburante della crescita una riforma fiscale che ha ridotto la pressione delle tasse sulle imprese e ha innescato un rimpatrio di capitali esteri da parte delle multinazionali. Anche la sua deregulation ambientale – purtroppo – ha aiutato la crescita. Su questo terreno lui però coglie le contraddizioni di altri leader che si proclamano ambientalisti. Xi Jinping formalmente aderisce agli accordi di Parigi, però appena ha temuto un rallentamento della crescita ha

rilanciato il carbone, e le emissioni cinesi di CO2 continuano ad aumentare. Macron si è rimangiato la carbon tax di fronte alla protesta dei gilet gialli, un altro caso in cui la crescita è stata preferita alla decrescita sostenibile. Molti nell’audience di Davos sono inorriditi quando Trump si è attribuito il merito di una «crescita inclusiva», però per la classe operaia americana è prioritario quel che è avvenuto negli ultimi tre anni cioè l’aumento di lavoro e di salari; accettano le diseguaglianze se queste sono inserite in un contesto di miglioramento del loro benessere. Sul terreno del protezionismo la Trumponomics ha rubato tante idee alla sinistra. Basta guardare al nuovo trattato commerciale con Canada e Messico, quel Usmca (United States Mexico Canada Agreement) che ha sostituito il Nafta. La Casa Bianca ha strappato maggiori garanzie a favore degli operai statunitensi, proprio come chiedevano i sindacati metalmeccanici: è aumentata la percentuale di componenti «made in Usa» obbligatoria perché un’auto possa essere importata negli Stati Uniti senza dazi; è aumentato il salario minimo richiesto per le fabbriche messicane. Non è un caso se l’Usmca è il primo trattato dagli anni Sessanta che ha avuto l’approvazione della confederazione sindacale Afl-Cio. Perciò anche i democratici l’hanno approvato al Congresso. Quei

colletti blu del Michigan, Ohio, Wisconsin e Pennsylvania che nel 2016 votarono per Trump anziché per Hillary Clinton, hanno qualche ragione di pensare che fecero la scelta giusta. E dunque potrebbero rivotarlo il 3 novembre di quest’anno. Il presidente campa di rendita sui due eventi che hanno aperto l’anno: l’uccisione di Soleimani e la tregua con la Cina. Su entrambi i democratici hanno messaggi incoerenti. Passata la sbandata filo-iraniana, e poiché non c’è stata finora la terza guerra mondiale, la sinistra non appare vincente in politica estera. Sulla Cina, ora accusa Trump di non avere ottenuto abbastanza, quindi di aver abbassato alcuni dazi troppo presto. Ma fino a ieri la critica prevalente a Trump era di danneggiare la crescita col protezionismo. L’impressione è che lui sogni un duello finale contro Bernie Sanders. L’avversario ideale perché «quasi un comunista»? Di certo, se non avviene un disastro da qui al 3 febbraio, un’economia in forma come l’attuale non favorisce i candidati più radicali come Sanders o Elizabeth Warren. In quanto all’impeachment, come tutti i copioni dal finale troppo scontato, non sta appassionando gli americani né li tiene col fiato sospeso. Probabilmente non è questo che sposterà voti in un senso o nell’altro.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Un Putin è per sempre

Addio libertà d’insegnamento

Riforma costituzionale Le reali intenzioni del capo del Cremlino

si delineeranno nei prossimi mesi ma nel futuro del Paese ci sarà probabilmente ancora lui dopo la scadenza del mandato nel 2024

«Pin parental» Vox minaccia di togliere

l’appoggio al governo regionale di Murcia se non approva la sua richiesta sulla scuola

Keystone

Angela Nocioni

Anna Zafesova Vladimir Putin sta portando a termine la riforma costituzionale più rapida della storia. Presentata dal presidente russo – in un discorso alle Camere riunite trasmesso a reti unificate, su maxischermi e perfino proiettato sulle facciate degli edifici di Mosca – intorno all’ora di pranzo del 15 gennaio, il giorno dopo veniva già discussa da un gruppo di lavoro di 75 persone convocato in poche ore. Il 20 gennaio la legge sugli emendamenti costituzionali è già pervenuta alla Duma: i capigruppo lo approvano in 20 minuti e il Comitato per la struttura dello Stato in 40, e il 22 gennaio, una settimana dopo che i russi hanno scoperto all’improvviso di avere bisogno di una Costituzione riscritta, i deputati votano la legge in seduta plenaria. Una fretta comprensibile: secondo il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, «ogni iniziativa del presidente riceve un’attenzione particolare della società». La riforma verrà sottoposta anche a un «voto panrusso» (le autorità evitano stranamente la parola referendum), che si terrà il 12 aprile, il giorno dell’anniversario del primo volo dell’uomo nello spazio, un chiaro richiamo a una delle date storiche di cui i russi vanno più fieri. In una settimana, Putin ha lanciato una riforma costituzionale, licenziato il governo di Dmitry Medvedev rimasto in carica per otto anni e formato un nuovo esecutivo. Anche il procuratore generale Jurij Chaika è stato mandato a casa, e si parla di licenziamento anche per il capo del Comitato d’indagine (una sorta di supermagistratura) Aleksandr Bastrykin e la presidente del Senato Valentina Matvienko. Il nuovo premier Mikhail Mishustin e buona parte dei nuovi ministri sono sconosciuti al largo pubblico. Nessuno sapeva nulla della riforma fino a che Putin l’ha annunciata davanti alle telecamere, e il governo ignorava il proprio licenziamento, un modo di procedere abbastanza tipico del presidente. In altre parole, Mosca viene scossa da un terremoto. Il motivo di questo terremoto è abbastanza ovvio: il «problema-2024», l’anno in cui Putin completerà il suo quarto (e secondo consecutivo) mandato presidenziale, diventando non più candidabile. Una scadenza che la Russia attendeva con un misto di speranza e paura: la consapevolezza della necessità di un ricambio generazionale e soprattutto della fine della nuova guerra fredda con l’Occidente si mischia al timore

che l’avvicendamento dopo vent’anni di governo dello stesso uomo, possa portare a uno scossone che distruggerebbe il sistema. L’attesa però era semmai per il trucco legale che Putin avrebbe trovato per rimanere al potere: nel 2008 aveva «ceduto» per quattro anni il Cremlino al fido Medvedev, ma oggi lo scontento sia del popolo che delle élite è troppo forte per poter affidarsi a un «delfino». Putin ha deciso di giocare d’anticipo, senza aspettare la formazione di cordate e candidature alternative, mostrando di non avere nessuna intenzione di fare l’anatra zoppa per i prossimi quattro anni. La redistribuzione dei poteri proposta vedrà infatti il capo di Stato subordinare a sé anche il potere giudiziario, con l’attribuzione del diritto di licenziare i capi della Corte Suprema e della Corte Costituzionale. Quest’ultima potrà anche, su richiesta del presidente, bloccare le leggi votate dal parlamento come «incostituzionali», una sentenza definitiva a differenza del veto presidenziale, superabile con un voto a maggioranza di due terzi della Duma. Il parlamento sarà compensato con il diritto di discutere e ratificare non solo la nomina del premier, ma anche dei suoi ministri, e potrà chiederne il licenziamento. Il capo del governo però continuerà a essere proposto dal presidente e non espresso dal parlamento, e il Cremlino potrà licenziare l’esecutivo, tutto o in parte, in qualunque momento. Inoltre, il presidente avrà il diritto di nominare senza approvazione parlamentare (se non una opzionale «consultazione» con il Senato) i ministri dell’Interno, della Difesa e degli Esteri: erano già nella competenza del capo dello Stato per prassi, ora diventerà norma costituzionale. Ma la novità maggiore riguarda il Consiglio di Stato, che da organismo consultivo che include governatori, deputati e ministri, diventerà organo costituzionale che «deciderà le linee guida della politica interna ed estera». Una sorta di supergoverno formato dal presidente, che ricorda molto l’organismo guidato da un altro leader postsovietico inamovibile, Nursultan Nazarbaev, che dopo trent’anni di presidenza del Kazakistan ha assunto la guida del «Consiglio di Stato» insieme con il titolo ufficiale di «padre della nazione». La «variante kazaka» era stata considerata una delle soluzioni più probabili di Putin al «problema-2024»: l’alternativa, la formazione di un nuovo Stato con la Bielorussia, avrebbe azzerato il contatore dei mandati presidenziali,

ma avrebbe anche costretto il leader russo alla coabitazione con un politico astuto e ambizioso come Aleksandr Lukashenko. Quali funzioni avrà il nuovo Consiglio di Stato non è chiaro: la legge che le specifica verrà approvata soltanto dopo il referendum sulla Costituzione. Non è chiaro nemmeno chi sarà il beneficiario della nuova presidenza ancora più potenziata: Putin non considera «fondamentale» la clausola sui due mandati presidenziali consecutivi, ma non ha detto nemmeno di volerla eliminare. Il nuovo premier Mikhail Mishustin (nella foto con Putin) per ora sembra troppo sconosciuto per diventare il «delfino». Il 53enne ingegnere che ha guidato per dieci anni il fisco russo, introducendo un sistema di monitoraggio online di tutti gli scontrini, appare il perfetto putiniano 2.0: moderno, tecnologico, lontanissimo dalla politica e creatore di un potente strumento di controllo totale. Le rivelazioni del leader dell’opposizione Aleksey Navalny sulla inspiegabile ricchezza del premier – villa nella zona più prestigiosa delle dacie dei Vip, redditi milionari (in euro) di una moglie senza lavoro, viaggi con gli oligarchi in Sardegna della sorella e scuola privata College Champittet a Losanna per la nipote (retta minima 24 mila franchi più 54’500 franchi per vitto e alloggio) – dimostrano soltanto che Mishustin è perfettamente integrato nel sistema di potere russo. Così come molti suoi giovani colleghi, già finiti sotto indagine per ville, appartamenti e acquisti sospetti fatti con soldi statali. L’improvviso cambiamento dell’esecutivo è stato seguito dal licenziamento dal governo di diversi fedelissimi, come il ministro della Cultura Vladimir Medinskij, uno degli autori della macchina della propaganda. La responsabile della Sanità Veronika Skvorzova e il ministro del Lavoro Maksim Topilov hanno pagato il prezzo della devastante «ottimizzazione» che ha dimezzato i posti letto ospedalieri e della riforma delle pensioni. Medvedev e Chaika erano stati troppo screditati dai film-indagine di Navalny sui loro affari loschi. Ma soprattutto sembra un segnale alle élite russe: nessuno può sentirsi al sicuro. E meno che mai pensare a un disgelo: uno degli emendamenti introduce nella Costituzione la priorità della legge russa sul diritto e i trattati internazionali, un segno di ulteriore allontanamento della Russia dall’Occidente.

«Pin parental». Si chiama così la prima mossa offensiva che Vox, la destra radicale diventata alle elezioni del 10 novembre il terzo partito della Spagna per numero di seggi in Parlamento, è riuscita a piazzare contro il neonato governo delle sinistre guidato dal socialista Pedro Sánchez in alleanza con Unidos Podemos e l’appoggio necessario degli indipendentisti catalani. Si tratta di un permesso scritto obbligatorio richiesto ai genitori degli alunni della scuola dell’obbligo perché i figli possano partecipare a qualsiasi attività scolastica complementare. Seminari di studio, cinema in classe, teatro. Per ciascuna di queste iniziative gli insegnanti dovranno informare le famiglie e chiedere il consenso preventivo. Con tanti saluti alla libertà di insegnamento e soprattutto al diritto degli alunni a ricevere una educazione scolastica non ostaggio della guerra politica del momento. Le attività scolastiche complementari sono obbligatorie, si svolgono in orario scolastico, non sono attività extra curriculari facoltative. Ciascun insegnante di ciascuna scuola è quindi costretto a comunicare nel dettaglio alle famiglie degli alunni cosa intende insegnare, come vuole farlo e coinvolgendo chi. Vuoi proiettare un film in classe? Devi prima chiedere l’opinione di ciascun genitore. Vuoi chiamare a scuola uno scienziato specializzato nella divulgazione ai bambini per spiegare il sistema delle maree? Te la devi prima vedere con tutti i genitori. E se tra loro c’è qualcuno al quale piace pensare che la Terra non sia tonda, la sua opinione varrà come quella di un Premio Nobel per la fisica. Può bocciare te, il tuo metodo e il tuo programma. L’idea del «pin genitoriale», lanciata con grande copertura propagandistica durante la recente campagna elettorale per le elezioni politiche, è assai popolare tra i conservatori spagnoli. Accattivante l’espressione scelta, familiare ai più. Pin parental è, in origine, il nome del dispositivo che consente agli adulti di limitare la navigazione in internet nei computer dei figli, di bloccare remotamente l’accesso ad alcuni programmi televisivi. Tutti sanno di cosa si tratta. E per la maggior parte delle persone è sinonimo di protezione, non di censura. Vox ha così preso in prestito l’espressione e l’ha fatta diventare un notevole strumento politico contro il nuovo governo. In tutte le regioni governate dalle destre nelle quali il voto di Vox è neces-

sario a far passare la legge di bilancio locale, il partito guidato da Santiago Abascal ha imposto la misura, pena la bocciatura del bilancio. Il partito popolare, terrorizzato dalla competizione che gli muove Vox e disperato all’idea di franare ancora a destra, approva, rincorre e rilancia. Applaude Abascal quando grida: «I genitori sanno meglio di qualsiasi insegnante cos’è meglio per i loro figli». La piccola galassia delle associazioni ultra cattoliche, quasi tutte rifugio dei mai sepolti franchisti e gonfie di soldi, è attivissima nell’allertare studi legali per denunciare i direttori delle scuole «che ostacolino l’effettivo funzionamento del pin parentale». Le denunce sono risibili nella sostanza, ma la minaccia funziona. Gli effetti dissuasuvi immaginabili. Il pin parental è già attivo nella regione della Murcia. Nelle intenzioni di Vox lo sarà presto ovunque le destre governino insieme. A Madrid e in Andalusia, innanzitutto. Ad agosto il governo locale della Murcia aveva già comunicato, attraverso una risoluzione, che «all’inizio dell’anno scolastico 2019-2020 si metteranno le famiglie a conoscenza dei contenuti delle attività complementari in programmazione così che possano esprimere il loro consenso o il loro dissenso alla partecipazione dei loro figli alle suddette attività». L’ottenimento di questa risoluzione è stato la condizione posta da Vox a dare luce verde all’investitura del partito popolare a capo del governo locale. Arrivato il momento di approvare il bilancio locale, Vox ha imposto ed ottenuto che la risoluzione acquisisse rango di decreto. Lo stesso sta accadendo a Madrid e in Andalusia, con grande imbarazzo di Ciudadanos, il partito camuffato da movimento nato a destra sul modello di Podemos. Dopo l’exploit di Vox, Ciudadanos è crollato. A differenza del partito popolare, intende ritagliarsi un nuovo spazio nell’elettorato vendendosi come «l’unica forza conservatrice e liberale della destra». Complicato farsi passare sopra la testa l’adozione del pin parental e spacciarsi contemporaneamente per forza liberale. Il governo centrale promette battaglia. Legale. In Consiglio dei ministri i ministri socialisti hanno detto che «i figli non appartengono ai genitori, non sono una loro proprietà». Il ministero dell’Educazione ha denunciato il governo locale della Murcia per aver adottato misure incostituzionali. La battaglia, tutta politica, si giocherà in tribunale sull’accusa di «censura preventiva» agli insegnanti e «violazione del diritto degli studenti all’educazione».

«Spegniamo la “voce” del fascismo»: protesta contro Vox a Barcellona . (AFP)


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Politica e Economia

Nei lager della Libia

Reportage Il dramma dei centri di detenzione per migranti, dove neanche l’Onu entra. Alcuni sono ufficiali, gestiti

da milizie vicine al governo. Altri segreti, in mano alle bande di trafficanti di armi e droga

Francesca Mannocchi

AFP

Ogni mattina Naima si sveglia e abbraccia sua figlia, prova a coprirla con le poche cose che ha a disposizione. La bacia e la culla, come ogni madre fa con un neonato, in qualunque angolo del mondo. Poi Naima piega le due coperte che ha, attraversa la strada per qualche centinaio di metri fino a raggiungere l’edificio dove si trova il GDF (Gathering and Departure Facility) gestito dall’UNCHR a Tripoli. Il GFD nei progetti iniziali avrebbe dovuto essere un centro di raccolta per migranti prima della partenza, prima cioè dei ricollocamenti in paesi terzi. Ma in questi dieci mesi di guerra, il GDF si è di fatto trasformato in un nuovo centro di detenzione, sovraffollato e a rischio di essere colpito da attacchi aerei. Prima dell’inizio della guerra, il 4 aprile 2019, Naima viveva nel quartiere di Qasr bin Gashir, alla periferia sud della capitale libica, esattamente nelle aree colpite all’inizio dell’offensiva lanciata dal generale Khalifa Haftar. Sua figlia è nata sei giorni dopo l’inizio della guerra, Naima impaurita ha deciso come migliaia di altri, di scappare. È una dei 150 mila sfollati dell’ultimo conflitto libico. Suo marito, sudanese come lei, era scomparso due mesi prima, a febbraio. È ormai trascorso un anno e Naima non sa più nulla di lui. «La prima volta è stato rapito e portato a Sabha, 640 chilometri

a sud di Tripoli, le milizie lo hanno trattenuto fino a che la nostra famiglia dal Sudan non ha pagato un riscatto per liberarlo. Da quando era tornato a Tripoli viveva con il terrore che accadesse di nuovo, e così è successo. Questo luogo è il nostro inferno», racconta la donna, costantemente trattenendo le lacrime. Naima e suo marito non erano arrivati in Libia per attraversare il Mediterraneo, non volevano pagare un trafficante e andare via. Per loro la Libia, nel 2013, avrebbe dovuto essere un luogo di arrivo, non di transito. Un Paese in cui lavorare e da cui spedire a casa le rimesse dei propri guadagni. «Ma dal 2015 è cambiato tutto, il Paese usciva dalla guerra civile e le milizie armate hanno preso il controllo di qualsiasi cosa, non puoi uscire di casa e camminare, in Libia, senza temere di essere rapito, torturato da ragazzini armati fino ai denti che chiedono denaro». I primi due anni a Tripoli Naima ha lavorato come infermiera, suo marito come muratore. Oggi sua figlia ha otto mesi e non conosce suo padre, dopo la fuga da Qasr bin Gashir per paura delle bombe Naima e la bambina vivono sotto un ponte, con altre venti famiglie, esposte al terrore delle bombe. Ma il ponte è il luogo più vicino al centro gestito dall’UNHCR e tutti sperano di riuscire ad avere un posto su un volo per scappare dal Paese, e essere tratti in salvo. Naima ha i documenti timbrati dal-

le Nazioni Unite, come migliaia di altre persone, molti attendono da pochi mesi, qualcuno da tre anni. I posti in Europa non ci sono, i voli umanitari sono sempre troppo pochi e le donne ogni mattina agitano le richieste di protezione umanitaria davanti alla rete metallica che divide il GDF dalla strada al Sikka, a Tripoli, sperando di avere un aiuto. Una risposta che, però, non arriva mai. Asad al-Jafir, ha trent’anni, è un dipendente della Mezzaluna rossa libica, da anni si occupa con passione sia di aiutare i cittadini libici in stato di bisogno, sia di sostenere (quando le milizie lo consentono) i migranti nei centri di detenzione gestiti dal Ministero dell’interno. Da quando è iniziata la guerra Asad continua ad aiutare le famiglie anche in strada, dove, sottolinea «le donne sono esposte al pericolo quotidiano di essere abusate sessualmente e gli uomini e i ragazzi rischiano di essere reclutati forzatamente e costretti a combattere al fronte». Asad tiene il conto delle famiglie in strada, tra loro ci sono circa trenta bambini, alcuni sono neonati e non c’è un bagno, talvolta la moschea nelle vicinanze apre alle donne e ai bambini e concede loro di lavarsi e ripararsi un po’. «La verità – continua Asad al Jafeer – è che non c’è un luogo ormai in città che sia al sicuro dai bombardamenti, lo dimostra quello che è accaduto al centro di detenzione di Tajoura». Asad fa riferimento all’attacco delle truppe del generale Haftar sul centro di Tajoura del 2 luglio scorso, quando due bombe uccisero a mezzanotte 53 persone e ne ferirono circa 130, in una prigione per migranti. Uno dei centri ufficiali gestiti dal DCIM (Dipartimento anti-immigrazione clandestina) che per conto del Ministero dell’interno del Governo Sarraj, gestisce i luoghi di detenzione per migranti. «Le Nazioni Unite hanno grandi responsabilità per questo. I migranti che sono intrappolati nel Paese andrebbero evacuati all’istante. Queste donne e bambini ormai non hanno scelta, o restare qui rischiando di morire o pagare un trafficante e rischiare la vita in mare»,

conclude. Le organizzazioni internazionali hanno ripetutamente avvertito i governi europei dei rischi che stanno correndo i circa seimila migranti detenuti nelle zone vicine al conflitto in corso. Lungo la strada al Sikka, si trova un altro dei centri di detenzione governativi, Trik al Sikka, ospita circa trecento persone. Il centro è diviso in due sezioni, quella maschile ospita la maggioranza delle persone. È una gabbia circondata da una rete per tutta la sua estensione, sui tre lati e – nello spiazzo – quasi non si vede il cielo, perché la rete metallica è stata posizionata anche a coprire l’estensione esterna, per evitare che qualche migrante provasse a scappare. Per arrivare all’interno del centro di detenzione bisogna superare due grandi cancelli serrati da due lucchetti ciascuno. I migranti, di fatto detenuti, gridano: «Benvenuti all’inferno», «Portateci via». Tutti chiedono aiuto. Ci sono solo sei bagni per centinaia di persone, tre sono intasati, i medici non arrivano e a terra, stesi su materassi luridi, ci sono malati e infermi, spesso giovanissimi. Quando la confusione si placa, in lontananza si sente il rumore dei combattimenti. Tutti sanno che la guerra è vicina, e che potrebbe toccare a loro, quello che è successo ai migranti detenuti a Tajoura. Muhammad oggi è recluso a Trik al Sikka. È uno dei sopravvissuti delle bombe di Tajoura (nella foto il campo di detenzione). Dopo il bombardamento è scappato, insieme a decine di altri migranti, ha cercato riparo, lontano dal fronte ma anche lontano dalle milizie che lo avrebbero costretto nel migliore dei casi a lavorare senza essere pagato e nel peggiore dei casi a combattere, con i pochi soldi che è riuscito a nascondere in tasca prima della fuga ha contattato un trafficante e ha provato ad attraversare il Mediterraneo su un gommone. Era lo scorso novembre. La Guardia Costiera libica ha intercettato l’imbarcazione e riportato a riva, a Tripoli, tutte le ottanta persone che c’erano sopra. Da allora Muhammad è di nuovo un detenuto, senza sapere nulla della sua sorte, se e quando uscirà di lì, perché questo pre-

vede la legge libica: chiunque entri nel Paese senza un invito, un permesso di soggiorno o un visto valido è considerato un clandestino e destinato, quindi, a una reclusione sine die in un centro di detenzione. Inoltre la Libia non è firmataria della Convenzione di Ginevra del 1951, quindi non riconosce lo status di rifugiato, non fa perciò distinzione tra chi arriva nel Paese perché in fuga da guerra e dittature o perché a rischio di persecuzione. Per la legge libica, le persone entrate irregolarmente sono tutte clandestine, tutte uguali e tutte condannate alla stessa sorte. La struttura di Trik al Sikka è uno dei centri nominalmente gestiti dal Ministero degli Interni del GNA (Governo di Accordo Nazionale) di Fayez al Sarraj. Ma poiché il confine tra legalità e illegalità in Libia è nebbioso, è difficile dire esattamente quanti centri siano effettivamente sotto il controllo del governo e quanti effettivamente nelle mani delle milizie armate. Inoltre, ad aggiungersi ai centri di detenzione ufficiali ce ne sono decine di altri gestiti direttamente dai trafficanti e dalle loro gang, dove i migranti descrivono di essere stati sottoposti ad abusi e ricatti di ogni genere. Muhammad ha subito quegli abusi per mesi, sia nei centri di detenzione legali che illegali, sia al confine meridionale, che nel deserto e sulla costa. Ha subìto abusi anche nel centro di detenzione di Tajura, dove afferma che le milizie avessero il dominio assoluto nonostante fosse nominalmente gestito dal governo. La notte in cui è stato catturato in mare, dopo il bombardamento e la fuga, Muhammed ha perso le scarpe, è scalzo da allora. I miliziani che gestiscono il centro di detenzione, minacciando costantemente lo staff ufficiale del Ministero dell’interno, gli hanno sottratto il cellulare. Muhammad non ha più potuto contattare sua moglie in Ghana. L’ultima volta, poco prima di salire sul gommone per tranquillizzarla. «Andrà tutto bene» le aveva detto. Muhammad non ha potuto avvertirla che è ancora vivo. È il pensiero che più lo strazia, pensare a sua moglie che lo crede morto.

Khalistan «connection» in Italia

Fenomeno nuovo Sempre più indiani di religione sikh chiedono asilo politico sostenendo

di essere perseguitati nello Stato del Punjab. E raccogliendo anche i fondi per la loro causa Francesca Marino È un fenomeno completamente nuovo, che da qualche tempo stupisce più che allarmare le autorità competenti. Da qualche mese a questa parte difatti, a Napoli, gli impiegati preposti a smistare le domande di asilo hanno rilevato un flusso costante di individui di nazionalità indiana e di religione sikh che chiedono asilo politico sostenendo di essere perseguitati in India a causa della loro appartenenza al Khalistan Movement, un movimento separatista che mira a fare della regione del Punjab, cuore della comunità indiana dei sikh, uno Stato indipendente su base etnico-religiosa. I richiedenti asilo in questione arrivano via nave, e nella maggior parte dei casi si presentano agli uffici competenti già armati di petizioni redatte da avvocati locali. Non si sa quante domande sono state accolte o se le autorità italiane saranno disposte ad accoglierle, perché il Khalistan Movement, pur non essendo un gruppo terrorista vero e proprio, sconfina e si sovrappone al terrorismo sikh molto attivo negli anni Novanta e sconfitto all’epoca dal superpoliziotto (anch’esso sikh) KPS Gill. I gruppi ter-

roristici di matrice sikh difatti, pur essendo largamente sconosciuti in Italia, hanno ricominciato da un paio d’anni a questa parte a essere molto attivi: con la benedizione e il sostegno dei servizi segreti pakistani. E i frutti si vedono anche in Italia. Da almeno un paio d’anni, difatti, in Italia i sikh si uniscono regolarmente ai pakistani che manifestano per «liberare» il Kashmir indiano dal governo di New Delhi. E poco importa che nessuno dei dimostranti sia kashmiro o sia pur vagamente indiano ma siano tutti pakistani, prevalentemente punjabi, trasportati in loco da organizzazioni che sostengono apertamente la jihad in India. I rappresentanti della comunità sikh si uniscono alle manifestazioni portando cartelli con su scritto «Khalistan Kalsa» (Khalistan libero, traducendo dal punjabi) e tutte le manifestazioni sono benedette dalla presenza di Lord Nazir Ahmed, che sostiene apertamente il Khalistan e ha lanciato una nuova campagna chiamata «Kashmir2Khalistan». La campagna è sostenuta anche da un’organizzazione chiamata «Sikhs for Justice», recentemente dichiarata fuori-

legge in India. L’organizzazione ha deciso di promuovere una raccolta di firme tra i sikh di tutto il mondo per chiedere l’indipendenza del Punjab e l’Italia, a quanto pare, è diventata uno degli hub principali per la raccolta di firme e di fondi destinati a questo scopo. O, almeno, così sostengono i promotori. Firme e fondi vengono difatti raccolti non soltanto nei gurudwara (i templi sikh) o tra gli appartenenti alla comunità ma anche attraverso i consolati pakistani in Italia. Non solo: il denaro raccolto arriva a destinazione adoperando gli stessi canali che da anni nell’Italia del nord vengono adoperate da gruppi jihadi pakistani per finanziare le loro attività in India e altrove. Provenivano dall’Italia, difatti, i fondi adoperati per finanziare l’omicidio, nel 2018, di cinque leader politici punjabi, così come provenivano dall’Italia i fondi usati da gruppi terroristici pakistani per una serie di attentati negli ultimi anni in India, a cominciare dal famoso attacco di Mumbai del novembre 2008. Lo scorso luglio la polizia italiana ha chiuso a Udine un Internet point «fantasma»: che non esercitava cioè nessuna attività ufficiale ma fun-

geva soltanto da centro di raccolta fondi per cittadini di prevalenza pakistani, quasi tutti con documenti falsi e senza alcuna attività lavorativa dichiarata, che spedivano soldi in Pakistan o in Afghanistan. Il blitz è stata effettuato su segnalazione della polizia di Brescia che, per l’ennesima volta, ha cercato di smantellare un network di trasmissioni di denaro illegali. Gli investigatori hanno scoperto in città una vera e propria rete di negozi, parrucchieri, alimentari o altre attività «insospettabili» che venivano adoperati per riciclare denaro sporco e per inviare denaro in Pakistan o in Afghanistan. Denaro che, secondo gli inquirenti, proveniva da attività come la prostituzione o il traffico di droga e da «sospetti legami con attività legate al terrorismo islamico». L’ammontare delle transazioni effettuate, sempre secondo gli inquirenti, superava gli otto milioni di euro. A finire nel mirino degli investigatori sono stati anche una serie di cosiddetti «Centri di cultura islamica pakistana»: secondo gli inquirenti, difatti, una buona parte degli otto milioni di euro in questione, dichiaratamente destinati alla jihad, è stata raccolta dalle organizzazioni in

Separatisti sikh manifestano al Tempio d’oro di Amritsar. (AFP)

questione. Che sono tutte connesse a quanto pare alla «Società di propaganda», un’organizzazione molto attiva tra gli immigrati che predica l’Islam radicale e mira a «imitare lo stile di vita del Profeta» e riportare sulla retta via i «cattivi» musulmani che si lasciano fuorviare dall’Occidente o da posizioni moderate. Un fenomeno preoccupante, soprattutto se si considera che quasi tutte le organizzazioni citate nel rapporto degli investigatori avevano firmato, nel 2017, il «Patto di Brescia per un Islam laico»: un documento in cui le organizzazioni in questione riconoscevano la laicità dello Stato italiano e si impegnavano a collaborare con i rappresentanti dello Stato per combattere il terrorismo e l’integralismo religioso.


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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Come leggere le inchieste sulla scuola? All’inizio di dicembre del 2019 sono stati pubblicati i risultati dell’inchiesta PISA per il 2018. Questa inchiesta, che viene condotta, con frequenza triennale, da quasi un decennio, si è ormai fatta un nome anche presso il pubblico dei non addetti ai lavori. Questo lo deve al fatto che mette a confronto gli allievi delle scuole di tutto il mondo, o quasi, dando modo di stabilire classifiche che, quando tutto va bene, possono solleticare la vanità dei responsabili e, quando tutto va male, danno argomenti all’opposizione per invocare nuove spese in favore dell’educazione. Ricordiamo ai lettori che da quando PISA è PISA la Svizzera si è sempre trovata a metà strada, ossia con risultati che si aggirano sulla media delle prestazioni ottenute dagli scolari del campione mondiale. Quest’anno però, a livello nazionale, si è fatto un salto indietro, in tutte e tre le discipline testate. In generale si tratta di una riduzione dell’ordine di

10 punti che i commentatori attribuiscono alla quota elevata di scolari provenienti da famiglie immigrate. Particolarmente sconfortante è il risultato raggiunto nella lettura. In questa disciplina, con 484 punti, la Svizzera si trova di tre punti sotto la media dei paesi dell’OCSE. Nel corso dei prossimi tre anni, cioè nel periodo che precederà la prossima inchiesta PISA, possiamo così aspettarci, in particolare nella Svizzera tedesca, battaglie titaniche attorno alle misure con le quali si dovrebbero poter migliorare le competenze in lettura dei ragazzi delle scuole medie. Ma veniamo al Ticino. In Ticino è probabile che i risultati dell’inchiesta PISA per il 2018 non sollevino molto interesse. Questo perché si tratta di risultati superiori alla media. La tornata attuale dell’inchiesta PISA ha così rivelato che per la matematica, gli scolari ticinesi sono quasi in vetta alla classifica mondiale. In effetti, per quel che riguarda questa

disciplina, abbiamo al primo posto Singapore con 569 punti, al secondo Macao con 558 punti, al terzo posto Hong Kong con 551 punti e poi viene il Ticino con 528 punti. E questo risultato il Ticino lo raggiunge nonostante la sua scuola media sia tra quelle che possiedono la quota più elevata di scolari provenienti dall’emigrazione. I figli degli emigranti e dei rifugiati sono dunque più portati per la matematica che per la lettura? Ci sarebbe già materia per scrivere almeno un paio di tesi di dottorato in pedagogia. Se non che, con i risultati dell’inchiesta PISA 2018 il nostro dipartimento dell’educazione ha reso noti anche quelli dell’indagine VeCoF 2016, uno studio che si propone solamente di valutare le prestazioni delle scuole dei cantoni svizzeri sulla strada delle realizzazione del nuovo piano di studio armonizzato. Questa indagine rivela purtroppo che solamente il 64% degli allievi del cantone raggiunge le competenze fondamen-

tali in matematica. Come mai, si domanderanno i non addetti ai lavori, a livello mondiale gli scolari ticinesi sono tra i migliori in matematica, mentre a livello svizzero faticano a tenere il ritmo imposto dagli altri cantoni? Il Dipartimento dell’educazione ticinese spiega queste differenze con tre diversi argomenti. Il primo si riferisce all’età degli scolari che hanno partecipato alle due indagini. Per l’inchiesta PISA si trattava di allievi quindicenni, per l’indagine VeCoF, invece, di allievi undicenni. Insomma la botte non può dare che il vino che ha. O in termini di tecnica dell’inchiesta: se cambi la composizione dei campioni è possibile che cambino anche i risultati. Ma allora, amici del Dipartimento, si pone la questione essenziale della rappresentatività del campione, non vi pare? Con il secondo argomento si precisa che l’inchiesta VeCoF 2016 è stata fatto prima che le competenze fondamentali definite nel

nuovo piano di studi fossero realmente radicate nei dispositivi di insegnamento del canton Ticino. Insomma gli allievi sono stati interrogati su cose che non potevano sapere. Sarà stato così anche in altri cantoni? Il terzo argomento insiste – se abbiamo capito bene – sul diverso grado di difficoltà degli esercizi contenuti nelle due inchieste. Apparentemente quelli dell’Inchiesta PISA erano più facili. A questo punto ci scontriamo però con una contraddizione. Nell’inchiesta PISA 2018 i risultati in matematica dei ticinesi sono migliori di quelli dei Confederati. Nell’indagine VeCoF 2016 , con esercizi di matematica più difficili da risolvere, i Confederati primeggiano sui ticinesi. Con le competenze in matematica degli allievi confederati sembra dunque che sia un po’ come nel caso di quella squadra di mezza classifica che vince sempre le partite difficili ma perde quelle con gli avversari più deboli.

veneranda età di ottantacinque anni – e anche troppo indebolito dallo scandalo ucraino. La richiesta di impeachment per Trump – accusato di aver fatto pressioni sul presidente ucraino, anche sospendendo la vendita di armi, per indurlo a riaprire l’inchiesta sul figlio di Biden – ha finito per ritorcersi contro il vicepresidente di Obama, più che contro l’inquilino della Casa Bianca. Poi c’è l’incognita Michael Bloomberg. L’ex sindaco di New York ha evitato i dibattiti con gli altri candidati. Punta sul proprio denaro, sugli spot, e sul SuperTuesday, il SuperMartedì in cui votano molti tra gli Stati più importanti. Alle primarie in Iowa – favorito Biden – e in New Hampshire – favorito Sanders – neppure si presenterà. Secondo i sondaggi, Bloomberg è il candidato che batterebbe più nettamente Trump. Ma in una fase in cui la politica americana è molto polarizzata, e in entrambi i campi sembrano contare molto le spinte radicali, un miliardario newyorkese non

appare il più attrezzato per conquistare il cuore dei militanti democratici e per mobilitare la coalizione delle minoranze – neri, ispanici, asiatici – che fu decisiva per l’affermazione di Obama, e senza la quale un candidato del partito dell’Asinello non ha alcuna chance di vincere. Resta da capire quale potrebbe essere il destino di Trump. Di solito è molto difficile battere un presidente in carica; tanto più quando l’economia e la Borsa vanno bene. Eppure Trump desta sempre qualche riserva. Non si può neanche dire che al suo posto abbiano governato i suoi consiglieri; visto che li ha cacciati tutti, e continua a nominare persone di cui si stufa o si stuferà presto. Ho seguito uno dei suoi comizi in Florida, per le elezioni di mid-term del novembre 2018. Mi ha colpito il modo in cui la folla si immedesimava in lui. Dovete sapere che uno dei passatempi di Donald Trump è sedurre le donne degli amici. Un giorno, in viaggio

sull’aereo privato con un miliardario e una modella, propose di scendere ad Atlantic City per visitare uno dei suoi casinò. Seccato, l’amico rispose che ad Atlantic City non c’era niente da vedere: solo «white trash», spazzatura bianca. «Cosa vuol dire white trash?» chiese la modella. «Sono quelli come me – rispose Trump –. Solo che loro sono poveri». Il rapporto tra il presidente e i militanti repubblicani è molto diverso da quello che legava Obama ai sostenitori. Obama era più apprezzato che amato. La gente ammirava lui, la sua storia personale, la sua cultura; ma non era sfiorata dall’idea di essere come lui, di essere lui. Con Trump l’identificazione è totale. Perché Trump non è percepito come un miliardario, ma come un povero con i soldi. Pensa, sente, parla come il suo popolo. Che lo adora. Ma resta il fatto che almeno metà dell’America, forse più, lo detesta. Il problema è che questa metà oggi non ha un candidato universalmente riconosciuto.

di emissioni di carbonio, «in pratica l’equivalente dei rifiuti prodotti in un anno da 5 milioni di persone». In Europa, invece, nel 2016 – ultimi dati Ue disponibili ma largamente superati negli ultimi anni di forte crescita delle vendite su Internet – i rifiuti da imballaggio avevano raggiunto la cifra record di circa 170 kg a persona. Questo perché, per spedire i propri prodotti, la maggior parte dei marchi fa affidamento anche su materiali plastici monouso, che sono poi i più difficili, se non impossibili, da riciclare. A completare il quadro dei problemi e dei primati negativi delle vendite online ci sono poi anche le condizioni lavorative spesso problematiche, come di tanto in tanto i media scoprono, nei vari immensi centri di spedizione e smistamento (sono ormai numerosi anche in Europa) gestiti seguendo algoritmi e robot. Lasciamo il commercio online per gettare uno sguardo sui mirabolanti 100 miliardi di messaggi dell’ultimo dell’anno. Dati inconfutabili? Tutto

lascia credere che la cifra sia attendibile, soprattutto tenendo conto che nella notizia viene anche precisato come un quinto di questa galassia di messaggi siano stati spediti e ricevuti nella sola India (chi ama fare calcoli non dimentichi i suoi 1335 milioni di abitanti). Resta però un mistero, almeno per chi scrive, come sia possibile arrivare a questi dati dal momento che il traffico del web, essendo gratuito, non consente riscontri tariffari o di altro genere. È quindi possibile che i 100 miliardi derivino da calcolo empirici, se non proprio a spanne come si diceva un tempo (se volete proseguire le verifiche consiglio il sito www.internetlivestats.com che vi mostrerà un pannello da cui è possibile seguire l’andamento della rivoluzione digitale e immaginare il parallelo declino della tecnologia meccanica ed analogica). Cionondimeno la cifra è impressionante e stimola diverse riflessioni legate non solo alle tecnologie. Ad esempio rimanda al motto «Verba volant, scripta manent», pronunciato

oltre duemila anni fa nel Senato dell’antica Roma. Ricordo un collega de «Il Sole 24 Ore» che dieci anni fa proponeva un più aggiornato «Email Volant, Verba Manent», ma ora la rivoluzione digitale ha quasi capovolto il senso del millenario detto latino. Comunque, più degli «scripta volant», a preoccupare sono le reiterate manovre di governi, sicurezze nazionali e comandi militari per controllare questo flusso mediatico erigendo muri (divieti) e ostacoli (controlli) minacciando le libertà sinora garantite a tutta la galassia Internet. Ne è allarmato anche Mark Zuckerberg che da qualche settimana scalpita chiedendo regole di base (che tutti i governi dovranno accettare e rispettare) in modo da garantire continuità alla rivoluzione dei motori di ricerca e dei social media. Gli esperti temono però che questo suo interesse, più che a difendere libertà e gratuità del web, sia uno stratagemma per favorire lo «statu quo», vale a dire la superiorità tecnologica dei giganti della Silicon Valley.

In&outlet di Aldo Cazzullo Amore e odio Un candidato democratico «normale» potrebbe agevolmente riconquistare la Casa Bianca. Il problema è che il partito democratico non ha un candidato «normale». Alla fine – ci scommetto – l’uomo che sfiderà Donald Trump il prossimo 3 novembre sarà Joe Biden (foto). Il motivo è semplice. Bernie Sanders ed Elizabeth

Warren sono troppo a sinistra per convincere l’elettore medio americano; a maggior ragione per riconquistare il voto operaio e bianco dei tre Stati postindustriali – Michigan, Pennsylvania, Wisconsin – che nel 2016 sono stati sorprendentemente conquistati da Trump. Neppure Pete Buttigieg, il trentottenne ex sindaco di South Bend (Indiana), che può essere considerato la vera rivelazione di queste primarie, sembra l’uomo giusto per la missione; e non solo perché sarebbe il primo gay dichiarato a diventare presidente degli Stati Uniti, con tanto di «first husband» al seguito. Però Biden – che nei sondaggi al momento batterebbe Trump – non è considerato un candidato forte. Il suo momento sarebbe stato il voto del 2016, quando invece i democratici schierarono Hillary Clinton. Oggi Biden appare troppo vecchio – ha settantasette anni, quattro più di Trump; se dovesse fare due mandati, concluderebbe alla

Zig-Zag di Ovidio Biffi «Scripta volant» più delle parole Tra i tanti resconti di fine anno c’erano due notizie che riguardavano servizi informatici e comunicazione. La prima era di casa nostra: nell’ultimo mese, cioè fino a poco prima di Natale, la Posta svizzera ha recapitato oltre 18,6 milioni di pacchi. La seconda invece concerneva il traffico che ogni giorno transita gratuitamente sul web, in particolare i messaggi su WhatsApp o analoghi strumenti di messaggeria digitale: rilanciata poi da tantissimi media soprattutto online, la notizia comunicava che il 31 dicembre scorso sono stati inviati 100 miliardi di messaggi, un quinto dei quali comprendenti anche immagini o video. A dire il vero, l’informatica c’entrava anche con la prima notizia. Come spiegava il comunicato de La Posta, i fattori trainanti dell’aumento dell’8,8% di pacchi spediti e recapitati erano stati da un lato le giornate di sconti del Black Friday e del Cyber Monday, dall’altro l’ulteriore aumento del volume di invii nel periodo prenatalizio. Quindi il nuovo

primato suona a conferma che anche in Svizzera sempre più persone fanno acquisti online. Ad attenuare il tono trionfalistico di questo nuovo primato, è giunta la «Rivista Studio» – una delle più fruibili e attendibili pubblicazioni online della vicina Repubblica – che una settimana prima di Natale si è sentita in dovere di sensibilizzare i consumatori con un servizio sulle facce nascoste del debordante fenomeno delle compere online. Alla maggior parte di chi fa acquisti online sfugge o non importa che dietro alla comodità e all’inappuntabilità di servizi celeri, garantiti in tutto il mondo da algoritmi e consegne a domicilio, si celano anche macroscopici aspetti decisamente meno positivi. Secondo l’articolo citato – basato su dati elaborati da Optoro, azienda che lavora per ridurre e riutilizzare gli scarti di produzione – solo negli Stati Uniti i resi riconducibili al commercio online creano ogni anno rifiuti che finiscono in discariche causando più di 15 milioni di tonnellate


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Cultura e Spettacoli Estetica e/o etica Koen Vanmechelen, artista belga in mostra a Mendrisio, ha un rapporto particolare con la natura

Teneramente amati La regista Klaudia Reynicke ci racconta la genesi del suo nuovo film Love Me Tender, presentato l’anno scorso a Locarno

Gennaio russo La stagione musicale di San Pietroburgo a gennaio stupisce per la sua varietà

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Sulle tracce di Mertz Un ritratto di Xavier Mertz, esploratore basilese che agli inizi del 900 perse la vita al Polo Sud pagina 30

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Il ricordo, la libertà, il perdono

Anniversari Riflessioni sul Giorno

della Memoria, a 75 anni dalla liberazione di Auschwitz-Birkenau

Pietro Montorfani Torna come ogni anno il Giorno della Memoria, il quindicesimo da quando è stato istituito sul piano internazionale (il decreto ONU è del 1. Novembre 2005), non senza il consueto corredo di polemiche. È importante ricordare infatti che l’appuntamento non ha mai fatto l’unanimità, nemmeno negli ambienti ebraici: in un provocatorio pamphlet del 2014 Elena Loewenthal si distanziava da queste celebrazioni, ree di riportare l’attenzione sugli «ebrei morti», dimenticando i vivi, quelli toccati soltanto in parte dalla tragedia o che comunque non si riconoscono in quella dinamica di «risarcimento» che finisce per connotare retoricamente la giornata. Il problema sta anche nel manico (cioè nel nome) e nel quesito che questo solleva: memoria di che cosa? Della Shoah, naturalmente, ma anche degli altri crimini e delle altre vittime del nazismo (omosessuali, testimoni di Geova, comunisti, prigionieri politici, rom) troppo spesso dimenticati, lungo una linea che facilmente arriva ad abbracciare tutti i genocidi di ogni tempo e paese, dai nativi americani agli armeni. Al di là delle polemiche, nel profluvio di appuntamenti annuali e giornate internazionali dedicate alle più svariate cause il Giorno della Memoria continua a fare eccezione per almeno un paio di motivi: la portata e le dimensioni della Shoah, che non possono essere messe in discussione, e il progressivo venire meno dei testimoni. Da un lato un fatto storico piantato come un monolite nel mezzo del Novecento, dall’altra il nostro lento ma inesorabile allontanarci da esso, anno dopo anno, generazione dopo generazione. A questo si aggiunga il fatto che, sin qui, il Giorno della Memoria e più in generale il ricordo dell’Olocausto sono stati connotati soprattutto in un senso: da Anna Frank in poi, e in misura maggiore durante la cosiddetta «epoca dei testimoni» (gli ultimi tre decenni), ha prevalso l’immedesimazione empatica con la vittima, con tutti i limiti che possono derivare da simili dinamiche e i dubbi, legittimi, sulla loro valenza educativa e anche sul loro valore in sede storiografica. Non possiamo rinunciare invece a indagare tutta la complessità del fenomeno Shoah,

compenetrando la «memoria» (intesa come testimonianza delle vittime) con la disciplina della ricerca storica, che è costantemente in progress e spesso lontana dalla ribalta mediatica. È questo l’invito di un piccolo libro uscito recentemente da Einaudi a firma del suo presidente Walter Barberis e intitolato Storia senza perdono. Il testo di Barberis è utile a chi voglia ricostruire l’evolversi della narrazione della Shoah negli ultimi settant’anni, dal silenzio iniziale rotto soltanto da alcune voci eccezionali (Primo Levi) accolte con diffidenza persino da chi sarebbe stato, sulla carta, più predisposto ad ascoltarle (la stessa Einaudi), alla sequenza dei processi che iniziò a portare alla luce la reale estensione di quell’orrore: l’aridità giuridico-burocratica di Norimberga (1945-46) e, all’altro estremo, la spettacolarizzazione mediatica dell’impiccagione di Eichmann a Gerusalemme (maggio 1962) segnano due tappe di questa evoluzione, che soltanto in tempi recenti ha iniziato a prendere sul serio la voce delle vittime, fino a farla diventare preponderante. Barberis discute e mostra le derive di questa tendenza, i tanti testimoni fasulli che hanno sfruttato il momento propizio per costruirsi a posteriori, non senza qualcosa di patologico, lo statuto di vittima. Su un punto però non è possibile concordare con Barberis ed è là dove il suo libro, recuperando il secondo elemento del titolo, da tesi si fa sentenza: «I tempi esigono talvolta che si proceda al “perdono”. Per quale ragione una vittima dovrebbe concedere un “dono” al suo assassino rimane misterioso. […] Il perdono è la più alta forma di amnistia; e la amnesia è la sua diretta conseguenza». Barberis pensa non tanto ai singoli quanto alle società e alle nazioni, colpevoli di rifiutare, promuovendo o accettando richieste di perdono, una più coraggiosa «azione di profilassi», quasi dei «protocolli di igiene politica e sociale». Il non-perdono avrebbe quindi l’esito, con il suo perenne monito rivolto al passato, di distaccare dal corpo sano di una società la sua componente malata. Al di là delle formule un po’ infelici, mi pare che la migliore risposta a questo troppo sbrigativo accantonamento della questione (su perdono, oblio e costruzione di un futuro possi-

La copertina del catalogo di Robert Jan van Pelt dedicato ad Auschwitz.

bile si leggano almeno le pagine di Paul Ricoeur e Desmond Tutu) giunga dalla stessa letteratura della Shoah, e da un «cacciatore di nazisti» per antonomasia come Simon Wiesenthal che nel suo Il girasole mostra sì i limiti del perdono, non prima però di averne saggiato a fondo gli effetti sulla propria vita. Durante l’incontro con un nazista morente macchiatosi di crimini orrendi (l’incendio di una palazzina stipata di prigionieri ebrei) Wiesenthal non seppe concedere il perdono richiesto e per anni continuò a chiedersi se avesse agito bene. Quel dubbio non solo lo spinse a scrivere il libro, ma gli suggerì di condividerlo con una vasta platea di intellettuali, da Habe a Marcuse a Senghor, da Levi a Todorov. Il dibattito attorno al testo di Wiesenthal è stato uno dei massimi esercizi di libertà e di confronto dialettico suscitati dalla memoria della Shoah. E importa poco in fondo la risposta dei singoli, più propensi a con-

cedere il perdono quelli di cultura cattolica, meno quelli di tradizione ebraica; importa che l’esercizio sia stato fatto e che continui tuttora in altre voci. I lettori di lingua italiana, grazie alle pagine radicali di Primo Levi e alla severa dolcezza di Liliana Segre («Non perdono, ma non odio»), sono stati stimolati a interrogarsi sulla «zona grigia» nella quale si muovevano i collaborazionisti, i prigionieri di grado superiore, i Sonderkommandos, insomma le vittime meno frenate da ragioni morali e più portate a sfruttare la situazione a loro vantaggio. La zona grigia inizia a un soffio dagli animi più puri e termina a un passo dal carnefice più efferato: è l’estensione stessa della libertà umana a delimitarne i confini e tutti rischiamo di percorrerne, prima o poi, una pur minima parte. Perché la linea che separa i sommersi e i salvati di ogni epoca è dettata dal destino, ma anche dalla responsabilità individuale.

Tenere presenti questi aspetti, sui quali ci invita a riflettere il direttore del Museo di Auschwitz Piotr Cywinski nel suo libro Senza fine, è forse la chiave di volta per continuare a promuovere in modo attivo e veramente utile il confronto con quel passato presso le nuove generazioni, soprattutto in occasione del Giorno della Memoria. A poco vale il continuo ribadire l’orrore dell’Olocausto se altri olocausti, solo numericamente inferiori, continuano ad accadere sotto i nostri occhi in ogni parte del mondo. Il sorriso dei nazisti in gita a pochi chilometri dal lager, ripreso in una celebre foto, assomiglia terribilmente anche al nostro. Dove e quando

Pietro Montorfani terrà una conferenza dal titolo Testimonianze di umanità alla Filanda di Mendrisio oggi, lunedì 27 gennaio, ore 18.30.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Cultura e Spettacoli

Tra etica ed estetica

Mostre Il Teatro dell’Architettura di Mendrisio ospita le opere

dell’artista Koen Vanmechelen

Il Bardo, nelle più varie interpretazioni In Scena Due versioni moderne del Romeo

e Giulietta e del Riccardo 3. La giornalista Maria Cuffaro ad Ascona

Alessia Brughera A Genk, in Belgio, nella regione delle Fiandre, su un terreno di oltre duecentoquarantamila metri quadrati con un passato di miniera di carbone prima e di zoo poi, esiste da pochi mesi uno straordinario parco della biodiversità chiamato Labiomista. Qui, attraverso gli strumenti dell’arte e della scienza, si sperimentano nuove forme di relazioni tra esseri umani, animali e ambiente, puntando sulla varietà bioculturale per creare comunità resilienti e sostenibili. Questo ambizioso progetto multidisciplinare basato sull’idea che sia possibile (e necessario) rinsaldare il rapporto tra uomo e natura è stato partorito dalla mente eclettica di Koen Vanmechelen, che proprio in Labiomista ha voluto far confluire gli aspetti principali della sua ricerca per riflettere su alcuni dei temi più importanti della nostra epoca. Vanmechelen, classe 1965, belga, per la precisione limburghese, conterraneo di grandi maestri del passato quali Bruegel, Bosch e Rubens, è una figura tre le più poliedriche del panorama artistico internazionale contemporaneo. Scultore, pittore, videoartista, performer, studioso e militante dei diritti umani, fin dagli anni Ottanta percorre con il suo lavoro un versante particolarmente innovativo, esplorando con acume e una buona dose di stravaganza il legame tra natura e cultura, tra creatività, scienza e filosofia. Un esempio? Il «Cosmopolitan Chicken Research Project», un programma mirato alla generazione di nuove razze avicole a cui l’artista ha dato il via nel 1999. In collaborazione con scienziati di differenti discipline, Vanmechelen ha attuato un progetto mondiale di incroci di polli provenienti da svariati paesi con l’obiettivo di creare un «esemplare cosmopolita» che trasportasse i geni di tutte le razze di pollo del pianeta, un ibrido più bello, forte, fertile e longevo che nella poetica dell’artista diviene simbolo della positività della diversità biologica e culturale. Interessante è come questo progetto di «arte vivente», lungi dall’essere mera utopia, abbia ottenuto il plauso di governi e di organizzazioni internazionali, trovando applicazione anche nell’ambito di un’importante iniziativa di lotta alla povertà in Etiopia e in Zimbabwe. A Vanmechelen, originale artista concettuale dalle mille sfaccettature, il Teatro dell’architettura dell’Università della Svizzera italiana a Mendrisio dedica una mostra che raccoglie più di sessantacinque opere eseguite dal 1982 a oggi, testimonianza di un’attività versatile e impegnata, a tratti ironica e di grande impatto visivo. Negli spazi dell’edificio progettato da Mario Botta (amico di lunga data dell’artista, per il quale ha realizzato le architetture di Labiomista), sfilano lavori che, seppur selezionati per far risaltare principalmente gli aspetti plastici della produzione di Vanmechelen, sono testimo-

Giorgio Thoeni

Koen Vanmechelen, Temptation, 2018, scultura in marmo, tassidermia, guscio d’uovo di struzzo. (© Studio Koen Vanmechelen)

nianza dell’estrema varietà dei suoi approcci all’arte. Come emerge chiaramente dalle sculture, dalle stampe fotografiche, dalle installazioni e dai dipinti radunati in mostra, le opere di Vanmechelen si fanno espressione di una ricerca di complicità tra estetica ed etica, di un’indagine profonda volta a manifestare la bellezza e il valore della vita. Ad animarle è la volontà di riprodurre e reinventare la complessità della natura, al fine di comprenderla, omaggiarla e contribuire a proteggerla. E difatti, proprio prendendo a prestito i principi che regolano il creato, Vanmechelen fa della diversificazione il criterio più proficuo ed efficace per generare i suoi lavori. Da sempre centrale nel percorso dell’artista, il tema del pollo è anche il leitmotiv della rassegna mendrisiense, soggetto particolarmente caro a Vanmechelen perché visto come metafora dell’individuo e della società. Attraverso questo animale domestico, che da millenni è in co-evoluzione con l’uomo e che risulta essere la creatura vivente con la parentela più vicina ai dinosauri, l’artista medita e fa meditare su importanti questioni scientifiche e filosofiche. La gallina e l’uovo diventano così potenti simboli che consentono a Vanmechelen di esibire il suo esuberante estro senza mai perdere di vista le finalità etiche del suo operato. Il richiamo al volatile è pressoché onnipresente nella rassegna: dalle

piume e dai frammenti di guscio deposti sulle ampie tele colorate con gli acrilici al piccolo pulcino in vetro tenuto sul palmo di una mano gigante modellata nel bronzo, dalle decine di uova di cristallo poste all’interno di un’incubatrice ai vispi polli ibridi (alcuni dei quali sono esemplari di razze antiche ripristinate grazie al progetto di Vanmechelen di cui prima si è detto) immortalati nella nutrita serie di stampe lambda. Di particolare impatto, poi, sono i busti marmorei dell’artista ispirati alla Medusa di Pieter Paul Rubens, suo illustre compatriota, la cui pittura barocca dall’opulenta vitalità ha suscitato in Vanmechelen grande ammirazione: dalle levigatissime teste di queste sculture spunta un inaspettato groviglio di serpi e galline che lascia il visitatore sospeso tra stupore e inquietudine. Specchio perfetto di quella mescolanza di teatralità e allegoria tipica dell’artista, anche questi lavori incarnano l’appassionata visione di un uomo che crede nella vigorosa unione tra arte e scienza per migliorare le sorti del mondo.

Dopo la complessa rilettura delle cose nascoste del Macbeth di Shakespeare, in pochi giorni siamo passati alla crudele scalata al potere del bieco monarca di York. Il Teatro Sociale di Bellinzona ha infatti ospitato Riccardo 3 dal classico di Shakespeare nell’adattamento di Francesco Niccolini per la compagnia di Enzo Vetrano e Stefano Randisi con Giovanni Moschella. Se il progetto sul Macbeth vedeva ognuno dei personaggi principali della tragedia assegnati a tre interpreti, nel Riccardo hanno fatto tutto due attori in scena, tranne Vetrano nel ruolo del protagonista. Tutti gli altri ruoli erano per Randisi (Lady Anna, ma anche un sicario, Giorgio di Clarence, Buckingham, Edoardo e Richmond) e Moschella (un altro sicario, Hastings, Elisabetta, il principino, Margherita, il sindaco di Londra, Stanley). In uno spazio freddo, presumibilmente manicomiale, Riccardo è su una sedia a rotelle. Nel suo delirio bipolare racconta le sue efferatezze che si snocciolano rapidamente. In poco più di un’ora gli intralci al controllo totale del regno d’Inghilterra vengono eliminati: imprigionati nella Torre di Londra o uccisi da sicari. Fratelli, cugini, moglie, amici. Tutti destinati a sparire in rapida successione nell’architettura testuale di Niccolini, con buona pace di chi ama le parole dell’autore sebbene l’elegante e squillante dizione di un eccellente Vetrano conservi i monologhi più significativi dello psicodramma. Una bella resa attoriale e l’efficace scrittura hanno ampiamente contribuito al successo dello spettacolo e al gradimento del pubblico. Non paghi di respiri scespiriani ma desiderosi di accettare qualche sorriso intelligente, siamo anche stati al Teatro di Locarno per seguire Ale e Franz (in scena anche a Chiasso, con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino) alle prese con Romeo e Giulietta. Nati sotto contraria stella, il celebre melodramma rivisto e diretto da Leo Muscato. Sala piena e una platea

ben disposta hanno accolto l’allestimento che, seppur con un manto farsesco, ha mantenuto il testo originale (prologo a parte) inserendo soluzioni interessanti. Dalla scenografia apparentemente casuale all’idea che la commedia venisse recitata da una compagnia girovaga e scalcinata di soli attori maschi disposti a interpretare tutte le parti. Una sorta di Armata Brancaleone pronta ai lazzi della Commedia dell’Arte. Ecco la Giulietta di un bravissimo Ale, molto aderente al personaggio, come pure il Romeo di Franz, più incline all’ironia cabarettistica. Con loro, dei comprimari di assoluto rispetto come Paolo Graziosi, (regista in disparte e Principe della Scala), Marco Gobetti (il frate, Baldassarre, Padron Capuleti) e, spassosi e infaticabili, Eugenio Allegri (Mercuzio, Madonna Capuleti e frate) e Marco Zannoni (la tartagliante Balia e frate): due attori di grande esperienza e bravura alla mercé di personaggi praticamente sempre in scena. Il tutto accompagnato a bordo scena dalle musiche di Roberto Zanisi. Uno spettacolo piacevole e curioso per la riuscita commistione drammaturgica nella sua studiata, misurata e, in fin dei conti, piacevole leggerezza. Sfumature nel racconto della verità

Conduttrice, inviata, reporter, autrice di inchieste e del libro Kajal. Le vite degli altri e la mia, Maria Cuffaro è stata protagonista al teatro San Materno di Ascona di un incontro con la giornalista radiofonica Rossana Maspero. Il suo racconto è quello di un mestiere in bilico fra emozioni e regole deontologiche che non si possono trascurare quando in gioco c’è la credibilità. Ma come raccontare la verità? Si può essere testimoni imparziali? «La verità è ricca di complessità e contraddizioni – dice la Cuffaro – è come un disegno in chiaroscuro ricco di sfumature. Fare domande – ha ribadito – è come un atto di ribellione che non deve essere scambiato per autocompiacimento o manierismo». E ancora: «il giornalismo è la sublimazione della fretta e della superficialità: il mio mondo».

Dove e quando

Koen Vanmechelen. The Worth of Life 1982-2019. Teatro dell’architettura, Mendrisio. Fino al 2 febbraio 2020. Orari: ma, me, ve, sa e do 12.0018.00; gio 14.00-20.00. Per informazioni: info.tam@usi.ch

Una scena dal Riccardo 3 di Niccolini. (teatrosociale.ch) Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Cultura e Spettacoli

Un orfano scimunito e tre materne prostitute Teatro Misericordia, il nuovo spettacolo di Emma Dante

Giovanni Fattorini La scena è quasi interamente vuota. Lungo la parete di fondo sono disposte quattro seggioline su cui siedono tre donne che sferruzzano e un ragazzo col capo rasato, magro e seminudo, che muove avanti e indietro il busto, in accordo col fitto ticchettio dei ferri da calza. A un certo punto le donne interrompono il lavoro, si alzano e si dirigono con passo deciso verso il proscenio, dove si allineano parallelamente al pubblico. Questo modo di attraversare la scena e posizionarsi di fronte agli spettatori (uno stilema la cui «primavoltità» – neologismo di Bobi Bazlen – risale allo stupendo Kontakthof di Pina Bausch) è diventato nell’arco di un quarantennio uno stereotipo coreografico. Emma Dante lo ha usato in varie occasioni, sicché – vedendolo riproposto all’inizio di Misericordia – viene spontaneo chiedersi: «ancora?!» È una domanda-esclamazione che il nuovo spettacolo dell’artista siciliana (coprodotto dal Piccolo Teatro di Milano, dalla Compagnia Sud Costa Occidentale e dal Teatro Biondo di Palermo) susciterà probabilmente più di una volta in quanti conoscono il suo teatro. Anna, Nuzza, Bettina: questi i nomi delle tre donne, che campano vendendo di giorno i loro lavori a maglia e di notte i loro corpi. Nell’allineamento iniziale all’altezza del proscenio, le tre magliaie-prostitute discorrono animatamente (con parole e gesti in parte comicamente stilizzati) di un panino col prosciutto che è sparito dal frigorifero, e mostrando alcune fotografie illustrano al ragazzo, che ha nome Arturo, e il cui solo indumento è un pannolone, (ma il vero destinatario del racconto è il pubblico), il dramma che ha fatto di lui uno «scimunito», nato prematuramente da una donna (Lucia la zoppa) vittima di

un marito violento (un falegname soprannominato Geppetto), che durante la gravidanza l’ha brutalmente presa a pugni sul ventre. Mosse a pietà, Anna, Nuzza e Bettina hanno accolto in casa loro il bambino, orfano di madre, e lo hanno allevato come un figlio. Eccoci dunque, di nuovo, tra figure appartenenti a quel mondo socialmente marginale, regionale e dialettale (Nuzza e Bettina parlano in siciliano stretto, Anna in pugliese, Arturo non parla) che la regista-drammaturga Emma Dante predilige, e dal quale non sa e non vuole staccarsi (quando l’ha fatto, con La scimia, spettacolo di ambientazione piccolo-borghese tratto da Le due zittelle di Tommaso Landolfi, il risultato è stato deludente). Nell’intervista pubblicata sul programma di sala, Emma Dante parla di «una storia dotata di una precisa struttura, di una trama, di relazioni tra i personaggi, [di] un impianto drammaturgico compiuto». A me sembra che la trama di Misericordia sia pressoché nulla: non c’è azione narrativa, non c’è concatenazione di avvenimenti (mi riesce difficile, ad esempio, considerare un «avvenimento» l’atto di svuotare un sacco di plastica contenente una quantità giocattoli che si sparpagliano sulla scena e vengono rimessi nel sacco con un’operazione a otto mani tirata per le lunghe). Verso la fine dello spettacolo (che dura un’ora), le tre donne vestono Arturo con dei pantaloncini neri e una camiciola bianca (assimilandolo a un ligneo Pinocchio che è diventato un bambino grazie alle loro cure materne) e dopo averlo munito di una valigetta in cui hanno riposto pochi oggetti e 300 euro, lo inducono con parole affettuose ad avviarsi fiduciosamente (mentre in strada passa e suona la banda che da sempre eccita e incanta il ragazzino) verso quel-

Il futuro del Nepal è nei bambini Cinema Al Lux

per l’anniversario di Kam For Sud Nicola Mazzi

Simone Zambelli in Misericordia. (Masiar Pasquali)

la che sarà la sua nuova abitazione: un imprecisato istituto dove avrà una cameretta tutta per sé. «È un finale aperto alla speranza» dice Emma Dante. Le tre donne «si augurano che Arturo possa avere una sorte diversa dalla loro». A me sembra un finale vagamente fiabesco di scarsa plausibilità. Quanto ai «personaggi», si sa che quello di Emma Dante non è un teatro di scavo psicologico ma di espressività corporale: un teatro in cui la fisicità conta più delle parole, e la scrittura scenica più di quella drammaturgica. I personaggi della Dante sono anzitutto dei corpi posseduti, direbbe Pasolini, da «una disperata vitalità», che a tratti può diventare gioiosa, giocosa, dionisiaca. Anna, Nuzza e Bettina (Leonarda Saffi, Manuela Lo Sicco, Italia Carroccio) sono di una fisicità prorompente, sia quando parlano sia quando danzano al ritmo di una musica popo-

lare trascinante (la musica e la danza hanno grande rilievo in Misericordia), ma come «personaggi» sono poco articolate, «piatte» (flat, per dirla con E.M. Forster), e spesso richiamano altre figure femminili del teatro di Emma Dante. Complessivamente, insomma, sanno di ripetitivo, di déjà vu. La figura più riuscita di Misericordia è Arturo: lo «scimunito» mirabilmente incarnato dal ventiseienne danzatore-coreografo Simone Zambelli, che ne ha fatto un giovinetto dai movimenti rigidi, goffi o scomposti, improvvisamente capace di attingere la leggerezza, l’agilità, la grazia di un bambino festoso, di un folletto, di una creatura innocente. Dove e quando

La storia cinematografica del Nepal è abbastanza recente e, soprattutto fino agli anni 90, legata all’industria indiana di Bollywood con gli ingredienti classici: una storia d’amore semplice, un eroe, un antieroe, molte danze e canti, qualche combattimento, magari una partita a cricket e l’immancabile happy end. Da qualche tempo, per fortuna, la situazione è cambiata e sui circa 80-100 film prodotti annualmente in quel Paese alcuni si contraddistinguono per inventiva e originalità, tanto che si parla addirittura di una nuova Nouvelle Vague che sta emergendo. È il caso di White Sun del 2016 realizzato da Deepak Rauniyar (classe 1978), che sarà proiettato al Lux di Massagno la sera del 30 gennaio. Una proiezione speciale per sottolineare i venti anni in Nepal dell’associazione Kam For Sud. Un film intenso, che con uno stile realistico mette in luce una realtà sconosciuta ai nostri occhi e cioè la guerra civile nepalese. Un conflitto tremendo (lasciò sul terreno più di 16mila morti) che fa da sfondo alla storia narrata in White Sun. Il film racconta di Pooja, una ragazzina che può finalmente incontrare suo padre Chandra. L’uomo se ne era andato anni prima per combattere a fianco dei maoisti contro il regime monarchico. E ora rientra nello sperduto villaggio nepalese in cui vive la ragazza e la moglie, per seppellire il padre morto. Siamo nel 2015 e, a conclusione del processo di pace, sta entrando in vigore la nuova Costituzione del Paese.

Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino al 16 febbraio.

Amami con tenerezza

Incontri A colloquio con Klaudia Reynicke che, dopo Il nido, ha ora realizzato

Love Me Tender, accolto positivamente da pubblico e critica Nicola Falcinella Presentato allo scorso Festival di Locarno nel concorso Cineasti del presente, Love Me Tender è il secondo film della ticinese peruviana Klaudia Reynicke, già nota per Il nido (2016). In gara per il Prix du public al Festival di Soletta, la pellicola prodotta da Amka Film e RSI approda nelle sale giovedì, con un’anteprima mercoledì al Cinema Lux di Massagno (ore 20) alla presenza di regista e cast. È la storia surreale della giovane Seconda che non riesce a uscire di casa e che, alla morte della madre, è abbandonata anche dal padre.

Come nasce l’idea del film?

Il titolo cosa significa?

È ciò che potrebbe dire Seconda a se stessa. Il suo percorso è di evoluzione, impara a volersi bene. Naturalmente c’è anche la canzone di Elvis Presley. Amo il kitsch e gli imitatori di Elvis. Il film non è né dramma né commedia e gli imitatori rientrano in questo genere. A chi si è ispirata?

Mi piacciono i film surreali. Quando vidi Un chien andalou di Buñuel ci pensai per giorni. Ho una formazione da sociologa e da artista, questo film non arriva solo dal cinema, ma ho preso ispirazione da varie arti. Per esempio lo scontro iniziale viene dalle performance di Marina Abramovich.

Sono appassionata di cose surreali e di anti-supereroi. Sono cresciuta a Lima, in Perù, e guardavo in tv un supereroe che faceva tutto male e mi faceva ridere. E poi è un dramma su una lotta interiore, una cosa che non si vede spesso.

È un film sul corpo e sulla lotta tra Seconda e il mondo.

Seconda da una parte gestisce benissimo il suo corpo, allo stesso tempo non riesce a portarlo fuori di casa. È una battaglia dentro di lei, poiché non riesce a fare ciò che vuole di più: uscire. La guerra interiore le crea limiti che la fanno andare in conflitto con il mondo esterno. Quando lancia oggetti dalla finestra ride, è un gioco, cerca di farsi vedere, è un modo per comunicare.

Barbara Giordano in una scena di Love me Tender, di cui è protagonista.

È un film molto diverso da Il nido.

Il nido per me è stato una scuola per capire come funziona la macchina della finzione. Ho avuto la fortuna di produrlo e realizzarlo in fretta. Dovevo capire quello che non volevo più fare, come raccontare una storia classica. Lavorando a Il nido ascoltavo chi aveva più esperienza, ma non ne sono rimasta soddisfatta, mentre di Love Me Tender lo sono: è un film più personale e artistico. Non penso di poter fare qualcosa di classico ed essere felice del risultato, non mi basta raccontare una storia. Come ha scelto la protagonista Barbara Giordano?

Il personaggio di Seconda era scritto per una donna più adulta. Quando al provino ho visto Barbara mi sono accorta subito che avrebbe reso il film più luminoso. È un’attrice che può essere luminosa o scura e fa sentire allo spettatore la gioia o il dramma. Con lei il lavoro è stato naturale, è molto generosa, abbiamo parlato molto per trovare la giustezza e l’equilibrio del personaggio. È stato importante poter già provare dentro la casa del film, ha reso tutto più fluido. Anche essere una troupe piccola, come una famiglia, ha facilitato il lavoro.

Negli ultimi anni anche in Ticino si fanno parecchie pellicole di finzione. Come valuta questo momento?

Siamo amici tra noi, solidali, ci aiutiamo, cerchiamo di fare ciò che

amiamo senza andare via, anche se non abbiamo i soldi della Svizzera tedesca o francese e non è facile. Ciascun regista che si fa conoscere rappresenta una cosa positiva e questo momento di successi aiuta a continuare. Love Me Tender sta riscuotendo successo internazionale, è selezionato in vari festival.

Il successo internazionale è una sorpresa. Tiziana Soudani e Amka hanno creduto in me e in questo progetto fin dall’inizio. Siamo stati contenti della selezione a Locarno, ma temevamo si pensasse che fosse perché siamo ticinesi, invece Lili Hinstin non ci ha fatto regali. Andare al Festival di Toronto con giovani registi di tutto il mondo è stato fantastico e ha creato un interesse. Il film fa parlare del Ticino: all’estero devo sempre spiegare che è un film svizzero, anche se parlato in italiano. Quali reazioni si aspetta davanti a un film così strano?

Sembra più strano di quello che è, alla fine è una storia semplice. È un film che suscita emozioni diverse in ciascuno e lo spettatore deve decidere di lasciarsi andare. Anche chi guarda film più classici può trascorrere bei momenti con Love Me Tender. Del resto se ne parla anche perché è strano. Ci sono tante persone che si sentono isolate, a ogni proiezione qualcuno mi dice che si è identificato in Seconda.

Still da White Sun.

Si tratta di un nuovo inizio di un popolo che per anni è stato coinvolto in una guerra fratricida. Così come è un nuovo inizio quello famigliare, dove il padre Chandra deve fare i conti con una realtà diversa da come l’aveva lasciata. Ovviamente il tutto deve essere letto in chiave metaforica ed è lo stesso regista ad averlo spiegato in occasione della proiezione alla Mostra di Venezia nel 2016 (la prima volta per un film nepalese in un grande festival internazionale). In sostanza il corpo senza vita del nonno di Pooja rappresenta la vecchia costituzione e il regime monarchico dietro di essa, che muore per dare vita a un nuovo Nepal, quello per cui Chandra ha lottato per anni. Ma c’è di più: il film ha il punto di vista della giovane Pooja, ma anche quello di Badri, un orfano di guerra che Chandra ha trovato in giro, cui si è affezionato e che si è portato appresso rientrando a casa. Scegliendo di immedesimarsi in questi due bambini, il regista ci dà la sua chiave di lettura: è con loro che il Nepal deve rinascere e trovare la propria strada democratica, attraverso la convivenza e una ritrovata fratellanza. Una strada anche faticosa (l’uso della macchina a mano avvicina lo spettatore al loro dramma e ai loro sforzi fisici), ma è la sola e unica percorribile per dare loro un futuro.


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Cultura e Spettacoli

Eroine 2.0 e l’amore

Narrativa In una curiosa e pregevole operazione letteraria è stato chiesto a una serie di scrittrici italiane

di indossare i panni delle eroine dell’antichità

Laura Marzi Duemila anni fa, né più né meno, uno scrittore che si chiama Publio Ovidio Nasone decise di scrivere un’opera in cui le protagoniste erano tutte donne: Le eroidi. Si tratta di una raccolta di lettere d’amore in cui alcuni personaggi femminili della mitologia, da Elena di Troia a Penelope, Didone, si rivolgono al loro amato, perché il sentimento che nutrono per il destinatario delle lettere è così straziante che cercano sollievo, esprimendolo. Le lettere d’amore hanno infatti anche questo compito: non solo dare gioia a chi le riceve, ma alleviare la pena di chi le scrive e cerca, attraverso le parole, consolazione. Ovviamente per le eroine tragiche di Ovidio non era prevista nessuna forma di sollievo: cosa avrebbe mai potuto consolare Elena per la fine tragica che la attendeva, per essere stata la causa della distruzione di una civiltà intera? Questo Le nuove eroidi, pubblicato da Harper & Collins, non si discosta molto dalla versione originale del poeta latino: le protagoniste non trovano conforto. L’operazione letteraria che ha coinvolto alcune tra le scrittrici italiane più lette del momento, affinché indossassero i panni delle figure mitologiche del passato, racconta – inevitabilmente? – di donne tristi o disperate. Eccezion fatta per la scelta dell’autrice Valeria Parrella, novella Didone, che ha deciso di ribaltare la storia della regina di Car-

Peter Paul Rubens, Ero e Leandro, 1605 ca. (Keystone)

tagine e di darle quella facoltà che tutte abbiamo desiderato che avesse: lasciare Enea! Le altre scrittrici interpellate (Ilaria Bernardini, Caterina Bonvicini, Teresa Ciabatti, Antonella Lattanzi, Michela Murgia, Valeria Parrella, Veronica Raimo, Chiara Valerio) decidono di raccontare il dolore, in modi diversi, ovviamente. Va subito segnalato, infatti, che alcune hanno preferito attualizzare, ambientando nella contemporaneità i miti, le storie delle loro eroine. In questo caso fanno eccezione solo la Deianira di Chiara Valerio ed Elena

riscritta da Michela Murgia: inutile negare che ritrovare la moglie di Ercole e la regina di Sparta in un’ambientazione antica dà un certo senso di pace, come quando le cose sono al loro posto. È vero anche che gli anacronismi su cui si fondano le altre lettere in cui le protagoniste vivono ai giorni nostri sono godibili: molto interessante la scelta di Ilaria Bernardini e Caterina Bonvicini di raccontare il tema dell’emigrazione attraverso la storia di due eroine, Ero e Penelope, figlie del Mediterraneo. Si tratta in entrambi i casi di

testi ispirati a fatti realmente accaduti e la tragedia di Ero che nella versione contemporanea perde il suo amato in mare nel tentativo di approdare in Europa, è tra le lettere una di quelle che maggiormente esprime quel dolore inconsolabile che è al cuore del mito e della tragedia classici. Disperata è anche la lettera che Veronica Raimo scrive indossando le vesti di Laodamia: Protesilao in questo caso è un reporter che muore mentre si sta dedicando a un progetto fotografico che lei considera di scarso valore. Non glielo ha mai detto, però, come lui non

ha mai confessato alla sua compagna ufficiale di avere Laodamia come amante e di condividere con lei un desiderio profondo e una vita porno. La riscrittura del mito è stato uno dei punti di partenza degli studi di genere. Come poteva essere altrimenti? Se sui miti classici si fonda il nostro immaginario, rileggerli, reinterpretarli è apparso fin da subito uno dei primi atti da compiere per agire una rivoluzione del pensiero, come dimostrano il lavoro di Luce Irigaray e di Hélène Cixous, per esempio. Nel caso di questa raccolta, però, il ribaltamento lo aveva già fatto Ovidio 2000 anni fa, dando la parola, scegliendo come protagoniste, le eroine, di solito relegate a ruoli esclusivamente secondari. Quale il senso di questa raccolta, allora? Sicuramente riportare alla mente le storie di questi personaggi a cui è dedicata una sezione in fondo al libro che ci fa rispolverare la memoria: un conto, infatti, è ricordarsi di Elena, ma certo non è scontato sapere chi fosse Laodamia, a meno che non si sia freschi di liceo, ma di uno di quelli in cui si studia parecchio! Più in generale il valore della raccolta, al di là delle singole lettere quasi tutte di pregio, è riportare queste eroine nel mondo contemporaneo e dare loro cittadinanza, almeno letteraria. Bibliografia

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Cultura e Spettacoli

Un mese scintillante a San Pietroburgo Musica/1 In una stagione che eccezionalmente non ha visto la neve, sono andati in scena una serie di concerti

di indiscutibile valore che hanno confermato ancora una volta la grandezza musicale russa

Francesco Hoch A San Pietroburgo, da dicembre a gennaio, tutti erano in attesa della neve che non è arrivata: una prima assoluta nella sua storia. Se il paesaggio e il cielo sono rimasti grigi, il cartellone culturale invece, prima, durante e dopo le Feste è brillato riccamente, e i russi ne hanno approfittato ampiamente, talvolta anche toccando il fondo dei loro risparmi per partecipare ai grandi eventi. La città di Vladimir Putin investe da tempo nella cultura, specialmente musicale, attorno a due pilastri fondamentali, quali il Teatro Mariinskij con le sue tre sale e la Philharmonia con la Grande e la Piccola Sala. I protagonisti di riferimento sono i direttori Valerij Gergiev per il Mariinskij e Yuri Temirkanov per la Philharmonia, entrambi molto apprezzati anche nel nostro Ticino, dove più volte si sono presentati con le loro orchestre.

Nella città russa si respira la grande tradizione musicale grazie a nomi di spicco e a un programma fitto Quest’anno, la novità incontrata a San Pietroburgo è consistita nel restauro appena iniziato dello storico Palazzo della Radio di Leningrado che verrà affidato a Teodor Currentzis che si è ormai affermato in tutto il mondo come uno dei più importanti e originali direttori del momento. Anche per l’Eifman Ballet, in attesa da tempo, si sta costruendo un teatro, appositamente dedicato alla sua attività, mentre il restauro del grande Conservatorio Rimskij-Korsakov purtroppo langue impacchettato da cinque anni, in assenza di lavori. Siamo riusciti a penetrare nel folto programma di concerti, opere, balletti

e anche del teatro, del circo e delle marionette, incontrando conferme e sorprese interessanti che hanno portato ad alcune riflessioni. Naturalmente, durante le feste, l’aspetto dell’identità russa è stato prorompente. La Chovanscina di Mussorgskij, al bellissimo vecchio Mariinskij, è stata rappresentata con una messa in scena tipicamente tradizionale, dove l’anima russa con la sua profonda religiosità si è espressa pienamente anche per merito di un cast di cantanti di livello. Questo sentimento intimo è stato immesso anche nel Don Carlo di Verdi; le opere italiane non potevano mancare, dato che la Russia ha sempre apprezzato lo stile italiano, anche se più aperto nella sua essenza espressiva. Per il Verdi al Mariinskij, musicalmente più interiore, per la scena ci si è lanciati in dimensioni più astratte, meno realistiche, più moderne. Anche la Salomè di Richard Strauss non poteva che essere moderna, con luci e costruzioni geometriche in bianco e nero, cantanti ottimi e una grande Mlada Khudoley nella parte di Salomè, alla fine immersa in un rosso sangue che non poteva mancare. Purtroppo, invece, è risultato piuttosto piatto e turistico il balletto di fine anno, lo Schiaccianoci di Cajkovskij, sia nella messa in scena sia nella coreografia e nell’esecuzione musicale. Il riscatto è avvenuto con uno Schiaccianoci prodotto dal Teatro Skaski, da un cosiddetto piccolo Teatro stabile dedicato alle fiabe (cento persone vi lavorano in vari settori), che ha tenuto in attenzione con maestria, vivacità nella recitazione e nella messa in scena, un folto pubblico di ragazzi. Bellissima la tradizione dei teatri di marionette in Russia e della loro importante produzione, tanto che è stata rappresentata al Mariinskij anche l’opera di Rimskij-Korsakov, Il Gallo d’oro, basata su una fiaba, alla quale hanno assistito per la durata di ben tre ore anche numerosi giovanissimi. Una tradizione insomma che continua,

Il Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. (Keystone)

come pure quella delle rappresentazioni, assolutamente originali per il loro impianto narrativo, del Circo nel suo monumentale stabile alla Fontanka. È vero che il compositore di San Pietroburgo, Rimskij-Korsakov, non aveva potuto vedere la sua opera-fiaba perché censurata: sono bastati uno zar ubriaco e un esercito di poveracci a far ricordare la guerra russo-nipponica di allora, contro la quale studenti del Conservatorio della Città si erano opposti, con il conseguente licenziamento di Rimskij, allora direttore dell’Istituto. Un’attualizzazione della fiaba, oggi, avrebbe portato a conseguenze simili. Un’altra grande tradizione che abbiamo potuto apprezzare è stata la qualità eccezionale e unica dell’apparato orchestrale della Philharmonia,

sotto la direzione del maestro stabile Yuri Temirkanov che dall’alto della sua esperienza ha plasmato le seducenti sonorità degli strumenti che si sono fusi in un’intima e profonda amalgama musicale, in un toccante concerto dedicato alla memoria di Maris Jansson con brani di Mahler e Brahms. Con Ion Marin, direttore che vive da tempo a Lugano e regolare ospite della Philharmonia, abbiamo potuto ascoltare questo stile aggiornato nel Requiem di Mozart, forgiato con grande sicurezza ed equilibrio. Alla chamber hall della Philharmonia, il magnifico violinista Andrey Baranov (più volte invitato a Lugano) ha dimostrato da solista, con profonda intensità, la provenienza dall’importante scuola russa.

Una speciale novità interpretativa a San Pietroburgo è stata portata da Teodor Currentzis con la sua splendida serata di invenzioni su musiche di Rameau alla Sala Capella. La forza del teatro di prosa, l’abbiamo potuta poi gustare al Teatro di Dodin con le Tre sorelle di Cechov e nel Misantropo di Molière allo storico Komissargevskoy Theater. Una particolarità indicativa dell’impegno culturale in questa città è rappresentata dall’albergo Ambassador, che ha designato un responsabile per assicurare attività originali di avvenimenti non prettamente turistici. Per l’inizio delle rassegne di musica contemporanea bisognerà invece attendere i mesi di febbraio e marzo, con l’arrivo forse anche della neve.

La prima di Alexander

Musica/2 Il prossimo 6 febbraio al LAC Jérémie Rhorer dirigerà l’OSI e il pianista Alexander Toradze

eseguendo brani di Glinka, Shostakovich e Cajkovskij Enrico Parola «Quando debutto in una città o in una sala preferisco farlo suonando con l’orchestra, se poi al pubblico sarò piaciuto potrò tornare per un recital solistico; anche perché i tre quarti dei miei concerti sono con l’orchestra». A questa motivazione personale se ne potrebbe aggiungere una squisitamente artistica per introdurre la prima volta di Alexander Toradze al LAC, dove settimana prossima sarà accompagnato dall’Orchestra della Svizzera Italiana e da Jérémie Rhoer nel secondo concerto per pianoforte di Shostakovich: del grande compositore russo il pianista georgiano è un interprete di riferimento assoluto, ha inciso e portato in tutto il mondo le sue pagine sinfoniche con pianoforte. Tecnica granitica e profonda conoscenza dell’animo e della storia russa, anzi sovietica, sono fondamentali per penetrare nell’intimo dell’opera di Shostakovich: nonostante scrisse questo brano per i diciannove anni del figlio Maxim, buon pianista, è evidente come la baldanzosa, quasi euforica vitalità dei due movimenti veloci esprima la gioia di poter comporre liberamente dopo che la morte di Stalin avvenuta quattro anni prima (1953) aveva allentato la censura sull’arte da parte degli organi del partito comunista.

Il pianista Alexander Toradze. (OSI)

Shostakovich nutriva un sincero desiderio di creare musica per lo Stato sovietico, ma ben presto si rese conto che quello Stato non voleva accettare nessuna forma d’arte che non fosse in grado di capire. Ad esempio la sua Lady Macbeth del distretto di Mzensk, fu tacciata nel 1936 di «formalismo piccolo borghese», accusa cui il compositore reagì sia chiudendosi in pagine di introversa malinconia (il secondo movimento del concerto ne è struggente esempio), sia puntando su un ostentato fervore nazionalistico, da cui nacquero le sinfonie quinta e settima, composta nella Leningrado assediata dai tedeschi. Ma nel 1944, con la nona sinfonia,

Shostakovich tornò a scontrarsi con l’ostracismo dei burocrati che non apprezzarono il carattere gioioso del brano («perversione formalista» fu l’insindacabile giudizio), attendendosi invece un monumento solenne dedicato alle vittorie di guerra russe. «La musica è o può o deve essere politica? Ci sono volte che probabilmente deve esserlo», riflette Toradze, nato nel 1952 a Tbilisi, oggi Georgia ma allora Unione Sovietica, «musica e musicisti non possono essere separati, quindi se non possiamo separare i secondi non possiamo isolare la prima. Non parlo di problematiche locali, partiti e fazioni: per politica intendo le grandi battaglie per le libertà, per

uno spirito più libero e per aprire canali di comunicazione. Lasciare il proprio Paese e la propria vita alle spalle per andare in un nuovo Stato è in qualche modo un’azione politica; non voglio mettermi su un piedistallo, ma è quello che ho fatto anch’io, trasferendomi in America dove avevo vinto nel 1977 il Van Cliburn (concorso texano considerato il più selettivo al mondo, ndr.): era il 1983, ero in tournée con l’orchestra del Bolshoj e arrivato in Spagna chiesi asilo all’ambasciata statunitense; da lì poi andai negli States. E prima di me l’hanno fatto in Russia tanti grandi musicisti: una goccia dopo l’altra, il vaso si è riempito e qualcosa è successo: penso che ciò che è accaduto nel nostro Paese negli ultimi anni sia dovuto anche all’atteggiamento di tanti musicisti e artisti; ne sono certo e ne sono molto orgoglioso». Oltre all’orgoglio c’è la gratitudine verso un destino «fortunato, da privilegiato: faccio quello che ho sempre voluto fare e ho una vita piena. Più che soddisfazione parlerei però della sensazione di aver fatto qualcosa di giusto, perché per arrivare dove sono ora i sacrifici e l’impegno sono stati enormi». I primi anni in Russia (ha studiato al Conservatorio di Mosca) furono infatti tutt’altro che agiati: «Mi capitava non solo di esercitarmi, ma anche

di esibirmi in pubblico su pianoforti difettosi, con alcune corde rotte; rimediavo come potevo, anche mettendo tra una corda e l’altra delle gomme di cancelleria. E mi ero talmente abituato a sedie con le gambe difettose che durante i primi tempi in America mi trovavo disorientato perché lì i panchetti erano perfetti». La sua descrizione della musica russa («è estremamente avvincente, drammatica e molto profonda perché trasmette emozioni umane potenti e riflette la storia del popolo russo») è la perfetta sintesi degli altri due brani in programma, l’ouverture dall’opera di Glinka Russlan e Ludmilla, e la terza sinfonia di Ciajkovskij, conosciuta come la Polacca.

Concorso «Azione» mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto di giovedì 6 febbraio al LAC di Lugano (20.30). Il Maestro Jérémie Rhorer dirigerà l’OSI e il pianista Alexander Toradze. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi Buona fortuna!


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Cultura e Spettacoli

Vittima dei ghiacci

Eleganti, ma senza arroganza

Personaggi Fra i membri della spedizione «Far Eastern Party» (1911-1914) vi era anche

il basilese Xavier Mertz, uomo esperto e leale, cui toccò una fine atroce

Benedicta Froelich Per quanto, al giorno d’oggi, ciò possa facilmente apparire improbabile a molti esponenti delle giovani generazioni, c’è stato un tempo in cui un viaggio fino al Polo costituiva un’avventura ben più azzardata di qualsiasi futuristico lancio spaziale. Negli anni dieci del ’900, la conquista di Artide e Antartide rappresentava infatti il supremo obiettivo colonialista di ogni nazione politicamente rilevante; e forse non in molti sanno che l’unico esploratore polare di nazionalità svizzera ad aver partecipato a quella magica stagione è stato, in realtà, uno dei membri più importanti dell’Australasian Antarctic Expedition, presente in territorio antartico tra il 1911 e il 1914 – nello stesso periodo in cui le più celebri spedizioni di Scott e Amundsen si sfidavano per la conquista del 90° parallelo. Xavier Mertz, questo il nome dell’esploratore elvetico, era nato a Basilea nel 1882, e sebbene all’epoca della sua partenza per il Polo Sud non avesse ancora trent’anni, era già noto come eccellente sciatore e alpinista; il che gli permise di superare l’ostacolo presentato dal suo passaporto straniero e di entrare nella cerchia dei prescelti per la spedizione antartica australiana, guidata dal coetaneo e «veterano del Polo» Douglas Mawson – i cui obiettivi, prettamente scientifici, andavano ben oltre la semplice «corsa al Polo» per incentrarsi piuttosto sulle ricerche meteorologiche e geologiche. Mertz venne così accolto come responsabile delle mute di cani da slitta, rivelandosi non solo un lavoratore infaticabile ma anche un uomo attento e affettuoso nei riguardi dei compagni d’avventura – su tutti, l’inglese Belgrave Ninnis, a cui si sarebbe particolarmente affezionato. E fu proprio grazie a Xavier che la bandiera rossocrociata poté a lungo fare bella mostra di sé alle latitudini antartiche, sventolando dalla cima della slitta da lui pilotata. È quindi facile immaginare l’eccitazione di Mertz e Ninnis nell’essere prescelti come soli compagni di Mawson per la marcia del «Far Eastern Party», destinato a esplorare le coste dell’area nota come Victoria Land: e certo niente lasciava presagire l’orro-

Lo sfortunato esploratore svizzero Xavier Mertz (18821913).

re a cui il povero Xavier era destinato ad assistere poche settimane dopo la partenza, quando Belgrave e la sua slitta vennero inghiottiti da un crepaccio apertosi di colpo nel terreno ghiacciato. A nulla valse la disperazione di Mertz, a lungo chino sulla voragine a chiamare il nome dell’amico; lui e il capospedizione si ritrovarono d’un tratto compromessi dalla perdita della maggior parte dei cani e delle scorte di cibo – e a ben cinquecento chilometri dalla base di Cape Denison, dove gli ignari compagni ancora li attendevano. I giorni successivi sarebbero stati un vero e proprio calvario: seppure devastato dalla perdita di Ninnis, Mertz avrebbe stretto i denti e, insieme a Mawson e ai sei cani superstiti, proseguito in una marcia che appariva ormai senza speranza. Ma il fato avverso li colpì nuovamente quando Xavier cominciò a mostrare i segni di un progressivo deterioramento fisico e mentale, cadendo, nel giro di pochi giorni, in una sorta di coma. La teo-

ria più accreditata sulle cause di questo crollo psicofisico ipotizza un avvelenamento dovuto al consumo di fegato di cane Husky, molto ricco di vitamina A e quindi tossico per l’organismo umano; e per quanto Mawson abbia accudito il compagno meglio che poteva, cercando di nutrirlo e d’impedire che si facesse del male nei momenti di peggior deliquio, il declino di Mertz lo portò dall’incoscienza alla morte con agghiacciante quanto prevedibile rapidità. Rimasto ora davvero solo nel raggelante vuoto della costa antartica, ad ancora centosessanta chilometri da Cape Denison e privo di alcun genere di sostentamento, Douglas seppellì con solenne dolore il compagno e, come un martire, proseguì verso la meta, sicuro di trovare anch’egli la morte lungo la via. Tuttavia, contro ogni previsione, dopo quasi un mese di sofferenze indicibili riuscì a raggiungere la meta – sebbene in uno stato tale da spingere gli increduli compagni a domandargli quale dei

Jazz Esce l’album

tre dispersi lui fosse. E per quanto, negli ultimi anni, più di un biografo privo di scrupoli sia giunto ad accusare Mawson di aver «causato» la morte di Mertz (così da potersi salvare grazie a un tempestivo atto di cannibalismo), qualsiasi serio studioso della storia dell’esplorazione polare può facilmente confermare come il leader australiano non meriti affatto una simile, ridicola insinuazione; e chi scrive ritiene che, lungi dal rappresentare un insulto a Mertz e Ninnis, la miracolosa sopravvivenza di Douglas appaia piuttosto come il suo tributo più onesto e toccante alla preziosa memoria di chi non ha mai fatto ritorno. Certo, davanti a nomi altisonanti come quelli dei già citati Amundsen e Scott, è facile commettere l’errore di considerare Xavier Mertz come una semplice figura secondaria nell’olimpo della grande avventura polare di inizio ’900; tuttavia, ogni singolo particolare della quieta, generosa modestia del giovane basilese manifesta e testimonia quell’antica (e oggi quasi anacronistica) grandezza d’animo che ha sempre contraddistinto ogni esponente dell’epoca d’oro delle esplorazioni tra i ghiacci – dai leader e comandanti, fino ai semplici uomini di fatica. Forse perché, all’epoca, tali imprese quasi suicide non erano considerate solo avventure estreme da intraprendersi in cerca di gloria, quanto piuttosto autentiche immersioni nei più reconditi abissi dell’animo umano; una ricerca del Graal riservata ai rari, nobili individui disposti a praticare quella che l’esploratore Apsley Cherry-Garrard chiamava «la rinuncia del sé», mettendosi al servizio altrui per conferire così uno scopo più alto all’esperienza terrena. E ogni cosa in Xavier Mertz – dalla sua abnegazione e spirito di sacrificio, fino all’immane desiderio di riuscire, e al toccante rapporto con Ninnis – ci riporta a questi ideali eterni, troppo spesso accantonati nella frenesia odierna del «tutto e subito» a cui siamo ormai assuefatti.

di un trio elvetico di grande classe

Un disco che si accorda perfettamente con la filosofia musicale del jazz, così come la delinea il giornalista e pianista americano Ted Gioa nel suo stupendo, illuminante L’arte imperfetta. Riflessione sul jazz e la cultura moderna. E se l’analogia tra i titoli è assolutamente casuale, il legame di fondo tra la teoria (il libro) e pratica (il disco) è tanto calzante da meritare l’invenzione di un duopack a scopo didattico. Dolcemente imperfetto (Unit Records, 2019), opera prima del trio svizzero composto da Thomas Danzeisen (sassofoni), Brooks Giger (contrabbasso) e Santo Sgrò (batteria), è un album che bisognerebbe evitare di etichettare, anche soltanto per non spaventare l’ascoltatore comune. Parlarne come di un disco di improvvisazione jazz ne sminuirebbe la fisionomia. Prendiamola dunque alla larga e proviamo a definirlo come un progetto di poesia che sceglie la via musicale per esprimersi. Basterebbero gli stessi titoli dei tredici brani in scaletta a dare una dimostrazione del potere evocativo messo in opera dalla fantasia dei musicisti. Un suono rilassato, solare ma allo stesso tempo concentrato e denso di esperienza. I tre fissano su disco la ricerca difficile, e anche scomoda, che da tempo perseguono sul palco. Senza scendere a compromessi suonano la musica in cui credono: imperfetta forse, ma assolutamente sincera. /AZ

Bibliografia

Xavier Mertz, Verschollen in der Antarktis. Das Tagebuch, Basilea, Echtzeit Verlag, 2013.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 gennaio 2020 • N. 05

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Prove d’orchestra Fffortissimo è un libro che solo Alberto Sinigaglia era in grado di scrivere, grazie alla sua famigliarità con i grandi direttori d’orchestra. Leggerlo ha voluto dire per me tornare indietro nel tempo, ricordando gli anni, dal ’62 al ’65, trascorsi all’Auditorium di Torino, in compagnia dell’orchestra e del coro della Rai, in qualità di cameraman addetto alle riprese televisive. Chiesi subito di essere assegnato all’Auditorium. Come ultimo arrivato nella squadra ero addetto alla telecamera meno impegnativa. Issato su un trabattello al fondo del palcoscenico, a sinistra per chi siede in platea, dovevo inquadrare il direttore il quale, dando con il suo gesto il segnale di attacco a una sezione dell’orchestra (di volta in volta violini primi o secondi, violoncelli, contrabbassi, trombe, corni, ecc.) indicava al regista nel pullman di ripresa l’esatto momento in cui «staccare» sugli esecutori. Succedeva talvolta, anche se per fortuna di rado, che l’inquadratura mandata in onda centrasse una sezione

non intenta a suonare. Se l’infortunio capitava sulle trombe era un guaio ancora più grosso perché si vedevano gli esecutori che, rovesciato lo strumento, ne facevano colare a terra la saliva accumulata soffiandoci dentro. Restavo in auditorium anche a telecamere spente perché le prove dell’orchestra sono più istruttive e coinvolgenti dell’esecuzione con il pubblico. Seduto in platea al buio, assistevo non visto al dialogo o al confronto fra direttore e orchestra. Prima scoperta: l’orchestra è un corpo unico, compatto, un soggetto ben diverso dai singoli strumentisti. Quanto al direttore, non è sufficiente che sia un profondo conoscitore dello spartito dell’opera che deve eseguire, ma deve dimostrare anche il carattere di un leader, di più, di un vero e proprio despota. Saliva sul podio un direttore di fama consolidata ma al suo debutto con quell’orchestra. Al primo turno di prove, gli orchestrali si comportavano in modo da sperimentare fino a che punto potevano spingere

la loro autonomia. Se il direttore si mostrava accomodante e collaborativo con le loro richieste era finita, gli mangiavano in testa. Ogni tentativo di innovare qualcosa, dal modo di eseguire l’assolo di un singolo strumento, allo spostamento di una sessione sul palcoscenico, le reazione era sempre «si è sempre fatto così». Le differenze nel comportamento dell’orchestra erano abissali. Le prove terminavano alle 17 e 30 in punto. Con il direttore «democratico» alle 17 e 30 in punto a un cenno del rappresentante sindacale l’orchestra smetteva di suonare, gli archi non terminavano nemmeno la frase iniziata. Con Sergiu Celibidache, magnetico despota dal gesto imperioso, nessuno osava fargli notare che l’ora della fine era arrivata e si andava avanti fino alle 20. Fra i tanti direttori che ho visto in azione il mio preferito era Gianandrea Gavazzeni che palesava una vocazione da didatta, non si limitava a chiedere una diversa interpretazione di un determinato passaggio, ma ne

spiegava i motivi. Ogni volta era una piccola e preziosa lezione di musicologia. In quegli anni alla Rai i sindacati spadroneggiavano perché i direttori, di nomina partitica, non osavano arginarli. Un esempio: il direttore non poteva chiedere a un singolo esecutore di ripetere un passaggio. Se il suo orecchio aveva avvertito un’imperfezione, cosa che capita soprattutto nei fiati quando il suono emesso non si può correggere, il brano poteva essere sì ripetuto ma da tutti i componenti della sessione. Gli autori contemporanei sovente danno molto rilievo alle percussioni. Non ricordo il nome dell’autore di un brano nel quale agivano ben quattro grandi timpani. La regista della ripresa televisiva, per bilanciare l’inquadratura, aveva fatto collocare un gradino sotto i timpani la sezione dei flauti anche loro in quattro. Al termine di una prima prova i flautisti protestano, i colpi di tamburo impediscono loro di ascoltare il suono in uscita dallo strumento e andare in sintonia.

La regista, rassegnata, sta per spostarli quando il primo flauto fa una proposta: se ci date un compenso extra di 50 mila lire restiamo. E così fu. Non dimenticherò mai il mio primo giorno di lavoro all’auditorium. L’orchestra provava un lavoro di Igor Stravinskij, la Sinfonia di Salmi, per coro e orchestra. Nella prima pausa scendo nell’atrio dell’ingresso artisti, dove c’è la macchina del caffè. Sto armeggiando per averne uno quando due pinze d’acciaio artigliano le mie sacre natiche. Mi volto e scopro che le pinze sono le mani di un soprano che si profonde in scuse: «Perdonami, ti ho scambiato per un collega, un tenore che sta dietro di me e mentre cantiamo ne approfitta per toccarmi il sedere». Quando la musica ispira pensieri sublimi. A proposito di questo autore, resta memorabile l’affermazione di un allievo del Conservatorio: «La musica moderna è nata a Parigi il 25 giugno 1910 quando Stravinskij diresse il suo Uccello di fuori».

spazio a cui aveva sempre pensato con parole gradevoli come living e loft, le apparve per quello che era, 28 metriquadri occupati da un divano che di notte diventava letto, da un tavolo da pranzo troppo grande, da una poltrona di pelle sfondata al centro e da una libreria dove i libri giacevano accatastati senza un ordine. Dietro due porte chiuse, un bagno angusto oppresso da 4 riproduzioni di Chagall perennemente umide e la cameretta, 10 metri quadri di cui Sara si lamentava ininterrottamente. Sulla parete in fondo una cucina dipinta di un rosso chiassoso. «Questa non è una casa, è una tana», diceva Sara. «Sei l’unica che non dorme con l’odore delle cotolette sotto il naso, taci e ringrazia». Dialoghi ricorrenti: «Non posso invitare nessuna delle mie amiche». «Neanch’io potevo invitare le mie amiche quando avevo la tua età». «Non è vero. Il nonno era ricco».

«Il nonno non era ricco. Era normale». «Beh, almeno era normale. Voi non siete neanche normali» Chissà se provando, per una volta, a non pronunciare la frase prevista, la realtà sarebbe cambiata. Questa non è una casa, è una tana. Hai perfettamente ragione, figlia mia, questa non è una casa è una tana scavata nella terra per difendere me te e tuo padre da una denuncia per vagabondaggio. Abbiamo una «fissa dimora». E comunque non più per molto. Doveva dirlo a Sara che non pagavano il mutuo da sette mesi? «Voi non siete neanche normali». Si dice o non si dice ai figli che le figure genitoriali sono nella merda fino al collo? Si ripropose di chiederlo al dottor M. e subito dopo si ricordò che non poteva più permettersi nemmeno il suo conforto. Fra due ore sarebbe andata all’ultima seduta. Gli avrebbe spiegato che non poteva saldare, per ora, il debito dell’ultimo mese e che comunque non era in grado di far fronte nell’immediato futuro ecc. ecc. Per un attimo il pensiero

dell’austero accogliente silenzio di M. le provocò un leggero sollievo. Si sarebbe messa la gonna grigia, quella con i bottoni davanti. Ne avrebbe sbottonati due. A M. non sfuggiva mai niente. Anche se non commentava che molto raramente le sue illegittime provocazioni. Probabilmente le avrebbe offerto un nuovo mese di credito. No, non per la promessa insita nei due bottoni slacciati, ma perché, nonostante tutte le ingessature freudiane a cui si sottoponevano entrambi, dopo undici anni, probabilmente, si era affezionato a lei. Come un parente. Come uno zio a pagamento. «Essere senza soldi si addice alla condizione di giovinezza», gli aveva detto nel corso della seduta della settimana scorsa, con un’espressione spavalda, «siamo sempre stati giovani, io e Tom. Giovani, poveri, piuttosto belli e molto intelligenti». La prima e la terza condizione si erano rivelate transitorie. La seconda persistente. La quarta da dimostrare. Ma questo non doveva dirlo a nessuno. Neppure a sé stessa. (Continua)

na aveva guardato al pericolo del terrorismo con il piglio tipico della tradizione action: si tratta di 24 (Fox, 2001-2014), uscita pressoché in contemporanea con gli attentati dell’11 settembre, con Kiefer Sutherland nel ruolo del protagonista Jack Bauer, agente federale dell’antiterrorismo di Los Angeles. Seguendo uno schema fisso e ripetitivo (ogni stagione è una giornata di Bauer, ogni episodio un’ora della giornata), 24 affrontava ogni volta una minaccia esterna (un attentato, una bomba nucleare, un’epidemia) che il protagonista fronteggiava in maniera diretta, con abilità ed eroismo, senza il rischio di inganni, doppiogiochismi o letture parallele. Ma il filone prevalente e più tradizionale rimane quello della lotta al terrorismo, declinato in forme diverse che vanno dallo spionaggio agli apparati deviati dell’intelligence. In Quantico (Fox, 2015-2018), per esempio, un gruppo di reclute addestrate dall’FBI nasconde un potenziale terrorista intenzionato a progettare il più grande attentato dopo

quello delle torri gemelle; The Looming Tower (Hulu, 2018), invece, risale la corrente degli eventi fino al periodo precedente l’11 settembre, focalizzandosi su come le tensioni e le rivalità tra FBI e CIA alla fine degli anni 90 abbiano lasciato campo aperto alla nascita e al consolidamento della minaccia rappresentata da Bin Laden e Al-Qaeda. Anche la serialità britannica, in particolare quella del servizio pubblico, ha cominciato a interrogarsi sui complessi nodi della politica internazionale. Bodyguard (BBC 2018, disponibile su Netflix nel resto del mondo) vede Richard Madden nei panni di David Budd, un veterano dell’esercito reduce dall’Afghanistan, cui dopo aver sventato un attentato su un treno a Londra, viene affidato il compito di proteggere la ministra dell’interno, dalle posizioni conservatrici e interventiste. La serie intende proprio giocare sullo scarto tra gli interessi che la guerra scatena nella politica e il rifiuto di chi la guerra l’ha

vissuta sulla propria pelle. Sul tema degli immigrati di seconda generazione si sofferma, invece, Informer (BBC 2018): il giovane Raza, di origini pakistane, viene avvicinato e costretto da un agente dell’antiterrorismo a mettersi sotto copertura e informarlo di quel che accade nella propria comunità. Una serie che introduce questioni centrali nel mondo contemporaneo, come la sicurezza, il multiculturalismo, le identità multiple della società globale. L’elenco delle serie dedicate ai numerosi focolai di tensione sarebbe lungo. Dietro le costruzioni narrative, le scelte linguistiche, le molteplici contaminazioni tra generi, le serie citate condividono una cornice comune: esse sono spesso esplicita manifestazione di quel «soft power» teorizzato da Joseph Nye, che consente a una nazione di imprimere un’immagine d’influenza e persuasione da spendere a proprio vantaggio nello scenario internazionale della globalizzazione.

Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/1 Della loro povertà avevano sempre riso. Non della povertà in generale. A quella, se capitava di parlarne, dedicavano la sommessa indignazione con cui si stigmatizzano le Grandi Ingiustizie Mondiali. Non li riguardava da vicino. Si materializzava in bambini nudi con la pelle scura, così spossati da non avere la forza di allontanarsi le mosche dalle palpebre. Non sei mai povero nei Paesi ricchi. Al massimo sei senza soldi. Loro erano senza soldi. «Non so se te ne sei reso conto, ma siamo rimasti senza un soldo». Gli avrebbe detto proprio così. Avrebbe aperto il frigorifero, dove una crosta di Parmigiano, due mezzi limoni e una barretta di muesli sottolineavano il vuoto e avrebbe coraggiosamente sorriso. L’importante era riuscire a sorridere. Finché sorridi ogni concreta mutazione di status è esclusa. Ricchi non erano mai stati, e nemmeno benestanti, Betta e Tom. Ogni tanto qualche offerta di lavoro incassata come un colpo di fortuna, portava in casa improvvise allegrie spendaccione.

Qualche turno di doppiaggio per Betta, tre mesi sul set come aiuto dell’aiutoregista che Tom non osava rifiutare. Dieci anni fa l’avrebbe fatto, ma sapeva di non poterselo più permettere. Da 13 mesi, comunque, quella sua nuova modestia accomodante non veniva più messa alla prova. Nessuno proponeva lavoro. Né a Betta, diplomata attrice da un corso triennale intitolato a Memè Perlini, né a Tom, autore del lungometraggio Gli schiavi della libertà, applaudito fuori concorso al festival di Locarno. La posta elettronica, consultata affannosamente ogni due ore, non portava altro che inviti alle proiezioni e alle presentazioni dei film degli altri, pubblicità di pillole che pompavano il pene, occasioni speciali per vacanze impossibili. I telefoni cellulari tacevano. Betta si guardò attorno alla ricerca del suo, non era mai troppo lontano da lei. Lo ritrovò e, per un attimo, lo guardò intensamente. Inutile: non emetteva alcun richiamo. Poi ricominciò a guardarsi attorno, quasi dovesse cercare ancora qualcosa. Quello

A video spento di Aldo Grasso Persuasione istituzionale Quando va in onda per la prima volta la serie tv Homeland, (il 2 ottobre 2011 sul canale premium cable Showtime), sono trascorsi dieci anni dagli attentati dell’11 settembre e gli Stati Uniti stanno facendo i conti con la faticosa ricostruzione di un’identità ferita e con gli ultimi nefasti esiti dell’estenuante guerra in Iraq. Gli americani (ma non soltanto loro, tutte le società occidentali) hanno imparato in quel decennio a conoscere il terrorismo di matrice islamica e a convivere con un sentimento latente di paura e precarietà. Questa angoscia si è riversata nell’industria dell’immaginario attraverso serie televisive che hanno iniziato a indagare i lati oscuri della lotta al terrore, le contraddizioni del potere, il mutato e quanto mai incerto e instabile quadro internazionale, al punto di riuscire, in alcuni casi, persino ad anticipare e prevedere il corso reale degli eventi. Homeland ha rappresentato per certi verso l’emblema di questo nuovo inizio, il trionfo del disincanto sull’illusione, la

ricerca impaziente di nuovi eroi (spesso femminili) attraverso cui interpretare e invertire quella rotta di «fine della storia» di cui parlava Francis Fukuyama. «Nessuna serie – ha scritto Cynthia Littleton su “Variety” – ha lavorato più duramente per mostrare uno specchio della realpolitik nel mondo post-11 settembre». Come sostiene il politologo francese Dominique Moïsi nel libro La geopolitica delle serie tv. Il trionfo della paura, infatti, «Homeland è l’esempio più sintomatico e più tipico di una cultura della paura che nasce negli Stati Uniti prima della tragedia dell’11 settembre 2001, ma che si diffonde in maniera spettacolare da allora […]. Troppo passiva, troppo fiduciosa in sé stessa di fronte alla minaccia terrorista prima dell’11 settembre 2001, l’America avrà una reazione eccessiva in seguito a quei tragici eventi, senza interrogarsi seriamente sulla razionalità, se non sulla moralità di ciò che metterà in atto». Già prima di Homeland, in effetti, la serialità america-


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