Azione 31 del 1 agosto 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 2 agosto 2016

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Azione 31

Società e Territorio La storia di Beatrice Vio, schermitrice a cui lo sport agonistico ha salvato la vita

Politica e Economia Terrorismo e immigrazione percepite come minacce alla nostra identità

Ambiente e Benessere La casa del futuro sarà energeticamente autosufficiente ma ci sono ancora molti problemi da risolvere perché il sogno si realizzi

Cultura e Spettacoli Il Musée d’Orsay di Parigi omaggia il grande artista svizzero Charles Gleyre

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Per il bisogno di un lieto fine

Fervono i preparativi in Piazza Grande

di Alessandro Zanoli

di Fabio Fumagalli

Reza Khatir

Ogni giorno, puntuale, la notizia arriva. Come in una serie televisiva, potremmo dire: ogni giorno una nuova puntata del racconto terribile di questa nostra estate del 2016. Viene voglia di immaginare come ce la racconteremo tra dieci anni, la storia di queste giornate, settimane, mesi. Vien voglia di guardare avanti perché si spera che da qui a un decennio una fine a questa narrazione assurda qualcuno l’avrà ben scritta. Viene proprio voglia di vederla, proiettata bianco su nero, come la si trova nell’ultimo fotogramma di un film: «La Fine». Alcuni politici usano, di questi tempi, alludere alla realtà che ci circonda come a una «narrazione», di cui occorre comprendere il significato. Usano consapevolmente una metafora, uno slittamento di termini, spostando gli avvenimenti dalla contingenza quotidiana a un campo teorico, a una sfera di pensiero astratta. Un trucco che rende l’attualità forse più avvicinabile. Vedere la cronaca di queste ultime settimane come una «narrazione», per quanto assurda, drammatica, incomprensibile, forse aiuta un po’ a sopportarla, a maneggiarla. Certo noi esseri umani a raccontarcela siamo bravissimi. Proprio negli scorsi giorni, sfogliando un interessante volume che raccoglie alcuni testi dello storico ticinese Raffaello Ceschi, Guardare avanti e altrove, ci era capitato i trovare uno spunto per trattare in modo quasi divertente la «narrazione» del Primo d’Agosto. Ceschi raccontava, a proposito della leggenda di Guglielmo Tell, che già dalla fine del 700 la storia della nascita della Confederazione e le vicende dell’«arciere di Burglen» erano strettamente intrecciate. La stesura del patto tra i cantoni primitivi sul Rütli anticipava di pochi giorni il rifiuto di Tell di rendere omaggio alle insegne di casa d’Austria, con il seguito dei fatti che conosciamo. Ora, continuava Ceschi, quello storico patto era registrato nella storia come avvenuto la notte del 17 dicembre del 1307. Il «Natale della patria», quindi, un tempo veniva collocato a ridosso del Natale cristiano. Ciò era possibile perché, di fatto, fino a metà del 700 nessuno sapeva dell’esistenza reale di una pergamena sottoscritta da urani, svittesi e untervaldesi. L’antico documento che oggi conserviamo con grande cura e reverenza, l’atto notarile che sancisce la nascita del nostro paese, fu in effetti scoperto proprio nel 700. Fu anzi in quel manoscritto che si evidenziò il riferimento temporale preciso. E il primo d’agosto del 1291 si aggiudicò l’onore di aver dato i natali alla Confederazione. Una prima buffa osservazione è che la «narrazione» relativa alle origini della Svizzera si spostava dall’inverno all’estate. Ma più seriamente: «può incuriosire – dice Ceschi – che il ritrovamento dell’antico documento coincida pressapoco con il tentativo di alcuni eruditi svizzeri settecenteschi di togliere Tell dal piedestallo della vita reale, riducendo la sua storia all’adattamento alpino di una leggenda nordica». Un tentativo di razionalizzazione che ha avuto scarso successo: la «narrazione» di Tell è rimasta viva e nonostante tutto ancora solidamente legata alla mitologia elvetica. Le vicende degli ultimi giorni non possono essere trattate con analogo disincanto e ironia. È sicuro comunque che anche gli attentatori, mentre minano letteralmente la civiltà occidentale dal suo interno, stanno scrivendo un loro racconto. Secondo alcuni commentatori, la violenza in atto risponde a un preciso obiettivo, è una «trama» già impostata che mira a destabilizzare le nostre sicurezze. Una narrazione che mette in scena una guerra infinita e non lascia spazio a trattative, ad accordi o iniziative diplomatiche. Da parte nostra ogni tentativo di razionalizzare la situazione, di ritrovare un centro di gravità, è frustrata dalla gravità degli avvenimenti. Di nuovo l’istinto spinge a volgere gli occhi lontano dalla folle realtà quotidiana. Fa guardare al passato, alla precedenti storici, di «narrazioni» a lieto fine che possano perlomeno incoraggiare. Torna alla mente un’escursione in Val Calanca di diversi anni fa. Nella Parrocchiale di Santa Maria Assunta, nel paesino di Santa Maria, sulla parete, in alto nella navata, un enorme dipinto del 1649 di Georg Wilhelm Graesner riproduce il trionfo della flotta cristiana su quella ottomana durante la battaglia di Lepanto. Eccola lì, la registrazione di un momento di svolta nella storia militare e geopolitica europea. Il 7 ottobre del 1571 le flotte delle Repubbliche di Venezia e di Genova, dell’Imperatore di Spagna, del Papa, dei Cavalieri di Malta, dei duchi di Savoia, Urbino e di Toscana unite sotto le insegne di una Lega Santa inflissero al Sultano ottomano una sonora sconfitta. Fu quasi inutile: gli Ottomani si ripresero nel giro di un secolo. Ma la vittoria aveva risollevato gli animi dell’Occidente. La lezione di quella narrazione è che, unendo le forze, si può contrastare il peggior pericolo. Non è male, in fondo, come morale.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 2 agosto 2016 ¶ N. 31

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Attualità Migros

M La plastica ha i suoi vantaggi Imballaggio Nell’ambito della sua campagna

Carina Vogele

Generazione M Migros si impegna a diminuire la quantità di materia prima utilizzata per le confezioni dei suoi prodotti

Thomas Tobler* Cartone, carta, plastica o vetro: il mondo degli imballaggi è molto vario. Ma quale di questi materiali è maggiormente ecologico e allo stesso tempo risponde correttamente al suo scopo? Ne abbiamo parlato con l’esperta della Federazione delle Coperative Migros per i temi ambientali, Hanna Krayer, la quale ha preso posizione su tre tipi di imballaggi attualmente utilizzati.

Hanna Krayer, per che motivo Migros non mette più in vendita prodotti senza imballaggio? I cetrioli o i fiocchi d’avena devono essere proprio sigillati nei sacchetti di plastica?

bile globalmente a meno del 4 per cento. Ma l’involucro ha la funzione importante di evitare un decadimento precoce delle qualità dei prodotti. Un cetriolo confezionato rimane fresco tre volte tanto rispetto a uno non confezionato. Migros si concentra dunque per fare in modo che gli imballaggi abbiano il minor impatto sull’ambiente, invece di tentare di eliminarli.

Sì, da un punto di vista ecologico questi imballaggi hanno senso. Al contrario di quanto si possa comunemente ritenere contribuiscono solo in minima parte all’inquinamento ambientale, con un impatto valuta-

Perché Migros non utilizza per gli

stica più sottile e non più in una scatola di cartone con sacchetto interno. In questo modo si risparmia il 75 per cento di materiale da imballaggio. Ciò porta a una riduzione globale annuale di 15 t. ■ L’imballaggio delle torte alla frutta di Jowa è realizzato dal 2015 con PET riciclato all’80 per cento. Grazie

a questa ottimizzazione ogni anno si utilizzano 15 t. di materiale riciclato e di conseguenza si risparmiano risorse naturali. Generazione M è il programma legato all’impegno a favore di una maggiore sostenibilità, a cui le industrie Migros danno un importante contributo.

Imballaggi rivisti ■ Grazie al nuovo design delle bottiglie da 1,5 l di acqua minerale Aquella di Aproz si risparmia il 12 per cento di PET per ogni bottiglia. Ciò corrisponde a una riduzione di 53,5 tonnellate di PET all’anno. ■ I fiocchi di miglio bio svizzeri sono messi in vendita in un sacchetto di pla-

Al servizio del cliente Formazione continua Organizzato un corso specifico per operatori

a diretto contatto con bisogni e richieste nel momento degli acquisti La soddisfazione di un cliente dipende da numerosi fattori. Tra questi gioca un ruolo importante l’accoglienza di cui beneficia al momento in cui effettua un acquisto. Nell’ambito del suo programma di formazione continua, lo scorso anno Migros Ticino ha dato avvio a un nuovo e ampio progetto indirizzato ai collaboratori dei banchi a servizio e agli operatori di cassa, le cui professioni prevedono contatto diretto e consulenza alla clientela. Una formazione in sei moduli, l’intero percorso che venditore e acquirente compiono: dal saluto iniziale, passando dalla disponibilità nel comprendere bisogni e desideri, e in tal senso di consigliare con competenza, verificando prima del commiato che il cliente lasci il negozio con quanto desiderava e con un ricordo positivo dell’esperienza. Oltre a una parte informativa e teorica, per ogni modulo i team hanno avuto modo di apportare degli spunti personali tramite una «scatola delle idee». Nelle scorse settimane si è così svolta la valutazione dell’operato dei team nelle diverse filiali di Migros Ticino:

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

imballaggi, al posto della plastica, altri materiali come vetro, cartone o carta?

La plastica possiede delle ottime caratteristiche di imballaggio. Può essere facilmente lavorata e ha un’alta resistenza allo strappo. Permette tra l’altro l’uso di pochissimo materiale. Spesso il bilancio ecologico di sostanze come vetro o cartone è al confronto molto peggiore. Le bottiglie in vetro poi sono più pesanti, e il loro trasporto richiede dunque un maggior uso di carburante. Nello stesso tempo non è detto che imballaggi in carta o cartone siano più ecologici di quelli in plastica. Nel passaggio dall’imballaggio in una scatola di cartone a quello in un sacchetto di plastica si risparmia ad esempio il 75 per cento di materia prima. Anche i sacchetti di plastica distribuiti gratuitamente hanno un impatto sull’ambiente decisamente minore dei sacchi di carta, che richiedono molta materia prima.

Perché Migros non utilizza come materiali da imballaggio materie plastiche rinnovabili tratte dal mais o dalla canna da zucchero?

Le plastiche da fonti vegetali sono viste spesso come alternativa sostenibile a quelle prodotte con gli idrocarburi e propagandate come la risposta ai problemi dell’ambiente. Portano sicuramente con sé rilevanti svantaggi dal profilo ecologico. L’area coltivabile su cui crescono le materie prime, ad esempio, non può essere usata per la produzione di alimentari, mentre l’ambiente può essere messo in pericolo dall’uso di concimi e pesticidi. In ogni caso i materiali di origine biologica non possiedono minimamente le qualità da imballaggio delle normali plastiche. Per una robustezza comparabile, in una borsa della spesa si deve utilizzare il 30 per cento in più di plastica vegetale rispetto alla quantità di plastica tradizionale. * Redattore di Migros Magazin

Activ Fitness Losone Corsi di gruppo temporaneamente spostati presso la sede della Scuola Club di Locarno A seguito di problemi intervenuti con il materiale di isolamento fonico, la sala destinata ai corsi di gruppo del centro Activ Fitness di Losone è stata momentaneamente chiusa. Fino a

nuovo avviso i corsi di gruppo si svolgono presso la sede della Scuola Club in via ai Saleggi 16 a Locarno. Ci scusiamo con la clientela per il disagio, limitato ai corsi di gruppo. La palestra con le apparecchiature per allenare forza, resistenza e agilità, la sauna, il bagno turco e lo spazio bambini sono infatti normalmente accessibili.

Nella foto i gerenti delle filiali vincitrici, da sinistra: Ombretta Grandi (Tesserete), Stefano Aili (Solduno), Bosko Stojcev (Maggia) e Luigi Maggiotto (Ascona).

sul podio al primo posto a pari merito i team delle filiali di Solduno e Maggia, seguiti da Tesserete e Ascona.

Migros Ticino si congratula con i collaboratori dei team vincitori e ringrazia tutti i partecipanti.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Tiratura 101’035 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Società e Territorio Sempre in prima linea La schermitrice italiana Beatrice Vio ci racconta le difficoltà e le gioie della sua nuova vita

Imparare divertendosi al circo Secondo alcuni studi le attività circensi sembrerebbero capaci di stimolare nei bambini molteplici capacità motorie, sociali e psicologiche

Alfabeto digitale: parliamo di Word L’elaboratore di testi più utilizzato al mondo ha una sua storia, ormai più che ventennale pagina 9

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«È arrivato per tutti il momento di combattere attivamente l’ageismo». (Keystone)

Orgogliosi dell’età che avanza Anzianità Ashton Applewhite, scrittrice newyorkese, in This Chair Rocks smonta l’idea di vecchiaia come crollo

e decadenza e dice che è ora di finirla con i pregiudizi verso chi non è più giovane

Stefania Prandi «Perché dovrei accettare l’idea che la me di adesso sia peggiore della me da giovane? Perché dovrei mentire sulla mia età oppure essere contenta se mi dicono che dimostro meno anni di quelli che ho?» si domanda Ashton Applewhite, scrittrice newyorkese sessantatreenne, nel libro This Chair Rocks, appena pubblicato in inglese (verrà tradotto in italiano il prossimo anno). Il testo, che prende spunto dal blog https://thischairrocks.com, è un manifesto contro l’idea di vecchiaia intesa come crollo e decadenza e contro l’ageismo, inglesismo ancora poco usato in italiano che deriva da «ageism», termine coniato nel 1969 da Robert Butler, psichiatra e geriatra, per indicare la discriminazione sulla base dell’età. «Ci troviamo di fronte ad atti di ageismo ogni volta che qualcuno, invece di capire chi siamo e che cosa siamo capaci di fare, – si tratti di un lavoro, una relazione, un taglio di capelli – ci giudica semplicemente per i nostri anni» spiega Applewhite. Il tema è dibattuto negli Stati Uniti: si discute degli stereotipi legati all’età sui giornali, con consigli su come evitare di essere penalizzati sul lavoro e combattere

il sottile e diffuso sentimento di disprezzo verso chiunque non sia giovane. Sotto accusa, in particolare, lo show business, Hollywood in testa, che riproduce e diffonde i cliché e costringe chi ne fa parte a dover lottare con tutti i mezzi (spesso con risultati infelici) contro il tempo che passa. «Viviamo, in media, 34 anni in più dei nostri bisnonni, abbiamo un’intera seconda esistenza da adulti. Eppure siamo ancora immersi in una cultura che non riesce ad accettare questo cambiamento e che guarda all’età come a una patologia» ha detto l’attrice Jane Fonda in un Ted Talk (un programma di conferenze per la condivisione di idee e scoperte, gestito dalla non-profit The Sapling Foundation) che ha ricevuto oltre 2 milioni e 200mila visite online. La protagonista della serie televisiva Grace and Frankie – che ha il merito di smontare, con leggerezza, molti luoghi comuni sulle donne over settanta – sostiene che è ora di trovare una prospettiva diversa, necessaria anche alle generazioni più giovani per affrontare i nuovi tempi di vita. L’età, infatti, non può essere la caratteristica principale per la quale le persone vengono valutate. Un trattamento che non risparmia nessuno, nemmeno ico-

ne intramontabili come Madonna che di recente si è lamentata di trovare, ogni volta che qualcuno fa un articolo su di lei, i suoi anni scritti sempre subito dopo il suo nome: «È come se dicessero, eccola, è lei, ma ricordatevi che ormai ha una certa età e tutto il resto non conta più». Todd Nelson, ricercatore alla California State University, specializzato in psicologia del pregiudizio, spiega che l’ageismo «è un preconcetto contro il nostro stesso futuro», radicato nella negazione del fatto che tutti invecchiamo. Ci abituiamo a quest’idea già da piccoli: alcune ricerche indicano che i bambini sviluppano stereotipi negativi attorno ai cinque anni. «Io stessa, da piccola, mi dicevo che non sarei mai diventata uno di quegli adulti che incomprensibilmente preferivano stare seduti, piuttosto che correre in giro» racconta Applewhite ad Azione, puntando il dito contro la società in cui viviamo, responsabile di «considerare le persone soltanto per la loro capacità produttiva, che relega l’invecchiamento a qualcosa che deve essere curato, a un problema da risolvere, con un mercato milionario di prodotti ad hoc. La verità, però, è un’altra: invecchiare è un processo naturale, potente, che dura tut-

ta la vita. Io non mi sento depotenziata e come molti altri della mia età ho ancora grandi piani per il futuro». Ci sono tutta una serie di luoghi comuni che possono essere smontati quando si parla di tempo che passa. Innanzitutto, non è vero che si è più felici da giovani e che, superata una certa soglia, si è «spacciati». Un team di ricercatori dell’Università di Warwick, in Gran Bretagna, ha condotto uno studio su due milioni di persone di ottanta paesi diversi dimostrando che i momenti più felici della vita sono l’infanzia e il periodo dopo i sessant’anni. Anche il mito del decadimento generale va smontato: il sociologo svedese Lars Tornstam, che ha indagato i processi di invecchiamento per trent’anni, ha visto che molte persone anziane continuano a maturare socialmente e psicologicamente, un processo che ha chiamato «gerotrascendenza». Tornstam descrive il primo segno di «gerotrascendenza» come «la sensazione di essere, tutto in una volta, un bambino, un ragazzo, un adulto, un uomo di mezza età e una persona più anziana». Secondo una ricerca della fondazione MacArthur, il declino mentale non è una conseguenza inevitabile del diventare

anziani e avviene, nella maggior parte dei casi, davvero in tarda età. Un terzo delle persone, poi, non sembra per niente toccato da perdite dell’abilità cognitiva. «È arrivato per tutti il momento di combattere attivamente l’ageismo» sottolinea Applewhite che nel suo libro – in fase di traduzione anche in coreano e sloveno – dedica molte pagine alle strategie e alle iniziative per riuscire a cambiare forma mentis. «Innanzitutto, la cosa più importante è riuscire a renderci conto, in prima persona, di quanto ci facciamo influenzare. Non possiamo sperare di cambiare una situazione fino a quando non individuiamo il problema e lo nominiamo». Una volta che inizieremo a riconoscere l’ageismo in tutta la sua portata, vedremo per davvero quanto è pervasivo. Lo step successivo è cambiare il modo in cui ci guardiamo e ci facciamo considerare, smettendo di essere felici se ci dicono che non dimostriamo gli anni che abbiamo, ad esempio. «Dobbiamo riuscire a sviluppare un vero e proprio orgoglio rispetto alla nostra età, senza dispiacerci perché ogni giorno ci svegliamo più vecchi, con la consapevolezza che una vita lunga è un privilegio, non una sconfitta».


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Società e Territorio

Per me è sempre gara, è sempre competizione Sport e coraggio Beatrice Vio, schermitrice italiana da poco incoronata campionessa mondiale del fioretto

individuale paralimpico, ci racconta la sua incredibile storia Natascha Fioretti «Mancano sessantaquattro giorni a Rio», mi dice una Beatrice Vio raggiante, bella come il sole, quando la incontro a Pisa nel suo ritiro in vista delle Paralimpiadi in programma dal 7 al 18 settembre 2016 a Rio de Janeiro. Alta, fisico asciutto e muscoloso, due occhi verdi come il mare e lo sguardo furbo da cerbiatta, l’energia e la grinta di chi non ha paura e vorrebbe stare sempre in gara, Beatrice Vio, 19 anni, è la campionessa della scherma paralimpica italiana. Con undici successi internazionali consecutivi, questa ragazza lotta per Rio da quando nel 2012 a Londra ha portato la fiaccola olimpica. E se Prometeo fu colui che donò il fuoco agli uomini, lei, nel suo piccolo, ha due messaggi importanti da dare e dovete starla a sentire perché la sua storia è una lezione di vita per tutti. «Vaccinatevi, in particolare vaccinate i bambini contro il menginococco! A me è andata bene, la mia vita è una “figata” e non tornerei mai indietro, non vorrei vivere senza i miei “pezzi”, ma non auguro a nessuno quello che ho vissuto io». E poi «credete nello sport come terapia, senza la scherma non ce l’avrei fatta, è stata la mia ancora di salvezza. E se avete un fratello, un parente, un amico al di sotto dei 18 anni al quale sono stati amputati gli arti, ditegli di Art4sport!». È l’associazione onlus creata dalla famiglia di Beatrice che crede nello sport come terapia per il recupero fisico e psicologico dei bambini e dei ragazzi portatori di protesi. La sua missione è ridare il sorriso, la forza e la fiducia a chi li ha persi, a chi una mattina si è svegliato e ha scoperto che la sua lotta per la vita è più dura ma non per questo meno bella. Art4sport (www.art4sport.org) avvicina ognuno di loro a praticare lo sport che preferisce, che sia per puro divertimento o per agonismo. Ma non si limita a restituire un sogno ai bambini amputati, la sua missione è anche quella di aiutare economicamente e psicologicamente le famiglie che si devono confrontare con una realtà complessa, «nella maggior parte delle famiglie della nostra associazione i genitori sono divorziati, uno dei due scappa per paura, spesso è il padre. Ci troviamo con mamme disperate che non sanno cosa fare e hanno bisogno del sostegno dell’associazione». Lei, che dice di avere due «genitori spaziali», ha dedicato

«Tecnicamente non mi ritengo forte, la mia forza sta nel saper gestire le emozioni, se non lo sai fare nella scherma sei morto». (art4sport)

il suo libro Mi hanno regalato un sogno. La scherma, lo spritz e le Paralimpiadi a sua madre «collante della famiglia e della nostra vita». Da qui vorrei partire per raccontarvi chi è Beatrice Vio, in arte Bebe, e perché la sua storia può fare la differenza, non solo per chi ha vissuto un’amputazione ma anche per chi nella vita ha smarrito la via e non sa il perché. Il titolo del libro si ispira alla canzone di Jovanotti che per Bebe è una specie di mito. La curiosità nasce nel chiedersi che cosa c’entri lo spritz con la scherma e le Paralimpiadi, «volevo far capire che nella mia vita non esiste solo lo sport, non sono una sportiva esaltata senza una vita sociale o l’interesse per la scuola. Molti sportivi lasciano gli studi per dedicarsi alla carriera agonistica. I miei genitori mi hanno sempre detto vai alle gare solo se non hai materie sotto!, questo mi ha sempre fatto capire l’importanza di andare avanti negli studi, di non limitare le mie conoscenze all’ambito sportivo, che è fantastico, ma non è tutto nella vita. La scherma è la mia passione ma come tutti i ragazzi della mia età voglio divertirmi e avere una vita normale. Quindi

Beatrice Vio porta la fiaccola olimpica a Londra nel 2012. (art4sport)

faccio scherma, bevo qualche spritz e mi diverto mentre sogno di arrivare alle Paralimpiadi». A proposito di scuola, Beatrice ha appena concluso gli esami di maturità in grafica e comunicazione e per il suo futuro punta ad entrare nel centro di ricerca sulla comunicazione di Treviso, Fabrica, che offre borse di studio ma è molto selettivo. Se non va in porto farà Relazioni pubbliche e comunicazione di impresa allo Iulm «mi piacerebbe uscire di casa e trasferirmi a Milano!», dice con l’entusiasmo tipico dei giovani pronti a conquistare il mondo. Intanto, però, ad attenderla ci sono le Paralimpiadi di Rio, un traguardo al quale punta da quando è stata tedofora a Londra. Ne ha fatta di strada nella scherma da allora, «rispetto al 2012, quando ho iniziato a fare scherma in carrozzina, mi accorgo di come oggi ci sia più cattiveria da parte mia nel tirare, nel volere la vittoria. Tecnicamente non mi ritengo forte, la mia forza sta nel saper gestire le emozioni, se non sai gestire bene le emozioni nella scherma sei morto. Fisicamente, invece, ho diversi problemi alla spalla. La scherma si fa con le tre dita: pollice, medio, indice; e con il polso ma a me manca questo pezzo (mi mostra la sua protesi che sostituisce il braccio dal gomito in giù). Dunque devo fare tutti i movimenti con il gomito e con la spalla, ad esempio tutte le cavazioni, i normali gesti quotidiani come mangiare e scrivere, movimenti che tenendo il braccio nella stessa posizione, vanno a sollecitare la spalla già sovraccarica per i tanti allenamenti». Con Rio alle porte è importante conoscere l’avversario, «la cosa incredibile della scherma è che in ogni gara sei diverso da quella precedente, anche emotivamente. Puoi essere la persona più forte del mondo ma se c’è la giornata storta, se non sei convinta mentalmente, tutto è perduto. Poi mentre sono in pedana, mentre tiro, sembro un’invasata ma per me la gara è tutto, è il mio elemento naturale, se potessi vorrei vivere fissa in quello stato lì, sempre in competizione. Non vedo l’ora di essere a Rio». Prepararsi agli incontri, sviluppare metodo e concentrazione non è indispensabile solo nello sport, «mi rendo conto di avere il carattere di una che fa scherma, una fiorettista. Nella scherma devi cercare sempre di migliorare le cose e di migliorare te stesso, spesso devi essere in grado di cambiare strategia in un secondo se vuoi battere l’altro. Se non

avessi fatto scherma anche nella malattia non ce l’avrei fatta. Lì non si trattava di battere l’avversario ma di battere me stessa ripartendo da zero. Ho dovuto rimparare a fare le cose più normali, più scontate, senza pensare a come le facevo prima ma concentrandomi sul come farle adesso. Farle e basta. Quello che facevo in pedana, pormi degli obiettivi per vincere, ho iniziato a farlo nella vita di tutti i giorni. Quando ero al centro protesi, ogni mattina mi ponevo dei piccoli traguardi da raggiungere: imparare ad allacciare le scarpe, mangiare gli spaghetti, abbottonarmi i pantaloni, lavarmi i denti, tutte cose che sembrano così facili e io da un giorno all’altro non sapevo più fare».

«Credete nello sport come terapia. Senza la scherma non ce l’avrei mai fatta. È stata la mia ancora di salvezza» A proposito di gesti quotidiani, oltre a scegliere le magliette da indossare, Bebe sceglie tra diverse protesi: «volevano farmi delle protesi con un tacco di quattro centimetri di dislivello. Ma mia nonna ha il cinque e io non voglio avere il tacco più basso di mia nonna! Ho spinto così tanto che alla fine ho ottenuto il mio tacco dodici!». Ma nel caso di un’atleta come lei, le protesi vanno anche costantemente modificate, in particolare nella fase della crescita: «nel periodo tra i 12 e i 13 anni andavo al centro protesi anche due o tre volte alla settimana perché si cambia un pezzo alla volta. Le gambe le cambi in giornata, ma per le braccia devi prima andare a fare i gessi e poi tornare la settimana dopo e provare se vanno bene. Ora ci vado perché le rompo o perché ci sono modifiche che voglio fare, ho tante paia di gambe e di braccia: normali, di riserva, gambe per andare in acqua, e ogni volta mi invento un sacco di cose diverse». Bebe per le sue protesi è sponsorizzata dalla Ottobock, azienda leader in questo campo, che si avvale dell’esperienza e dei consigli di Bebe per ottimizzare i prodotti «oggi le protesi le indosso tutto il giorno, le tolgo per andare a letto, ma all’inizio devi andare a piccoli passi, abituarti gradualmente, anche la pelle deve

abituarsi a stare chiusa per tante ore, tenere plastica e silicone addosso. Poi le protesi devono essere comode, ad esempio, devo poterle togliere e mettere con facilità per poter digitare sul touch screen del mio telefono con il gomito, la plastica non funziona». Conoscere il percorso di Bebe può essere utile a tanti altri ragazzi «dopo la malattia volevo tornare a fare scherma ma non c’era nessuno tra gli altri schermidori senza un pezzo come me. Senza gambe ce ne sono tanti, paraplegici pure, ma senza braccio armato non ce n’è neanche uno. L’unica soluzione era inventare una protesi su misura che mi permettesse di tenere il fioretto in mano. Dopo vari prototipi ci siamo riusciti e io sono tornata a fare scherma, ho ripreso le mie amicizie, ho ripreso in mano la mia vita, migliorandola, perché mi sono resa conto di quanto fosse davvero importante. E mi sono detta: se è servito a me, perché non fare del bene anche agli altri? Da qui con la mia famiglia è nato il progetto Art4sport. I bimbi che arrivano da noi all’inizio sono smarriti, spesso si vergognano delle loro protesi ma poi piano piano acquistano fiducia, entrano nel gruppo e iniziano a divertirsi. Guardano a noi più grandi con ammirazione, ci vedono come dei super eroi e dicono caspita se lei ci riesce allora anche io posso farlo!». La storia di Bebe sta destando molto interesse e diversi media italiani ne stanno parlando, «nel libro ho deciso di parlare in modo più esteso della mia malattia, raccontandone in modo più dettagliato i lati negativi e le difficoltà, perché ho scoperto che si tratta di una malattia poco conosciuta. La mia fortuna è di avere avuto una grande famiglia alle spalle. E con il mio libro e le mie interviste vorrei far capire che prima ci si vaccina, prima si riconoscono i sintomi della malattia e si prende l’antibiotico, più parti del corpo si salvano. Ma sia chiaro, non voglio essere famosa per ciò che mi è accaduto e non voglio far pena alle persone. Voglio mandare un messaggio a chi si trova ad affrontare una situazione come la mia, voglio riuscire a cambiare la mentalità delle persone, far capire loro che nella vita ogni piccola conquista è bella e che non bisogna mai arrendersi ma porsi sempre nuovi obiettivi e perseguirli con la tenacia, la forza e la costanza di un atleta che si reinventa ogni giorno per vincere».


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Società e Territorio

Pedagogia e arte circense Bambini Sempre più insegnanti ed educatori riconoscono

il prezioso potenziale del lavoro pedagogico del circo

Elisabetta Oppo Da sempre, il circo, sia esso grande o piccolo, svizzero o straniero, antico o moderno, conserva inalterato il suo fascino. Quella grande magia che da secoli cattura bambini e adulti: dagli spettacoli di giocoleria, ai numeri dei clown, ai trapezisti, fino ai numeri di abilità e destrezza. Sebbene non sia una vera e propria disciplina sportiva, è innegabile che l’arte circense possa essere considerata un’attività «completa», in grado di sviluppare in modo armonioso tutte le parti del corpo. Ma negli ultimi tempi gli è stata attribuita anche una grande importanza nella formazione globale dell’individuo. Il circo, infatti, dal punto di vista pedagogico può essere definito un’arte interdisciplinare che favorisce lo sviluppo motorio e cognitivo dell’individuo. Praticare le diverse discipline del circo, come la giocoleria, il monociclo, la sfera e la ginnastica acrobatica aiuta a migliorare la coordinazione, l’equilibrio, la capacità di reazione, la concentrazione e potenzia la forza dell’apparato locomotore. Inoltre promuove anche numerose competenze sociali e psicologiche, come la propensione al lavoro di gruppo e la fiducia in sé stessi. Abbiamo sentito sull’argomento Paola Battistelli, ergoterapista del Centro di ergoterapia pediatrica (Cep) di Bellinzona, che nel periodo estivo impartisce dei corsi di circo per bambini. Negli ultimi anni è stato riconosciuto alle attività circensi un importante potenziale pedagogico, perché?

Come ergoterapista, l’attività ludica e il gioco sono alla base delle terapie che svolgo con i piccoli. Nella maggior parte dei casi, il gioco è la motivazione principale del bambino soprattutto nella prima infanzia e nell’età scolare; tramite questo è possibile far svolgere delle attività al bimbo in maniera graduale e mirata affinché possa allenarsi,

esercitarsi e migliorarsi. Penso che le attività circensi offrano quell’aspetto ludico e giocoso che motiva i bambini ad avvicinarsi a tale disciplina. Per questo anche al Cep ci siamo ispirate al circo per proporre delle attività terapeutiche di gruppo.

Il circo è un’arte interdisciplinare che favorisce lo sviluppo motorio e cognitivo dell’individuo In quali casi si consiglia di fare praticare a un bambino le discipline circensi?

Dal nostro punto di vista, spesso la pratica delle attività circensi aiuta i bambini che faticano a collaborare con altri, a lavorare da soli o nel gruppo, che devono riflettere su come realizzare un progetto e quali sono le tappe per realizzarlo. Al Cep non siamo dei professionisti del circo, ma terapiste. Ci siamo ispirate al circo e abbiamo adattato le sue discipline al fine di raggiungere gli obiettivi terapeutici prefissati. Abbiamo organizzato un gruppo estivo, aperto ai bambini che vengono già in terapia, ma anche ad esterni. Abbiamo scelto di proporre tre momenti differenti della durata ognuno di due ore, a partire dall’accoglienza dei bambini al piccolo spettacolo finale. Il primo incontro è sul tema della piramide umana, il secondo serve a preparare uno spettacolo di magia, e nel terzo i bambini diventano degli equilibristi. Quali sono gli obiettivi finali dei corsi di circo per bambini?

Gli obiettivi mirano principalmente allo sviluppo di competenze legate alle funzioni esecutive e alla motricità globale. Nello specifico sviluppare l’anticipazione, la pianificazione, l’inibizione, la flessibilità cognitiva,

il controllo emotivo e la memoria di lavoro. A differenza delle terapie singole, il gruppo offre la possibilità ai bambini di sviluppare la cooperazione, riuscire a discutere ed organizzarsi insieme per raggiungere un obiettivo comune. Costruire qualcosa insieme che può essere il materiale che si utilizza oppure la progettazione delle tappe necessarie per riuscire a fare lo spettacolo... e naturalmente ricordarsi queste tappe! Magari trovando insieme dei trucchetti e sviluppando delle strategie come dei promemoria. Naturalmente poi bisogna praticare concretamente e allenarsi a livello motorio, rinforzare il tono muscolare, allenare la coordinazione motoria, l’equilibrio… insomma tutte le competenze sensoriali e motorie che permettono l’esecuzione dei movimenti. Queste attività aiutano anche a migliorare la concentrazione e l’impegno per la precisione. Perché?

Ricerche scientifiche recenti dimostrano che l’attività fisica finalizzata, e quindi anche il circo, migliora l’attenzione, la concentrazione, la risoluzione dei problemi e aumenta le prestazioni accademiche nei bambini. Al Cep notiamo tutti i giorni due fenomeni: da una parte se il bambino è motivato all’attività, pur avendo dei disturbi a livello delle funzioni esecutive o motorie, è più impegnato e persevera davanti alle difficoltà; d’altra parte, le attività di controllo motorio, come per esempio le attività circensi, sviluppano delle competenze cognitive che il bambino può riutilizzare anche nella vita quotidiana e scolastica. Noi ergoterapisti utilizziamo delle tecniche e dei veri e propri trucchetti per aiutare i bambini in difficoltà. Per esempio, gli orologi visivi che indicano la durata di tempo in cui devono svolgere una determinata tappa dell’intera attività, o a volte costruiamo insieme ai bambini delle immagini che illustrano la sequenza della costruzione della magia affinché possano partecipare

«I bambini collaborano tra di loro: quando un componente del gruppo è in difficoltà, gli altri lo sostengono e lo affiancano». (Keystone)

insieme al gruppo per contribuire al risultato finale. Le attività circensi sono consigliate anche per lo sviluppo dell’autostima. In che modo?

In generale quando il bambino si allena, persevera davanti alle difficoltà, e poi riesce a svolgere un’attività che prima non era in grado di svolgere o che pensava di non essere in grado di fare, si sente più competente e accresce la sua autostima. Il risultato sull’attività concreta è immediato e visibile, il bambino si sente ancora più motivato e desideroso di sperimentare attività sempre più difficili. Perché questo processo vada a buon termine, è necessario che gli adulti intorno a lui lo aiutino un po’ ma non troppo, il più discretamente possibile. Nel gruppo poi si collabora a vicenda, ad esempio nella piramide umana è importante la capacità del singolo per contribuire alla riuscita del gruppo. È stato interessante vedere come i bambini

collaboravano tra di loro: quando un componente del gruppo era in difficoltà, gli altri lo sostenevano e lo affiancavano per fare delle modifiche affinché riuscissero tutti insieme nell’intento. Attraverso le attività circensi si possono stimolare anche autodisciplina, diligenza, perseveranza, resistenza e affidabilità. Come?

L’adulto che accompagna il bambino svolge un ruolo fondamentale, è importante sottolineare che l’attività circense è poca cosa, senza un adulto al suo lato che fa prova di benevolenza, comprensione, conoscenza e umanità. Il fatto di occuparci di bambini che spesso sono in difficoltà nel partecipare al gruppo, a causa del loro impaccio motorio o disturbo dell’attenzione, ci rende sensibili ai loro bisogni. Le aspettative legate alla prestazione che l’adulto può avere, devono sempre tener conto dei bisogni individuali del bambino, come persona umana in crescita e che come tale merita rispetto.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Chiara Balzarotti, storie di Guido Quarzo, Non si gioca a tavola, Editoriale Scienza. Da 6 anni In copertina, il «non» del titolo, in realtà, è barrato, perché si gioca a tavola, eccome se si gioca. Certo, non con il cibo e magari non mentre si sta mangiando, ma tutto quello che ruota attorno al cibo può diventare una palestra di creatività, di riciclo, di fantasia. L’esperta di manualità creativa Chiara Balzarotti ci propone in questo libro 18 progetti da realizzare con le confezioni e gli scarti dei cibi: una scatoletta di tonno può diventare un’astronave; una scatola di pasta, un «portastorie»; una vaschetta di plastica della frutta, una borsetta preziosa; un vasetto di yogurt, una marionetta... e così via, dando nuova vita a contenitori come portauova, bottiglia del latte, retino delle arance; e a scarti come le bucce di arancia o il guscio delle arachidi. I materiali di recupero sono quindi alla portata di tutti e gli attrezzi sono pochi

e semplici (principalmente colla, forbici, pennarelli, nastro adesivo). Le istruzioni sono chiare e illustrate dalla stessa Balzarotti passo dopo passo, tanto che i bambini potranno facilmente seguirle, anche se è ovvio che condividere la creazione con un adulto

è più divertente, oltre che più efficace. Le suggestioni del libro tuttavia non finiscono qui, perché per ognuno dei 18 progetti c’è anche una ricetta per preparare un delizioso spuntino proprio con il cibo racchiuso in «quel» contenitore riciclato. E inoltre, a degna conclusione di ogni capitoletto, c’è una piccola storia ispirata allo specifico oggetto di volta in volta costruito. Le storie sono affidate a uno dei più noti autori italiani per ragazzi, Guido Quarzo. Insomma un libro ricco e multiuso: per riciclare, creare, mangiare, leggere, ascoltare, inventare! Andy Rash, Mario pinguino temerario, Il Castoro. Da 4 anni Grandissimo, il pinguino Mario, un vero temerario. Si arrampica sulle montagne più alte, si lancia con la slitta dalle discese più scoscese, passa senza fare una piega tra le temibili foche leopardo: sembra non avere paura di nulla. Appunto, sembra, perché lui

una paura ce l’ha, e bella grossa: ha paura dell’acqua e delle «strane creature in agguato negli abissi marini». Naturalmente non vuole ammetterlo e quindi, quando gli altri pinguini lo inviteranno sull’«iceberg 9 a mangiare pesce fritto», dovrà accampare scuse e

trovare una soluzione. Inizialmente si tratterà di realizzare macchinose invenzioni per raggiungere l’iceberg volando, ad esempio con una gigantesca fionda, o con specifiche ali da lui brevettate, o addirittura con un razzo, in un crescendo di roboante ingegnosità. Ma gli imprevisti sono in agguato: inevitabilmente Mario dovrà attivare altre risorse e superare le sue paure se vorrà salvarsi e riuscire a gustarsi il pesce sull’iceberg con gli amici pinguini! Una storia scritta e illustrata dall’autore americano Andy Rash, in cui il testo è tutto in discorso diretto, espresso in fumetti sopra i vari personaggi: ottimo, quindi, per una lettura ad alta voce facendo le varie parti dei pinguini e dandoci dentro con la piena sonorità dei rumori: boing, quando Mario si lancia con la fionda; sdeng, quando non ha, per così dire, molto successo con le sue ali; roar, quando decolla con il razzo... e naturalmente il fatidico, e salvifico, splash!


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Società e Territorio

Word, trent’anni di parole Alfabeto Digitale Storia del programma di videoscrittura più usato, oggi fruibile sotto una nuova forma scoprì che esisteva la possibilità di non installare editor di testi, ma di usarne uno bell’e pronto, gratuito, online. Su questa stessa linea si è avviata di recente Apple, mettendo a disposizione degli utenti MacOsX la sua linea Pages, gratuita su www.icloud.com.

Ugo Wolf Era davvero molto tempo fa: per caricare la versione 5.5 di MS Word su un Olivetti PCS ci volevano 5 o 6 dischetti. In quell’epoca gli elaboratori di testi erano estremamente spartani: interfaccia grafica minimalista, sullo sfondo blu del monitor si stagliavano linee bianche e azzurre come margini, e i caratteri erano bianchi o grigi. Con il passare degli anni il programma acquistava poi in consistenza e funzionalità. Dopo la metà degli anni 90 i computer avevano iniziato ad essere dotati di lettori CD: MS Word (come altri software) venne messo in circolazione in una versione più compatta e sostanziosa ma protetta da password. Chi era abituato a far capo alle risorse di qualche amico generoso per portarsi a casa il programma, doveva ora anche ricopiare religiosamente una serie di cifre piuttosto complicate. Una volta copiato, però, il suo Word poteva essere avviato su qualsiasi PC. A dire la verità, fino a quegli anni il mondo della videoscrittura non era così monopolizzato dai prodotti della Microsoft. Molte case produttrici di software avevano messo sul mercato i loro editor (qualcuno ricorda ancora nomi come Lotus, WordPerfect, Wordstar, AppleWorks?). La storia di questi antichi sistemi di lavoro è oggetto di studio per sociologi dell’informatica: una materia a sfondo economico denominata «Office Suite War»: e la guerra commerciale per imporre i propri programmi sembra proprio essere stata vinta da Microsoft. Contando sul fatto che il grande incremento di utenti permesso dalla digita-

Microsoft ha vinto la «guerra per i software da ufficio», imponendo il proprio standard, e ora punta al Cloud

MS Word 5.5 (1983) e MS Word 365 a confronto.

lizzazione dei lavori d’ufficio richiedeva l’introduzione di uno standard nel formato dei documenti (in particolar modo dopo la nascita di Internet e della posta elettronica), Word ed Excel si imposero sulla concorrenza con il loro formati «.doc» e «.xls». Cioè il nostro «pane quotidiano». Con l’avvicinarsi del nuovo millennio Microsoft aveva smesso di proporre separatamente i suoi pro-

grammi. Il prezzo della «Suite» che li conteneva, denominata Office, era decisamente notevole, qualche centinaio di franchi, ma ne esistevano versioni più abbordabili per gli studenti o per l’uso famigliare. Negli uffici diventava sempre più difficile utilizzare software senza l’apposita licenza. Le aziende hanno quindi iniziato a dotarsi dei programmi ufficiali, adatti per i sistemi operativi più diffusi, cioè quelli

di casa Gates (tralasciamo di parlare qui degli innumerevoli progetti Open Source che nel corso degli anni hanno cercato di bypassare il monopolio Office: hanno avuto alterne fortune e successi ma tutto sommato funzionano). Poi arrivò il «Cloud»: primi veri concorrenti di Office sono stati i Google Docs, cioè elaboratori di testo accessibili direttamente online proposti da Google. Improvvisamente si

Come reagire a tutto questo? Sempre pronta a prendere spunto dalle esperienze altrui, Microsoft ora rilancia il suo Office tramite un abbonamento mensile. La versione del programma singolo continua ad essere prodotta, ma l’obiettivo della casa di Redmond è fare in modo che i suoi clienti utilizzino la loro suite produttiva su computer, telefono cellulare e tablet. Il nuovo Office 365 (così si chiama la proposta) è installabile su tutti i nostri apparecchi. Sarà regolarmente aggiornato e perfezionato, e permetterà, di godere dei vantaggi di un prodotto sempre performante. Chi preferisse «possedere» una copia del software, come ai vecchi tempi, può sempre acquistarla, ma al prezzo di sempre. E senza poter beneficiare degli aggiornamenti gratuiti. Vedremo se la comunità dei consumatori, in prima battuta, e poi quella delle aziende accetterà questo cambiamento di paradigma. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi La leonessa di Bretagna L’immaginario legato ai pirati ed alle loro imprese occupa un posto importante nella cultura popolare moderna e nei derivati di questa che l’industria culturale continua a cucinare in tutte le salse ad intervalli regolari. Da I Pirati di Penzance alla serie che vede come protagonista il Capitano Sparrow e la sua improbabile ciurma, il fascino esercitato dagli scorridori del mare trova ancora una volta conferma come uno dei luoghi più amati del fantastico collettivo. Così come succede per briganti e banditi, il vivere al di fuori e magari contro le regole produce una sorta di frisson noir (un «brivido proibito»?) che fa gola a tutti coloro che – invece – devono osservare orari, scadenze, impegni e costrizioni. «Brivido proibito» tanto più efficace quando poi si tratti di pirati femmine (l’Altropologo usa l’aggettivo deliberatamente) che si battono sulla tolda delle navi arrembate alla pari e meglio delle controparti maschili. E ben l’aveva capito quel grande sognatore della cultura popolare nostrana che fu Emilio

Salgàri, autocostruitosi come Capitano di mare senza aver probabilmente mai comandato nemmeno un pedalò. Con Jolanda, la Figlia del Corsaro Nero, secondo romanzo del Ciclo dei Corsari, pubblicato da Donath nel 1905, il veronese sfruttava un tema narrativo – quello delle donne pirata – già largamente presente nella narrativa popolare europea tanto scritta quanto oralmente trasmessa. Una corsara ante litteram della nostranissima Jolanda era certamente Jeanne de Clisson (1300-1359) passata alla storia come la Leonessa di Bretagna. Proprio come Jolanda, Jeanne prese ad andar per mare in maniera men che rispettosa della legge per vendicare torti subiti dalla famiglia da parte dei potenti, «luogo morale» quest’ultimo che da Robin Hood a Billy the Kid e chissà quanti altri alimenta il mito del fuorilegge diventato tale per colpa del destino cinico e baro. Ma procediamo con ordine. Jeanne de Belleville e de Clisson, Dame de Montagu (nobilissima stirpe bretone) sposò a soli dodici

tradotti a Parigi. Qui furono processati per alto tradimento: il 2 Agosto 1343 di 673 anni fa Olivier de Clisson e i suoi compagni furono decapitati. Il corpo di Olivier fu esposto in vista di tutti a Parigi, mentre la testa fu mandata a Nantes, in Bretagna, per essere esposta sulla punta di una lancia alla Porte de Sauvetout. La vendetta di Jeanne de Clisson non si fece attendere: dopo aver portato due dei suoi figli – Olivier e Guillaume – a Nantes per vedere lo spettacolo della testa del padre, messa assieme una compagine militare di bretoni leali ai de Clisson cominciò ad attaccare le forze francesi che si trovavano in Bretagna usando tattiche da guerriglia. Presto la risposta francese mise le forze bretoni sotto pressione, tanto che Jeanne decise di fuggire oltremanica. Durante la traversata, Guillaume, uno dei due soli figli di Jeanne rimasti in vita, morì assiderato. Il secondo, Olivier, venne affidato a John de Montfort che lo educò alla corte inglese. Ma l’indomita Jeanne non era spirito tale da darsi per vinta. Con fondi

raccolti fra amici e sostenitori armò tre navi da guerra. Gli scafi dipinti di nero e le vele di rosso, La Flotta Nera diventò ben presto il terrore del traffico mercantile francese nella Manica. Gli equipaggi delle navi arrembate venivano passati a fil di spada. Solo alcuni membri degli stessi venivano lasciati liberi per andare a raccontare gli orrori della vendetta di Jeanne de Clisson. La guerra corsara della Leonessa di Bretagna durò tredici anni. Sposatasi in terze nozze con Sir Walter Bentley, finì la sua vita nel castello bretone di Hennebont, parte dei possedimenti «oltremare» dei de Montfort. Raccontava all’Altropologo orsono molti anni un vecchio marinaio bretone col quale si beveva sidro e si mangiavano ostriche in una antica taverna di Cancale, in Bretagna, che della Leonessa si raccontava ancora di quando in quando nei circoli dei nazionalisti bretoni: «Troppo feroce però: Monsieur, vraiement tres fèroce: che colpa mai potevano aver avuto dei poveri marinai delle beghe dei loro sovrani?».

da chiedere, un dolore da condividere come fidarvi di vostra madre, sapendo che lei non si fida di voi? Fino agli anni 50 il suggerimento prevalente sarebbe stato di star zitte, di far finta di niente per non rovinare la reputazione della famiglia. Ma ora quell’esigenza non è più così pressante e fare chiarezza è una priorità che tutti avvertono. Tanto che l’affermazione «meglio stare insieme a qualsiasi costo piuttosto che separarsi» è stata sostituita da quella opposta «meglio separarsi che stare insieme a qualsiasi costo». Come sempre, il meglio consiste nell’evitare di agire senza riflettere, seguendo stereotipi pronti a rovesciarsi nel loro contrario. Le alternative sono tante e spetta a ognuno scegliere quella che ritiene migliore per sé e per le persone comunque coinvolte dal dilemma: parlare o tacere? Vista la difficoltà del problema e la vostra giovane età, sarebbe opportuno rivolgersi a una persona preparata e

competente che sappia ascoltare ancor prima che consigliare. La Stanza del dialogo, come avete compreso, ha sempre la porta aperta ma più che invitare a riflettere insieme e a sollecitare un dialogo condiviso, non può fare. Poiché i genitori sono figure interne, personaggi della mente oltre che della realtà, la prospettiva di andarsene da casa non risolve niente, portereste il conflitto con voi. Meglio far chiarezza trovando le parole giuste, inserendo i dati in una narrazione che conferisca loro senso e significato. Spesso, dopo aver analizzato la situazione, valutato i pro e i contro, scartato le impossibilità, la soluzione salta fuori con intrinseca evidenza. Ma questo lavoro non lo si può svolgere da soli. C’è bisogno di una persona che garantisca l’obiettività delle impressioni e metta ordine nel caos delle emozioni. Suppongo che, nella vostra scuola, funzioni uno sportello psicologico cui rivolgersi, magari indirizzate da un insegnante

particolarmente sensibile e attento o dal medico di famiglia. Conosco infine un’ottima rete di Centri per la mediazione familiare dove potreste trovare un valido sostegno e una guida sicura. Nel frattempo mi permetto di consigliarvi un bellissimo romanzo appena pubblicato, che affronta proprio il tema del rapporto madre-figlia, dove la figlia, appreso l’adulterio della madre morente, trova la forza di comprenderla e perdonarla. Non sarà facile sciogliere il nodo di sospetti e rancori che il tradimento provoca ma, alla fine del viaggio, la pace con voi stesse sarà il premio più meritato: Iaia Caputo, Era mia madre, Feltrinelli, Milano 2016.

e via enumerando le occasioni della vita in comune. Qui, infatti, c’è da stupirsi e da interrogarsi. Non si tratta, figurarsi, di una questione climatica, la conseguenza delle sedicenti estati torride, che costringono a denudarsi, mentre, come si sa, per sudare meno, occorre coprirsi. Si pensi ai Tuareg, nel deserto. Ma, tornando alle nostre latitudini, ci si trova, invece, realmente alle prese a un salto di categoria, compiuto da un indumento che, dall’intimo, è passato al pubblico, da capo di biancheria a capo d’abbigliamento. Ciò che, per forza di cose, sottintende un cambiamento di mentalità e di comportamenti da parte degli utenti della canottiera: sdoganata sul piano sociale, promossa a simbolo di libertà, o almeno di strafottenza nei confronti delle regole del bon ton. Ora, a sdoganare un uso, un oggetto materiale o una tendenza culturale, serve sempre un personaggio autorevole o in vista, un attore, un cantante, un regnante, un politico, in grado di

creare un’icona E di un politico si deve proprio parlare nel nostro caso: la canottiera trovò il suo padrino, l’artefice della sua popolarità, in Umberto Bossi. L’episodio risale a più di vent’anni fa: il 26 agosto del 94, quando il capo della Lega si presentò a Porto Cervo, invitato da Berlusconi, in una delle sue lussuose residenze, indossando la canottiera. «Uno spettacolo memorabile», come scrive Marco Belpoliti, nel saggio La canottiera di Bossi (Guanda), rievocando un incontro, che, a distanza, conferma una valenza storica. Segnò, e non soltanto in Italia, l’avvento del populismo, un’inversione di tendenza ideologica, di cui la canottiera diventò una sorta di bandiera. Come dire, stabilendo un prima e un dopo. Apparteneva, infatti, al passato la canottiera, strettamente abbinata alla classe operaia: una correlazione automatica che aveva dominato l’immaginario collettivo persino nei film. L’indossava Renato Salvatori, terrone

immigrato in Rocco e i suoi fratelli, e Marlon Brando, scaricatore in Fronte del porto. Un marchio di appartenenza ormai sbiadito: e chi mai vuole ancora sentirsi un proletario? Certo, da questo punto di vista, la canottiera non è più rappresentativa. Tuttavia, come ogni moda, anche la canottiera parla esprimendosi nel linguaggio dell’epoca. Dove, adesso, in un’accozzaglia, si scontrano gli opposti. Ecco gli avanzi di ribellismo giovanile e di pseudoanarchismo, che si possono ritrovare nella versione in nero, indossata da giovani, spesso tatuati e ornati con collane etno. Mentre c’è voglia di comodità nella versione tradizionale, tipica degli anziani, che dimostrano, forse involontariamente, di aver superato antichi pudori. E, non da ultimo, quest’indumento, che rivela il corpo a nostro vantaggio o svantaggio, coincide con quella gran voglia di raccontarsi, esibirsi, affidata ai social e ai selfie. A sua volta rischiosa.

anni Geoffrey de Chateaubriand. Ai due figli del primo matrimonio, finito con la morte di Geoffrey nel 1326, se ne aggiunsero altri cinque avuti dal secondo marito Olivier de Clisson IV. Questi sposò la causa francese nella persona di Charles de Blois nella guerra di successione per il ducato di Bretagna di contro agli inglesi che volevano imporre il loro candidato John de Montfort. Olivier fu fatto prigioniero dagli inglesi nel 1342 mentre difendeva la città di Vennes. Di tutti i prigionieri si trovò ad essere l’unico a venir liberato dagli Inglesi per un riscatto in denaro così modesto da non poter non sollevare sospetti. E difatti lo stesso Charles de Blois cominciò ad accusarlo di non aver difeso Vennes al meglio delle sue forze e capacità: Olivier de Clisson si trovò di fatto ad essere incolpato di tradimento. Firmata la pace con l’Inghilterra, Olivier ed altri quindici nobili bretoni vennero invitati ad un torneo in suolo francese. Era una trappola: i bretoni furono arrestati per ordine del Re di Francia Filippo VI e

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Quando sono le figlie a scoprire un tradimento Cara Silvia, io e mia sorella, che abbiamo 16 e 18 anni, abbiamo scoperto per caso, leggendo i messaggi sul suo cellulare, che la nostra mamma ha una relazione con un collega di lavoro. Spesso sta fuori casa fino a tardi dicendo che ha delle riunioni, oppure va via qualche giorno per convegni. L’abbiamo seguita, facendo le detective, scoprendo che, con questo collega, ogni venerdì entra in un residence piuttosto lontano, guardandosi intorno furtiva per paura di incontrare qualcuno che conosce. Comunque tiene bene la casa e noi ci sentivamo amate e seguite come sempre. Eppure avvertiamo che tutto, all’improvviso, è precipitato. Abbiamo bisogno di parlarne con un adulto perché ci sentiamo piccole, sole e disorientate. Ma con chi? I nonni sono anziani e malati, gli zii li incontriamo sì e no una volta all’anno. La persona più adatta a capirci e confortarci sarebbe il papà. Ma, visto che sembra non essersi accorto di nulla, non ce la sentiamo di turbarlo.

Certo che, se facciamo finta di niente, le cose non cambiano e la serenità resta un effetto di superficie. Cosa possiamo fare? Aprire le ostilità o andarcene da casa appena possibile? / Due sorelle Care sorelle, la vita vi ha giocato un tiro mancino mettendovi di fronte ai problemi degli adulti proprio quando dovreste impegnarvi a risolvere quelli che l’età vi pone. Resta comunque chiaro che la relazione di coppia riguarda i vostri genitori, non voi. Non spetta ai figli dirimere i loro conflitti, manifesti o occulti che siano. Sarebbe però troppo facile chiudere la questione così. L’adulterio mina infatti le basi della famiglia, costituite dalla lealtà e dalla fiducia. Lo psicoanalista britannico Bion sostiene che la menzogna uccide e, in questa affermazione estrema, c’è del vero. Come essere sinceri con chi mente, anche solo con il segreto e il silenzio? Se, come ogni figlia, avete o avrete una difficoltà da confidare, un consiglio

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio La canottiera sdoganata Ormai ci abbiamo fatto l’occhio. Ricompare, puntualmente, a ogni inizio d’estate, per poi raggiungere la massima diffusione, in queste settimane. Alla stregua di un termometro, segnala visibilmente l’arrivo e la crescita del caldo, fenomeno in sé normale, ma reso eccezionale dall’allarmismo mediatico. Stiamo parlando della canottiera, associata, appunto, alle alte temperature «recepite», nei cui confronti è considerata uno strumento di difesa. Sta di fatto che ha conquistato un pubblico sempre più allargato, che non conosce limiti né di sesso, né di età o di stazza. Con effetti ovviamente contrastanti, dal profilo estetico: in questo caso non è l’abito a fare il monaco, ma piuttosto il contrario. Un conto, insomma, è la canottiera, spesso color pastello, ingentilita da spalline e profili di pizzo, indossata, con innocenza o malizia, dalle giovanissime. Un altro, invece, la canottiera tradizionale, bianca, sformata, che copre, si fa per dire, il dorso e il

petto, di uomini appesantiti dagli anni e dai chili. Che, comunque, in quella tenuta casalinga, affrontano, senza farsi scrupoli, la strada, i supermercati, i bar,

L’immagine che fece scalpore nell’estate 1994: Bossi a Porto Cervo.


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Ambiente e Benessere Elettricità fotovoltaica Stanno già sorgendo case energeticamente autosufficienti grazie ai pannelli solari

Il maiale non è grasso Il pregiudizio sulle qualità alimentari di questo tipo di carne è molto frequente ma sostanzialmente immeritato

Il vino nell’Alto Medioevo Dopo la caduta dell’Impero Romano si persero anche le conoscenze in campo enologico

La 500 agli onori Un’asta di beneficenza a sfondo ecologico vede protagonista la più piccola utilitaria italiana

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Una maschera rituale Tapirapè. (Wikipedia)

Cure e riti dei Tapirapè Antropologia e salute Grandi epidemie di diversa natura hanno decimato negli anni questa popolazione

indigena del Brasile, un contesto in cui la figura dello sciamano acquista importante significato Roberta Nicolò Per il mondo indigeno amerindio le malattie infettive sono state e ancora oggi sono un vero e proprio cataclisma. Nonostante siano passati secoli da quando Cristoforo Colombo ha messo piede nelle Americhe, importando dall’Europa anche una serie di malanni, i morbi dell’uomo bianco non hanno ancora smesso di mietere vittime. Molti indios dell’Amazzonia sono ancora facili prede di grandi epidemie, per le quali non hanno adeguate difese. La medicina tradizionale non è sufficiente per far fronte al fenomeno e quella occidentale spesso non viene riconosciuta come una possibilità dagli abitanti della foresta. Per una popolazione indigena del Brasile, quella dei Tapirapè, la malattia è stata storicamente una vera e propria catastrofe. L’antropologo Charles Wagely, che si è lungamente occupato di studiare questa etnia, nel 1942 fa una cronaca della storia e della cultura Tapirapè e racconta come già nel 1895 il vaiolo costò la vita a un intero villaggio. Poco più tardi un’influenza ne decimò un secondo, costringendo la po-

polazione sopravvissuta a rifugiarsi nei villaggi rimasti sani. Sempre in seguito al contatto con i bianchi e sempre per effetto delle malattie, la popolazione Tapirapè subì altre gravi perdite. L’arrivo della febbre gialla e della spagnola costrinsero la gente ad abbandonare le proprie case ormai infette. I villaggi si ridussero così a un solo insediamento, facendo passare la popolazione da oltre mille persone ad appena un centinaio di individui. Oggi la tribù è di circa quaranta unità tra uomini, donne e bambini, ma la maggioranza di loro è debilitata dagli effetti delle malattie per le quali non hanno adeguate difese immunitarie. La drastica diminuzione della popolazione, causata dalle epidemie, ha messo in crisi l’apparato sociale dei Tapirapè, minando il loro sistema di vita. È stata disarticolata la struttura tradizionale di famiglia allargata, si sono distorti i segmenti sociali che controllavano le attività produttive collettive, economiche, cerimoniali e ancora sono state colpite le regole matrimoniali. Si teme che presto questa popolazione indigena possa scomparire. Wagely scrive infatti che un si-

stema sociale qualunque, anche il più semplice, può operare solo in base a un numero minimo di membri; eventi improvvisi come le grandi epidemie, possono essere letali per le piccole comunità indigene dell’Amazonia. Con premesse come queste, il ruolo degli sciamani tra i Tapirapè assume un’importanza significativa. Come nella più autentica tradizione americana, la figura del guaritore ha una funzione fondamentale in seno alla comunità, poiché rappresenta un legame forte e tangibile con la propria cultura d’appartenenza e rispecchia la tradizione. Per molti curatori dell’America latina l’uso di sostanze allucinogene fa parte dei rituali preposti alla diagnosi e alla guarigione. Una delle sostanze più usate dalle popolazioni sud americane è il tabacco, sostanza che contiene alcaloidi allucinogeni e che può quindi indurre visioni se consumata in grandi quantità. Lo sciamano trae così potere dai sogni indotti dal consumo di tabacco, durante i quali incontra spiriti che diventano suoi assistenti durante la cura del malato. Il tabacco è anche utilizzato come strumento principe di molti riti di guarigione Tapirapè ed è

utilizzato dallo sciamano in vari modi. Le pratiche di guarigione richiedono allo sciamano non solo l’aiuto di uno spirito guida, ma anche una grande destrezza manuale. A meno che la malattia non sia particolarmente grave da richiedere un intervento immediato, il rituale viene praticato a sera inoltrata. Lo stregone si siede accanto al giaciglio del malato e si accende la pipa. Se il malato ha la febbre o è incosciente il metodo di cura più frequente è il massaggio. Lo sciamano soffia e fuma sul corpo del paziente, poi sputa e massaggia il corpo facendo attenzione a muoversi sempre dal centro verso le estremità. Una volta raggiunte le gambe o le braccia fa un gesto secco con le mani, un gesto grande che sia notato dai presenti, a significare che sta scacciando da quel corpo una presenza non desiderata. Il metodo più frequente per curare un malato è per i Tapirapè quello di estrarre un oggetto dal corpo del paziente succhiandolo fuori. Essi credono infatti che molte delle indisposizioni più comuni derivino dalla presenza di un oggetto portatore di malattia presente all’interno del corpo. Lo sciamano si accovaccia accanto al malato e

inizia letteralmente a mangiare fumo, ingoiandone ampie boccate dalla sua pipa. Ne inala grandi quantità, per cui resta intossicato. Inizia a mostrare segni di nausea e vomita violentemente. Seguono una serie di conati a vuoto durante i quali lo stregone si ferma per succhiare il corpo del paziente in vari punti. Infine, con grande sforzo, vomita tutto sul pavimento espellendo così anche l’oggetto all’origine del malanno. Cerca tra i resti la causa principale del malessere del malato e anche se tale oggetto non viene mai mostrato ne al paziente ne al resto della comunità, questo gesto da forza al rito, infondendo un senso di autorevolezza. Durante il trattamento lo sciamano ripete molte volte il procedimento di mangiare fumo, succhiare e vomitare e in qualche caso, se il malato è una figura importante, due o tre sciamani collaborano alla cura. L’introduzione di malattie nuove tra le popolazioni indigene dell’Amazonia ha spiazzato la medicina tradizionale autoctona, che nonostante la grande conoscenza delle erbe mediche e dei riti di guarigione nulla può contro la mancanza dei giusti anticorpi.


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Ambiente e Benessere

Ambiente e Benessere

Corrente elettrica di produzione propria Energia Gli edifici «a energia zero» e «produttori di energia» ne producono in un anno la quantità necessaria

o anche superiore al consumo degli occupanti. La maggior parte di questi edifici però ha bisogno dell’allacciamento alla rete elettrica per immettervi l’energia solare prodotta in eccesso e prelevare all’occorrenza la corrente necessaria. Il distacco dalla rete elettrica resta un obiettivo remoto

Sfruttare in modo coerente l’energia FV propria

Benedikt Vogel*

Edifici a energia zero anche di grandi dimensioni

Con o senza allacciamento alla rete, le case «a energia zero» o «produttrici di energia» esercitano sempre un grande fascino e mettono in pratica il concetto di un approvvigionamento elettrico da unità decentralizzate che si approvvigionano autonomamente. Finora questa idea era stata sperimentata prevalentemente su case unifamiliari e condomini di piccole dimensioni. «Ma con un perfetto isolamento termico l’idea funziona anche negli stabili con molti piani e negli edifici amministrativi», afferma la Dr. Monika Hall, scienziata presso l’Istituto Energia nell’Edilizia della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera nordoccidentale (FHNW) a Muttenz (BL). La Hall si basa sui risultati del progetto «Grenznull» che ha recentemente concluso. In questo studio, condotto su

La pompa termica come chiave per massimizzare il consumo proprio di energia solare: questa è la conclusione esposta anche da un progetto pilota e di dimostrazione condotto a Kriens (LU) con il sostegno dell’UFE e del Cantone di Lucerna. Un edificio certificato secondo Minergie-A-Eco, con cinque abitazioni e due unità commerciali, copre con un impianto FV (29,8 kWp) l’80% del consumo di elettricità per riscaldamento, acqua calda sanitaria, aerazione dei locali, corrente elettrica generale e tutto il consumo di corrente degli utenti (bilancio eseguito su base annuale). La nuova costruzione occupata nella primavera 2013 è dotata di un sistema intelligente di gestione dell’edificio (unità di controllo KNX). Il sistema regola gli orari di funzionamento della pompa di calore per acqua/aria e gli elettrodomestici utilizzati nelle abitazioni (lavatrice, asciugatrice, lavastoviglie) in modo da massimizzare il consumo personale di energia FV. Se in

Il grado di approvvigionamento proprio del condominio a energia di riscaldamento zero di Kriens oscilla in inverno – qui dicembre 2014 – tra lo 0 e il 35%. (e4plus)

passato per gli impianti FV erano tipici gradi di approvvigionamento proprio dell’ordine del 25%, a Kriens questa percentuale si è attestata tra il 40% (cielo coperto) e il 60% (tempo soleggiato), mentre nei mesi invernali tra lo 0% (moduli FV coperti dalla neve) e il 35% (tempo soleggiato), con un bilancio eseguito sempre su un periodo di 24 ore. Questo è il risultato della campagna di rilevamento durata due anni, da metà 2013 a metà 2015. «Le valutazioni mostrano che il consumo personale può essere nettamente incrementato senza pregiudicare il comfort degli occupanti» si asserisce nella relazione finale di recente pubblicazione. Il maggiore contributo all’incremento del consumo personale è dato dalla pompa di calore: riscalda l’edificio di giorno se è disponibile energia FV, mentre nei periodi con poco sole funziona al minimo grazie alla capacità di accumulo di calore dell’edificio. Vale la pena sincronizzare i tempi della pompa di calore con l’impianto FV. Il bilancio è invece meno conveniente con gli elettrodomestici con classe di efficienza energetica più alta e consumi più bassi.

giorno). «Del tutto insoddisfacente» è stata giudicata da Portmann l’efficienza della pompa di calore utilizzata (fattore di prestazione annuale (JAZ) solo da 2,2 a 2,5 nei mesi estivi). La conclusione di Portmann: «Le pompe di calore monostadio non sono a nostro avviso adatte per questo tipo di esercizio. Sarebbe più opportuno utilizzare impianti con inverter o almeno apparecchi a due stadi». Markus Portmann trova conferma nello sviluppo tecnologico degli ultimi anni. Il controllo della pompa termica, che aveva sperimentato in via pionieristica nel suo progetto, è diventato oggi lo standard tecnico in molti luoghi. Il consumo proprio di energia solare è stato inoltre riconosciuto per legge dall’aprile 2014. Ciò nonostante, Markus Portmann accoglie con una certa dose di scetticismo l’idea della casa «a energia zero», energeticamente autarchica. «Molti edifici producono di volta in volta energia in eccedenza. Se non si vuole ricorrere a batterie poco sostenibili, queste eccedenze devono essere utilizzate negli edifici vicini. Pertanto è più opportuno puntare

«In questo caso il costo per il collegamento non è proporzionato al risparmio», si rileva con obiettività nella relazione finale. Pensare in termini di quartiere

Il progetto di Kriens di Markus Portmann, titolare dello studio di consulenza energetica e4plus AG, rappresenta un punto di riferimento per l’edilizia sostenibile. Il progetto prevede, tra l’altro, l’impiego coerente di materie prime di provenienza regionale, quale l’abete bianco di Lucerna. Con 86,5 kWh/ m2 a il consumo di energia primaria non rinnovabile è del 30% inferiore al valore mirato secondo la scheda tecnica SIA 2040 «Il percorso di efficienza energetica». Nel corso del progetto, Portmann ha dovuto superare piccoli e grandi ostacoli. Sono occorse infatti tenaci trattative con l’azienda elettrica locale per riuscire ad azionare la pompa di calore nelle ore diurne con propria energia FV (normalmente l’azienda elettrica arresta le pompe di calore con un segnale di comando centralizzato per interrompere il picco di mezzo-

a massimizzare il consumo proprio di energia FV non per il singolo edificio, ma a livello di quartiere». * Su incarico dell’Ufficio federale dell’energia (UFE). Note

Maggiori informazioni sui progetti di ricerca dell’Istituto Energia nell’Edilizia dell’FHNW sono disponibili all’indirizzo: www.fhnw.ch/habg/iebau. La relazione finale del progetto «Grenznull» dell’FHNW è disponibile all’indirizzo: http://www.bfe.admin. ch/forschunggebaeude/02107/02134/ index.html?lang=it&dossier_ id=06530. La relazione finale del progetto di Kriens («Plusenergie-Mehrfamilienhaus mit produktionsoptimiertem Verbrauch») è disponibile all’indirizzo: http://www.bfe.admin.ch/forschunggebaeude/02107/02139/index. html?lang=it&dossier_id=05812. Banca dati con edifici «produttori di energia»: www.energie-cluster.ch/pegdatenbank.

Azione Il promotore e committente Markus Portmann ha fissato nuovi standard per un’edilizia sostenibile con il condominio in Kirchrainweg a Kriens. (Emanuel Ammon)

quattro modelli di edificio con pianta rettangolare o quadrata e con un numero di piani compreso tra 2 e 40, la ricercatrice ha calcolato che la resa solare con una copertura dell’intera superficie del tetto e della facciata con moduli FV è sufficiente per ottenere lo standard di energia zero.

Nel 21esimo secolo la conquista potrebbe consistere nel riuscire a fare a meno dell’allacciamento alla rete elettrica Nella sua simulazione, la Hall ha esaminato l’influsso di diversi parametri, ad esempio durata dell’irraggiamento, tipo di produzione di calore (gas, teleriscaldamento, pompa di calore),

distanza/altezza degli edifici vicini, ombreggiamento endogeno dei balconi o grado di efficacia del sistema dell’impianto FV. I calcoli mostrano che aumentando l’altezza dell’edificio, il bilancio a energia zero è sempre più difficile da raggiungere poiché i moduli sulla facciata hanno una resa solare ridotta rispetto ai moduli sul tetto. «Lo standard a energia zero per gli edifici con i consueti cinque o sei piani è però raggiungibile in molti casi » è una principale asserzione dello studio. E inoltre: «Senza una buona pianificazione, una gestione molto efficiente e grandi superfici FV con un’elevata resa di energia FV, la realizzazione di grandi edifici a energia zero diventa difficile». Secondo la Hall, per il raggiungimento dell’obiettivo energia zero sono prioritari i seguenti punti nella pianificazione: a) altissimo standard di isolamento termico, b) consumi minimi di corrente di un’economia domestica

Nel bilancio annuale zero energia da fonti esterne In questo articolo specialistico il termine «edificio a energia zero» o «produttore di energia» indica un edificio, che – considerato nel periodo di un anno – produce con un proprio impianto fotovoltaico la quantità di energia necessaria o anche superiore al consumo per riscaldamento/raffreddamento, acqua calda sanitaria, aerazione ed esercizio (elet-

Il grado di approvvigionamento proprio del condominio a energia di riscaldamento zero di Kriens oscilla in estate – qui agosto 2015 – tra il 40 e il 60%. (e4plus)

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trodomestici, illuminazione, ma anche apparecchi ausiliari, quali ad es. pompe di ricircolo per il riscaldamento). Occorre distinguere fra «edificio a energia zero» ed «edificio a energia di riscaldamento zero»: in quest’ultimo caso l’energia solare propria della casa – sempre calcolata in un anno – copre il consumo per riscaldamento/raffredda-

mento, acqua calda sanitaria, aerazione e apparecchi ausiliari, ma non quello di elettrodomestici e illuminazione. Gli edifici certificati secondo lo standard Minergie-A sono edifici almeno a energia di riscaldamento zero; nel migliore dei casi possono addirittura soddisfare i requisiti degli edifici a energia zero. / BV

vo a Chiasso / 8 piani e un condominio a Romanshorn / 6 piani) e su un terzo immobile (Oggetto Sihlweidstrasse a Zurigo / 17 piani).

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Massimizzare il consumo proprio

Markus Portmann riceve il premio «Watt d’Or». (Emanuel Ammon)

mediante l’impiego di apparecchi a efficienza energetica, c) produzione di calore per mezzo di teleriscaldamento o pompa di calore, d) grandi superfici FV con elevato grado di efficacia del sistema, e) basse perdite di circolazione e di accumulo per riscaldamento e acqua calda sanitaria. Invece ha una priorità solo secondaria – perché poco influenzabile e di scarsa efficacia rispetto ai punti da a) a d) – l’ombreggiamento generato da edifici vicini. Piuttosto secondari sono anche l’influsso dei balconi sporgenti e l’orientamento dell’edificio (est-ovest vs. nord-sud). La ricercatrice dell’FHNW ha validato i valori della sua simulazione su due edifici reali a energia zero (Palazzo Positi-

Negli anni passati Monika Hall ha studiato nell’ambito di altri due progetti di ricerca, sempre sostenuti dall’UFE, in che modo i gestori di impianti FV possono massimizzare il proprio consumo personale. Il modo più evidente per influenzare il consumo personale consiste nello spostare l’orario di funzionamento della pompa di calore nelle ore diurne. La Hall ha dimostrato questa tesi in un edificio «produttore di energia» sito a Rupperswil (AG). Il 16% del consumo di corrente della casa è dovuto alla pompa di calore. Limitandone il funzionamento all’orario dalle 10.00 alle 19.00, in inverno è stato possibile spostare 1.000 kWh dalle ore serali e notturne a quelle diurne, aumentando dal 21% al 34% il grado di approvvigionamento proprio con energia FV propria (il tutto senza un maggiore accumulo di energia). Nel progetto successivo la Hall ha studiato quale fosse la massima limitazione possibile dell’orario di funzionamento della pompa di calore. Riducendo la finestra temporale del funzionamento a meno di sette ore, la casa non è più sufficientemente riscaldata. Tempi d’esercizio così brevi delle pompe di calore non sono adatti per le costruzioni in legno (prefabbricati) perché questi edifici hanno

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Una delle conquiste del 20° secolo è stato l’allacciamento alla rete elettrica praticamente di ogni casa. Nel 21° secolo la conquista potrebbe consistere nel riuscire a fare a meno dell’allacciamento alla rete elettrica. Con la produzione decentralizzata di energia elettrica con il fotovoltaico (FV) e i grandi progressi in materia di isolamento termico degli edifici, la visione di un edificio autarchico dal punto di vista energetico sembra essere infatti alla nostra portata. E a Brütten è già realtà: in questo comune del Canton Zurigo Walter Schmid, pioniere dell’energia, sta realizzando un condominio privo di allacciamento alla rete elettrica e del gas. La casa è in grado di coprire sempre e autonomamente il proprio fabbisogno di energia grazie a moduli FV e a serbatoi d’accumulo stagionale. Oggi l’immobile energeticamente autarchico di Brütten è ancora un’eccezione assoluta. Diversamente da questo progetto precursore, altri edifici «a energia zero» o «produttori di energia» continuano ad avere un allacciamento alla rete elettrica e potrebbero raggiungere l’autarchia solo con un cospicuo costo aggiuntivo. Nel corso di un anno queste case sono certamente in grado di produrre con il proprio impianto FV la quantità di corrente necessaria o superiore per riscaldamento, acqua calda sanitaria, aerazione, elettrodomestici e illuminazione, ma hanno bisogno dell’allacciamento alla rete. Per poter immettere in rete l’energia elettrica prodotta in eccesso e prelevare elettricità dalla rete in caso di resa solare insufficiente, sono infatti soggette a uno scambio continuo con la rete elettrica.

una ridotta capacità di accumulo del calore, come ha accertato la Hall. È interessante rilevare un’osservazione marginale: sebbene talvolta non sia stata raggiunta la temperatura minima (20° C) stabilita dalla norma SIA 180 e dalla norma DIN SN ISO 7730 per la classe di comfort B, che mira a garantire il comfort degli occupanti (max. 1 grado in meno in alcune ore), non vi sono stati reclami da parte degli inquilini. Da questa circostanza Monika Hall ha tratto la seguente conclusione: «Almeno sporadicamente dovremmo poter restare al di sotto delle temperature minime stabilite dai requisiti del comfort. In questo modo si potrebbero gestire con maggiore flessibilità le pompe di calore, e ancor più nelle ore in cui l’energia FV è disponibile e può essere utilizzata direttamente».

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Ambiente e Benessere

I pregiudizi sul suino Gastronomia La carne di maiale non è grassa, alcune parti anzi risultano paragonabili al manzo e al pollo Allan Bay Fino a poco tempo fa il maiale, sia nella versione fresca sia in quella conservata, ha rischiato l’oblio: non esagero per nulla, chiedete ai macellai amici. Oblio, ho scritto, non estinzione. Ma quando per qualsiasi prodotto alimentare si incomincia con l’oblio, il futuro non è per nulla roseo…

I tagli freschi sono sempre oltremodo gustosi ma il meglio di sé questo tipo di cibo lo dà negli insaccati, preparazioni golose dalle varie ricette Il motivo dell’oblio: era percepita come carne grassa. I dietologi avevano un bel dire che taglio per taglio, insaccato per insaccato, non si discostava dal manzo e a volte addirittura dal pollo. Però, per definizione, la carne di maiale era grassa. Soprattutto nel salame dove la vista delle macchioline bianche di grasso era percepita come un insulto a una corretta alimentazione. E quindi ecco il boom della bresaola e di tutti i tagli degli animali dove il rosso della carne non era accompagnato dal bianco del grasso. Per fortuna, l’oblio non c’è stato, anzi oramai si può dire (ma forse si può sperare solo, purtroppo…) c’è stata una completa inversione di tendenza. Certo, gli allevatori hanno selezionato animali più magri e i trasformatori hanno imparato a ridurre l’apporto dei grassi. Ma soprattutto ci si è resi conto che qualche grammo di grasso animale, di un animale ben allevato, non rappresentava un rischio per la nostra salute. Ovviamente se siamo abbastanza accorti nel variare l’apporto delle proteine, aumentando quelle di origine vegetale (legumi su tutti) e di quelle del pesce, da sempre bassissime, oggi per

fortuna in crescita – anche se il consumo dei meravigliosi ceci, un ingrediente che più «intelligente» non si può, è basso da far paura… Comunque la parola d’ordine vincente è diventata: diversificare e se sai diversificare allora puoi permetterti anche di sgarrare ogni tanto, che conta il consumo settimanale o mensile e non il singolo piatto. E allora godiamoci il maiale fresco. L’arista, certamente, molto apprezzata, ma anche un taglio come il coscio (un inciso: ha 110 kcal per 100 g, come il pollo crudo senza pelle…) o la spalla, perfetti per gli infiniti spezzatini della nostra tradizione. Ma soprattutto godiamoci il maiale trasformato, ovvero i salumi a base di maiale. Salume vuol dire carne lavorata secondo la tecnica della salatura e della stagionatura, tecniche millenarie che oramai sono virtualmente perfette. Si dividono in due grandi famiglie: quelli ottenuti da tagli interi, come prosciutti, coppe, culatello e altri ancora, e quelli ottenuti da carni macinate, che a loro volta si dividono in quelli che si possono consumare crudi, i salami sostanzialmente, in linea di massima fatti con tagli più nobili, e quelli che richiedono invece una cottura, come le salsicce, il cotechino e il mitico zampone, fatti con tagli meno nobili, ciò che va scritto fra molte virgolette perché sono tagli squisiti. Ecco, soffermiamoci sulle umili salsicce. Sono da sempre stato il prodotto più povero. Oggi, sono cresciute in qualità e sono più fresche grazie a una tecnica di conservazione, il sottovuoto (sia sempre lodato, alla salvezza del maiale conservato ha dato una spinta incredibile). Per chi ama il maiale, sono come le madeleine di Proust, il sapore ancestrale che fa parte del nostro dna. Oggi, sono sdoganate alla grande a tutti i livelli della ristorazione, anche al top. Godetele. Curiosamente, il vino che le accompagna al meglio è… il sommo Champagne. Anche se la domanda senza risposta è: chi nobilita chi?

CSF (come si fa)

Vediamo come si fanno tre ottimi piatti con la salsiccia. Pasta con ricotta e salsiccia. Per 4. Sbriciolate in una padella 200 g di salsiccia e fatela rosolare a fuoco basso con 2 cucchiai di soffritto di cipolle, 4 cucchiai di salsa di pomodoro e 1 punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua, mescolando. Regolate di sale e di pepe. Amalgamate, in una zuppiera, 200 g di ricotta passata al se-

taccio con una manciata di pecorino grattugiato e abbondante pepe. Portate in ebollizione in una pentola abbondante acqua, salatela poco e lessate 320 g di pasta. Scolatela al dente e saltatela con la salsiccia aggiungendo un mestolo di acqua di cottura. Versate la pasta nella zuppiera e, mescolando velocemente, amalgamatela alla ricotta. Riso con salsiccia. Per 4. Sbriciolate 200 g di salsiccia e fatela stufare in una casseruola con 1 bicchiere di vino bianco secco per 15’, mescolando. Unite 4 cucchiai di soffritto, 2 mestoli di brodo di vitello o vegetale bollente, 200 g di salsa di pomodoro e 300 g di riso. Cuocete a fuoco basso mescolando di tanto in tanto e unendo altro brodo bollente quando necessario. Alla fine regolate di sale e di pepe, condite con 40 g di burro, con poco grana

grattugiato e con abbondante prezzemolo tritato. Risotto con salsiccia e fagioli. Per 4. Spellate 200 g di salsiccia, meglio se lunga e sottile. Tritatela e cuocetela poi per 20 minuti in un padellino con un bicchiere di vino rosso sobbollito per 3 minuti. Tostate per 2’ in una casseruola 320 g di riso Carnaroli. Versate un mestolo di brodo di carne bollente, mescolate e unite la salsiccia e 4 cucchiaiate di soffritto di cipolle. Portate il risotto a cottura aggiungendo un mestolo di brodo bollente alla volta, aggiungendo quello successivo solo dopo che il precedente sarà stato assorbito. 4’ prima che sia pronto unite 150 g di fagioli borlotti lessati. A cottura regolate di sale e di pepe, mantecate con 20 g di burro, coprite e lasciate riposare per 2’.

Ballando coi gusti Oggi due torte salate che vanno bene per il pranzo, per uno spuntino, per antipasto, insomma (quasi) sempre bene

Torta con porri e noci

Torta di alici e peperoni

Ingredienti per 6 persone: 3 porri · farina g 20 · latte dl 2 · basilico · gherigli di

Ingredienti per 6 persone: farina g 300 · burro g 100 · 1 uovo · 1 bustina di lievito

noce g 100 · grana grattugiato · pasta brisée g 500 · semi di sesamo · olio di oliva · sale.

in polvere · peperoni verdi e gialli g 500 · panna g 200 · 2 cucchiai di grana grattugiato · 2 filetti di alici sottolio · olio di oliva · sale.

Mondate i porri, tagliateli a rondelle e fatele stufare in padella con poco olio per 10’. Salate leggermente e spolverateli con la farina; mescolate e versatevi sopra il latte caldo. Fate cuocere per altri 5’ circa. Unite il basilico e spegnete. Trasferite il composto ai porri in una ciotola, unitevi i gherigli tritati grossolanamente e il grana grattugiato e mescolate. Tirate la pasta in una sfoglia sottile e trasferitela in una tortiera foderata con carta da forno. Farcite con il composto di porri e noci, cospargete la superficie con semi di sesamo e fate cuocere in forno a 180° per 20’. Sfornate e lasciate intiepidire prima di sformare e servire.

Lavorate la farina con il burro a temperatura ambiente tagliato a pezzetti, l’uovo, il lievito e un pizzico di sale. Se la pasta dovesse sbriciolarsi, unite un po’ di acqua tiepida. Stendetela con il matterello in una sfoglia sottile e mettetela in uno stampo rotondo rivestito con carta da forno. Mondate i peperoni, tagliateli a listarelle, salateli e cuoceteli in una casseruola con 2 cucchiai di olio per 20 minuti a fuoco medio; devono risultare abbastanza asciutti. Eliminate l’eventuale acqua in eccesso. Scolate i peperoni, metteteli in una ciotola, aggiungete la panna, il grana e i filetti di alici scolati e tagliati a pezzettini. Regolate di sale, mescolate e versate la farcia sulla pasta. Cuocete in forno a 200° per 40’. Servite la torta tiepida.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 2 agosto 2016 ¶ N. 31

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Ambiente e Benessere

L’Alto Medioevo e le preziose vigne Il vino nella storia Tra il V e il VI sec. d.C

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il vino è soggetto a giudizi contraddittori

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Il re longobardo Rotari inserì nel suo Editto una serie di pene per chi danneggiava le vigne. (Wikipedia)

Con la caduta nel 476 d.C. dell’Impero Romano d’Occidente, molte cose cambiarono, nelle abitudini e nella vita sociale. A causa della fuga dalle città depredate dai barbari, nelle campagne si formarono le cosiddette «fattorie fortificate». La repulsione per la vita urbana che si radica nella classe nobiliare, presenta un doppio risvolto: quello di evadere gli insopportabili oneri finanziari e la constatazione dell’impossibilità di prendere parte alla vita della res publica appannaggio di altri. Pertanto le grandi proprietà di campagna con le ville rustiche rappresentano un’eccezionale opportunità per coloro che intendono investire nelle terre. A metà strada tra il sacro e il profano, il vino vive tra il V ed il VI sec. d.C. un ruolo contraddittorio. Anche se il nuovo rigore religioso dei primi cristiani cerca di cancellare i riti sacri a Dioniso e le orge ad essi legati, non si può tuttavia negare un posto di preminenza a questa bevanda, tanto nell’economia quanto nella vita sociale dei «secoli bui». Nel VI sec. d.C. le «ville rustiche» vengono inglobate dalla Chiesa in un nuovo sistema organizzativo, talora comprensive degli stessi proprietari che prendono i voti. Cassiodoro (490-573 d.C.) erudito ministro di Teodorico, nelle sue lettere cita alcuni vini dell’epoca, il Palmatinum (di Palmi?), un denso vino calabrese, i vini della Sabina e tesse le sue lodi per i vini veronesi, soffermandosi anche sui vini preferiti da Atalarico (516-536), Re degli Ostrogoti e nipote di Teodorico, quali l’Acinatico (Recioto)e un vino passito, forse l’antenato del Torcolato. Alcuni ordini monastici privilegiati, come i benedettini e i cluniacensi, divennero i veri cultori della tecnica di vinificazione e grazie alla loro opera la viticoltura venne intensificata. Con il subentrare della Chiesa anche nell’autorità civile, ecco monaci e rappresentanti del clero secolare correre ad accaparrarsi terreni e vigneti ottenuti per donazioni o concessioni. I monaci coltivano con impegno le vigne, affinano la loro tecnica di vinificazione e divulgano quest’arte sotto forma d’insegnamento. Ma sia per dovere cristiano, sia per puro bisogno economico di sostentamento, ecco comparire nei conventi vere e proprie osterie (da hostes, luogo ospitale, rifugio). Il peccato è in agguato! E anche la scomunica papale contro le ubriacature di monaci e novizi. Ma nonostante questi rischi, la viticoltura continuò a prosperare. Persino i vescovi divennero vignaioli e cantinieri, perché ormai lo scopo non era più quello di assicurare alla Chiesa il vino necessario per il rito della Santa Messa, ma anche quello di rende-

re possibile una degna ospitalità a monarchi, eminenze e nobili di passaggio nella città. Incrementare la produzione del vino, voleva inoltre dire rimpinguare il tesoro, oltre che la cantina del vescovo. La vigna veniva coltivata ad alberello con supporti a palo secco. Questo sistema consentiva una produzione intensiva anche su terreni ad estensione limitata. A protezione della vite vigeva l’Editto di Rotari, proclamato dal Re dei Longobardi nell’anno 643, che comminava pene severe per varie infrazioni ai danni della vigna propria ed altrui. Se il Re dei Longobardi si preoccupò di salvaguardare la vite, Carlo Magno Re dei Franchi, fece in modo che venisse risanata completamente la disastrosa situazione venutasi a creare dopo il violento passaggio di orde barbariche, con il Capitulare de Villis viene regolamentata la viticoltura e la vinificazione. Con particolare cura nell’igiene delle botti in cui si conservava il vino e l’ingiunzione di usare i torchi per la spremitura «affinché nessuno presuma pigiare coi piedi la nostra vendemmia». Che tipo di vino era prodotto e quali i vitigni? I documenti per l’Alto Medioevo sono decisamente scarsi, si pensa che il vino bianco predominasse sul vino rosso. Sopravvisse l’usanza di aromatizzare il vino, ma non si è in grado di stabilire la capacità delle misure (cangio, mina, staio, begungio). I trattati sui vini medievali e sulla vite non sono di certo copiosi. Si deve a tale Cassiano Basso, la composizione piuttosto ampia su tutto lo scibile agronomico dell’antichità, le Geoponiche una specie di bibbia agraria bizantina, composta intorno al 670-680 su volere dell’Imperatore d’Oriente Costantino IV, l’opera dedicata al vino e alla vite, cinque dei venti libri, raccogliendo tutte le informazioni desunte da autori greci e latini. L’opera scritta in greco fu tradotta dopo l’anno mille in latino da Burgundione da Pisa. Quasi inesistente è la letteratura di tipo simposiaco, eccezione per qualche autore come Venanzio Fortunato VI sec. e Paolo Diacono storico longobardo (724-799 ca.). Come per le epoche precedenti, non mancano gli anatemi e le condanne contro uno spregiudicato uso del vino, rivolte anche contro certi ministri della Chiesa dei quali dirà San Pier Damiano «bramano di arricchirsi perché nei bicchieri biondeggiano mille vini artefatti». Non dobbiamo poi dimenticare che tra l’VIII e il IX secolo, la dominazione araba lasciò segni profondi in tutta Europa e le conquiste in nome dell’Islam ebbero un effetto devastante sulla viticoltura e sulla produzione del vino, in quanto (vedi Sura II, v. 219, Sura V, vv. 90-1) gli scritti e le parole di Maometto a tal proposito sono inequivocabili.

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Ambiente e Benessere

L’Appennino dal finestrino Viaggio Una giornata in corriera lungo la Val Trebbia può regalare nuove conoscenze storiche e sorprendenti

panorami che in poche ore possono alimentare uno strano sentimento di malinconia Paolo Merlini È un giorno qualunque di primavera e lo spenderò risalendo la Val Trebbia con gli autobus di linea. L’andatura gentile della corriera permette di valicare l’Appennino assaporando lentamente i 135 chilometri della Statale 45. È un modo di viaggiare che non mi stanca mai: seduto comodamente a due metri e mezzo d’altezza, mi godo il verde paesaggio senza dover pensare alla guida, mescolato tra la gente del posto che sbriga le sue faccende. Completamente fuori sincrono rispetto al frenetico andirivieni mattutino di Piacenza, alle 7.40 salgo a bordo del bus Seta, timbro il mio biglietto extraurbano da pochi euro e, seduto accanto al finestrino, ripasso l’itinerario. Mi fermerò a Bobbio, pranzerò sul limitare dell’Emilia Romagna a Ottone, quindi dopo un altro cambio a Torriglia inizierò la discesa per Genova. Oggi come ieri, queste sono le tappe della storica via di comunicazione tra le pianure del Po e il Mar ligure. Lasciare il centro di Piacenza non è complicato. Qua e là il bus raccatta passeggeri costeggiando i bastioni farnesiani, bypassa la tangenziale e imbocca sicuro la Strada bobbiese. Bastano pochi chilometri e mi ritrovo immerso nel Far West dei nostri campi, questa pianura padana che in primavera è verde come le praterie americane e per me, piccolo viaggiatore incantato, altrettanto sconfinata.

Le tracce dell’uomo sono poche, con mia piacevole sorpresa. Sparuti distributori di benzina e rari capannoni, a intervalli regolari, punteggiano la strada fino a Rivergaro dove la pianura finisce, la valle comincia a restringersi e il fiume finalmente si palesa col suo ampio letto dalla buona portata d’acqua, nonostante un inverno avaro di pioggia. A poco più di un’ora dalla partenza eccomi a Bobbio, accolto all’inizio del paese dalla statua di San Colombano. L’antico centro medievale sulla sponda sinistra della Trebbia, circondato dal rigoglioso paesaggio naturalistico del Monte Penice, è ben conservato. La guida Touring insiste che dovrei visitare subito l’abbazia, fondata nel 614 dal monaco cenobita di origini irlandesi, e in particolare il famoso Scriptorium preso a modello da Umberto Eco ne Il nome della rosa. Invece corro al Ponte vecchio. È lungo 273 metri, conta undici campate irregolari ed è detto perciò anche «gobbo». Ha origini romane e gli uomini del medioevo, dinanzi all’abilità costruttiva degli antichi, favoleggiarono di patti col diavolo, spinto a collaborare alla costruzione promettendogli un’anima che gli sarebbe poi stata negata con l’astuzia. Quante volte ho sentito questa stessa storia, in luoghi diversi e lontani! Le due ore prima della coincidenza volano via in un battibaleno. Vorrei restare più a lungo ma la corsa delle 10.40 per l’alta valle promette ancora meraviglie e così m’imbarco sul confortevole

minivan. Il nuovo autista resterà anonimo ma sarà prodigo di informazioni. Prendiamo quota mentre il corso d’acqua serpeggia molto più in basso della statale, aggrappata alla montagna. Le anse formate dal fiume nei secoli hanno eroso la roccia calcarea, creando una scena da Signore degli anelli: una valle sconfinata, un mare di basse vette dalla fitta vegetazione. Intorno ai mille metri d’altitudine domina il faggio; più in alto troviamo sorbo, acero, larice e ontano; sotto di noi quercia, castagno, cerro, carpine, olmo e rovere. Nei pressi di Cerignale l’autista s’improvvisa cicerone e mi ricorda che il 18 dicembre del 218 a.C. qui si combatté una delle grandi battaglie di Annibale. Poi rallenta per farmi ammirare il profilo di un colle boscoso che, complice una delle anse del fiume, ricorda il profilo di un gigantesco pachiderma sdraiato. Sto al gioco e fingo di riconoscere il bestione. Strada facendo l’autista, ormai loquace, mi indica Capannette di Pej, frazione del comune di Zerba, il più occidentale dell’Emilia Romagna. Capannette è in Val Boreca, alle falde del Monte Chiappo, proprio sul confine di quattro province appartenenti a quattro regioni differenti (Alessandria, Genova, Pavia e Piacenza). La Val Trebbia è una terra di nessuno distesa tra Piemonte, Liguria, Lombardia ed Emilia Romagna. Oggi molti faticano a collocarla su una carta geografica, ma nei secoli passati questo ter-

Una vista su Bobbio dal ponte vecchio. (Paolo Merlini)

ritorio, aperto in ogni direzione, aveva un valore strategico fondamentale. A Ottone il capolinea è in Piazza della libertà e mezzo paese pranza con me all’Albergo ristorante Genova. Qui l’ostessa, per quanto indaffarata, trova il tempo di raccontarmi che secondo Ernest Hemingway questa è «la valle più bella del mondo». L’ottimo Bonarda dell’Oltrepò Pavese non fa venir voglia di fare le pulci a ogni affermazione; felice come un bambino corro alla palina poeticamente piantata sotto un grande ippocastano in fiore.

Alle 12.55 prendo un altro minivan, questa volta della ligure APT. Senza fretta arriviamo a Rovegno, comune di 569 anime già in provincia di Genova, dove aspettiamo che i bambini della locale Scuola elementare Giorgio Caproni finiscano le lezioni, poi per pochi chilometri diventiamo un allegro scuolabus. Tra poco arriverò a Torriglia da dove un’ultima corriera, intorno alle 15, mi lascerà a Genova in Piazza della Vittoria. Ma so che presto, anzi subito, queste montagne mi mancheranno. Annuncio pubblicitario

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THOMY e le galline felici Da dove viene l’espressione «galline felici»? THOMY si è dedicata intensamente a questo tema e a partire dal 1o maggio 2016 ha adattato l’intera produzione di salse in maniera tale da non utilizzare più uova da allevamento a terra, bensì uova da allevamento all’aperto.

Le galline felici e le loro uova: tre dati di fatto 1.

Qual è la differenza? Per evidenziare al meglio la differenza tra i due tipi di allevamento vi è un trucco molto semplice: cercate su Google prima «allevamento a terra» e poi «allevamento all’aperto». Riconoscerete subito che la differenza sta nel benessere degli animali. Il passaggio da uova da allevamento a terra a uova da allevamento all’aperto per THOMY rappresenta un’importante pietra miliare e una chiara dichiarazione a favore del benessere degli animali e della sostenibilità.

Il colore delle uova (bianco o marrone) né influisce sulla qualità né è legato al colore delle piume, bensì dipende dalla razza delle galline: se hanno il «lobo auricolare» rosso depongono uova marroni, se invece è bianco anche le uova lo sono.

2. Allevamento a terra o all’aperto? Il timbro indica da dove proviene l’uovo: la prima cifra ci svela come è stata allevata la gallina che ha deposto l’uovo: 0 sta per uova bio, 1 per allevamento all’aperto, 2 per allevamento a terra e 3 per allevamento in gabbia. 3. L’uovo ci fornisce sostanze nutritive: esso contiene soprattutto pregiate e vitali unità costitutive delle proteine. Un singolo uovo copre circa il 10% del fabbisogno giornaliero di proteine e vitamina D e più del 20% del fabbisogno giornaliero di vitamina A di un adulto.

L

’allevamento all’aperto in grande stile non ha ancora preso piede. THOMY, ad esempio, ogni anno per la sua produzione complessiva necessita di 34 milioni di uova, che vengono deposte da 140’000 galline circa. Per l’allevamento all’aperto di queste galline è necessaria una superficie inerbita pari a circa 56 campi di calcio. THOMY innanzitutto ha dovuto cercare dei fornitori che adempissero questi standard.

Publireportage

DA PROVARE! Gli svizzeri adorano le uova Ogni anno gli svizzeri consumano in media 170 uova a testa (International Egg Commission, 2015) per un totale di 1,4 miliardi di uova circa. Queste vengono cotte, fritte e integrate in vari altri prodotti alimentari come ad esempio nei prodotti THOMY, di cui ogni economia domestica svizzera in media ne consuma nove all’anno. Ne fanno parte maionese, vari condimenti per insalate e altre salse fredde, che vengono particolarmente apprezzate per accompagnare grigliate o fondue chinoise oppure sotto forma di dip.

Perfetta per il Vitello T Tonnato, buonissima spalmata sul pane o come Dip.

In vendita nelle maggiori filiali Migros.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 2 agosto 2016 ¶ N. 31

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Ambiente e Benessere

Fiat 500 per salvaguardare il pianeta Motori Sono stati realizzati e messi all’asta di recente due nuovi modelli elettrici e unici della famosa Topolino,

con la loro carrozzeria personalizzata vogliono sensibilizzare alle problematiche ambientali Mario Alberto Cucchi Lo scorso 20 luglio si è tenuto in Francia, a Saint Tropez, un Galà di beneficenza organizzato dalla Leonardo Di Caprio Foundation. Uno degli scopi della fondazione sin dalla sua istituzione (1998) è la tutela dell’ambiente attraverso la protezione degli ultimi luoghi selvaggi della Terra. Tra gli obiettivi ci sono progetti che ripristinino l’equilibrio di ecosistemi minacciati dalla distruzione, tutelando le biodiversità oceaniche e lottando per la conservazione delle foreste, oltre ad impegnarsi a combattere i cambiamenti climatici.

«Il Pianeta è un bene prezioso da proteggere e salvaguardare. È arrivato il momento di pensare all’ecosostenibilità delle nostre azioni» Ma cosa c’entra tutto questo con le automobili? Presto detto. Lapo Elkann con Garage Italia Customs e la collaborazione di Fiat Chrysler Automobiles ha realizzato due modelli unici di Fiat 500 elettrica che sono stati messi all’asta al Galà. Le due vetture personalizzate con materiali biologici ed ecosostenibili sono state battute all’asta rispettivamente per 300’000 euro (Sea Ice) e

250’000 euro (Wild) versati in beneficenza. Incredibile se pensate che la Fiat 500 elettrica viene venduta negli Stati Uniti a poco più di 30’000 dollari. Ma come sono state personalizzate le due Cinquecento? Partiamo dalla carrozzeria della 500 Sea Ice che è stata decorata con la stampa di un ipotetico scenario caratteristico dei due poli geografici. Un modo efficace per comunicare le problematiche ambientali dovute all’innalzamento delle temperature. Con la 500 Sea Ice quando la temperatura supera i 27° sulla carrozzeria grazie a una speciale vernice termo cromica «si estinguono» ovvero spariscono tutte le specie a rischio che popolano Artide e Antartide. La seconda Cinquecento si chiama Wild e propone sulla carrozzeria una pellicola esterna raffigurante una foresta con gli animali, come tigri e rinoceronti, che si nascondono, quasi a voler sottolineare la connessione esistente tra i Poli della terra e le zone più interne. Gli abitacoli di entrambe le Cinquecento sono rivestiti in fibra naturale di Canapa nelle tonalità di blu e azzurro per la 500 Sea Ice, e testa di moro per la 500 Wild. Sulla Wild alla canapa è stato abbinato il lino bollito per le sedute e gli inserti dei pannelli porta. «I cambiamenti climatici e il problema del riscaldamento globale stanno mettendo a dura prova tutti gli ecosistemi, influenzando anche aree geograficamente molto distanti» ha dichiarato Lapo Elkann. «Il Pianeta è un bene prezioso da proteggere e salvaguardare per tutti noi ma anche per gli animali che lo

Sea Ice: uno dei due modelli Fiat 500 elettrica personalizzata da Garage Italia Customs. (www.quattroruote.it)

popolano. È arrivato il momento – ha concluso Elkann – di pensare all’ecosostenibilità delle nostre azioni». Lo sanno bene gli specialisti del Nissan Technical Center di Barcellona che hanno deciso di dedicare il loro tempo libero alla costruzione di un prototipo ecologico realizzato per compe-

tere negli eventi sportivi automobilistici spagnoli della ECOseries, una nuova iniziativa che premia efficienza e risparmio carburante piuttosto che la velocità in assoluto. Tecnici e ingegneri hanno lavorato la sera e nel fine settimana su una Nissan Leaf che è stata soprannominata «Cocoon» ovvero bozzolo, con

riferimento all’omonimo film americano di fantascienza. Questa concept equipaggiata con una batteria di dimensioni doppie rispetto a quella normale raddoppia la capacità della Leaf di serie. Si passa infatti da 24 kWh con 199 chilometri di autonomia a 48 kWh con circa 150 chilometri di autonomia ulteriore. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere

L’estate fastidiosa Mondoanimale Non solo cani o gatti: anche cavalli e altri quadrupedi possono essere bersaglio inconsapevole

di vari tipi di insetti e parassiti estivi, soffrendo a volte anche di dolorose punture Maria Grazia Buletti Con la bella stagione e con i prati fioriti sono tornate le api, le vespe e i calabroni. Quale migliore spunto per solleticare la curiosità dei nostri amici a quattro zampe? Cani e gatti saranno tentati di correre appresso e saltellare attorno a qualsiasi insetto si trovi a passare dinanzi al loro sguardo attento e curioso. Per questo è possibile che vengano punti da api o vespe, o che siano presi di mira da parassiti come pulci o zecche. Ogni anno, gli esperti e i veterinari ripetono le poche ma efficaci raccomandazioni che aiutano i proprietari a prestare attenzione a eventualità come quelle descritte, a valutarne la portata e a prendersi correttamente cura del proprio malcapitato cane o gatto. Il cane, ad esempio, tende ad essere punto più facilmente sul muso perché, per giocherellare, si avvicina all’insetto con il naso e potrebbe dunque essere morso su occhi, palpebre e tartufo. In qualche caso, potrebbe anche ingerire l’ape che, con il suo pungiglione, rilascerebbe il vele-

Oltre al caldo... (U. Wolf)

no all’interno della laringe, con conseguenti gravi problemi respiratori che richiederebbero un immediato consulto dal veterinario di fiducia per le cure

Cat Café È l’ultima e simpatica moda che coinvolge i nostri amatissimi animali domestici: quella dei Cat-café. Un po’ in tutto il mondo stanno aprendo dei veri e propri bar nei quali poter gustare un buon caffè in compagnia di alcuni gatti e, ovviamente, se il micio di turno acconsente, sarà pure possibile fargli qualche coccola. Questa tendenza è in continua crescita e i Cat-café sono aumentati a dismisura negli ultimi mesi: New York, Tokyo e Londra hanno accolto con successo l’apertura di questi pub felini e anche la vicina Penisola sta seguendo il trend, perché in Italia il primo Cat-café è stato aperto

a Torino, mentre Milano non si è fatto mancare la recente inaugurazione del proprio. Un vero successo, anche se uno di questi (il Cat-café di Vancouver in Canada) ha dovuto chiudere, si legge nel comunicato: «A causa del travolgente successo delle adozioni nelle prime settimane, siamo rimasti a corto di gatti». Incredibile ma vero! Sono comunque bastati 5 giorni per trovare altri 8 – 12 felini da ospitare nel locale e riproporre lo stesso modello: le persone hanno la possibilità di adottare i gatti in maniera intelligente, potendo interagire con i micetti in un ambiente accogliente.

tempestive adeguate. Visita d’urgenza anche in caso di shock anafilattico di animali allergici (il cui sistema immunitario reagisce in modo estremo, così come capita nell’essere umano), in cui il veterinario saprà intervenire tempestivamente in base alla gravità dei sintomi manifestati dallo sventurato cagnolino. Sono abbastanza chiari i segni che indicano quando il cane ha avuto la peggio e si è beccato una puntura: essi includono piagnucolii, bava, orticaria, prurito al volto o agli occhi e gonfiore al muso. Disavventure, queste, che capitano anche ai gatti, i quali si fanno pungere soprattutto sugli arti anteriori, poiché essi tendono a giocare con la loro preda usando le zampette. Lo sfortunato micio che è stato punto potrebbe sviluppare, oltre al rossore, una sorta di nodulo che tende a diventare grave se esso inizierà a leccarlo in modo costante. Gli esperti consigliano di individuare subito la zona in cui l’animale è stato morso o punto, osservando dove tende a mordicchiarsi o a leccarsi. Potrebbe

essere poi utile avere una soluzione di ammoniaca diluita in acqua (non usare mai pura perché potrebbe provocare irritazioni o vere e proprie ustioni), e tamponare la zona interessata con una garza (o uno stick apposito che si trova in farmacia). Naturalmente, anche per il gatto ci si rivolgerà al veterinario di fiducia qualora lo si reputasse necessario o i sintomi fossero importanti. Altro flagello estivo dei nostri poveri amici sono zecche e pulci. Nel caso di zecche, si ricorda sempre di scoprire la zona interessata aprendo bene il pelo, versare qualche goccia di olio e di disinfettante e infine estrarre la zecca afferrandola saldamente con l’apposita pinzetta, agendo con moto rotatorio come per aprire un rubinetto o estrarre una vite. Bisogna compiere quest’operazione molto rapidamente, per evitare che il parassita abbia il tempo di emettere secrezioni spesso infette. Al termine dell’operazione, bisogna accertarsi di aver estratto bene il pungiglione dalla pelle e poi disinfettare con scrupolo,

ripetendo l’operazione per qualche giorno, sempre verificando che non insorgano rossori sospetti. Se l’animale ospita «inquilini indesiderati» come le pulci lo vedremo grattarsi ripetutamente. Certo, è fondamentale adottare una prevenzione efficace con prodotti specifici (collari, liquidi e spray) dei quali non bisogna però abusare, perché potrebbero rivelarsi tossici per l’animale e per noi se usati in modo errato. Bisogna perciò sempre leggere attentamente le istruzioni e farsi consigliare dal veterinario se possibile. Quando bisogna intervenire a posteriori, dobbiamo trovare un prodotto idoneo e applicarlo tenendo l’animale fuori di casa sia al momento dell’intervento, che nelle ore successive. Questo atteggiamento ci permette di evitare che le pulci che lasciano l’animale per effetto dei repellenti si annidino poi negli ambienti domestici. L’estate è il periodo dell’anno in cui gli insetti possono diventare un grande problema anche per i cavalli: già solo le mosche li infastidiscono e possono provocare reazioni negli equini, iniettando loro il proprio veleno. Infatti, i cavalli possono avere una grave reazione tossica quando vengono punti da un insetto e, malgrado sia piuttosto raro, quando succede le conseguenze possono essere piuttosto serie. Se punti da insetti, questi animali possono apparire letargici e svogliati a muoversi, ma ci sono altri segni che qualcosa non va, come ad esempio lo stare con la testa bassa verso il suolo, respirare pesantemente e velocemente, rifiutare di muoversi, gonfiori evidenti in qualche zona del corpo, faccia o zampe, temperatura elevata (normalmente un cavallo ha una temperatura tra i 37 e 38 gradi). Trovare un cavallo in queste condizioni significa dover chiamare con urgenza il veterinario il quale valuterà esattamente la portata e l’origine del problema che non va mai preso sottogamba.

Giochi Cruciverba Chi lo avrebbe detto che a 18 anni Verdi, per una scorretta postura delle mani, non fu … Termina la frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 7, 2, 13, 2, 6)

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Orizzontali 1. Un gancio … sinistro 4. Mie a Monte-Carlo 7. Grava sul basto 9. Si ripete in un nome di donna 10. Le iniziali dell’attrice Rocca 11. Persona indeterminata 13. Legami logici 14. Una consonante 17. La protagonista di «Polvere di stelle» 18. Abbreviazione di latitudine 19. Leggere imbarcazioni 21. Le ha in testa l’imperatore 22. Parte dell’intestino 23. Preposizione 24. John Stuart filosofo ed economista

Sudoku Livello per geni Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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inglese 25. Dio greco dell’amore 27. Spara sempre in aria 28. Segno particolare Verticali 1. Campioni nelle carte da gioco... 2. Amore senza capo né coda 3. Sillaba sacra ai buddisti 5. Campi mitologici dell’oltretomba 6. Gli appartengono 8. Toglie lo smalto alle unghie 12. Permettono di rilanciare 13. Il nome dell’attore Frassica 14. Il sole dei greci 15. La memoria del PC 16. Le separa la «esse» 17. Una Anna attrice 19. Pistola a ripetizione 20. Nasce nell’acqua 22. Pari nella schiera 23. Cerva in inglese 24. Le iniziali della Arcuri 26. Simbolo chimico del radon

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Soluzione della settimana precedente

SAGGIO PROVERBIO – La felicità non è … UNA META DI ARRIVO, MA UN MODO DI VIAGGIARE. L O T T E R I A

U A N A P R D A R A F I A M A L M O S E I O N E N D O A V I A G I O L I S O B R I O

C O M E T I N A R L E V O E D U N N A D I T U T U I D A G R O A R O G I A E B A N

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Politica e Economia Storia dell’Isis: 2. puntata La nascita dello Stato islamico dell’Iraq e l’eredità di al-Zarqawi pagina 26

Hillary incoronata L’ex first lady, prima donna democratica candidata alla presidenza degli Stati Uniti, ottiene a Philadelphia anche l’endorsement di Barack Obama

May time Per la neo premier inglese il paragone con Margaret Thatcher è d’obbligo

Fragile sistema bancario In attesa dei risultati dello stress test, vengono a galla i problemi del settore: in Europa e non solo

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Keystone

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Al capezzale del multiculturalismo

Società globale Terrorismo e immigrazione sono percepite come minacce alla nostra identità

Lucio Caracciolo Quanti stranieri può un paese accettare sul proprio territorio? E quanto forte è il rischio che tra costoro, specie se provenienti da paesi islamici, si annidino dei terroristi? Questo è il tema oggi ricorrente nella pancia delle nostre società. Il timore è che la stessa nostra identità nazionale ed europea sia minacciata. A rendere più intrattabile l’angoscia del «chi siamo?» e del «chi stiamo diventando?», lo iato tra fatti e percezioni, moltiplicato dai media. Tra i vettori delle crisi da identità minacciata, ne spiccano due: terrorismo e migrazioni. Ora, nel pianeta da sette miliardi e mezzo di anime, il primo colpisce una frazione quasi impercettibile dell’umanità, l’altro ne mobilita un’esigua minoranza. Nel 2015, le vittime dei terroristi sono state 28’328, concentrate soprattutto in Africa e in Asia – quelle da influenza di stagione fra 250 mila e mezzo milione. Lo stesso anno, secondo l’Onu, i migranti erano 243,7 milioni, pari al 3,3% della popolazione

globale – cifra abbattuta a 36,5 milioni (0,5%), con tendenza al declino, dallo statistico inglese Guy J. Abel, che tiene conto dei flussi e non dello stock. Certo, la recente sequenza di attentati terroristici di matrice jihadista in Europa, concentrati in Francia e in Germania, e la persistenza dei flussi immigratori diretti verso il cuore del Vecchio Continente via Italia, deformano ai nostri occhi il quadro globale. Sicché nella vulgata terrorismo e migrazioni ricorrono come due facce dell’identica minaccia alla nostra identità. In casi estremi ma per niente trascurabili, terrorista è sinonimo di musulmano, migrante di arabo (in Europa), ispanico (negli Usa) o comunque alieno «colorato». Sarebbe sbagliato attribuire tali stereotipi alla pancia del pubblico meno istruito. Fu David Cameron, figura ormai tragicomica del conservatorismo britannico, ad argomentare la connessione fra minaccia jihadista e insostenibilità delle immigrazioni di massa, parlando il 5 febbraio 2011 alla conferenza sulla sicurezza di Mo-

naco. Nel mirino, la «dottrina del multiculturalismo di Stato». Ovvero la tolleranza per lo sviluppo di società parallele nel cuore della Gran Bretagna e di altre nazioni occidentali. Per Cameron, i terroristi sono figli di tale modello. Di qui l’urgenza di promuovere un «liberalismo muscolare». Sinonimo di assimilazione: chi sta qui da noi deve «credere in certi valori e promuoverli attivamente». O tornarsene a casa. Perché «in gioco non sono solo le nostre vite, ma il nostro stile di vita». Al funerale del multiculturalismo si è a suo modo accodata Angela Merkel. E persino diversi suoi omologhi di paesi di emigrazione, come la Polonia. A conferma che a difesa della propria cultura guida (Leitkultur la chiamano i tedeschi) si può stigmatizzare lo straniero anche, forse soprattutto, quando non c’è. La paura di perdere identità, dunque controllo sulla propria vita, non si nutre solo di percezioni smodate. Specie in Europa. Dove la crisi economica, innestandosi sul declino demografico e sull’impoverimento strutturale dei

ceti medi, potrebbe assumere i tratti di una stagnazione secolare. Dove la lotta per preservare i residui privilegi di welfare produce il rifiuto di includere lo straniero nella comunità nazionale. Dove quindi la cittadinanza assurge a bene indivisibile, che gli europei non intendono spartire con gli immigrati, financo con i loro figli e nipoti – e nemmeno con la crescente massa di rifugiati. E dove infine la consuetudine, ovvero l’indisponibilità a contaminarsi con chi proviene da culture diverse, prevale sulla curiosità per l’altro. Offuscando così il senso di appartenenza di specie – siamo umani – per aggrapparsi a radici «pure» quanto immaginarie. Gli ascendenti contano più dei discendenti. Sotto questo profilo, decisivo è l’approccio nei confronti del terrorismo islamista. La sensazione diffusa, non solo in Francia e in Germania, è che il fenomeno sia fuori controllo. Ciascuno di noi si sente potenziale bersaglio. Soprattutto, diffida della capacità delle istituzioni di proteggerlo. Ora, non c’è dubbio che gli attac-

chi jihadisti ci abbiano scoperto con la guardia abbassata e che sul fronte della prevenzione/repressione del fenomeno molto di più si possa fare. Due soli esempi: non basta monitorare in rete i potenziali attentatori, serve una polizia di prossimità che garantisca un controllo quotidiano del territorio. Altrimenti capita, come nel recente caso francese di Saint-Étienne-du-Rouvray, che due giovani criminali noti e schedati quali jihadisti, i quali diffondevano ai quattro venti la notizia di voler colpire noi «apostati» e «infedeli», siano stati lasciati liberi di farlo. Inoltre, uno scambio costante di informazioni fra i servizi di intelligence di paesi amici e alleati potrebbe allargare di molto il nostro grado di conoscenza della minaccia jihadista. Ma ne siamo molto lontani. Nel medio periodo, il rischio è che sentendo a rischio la propria esistenza, o solo profittando del clima xenofobo montante, bande di cittadini armati si arroghino il diritto di difendere la pace e l’ordine. A quel punto, possiamo starne certi, avremmo perso entrambe.


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Politica e Economia

Politica e Economia

La nascita dello Stato islamico dell’Iraq Storia dell’Isis L’attuale califfo al-Baghdadi ha raccolto l’eredità di al-Zarqawi, il leader di Al-Qaeda in Iraq,

osando laddove nessuno prima di lui aveva sognato: creare uno stato e farne un califfato – 2. puntata

Marcella Emiliani La morte di Abu Musab al-Zarqawi, il leader di al-Qaeda in Iraq (Aqi), nel 2006 creò senza dubbio un’opportunità per gli sceicchi sunniti della provincia di al-Anbar e per le forze statunitensi impegnate sul terreno. La strategia dello scontro brutale con la comunità sciita irachena, perseguita con straordinaria ferocia da al-Zarqawi, aveva raggiunto il primo obiettivo che si era preposta: suscitare una reazione altrettanto violenta degli sciiti che si era tradotta, da parte loro, nella creazione di milizie armate – in gran parte addestrate dall’Iran – che sul terreno avevano proceduto a durissime epurazioni ai danni dei sunniti soprattutto a Baghdad e, più in generale, avevano sconfitto in diverse occasioni le formazioni sunnite. Ma la strategia dello scontro intrasettario islamico non aveva raggiunto il secondo obiettivo cui mirava: ingrossare le fila dei jihadisti sunniti arruolabili in al-Qaeda in Iraq, anzi. Gli sceicchi sunniti infatti avevano ormai bollato l’operato dell’Aqi come troppo sanguinario e controproducente e si erano decisi a partecipare al processo di transizione alla democrazia voluto dagli Stati Uniti che andava avanti nonostante la violenza dilagante. Perciò se avevano boicottato le elezioni costituenti nonché provinciali del 30 gennaio 2005, avevano votato per il referendum costituzionale del 15 ottobre e nelle successive parlamentari del 15 dicembre 2005. Soprattutto avevano ripreso il controllo della rivolta della loro comunità, la Sahwa (Movimento del risveglio o Insurgency). Questa evoluzione li portò nel 2007 ad aderire in maggioranza alla controffensiva americana nota come Surge (l’au-

mento in Iraq delle truppe statunitensi da 132’000 a 168’000 effettivi, abbinato ad una maggior collaborazione tra militari Usa e civili iracheni contro l’Aqi) orchestrata dal generale David Petraeus, il nuovo Comandante in capo della Forza multinazionale in Iraq. Questi sviluppi della situazione sul terreno – l’inizio di una vera e propria guerra civile e la «disaffezione» alla causa jihadista della comunità sunnita – avevano impensierito lo stesso alZarqawi che, pochi mesi prima della sua morte avvenuta il 7 giugno 2006, il 15 gennaio aveva provveduto a creare il Consiglio consultivo dei mujahideen (guerriglieri) dell’Iraq (Majlis Shura al-Mujahideen fi al-Iraq), che raggruppava, oltre all’Aqi, altri cinque gruppi di jihadisti che si opponevano in armi alla presenza americana. Detto in altre parole il Consiglio dei mujahideen fu tutto quanto al-Qaeda in Iraq riuscì a sottrarre alla Sahwa, cioè le poche milizie sunnite che ne condividevano ancora i metodi. Con le parole dello sceicco Osama al-Jadaan, uno dei più influenti nella provincia di al-Anbar: «Questi terroristi stranieri non fanno che nascondersi dietro il velo della nobile resistenza irachena. Dicono di colpire gli invasori americani, in realtà uccidono iracheni innocenti nei mercati, nelle scuole, perfino nelle moschee». Terroristi stranieri… la morte di iracheni innocenti: eccoli i limiti dell’Aqi. I terroristi stranieri erano ovviamente i massimi leader della casamadre di al-Qaeda: Osama bin Laden, il saudita, Ayman al-Zawahiri, il suo braccio destro egiziano e ovviamente il giordano Abu Musab al-Zarqawi, che avevano più a cuore la loro causa della vita degli iracheni sacrificati al loro di-

Abu Musab al-Zarqawi ucciso nel giugno 2006. (Keystone)

segno di potenza. Non bastasse, quello che gli sceicchi sunniti contestavano erano soprattutto i metodi «di governo» dei territori caduti sotto il controllo dell’Aqi, metodi che vedremo replicare dall’Isis nel suo sedicente Califfato. A capo di quei territori al-Zarqawi nominava uomini propri (i cosiddetti emiri), spesso stranieri anch’essi, senza consultarsi preventivamente con le autorità tribali locali. Il che era tanto più grave perché gli emiri procedevano immediatamente a monopolizzare ogni risorsa economica e finanziaria delle aree che dominavano armi alla mano. Una piccola parentesi: quando parliamo di tribù non dobbiamo intendere un insieme di clan vincolati solo a legami di sangue ancestrali. Una tribù in Medio Oriente può essere anche questo, ma oggi com’è oggi assomiglia più a una lobby che si compone e scompone a seconda degli interessi, economici e politici, che la legano al territorio di insediamento. È insomma una formazione dinamica e in perenne trasformazione, non un reperto archeologico mummificato. I maggiorenti sunniti della provincia di al-Anbar, nel nostro caso, venivano gravemente danneggiati dall’Aqi che usava l’intervento americano in Iraq, il richiamo al jihad e la minaccia della scomunica per takfir (empietà) per estrometterli totalmente dal governo della loro terra natia, o addirittura ucciderli. Un’ultima considerazione sui motivi che li spinsero a combattere al-Qaeda in Iraq a fianco degli americani: con la guerra civile sunniti-sciiti innescata da al-Zarqawi, l’Iran aveva aumentato progressivamente la propria presenza in Iraq per sostenere le milizie sciite e i governi a maggioranza sciita insediati a Baghdad, soprattutto quelli guidati da Nuri al-Maliki che, divenuto premier per la prima volta il 20 maggio 2006, è poi rimasto al potere fino all’11 agosto 2014. L’interferenza iraniana in Iraq già nel 2005 era diventata talmente visibile che molti, nella comunità sunnita, erano arrivati a pensare che gli invasori del proprio Paese non fossero solo gli Stati Uniti ma anche l’Iran. E dovendo scegliere tra i due, preferivano di gran lunga gli Stati Uniti, purché gli americani si facessero garanti di una più equa distribuzione del potere politico e delle risorse economiche nazionali tra sunniti e sciiti. Il generale Petraeus nel 2007 promise loro proprio questo e mantenne l’impegno fino al 16 settembre 2008, quando venne sostituito dal generale Raymond Odierno, mentre gli

L’ombra dell’Isis su Rio Olimpiadi Arrestati 12 cittadini brasiliani sospettati di jihadismo

Angela Nocioni È finita la caccia all’uomo nella selva. Arrestato anche l’ultimo dei dodici cittadini brasiliani sospettati dalla Fbi di jihadismo. Nel Brasile in corsa contro il tempo perché tutto sia pronto per inaugurare i Giochi olimpici di Rio de Janeiro – con linee metropolitane da finire, residence non allacciati alle fogne e la minaccia costante di un’esplosione sociale nelle favelas – è scoppiato anche l’allarme jihadista. Su segnalazione statunitense, la polizia brasiliana ha arrestato due settimane fa undici persone perché sospettate di essersi avvicinate all’Isis. Tutti rinchiusi nel carcere di massima sicurezza di Campo Grande, nel Mato Grosso do Sur. Mancava all’appello Leonid El Kadre de Melo, meccanico, riuscito a fuggire, braccato per giorni da

polizie varie al confine tra il Brasile e la Bolivia. Se è risultato assai complicato riuscire ad arrestare Salah Abdeslam, uno degli attentatori di Parigi della notte della strage al Bataclan, rincorrendolo tra la Francia e Bruxelles, immaginatevi come lo sia dare la caccia a qualcuno nel bel mezzo dell’Amazzonia brasiliana che al confine con la Bolivia è un labirinto verde attraversato dai traffici più loschi dell’America latina. Di lì passano armi, cocaina, rapiti, rapitori, prodotti di contrabbando, gente in fuga e le peggiori storie di malavita dell’intero continente. La polizia brasiliana gioisce con il lessico militare da comunicato stampa: «Caduto finalmente anche il dodicesimo obiettivo della Operazione Hashtag», l’operazione che ha dato il via alla retata. I dodici segnalati dalla Fbi, secondo il giudice Rafael Miron che ha

autorizzato gli arresti, avrebbero comunicato tra loro via Whatsapp e via Telegram la vaga intenzione di organizzare attentati a Rio in nome dell’Isis. Al momento il governo brasiliano è in mano a Michel Temer (foto), l’ex vice della presidente Dilma Rousseff, sospesa per sei mesi dal mandato nell’attesa che si decida l’esito del processo di impeachment contro di lei per aver truccato un conto dello Stato (reato amministrativo lieve, ma la crisi politica è grande). Temer, che ha guai in vista con la magistratura ben peggiori di quelli della Rousseff, ha passato l’ordine ai suoi ministri di non enfatizzare la notizia degli arresti. «È una banda, sì, ma di apprendisti» ha detto il ministro della Difesa Justicia Alexandre de Moraes. Frase che ha mandato su tutte le furie il procuratore Miron, regista dell’operazione. «Sono apprendisti,

Usa – in piena campagna elettorale che avrebbe portato alla presidenza Barack Obama – cominciavano a smobilitare i propri effettivi in Iraq.

Il vero matrimonio fra jihadisti e ba’athisti è avvenuto nelle prigioni americane in Iraq Il biennio 2006-2008 fu perciò cruciale per le sorti di al-Qaeda in Iraq che, dopo la morte di al-Zarqawi il 7 giugno 2006, venne fatta sparire. Il 13 ottobre successivo, infatti, mentre sul terreno infuriava lo scontro tra l’Aqi e la Sahwa degli sceicchi sunniti di al-Anbar (ora apertamente sostenuta e finanziata dagli Stati Uniti), il Consiglio consultivo dei mujahideen annunciò la formazione dello Stato islamico dell’Iraq (con acronimo inglese Isi) alla guida del quale venne posto, come braccio operativo, un ex ufficiale dell’esercito di Saddam Hussein, Dawood Mohammed Khalil al-Zawi, ribattezzato per l’occasione Abu Omar al-Baghdadi, (da non confondere con Abu Bakr al-Baghdadi), tanto per sottolineare ancora meglio che si trattava di un leader locale, non più straniero. Vista l’esperienza precedente, però, al-Qaeda-madre affiancò ad Abu Omar al-Baghdadi un uomo di sua piena fiducia, Abd al-Munim Izz al-Din Ali al-Badawi, che di nomi di battaglia ne aveva addirittura due: Abu Ayyub al Masri, prima di diventare emiro dell’Isi, e Abu Hamza al Muhajir, dopo. Al-Muhajir era egiziano, in patria aveva militato nel Jihad islamico a fianco dell’allora braccio destro di bin Laden, Ayman alZawahiri, e in teoria doveva rappresentare «la mente» per riorganizzare quanto rimaneva delle formazioni jihadiste di ispirazione qaedista in Iraq. Ma alMuhajir fallì. L’Isi non solo non decollava ma riusciva a malapena a sopravvivere. Il campo sunnita si era praticamente coalizzato per isolare lo Stato islamico dell’Iraq e i suoi capi non avevano né il carisma né la forza per imporsi. Per farla breve, tra il 2007 e il 2008 l’ex Aqi, ora Isi, era passato da 12’000 a 3500 effettivi e si ritrovava praticamente arroccato nella provincia di al-Anbar perché in altre città e province come Mosul, Kirkuk e Salah al-din la rivolta sunnita riunita nel Consiglio politico per la resistenza irachena, non intendeva scendere a patti né con gli Stati Uniti né con lo Stato islamico dell’Iraq. è vero, ma non c’è bisogno di tecniche pianificate per lanciare un camion tra la folla e uccidere 84 persone» ha ricordato riferendosi alla strage compiuta sulla Promenade des Anglais a Nizza il 14 luglio. «L’Esercito, la Marina e l’Aeronautica brasiliane metteranno a disposizione 22’025 uomini per occuparsi della sicurezza degli atleti, dei cittadini e dei turisti a Rio» fa sapere il ministero della Difesa brasiliano. Ma come ci si difende dai kamikaze? Quello è l’incubo dell’intelligence, in Brasile come altrove. Nelle moschee delle grandi città brasiliane in questi giorni si respira tensione, timore. L’Unione delle comunità islamiche (Uni) che rappresenta una buona parte dei musulmani locali, in una nota ufficiale si dice «profondamente preoccupata dai recenti avvenimenti e dalla notizia che cittadini brasiliani si sarebbero avvicinati al terrorismo». Raccomanda «trasparenza, perché non ci siano ingiustizia e persecuzione nei confronti di singoli e di gruppi». A intorbidire il quadro c’è però l’allarme diffuso a metà giugno per la fuga in Brasile di un ex detenuto di Guantanamo, uno di quelli liberati nel 2014 dal

Abu Omar al-Baghdadi e Abu Hamza al Muhajir fecero la stessa fine di al-Zarqawi: uccisi da un raid americano il 18 aprile 2010. Solo allora emerse dalle fila decimate dell’Isi uno sconosciuto ai più Ibrahim Awad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarrai, destinato a una ben triste fama col nome di battaglia di Abu Bakr al-Baghdadi. Sulla sua vita esiste ormai una letteratura copiosa quanto controversa, che lo dipinge come un bravo ragazzo, pio e religioso al punto da essere chiamato «il credente» in famiglia, amante dello sport, finito quasi per caso in prigione dove finalmente prende coscienza degli orrori dell’«occupazione» americana dell’Iraq, si radicalizza in senso jihadista e appena esce di galera nel 2006 si arruola nell’Isi ormai orfano di al-Zarqawi e presto assurge a ruolo di ideologo e stratega del gruppo. Di tutta questa storia di vero c’è il fatto che le prigioni gestite dagli Stati Uniti in Iraq, dalla famigerata Abu Ghraib a Camp Bucca che ospitò Abu Bakr al-Baghdadi, furono vere e proprie università del terrorismo non solo per lui, ma per migliaia di altri detenuti. Camp Bucca ai tempi ne ospitava 24’000 e non solo veri o presunti jihadisti, ma anche ex militari, poliziotti e membri dei corpi di sicurezza e intelligence del Ba’ath che da laici convinti quali erano stati durante la dittatura di Saddam Hussein, proprio in carcere si trasformarono in estremisti islamici. Questo per dire che il vero matrimonio tra jihadisti e ba’athisti avvenne nelle prigioni americane in Iraq e avrebbe dato i suoi frutti dopo la loro liberazione. Furono infatti gli ex generali di Saddam a rimpolpare gli arsenali ormai vuoti dell’Isi con le armi convenzionali che gli Stati Uniti non avevano distrutto, impegnati com’erano a cercare quelle di distruzione di massa che non esistevano. Furono gli stessi generali a insegnare all’Isi l’arte della guerra convenzionale come della guerriglia e contro-guerriglia. E furono gli ex funzionari e burocrati di Saddam a fornire all’Isi il know how amministrativo e di governo che convinse il nuovo leader Abu Bakr al-Baghdadi, a osare laddove nemmeno al-Zarqawi aveva sognato: creare davvero uno Stato e farne un califfato. Ma il carcere servì soprattutto al futuro califfo per riflettere sugli errori di al-Zarqawi, che lui aveva conosciuto benissimo prima di venire imprigionato e di cui condivideva la fede jihadista. Da quella riflessione è nato l’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante.

carcere statunitense sull’isola caraibica e accolto in Uruguay durante il governo dell’ex presidente José Mujica. Si tratta di Jihad Ahmad Deyab, siriano (Jihad è il suo nome). Grande polemica ha sollevato la notizia della sua fuga perché lui, regolarmente accolto in Uruguay come richiesto dal governo statunitense, prima si è rifiutato di firmare l’accordo redatto dalle Nazioni Unite che l’avrebbe impegnato a non abbandonare il Paese di residenza senza avvisare le autorità, poi se ne è andato in Brasile e si è dileguato nel nulla.

Due candidati, due Americhe Usa 2016 Le convention di Cleveland per i repubblicani e di Philadelphia per i democratici consegnano al Paese

l’investitura di Donald e di Hillary. Ora si apre la fase finale della corsa alla Casa Bianca

Federico Rampini Due settimane, due convention, due mondi che sembrano lontani anni luce l’uno dall’altro. Ho seguito i repubblicani a Cleveland (Ohio), i democratici a Philadelphia. Distanza: in linea diretta due ore di volo scarse, tra il Midwest e la East Coast. Eppure le narrazioni sullo stato dell’America e del mondo erano così diverse che pareva di avere usato la macchina del tempo, di avere traversato i secoli. Nella memoria mi rimane impressa, perché più recente e anche più emozionante, la serata in cui Barack Obama ha preso la parola alla convention democratica, ha indicato una strategia alla sinistra, una linea per fermare Donald Trump, oltre che il suo appoggio a Hillary Clinton. Curiosamente, l’evento storico della prima donna che ottiene la nomination presidenziale è passato in secondo piano, sorvolato quasi come un dettaglio dal primo presidente afroamericano della storia. Quasi a confermare che oggi il fenomeno veramente «nuovo» è sull’altro versante, si chiama Donald Trump, mentre l’aspetto dirompente della prima candidatura femminile è stato già metabolizzato. Obama ha alternato i toni di grave allarme per la minaccia che rappresenta Trump; e l’ottimismo sul futuro dell’America che contrasta con la narrazione apocalittica dell’avversario. Il presidente ha usato toni durissimi, mai sentiti prima dalla sua bocca: «Il mondo è spaventato e non capisce cosa sta succedendo in questa campagna elettorale. Ma chiunque vuole distruggere i nostri valori – fascisti o comunisti, jihadisti o demagoghi nostrani – alla fine perderà sempre». Trump messo insieme ai dittatori e agli islamisti. Proprio così: «Questa non è un’elezione qualsiasi». Obama vuole che sia chiaro il pericolo. Ma è sicuro che anche stavolta l’America ce la farà, anche se è sull’orlo di un baratro e i fondamenti della sua convivenza civile sarebbero in pericolo se vincesse Trump. È fiducioso che «non vince chi scommette contro l’America, non ha mai vinto». È certo che «questo non è un Paese per autocrati, non ha mai creduto che la soluzione sarebbe venuta da una persona sola».

Obama ha fatto autocritica parlando degli obiettivi economici non raggiunti nel suo mandato presidenziale Obama a Philadelphia ha fatto tre operazioni importanti. Primo: riconoscere le ombre sul suo bilancio, che in qualche modo creano spazi per Trump. «Dobbiamo fare molto di più per tutti coloro che non sentono gli effetti della crescita economica degli ultimi sette anni». È una missione che lascia in eredità a Hillary, il lavoro incompiuto dei suoi due mandati: una crescita migliore, più giusta, dai benefici meglio distribuiti. Secondo: un importante riconoscimento a Bernie Sanders. Non solo per i temi sollevati dal senatore socialista, ma anche per l’approccio partecipativo alla politica, la mobilitazione dal basso. «Se siete convinti che ci siano troppe diseguaglianze fra noi, e che il denaro influenza troppo la politica, dovete essere altrettanto combattivi e tenaci di Bernie». Terzo, ha affrontato l’impopolarità di Hillary con il candore e la schiettezza che fanno difetto ai coniugi Clinton. «L’ho guardata lavorare al mio fianco per quattro anni – dice di lei il suo presidente – e anche lei ha

Un importante discorso di Obama e un riconoscimento per il lavoro compiuto insieme. (Keystone)

fatto degli errori. Come me. Come tutti. Solo chi sta a guardare e giudica da spettatore, non ne fa mai. Lei è da 40 anni che s’impegna. Scendete nell’arena anche voi, sporcatevi le mani». Obama rovescia lo slogan di Trump. Il candidato repubblicano dice «Make America Great Again», rifacciamo l’America grande come una volta. «L’America – ribatte Obama – è già grande. Reagan la chiamava una casa scintillante sulla collina, invece Trump la descrive come la scena di un delitto. Nessun Muro può delimitare il Sogno Americano. Proprio a Philadelphia i Padri fondatori di questa Repubblica cominciarono la nostra dichiarazione d’indipendenza con le parole: Noi il Popolo. L’America si declina con il noi, è la forza della diversità». Resta una questione irrisolta. I leader democratici, Obama in testa, stanno facendo un buon lavoro nel demonizzare Trump. Ma fanno i conti con «le cause di Trump»? Perché un simile «mostro» si afferma al termine di otto anni di presidenza Obama? Alcune ragioni si collegano a una deriva della destra, in atto da tempo. Obama ha evocato una spiegazione autocritica, parlando di quegli americani che non sentono i benefici di 7 anni di crescita economica. Dove però lo stesso Obama è stato lacunoso, è sulla lotta al terrorismo. La strategia per sconfiggere l’Isis finora ha dato risultati molto deludenti. È significativo il fatto che nella propaganda obamiana si ritorni continuamente all’eliminazione di Osama Bin Laden, «trofeo» che risale a una guerra precedente contro un avversario (al-Qaeda) che quasi non c’è più. Altro nodo irrisolto, che si collega all’etichetta di «vecchio ceto politico, establishment» incollata a Hillary: Bernie Sanders aveva promesso una «rivoluzione politica» a partire dalla svolta sul finanziamento della politica. Obama gliene ha dato atto, esortando la base del partito a raccogliere il messaggio di Sanders sulla partecipazione dal basso come unico strumento per spezzare il legame tra le lobby e il ceto politico. Ma la convention di Philadelphia pullulava di lobbisti: se vince Hillary vorrà dire

che «abbiamo scherzato», si torna al «business as usual»? Una chiave per capire il fascino di Trump la trovo nel mio viaggio da una convention all’altra. Dopo Cleveland ho fatto tappa a casa mia, a Manhattan. La scena del mio viaggio successivo inizia alla Penn Station di New York: vasto antro sotterraneo da archeologia industriale anni Sessanta, angusta, male illuminata, sporca. È la seconda maggiore stazione ferroviaria della più grande metropoli americana, insieme a Grand Central. Attorno a me una massa di passeggeri accalcata in piedi scruta ansiosa il tabellone delle partenze. Bisogna stare sul chi vive. L’arrivo di un treno di regola viene preannunciato solo 15 minuti prima e nessuno può raggiungere il binario finché il convoglio non è lì. Peggio, le ferrovie federali Amtrak non hanno ancora «scoperto» la preassegnazione dei posti a sedere. Un biglietto, perfino di prima classe, non dà diritto a un posto preciso. Quando scatta finalmente l’annuncio bisogna buttarsi alla ricerca del binario, poi di un vagone e un sedile a caso, di corsa, trascinando le valigie. Il treno che mi porta a Philadelphia è un convo-

glio che risale a 40 anni fa, un ferrovecchio, orrendo scomodo e sporco. Serve la rotta più importante degli Stati Uniti, parte da Boston e arriva a Washington, capitale della superpotenza economica globale. Qui la chiamano una ferrovia ad alta velocità perché le altre sono ancora più lente, ma la tecnologia è quella del Pendolino (ricordate? forse voi no, chiedete ai nonni…). Carrozze arrugginite, rumorosissime, nelle curve sembra di stare sulle «autoscontro» nei Lunapark della mia infanzia, roba da lividi per le botte che prendi. Acela, si chiama questa patetica «Tav» che da New York a Washington impiega tre ore mentre col Frecciarossa o il Tgv basterebbe la metà. Eppure è carissimo (anche 400 dollari in prima) e strapieno di pendolari Vip, senatori e deputati, ho incontrato il vicepresidente Joe Biden su questo treno. Per la modica cifra di 85 dollari, in seconda classe, dopo un’ora e mezza arrivo a Philadelphia. Altra ricchissima città, sede di grandi istituzioni finanziarie, università d’avanguardia, centri medici di eccellenza. Ma alla mia prima passeggiata dalla stazione verso l’appartamentino che ho affittato per la

Bill Clinton ha sostenuto Hillary: «Cambierà in meglio la vostra vita». (Keystone)

convention, in sei isolati incontro una quantità di mendicanti impressionante. Le statistiche confermano: 280’000 abitanti di Philadelphia vivono sotto la soglia della povertà. «America, Third World Country». Sapete chi accusa l’America di essere un paese del Terzo mondo? Donald Trump. Ohibò, avrei dovuto brevettare l’idea, forse ci scappava qualche royalty. Accusatemi pure di essere vanitoso, autoreferenziale, ma ho le prove. Nell’archivio di «Azione». È su queste colonne che sette anni fa vi rivelavo il mio shock. Avevo vissuto in California dal 2000 al 2004. Poi in Cina fino al 2009. Nel luglio di sette anni fa ritraslocavo, stavolta da Pechino a New York. Di colpo ebbi un’impressione sconcertante: abbandonavo la modernità e tornavo indietro nel tempo. Non in tutti i campi per carità, dal punto vista delle libertà e del dinamismo culturale la Cina è un paese arretrato, inquietante. Mi riferisco alle infrastrutture: aeroporti, stazioni, metropolitane, autostrade, perfino le reti telefoniche e di distribuzione elettrica in molte parti d’America fanno schifo, cascano a pezzi, sono derelitte e in decadenza da decenni. Lo dissi in qualche occasione pubblica e gli americani mi trattarono come un insopportabile disfattista, filo-cinese. Poi Arianna Huffington ci fece il titolo di un suo bel libro: America, Third World Country. Il colpo di scena finale: del tema si è impadronito The Donald. Proprio così. Ha incominciato a inveire contro gli aeroporti, in particolare quelli newyorchesi di JFK e LaGuardia. «Siete mai stati in un aeroporto cinese, o del Golfo Persico? – urla il candidato repubblicano nei comizi – I nostri fanno schifo. È una vergogna. Siamo noi, ormai, il Paese del Terzo mondo». Non spiega le cause, tra cui l’ideologia neoliberista che ha sacrificato gli investimenti pubblici. Non ha un piano serio su come uscirne. Però, ora che lui ha sdoganato l’espressione, tutti cominciano a lamentarsi. Prima era anti-patriottico. Una delle forze di Trump è questa. Se ne frega delle convenzioni, delle inibizioni. Sa dire: il re è nudo. Di colpo tutti lo vedono.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 2 agosto 2016 ¶ N. 31

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Politica e Economia

Theresa, l’erede di Maggie? La neopremier inglese Avrà il difficile compito

di guidare il Paese nell’uscita dall’Unione Europea

Cristina Marconi C’è stato un momento, al primo question time di Theresa May alla Camera, in cui a qualcuno è sembrato di vedere un fantasma. Quando con un pugno di frasi brevi e acuminate, concluse con uno sguardo regale e sprezzante, ha polverizzato il discusso leader laburista Jeremy Corbyn – lui parla di datori di lavoro senza scrupoli, lei attacca: «Nei banchi dell’opposizione ne sanno qualcosa» – la neopremier britannica sembrava proprio Margaret Thatcher. Il paragone, ovviamente, era nell’aria da tempo, già da prima che l’ex ministro dell’Interno, classe 1956, si candidasse a Downing Street. Ma fino ad allora era stato più un handicap per la May che un punto di forza: troppe le somiglianze per non azzardare un confronto, meglio evitare le pallide imitazioni o l’effetto sottomarca, hanno pensato per anni i Tories, lasciamo che la Thatcher resti unica e andiamo avanti con candidati maschi, giovani e baldanzosi. Ma da quando la storia ha puntato i suoi riflettori su Theresa May, nata Brasier, nel Regno Unito sembra essersi fatta largo l’idea che di Ladies di Ferro ce ne potrebbero essere addirittura due e questo, nello stordimento totale del primo mese post-referendum Ue, ha una portata psicologica importante per un elettorato che non sapeva bene cosa stava andando a votare, ma l’ha votato comunque con convinzione e ora, più che mai, ha bisogno di una condottiera affidabile. Proseguendo con i confronti ovvi, la May è figlia di un uomo di chiesa, come Angela Merkel, e come la sua omologa tedesca è bravissima nell’arte di lasciare che siano gli altri a fare errori, restando serafica ad aspettare il momento giusto per raccogliere i frutti della sua pazienza. Come la ragazza responsabile che non beve durante le feste per poter riportare a casa in macchina gli amici ubriachi, Theresa May se n’è stata in disparte durante l’amarissima e violentissima campagna referendaria sull’Unione europea.

Non ha fatto promesse impossibili da mantenere, non ha urlato slogan nei quali non credeva, non si è lasciata coinvolgere dalle risse politiche che hanno caratterizzato questa stagione nera della politica britannica. Né ne ha avuto bisogno: le sue posizioni notoriamente dure in materia di immigrazione le hanno permesso di dare un appoggio flebile al fronte «Remain» del suo allora capo David Cameron senza rischiare per questo di perdere del tutto le simpatie della fazione opposta. La figlia del vicario del Sussex lo ha sempre saputo che il problema con l’Unione europea è più che altro legato alla libera circolazione dei lavoratori o, come appare ora che il continente è così lontano, all’immigrazione. D’altra parte lei non voleva uscire dalla Ue, ma solo, come se le due cose non fossero indissolubili, dai vincoli della Convenzione europea per i diritti umani, «che lega le mani al nostro Parlamento, non aggiunge nulla alla nostra prosperità e rende il Paese meno sicuro impedendo la deportazione di stranieri pericolosi» e l’ha dimostrato quando nel 2012 è andata in Giordania a negoziare, contro tutto e tutti, l’estradizione del predicatore radicale Abu Qatada. Trascorsi che fino a qualche mese fa ne facevano una possibile capofila del fronte Brexiter.

La squadra di governo prescelta è un miracolo di equilibrio fatto apposta per non perdere le redini del comando Figlia unica di una famiglia della classe media, scuole statali, laurea in geografia a Oxford, rimasta orfana a 25 anni, May è sposata da 34 con il banchiere Philip, membro di quella cerchia di ex ragazzi delle scuole private di buona famiglia che da sempre fanno il buono e il cattivo tempo della politica britannica. Li presentò Benazir Bhutto, la

Theresa May con il marito Philip a Downing Street. (AFP)

leader pakistana assassinata nel 2007, in una serata in discoteca a Oxford organizzata dal partito conservatore e da allora i due, stando alle testimonianze, sono inseparabili, innamorati, affiatati. La coppia non è riuscita ad avere figli – «bisogna accettare le carte che la vita ti dà», ha spiegato la May parlando del dispiacere provato ai tempi – e il fatto che l’altra aspirante Lady di Ferro Andrea Leadsom avesse inelegantemente messo il dito proprio in quella piaga è riuscito a dare alla May un po’ della dimensione umana che le mancava, oltre a far piovere sulla rivale tante di quelle critiche da costringerla a ritirarsi dalla corsa a Downing Street. Quando Kenneth Clarke l’ha definita «una donna dannatamente difficile», Theresa May, che ha sempre fatto il possibile per incoraggiare e aiutare le donne in politica salvo poi nominare un governo meno «rosa» del previsto, ha colto la palla al balzo e ha risposto che il paese intero «ha bisogno di donne dannatamente difficili», dopo averne avuta una, la più difficile di tutte, Maggie, per 11 anni alla guida del paese. Il parlar chiaro non le manca: è stata lei, quando è stata eletta presidente dei Tories nel 2002, a dare ai conservatori la definizione indelebile di «nasty party», partito odioso. Mentre lo diceva indossava delle vezzose scarpe leopardate che sono passate alla storia e che ha riproposto quando è andata ad incontrare la regina Elisabetta II nel giorno del suo insediamento a Downing Street. In questi primi giorni al potere le sue mises vistose e sgargianti, in leggero con-

trasto con l’espressione severa del volto, sono state sostituite da certe giacche blu elegantissime portate con collane spesse ed eloquenti: durante il suo primo discorso indossava una pesantissima catena d’argento che le illuminava i capelli grigi, al question time ne aveva un’altra, altrettanto corposa, con grandi perle di metallo ad incorniciarle il volto. La squadra di governo che ha messo a punto è un miracolo di equilibrio e di perfidia e sembra fatto apposta per lasciare a lei un ruolo centrale in una fase così delicata per il futuro del paese. Alla ex rivale Leadsom, per dire, è stato affidato l’ingrato compito di andare a spiegare agli agricoltori come faranno a sopravvivere senza i fondi europei, mentre all’ingovernabile Boris Johnson è stato dato un ministero degli Esteri molto depotenziato, che costringerà l’ex sindaco di Londra ad un bagno di umiltà per riparare alle gaffes infinite e tutte volute che ha accumulato negli anni nei confronti di leader e popoli stranieri, seguendo il principio guida del «chi rompe paga». Sulla Brexit è andata a richiamare un falco come David Davis, 67 anni, già ministro sotto John Major ed euroscettico dalla linea durissima, affidandogli, si presume, il ruolo del poliziotto cattivo per lasciare a sé stessa quello della poliziotta se non proprio buona, almeno conciliante. Come cancelliere si è scelta un uomo esperto e affidabile come Philip Hammond e intorno a sé ha mantenuto una squadra di consiglieri fedelissimi e molto influenti che l’hanno accompagnata negli anni

al ministero degli Interni. Tra questi c’è Fiona Hill, costretta alle dimissioni nell’estate del 2014 per la vicenda dell’estremismo nelle scuole che aveva portato ad uno scontro accesissimo tra la May e l’allora ministro per l’Istruzione Michael Gove, artefice di un tradimento politico da manuale ai danni di Boris Johnson e tra le prime, inevitabili vittime del rimpasto operato dalla May. A colpire, in questi pochi giorni di Theresa May alla guida del paese, è stata la sua arte oratoria. Nel discorso d’insediamento ha messo l’accento sulla giustizia sociale, l’uguaglianza e la necessità di rimettere il cittadino britannico al centro del discorso politico, dimostrando di aver fatto tesoro degli insegnamenti dei populisti alla Johnson o alla Nigel Farage pur mantenendo intatto il suo rigore da politica secchiona e poco incline alle promesse a vuoto. La May, che comprensibilmente non vuole andare ad elezioni anticipate, ha approfittato anche di avere moltissimo spazio a sinistra, visto che il Labour è ostaggio di un leader che ha un sostegno popolare robusto ma non sufficiente per vincere le elezioni ed è incapace di andare a pescare elettori al di fuori del suo bacino. May ha promesso che «Brexit vuol dire Brexit» e che il suo compito è di fare dell’intera operazione un successo per un paese di cui bisogna ricucire insieme i pezzi dopo una stagione lacerante. O per dirla con San Francesco, citato da una Margaret Thatcher raggiante davanti alla porta di Downing Street: «Dove c’è la discordia, che io porti l’unione».

«Priyanka rocks» La seta indiana È la figlia di Sonia Gandhi, di professione ufficiale madre di famiglia, ma ufficiosamente

stella in divenire della politica indiana

«Priyanka rocks!» è il più recente grido di battaglia tra le signore bene della locale borghesia illuminata e progressista di Delhi, Calcutta e affini. Ma non si tratta né di una star di Bollywood né di una rockstar locale: la Priyanka in questione è Priyanka Vadra (foto) nata Gandhi, di professione ufficiale madre di famiglia ma ufficiosamente stella in divenire della politica indiana. In divenire perché, nonostante la signora sia praticamente cresciuta a pane e politica e abbia guidato negli ultimi dieci anni le campagne della madre Sonia e del fratello Rahul, Priyanka non ha mai rivestito alcun ruolo ufficiale. Nonostante si sia dimostrata abbondantemente capace, da almeno una dozzina d’anni, di scatenare folle, e di arringarle, come e più di una rockstar. Perché Priyanka, definita «il fattore P» vincente che dovrebbe risollevare il partito del Congress dal baratro in cui è precipitato dopo le ultime elezioni amministrative, la politica e il carisma ce l’ha nel sangue. Il suo bisnonno era Jawaharlal

Nehru, uno dei padri fondatori del Paese; sua nonna era Indira Gandhi, che dell’India è stata premier due volte; suo padre Rajiv Gandhi, premier alla fine degli anni Ottanta, assassinato poi nel 1991. Sua madre è Sonia Gandhi, l’italiana che ha guidato il partito del Congress alla vittoria nel 2004 e che è ancora a capo del partito. Sono stati in molti a essere rimasti sorpresi quando, nel 2004, Priyanka non si è presentata alle elezioni e al suo posto è stato invece candidato suo fratello Rahul, che da allora continua a collezionare gaffe e disfatte di proporzioni epiche e ha gettato il partito nel panico. Laureata in psicologia, Priyanka è da anni l’artefice della campagna elettorale della madre, e il consigliere occulto di quelle del fratello. È spesso al loro fianco durante comizi e conferenze, e manda regolarmente le folle in delirio. Io me la ricordo sul palco molti anni fa urlare: «Siete pronti a votare per il Congress?» e la folla rispondeva «Sì!» «Più forte, non vi ho sentito!» continuava lei. E il grido esplodeva come un tuono «Sì!!!!!». Giuro, sembrava Madonna.

La ragazza possiede inoltre, a sentire la gente, lo stesso carisma della nonna Indira: a cui somiglia anche fisicamente, nel modo di camminare e di gesticolare. Somiglianza accentuata dallo stesso taglio di capelli, e, commentano i maligni, dal fatto di aver scelto un ma-

AFP

Francesca Marino

rito ricco. Marito che, a dire la verità, costituisce il suo più grosso handicap: Robert Vadra, uomo d’affari piuttosto chiacchierato, è difatti praticamente impresentabile. La sua famiglia e lui stesso sono stati implicati in numerosi scandali che avrebbero impedito fino a questo momento l’ingresso ufficiale in politica della ragazza d’oro della più famosa dinastia politica indiana. Lei si è finora schermita ogni volta che le domandavano lumi al riguardo. Dicendo di avere due bambini a cui pensare e dichiarando che «la politica non è importante, la gente sì. E io posso aiutare la gente anche senza essere in politica». Adesso, però, la situazione è cambiata. È ormai chiaro come il sole che Rahul è totalmente inadatto al suo ruolo di candidato premier e che l’unica carta rimasta in mano al Congress è Priyanka, marito o non marito. L’annuncio di un incarico ufficiale si attende da un momento all’altro, e intanto ritornano a fiorire i Priyanka fan club e i social media, tutti, sono in stato di massima allerta. I pettegolezzi si sprecano, così come le fini analisi poli-

tiche di sostenitori e avversari. Avversari che non hanno alcun rispetto per Rahul, ma che temono invece l’entrata in campo di un nuovo avatar della buonanima di Indira Gandhi. Per l’occasione, come aveva già fatto mamma Sonia, Priyanka ha recuperato e modificato alcuni dei sari della collezione, famosa, sterminata e di incredibile valore, di nonna Indira. E ci sono già molte che copiano il suo modo di indossare il sari e il modello delle sue bluse, tradizionali ma con un che di moderno nel tipo di scollatura e di colletto. Siamo tutte pronte a vedere «la nuora dell’India» scendere in campo, e anche a vederla lottare fino all’ultimo ricamo fatto a mano con l’attuale premier Modi che si bea, neanche tanto in privato, di essere stato inserito ai primi posti nella lista dei politici più eleganti del mondo. Modi è uno che del populismo ha fatto la sua carta vincente, ma Priyanka non è da meno. In più, oltre a essere carismatica, è bella, giovane, colta e intelligente: quando succederà, sarà una sfida da non perdere.


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Politica e Economia

Sistema bancario in difficoltà: avvisaglie di una crisi? Finanza Preoccupa la possibilità di capitalizzazioni insufficienti in caso di crisi, un pericolo per tutto il sistema,

mentre si attendono i risultati dello «stress test» in Europa

Ignazio Bonoli I titoli delle banche sulle borse europee si sono leggermente ripresi, rispetto ai valori minimi toccati all’inizio del mese di luglio. I numeri attuali sono però ancora preoccupanti. Con queste quotazioni non è infatti possibile raggiungere i livelli che permetterebbero alle banche di rispondere agli standard di sicurezza voluti dalle autorità di sorveglianza dei mercati finanziari. La temuta crisi del settore in Europa non si è quindi ancora allontanata. Grande è stata quindi l’attesa dei risultati dello «stress test» delle banche europee, effettuato il 22 luglio, ma i cui risultati sono stati pubblicati solo il 29 luglio e dopo la chiusura settimanale dei mercati negli Stati Uniti (quindi dopo la stesura di questo articolo). Ci si attendeva comunque la conferma di situazioni note: in particolare quella delle banche italiane e della Deutsche Bank. Ma anche la Svizzera non può sfuggire a queste tendenze. I titoli delle due maggiori banche del paese – e molto attive anche a livello internazionale – lo dimostrano. Dopo le pesanti perdite subite da Credit Suisse (vedi «Azione» del 11.7.2016), il presidente della direzione generale ha invitato alla calma, nell’attesa dei risultati delle ristrutturazioni in atto. Il problema è però più ampio. In pratica tutte le banche euro-

pee potrebbero trovarsi in difficoltà nel dover resistere a una crisi generalizzata del sistema. Ovviamente, episodi come quello del voto sulla «Brexit» non aiutano certo la ripresa, ma anzi peggiorano le prospettive per l’immediato futuro. I più pessimisti fra gli analisti vedono proprio nell’andamento dei titoli bancari in borsa l’avvicinamento di una nuova crisi finanziaria generale. In realtà, i sintomi non mancano e vanno dall’accumularsi di titoli «tossici» presso alcune banche (da 1 a 2 milioni di milioni solo in Europa), ai tassi di interesse troppo bassi e perfino negativi, a una dotazione di capitale proprio insufficiente in un contesto di crescita economica troppo debole. Un esempio tipico della situazione è il settore bancario italiano. Al solo Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca, mancano almeno 2 miliardi di euro di capitale proprio e l’Europa non sembra accettare deroghe al principio del divieto di aiuti statali. Una ristrutturazione del sistema bancario italiano avrebbe effetti anche su altre piazze. Per esempio le banche francesi hanno partecipazioni in Italia pari al 10 per cento del PIL. Se va in porto la soluzione del «bail-in» prevista in Europa (cioè partecipazione dei creditori al capitale delle banche), non saranno solo i clienti italiani a doverne sopportare le conseguenze. «La situazione italiana» dice l’e-

Monte dei Paschi, situazione precaria, ma non è la sola banca europea. (Wikipedia)

sperto Thomas Meyer in un’intervista alla «Handelszeitung», «è solo la punta dell’iceberg». Le quotazioni basse dei titoli colpiscono infatti tutto il comparto e questo è un indice chiaro di una crisi del sistema. Cosa che temono parecchi esperti, tra cui l’ex-presidente della Banca Nazionale Svizzera Philipp Hildebrand o l’italiano Lorenzo Bini Smaghi, ex-direttore della Banca Centrale Europea, oppure il capo economista della Deutsche Bank David

Folkerts-Landau, che chiedono un sostanziale intervento di salvataggio del sistema bancario europeo. Si stimano interventi per oltre 150 miliardi di euro per ricapitalizzare le banche. Alcune semplici valutazioni delle perdite subite dai titoli bancari in luglio confermano la necessità di frenare il crescente abbandono degli investitori in titoli bancari. Se il Credit Suisse ha perso il 47% circa verso metà luglio, l’UBS ha perso il 31%, la Deutsche Bank

il 42%, la Royal Bank scozzese il 40%, la francese Société Générale il 30% e l’italiana Unicredit perfino il 59%. Tuttavia, secondo l’economista Nicolas Véron, specialista dell’Unione bancaria, il sistema europeo è ancora lontano dalla crisi. È più fragile di quello americano, ma la distanza sta diminuendo. Secondo Véron, la «Brexit» è solo un problema di costi e il problema dei crediti inesigibili in Italia può essere risolto nell’ambito delle nuove direttive dell’Unione bancaria europea, ma in realtà è così esteso soltanto in Italia. Le pressioni economiche e politiche però non mancano. Manca invece quel minimo di crescita economica che potrebbe, da sola, dare un contributo sostanzioso alla soluzione del problema bancario. Anche sul piano politico restano parecchie incertezze. Il governo Renzi in Italia potrebbe cadere al voto sul referendum costituzionale in novembre. La revisione al ribasso della crescita dopo la «Brexit» non giova neppure ai governi francese e tedesco, che andranno al voto nel 2017. Nel bel mezzo di queste incertezze si muovono anche le due grandi banche svizzere. È imperativo per loro, in questi momenti, migliorare la redditività, per non finire anch’esse nel vortice dei corsi borsistici bassi, delle scarse possibilità di aumentare il capitale proprio, dei rischi in aumento. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Dalle strade, il progresso economico e sociale del Paese Non esiste sviluppo senza investimenti. E non ci sono investimenti senza risparmio. Queste due massime della scienza economica bastano a spiegare perché, ancora oggi esistano nel mondo sacche di povertà e sottosviluppo. Perché mancano i mezzi finanziari per realizzare gli investimenti necessari. La storia economica ci dice che lo sviluppo delle economie europee ha preso inizio verso la metà del Settecento in Inghilterra, grazie alla cosiddetta rivoluzione industriale, ossia all’applicazione di nuove macchine e sorgenti di energia alla produzione industriale. La rivoluzione industriale si sarebbe in seguito propagata anche alle economie del Continente che, tutte, durante l’Ottocento, hanno conosciuto, con intensità diverse, l’industrializzazione. Ovviamente la creazione dell’in-

dustria con le nuove forme di produzione è stata facilitato dal capitale privato. Nel corso degli ultimi anni, gli storici dell’economia hanno però avanzato anche un’altra spiegazione dello sviluppo. Stando alla stessa, il ruolo motore dello sviluppo non è sempre stato assunto dall’imprenditoria privata, ma dallo Stato. In molti casi il processo di accumulazione di capitale è stato proprio promosso dalla spesa pubblica. È quanto, tutto sommato, è successo al Cantone Ticino, specialmente durante l’Ottocento. Quando il Ticino diventa indipendente, il suo reddito pro-capite è più o meno uguale alla metà del reddito dei territori che, qualche decennio più tardi, avrebbero formato la Confederazione elvetica. Non esistevano né banche, né risparmio. Eppure è dalla conquista dell’indipendenza politica

che inizia la lunga rincorsa del Cantone per raggiungere livelli di benessere vicini a quello medio svizzero. Quale è stato il fattore che gli ha permesso di effettuare gli investimenti necessari per avviare il suo sviluppo economico? La risposta a questo interrogativo è facile: il debito pubblico. È con il debito pubblico, infatti, che si finanziano i primi investimenti destinati a creare le condizioni-quadro per l’avvio dello sviluppo economico. Finanziata dal debito pubblico, nasce così, nella prima metà dell’Ottocento, la rete delle strade cantonali. Non solo la dorsale del Gottardo, da Airolo a Chiasso con le tre realizzazioni principe: la strada del passo, la strada del Monte-Ceneri e il ponte-diga di Melide, ma anche una serie di importanti strade di allacciamento verso Locarno, il Gambarogno, il Basso

Malcantone e le valli del Sopraceneri e del Sottoceneri. Ce lo ricorda, in Strade del Cantone Ticino, un’interessantissima pubblicazione appena uscita, Giorgio Bellini. Ai ticinesi di oggi, che le strade costruite in quel tempo, le usano da sempre, appare difficile rendersi conto dello sforzo compiuto dal Cantone per realizzarle tra il 1810 e il 1850. Un’idea del grande impegno del Cantone ce la dà un rapporto calcolato dal Bellini. Secondo lui, tra il 1810 e il 1830, la spesa annuale per la realizzazione delle opere stradali ha sempre superato il 30 per cento del totale della spesa del Cantone. Per finanziarla il Cantone Ticino, privo di risorse, dovette indebitarsi. Quanto lungimirante fu questo indebitamento dello Stato lo si realizzò, secondo noi, solo a partire dal 1848, quando con la creazione della Confedera-

zione, l’unificazione del mercato economico interno e l’imposizione dei dazi doganali, l’economia ticinese si trovò, da un giorno all’altro, tagliata fuori dal suo mercato di riferimento naturale, quello lombardo. Grazie alla realizzazione della rete stradale intercantonale, gli imprenditori ticinesi poterono indirizzarsi anche verso il mercato nazionale. L’analisi del Bellini, aiutato nella redazione del suo lavoro da Marco Marcacci, si concentra sull’Ottocento e i primi decenni del Novecento, sul periodo quindi nel quale l’automobile ancora non circolava, o quasi. Al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, probabilmente per ragioni di tempo, è dedicato invece solo l’epilogo del lavoro. L’analisi del Bellini dimostra che è dalle strade che è venuto il benessere economico e sociale del Paese.

il proprio marchio su Orlando e su Nizza, sul massacro nella discoteca gay e sulla strage del 14 luglio, non abbassa l’allarme sociale, se possibile lo amplifica: l’«uberizzazione» del terrore (come la chiama Bernard-Henri Lévy) rende imprevedibili attacchi «in franchising», semina allarmi, divide comunità, crea un mostro sfuggente e aleatorio. Non una forza da cui difendersi o un’organizzazione con cui trattare magari sottobanco, ma una minaccia che colpisce a caso – cinesi in vacanza o clienti di un McDonald’s –, si fa viva dove meno te l’aspetti, è in grado sia pure per pochi minuti di diventare padrona della vita e della morte di chi ha la sventura di passare da lì; non a caso l’unico aspetto comune tra Parigi e Bruxelles, tra Nizza e Monaco, è la constatazione che la macchina della sicurezza si è mossa male. In queste circostanze è fin troppo facile per gli estremisti e i populisti additare il generico nemico islamico senza fare distinzioni, senza realizzare che tra i primi obiettivi del terrore c’è proprio indurci a discriminare le minoranze musulmane di casa nostra, per radi-

calizzarle e renderle permeabili alla propaganda fondamentalista. Finora la Germania, e la Baviera in particolare, hanno tenuto. In Baviera è arrivato il milione di profughi cui la Merkel ha aperto le porte. I cristianosociali che da sempre governano il Land hanno chiesto un limite, ma hanno rifiutato di strumentalizzare le vittime: «Certo che vogliamo un tetto all’arrivo degli stranieri, ma non vogliamo collegare una richiesta politica con un fatto di sangue» ha detto il ministro dell’Interno bavarese dopo Würzburg. Però la prima correzione di rotta si era già avuta: l’accordo con la Turchia; i rifugiati siriani restano in Anatolia, in cambio di soldi e della riapertura delle trattative per l’ingresso di Ankara in Europa; una prospettiva che le repressioni di Erdogan rendono palesemente impossibile, e anche questa è un’incognita che pesa sulla capacità dell’Ue di reggere l’emergenza. In questo anno non si è fatto alcun passo in avanti, anzi. E non solo perché la cooperazione nel Mediterraneo e sulle coste resta allo stato embrionale, e non è sufficiente. In Francia si vota tra nove mesi e

i fondamentalisti fanno oggettivamente il gioco di Marine Le Pen, spingendo anche i candidati della destra repubblicana su posizioni anti-Schengen. La chiusura dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, dall’Austria all’Ungheria, chiamate entrambe a votazioni delicatissime, è evidente. La Polonia isolazionista ha ora davanti il difficile compito di garantire la sicurezza a oltre un milione di ragazzi che a fine mese incontreranno il Papa alle Giornate mondiali della gioventù. Il Regno Unito è fuori, e tenterà di rimanere nell’area di libero scambio economico limitando la libera circolazione dei cittadini comunitari, e sottraendosi alla solidarietà europea nell’accoglienza dei profughi e nel governo dei flussi. Non resta che la Germania. La vera guida dell’Unione. Riprendere il controllo delle frontiere meridionali dell’Ue, continuando a salvare vite ma distinguendo tra profughi da far entrare e irregolari da respingere, e colpendo duramente gli scafisti e gli organizzatori del traffico, non può essere solo una questione italiana; deve diventare una priorità europea.

tonnellate di merci. I numeri parlano da soli: nonostante globalizzazione e progressi dell’aviazione, il trasporto marittimo continua ad avere i suoi vantaggi. Un’altra data (2008) spiega come a Berna questo ramo dell’approvvigionamento goda sempre di un notevole riguardo: in piena crisi finanziaria le Camere federali decisero di aumentare la linea di credito (da 500 milioni a 1,1 miliardi di franchi) che consente di finanziare fino all’85 per cento di acquisto di nuove navi mercantili e, come detto, queste laute sovvenzioni hanno favorito la costruzioni di diverse nuove e moderne navi. L’altro filone della «Svizzera dei mari» è ancor più discreto e poco conosciuto. Pochi infatti sanno che, oltre a trasformarsi in una delle maggiori piattaforme del commercio mondiale delle materie prime, il nostro paese ha dato vita, sotto la spinta della maggiore società di controllo della qualità delle merci, a una rete di servizi che riguardano direttamente chi vende, chi trasporta e

tutte le aziende interessate (aziende di import-export, banche e assicuratori). All’interno di questa rete mondiale di servizi commerciali, che ha sede a Ginevra, lo «shipping», cioè il settore relativo al trasporto marittimo di merci, è quello assolutamente dominante. Innanzitutto perché ancora oggi oltre il 90 per cento degli scambi di merci e materie prime in tutto il mondo avviene via mare e poi perché questo mezzo di trasporto è in costante crescita per ragioni di protezione ambientale, controlli di sicurezza e, ovviamente, costi economici. Il solo aspetto negativo di questa «torre di controllo» ginevrina dei trasporti marittimi è la riservatezza che preclude una completa conoscenza su quanto essa gestisce. I pilastri sono comunque due: la Société Générale de Surveillance (SGS) che dal 1915 si è stabilita in Svizzera e da allora è diventata azienda leader nel mondo per i servizi di ispezione, verifica, analisi e certificazione di merci e produttori (tra i suoi amministratori delegati figura anche

Sergio Marchionne) e la Mediterranean Shipping Company (MSC, ne è azionista di maggioranza la famiglia italiana Aponte) giunta a Ginevra nel 1970 e diventata la seconda società armatrice a livello mondiale nel trasporto marittimo. Un ex-dirigente della MSC, oggi pensionato dopo 30 anni di attività nel settore della spedizione marittima, ha tracciato per Swissinfo.ch questo profilo dell’azienda, a condizione di poter mantenere l’anonimato: «Nel 2001, lo slogan del gruppo è stato: “La terra copre un terzo della Terra... Noi copriamo il resto”». Lasciando il polo «marittimo» ginevrino e tornando alle navi CH, va segnalata una peculiarità: a bordo delle navi con bandiera svizzera il 1. Agosto solo… 3 persone festeggiano il Natale della loro patria. Infatti i 900 dipendenti (marinai e tecnici) delle navi elvetiche sono quasi tutti di nazionalità filippina, indiana o cittadini di uno dei tanti stati marittimi che le navi della marina svizzera toccano nei vari continenti.

In&outlet di Aldo Cazzullo La fine di Schengen Un prete sgozzato in chiesa mentre dice messa rappresenta un’escalation, un attacco di una gravità senza precedenti, una sfida aperta all’identità e all’umanità dell’Occidente. Ed è accaduto in Francia. Ma ora nel mirino è entrata anche la Germania. E alla fine l’Europa dell’euro e della burocrazia, delle banche e della finanza, di tutti i simboli più detestati e divisivi, rischia di saltare su un’altra mina: la paura, l’immigrazione, il ritorno delle frontiere. Fenomeni diversi che i nemici dell’Europa hanno interesse a confondere. Senza che l’Europa si muova per evitarlo. La fine di Schengen, che si sta ormai manifestando, non sarebbe meno grave della fine dell’euro. Rappresenterebbe l’abolizione dell’eguaglianza tra i popoli e gli Stati del continente, e la rinuncia al governo comune dei flussi migratori. Un’Europa che chiude Ventimiglia e il Brennero, la via per la Francia e quella per il mondo tedesco, è un’Europa che scarica sull’Italia il peso non solo di affrontare gli sbarchi dal Sud e dall’Est del Mediterraneo, ma in genere il compito durissimo di reggere la frontiera con il

mondo islamico e subsahariano. Finora un solo Paese aveva dato segni concreti di voler condividere la responsabilità: la Germania. Per questo l’attacco alla Germania – e in particolare alla Baviera – rappresenta un rischio per tutta l’Europa, a iniziare dall’Italia. L’aggressione ai passeggeri del treno di Würzburg, il tiro al bersaglio sui clienti del centro commerciale Olympia di Monaco, la bomba che sempre in Baviera ha dilaniato l’attentatore ferendo dodici persone sono tre crimini molto diversi. Il primo è stato commesso da un profugo, suggestionato dalla propaganda islamista; il secondo da un figlio di immigrati nato in Germania, forse suggestionato dalla strage paranazista di Utoya; il terzo da un profugo siriano cui è stato negato asilo (ma consentito di restare sul territorio tedesco). Tutti e tre sembrano frutto di frustrazione e ossessione più che di un piano predeterminato. Ma in questa estate di paura le reazioni prescindono dalle cause. Faticano a distinguere tra jihadismo e insofferenza alle tensioni etniche. E il fatto che l’Isis, più che organizzare, apponga

Zig-Zag di Ovidio Biffi Bandiere svizzere più lontane Quest’anno in Svizzera ricorre un anniversario che sta passando quasi del tutto inosservato: i 75 anni della sua flotta d’alto mare. La spinta a parlare adesso di quell’anniversario ce la offre la festa nazionale: tra il garrire di bandiere di ogni dimensione mi pare ovvio dedicare un po’ di attenzione anche a quelle che sventolano da tanti anni nei posti più remoti della Terra, issate su navi che battono ovviamente bandiera svizzera. Tanto più che da festeggiare non ci sono solo gli anni, come ricorda una serie di dati che per l’occasione sono stati pubblicati dalla stampa svizzero-tedesca e da Swissinfo, da cui attingiamo sapendo di dover ringraziare. Iniziamo col dire che sono addirittura due i filoni «marinari» che la Svizzera può evocare. Il primo è quello citato per l’anniversario e cioè l’apparizione di navi di una marina ufficialmente svizzera nell’aprile del 1941. Basta la data a spiegare un orientamento che potrebbe sembrare perlomeno bizzarro

se non proprio ridicolo: il nostro paese infatti è tra la quarantina di nazioni che non hanno sbocco sui mari, solo Mongolia e Kazakistan ci superano in numero di navi, ma il governo federale, pur di garantirsi approvvigionamenti e merci attraverso scambi resi difficili dal conflitto mondiale, si vide costretto a far registrare una nave (la «Calanda») battente bandiera svizzera. Merita segnalazione il fatto che durante la guerra altre navi elvetiche (tra cui la «Generoso» che venne affondata nel 1944 da una mina galleggiante nel porto di Marsiglia) acquistate dal governo o noleggiate da armatori greci o inglesi vennero impiegate anche per conto della Croce rossa britannica e americana per trasportare aiuti e posta ai prigionieri di guerra nei paesi in conflitto. A fine 2015 le navi svizzere erano 47, ma altre tre erano in costruzione, per cui entro settembre il numero sarà tondo tondo: 50 navi tra porta-container, navi cisterna e mercantili capaci di trasportare in totale oltre 1 milione mezzo di


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Cultura e Spettacoli Prendersi cura Abbiamo incontrato lo psicanalista, saggista e scrittore italiano Massimo Recalcati pagina 40

Il ritorno dei Red Hot Ci si attendeva sicuramente qualcosa di più da The Getaway, recente fatica della band californiana

Cartoline musicali Questa settimana a mandarci i saluti estivi è la pianista ticinese Sarah Haessig pagina 42

L’artista che astraeva la realtà Mostre Il Museo Castello San Materno di Ascona dedica una mostra a Giorgio Morandi

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Alessia Brughera Bottiglie, tazzine, fruttiere, caraffe, lucerne e vasi di fiori venivano spostati di continuo, tolti e riposizionati diligentemente sul tavolo centinaia e centinaia di volte: erano sempre gli stessi pochi oggetti quelli che Giorgio Morandi immortalava nelle sue opere, umili cose a cui il pignolo pittore bolognese riuscì a conferire, per citare le parole del critico inglese John Berger, «un costante e implacabile senso dello scopo». Accuratamente selezionate erano anche le vedute per i suoi paesaggi: gli scorci urbani che si coglievano dalla finestra della sua casaatelier di via Fondazza a Bologna e i panorami campestri attorno a Grizzana, la piccola località appenninica dove trascorreva spesso le vacanze. Questa dedizione assoluta ai medesimi soggetti fu per Morandi l’unica via per riuscire a penetrare a fondo la realtà, al confronto della quale, come egli stesso affermava, nulla poteva essere più astratto. Di quegli oggetti inanimati e di quelle ambientazioni, l’artista restituì difatti una visione lirica che li catapultava in una dimensione contemplativa facendoli diventare quasi immateriali. Schivo e solitario, riflessivo e strenuamente attaccato alla sua silenziosa quotidianità, Morandi attraversò molti dei movimenti artistici italiani che hanno fatto la storia, accostandosi ad alcuni in maniera quasi impercettibile, ad altri in modo più riconoscibile. A nessuno di questi, però, concesse più che un momentaneo avvicinamento, e sempre finalizzato

Iinclassificabile Charles Gleyre Mostre Il grande artista al Musée d’Orsay

di Parigi

Gianluigi Bellei Ci sono diversi motivi per andare a vedere la mostra di Charles Gleyre attualmente al Musée d’Orsay di Parigi. Prima di tutto per conoscere un artista svizzero; poi perché molte delle opere provengono da un museo svizzero, il Musée cantonal des Beaux-Arts di Losanna e infine perché Gleyre è un artista inclassificabile e fuori dalle mode del periodo in cui è vissuto. Tra l’altro la mostra è sostenuta da Pro Helvetia. Il d’Orsay è uno di quei musei che fanno girare la testa: le sale dedicate agli impressionisti rappresentano tutto quanto un visitatore possa cercare e adorare. Vederle assieme dà le vertigini e infatti sono sempre piene di visitatori, fra selfie e sorrisini. Gleyre è esposto al quinto piano. Bisogna volerci andare. Un’altra ragione per farlo è che probabilmente sarete soli lungo tutto il percorso. Almeno così è capitato a me e un gentile commesso me lo ha fatto notare. Una vera fortuna avere tutta la mostra a disposizione senza nessuno che ti passa davanti, chiacchiera, ride e schiamazza. L’esatto contrario dell’altra al primo piano dedicata a Rousseau il doganiere, finita il 17 luglio, nella quale si faceva fatica a camminare. Ma chi è Gleyre? Prima di tutto un repubblicano e questo segna la sua carriera. Dopo il colpo di stato di Napoleone Bonaparte (futuro Napoleone III) del 1851 non ha più commesse pubbliche e smette di esporre. Poi un solitario un po’ misogino e anche questo non aiuta. Alla sua morte a Parigi nel 1874 – è nato nel 1806 a Cheville – di lui si perdono le tracce. Svizzero, dicevamo, originario del Canton Vaud, Gleyre è però parigino d’adozione. Dopo aver frequentato la scuola di belle arti si trasferisce nel 1828 a Roma per ammirare Michelangelo. Ovviamente essendo svizzero non può concorrere al Prix de Rome, ma in ogni caso un’esperienza italiana è sempre necessaria. Qui dipinge nel 1831 Les Brigands romains. Una tela violenta che non potrà mai essere esposta. Due briganti si giocano alla morra il primo posto per violentare una fanciulla seminuda che con le mani si copre il volto. Sullo sfondo, legato a un albero, il suo compagno si contorce dall’ira. Deluso dalla mancanza di com-

mittenti nel 1834 parte per l’Oriente assieme a John Lowell Jr., un ricco americano che gli sovvenziona il viaggio in cambio di disegni dei posti visitati. Quasi quattro anni bellissimi e terribili dalla Grecia alla Turchia, da Alessandria a Tebe, da Karnak a Luxor. Nessun artista fino ad allora aveva osato tanto. Delacroix qualche anno prima era andato in Marocco ma con una comoda missione diplomatica. Viaggio affaticante il loro, fra povere baracche e spazi desolati fino all’oasi e alla distensione. Lowell è in preda alla dissenteria mentre alla fine a Gleyre capita una grave infezione agli occhi. Malato torna a casa. Con una serie di disegni che documentano le persone incontrate e gli ambienti; tutti realizzati nei minimi particolari, come i paesaggi e le rovine architettoniche. Qui il calore della luce diviene quasi sensuale e la leggerezza un tocco di verità. A Parigi riprende in mano i lavori e crea dei dipinti nei quali però non riesce a infondere una linfa personale. Fino al Salon del 1843 dove presenta Le Soir con il quale ottiene la medaglia d’oro. Sotto una luce crepuscolare intrisa di un blu calmo e tenero alcune giovani donne su di una barca suonano e cantano la poesia della vita. A destra la figura di un poeta seduto osserva la scena. Un’allegoria della vita perduta, delle sue promesse disattese e dell’inaccessibilità dell’ideale. Per la prima volta Gleyre riesce a illustrare un pensiero riprendendo i lavori del viaggio in Oriente per modificarli. Dopo il successo crede di poter entrare a far parte di quella piccola cerchia di pittori di storia che sono la crema degli artisti: i più osannati e ricercati. Fra il 1855 e il 1858 realizza l’opera più complessa della sua vita: Les Romains passant sous le joug. Gleyre è un perfezionista e progetta il dipinto in tre fasi. Uno studio preliminare delle masse e delle figure. Un centinaio di disegni di ogni singola figura, molte volte realizzati con modelli viventi. Particolari di un sandalo, di un drappo, di una gamba, di una spada… Infine il passaggio al dipinto vero e proprio realizzato su di una preparazione di ocra rossa con la paletta dei colori tipici dell’epoca: il rosso vermiglione, l’ocra, la terra di Siena e alcuni blu. La tela, commis-

alla ricerca di un linguaggio autonomo. Quel linguaggio che molti collezionisti illustri e mecenati illuminati apprezzarono fin da subito, intuendo l’inedita interpretazione della natura morta e del paesaggio attuata e portata avanti con meticolosa abnegazione dall’artista per tutta la vita. Fu dopo aver assimilato la lezione di Corot, di Vermeer e soprattutto di Cézanne, da cui comprese l’importanza del comporre secondo principi geometrici, che Morandi approdò a uno stile che univa un meditato equilibrio delle forme a una straordinaria variazione cromatica fatta di sottili mutamenti tonali. Le lievi modulazioni della luce, le minime alterazioni prospettiche e gli impalpabili passaggi coloristici erano per lui funzionali alla sperimentazione delle potenzialità dell’immagine e alla rappresentazione del dato oggettivo nella sua intima essenzialità. Non fu soltanto nella pittura che Morandi seppe magistralmente portare una nitidezza compositiva senza pari e un austero minimalismo dal risvolto lirico. Anche nella produzione incisoria, infatti, raggiunse esiti di altissima qualità per competenza tecnica e per resa poetica, riuscendo a sfruttare appieno il mezzo grafico per le sue ricerche sui volumi e sugli effetti luministici. La mostra allestita presso il Museo Castello San Materno di Ascona – la prima iniziativa temporanea organizzata in questo storico edificio restaurato di recente e destinato a spazio espositivo – raccoglie una trentina di opere del maestro italiano

Giorgio Morandi, Natura morta, 1929 Acquaforte su zinco. (Morat-Institut für Kunst und Kunstwissenschaft, Freiburg im Breisgau © 2016, ProLitteris, Zürich)

in cui spicca un nucleo di acqueforti realizzate tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del Novecento. La rassegna parte da alcuni disegni che ben esemplificano la tendenza di Morandi verso il rigore strutturale e la semplificazione formale: pochi tratti delineano i profili della natura e delle cose in un abile «procedere per sottrazione» che depura il soggetto da ogni elemento accessorio. Poi è la volta della sezione dedicata alla grafica, che presenta undici acqueforti (appartenenti come i disegni al Morat-Institut für Kunst und Kunstwis-

senschaft di Freiburg im Breisgau) in cui quello stesso procedere trova una nuova modalità di espressione. All’incisione Morandi si applicò fin dal 1910, quasi in contemporanea alla pittura, sebbene durante la sua carriera alternò lunghi periodi di inattività ad altri di pratica intensa. Guardando a Rembrandt, ad Annibale Carracci, al Barocci e al Parmigianino, pervenne a uno stile personale che dava ulteriore enfasi alle sue indagini in campo artistico. Anche utilizzando questa tecnica si discostò da una riproduzione obiettiva della re-

altà per approssimarsi a una sua resa trasfigurata, grazie a una stesura del tratteggio sempre più libera e spontanea. Nei paesaggi esposti in mostra il segno si fa talvolta grossolano e deciso, descrivendo alberi, strade e case con potenti contrapposizioni che generano ombre e profili netti, talaltra si fa serrato, fitto e regolare, dando vita a molteplici zone di diverse tonalità che immergono ogni cosa in un chiarore diffuso. Anche le nature morte vengono modulate dall’artista con una tessitura di linee diversificata che definisce gli elementi con un trattamento leggero e diradato, capace di farli apparire come percorsi da delicate vibrazioni luminose, o con reticoli più marcati e spessi che li modellano in contrasti più evidenti. Morandi rifletteva così sulla sostanza delle cose, esplorandone forme e relazioni. Ma non solo. Quelle composizioni di immutabili oggetti banali e quelle vedute di inalterabili paesaggi familiari, sempre sospese in un’atmosfera limpida e senza tempo, erano lo spazio in cui poteva disporre pazientemente pensieri e sentimenti. Dove e quando

Giorgio Morandi. Forme, colori, spazio, luce. Museo Castello San Materno, Ascona. Fino al 18 settembre 2016. Orari: gi-sa 10.00-12.00 / 14.0017.00 (marzo-giugno / settembredicembre) 16.00-19.00 (luglio-agosto); do 14.00-16.00; lu-me chiuso. www.museoascona.ch

La Dickinson attorno al falò del Primo agosto Poesia Nella vasta produzione dell’opera della poetessa americana (1830-1886) si trova anche

una toccante poesia rivolta all’eroe nazionale elvetico Ovidio Biffi

Charles Gleyre, La Danse des Bacchantes, 1849 olio su tela, (part.). (© J.-C. Ducret, Musée cantonal des Beaux-Arts de Lausanne)

sionata dalla città di Losanna, racconta la fine della battaglia di Agen svoltasi nel 107 a. C nella quale una tribù di celti elvezi comandati da Divico batte il corpo di spedizione romano di Lucio Cassio Longino. I vinti passano sotto il giogo inchinandosi fra spade, corone e teste mozzate. Il dipinto diviene subito un’icona nazionale svizzera contribuendo alla crescita del nascente museo di belle arti di Losanna. Ma i lavori forse più belli sono quelli dell’ultimo periodo. Abbandonati i temi storici Gleyre dedica i suoi oli alla bellezza femminile. I nudi sono idealizzati unendo l’ammirazione per la statua della Venere callipigia di Napoli con il contorno delle figure e il segno di Ingres. Tutti i dipinti sono realizzati copiando dal vero e sono una rivisitazione dei temi e dei miti greci. Ma la loro prerogativa è un’altra. I soggetti sono esclusivamente femminili.

Splendido Les Baigneuses; ancora di più Sapho del 1867: una vera e propria idealizzazione del corpo femminile che ricorda la statuaria classica. Però l’opera maggiormente rappresentativa è sicuramente La Danse des Bacchantes del 1849 nella quale sempre solo donne ballano in un rito orgiastico e dionisiaco. Non sono presenti né Bacco, né Sileno, né i satiri, ma solo la musica e la bellezza femminile le quali si uniscono in una danza sfrenata e magica. L’ammirazione per la Grecia antica da parte di Gleyre non è quindi quella apollinea di Winckelmann, bensì quella, appunto, dionisiaca di Friedrich Creuzer il quale nella sua opera Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen del 1810 ne sottolinea la componente dionisiaca e misterica. Pensiero che allora suscitò molte perplessità, ma che ebbe un notevole influsso sui lavori di Nietzsche e Benjamin.

L’ultimo suo dipinto incompiuto, Le Paradis terrestre, è un sogno a occhi aperti verso un mondo immaginario e solare nel quale l’uomo ritrova l’incanto della purezza. Per terminare non si può non dire che Gleyre, durante il periodo parigino, riprende l’atelier di Paul Delaroche per insegnare pittura. In venti anni forma gratuitamente circa seicento artisti fra i quali Auguste Renoir, Claude Monet, Jean-Léon Gérôme, Alfred Sisley e Frédéric Bazille. Bel catalogo, con l’indice dei nomi; segno di serietà. Dove e quando

Charles Gleyre. A cura di Cóme Fabre, Paul Perrin. Parigi. Musée d’Orsay. Fino all’11 settembre. Catalogo edizioni musée d’Orsay ed Hazan. www.musee-orsay.fr

Da tempo, negli inserti culturali dei quotidiani o nei settimanali, va in scena una sorta di «revival» di Emily Dickinson. Può darsi che il motivo principale sia da ascrivere alla solita processione degli anniversari: quest’anno ricorre il 130esimo della scomparsa della potessa americana, quindi è la giusta occasione per ricordarla. Per dire soprattutto che il suo stile era e rimane unico, permeato com’è della sua forte personalità, a testimonianza di una forma di scrittura cercata da lei stessa e forgiò tutta la sua esistenza, a partire dalla decisione, presa a 25 anni, di autorecludersi nella poesia. Quella della Dickinson fu una vera e propria partenza dal mondo, una fuga dalla realtà, atta, paradossalmente, a raggiungere una migliore lettura della vita. La poetessa americana è così riuscita a catturare i grandi temi esistenziali anche nelle cose più minute e futili. Nei tanti ricordi, sia sui media sia in alcuni blog culturali, con il passare dei giorni (l’anniversario era in maggio) è emersa anche una consapevolezza inattesa: se la Dickinson continua a essere poetessa amata, è soprattutto perché è sempre in grado di conquistare i giovani. Certamente anche per il mare di versi dedicati all’amore ma, secondo i critici, soprattutto per un altro motivo: la poetessa possiede un modo particolare di scrivere che risucchia completamente il lettore nei versi, peraltro ricchi di messaggi «nascosti».

Leggendo le sue poesie ci si immedesima con il suo stato d’animo e ci si riconosce nelle sue parole. Interrogati a questo proposito, i giovani hanno affermato che i versi, gli aforismi e le riflessioni sull’esistenza umana propongono un registro poetico che consente di capire e interpretare preoccupazioni e problemi dell’attualità, rinvigorendo le speranze nel futuro. L’eredità della Dickinson è composta da 1780 liriche, quasi tutte pubblicate

postume. La prima edizione critica in tre volumi risale al 1955. Oggi si può avere un quadro esauriente della sua produzione ricorrendo a internet, dove si trova anche la raccolta The Complete Poems of Emily Dickinson, messa in rete da un editore italiano per pubblicizzare l’edizione cartacea in tre volumi Vi intreccerò in eteree collane (ed. Fili d’aquilone). Il documento digitale offre sia i testi originali sia le traduzioni e le note di Giuseppe Ierolli, come pure elenchi che servono da

comoda bussola a chi non conosce le poesie di Emily Dickinson. Tra le tante poesie merita una segnalazione questa, che accerta la straordinaria attualità della poetessa americana: Il Passato è una così curiosa creatura

Il Passato è una così curiosa creatura / A guardarlo in viso. / Un trasporto può rilasciarci, / O un’onta Se disarmato qualcuno lo incontrasse / Gli ingiungerei di fuggire! / Le sue sbiadite munizioni / Potrebbero ancora replicare La raccolta digitale citata contiene anche un indice alfabetico dei titoli (o capoversi) che è all’origine di un’incredibile scoperta. Scorrendo l’elenco, subito dopo il titolo Tell All the Truth but Tell It Slant (Dì tutta la verità ma dilla obliqua), ecco una sorprendente lirica che dimostra un’inattesa quanto magnifica relazione della maggior poetessa del XIX secolo con la storia svizzera! Fra le sue poesie infatti ve n’è una dedicata a Guglielmo Tell: Tell come Tiratore – sarebbe dimenticato / (Tell as a Marksman – Were Forgotten)

La grandissima poetessa statunitense Emily Elizabeth Dickinson. (Keystone)

Tell come tiratore – sarebbe dimenticato / Tell – ancora oggi persiste / Rubicondo come quella coeva mela / Che la tradizione regge Fresca come l’uomo quell’umile storia / Mentre un più solenne racconto / Incanutito dalla ripetizione / A stento durerebbe

Tell aveva un figlio – Quelli che lo sapevano / Non hanno bisogno di indugiare qui – / Chi non lo sapeva alla natura umana / Tributerà una lacrima Tell non volle scoprire il capo / In presenza / Del cappello ducale – Minacciato per questo di morte – da Gessler – / La tirannia risolse Di fare del suo unico figlio un bersaglio / Cosa che supera la morte – / Sordo alla suprema supplica d’amore / Non dimentico della fede La misericordia dell’altissimo implorando –/ Tell la sua freccia lanciò – / Dio si dice risponda di persona / Quando il grido è significativo Non è un poema di facile interpretazione. Più che al Tell della balestra e della freccia nella mela, la Dickinson inneggia alla forza della fede e della preghiera, un po’ come cercava di insegnare un tempo la scuola che non temeva di proporre anche i miti (oggi lo si fa con intendimenti quasi solo negativi, come detta il «politicamente corretto»). Chiarificatore, e andrebbe sottolineato in grassetto, un «bis» degli ultimi due versi: «Dio si dice risponda di persona / quando il grido è significativo». Un insegnamento vecchio di oltre 130 anni, ma assolutamente attuale e adeguato anche per il 1. agosto di quest’anno.


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Cultura e Spettacoli

Prendersi cura con grazia Incontri A colloquio con il grande saggista e scrittore Massimo Recalcati, esperto psicanalista con il merito

di avere saputo divulgare la propria materia con successo Eliana Bernasconi Nel corso degli anni 70 a Parigi le masse accorrevano alle lezioni del carismatico Jean Lacan, morto nel 1981, celebre psicoanalista che seppe affascinare e portare la psicoanalisi al centro del dibattito culturale e filosofico come mai più accadde in seguito. Lacan fu un analista creativo e lucidissimo, un geniale lettore e continuatore di Freud, introdusse i concetti di campo della parola e del linguaggio, si allacciò alla linguistica e allo strutturalismo e parlò di ordine significante e simbolico, dell’importanza dello stadio dello specchio nel bambino per la formazione dell’io, evidenziò infine la centralità delle figure del Desiderio, del Godimento e della Legge nella strutturazione del soggetto, cardini della sua teoria. Fu anche il Lacan dal linguaggio oscuro e indecifrabile che usava nel suo discorso grafici matematici e formule algebriche. L’ingresso trionfale delle neuroscienze, del cognitivismo, del comportamentismo e della psichiatria organicistica nei successivi decenni sottrassero poi alla psicoanalisi questo primato. Con i suoi numerosissimi libri, tradotti in diverse lingue, Massimo Recalcati, saggista e scrittore, ha reso appassionante e comprensibile il suo linguaggio e ha restituito a un vasto pubblico gli aspetti più vivi di questo sapere. Jacques Lacan, desiderio, godimento e soggettivazione, (2012 ), è il primo dei due volumi che ha dedicato al suo maestro. In Ritratti del desiderio Recalcati indaga la molteplicità dei modi di essere di questo protagonista della nostra era, spaziando dal desiderio invidioso a quello delle dipendenze patologiche, passando per i legami che ammalano e dal desiderio dell’Altro. Ha pubblicato poi in continuazione molti altri libri, fra i più letti Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Cosa resta del padre, la paternità nell’epoca ipermoderna, Non è più come prima,elogio del perdono nella vita amorosa, e ancora L’ora di lezione, per un’erotica dell’insegnamento, Il complesso di Telemaco, genitori e figli

dopo il tramonto del padre, e Le Mani della Madre fino al secondo volume di Jacques Lacan, la clinica psicoanalitica: struttura e soggetto (Cortina, 2016) da pochi giorni in libreria. Massimo Recalcati ha una concezione solidaristica della vita e della cura, perché è riuscito a rendere accessibili a tutti i costi proibitivi della psicoanalisi, creando i «JONAS»,centri di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi, che stanno avendo una straordinaria diffusione in tutta Italia. Affianca alla pratica clinica l’insegnamento universitario, è ricercatissimo e presente in molti convegni e manifestazioni culturali. Da due anni, ci ha detto, per ragioni di tempo non rilascia interviste a nessun quotidiano o settimanale. Per i lettori di «Azione» ha saputo fare un’eccezione e lo ringraziamo. Nel secondo volume, da poco in libreria, di Jacques Lacan, la clinica psicoanalitica, struttura e soggetto, (suddiviso in 3 parti, Nevrosi Psicosi Perversioni), descrivendo le caratteristiche del soggetto perverso Lei coglie in esso una chiave di lettura della contemporaneità. In che senso?

La tesi di Lacan è che la perversione non definisca delle pratiche sessuali aberranti, non riguardi in senso stretto la sensualità umana e le sue eventuali deviazioni. La sensualità umana è come tale perversa, cioè non è regolata dall’istinto. La perversione definisce piuttosto il rifiuto della legge, delle versioni umane della legge, nel nome dell’unica legge che davvero conta, la legge del godimento,o, se si preferisce, del godimento elevato a forma assoluta della legge. E questo è un tratto fondamentale del nostro tempo. Dal punto di vista della psicoanalisi lacaniana lei si è occupato delle figure di Hitler e di Van Gogh, ovviamente semplificando. Ci accenna in che modo legge queste figure?

Hitler è la più pura e drammatica esperienza della follia paranoica, egli si identifica delirantemente nel «puro»

sempre», Lei scrive, e afferma che la piena libertà amorosa di cui parliamo oggi è una menzogna. In realtà obbediamo a un nuovo padrone. Questo non ci riporta all’epoca del Romanticismo?

Ogni amore degno di questo nome vuole essere eterno, per sempre. Il che non significa che ogni amore sia davvero per sempre. Gli amori finiscono, si esauriscono. Ma la loro vocazione porta con sé la vocazione dell’eterno. In L’ora di lezione, per un’erotica dell’insegnamento, Lei racconta in modo autobiografico il fondamentale incontro con una professoressa che segnò per sempre la sua vita. Come si riconosce il vero insegnante?

Gli insegnanti che lasciano il segno sono quelli che desiderano ciò di cui parlano. Sono quelli che amano quello che fanno. Nel libro Il vuoto centrale si parla di una teoria psicoanalitica dell’istituzione e del legame sociale. Sotto questo aspetto da quali rischi dovrebbe guardarsi l’istituzione scolastica per adempiere alla sua funzione, rimanere viva e vitale?

Come ogni altra istituzione l’istituzione scolastica tende a ripetersi in modo grigio e burocratico, e questo fa parte del dispositivo istituzionale: assicurare un funzionamento regolare, ripetitivo appunto. Ma ciò che tiene viva un’istituzione è la presenza, la circolazione dell’ossigeno del desiderio.

Saggista, scrittore, psicanalista: l’italiano Massimo Recalcati, classe 1959. (Wikipedia)

che perseguita gli impuri nel nome di una causa. Il cattivo è l’ebreo, l’omosessuale, il comunista. Mentre Hitler si pone come il medico che cura il corpo malato della grande Germania, Van Gogh è la più pura esperienza della follia schizofrenica, vive l’esperienza di una libertà disperata, assoluta, erratica, randagia. Una libertà che si ribalta in schiavitù.

la nevrosi è contraddistinta da una difficoltà di accesso all’altro, come leggere per esempio l’inibizione del timido?

Il nevrotico non rifiuta la legge, ma la subisce malvolentieri e vive la sua vita nell’insoddisfazione e nell’autopunizione. Se nessuna persona può dirsi esente da tratti nevrotici e se

Si sono celebrati da poco i 200 anni della nascita di Charlotte Brontë, la scrittrice inglese autrice del celebre romanzo d’amore Jane Eyre. «Ogni vero amore nasce per essere per

L’inibizione è tendenzialmente il risultato di una idealizzazione inconscia di sé stessi. Il timido si confronta con un ideale di sé talmente smisurato da provocare una sensazione costante di inadeguatezza e insufficienza.

Non si vuole qui certo misconoscere l’enorme portata scientifica delle neuroscienze, ma forse stanno correndo il rischio di diventare egemoni ed essere sopravvalutate. Quale spazio spetta di diritto alla psicoanalisi, perché lei l’ha recentemente definita una scienza «femminile»?

La psicoanalisi è una scienza fondamentale perché concepisce la verità a partire dal nome proprio, dal volto, dal soggetto che parla nella sua singolarità. Il femminile sa prendersi cura con grazia della singolarità della vita. Per questo Lacan diceva che lo psicoanalista è sempre al femminile.

L’importanza dell’evento olimpico Olimpia rivive a Rio Settima parte. Dalla «tregua sacra» ai moderni boicottaggi

Elio Marinoni L’importanza politico-istituzionale dell’evento olimpico è chiaramente indicata dalla «tregua sacra», che la tradizione fa risalire a un accordo tra Ifito, re dell’Elide, e Licurgo, legislatore di Sparta. Plutarco sottolinea che «l’idea della tregua olimpica sembra propria di un uomo bonario e incline alla pace» (Plutarco, Licurgo, 23, 2). Su questo punto è fin troppo evidente la differenza con le olimpiadi moderne. Queste infatti, nonostante l’adozione di una simbologia pacifica (i cinque cerchi intrecciati a rappresentare l’unione dei continenti grazie allo spirito olimpico), non poterono essere disputate in occasione delle due guerre mondiali (nel 1916, nel 1920 e nel 1944), mentre nel 1972 i giochi olimpici di Monaco di Baviera furono funestati da un attentato terroristico, posto in atto dall’organizzazione palestinese «Settembre nero» ai danni della delegazione israeliana. A partire dal 1948 le olimpiadi moderne sono state inoltre contrassegnate da vari episodi di boicottaggio: in quell’anno non furono invitati a Londra Germania e Giappone, in quanto «stati aggressori» nella seconda guerra mondiale; nel novembre 1956 Olanda e Spagna si ritirarono

dai giochi di Melbourne per protestare contro l’Unione Sovietica, che da pochi giorni aveva invaso l’Ungheria; ai giochi di Montreal (1976) rinunciarono a partecipare 22 nazioni africane e la Guyana in segno di protesta contro la presenza della Nuova Zelanda, rea di avere inviato la propria squadra di rugby in tournée nel Sud Africa dell’apartheid; a quelli di Mosca (1980) non presero parte gli USA e vari paesi filoamericani per protestare contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan

Olimpiadi funeste: nel 1972 a Monaco si consumò una tragedia. (Wikipedia)

(1979); per ritorsione, le olimpiadi successive (Los Angeles 1984) furono boicottate dall’URSS e dalla maggior parte dei paesi comunisti (con l’eccezione della Romania e della Jugoslavia). L’importanza dell’evento olimpico nell’antichità è confermata anche dalla loro utilizzazione – favorita dalla presenza di un numeroso pubblico proveniente da tutta la Grecia – come «cassa di risonanza» da parte di intellettuali e artisti: dai filosofi Talete, Platone ed Aristotele ai sofisti Gorgia, Ippia e Prodico, dallo storico Erodoto all’oratore Lisia, fino ai più famosi scultori e pittori. Di Talete si dice che sia morto a Olimpia a causa di un colpo di sole mentre assisteva ai giochi (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, I, 39), che si svolgevano in piena estate e ai quali bisognava assistere a capo scoperto. Alcuni, come Erodoto, sfruttarono (al dire di Luciano, Erodoto o Aezione) la ricorrenza olimpica per leggere pubblicamente e così propagandare la propria opera; altri per lanciare messaggi, come l’appello alla pace contenuto nell’Olympiakós di Gorgia del 408 a.C. (la Grecia era allora travagliata, da oltre un ventennio, dalla guerra del Peloponneso); altri infine per compiere gesti clamorosi, come il suicidio inscenato dal filosofo

cinico Peregrino, che si bruciò sul rogo (Luciano, Morte di Peregrino). Nel suo discorso Olympiakós (388 a.C.) l’oratore Lisia sostenne non senza ragione che a Olimpia non si svolgevano solo competizioni sportive, ma anche una «gara di ricchezza» e «un’esibizione di saggezza» (par. 2). Al dire di Cicerone, Pitagora aveva paragonato per la sua varietà la vita umana alla «fiera» (mercatum) di Olimpia, nella cui folla aveva distinto tre categorie: gli atleti, spinti dal desiderio di gloria; i mercanti, spinti dal desiderio di guadagno; e gli spettatori, mossi solo dal desiderio di assistere agli agoni (Cicerone, Tusculanae disputationes, V, 3, 9). È stato calcolato che ai giochi olimpici potessero assistere forse fino a 40’000 persone. Si trattava di un pubblico esclusivamente maschile, non pagante e proveniente da tutto il mondo greco. Anche agli spettatori di quel tempo non era estraneo il fenomeno del tifo: un vaso attico della prima metà del VI sec. a.C. raffigura alcuni spettatori seduti in tribuna che assistono, parteggiando attivamente, a una corsa delle bighe; e in un’orazione scritta poco dopo il 100 d.C., Dione Crisostomo invita a moderare il tifo. Assistere in modo passionale e talora fanatico a competizioni sporti-

ve, in particolare a quelle ippiche, era del resto una pratica diffusa anche a Roma. A questo proposito il poeta satirico Giovenale (II secolo d.C.) scrive: «Oggi il circo, contiene tutta Roma e dal fragore che mi percuote le orecchie suppongo che vincano i Verdi. Se perdessero, vedresti questa città mesta e sbigottita come quando i consoli furono vinti nella polvere di Canne» (Giovenale, Satire, XI, 197-201). E ancora intorno alla metà del VI secolo Procopio di Cesarea, riferendosi a quanto avveniva a Bisanzio, sede dell’impero di Giustiniano, bolla come pure follia il fanatismo delle opposte tifoserie: «I tifosi combattono contro i loro avversari senza sapere per che cosa si battono [...] L’inimicizia che sentono per chi è vicino è irrazionale […]... superano i vincoli di parentela o amicizia [...] possono anche essere privi del necessario e la Terra dei loro padri può versare nelle peggiori difficoltà ma non se ne curano se la loro fazione sta vincendo [...]. In breve posso definire tutto ciò solo come una malattia mentale (psychês nósema)» (Procopio, Storia delle guerre, I, 24). Pensando agli eccessi in cui trascendono oggi soprattutto le tifoserie delle squadre di calcio, viene proprio da esclamare: nihil sub sole novi!


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Cultura e Spettacoli La copertina di Getaway, ultimo CD dei Red Hot Chili Peppers.

De gustibus Pubblicazioni Un saggio del filosofo

Emanuele Arielli intorno alla possibilità di cambiare i propri gusti personali

Stefano Vassere

Same old story Musica La routine dei Red Hot Chili Peppers: una nuova conferma,

ma priva di reali sorprese, per la band californiana più amata

Benedicta Froelich Forse nessun’altra band americana ha saputo ridare smalto e importanza al cosiddetto «rock californiano» di buona memoria quanto la formazione dei Red Hot Chili Peppers, fondata nel 1983 dal cantante e frontman Anthony Kiedis e dal bassista Flea, unici membri della lineup originale a fare tuttora parte della band. Nel corso di oltre trent’anni di carriera, il gruppo ha inanellato brani azzeccatissimi e dal successo planetario come, tra gli altri, Under the Bridge (1991) e Scar Tissue (1999), che gli sono valsi una popolarità internazionale a dir poco invidiabile, in grado di resistere anche a terremoti quali le molteplici defezioni e ritorni del talentuoso chitarrista John Frusciante. Oggi questo nuovo Getaway, attesissimo lavoro che giunge a ben cinque anni di distanza dal precedente I’m With You, non sembra, almeno di primo acchito, riservare nessuna particolare sorpresa ai fan di Kiedis & Co.: ma se è vero che il brano di apertura del CD (il quale funge anche da title track) non suona esattamente come un esercizio stilistico di grande fantasia, è altrettanto vero che basta arrivare alla seconda traccia, Dark Necessities, per essere subito risucchiati dal fascino di una base di basso estremamente sapiente e accattivante che, verso la fine del pezzo, lascia il posto a un assolo di chitarra elettrica come solo i Red Hot Chili Peppers sanno produrne. E poiché si può dire che proprio una simile forza espressiva rappresenti ciò di cui il fan abituale della band è in cerca, non può che far piacere scoprire come, all’interno della tracklist, questa par-

ticolare alchimia si ripeta più volte: ad esempio, con l’intensa The Longest Wave – ballatona piena di charme, che riflette in tutto e per tutto il meglio del genere al quale la formazione ci ha abituati nel corso degli anni – o, in misura minore, con Sick Love; brani che, pur non possedendo l’epicità di sforzi del passato quali Desecration Smile o My Friends, rappresentano comunque dei buoni esercizi di stile, senz’altro in grado di fare contenti i fan di vecchia data del gruppo. Con Goodbye Angels, torniamo tuttavia su terreni che vertono un po’ troppo sul familiare, finendo per sconfinare nel risaputo – in questo caso, con un pezzo che sembra una versione meno brillante del celebre ritmo funky di Snow (Hey Oh). Sfortunatamente, un simile senso di déjà-vu aleggia anche su altre canzoni del CD: un brano sull’orlo dell’hard rock come This Ticonderoga e la traccia conclusiva Dreams of a Samurai sono pezzi di medio livello, che mostrano tutti i classici marchi di fabbrica della musica dei RHCP senza, tuttavia, che nessun senso di fascinazione risulti da tale miscela; mentre Go Robot e Feasting On the Flowers presentano alcuni spunti interessanti, traditi però da uno sviluppo musicale francamente banale, come accade anche con il nervoso Detroit, gradevole ma privo di reale sostanza. The Getaway torna però a toccare le vette più amate con esperimenti suggestivi e affascinanti come Encore e, soprattutto, il magistrale The Hunter, i quali costituiscono ottimi esempi di lenti ipnotici e suggestivi – una tipologia di brano che, sulle prime, non apparirebbe come uno dei punti forti dei RHCP, ma nell’ambito della quale la formazio-

ne ha firmato alcuni dei suoi maggiori successi; e bisogna dire che l’antica maestria della band, da sempre in grado di ammaliare il proprio pubblico con poche note azzeccate, rivive anche in una canzone come We Turn Red, la quale, seppure non indimenticabile, contiene tutti gli ingredienti da sempre più amati dai fan – ovvero un potente inciso, a metà strada tra il recitativo e il rap, un ritornello estremamente orecchiabile e strofe semplici eppure efficaci, sostenute da una struttura melodica collaudata quanto interessante. È chiaro che l’ascolto di quest’album non può che confermare come i Red Hot Chili Peppers siano ormai divenuti un gruppo a tal punto «collaudato» all’interno della scena internazionale da non aver più bisogno di presentazioni, né, tantomeno, di difendere il proprio nome; eppure, tale sicurezza può facilmente divenire un’arma a doppio taglio, soprattutto dal momento che John Frusciante, uno degli effettivi pilastri della band, ha nuovamente lasciato la formazione – fatto che sembra aver spinto i RHCP a voler «andare sul sicuro», producendo un album dall’impronta piuttosto manierata. E per quanto ciò si addica all’attuale connotazione stilistica del gruppo, è chiaro che una piccola porzione di ascoltatori potrebbe dolersi di questa apparente pigrizia; da parte nostra, ci auguriamo che, in futuro, l’odierna «formula» del gruppo non lo spinga mai a rifuggire alcun tipo di sfida, e che il desiderio dei Red Hot Chili Peppers di rimanere fedeli a loro stessi possa comunque convivere con doverosi impulsi di innovazione, o di esplorazione di nuovi terreni musicali.

«C’è tanta gente con cui competere qui, che l’unica speranza di avere qualcosa sta nel cambiare i propri gusti e volere ciò che gli altri non vogliono». La musica e il cibo sono gli ambiti dove le frontiere della costruzione del proprio gusto personale risultano più marcate. Non le musichette e i cibi più standard, ma quelli che magari all’inizio non ci piacciono perché non ne capiamo nulla ma poi ci portano ad affezionarci e anzi ad amarli proprio. Quindi, affetti piuttosto estremi, come la musica atonale, post-tonale o pan-tonale, verso la quale si tende a essere sordi perché, come dice Theodor Adorno, essa rigetta la bellezza come veicolo del gusto, perché questa esperienza «ha preso su di sé tutta la tenebra e la colpa del mondo: tutta la sua felicità sta nel riconoscere l’infelicità, tutta la sua bellezza nel sottrarsi all’apparenza del bello». Per il fronte dei cibi il discorso è diverso, perché diverso è il senso in gioco: se per la musica contemporanea meno probabile e meno scontata possiamo pescare analogie nelle esperienze di un mondo di cacofonie quotidiane senza arte né parte, cacciarsi in bocca pietanze di certa cucina coreana o formaggi putrefatti giapponesi risulta performance certo piena di incertezza. La difficile conquista di un gusto personale è oggetto di un nuovo e curioso libro del filosofo Emanuele Arielli, che si intitola Farsi piacere. La costruzione del gusto (il titolo non è male, perché, se uno non lo sa preventivamente, potrebbe volere dire molte cose: dal sen-

so voluto di «fare in modo che qualcosa mi piaccia», a quello di «fare in modo che agli altri io risulti piacevole» e «indursi il piacere», significati molto diversi di una particolare struttura sintattica). Il libro è strutturato in due parti. Una prima sistemazione del problema, che è teorica ma anche popolata di un benvenuto apparato esemplificativo, e una parte più pratica, dove l’esposizione di quelle che sembrano vere e proprie istruzioni per un corredo del proprio gusto sono di fatto la descrizione scientifica delle pratiche che le persone mettono in atto per collocarsi nel mondo (non è, insomma e banalmente, un libro di istruzioni per l’uso, di quelli per intenderci che si trovano nei ristoranti autostradali). La questione è ovviamente tra le meno semplici, anche perché ci sono gusti e gusti, come è prevedibile. Ci sono quelli che crediamo siano i nostri gusti privati; poi ci sono dei gusti pubblici, ai quali cerchiamo di adattarci perché in un qualche modo ci conviene; poi ci sono quelli primari e quelli secondari; quelli indotti dall’esterno, che sovvertono e ridisegnano in un qualche modo la nostra stessa personalità. E poi c’è il gusto di avere un gusto, che è parente del preferire preferire o il desiderare desiderare. Su tutti, quello più generoso è il gusto che letteralmente si arrampica su un nostro gusto precedente per costruire una sorta di estetica di nuovo livello. Perché abbiamo il gusto di avere dei gusti che fanno piacere a chi ci sta vicino e alle persone, grandi o piccole, cui vogliamo bene: le fotografie, i libri di Geronimo Stilton, le costine fatte bene, certe infinite e colorate serie televisive, altri libri, il lessico scelto dei bambini. Costruire i propri gusti è come costruire il corredo della propria esistenza, l’inventario delle cose che ci fanno come siamo e che ci rendono unici e felici. Dalla rassegna delle innumerevoli disposizioni che il gusto personale può assumere, tutte puntualmente ritratte in questo libro, si esce con una specie di ubriacatura ma anche come sovvertiti. Come appunto chi cerchi di fabbricarsi un gusto nuovo, un nuovo modo di vivere. «L’essere umano è l’unico animale che impara facendo l’ipocrita. Fa finta di essere educato e poi, alla fine, diventa educato». Bibliografia

Emanuele Arielli, Farsi piacere. La costruzione del gusto, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2016.

Parliamone di Alessando Zanoli Esperanza tra passato e futuro

Esperanza Spalding, classe 1984, è una delle figure più geniali della scena musicale mondiale. È stata una jazzista, perlomeno fino all’anno scorso, ma una jazzista di quelle di lusso. Da subito una major discografica l’ha presa sotto le sue ali e le ha fatto produrre dischi di un jazz così moderno e poco ortodosso da diventare interessanti per un pubblico molto ampio. Di corporatura minuta faceva effetto vedere in che modo sul palco aggrediva il suo strumento, il contrabbasso. Un contrasto reso ancora più appariscente dalle sue mises, estremamente curate ed eleganti, con tacchi a spillo, abiti di seta e cotonatissime acconciature afro.

Questo però fino allo scorso anno. Nella sua ricerca artistica senza compromessi, Esmeralda ha deciso che la prossima incarnazione del jazz sarà una forma musicale a cavallo tra teatro e opera pop. Eccola dunque inventare un suo nuovo personaggio, Emily, una «evoluzione» della sua figura, una sorta di bambola Bratz che suona il basso elettrico, canta e recita sul palco vestita in abiti sgargianti. Quasi a ricordare un moderno Flauto magico. Per chiarire il quadro ai suoi fan, ecco l’immagine che la Spalding ha scelto: Esperanza «afro» in bianco e nero e la coloratissima Emily, come due sorelle. Una però sembra rivolta al passato, l’altra aperta al futuro.


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Cultura e Spettacoli

Pardo, qualità e sorprese Festival di Locarno Il 3 agosto prende il via il 69esimo Festival del film di Locarno Fabio Fumagalli A meno di bluffare, anticipare le impressioni su un Festival come quello di Locarno rappresenta una scommessa a dir poco azzardata. Specie dopo l’edizione, per molti aspetti riuscita e innovativa, di un anno fa. Da escludere, tanto per iniziare, l’operazione notoriamente abusata del copia-incolla. Non fosse che per un fatto: Locarno 2015 è apparso con il vento in poppa, pur trattandosi del più piccolo dei grandi festival (secondo lo slogan coniato dall’indimenticato presidente Raimondo Rezzonico). O del più grande, ma fra i piccoli: com’è forse più realistico definire una selezione su cui incombe due settimane più tardi la Mostra di Venezia. L’edizione scorsa aveva visto una sorprendente lista di grandi nomi accanto all’elenco delle «scoperte» che appartengono di diritto (e di dovere) a un festival di ricerca come Locarno. Alle sempre imprevedibili incognite delle nuove leve erano state affiancate personalità storiche come il coreano Hong Sang-soo, il polacco Andrzej Zulawski, la belga Chantal Akerman o il georgiano Otar Iosseliani. Autori che la giuria, presieduta da una personalità carismatica come Jerry Schatzberg, non poteva che mettere in luce, accostando al Pardo d’Oro più che meritato del coreano, le rivelazioni del giapponese Hamaguchi Ryusuke o dell’israeliano Avishai Sivan. L’edizione 2015 ha visto anche una migliore valorizzazione della Piazza, inaugurata dalla coppia Streep-Demme, proseguita con opere non solo di facile distrazione, ma firmate Corsini, Fuqua, Apatow, Le Guay o Baier. Infine, e soprattutto, per l’ultima, commovente quanto significativa apparizione sulla scena internazionale di Andzej Zulawski, Chantal Akerman e Michael Cimino. Non a caso, la chiacchierata dell’autore de Il cacciatore con il pubblico al Fevi è stata citata in mezzo mondo dopo la recente scomparsa del grande cineasta. Ecco spiegato perché il Festival che s’inaugura mercoledì parte con un carico di aspettative non indifferente. Carlo Chatrian (che si è appena visto rinnovare il contratto fino al 2020) ha

calato da subito due carte invidiabili: avviare questa 69esima edizione nel solco lasciato dalle due formidabili figure del cinema moderno appena scomparse, Michael Cimino e Abbas Kiarostami. Quest’ultimo rivelatosi a Locarno nel 1989 con Dov’è la casa del mio amico?, che gli valse il Leopardo di bronzo. 27 anni dopo quell’intuizione spesso dimenticata, il festival presenterà quest’anno in anteprima mondiale l’ultima fatica del celebre regista iraniano: Filmando en Cuba, ossia sette cortometraggi girati da un laboratorio da lui diretto. Locarno sembra fatto quest’anno di piccole ma si spera preziose perle, che andranno colte nelle numerose sezioni. Pensiamo ad esempio alla presenza di una personalità a suo modo unica, quella del grande surrealista Alejandro Jodorowsky, scrittore e poeta cileno, oltre che cineasta sempre avanguardista, nonché compagno di strada di Marcel Marceau, Roland Topor e Fernando Arrabal. L’autore di opere di culto come El topo, La montana sagrada o Santa Sangre ritorna a Locarno a oltre ottant’anni con Poesia sin fin (in Piazza!), uno degli avvenimenti di Cannes 2016. Come sempre si tratta di un viaggio nel fantastico, a ritroso nel tempo, di un incontro con le proprie radici psicologiche, sociali e artistiche. Un altro avvenimento è rappresentato dall’apertura della sezione Cineasti del Presente da parte di Douglas Gordon, uno dei maggiori videoartisti contemporanei. Presentato in prima mondiale, I Had Nowhere To Go è tratto dal diario di Jonas Mekas, la leggenda della sperimentazione cinematografica, che oggi ha 93 anni. Sfogliare il programma equivale a smontare un mosaico: i vari (ancora troppi?) premi e riconoscimenti sono però utile pretesto per rivedere perle più o meno rare. Pensiamo al premio a Howard Shore, formidabile autore di commenti musicali a opere mitiche come Ed Wood di Tim Burton o Videodrome di Cronenberg. O all’omaggio a Roger Corman (ma non era già stato onorato nel 1998 in una delle più straordinarie retrospettive?) che ci permetterà di rivedere The Intruder e The Mask of the Red Death. O a quello a Bill

Un momento della conferenza stampa del Festival di Locarno. (Stefano Spinelli)

Pullman, visto in Lost Highway di David Lynch e in Zero Effect di Kasdan; senza scordare quello al produttore David Linde, cui dobbiamo La tigre e il dragone di Ang Lee, e Y tu mama tambien di Alfonso Cuaron. Concorso, Piazza, Sezioni parallele? Una bella scommessa parlarne a priori. In concorso troviamo otto cineaste su 17 pellicole e tre opere prime (da Bulgaria, Danimarca e Francia) e una bella presenza svizzera, La idea de un lago, della Milagros Mumenthaler. A questo proposito non possiamo scordare Un juif pour l’exemple, di Jacob Berger (tratto da Chessex), già autore del fortunato 1 journée. Sempre targato Svizzera ma fuori gara, il documentario di Nicolas Wadimoff, Jean Zigler, l’optimisme de la volonté. Il rumeno Radu Jude di Scared Hearts invece ha dalla sua l’Orso d’argento, vinto a Berlino nel 2015 con Aferim! Piuttosto misera la presenza italiana, tutta concentrata sulla coproduzione con l’Austria di Mister Universo di Tizza Covi e Rai-

ner Frimmel, film incentrato sul mondo del circo. Da non perdere di vista i giapponesi Katsuya Tomita (Bangkok Nites) e Akihiko Shiota; così come il thailandese Suwichakornpong di By the Time it Gets Dark. Oltre ai soliti polacchi, bulgari, portoghesi, le novità provengono spesso da quelle parti. In Piazza si parte con una storia di zombie (The Girl with All the Gifts) che potrebbe anche non piacere a tutti, sebbene sia interpretata dalla grande Glenn Close e da Gemma Arterton, e che ruota intorno all’avversione per il diverso. Il che potrebbe risultare istruttivo, di questi tempi. Una garanzia è costituita dall’ultimo Jason Bourne, firmato dal sempre magistrale maestro del cinema d’azione Paul Greengrass, con l’indistruttibile Matt Damon. Il romando Frédéric Mermoud ritorna con Moka, impreziosito dalle sue due interpreti, Emmanuelle Devos e Nathalie Baye. Imprescindibile, l’arte dell’indignazione nel maestro moderno del cinema sociale e politico Ken Loach: di

I, Daniel Blake, visto a Cannes, vi anticiperemo la recensione nel prossimo numero di «Azione». Si chiuderà con l’ultimo film dell’indiano Gowariker, maestro della Bollywood più festosa, di cui tutti ricordano Lagaan. Non bisognerebbe lasciare per ultimo il vero fiore all’occhiello di Locarno, una delle ragioni per cui da sempre la stampa internazionale si scomoda intorno a Ferragosto. La Retrospettiva dedicata quest’anno a Il cinema della giovane Repubblica Federale tedesca dal 1949 al 1963 si presenta estremamente originale, e dalla Cineteca Svizzera di Losanna passerà al Lincoln Center di New York. Un’indagine imponente attraverso il cinema poco conosciuto di un periodo storicamente delicato e determinante per la Germania. Un’infinità di situazioni da scandagliare, l’esordio di grandi contemporanei come Edgar Reitz e il ritorno in patria dei maestri sfuggiti al nazismo, Fritz Lang, Siodmak, Pabst… Affaire à suivre...

Tra campi di lavanda, poesie e camicie da stirare Cartoline musicali Questa settimana con i saluti della pianista Sarah Haessig Zeno Gabaglio Sarah Haessig

Si è diplomata in pianoforte alla Musikhochschule di Basilea e a quella di Lucerna (master of performing art con Ivan Klansky). Ha seguito corsi di perfezionamento con Maria J. Pires e lezioni di composizione con R. Moser e D. Ammann. Concerti in diverse formazioni cameristiche e duo di Lied in Svizzera e all’estero. Dal 2010 insegna pianoforte alla scuola di musica di Cham.

Cartoline

Prima cartolina Immagine: un collage mio, di carta colorata fatta a pezzettini. Destinatario: A mia madre e a mio padre. Perché per il mio settimo compleanno mi hanno iscritta a pianoforte, che era quello che da tempo sognavo. E in particolare a mia mamma che mi ci ha portata in macchina una volta alla settimana per sette anni: quaranta minuti di curve da Agarone a Minusio, e altri

La pianista Sarah Haessig.

quaranta – con le stesse curve al contrario – per il viaggio di ritorno. Seconda cartolina Immagine: un quadro di Van Gogh, campi di girasoli e lavanda in Francia. Destinatario: A Vu Dang, banchiere vietnamita residente a Basilea. Perché quel giorno d’estate del 2008 quando ho suonato alla porta di casa sua in Weberngasse 6 e gli ho detto «Ciao Vu, sono Sarah, l’amica di Cecilia, la cantante argentina che abita sopra di te... Ci siamo conosciuti brevemente alla grigliata il week-end scorso. Spero di non disturbarti... ma volevo chiederti... no, siccome mi avevi raccontato che hai convissuto con una pianista russa, che aveva il suo pianoforte in sala... cioè purtroppo mi hanno buttata fuori dal locale nel quale studiavo, e tra qualche mese mi devo diplomare... ora sto cercando urgentemente un posto dove mettere il mio di pianoforte... sì a coda, per studiare. Quindi pensavo, dato che lei non c’è più, se potevo... ovviamente ti pagherei l’affitto... quanto posso pagare?... beh, sì, so stirare le camicie». «Va bene», mi ha risposto lui.

Terza cartolina Immagine: questa cartolina ha il suono di Lux aeterna di György Ligeti. Destinatario: Ad Adam Zagajewski, poeta polacco. Con enorme gratitudine per quello che ha scritto, e in particolare per questi versi che nei momenti di improduttività compositiva, dubbio e rassegnazione, seduta davanti al foglio bianco, mi hanno fatto sentire un po’ meno sola: La stanza in cui lavoro è una camera oscura

Ma cos’è il mio lavoro – Lunghe attese, immobile, pagine sfogliate, riflessione paziente, una passività poco gradita a un giudice dal cupido sguardo. Scrivo lentamente, come se potessi vivere duecent’anni. (...) Sogno la concentrazione totale; se la trovassi Certamente smetterei di respirare. Forse è bene che non riesca a fare molto. Eppure sento il sibilare della prima neve, la delicata melodia della luce del giorno e il cupo brontolio della metropoli. Bevo da un piccola fonte, la mia sete è più grande dell’oceano.

Quarta cartolina Immagine: senza immagine Destinatario: A Franz Schubert senza testo Quinta cartolina Immagine: immagine interiore di chi legge e sente Destinatario: A nessuno in particolare «Suona fra tutti i suoni / nel variopinto sogno terrestre. Un suono silenzioso, teso / per chi presta segretamente orecchio». Questo testo di Friedrich Schlegel fu scelto da Robert Schumann come motto per la sua Sonata per pianoforte in do maggiore, op. 17, dedicata a Franz Liszt. Questa meravigliosa sonata mi ha accompagnata per vari mesi, l’ho suonata al mio diploma finale. Senza dubbio è il pezzo più difficile che io abbia mai suonato. Cartoline musicali – elenco

1. A mia madre e a mio padre 2. A Vu Dang, banchiere vietnamita residente a Basilea 3. Ad Adam Zagajewski, poeta polacco 4. A Franz Schubert 5. A nessuno in particolare


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Exquisito

Caffè filtro pieno d’aroma In tutti i bar e distributori automatici si nota un vero proprio Rinascimento del caffè filtro, noto anche come caffè americano. Una tendenza che – più di quanto s’immagini – è in relazione con la vecchia caffettiera della nonna. Esiste, infatti, una costante nel tempo: è il raffinato caffè Exquisito, che la Migros tosta in proprio sin dagli anni ‘30. La sua delicata tostatura è ideale per preparare il caffè filtro, poiché così si ottiene una bevanda molto aromatica, seppur leggera e digeribile. Che si usi una caffettiera di porcellana o una Chemex di vetro, è una pura questione di gusto. Basta sapere che i filtri di carta della Chemex sono più spessi e trattengono meglio le particelle di caffè. Ne risulta una bevanda più chiara di quella ottenuta con un filtro convenzionale.

Philipp Meier (30 anni), due volte campione svizzero di caffetteria e specialista della Delica, spiega come prepara un buon caffè filtro.

Philipp Meier

«Non basta versare l’acqua sul caffè» Per preparare un buon caffè non ci vuole una macchina costosa. L’esperto di caffè Philipp Meier ci dà qualche consiglio affinché il caffè filtro sia ogni volta un vero godimento Testo Claudia Schmidt; Foto Claudia Linsi (caffé), Tobias Sutter (ritratto)

La caffettiera a filtro Chemex era talmente popolare negli anni ‘50 che finì esposta al Museo d’arte moderna di New York (MoMA). Ora è stata riscoperta dagli intenditori di caffè.

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Exquisito Macinato 500 g Fr. 7.20

Signor Meier, il caffè americano è tornato di moda. Contrariamente al passato, però, oggi molti ne pesano esattamente la quantità. C’è una ragione?

macinare anche più finemente senza che diventi subito amaro come un caffè molto tostato. Se così fosse, va macinato più grezzamente.

Si è diventati più precisi e si punta su una qualità stabile. Ciò richiede una quantità di caffè esatta. E se si mette sulla bilancia la caraffa, si può pesare anche l’acqua calda.

Quanto caffè ci vuole per ogni tazza?

questo modo evaporano i gas di CO2 che si formano durante la tostatura. Dopo circa mezzo minuto vi si versa sopra il resto dell’acqua. Poi si dovrebbe lasciar riposare il caffè per due o tre minuti prima di versarlo nelle tazze.

Sei grammi al decilitro sono una buona dose. Per una tazza di 1,5 decilitri ci vogliono quindi nove grammi di caffè.

Che influsso ha sul caffè la durezza dell’acqua?

Come va macinato il caffè da filtro?

Altrettanto importate è come si versa l’acqua nel filtro…

Con una grana un po’ grossolana, come quella della polenta. Ma dipende anche dal tipo di caffè. Generalmente consiglio un prodotto dalla tostatura delicata, come ad esempio l’Exquisito. Si può

Sì. Non si versa semplicemente l’acqua sul caffè, ma si versa un po’ alla volta facendo in modo che tutta la polvere venga a contatto con l’acqua. Questa pratica si chiama «blooming», ossia fioritura. In

L’acqua troppo dura può neutralizzare gli acidi buoni contenuti nei chicchi di Arabica. La scelta dell’acqua è una scienza a sé stante. In generale, l’acqua dolce dà un gusto migliore. Suggerisco di provare vari tipi di acqua fino a ottenere il gusto desiderato. Le differenze sono stupefacenti.

La sigla UTZ certifica una coltivazione rispettosa dell’uomo e della natura, che consente agli agricoltori di aumentare raccolti e redditi.

L’Industria Migros produce numerosi prodotti, tra i quali anche i caffè Exquisito.


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I consigli dell’esperto

Più movimento quotidiano Ellen Amber

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Consiglo 2 Andare personalmente a fare gli acquisti piuttosto che farlo su internet. Fare le scale anziché prendere l’ascensore. Già i piccoli accorgimenti aiutano nel bilancio energetico complessivo. Consiglo 3 Stare seduti grava maggiormente sulla colonna vertebrale rispetto allo stare in piedi o muoversi. Chi svolge un’attività sedentaria dovrebbe fare qualche passo ogni ora. Ideali sono le scrivanie regolabili in altezza. Consiglo 4 I lavori domestici possono trasformarsi in una lezione di sport. Per esempio: svuotare la lavastoviglie piegandosi sulle ginocchia. Quando si è al telefono girare per la casa piuttosto che stare seduti sul divano. Consiglo 5 Più muscoli si hanno, più calorie vengono consumate dal corpo. Di conseguenza chi vuole liberarsi delle riserve di grasso dovrebbe andare ad allenarsi regolarmente in un centro fitness.

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shopping Carne Migros: la scelta degli chef Gastronomia Il ritratto dei ristoranti: Ristorante Casa Berno di Ascona

Diretto da dieci anni da Manuela e Bruno Caratsch, l’Hotel Ristorante Casa Berno appartiene alla Fondazione Beato Pietro Berno di Ascona e con i suoi utili economici contribuisce a finanziare gran parte dei progetti sociali della fondazione. Situato all’interno del meraviglioso parco che sovrasta il golfo di Ascona, Casa Berno offre sin dall’ampia hall un panorama mozzafiato, con un splendida vetrata affacciata sul Lago Maggiore che, in pochi istanti, ci porta in un’atmosfera di relax e di vacanza. Il giardino e la piscina esterna completano l’opera. Il ristorante offre un’ampia terrazza, che da maggio a settembre è disponibile per ottime grigliate di carne. Lo chef Romeo Corona propone piatti tradizionali ticinesi e specialità internazionali: la ricetta del successo da lui adottata consiste soprattutto nell’utilizzo esclusivo di ingredienti stagionali, freschi e di elevata qualità. La cucina è varia, con propo-

ste di pesce, le specialità di carne, tra cui annoveriamo le Baby costine di maiale, l’Entrecôte di manzo e gli imperdibili Cordonbleu. Troviamo inoltre gli antipasti a base di salumi locali e gli gnocchi allo Zincarlin. Molta attenzione viene data anche alle proposte vegetariane, con un menù dedicato, e ai piatti per celiaci. Anche la carta dei vini spazia da un’attenta selezione di vini ticinesi, emergenti o già apprezzati a livello internazionale, a fianco dei migliori vitigni svizzeri, dal Vallese al Vaud fino ai Grigioni. Sono inoltre presenti vini pregiati provenienti dalle più rinomate località internazionali, con una spiccata preferenza per le piccole cantine, selezionate con cura dai gestori. Infine, vi anticipiamo che il Ristorante Casa Berno, insieme ad altri undici ristoranti ticinesi, parteciperà alla prossima Rassegna Gastronomica sulla carne Migros, che si terrà dal 9 al 18 settembre. www.carnemigros.ch

Lo chef Romeo Corona. (Flavia Leuenberger)


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Pane del mese: il pane brunch

Flavia Leuenberger

Gli aficionados di quella forma di pasto che coniuga colazione e pranzo (breakfast + lunch) non possono lasciarsi sfuggire il grande protagonista del mese di agosto nei reparti pane della Migros, il pane brunch. Questa specialità a base di farina semibianca TerraSuisse si caratterizza per il suo gusto particolarmente aromatico e per l’ottima conservabilità: si mantiene bene anche fino a due giorni dopo l’acquisto. Ha una crosta croccante e una mollica morbida. Nella sua semplicità è il pane perfetto per un ricco brunch domenicale conviviale, giacché si abbina meravigliosamente sia a pietanze dolci che salate. Non c’è limite alla fantasia quando si tratta di scegliere l’accompagnamento ideale: prosciutto crudo e cotto, salmone affumicato, pancetta, formaggi, confettura, uova, frutta fresca, yogurt, burro… e tanto altro secondo i gusti e i desideri. Tagliato a fette non troppo sottili, il pane brunch è ottimo anche leggermente tostato, servito ancora caldo. Come tutti i prodotti panificati freschi della Migros, anche il pane brunch è prodotto dal panificio Jowa di S. Antonino con l’impiego di ingredienti di qualità e molta passione.

Pane brunch 600 g Fr. 2.80

La grande tradizione dei cotti dal 1935 Novità Il marchio piemontese Lenti è sinonimo

di prosciutto cotto di alta qualità

Mostarda, piccante e versatile Mostarda Purée allo zenzero 200 g Fr. 5.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Prosciutto cotto Lenti vaschetta 100 g Fr. 4.40

Da quattro generazioni l’azienda famigliare Lenti è specializzata nella produzione di prosciutto cotto dall’elevata qualità. Le cosce utilizzate provengono da suini di media pezzatura, nati, allevati e macellati in Italia. Una lavorazione tradizionale e artigianale dei mastri salumieri, un sapiente uso delle spezie

secondo la ricetta originale del fondatore Attilio Lenti e una cottura lenta regalano al cotto un inconfondibile sapore e intenso profumo: morbido al palato, grazie al perfetto rapporto tra grasso e magro; possiede un gusto dolce e spiccatamente aromatico che conquista anche i palati più esigenti. È perfetto da gustare

in ogni occasione: da solo per arricchire un bel tagliere di salumi oppure per preparare golosissimi panini imbottiti. Il cotto Lenti è senza lattosio, glutine, ingredienti ogm e non contiene nemmeno polifosfati e glutammato. È in vendita nelle maggiori filiali di Migros Ticino sia al banco che a libero servizio.

La nuova Mostarda Purée allo zenzero della Sandro Vanini di Rivera – azienda che vanta una pluriennale esperienza nel settore della canditura della frutta – è una prelibatezza che si può gustare il molti modi, abbinandola sia a piatti freddi che caldi, come formaggi freschi o stagionati, carni bollite, arrosti o pesce. Per produrre questa specialità agrodolce i frutti canditi vengono ridotti in purea e affinati con ingredienti selezionati. La Mostarda Purée allo zenzero, in particolare, grazie al suo aroma delicatamente piccante, può essere un complemento ideale per sushi e altri piatti della cucina asiatica.


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Idee e acquisti per la settimana

Bella Italia – Agnesi

Pasta, che passione! Mangiare all’italiana rinunciando alla pasta è inconcepibile. Lunga o corta, larga o sottile, liscia o rigata: la pasta offre infinite possibilità per mettere in tavola piatti mediterranei dal sapore eccezionale Testo Sonja Leissing; Foto e Styling Claudia Linsi; Illustrazioni Anja Denz; Ricette Katja Näf

62 … sono gli anni di collaborazione già trascorsi tra la ditta Agnesi e la Migros. 24 ore su 24, sette giorni su sette, negli stabilimenti Agnesi si lavorano circa 18’500 tonnellate di grano. Prima di essere messa negli imballaggi, la pasta resta degli essiccatoi per almeno dodici ore.

180

39 ... delle 50 varietà di pasta e sughi prodotti da Agnesi fanno parte dell’attuale assortimento Migros. Di pasta ce n’è d’ogni tipo, colore, forme e dimensioni, dagli spaghetti alle tagliatelle, dai tortellini alle penne passando per le lasagne. Agnesi è leader del settore. Nel mondo si producono 600 tipi diversi di pasta.

Angelo Colussi Serravallo è il presidente del Gruppo Colussi, proprietario anche del marchio Agnesi. L’azienda fu fondata nel 1824 ed è la più antica fabbrica italiana di pasta.

… o 200 grammi di pasta rappresentano un pasto completo. Come primo piatto si calcolano invece 70 grammi di pasta secca oppure 150 di pasta fresca. Durante la cottura, il peso della pasta secca aumenta del doppio o del triplo.

Ricette di

www.saison.ch


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Cannelloni alle melanzane Piatto principale per 4 persone Ingredienti 1 cipolla piccola ½ mazzetto di prezzemolo 1 melanzana di ca. 300 g 6 cucchiai d’olio d’oliva 2 dl di brodo di verdura sale, pepe 8 sfoglie di pasta per lasagne 240 g di prosciutto cotto, ad es. posteriore tagliato sottile 50 g di parmigiano in un pezzo Preparazione 1. Tritate finemente la cipolla e il prezzemolo. Tagliate la melanzana a dadini. Scaldate dell’olio in un tegame ampio e soffriggetevi la cipolla, il prezzemolo e la melanzana per ca. 2 minuti. Unite la metà del brodo e lasciate sobbollire per ca. 15 minuti. Condite con sale e pepe. 2. Scaldate il forno a 180 °C. Lessate le sfoglie di pasta in acqua salata bollente per ca. 5 minuti. Estraetele e accomodatele su un canovaccio pulito. Adagiate una fetta di prosciutto su una sfoglia di lasagna. Distribuite i dadini di melanzana sul lato più lungo delle sfoglie e arrotolatele. Ungete una pirofila con la metà dell’olio rimasto. Versate il brodo rimasto nella pirofila. Accomodate i cannelloni nella pirofila e spennellateli con l’olio rimasto. Grattugiate il parmigiano sui cannelloni e cuoceteli al centro del forno per ca. 15 minuti. Tempo di preparazione ca. 30 minuti + cottura in forno ca. 15 minuti Per persona ca. 21 g di proteine, 24 g di grassi, 27 g di carboidrati, 1700 kJ/410 kcal

Agnesi Lasagne all’uovo 500 g Fr. 3.25

Passeggiando sulla piazza animata viene voglia di soffermarsi ad osservare lo spensierato andirivieni.

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Idee e acquisti per la settimana

I tortellini possono essere ripieni di verdure, formaggio, zucca, ricotta o carne. Saltati brevemente in burro e salvia sono ottimi anche come antipasto. Agnesi

Un festival di forme È il ripieno che fa la differenza. Ad esempio, in questi c’è tutto il gusto del prosciutto crudo: Agnesi Tortellini al Prosciutto crudo 250 g Fr. 2.30

Per un bel pranzo in famiglia ci sono le grosse confezioni: Agnesi Pennette, Spaghetti o Tortiglioni 750 g Fr. 1.80 Hit 50% di pasta in più dal 2 all’8 agosto

Il sugo al pomodoro e basilico si sposa con ogni tipo di pasta, ma anche per insaporire la carne e la verdura.: Agnesi Sugo al Basilico 400 g Fr. 2.90

Con erbe aromatiche e cuori di carciofo le pennette si trasformano in un piatto d’insalata davvero squisito: Agnesi Spaghetti, Pennette o Tortiglioni 750 g Fr. 1.80 Hit 50% di pasta in più dal 2 all’8 agosto

Gli gnocchi, chiamati anche conchigliette, sono perfetti con una salsa cremosa. Agnesi Gnocchi 500 g Fr. 1.80 Nelle maggiori filiali Bolliti e poi fritti in padella, i vermicelli diventano croccanti e guarnendoli di pesce, gamberi o pollo si trasformano in Paella: Agnesi I Vermicelli N.4 500 g Fr. 1.80

Sui loro solchi fa presa ogni tipo di sugo: piccanti o con panna e parmigiano: Agnesi Le Penne Rigate N.19 500 g Fr. 1.80

Pasta ai frutti di mare. Questo classico mediterraneo si prepara con frutti di mare, olio d’oliva, vino bianco, aglio e spezie: Agnesi Le Linguine N.10 500 g Fr. 1.80

Le lasagne sono costituite da strati inframmezzati da sugo alla bolognese, besciamella e parmigiano e sono cotte al forno. Tra i vegetariani è molto in voga la farcitura di spinaci. Non c’è pizza senza pelati. Spargete la salsa di pelati sull’impasto e guarnite a piacere: Agnesi Sugo alla Napoletana 400 g Fr. 2.85

Gli spaghetti sono un classico che fa la gioia del palato di grandi e piccini, sia conditi con un semplice sugo al pomodoro sia alla carbonara o anche solo con un filo d’olio d’oliva.

Le tagliatelle sono perfette con sughi dal gusto intenso a base di funghi o alla panna. I puristi, però, le mangiano condite solo con qualche ricciolo di burro.

Le penne con una salsa «Cinque Pi» sono imbattibili. Le cinque P descrivono gli ingredienti: Prezzemolo, Panna, Parmigiano, Pomodori e Pepe.

Tagliatelle e sughi cremosi sono un abbinamento perfetto. Ideali con i piatti a base di selvaggina o i ragù di coniglio e di manzo: Agnesi Le Tagliatelle all’uovo 250 g Fr. 1.80 Nelle maggiori filiali


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Spaghetti con pinoli e broccoli

Penne rigate con peperoni grigliati

Piatto principale per 4 persone

Piatto principale per 4 persone

Ingredienti 400 g di broccoli 400 g di pasta, ad es. spaghetti 1 spicchio d’aglio 3 cucchiai di pinoli 3 filetti d’acciuga 3 cucchiai d’olio d’oliva sale, pepe

Ingredienti 3 peperoni di vari colori, ad es. giallo, arancione e rosso 3 cucchiai d’olio d’oliva sale, pepe ½ mazzetto di prezzemolo 400 g di pasta, ad es. penne rigate

Preparazione Dividete i broccoli in rosette e lessatele in abbondante acqua salata per ca. 5 minuti. Estraete le rosette non troppo cotte e nella stessa acqua di cottura lessate la pasta al dente. Scolate la pasta e fatela sgocciolare. Dimezzate lo spicchio d’aglio e tostatelo insieme con i pinoli in una padella. Tritate grossolanamente i broccoli e aggiungeteli ai pinoli con i filetti di acciuga. Mescolate e aggiungete l’olio. Regolate di sale e pepe. Condite la pasta con i broccoli e servite. Tempo di preparazione ca. 25 minuti Per persona ca. 18 g di proteine, 14 g di grassi, 72 g di carboidrati, 2050 kJ/490 kcal

Preparazione Scaldate il forno a 220 °C. Dimezzate i peperoni, privateli dei semi e accomodateli in una teglia foderata con carta da forno con la superficie di taglio rivolta verso il basso. Arrostite i peperoni sotto il grill per ca. 10 minuti, finché sulla pelle non compaiono macchie scure. Sfornateli, metteteli in un sacchetto per surgelati e lasciateli riposare per ca. 10 minuti. Spellate i peperoni, tagliateli a pezzetti e mescolateli con l’olio. Condite con sale e pepe. Tritate grossolanamente il prezzemolo. Lessate la pasta al dente in abbondante acqua salata. Scolate la pasta e conditela con i peperoni. Distribuite il prezzemolo e servite. Tempo di preparazione ca. 25 minuti Per persona ca. 14 g di proteine, 11 g di grassi, 75 g di carboidrati, 1900 kJ/450 kcal

Un ristretto, un cappuccino o è meglio un dissetante Crodino ghiacciato?

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 2 agosto 2016 ¶ N. 31

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Idee e acquisti per la settimana

Bella Italia – Monini

Spremuto a freddo, ardente di sapore L’olio d’oliva emana uno spettro di aromi che va dal lievemente pungente al leggero fruttato fino allo speziato intenso. Zefferino Monini produce oli d’oliva d’alta qualità. E non solo per il mercato italiano

3 ... generazioni di Monini si tramandano la produzione di olio d’oliva. Gli oli Monini sono d’alta qualità, infatti hanno un’acidità inferiore allo 0,4 percento, vale a dire nettamente inferiore al limite di legge dello 0,8 percento.

Carpaccio di finocchio Antipasto per 4 persone Ingredienti 500 g di finocchi 1 pera, ad es. Gute Luise 2 cucchiai di succo di limone 4 cucchiai d’olio d’oliva fleur de sel pepe dal macinapepe 2 cucchiai d’uva sultanina

Zefferino Monini dirige l’azienda di famiglia giunta alla terza generazione.

8000 ... anni sono trascorsi dalla scoperta dell’olivo come pianta domestica. Su un albero crescono in media 30 chili di olive, dalle quali si estraggono circa 5 litri d’olio. Ogni varietà di oliva ha un carattere diverso, che dipende dal clima e dalle proprietà del suolo.

12 ... prodotti con il marchio Monini sono in vendita alla Migros. In cima alla lista dei preferiti svetta l’Olio Extra Vergine di Oliva Classico. L’assortimento include anche diversi oli speciali, come quello di produzione biologica o aromatizzati al limone, al tartufo, al basilico oppure all’aglio e peperoncino.

Preparazione Staccate i ciuffi verdi dei finocchi e tritateli grossolanamente. Dimezzate i finocchi per il lungo e spuntateli. Tagliate la pera in quattro e privatela del torsolo. Affettate finemente i finocchi e la pera, per il lungo con una mandolina e accomodate in un piatto grande. Emulsionate il succo di limone con l’olio e spruzzatelo sui finocchi. Condite con un pizzico di fleur de sel e guarnite con i ciuffetti verdi di finocchio. Macinate un po’ di pepe sui finocchi e distribuite l’uva sultanina.

Monini Classico Olio Extra Vergine D’Oliva Azione 25% di sconto sul Duo-Pack 2 x 1l Fr. 18.75 invece di 25.– Dal 2 all’8 agosto

Tempo di preparazione ca. 15 minuti Per persona ca. 4 g di proteine, 11 g di grassi, 16 g di carboidrati, 700 kJ/170 kcal

Monini Delicato Olio Extra Vergine D’Oliva Azione 25% di sconto sul Duo-Pack 2 x 1l Fr. 19.50 invece di 26.– Dal 2 all’8 agosto


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Idee e acquisti per la settimana

Monini Granfruttato Olio Extra Vergine d’Oliva 500 ml Fr. 9.50

Monini Bios da Agricoltura Biologica Olio Extra Vergine d’oliva 750 ml Fr. 15.50 Nelle maggiori filiali

Petto di pollo rosolato con pesto di rucola, pinoli e limetta Piatto principale per 4 persone Ingredienti 4 petti di pollo di ca. 150 g ciascuno ¾ di cucchiaino di sale pepe dal macinapepe 2 cucchiaini di senape olio per rosolare Pesto 50 g di rucola 20 g di pinoli ½ limetta 3 cucchiai d’olio d’oliva sale, pepe Preparazione Condite i petti di pollo con sale e pepe da entrambi i lati e spennellateli di senape. Scaldate bene l’olio in una padella. Rosolate i petti di pollo ca. 5 minuti per lato. Estraeteli dalla padella e tagliateli a fette. Tritate finemente la rucola e i pinoli. Aggiungete un po’ di scorza di limetta grattugiata. Incorporate una po’ di succo di limetta e l’olio d’oliva. Condite con sale e pepe e servite il pesto con la carne. Suggerimento Accompagnate i petti di pollo con patate al forno. Tempo di preparazione ca. 25 minuti Per persona ca. 33 g di proteine, 24 g di grassi, 1 g di carboidrati, 1500 kJ/350 kcal

Dietro alla sua bancarella, il fruttivendolo attira a gran voce l’attenzione sulla sua merce e non si fa sfuggire occasione per fare quattro chiacchiere.


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Idee e acquisti per la settimana

Monini

L’olio extra vergine ha un ruolo fondamentale nella cucina mediterranea, anche perché si può friggere fino a 190°. Per condire l’insalata, l’olio d’oliva è incontestabilmente l’ingrediente principale. Perlomeno in Italia.

Per ogni gusto Il classico degli oli Monini è adatto per pietanze calde e fredde: Monini Classico olio Extra Vergine d’oliva Azione 25% di sconto sulla confezione doppia 2 x 1l Fr. 18.75 invece di 25.– Dal 2 all’8 agosto

Ideale per le insalate o i sughi della pasta e sulla pizza: Monini Aglio & Peperoncino olio Extra Vergine d’oliva aromatizzato 250 ml* Fr. 5.90

Un olio aromatizzato è ideale per preparare velocemente un pesto fresco. Con l’aggiunta di un pizzico di sale marino e timo, è ottimo anche come intingolo per aperitivo.

Un «jolly» che dà sapore, indicato sulle focacce salate alle olive e pomodori secchi: Monini Delicato olio Extra Vergine d’oliva Azione 25% di sconto sulla confezione doppia 2 x 1l Fr. 19.50 invece di 26.– Dal 2 all’8 agosto

Perfetto per salse, sul pane fresco e sul risotto o per insaporire la pasta: Monini Tartufo Bianco olio Extra Vergine d’oliva aromatizzato 250 ml* Fr. 6.90

Fa risaltare il sapore dei piatti freddi ed è l’olio Minini dall’aroma più intenso: Monini Granfruttato olio Extra Vergine d’oliva 500 ml Fr. 9.50

Rifrescante nell’insalata o per preparare il pesto: Monini Basilico olio Extra Vergine d’oliva aromatizzato 250 ml* Fr. 5.90

Il sapore intenso delle olive verdi: leggermente pungente e delicato. Servire a freddo: Monini olio Extra Vergine d’oliva D.O.P. Val di Mazara 500 ml* Fr.13.20

L’olio al limone regala al carpaccio di carne o di pesce un gusto mediterraneo: Monini Limone olio Extra Vergine d’oliva aromatizzato 250 ml* Fr. 5.90

Dà aroma e sapore a tutte le insalate a base di semi e leguminose. Monini Vinaigrette con 33% di olio Extra Vergine d’oliva Arancia e Lime 375 ml* Fr. 4.65

*Nelle maggiori filiali

La scelta dell’olio più appropriato dipende dalle preferenze personali. Un olio d’oliva delicato è adatto per pietanze cotte al vapore, uno fruttato per l’insalata, mentre uno dal sapore intenso o piccante si abbina al pesce e alla carne.

Contiene solo olive toscane ed emana un lieve aroma di mandorle e carciofi: Monini olio Extra Vergine d’oliva Toscana I.G.P. 500 ml* Fr. 13.50

*Nelle maggiori filiali


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Idee e acquisti per la settimana

Preparare il Tiramisù un po’ diverso è davvero un gioco da ragazzi.

Tiramisù alle bacche Dessert per 4 persone, per 4 bicchieri da ca. 2 dl Ingredienti 150 g di fragole 150 g di lamponi 100 g di mirtilli 4 cucchiai di zucchero 3 cucchiai d’acqua 3 cucchiaini di succo di limone 150 g di cantuccini 150 g di quark alla panna 200 g di crème fraîche Preparazione Tagliate le fragole in quattro. Fate marinare tutte le bacche con la metà dello zucchero, l’acqua e il succo di limone per ca. 30 minuti. Mettete i cantuccini in un sacchetto di plastica, sigillatelo e con il matterello pestate i biscotti in modo da ottenere dei pezzetti grossi come nocciole. Mescolate il quark con la crème fraîche e lo zucchero rimasto. Distribuite i cantuccini, le bacche e la creme fraîche nei bicchieri a strati e servite. Tempo di preparazione ca. 15 minuti + marinatura ca. 30 minuti Per persona ca. 10 g di proteine, 28 g di grassi, 44 g di carboidrati, 2000 kJ/480 kcal

In collaborazione con Famigros


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