Azione 31 del 1 agosto 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 2 agosto 2016

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Azione 31

Società e Territorio La storia di Beatrice Vio, schermitrice a cui lo sport agonistico ha salvato la vita

Politica e Economia Terrorismo e immigrazione percepite come minacce alla nostra identità

Ambiente e Benessere La casa del futuro sarà energeticamente autosufficiente ma ci sono ancora molti problemi da risolvere perché il sogno si realizzi

Cultura e Spettacoli Il Musée d’Orsay di Parigi omaggia il grande artista svizzero Charles Gleyre

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Per il bisogno di un lieto fine

Fervono i preparativi in Piazza Grande

di Alessandro Zanoli

di Fabio Fumagalli

Reza Khatir

Ogni giorno, puntuale, la notizia arriva. Come in una serie televisiva, potremmo dire: ogni giorno una nuova puntata del racconto terribile di questa nostra estate del 2016. Viene voglia di immaginare come ce la racconteremo tra dieci anni, la storia di queste giornate, settimane, mesi. Vien voglia di guardare avanti perché si spera che da qui a un decennio una fine a questa narrazione assurda qualcuno l’avrà ben scritta. Viene proprio voglia di vederla, proiettata bianco su nero, come la si trova nell’ultimo fotogramma di un film: «La Fine». Alcuni politici usano, di questi tempi, alludere alla realtà che ci circonda come a una «narrazione», di cui occorre comprendere il significato. Usano consapevolmente una metafora, uno slittamento di termini, spostando gli avvenimenti dalla contingenza quotidiana a un campo teorico, a una sfera di pensiero astratta. Un trucco che rende l’attualità forse più avvicinabile. Vedere la cronaca di queste ultime settimane come una «narrazione», per quanto assurda, drammatica, incomprensibile, forse aiuta un po’ a sopportarla, a maneggiarla. Certo noi esseri umani a raccontarcela siamo bravissimi. Proprio negli scorsi giorni, sfogliando un interessante volume che raccoglie alcuni testi dello storico ticinese Raffaello Ceschi, Guardare avanti e altrove, ci era capitato i trovare uno spunto per trattare in modo quasi divertente la «narrazione» del Primo d’Agosto. Ceschi raccontava, a proposito della leggenda di Guglielmo Tell, che già dalla fine del 700 la storia della nascita della Confederazione e le vicende dell’«arciere di Burglen» erano strettamente intrecciate. La stesura del patto tra i cantoni primitivi sul Rütli anticipava di pochi giorni il rifiuto di Tell di rendere omaggio alle insegne di casa d’Austria, con il seguito dei fatti che conosciamo. Ora, continuava Ceschi, quello storico patto era registrato nella storia come avvenuto la notte del 17 dicembre del 1307. Il «Natale della patria», quindi, un tempo veniva collocato a ridosso del Natale cristiano. Ciò era possibile perché, di fatto, fino a metà del 700 nessuno sapeva dell’esistenza reale di una pergamena sottoscritta da urani, svittesi e untervaldesi. L’antico documento che oggi conserviamo con grande cura e reverenza, l’atto notarile che sancisce la nascita del nostro paese, fu in effetti scoperto proprio nel 700. Fu anzi in quel manoscritto che si evidenziò il riferimento temporale preciso. E il primo d’agosto del 1291 si aggiudicò l’onore di aver dato i natali alla Confederazione. Una prima buffa osservazione è che la «narrazione» relativa alle origini della Svizzera si spostava dall’inverno all’estate. Ma più seriamente: «può incuriosire – dice Ceschi – che il ritrovamento dell’antico documento coincida pressapoco con il tentativo di alcuni eruditi svizzeri settecenteschi di togliere Tell dal piedestallo della vita reale, riducendo la sua storia all’adattamento alpino di una leggenda nordica». Un tentativo di razionalizzazione che ha avuto scarso successo: la «narrazione» di Tell è rimasta viva e nonostante tutto ancora solidamente legata alla mitologia elvetica. Le vicende degli ultimi giorni non possono essere trattate con analogo disincanto e ironia. È sicuro comunque che anche gli attentatori, mentre minano letteralmente la civiltà occidentale dal suo interno, stanno scrivendo un loro racconto. Secondo alcuni commentatori, la violenza in atto risponde a un preciso obiettivo, è una «trama» già impostata che mira a destabilizzare le nostre sicurezze. Una narrazione che mette in scena una guerra infinita e non lascia spazio a trattative, ad accordi o iniziative diplomatiche. Da parte nostra ogni tentativo di razionalizzare la situazione, di ritrovare un centro di gravità, è frustrata dalla gravità degli avvenimenti. Di nuovo l’istinto spinge a volgere gli occhi lontano dalla folle realtà quotidiana. Fa guardare al passato, alla precedenti storici, di «narrazioni» a lieto fine che possano perlomeno incoraggiare. Torna alla mente un’escursione in Val Calanca di diversi anni fa. Nella Parrocchiale di Santa Maria Assunta, nel paesino di Santa Maria, sulla parete, in alto nella navata, un enorme dipinto del 1649 di Georg Wilhelm Graesner riproduce il trionfo della flotta cristiana su quella ottomana durante la battaglia di Lepanto. Eccola lì, la registrazione di un momento di svolta nella storia militare e geopolitica europea. Il 7 ottobre del 1571 le flotte delle Repubbliche di Venezia e di Genova, dell’Imperatore di Spagna, del Papa, dei Cavalieri di Malta, dei duchi di Savoia, Urbino e di Toscana unite sotto le insegne di una Lega Santa inflissero al Sultano ottomano una sonora sconfitta. Fu quasi inutile: gli Ottomani si ripresero nel giro di un secolo. Ma la vittoria aveva risollevato gli animi dell’Occidente. La lezione di quella narrazione è che, unendo le forze, si può contrastare il peggior pericolo. Non è male, in fondo, come morale.

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