Azione 35 del 29 agosto 2016

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Cooperativa Migros Ticino

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 29 agosto 2016

Azione 35

Società e Territorio Gli studi di Jared Diamond sulle società tradizionali e ciò che possono insegnarci

Ambiente e Benessere Isteria artica: sfogo di frustrazioni di un vivere a stretto contatto gli uni con gli altri e di problemi dati da un’alimentazione poco equilibrata

Politica e Economia Il recente vertice di Ventotene, simbolo delle ambiguità europee

Cultura e Spettacoli Morcote propone un suggestivo percorso d’arte

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pagina 29 pagina 39

Vincenzo Cammarata

MOPS, la sindrome della danza

di Sara Canali pagina 10

C’è burka e burkini di Peter Schiesser L’abito non fa il monaco – ma il burka e il burkini fanno l’estremista? A leggere le motivazioni che hanno spinto le autorità di una dozzina di comuni francesi a vietare anche il costume da bagno integrale in voga presso le donne musulmane, sembrerebbe di sì: secondo l’ordinanza in vigore a Cannes, anche il burkini rappresenta un rischio per l’ordine pubblico, essendo un indumento che «ostenta un’affiliazione religiosa» e secondo il sindaco David Lisnard «è l’uniforme di un estremismo islamico» (NYT, 25.8.16). Eccoci così nel bel mezzo di un pasticcio morale e giuridico da cui trapela un malcelato senso di intolleranza che rispecchia un po’ i fondamentalismi religiosi in auge in Arabia Saudita, in Afghanistan e altri rigidi regimi islamici. Sarebbe forse il caso di provare a differenziare. La discussione sul burka, o meglio sul nikab, indumento che copre l’intero corpo e il volto della donna musulmana, ha assunto una dinamica continentale, in Europa. Il divieto in vigore in Francia e in Belgio, come pure in Ticino, potrebbe presto estendersi a tutta la Svizzera (vedi Marzio Rigonalli a pagina 35) come pure ad altri Stati,

Germania in primis. Non solo cerchie conservatrici lo sostengono, anche a sinistra si comincia a ritenere controproducente una tolleranza verso un simbolo di una corrente religiosa apertamente in guerra con l’Occidente e il laicisimo. I motivi sono plausibili: dissimulando il volto, il nikab deruba la donna della sua identità, ne fa un non-soggetto, ciò che va contro l’idea di un’uguaglianza fra i sessi e rappresenta una minaccia ai valori collettivi della nostra società, che si fonda su cittadini che assumono responsabilità per il bene comune e non si estraniano nascondendo la propria identità sotto un burka (una prigione di stoffa, l’ha definita la «Neue Zürcher Zeitung»). Non essendo un indumento prescritto dal Corano, senza una tradizione secolare nella maggior parte delle società islamiche ma solo in alcune comunità arcaiche, un divieto non può essere considerato una violazione di una libertà religiosa. Ma il burkini va trattato alla stessa stregua? Non copre il volto, né le mani né i piedi. Permette alle donne musulmane di bagnarsi, di praticare sport in piena comodità. Ahida Zanetti, una stilista australiana di origini libanesi, lo aveva ideato nel 2004 proprio per permettere alle donne musulmane di godere di un maggiore senso

di libertà, integrandosi così meglio nella vita sociale e del tempo libero di stile occidentale. Da quando diverse città francesi lo hanno vietato, le vendite sono aumentate del 200 per cento, l’intolleranza delle autorità francesi è stata dunque la migliore pubblicità per il burkini – ma getta un’ombra sul senso di tolleranza che l’Occidente professa di difendere: non sono umilianti le immagini di alcuni poliziotti armati e con giubbotto anti-proiettile che impongono ad una donna sulla spiaggia di Nizza di spogliarsi? Certo, l’attentato del 14 luglio costato la vita a 86 persone (di cui 30 musulmani, che pure festeggiavano la festa nazionale), può spiegare il clima di sospetto e intolleranza sorto sulla Costa Azzurra, ma il rischio è grande che il terrorismo islamico ci derubi non soltanto delle nostre libertà ma anche di una tolleranza di cui fino a ieri andavamo fieri. Una situazione grottesca: se vieteremo il burkini, dovremo multare anche le suore cattoliche che nuotano vestite e imporre loro di spogliarsi? Perché non tollerare, anzi accettare un senso del pudore in vigore nel mondo islamico e in molte altre parti del mondo? Burka e burkini sono due simboli molto diversi, confonderli porta con sé il rischio di fare di tutta l’erba un fascio.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 agosto 2016 ¶ N. 35

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Attualità Migros

M Una scuola che fa notizia Scuola Club Migros Ticino Esce «NEWS», lo speciale che apre

un nuovo anno di formazione Con questo numero di «Azione» la Scuola Club di Migros Ticino lancia le sue «NEWS» interamente dedicate alla vita della scuola. «Abbiamo voluto superare l’idea più tradizionale di catalogo annuale per offrire al pubblico della Scuola Club una sorta di “agenda” che segnali alcune novità della nostra offerta formativa ma anche permetta di respirare l’atmosfera della scuola, conoscere più da vicino i nostri docenti, ritrovarsi nelle foto dei partecipanti. Ciò che vogliamo raccontare è una scuola viva, una scuola capace - dopo quasi 60 anni di presenza nel nostro territorio grazie al sostegno della Cooperativa Migros Ticino a cui la scuola appartiene - di innovare e rinnovarsi», spiega la responsabile della Scuola Club Migros Ticino, Mirella Rathlef.

Un modo inedito di raccontarsi sulla carta, 16 pagine coloratissime e ricche di proposte con tante foto e volti Una scelta che è nata da un’approfondita riflessione: «Da tempo stiamo ragionando sulla nostra utenza e sulle domande di cui è portatrice» continua Mirella Rathlef. «Abbiamo osservato con attenzione le persone che frequentano i nostri corsi e abbiamo cercato di comprendere le loro traiettorie professionali e le loro esigenze di vita. Il profilo che ne è emerso è particolarmente stimolante: accanto ad un pubblico più maturo che ci segue con grande passione e assiduità, emerge una nuova componente più giovane, dai venticinque ai quarant’anni, dagli spiccati interessi verso un immediato transfer professionale, in particolare sul lato lingue, sull’IT, l’economia e il management. Si tratta di una popolazione fortemente digitalizzata, dai ritmi accelerati e dalle strategie di vita e di lavoro sempre più mobili».

Per il team multidisciplinare che elabora la visione e la mission della Scuola Club di Migros Ticino la scelta è chiara: non solo queste tendenze vanno corrisposte con il continuo perfezionamento della proposta formativa, a livello di contenuti come negli strumenti didattici, ma anche portano a ragionare sulle stesse modalità con cui si dialoga con questo pubblico sempre più qualificato e iperconnesso. «Poiché per noi è determinante trasmettere il valore di ciò che facciamo ci siamo mossi in due direzioni» continua Mirella Rathlef. «La prima riguarda il medio-lungo periodo. Qui stiamo lavorando per realizzare modalità sempre più interattive di comunicazione con il pubblico, grazie allo sviluppo del sito e di nuove app che consentano un aggiornamento in tempo reale delle proposte della scuola. La seconda direzione fa i conti con il presente e trova nuove forme più snelle, fresche e accattivanti». Da qui l’idea delle «NEWS», un appuntamento cartaceo semestrale inserito in «Azione». Per gli amanti del digitale sarà possibile scaricare la versione in PDF dal sito della scuola (scuola-club. ch). «In attesa di un futuro sempre più legato alla tecnologia da passeggio, la Scuola Club ha voluto raccontarsi ancora sulla carta» dice Mirella Rathlef. «Lo fa però in modo inedito. Le NEWS racconta di noi, le NEWS siamo noi». Interessante a questo punto farci spiegare dalla responsabile dei corsi quali sono i contenuti della nuova pubblicazione. «Partiamo piuttosto da cosa NEWS non contiene. Tutte le informazioni sulla nostra offerta sono disponibili sul nostro sito. Inoltre presso le segreterie delle nostre quattro sedi in Ticino – Lugano, Bellinzona, Locarno e Mendrisio - troverete il calendario sempre aggiornato – e non più annuale come avveniva in passato - dei corsi proposti, con date, orari, contenuti e costi per ogni nostro settore, dal fitness al food. I nostri collaboratori vi aspettano per aiutarvi a scegliere la proposta più adatta a voi» specifica la

Migros: campione nel servizio Ricerche L’azienda

svizzera si impone a livello internazionale La Goethe-Universität di Francoforte sul Meno, in collaborazione con l’istituto di ricerche di mercato Service Value, ha di recente stilato una classifica in merito al servizio offerto da aziende svizzere, tedesche e austriache. Delle 255 aziende svizzere analizzate, rappresentanti 32 settori economici, Migros si è classificata al terzo posto generale. Nel settore alimentare è addirittura prima in classifica. Più dell’80 per cento dei clienti interrogati infatti hanno fatto ottime esperienze col servizio offerto dall’azienda svizzera. Anche altre imprese Migros sono campioni nel campo del servizio e si sono piazzate al primo posto nel loro settore di attività: melectronics nel comparto dell’elettronica, Micasa fra i commercianti di mobili, Hotelplan fra le agenzie di viaggio e Migrol nelle stazioni si servizio. All’inchiesta online anonima hanno partecipato più di 75’000 clienti.

responsabile della Scuola Club Migros Ticino. «Le News sono 16 pagine coloratissime e ricche di proposte. In “Abbiamo scelto per te!” vi proponiamo una selezione dei nostri corsi di tendenza. Con “Storyclub” approfondirete la conoscenza dei nostri formatori. Offrendo una panoramica di fatti e numeri, “Lo sapevate che...” aiuta a comprendere il valore delle nostre proposte. Tante foto vi accompagneranno in aula, mostrandovi i nostri

luoghi di apprendimento e di incontro, le attività e i volti delle persone che ogni giorno fanno vivere la scuola…». Le NEWS aprono finestre di possibilità: disegnano traiettorie formative e insieme nuovi spazi di incontro per una scuola che non si dimentica di essere anche un club. Conclude Mirella Rathlef: «Le NEWS sono pagine vive che raccontano una storia che ogni giorno, insieme, continuiamo con entusiasmo a scrivere».

Prima in diversi settori del commercio al dettaglio.

La cupola di Bellinzona compie 50 anni Anniversari La filiale festeggia il giubileo con un’apertura straordinaria, domenica 4 settembre,

in concomitanza con PerBacco, la festa della vendemmia

La prima sede di Migros Bellinzona aperta nel 1933 in Piazza Collegiata.

Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

L’apertura di Migros Bellinzona nella sua attuale sede, che guarda su Piazza Rinaldo Simen e su Piazza del Sole, risale all’estate del 1966. Il progetto comprendeva già dall’inizio la particolare costruzione a volta, comunemente chiamata cupola, e l’adiacente stabile di sette piani, che da allora, oltre a parte del supermercato a piano terra, ospita la sede della Scuola Club e quattro piani destinati a inquilini. Progettata dall’ingegnere edile Heinz Isler, che in quegli anni acquistò fama internazionale proprio con le costruzioni a volta, la cupola è composta da una conchiglia in cemento armato in compressione, sostenuta da tiranti in acciaio in tensione. Ciò offre un vantaggio che ancora oggi caratterizza la filiale di Bellinzona. La struttura poggia infatti su quattro basi perimetrali, offrendo così una superficie di 1000 m2 libera da muri o colonne, con una inconsueta altezza

e pareti laterali in vetro che consentono di beneficiare di luce naturale sull’intera area. Gli ulteriori 500 m2 del supermercato sono invece stati ricavati dal pianterreno dello stabile a torre. Nel corso degli anni Migros Bellinzona ha beneficiato di due radicali ristrutturazioni, nel 1983 e nel 2005. Lo stabile a torre è invece stato ristrutturato più recentemente con la fine dei lavori nel 2014. Migros è presente a Bellinzona già dal 1933, anno in cui è stata fondata la Cooperativa Migros Ticino, la prima della Comunità Migros. Oltre al negozio di Bellinzona, allora ubicato in Piazza Collegiata, altri due punti vendita erano presenti a Locarno e Lugano. Grazie alla sua posizione centrale, Migros Bellinzona è diventata nel tempo parte integrante del nucleo cittadino, ritagliandosi uno spazio privilegiato tra la sua affezionata clientela.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Tiratura 101’035 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 agosto 2016 ¶ N. 35

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Società e Territorio Il telelavoro in Svizzera Le nuove tecnologie permettono una nuova organizzazione del lavoro e dei luoghi in cui si svolge pagina 7

Le idee si pagano Una campagna sui social network cerca di sensibilizzare sulla crescente difficoltà nel far riconoscere il giusto valore economico alle idee

Nati per danzare La coreografa Ela Franscella racconta la nascita della compagnia MOPS, formata solo da persone con trisomia 21 pagina 10

pagina 8

Imparare dalle società tradizionali Civiltà Osservando le popolazioni

di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti possiamo farci un’idea di com’era il nostro antico stile di vita? Il dibattito intorno agli studi di Jared Daimond

Lorenzo De Carli La mappa che illustra la diffusione delle diverse linee evolutive del cromosoma Y nel mondo ci dice che, partiti dall’Africa circa 150’000 anni fa, arrivammo in Nuova Guinea circa 46’000 anni fa. Gli europei moderni vi giunsero tra il 1526 e il 1527. Nel 1824 gli Olandesi dichiararono la loro sovranità sulla parte occidentale dell’isola. Attualmente, parte dell’isola è uno Stato indipendente nel Commonwealth inglese (Papua Nuova Guinea), mentre l’altra parte è una regione dell’Indonesia (Irian Jaya). Il 23 giugno 1938 lasciò tutti sbigottiti l’avvistamento aereo di circa 100’000 persone che vivevano nell’inesplorato altopiano guineano. I bianchi che vi giunsero poco dopo trovarono una popolazione caratterizzata da uno stile di vita simile a chi arrivò per la prima volta sull’isola. Come quel primo contatto di cacciatori-raccoglitori con la nostra civiltà fu per loro traumatico lo documentano recenti interviste a uomini e donne di etnia Dani allora bambini: «Quando se ne andarono, la gente si mise seduta e cominciò a creare delle storie. Non sapeva niente degli uomini con la pelle bianca. Non avevamo mai visto posti lontani. Conoscevamo solo questo lato della montagna e pensavamo di essere l’unico popolo vivente». Jared Diamond è uno dei saggisti più noti al mondo. È un ornitologo che, ad un certo punto, ha cominciato ad occuparsi delle civiltà presso le quali andava a studiare i volatili. Oltrepassati i novant’anni, Diamond ha pubblicato le sue riflessioni sullo stile di vita delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori ancora viventi e ha scritto Il mondo fino

a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali? Recentemente ristampato, il libro ha suscitato un dibattito che ancora dura. I temi che Diamond prende in esame per osservare le differenze tra noi e le ultime popolazioni di cacciatoriraccoglitori sono quelli della quotidianità: gli amici e i nemici, i confini territoriali e gli stranieri, la pace e la guerra, i giovani e i vecchi, i pericoli della vita di tutti i giorni, la religione, le lingue, la salute, ecc. Le tribù studiate non vivono solo in Nuova Guinea, ma anche nell’Africa subsahariana, in Siberia, in Sud America e in Alaska – per un totale di 39 società. Ciò di cui veniamo a conoscenza ha spesso carattere inquietante. Apprendiamo, per esempio, che «agli occhi dei !kung l’infanticidio non ha valore di un omicidio, perché per loro la nascita non è l’inizio della vita di una nuova zun/wa (persona !kung): la vita comincia con l’assegnazione del nome e l’accettazione del neonato quale entità sociale al momento del suo ingresso nel villaggio». D’altronde, presso lo stesso popolo, le partorienti si allontanano qualche centinaio di metri dal villaggio, partoriscono da sole, e, controllato lo stato di salute del neonato, sono tenute a sopprimerlo se manifesta qualche malformazione. In tutte le società di nomadi uno dei due gemelli viene soppresso subito dopo il parto perché la madre non potrebbe portarsi appresso due bimbi, assieme con l’occorrente per ricostruire altrove il campo. Crudeltà? Nella maggior parte delle società studiate da Diamond sui bambini non è esercitata nessuna forma di punizione corporale. L’allattamento a richiesta è praticato anche

Il popolo dei Ju/’Hoansi vive in Namibia. (Keystone)

fino a cinque, sei anni; e la risposta dei genitori al pianto è pressoché immediata. D’altra parte, questi stessi bambini – tenuti costantemente a contatto del corpo materno – sono lasciati liberi di avvicinarsi a fonti di pericolo: fuoco e oggetti incandescenti, coltelli e chiodi, ecc. È un po’ come se, pur accuditi con la massima cura, venissero nondimeno esposti ad una sorta di selezione costantemente rinnovata – salvo poi, adulti, avere una tranquillità emotiva ignota alle nostre società. Le categorie che Diamond usa per definire il diverso grado di complessità delle società è quello classico: banda, clan, tribù, chefferies, stati. Solo le chefferies (con gli stati) sono caratterizzate dalla presenza di leader e solo gli stati gestiscono il monopolio della violenza, introducendo leggi che disciplinano la vita sociale. Una delle tesi sostenute da Jared Diamond che ha urtato molti commentatori è quel-

la, secondo la quale le società tradizionali sarebbero in costante guerra tra di loro. Nessuno dei loro membri viaggia o ha mai viaggiato perché entrare nel territorio di altre tribù, se non per commercio legittimato da precedenti accordi, significa esporsi al rischio di essere uccisi solo perché potenzialmente pericolosi. Le società tradizionali sarebbero in costante conflitto e uccisioni o battaglie sono spesso occasionate dal desiderio di vendicare torti subiti anche generazioni addietro. Nelle critiche a Diamond sopravvive il mito del «buon selvaggio»? Altra critica mossa a Diamond è quella di ritenere le attuali società di cacciatori-raccoglitori specchio di com’è stata l’intera umanità fino a circa 11’000 anni fa, quando il surplus produttivo rese possibile la nascita di società complesse. In verità, Diamond sa benissimo che «le popolazioni che ancora vivono o fino a poco tempo fa

vivevano in società tradizionali sono popolazioni biologicamente moderne a cui è semplicemente capitato di occupare zone del mondo con poche specie domesticabili disponibili», ma la loro odierna vita quotidiana ci permette di fare delle ipotesi sullo stile di vita che abbiamo avuto per più del 90% della nostra storia evolutiva. Diamond è persuaso che possiamo imparare tantissimo dalle società tradizionali, a cominciare da stili educativi e stili di vita che ci rendono più equilibrati e sani, ma sa anche che indietro né si può, né a senso andare. Si tratta di apprendere il meglio dai nostri contemporanei cacciatori-raccoglitori, e di evitare collassi ambientali che ci riporterebbero a vivere uno stile di vita nel quale, paradossalmente, proprio i cacciatori-raccoglitori sarebbero più adatti di noi – mostrando in tal modo di essere non il nostro passato ma il nostro futuro.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 agosto 2016 ¶ N. 35

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Società e Territorio

Il telelavoro in Svizzera avanza

Tempi moderni Le nuove tecnologie permettono una nuova organizzazione non solo dei tempi

ma anche dei luoghi in cui si praticano le attività professionali

Paola Bernasconi Le moderne tecnologie hanno rinnovato la vita di ognuno, introducendo nuovi termini e concetti. Uno fra i tanti è «telelavoro», ovvero, stando a una recentissima definizione dell’Ufficio federale di statistica, «ciò che fa riferimento alla nuova organizzazione del lavoro che consiste nel flessibilizzare il luogo ove il lavoro stesso viene svolto, utilizzando le possibilità offerte da Internet e dalle reti fisse e mobili a banda larga». Tradotto, svolgere il proprio lavoro, al 100% oppure in parte, da casa, o in un posto fisicamente diverso da quello dove si lavora abitualmente sfruttando le possibilità offerte dalle moderne tecnologie di comunicazione.

Il telelavoro potrebbe contribuire alla diminuzione del traffico e in Ticino è stato inserito nelle misure per la mobilità aziendale In Svizzera, quanti e chi sono coloro che praticano il telelavoro? E in Ticino? In Svizzera lavorano da casa con l’ausilio dei mezzi informatici circa 930mila persone, anche se fra di esse solo 120mila lo fanno abitualmente e per più del 50% del tempo di lavoro. Dunque, circa il 21% degli svizzeri lavora qualche volta tramite telelavoro, numeri cresciuti di quattro volte in quindici anni (mentre per contro si sono dimezzati coloro che lavorano da casa ma senza l’ausilio delle tecnologie). Per quanto concerne i settori professionali, si distinguono i giornalisti e coloro che operano nel campo informatico (almeno il 50% di essi pratica telelavoro occasionale e il settore vanta percentuale maggiore di chi lo utilizza regolarmente, col 7,2%), seguiti dagli insegnanti, che nel 45% dei casi svolgono alcune mansioni grazie al telelavoro, e dagli occupati nel campo delle attività specialistiche scientifiche e artistiche. Basse le percentuali di settori quali l’alberghiero, la salute, le attività manuali. In quindici anni sono cresciuti di molto coloro che utilizzano il telelavoro e hanno una formazione di tipo terziario: sono ora 630mila (il 68% del totale dei «telelavoratori»), contro i 284mila in possesso

di una formazione di tipo secondario e i 15mila di chi ne ha una di tipo primario. Gli uomini sfruttano nettamente di più il telelavoro occasionale, mentre per quello fisso i numeri per sesso sostanzialmente si equivalgono. Lo praticano maggiormente persone che fanno parte di famiglie con ragazzi di meno di 15 anni. Per quanto riguarda il Ticino, secondo i dati che ci ha fornito l’Ufficio cantonale di statistica (USTAT), gli occupati residenti che hanno lavorato da casa per mezzo del telelavoro nelle ultime 4 settimane (a giugno) sono 24mila, il 14% del totale, cui si sommano coloro che hanno lavorato da casa ma non hanno svolto telelavoro nello stesso periodo, circa 9mila, ovvero il 6,7% degli occupati totali. Dati dunque al di sotto di quelli registrati per il resto della Svizzera, che non sono aumentati di molto dal 2013, primo anno in cui sono disponibili statistiche. Il 62% degli interessati sono uomini contro il 38% delle donne, numeri stabili negli anni, per il 71% dei casi si tratta di persone fra i 15 e i 39 anni. Non sono disponibili per motivi di protezione dei dati i numeri relativi al 2015 della suddivisione per grado di formazione, ma nel 2013 e nel 2014 era netta la prevalenza di chi ha una formazione superiore o terziaria (il 68% del totale), oltre il doppio rispetto a coloro che ne hanno una intermedia o secondaria (il 30%), mentre pochissimi sono coloro che svolgono telelavoro e sono in possesso di una formazione primaria (solo lo 0,1%). In Ticino il telelavoro è stato inserito nelle misure per la mobilità aziendale. Infatti, «il Decreto esecutivo concernente la concessione di contributi per la mobilità aziendale del 15 marzo 2016, contempla la concessione di un contributo pari al massimo il 20% della spesa della infrastruttura aziendale per il telelavoro, per incentivare le aziende a valutare la possibilità di concedere ad alcuni impiegati il lavoro da casa», come ci ha spiegato Federica Corso Talento, della Sezione mobilità dell’Ufficio della pianificazione e della tecnica del traffico. «Sarebbe opportuno che il dibattito si aprisse anche in Ticino e che fossero le stesse aziende a porsi alcune domande: quanto mi costa fare lavorare un collaboratore in azienda e quanto invece mi costa farlo lavorare da casa? È importante sottolineare che il telelavoro non dà risposta unicamente a chi vuole farlo da casa ma anche a chi, ad esempio, in-

In Svizzera il telelavoro è apprezzato soprattutto da persone che hanno figli con meno di 15 anni. (Keystone)

veste proficuamente tempi di trasferta obbligati (sul trasporto pubblico) o a chi organizza riunioni attraverso sistemi di videoconferenza». Il telelavoro può essere una medicina contro il traffico eccessivo? «Sicuramente può contribuire, assieme alle altre misure contemplate nel Decreto esecutivo citato. La tecnologia, oggi, può dare una risposta a numerosi problemi di mobilità». Per contro, però, «allo stato attuale l’Amministrazione cantonale non dispone né di un concetto né di una base legale riferiti al telelavoro. Il marzo scorso è stato inoltrato un atto parlamentare a riguardo che però è ancora in fase di esame», ci ha detto Daniel Fischbach, della Divisione delle risorse del DFE. Il riferimento è alla mozione di Nicola Pini e Natalia Ferrara Micocci, che chiedevano al Governo di «procedere prima alla realizzazione di alcuni progetti pilota, e successivamente a un’analisi specifica delle funzioni, all’attuazione di una specifica base legale e a una pianificazione in questo senso, come anche alla formazione e sensibilizzazione dei quadri dirigenti».

Fra i vantaggi, i due deputati citano anche il possibile sviluppo delle zone periferiche. Invece a livello svizzero, secondo il Rapporto sulla gestione del personale dell’Amministrazione federale, nel 2015 sono 1833 le persone impiegate nell’Amministrazione federale che hanno deciso di svolgere tutta o parte della loro attività da casa, sfruttando l’articolo 33 dell’ordinanza sul personale federale che permette loro «d’intesa con il servizio competente di svolgere il loro lavoro integralmente o parzialmente fuori del posto di lavoro». I collaboratori che usufruiscono di questa metodologia lavorativa si dicono, nei sondaggi condotti, contenti in quanto permette loro una buona conciliabilità fra lavoro e vita privata. Ma il telelavoro porta solo vantaggi? Lo abbiamo chiesto alla psicologa Raffaella Delcò, che si occupa di tematiche legate al lavoro. Per applicarlo, a suo avviso servono una cultura aziendale adeguata, oltre a un tipo di professione che si presta e ad abilità e capacità del lavoratore. Secondo Delcò, il telelavo-

ro, oltre a essere positivo per il traffico «permette sia di considerare le trasformazioni demografiche che spingono sempre più verso un lavoratore senior, sia di conciliare tempi di vita e lavoro che sono non più solo collegati all’essere donna, ma anche al genere maschile». Fondamentale è però la formazione, e ci sono anche svantaggi: lo stress si può accentuare per la difficoltà di separare lavoro e vita privata, per istruzioni imprecise, e taluni possono avvertire una sensazione di incertezza legata al proprio posto di lavoro. Lo consiglia a collaboratori con «una buona autodisciplina e metodo che permetta di identificare e attenersi ai tempi e allo sforzo necessari per il raggiungimento dei risultati richiesti e in questo ambito si inserisce altresì il saper riconoscere e rispettare la soglia invisibile tra sfera professionale e privata e il riuscire ad abitare le due dimensioni armoniosamente senza continui sconfinamenti che aumenterebbero di certo la percezione di stress, incrinando nel contempo la qualità del benessere e delle prestazioni nella loro globalità».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani, In una famiglia di topi, Topipittori, Da 3 anni Un altro albo dell’apprezzato duo Zoboli-Mulazzani destinato ad essere letto e riletto in famiglia: anche questa volta i testi di Giovanna Zoboli si integrano perfettamente con le illustrazioni di Simona Mulazzani, raccontando una storia di poetica, lieve e sorridente quotidianità. Quanti avvenimenti grandi e piccoli accadono in una famiglia di topi! E come assomiglia alla nostra, quella famiglia! Da quando al mattino si aprono gli occhi a quando si dice buonanotte, si fanno, si pensano, si scoprono tante cose. E il bello è che ognuno le fa, le pensa, le scopre in modo diverso, perché in famiglia i topi sono tanti e tutti diversi. C’è chi cammina canterellando e chi in silenzio, chi va a scuola, chi va al lavoro e chi rimane a casa, chi è in ritardo, chi è distratto, chi si dimentica i nomi, chi quel giorno è un po’ triste e chi è felice. Ci sono volte invece in cui è bello fare tutti insieme le stesse cose, o aiutarsi a farle. E naturalmente, se ci sono giorni

in cui stare insieme è bello, ce ne sono altri in cui sembra che non si possano evitare i battibecchi infiniti. Inoltre la famiglia di topi non è un insieme chiuso e centripeto, perché la giornata è fatta di momenti in cui ognuno sta con topi di altre famiglie, e pensa «come si sta bene, anche fuori dalla mia famiglia di topi». Un libro che si presta a tantissime divagazioni affettive: si segue la storia (dal ritmo accuratamente

scandito, col reiterarsi ironico e orecchiabile della formula “in una famiglia di topi...”), si scoprono i dettagli nelle illustrazioni, ci si identifica nelle situazioni e nelle varie personalità dei topi, si riflette su similitudini e differenze, ci si rassicura rispecchiandosi nei momenti critici, si affronta il distacco da casa con serenità, pensando a come sarà bello, a sera, ritrovarsi tutti insieme (magari anche litigando un po’). Annalisa Strada, #Le Medie. Ok... Panico!, Giunti Junior, Da 11 anni Ricomincia la scuola. Ci sono primi giorni di scuola più «primi giorni» di altri: il primo giorno di prima elementare, ad esempio. Apprensione, ma anche coccole e tenerezza. E poi c’è il primo giorno alle medie: lì è più dura, la strada devi sfangartela da solo. Magari i genitori ti accompagnano, ma tu non vuoi che si facciano vedere, e così entri in autonomia. Però, se in quinta elementare ti sentivi grande, lì ti ritrovi improvvisamente piccolo. Ma non dolcemente piccolo come un bambino, lì

ti senti piccolo come un imbranato che deve trovare il suo posto in quel mondo senza poter ricorrere a mamma e papà. Non più bambino, non ancora grande come quelli di terza e quarta. A tutti loro, a quegli ex bambini ancora nella terra di mezzo tra elementari e medie, è dedicato questo bellissimo libro: un po’ romanzo e un po’ manuale d’uso, divertente e umoristico com’è nelle corde dell’autrice, è una prezio-

sissima guida per chi sta affrontando la scuola media, nonché un’esilarante lettura anche per chi l’età delle medie l’ha passata da un pezzo. Annalisa Strada conosce perfettamente ciò di cui parla, perché, oltre ad essere una scrittrice per ragazzi di successo, insegna in una scuola media. Ritrae con realismo non solo le varie tipologie di studenti (fin nella descrizione dei rispettivi astucci, da quelli «infantili», fatti a libro, con gli elastici per la collocazione monoposto di pastelli, penne, temperino e gomma; alle bustine minimal in tessuto; a quelli più modaioli o da tifoseria), ma anche gli insegnanti, i bidelli, le segretarie, tutto il popolo di quell’universo chiamato scuola, di cui ci fornisce un’attendibilissima segnaletica. Soprattutto sa aderire empaticamente alle ansie dei ragazzini, pur mantenendo una prospettiva adulta; non sminuisce i loro disagi, pur offrendo scanzonati spunti di sdrammatizzazione. Perché in fondo, come ci suggerisce nelle «sagge conclusioni», a scuola «nessuno è uno qualsiasi. Come nella vita, se ti metti in gioco».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 agosto 2016 ¶ N. 35

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Società e Territorio L’opera dell’artista zurighese Patrizia Pfenninger sostiene la campagna ideata da Pasquale Diaferia. (P. Pfenninger / www.leideesi pagano.com)

Un tormentone contagioso Videogiochi Pokémon GO è una moda che

ha conquistato anche chi di solito non gioca Davide Canavesi

Quanto costa un’idea? Dibattiti Una campagna sui social network rende attenti

su quanto sia difficile far riconoscere il giusto valore economico alle proprie idee Laura Di Corcia Quanto contano le idee? Sono protette da un punto di vista giuridico? Si riconosce loro un valore economico? Forse sempre meno, come sottolinea un cortometraggio che ha riscosso molto successo in rete tre anni fa, intitolato Pane e curriculum; il video, ancora attualissimo (lo si trova facilmente con una ricerca su google), mostra provocatoriamente un ragazzo nell’atto di versare alla sua si suppone fidanzata una cucchiaiata di minestra inesistente e un bicchiere di vino da una bottiglia vuota. Quando lei gli chiede che cosa abbia messo dentro il minestrone, lui risponde: «Promozione e soddisfazione». La conversazione procede, con un’ironia puntellata di amarezza: lei dice di aver pagato le bollette con la «visibilità», lui di essersi comprato il maglione nuovo col «curriculum». Nel mondo del lavoro, soprattutto quello legato all’intelletto e alla creatività, questi termini non suonano nuovi. Quanti giovani registi, designer, giornalisti o autori hanno ingoiato il rospo una volta appurato che il proprio lavoro non sarebbe stato retribuito (o sarebbe stato ampiamente sottopagato) di fronte alla promessa di una futura ricompensa in termini, appunto, di visibilità, curriculum ed esperienza? Ma accettare queste condizioni non apre la via ad un peggioramento delle condizioni lavorative? «Direi di sì», risponde senza esitazione Pasquale Diaferia, il giornalista e pubblicitario che recentemente ha lanciato una campagna sui social network, #leideesipagano. «In questo Paese», ha continuato Diaferia, riferendosi alla vicina Italia, ma il discorso è valido anche per il nostro territorio «ogni giorno la battaglia più dura è vedersi riconoscere il giusto valore economico per le proprie idee. La cultura del progetto, complice la crisi,

è stata impoverita ed è sempre più difficile separare il valore dell’idea dalla sua esecuzione. Centinaia di migliaia di esordienti, come di professionisti affermati, faticano a farsi riconoscere remunerazioni proporzionate allo sforzo creativo e al valore del proprio progetto». È proprio per rafforzare la cultura del progetto, la sua importanza, che genera un valore aggiunto quantificabile anche in PIL, che Diaferia ha lanciato qualche mese fa la campagna, insieme a un gruppo di creativi e soprattutto avvalendosi dell’intuizione dell’artista zurighese Patrizia Pfenninger, la quale ha progettato una scultura interamente composta da banconote da cento euro e recante la scritta «idea».

«Le idee devono poter essere divulgate senza impedimento, è protetta solo la forma nella quale l’idea viene espressa» Diaferia e Pfenninger hanno presentato il progetto nell’ambito di Communico 2016, la giornata dedicata al giornalismo e alla comunicazione organizzata da Syndicom lo scorso 16 aprile e tenutasi nell’Aula magna della Supsi di Trevano (ma non solo: anche al BNL Media Arte festival di Roma, a Controverso, il convegno della Camera commercio di Milano, al Festival della Crescita di Francesco Morace – Bologna), lanciando un appello chiaro: hanno chiesto ai partecipanti di farsi un selfie corredato dall’hashtag #leideesipagano, cercando di coinvolgere quanti più artisti, architetti, scrittori, giornalisti e creativi possibile tramite i tag. «Fino ad oggi sono state coinvolte 20 mila persone – sottolinea Patrizia Pfenninger, la cui scultura è espo-

sta dal 19 aprile alla Quasar Design University di Roma – e questo è sicuramente un ottimo risultato. Chiaramente non vogliamo che la campagna finisca lì, vogliamo innanzitutto contarci, sapere quanti siamo, e poi avere una voce che ci permetta di farci sentire quando trattiamo con un cliente». E da un punto di vista giuridico? Le idee sono protette? «Bisogna operare una distinzione – precisa Carlo Govoni dell’Istituto federale della proprietà intellettuale – le idee devono poter essere divulgate e scambiate senza impedimenti e dunque non sono protette in quanto tali. È protetta soltanto la forma nella quale l’idea viene espressa, ad esempio il testo scritto. Facciamo un esempio: il primo che ha avuto l’idea di aprire un cinema, non può impedire ad altri di farlo, altrimenti si creerebbe un monopolio». Per intenderci: l’idea di scrivere un libro su un argomento specifico non è protetta, ma quando un autore elabora il testo, esso è soggetto al diritto d’autore. «Questo per evitare il caos totale – conclude Govoni – altrimenti non ci sarebbe più commercio, non potremmo più toccare l’idea che un altro ha avuto e metterla in atto in un modo diverso, magari migliore». Ma qual è, fra le varie aree che riguardano la proprietà intellettuale, che vanno dai brevetti e marchi al design, alle indicazioni di provenienza e al diritto d’autore, quella più fragile ed esposta a rischi? «Probabilmente il diritto d’autore – continua Govoni – perché è una protezione automatica che non dipende da un deposito o da un esame effettuato da un ente specializzato. La legge dice che un’opera artistica è protetta se è originale: chiunque crei qualcosa crede che il prodotto del suo sforzo lo sia, ma è il Tribunale che deve stabilirlo di volta in volta; per questo si tratta di una protezione un po’ vulnerabile».

Una volta il tormentone dell’estate era una canzoncina orecchiabile, ripetuta fino allo sfinimento dalle radio. Nel 2016 pare proprio che la tendenza sia destinata a cambiare, visto che il tormentone non è alla radio ma sugli smartphone di migliaia di persone. Un fenomeno che ha colto tutti di sorpresa, visto la sua portata. Stiamo parlando di Pokémon GO, un app per telefoni Android e iOS sviluppata da Niantic Labs in collaborazione con varie aziende, tra cui Nintendo. Pokémon GO si basa su un concetto piuttosto semplice. Armati di smartphone i giocatori devono recarsi fisicamente in vari luoghi attorno a loro per catturare i Pokémon, creaturine giapponesi rese popolari da cartoni animati e videogiochi nel corso degli ultimi vent’anni. Sullo schermo del cellulare si vede una rappresentazione delle strade attorno a noi, fedelmente riprodotte grazie alle informazioni di Google Maps. Non ci sono però solamente le strade, perché Pokémon GO propone dei punti di interesse, basati sulla realtà e chiamati Stop. Agli Stop è possibile raccogliere oggetti da usare nel gioco. Per finire, ci sono le palestre. Si tratta di zone contese tra i tre diversi team (Valore, Istinto e Saggezza) a cui è possibile affiliarsi quando si inizia a giocare. In questi luoghi il giocatore può decidere se far scontrare in battaglie i propri Pokémon contro quelli lasciati a guardia della palestra da altri giocatori. La ricompensa, in caso di vittoria, è la possibilità di catturare la palestra per il proprio team, oltre che composta da oggetti da usare nel gioco. Pokémon GO insomma non brilla certo per varietà e complessità. Il gioco è nato da un altro titolo simile, anche se molto più articolato, chiamato Ingress. Titolo che tuttavia non può nemmeno lontanamente competere con la popolarità del tormentone dell’estate 2016, che ha saputo catturare l’attenzione non solo di centinaia di migliaia di giocatori nel mondo ma soprattutto di chi non ha interesse in questo medium. Dopo aver contagiato i social network, Pokémon GO ha, infatti, riempito le pagine di cronaca: incidenti bizzarri, pestaggi, maleducazione, furti ai danni di giocatori ingenui, memorabili video su Youtube di scene di follia urbana. Com’è possibile che un gioco simile, uscito senza metà delle fun-

zioni previste e afflitto da fastidiosi problemi tecnici, abbia avuto un così grande successo? Tanto da dividere le opinioni tra chi lo reputa una sciocca perdita di tempo e chi è disposto a camminare decine di chilometri al giorno solo per accumulare passi e ottenere ricompense. Forse in parte possiamo spiegarne la popolarità con il fatto che il fenomeno Pokémon esiste da due decenni e che vanta un vero zoccolo duro di fan. Sicuramente anche il fatto che sia diventato una moda è da prendere in considerazione dal momento che tra i giocatori di Pokémon GO ci sono persone che gamer decisamente non sono. La realtà è che la popolarità di questa app ha meravigliato tutti quanti, compresi i suoi creatori. Sfortunatamente, come spesso accade in fenomeni nuovi e di massa, non esiste la parola moderazione. Certo, l’entusiasmo dei gruppi di giocatori di Pokémon GO è contagioso. Nelle scorse settimane in tutta la Svizzera sono stati organizzati diversi incontri spontanei per allenatori (il modo in cui i giocatori di Pokémon si chiamano tra di loro). Da Lugano a Losanna, il fenomeno ha toccato ogni città, grande e piccola, del nostro Paese. Tutto tra l’incredulità delle altre persone, spesso tra il curioso e l’infastidito, nel vedere ampi gruppi di giovani e meno giovani con lo smartphone in mano. È pur vero che camminare per le città facendo solo attenzione a quello che accade su un piccolo schermo è decisamente uno spreco. Perciò i pareri sul fenomeno talvolta sono molto ostili. Alcuni ci vedono un passo ulteriore verso la schiavizzazione da tecnologia (e tralasciamo volutamente le ridicole teorie sui complotti che vedono coinvolte la CIA e le multinazionali americane), altri semplicemente un triste passatempo. Eppure i fan di questo gioco continuano ad aumentare, nonostante le critiche. Forse la verità, come al solito, sta nel mezzo. Pokémon GO è un fenomeno che sarà molto probabilmente passeggero, limitato alle belle giornate estive. Verosimilmente non è la moda più intelligente che poteva contagiarci ma se fatto con testa, tenendo d’occhio il mondo che ci circonda e col giusto rispetto verso luoghi e situazioni, è più salutare di molte altre manie. Per lo meno molti avranno fatto movimento, nuove amicizie e vissuto avventure. Difficile vedere un lato negativo in questo.

I Pokémon si muovono nelle nostre città grazie alle informazioni di Google Maps.

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Società e Territorio Nelle foto alcuni momenti del backstage del cortometraggio Sparkling Silence in lizza per la selezione dei Pardi di domani 2016 al Festival Internazionale del film di Locarno. (Vincenzo Cammarata)

A passo di MOPS Incontri Ela Franscella ci racconta la sua «sindrome per la danza» che ha portato alla nascita della compagnia

costituita solo da danzatori affetti da trisomia 21

Sara Canali Quando entriamo nella sala, Simone è sdraiato a terra, su un lato. Senza far rumore ci avviciniamo con la delicatezza di chi sa che un movimento brusco potrebbe incrinare qualcosa che è un’attesa. Poi ad un tratto, senza bisogno di alcuna musica, Simone si alza, crea figure, danza. È bozzolo prima. È farfalla quando si ferma. L’applauso è sincero e corona un percorso di ricerca che il danzatore ha fatto partendo da un pezzo di carta che lui stesso ha accartocciato e che ha fatto nascere in lui quel sogno fatto di due ali e tanta poesia. «Se dovessi dargli un soprannome, per me Simone sarebbe il “poeta del gesto”», racconta Ela Franscella, artista multidisciplinare e fondatrice dei MOPS – DanceSyndrome, la compagnia di danzatori con un cromosoma in più e scuola di formazione che ha sede a Locarno. Proprio con Simone è partita l’avventura nel 2004, un incontro fortunato che ha dato inizio ad un progetto a cui hanno aderito negli anni Amedea, Stefano, Marie, Vinzi, Gaia e altri cinque nuovi arrivati. «Ho conosciuto Simone mentre conducevo uno stage di danza e movimento e parallelamente lavoravo su una ricerca personale artistica – continua la coreografa – Qui la folgorazione: ho capito che sarebbe stata la persona giusta per affiancarmi in questo viaggio verso l’arte oggettiva. Per me la danza è la connessione al di là delle parole». È proprio questo il punto cardine della ricerca, la comunicazione che di colpo si fa corporea, si fa movimento e che i MOPS interpretano portando sempre qualcosa di loro stessi. Il punto di partenza è l’ascolto del corpo e la conoscenza delle proprie capacità. Imparare a sentire un fisico che cambia, che vive e che ha una posizione nel mondo. Poi si approfondisce, si scelgono argomenti e si costruiscono spettacoli, gli unici in tutta Europa che vedono sul palco solo danzatori con trisomia

21. «Lavoriamo tecnicamente dando largo spazio al respiro e all’espressione corporea: i danzatori down sono sempre nel qui e ora, sanno catturare il momento e lo vivono in un modo così intenso che lo trasmettono poi a chi li osserva».

E lo hanno fatto a regola d’arte, contando che oggi la compagnia MOPS ha all’attivo ben sette produzioni originali di spettacoli di danza, trenta rappresentazioni in giro per l’Europa e quattro cortometraggi di cui l’ultimo, Sparkling Silence, è arrivato fino

all’ultimo giro di boa delle selezioni del concorso del Festival Internazionale del Film di Locarno per la sezione Pardi di domani 2016, mancando di pochissimo l’ammissione alla rosa dei dodici finalisti. «Quando il pubblico arriva in platea non sa bene cosa lo aspetta, ma sicuramente esce con qualcosa in più – racconta Ela – Ho visto gente piangere alla fine dello spettacolo, toccati, come se aprissero gli occhi su un altro mondo. In scena vanno le suggestioni che i danzatori raccolgono in un percorso di ricerca e di lavoro per trasportare il pubblico in un viaggio artistico dove alla fine non vedi più nessuna disabilità né diversità». Da questa ricchezza sono nate poi collaborazioni con altre compagnie di danza da tutta Europa, con incontri e residenze artistiche con professionisti che insegnano e imparano dai MOPS in uno scambio sinergico che va al di là di ogni pregiudizio. La costruzione di uno spettacolo o di un cortometraggio parte da un’idea suggerita da Ela, poi si fa ricerca che spazia in diversi ambiti e crea delle suggestioni. Ci sono diversi quaderni «promemoria» su cui appuntano le loro riflessioni e tra questi c’è anche il quaderno delle poesie a cui Amedea è particolarmente legata: i suoi versi in particolare sono belli, parlano di sole, luce e vita. Una volta costruito il movimento, ad ogni figura viene dato un nome perché venga ricordata più facilmente. Potenti ed evocativi sono i costumi, fatti su misura in una formula collaborativa tra la coreografa e i danzatori. Infine, arriva la musica. Sono composizioni originali fatte da musicisti professionisti che entrano nel mondo MOPS e si lasciano guidare nella loro interpretazione. Tanti elementi diversi e necessari che si intrecciano a creare un’unica opera. Dopo Simone tocca ad Amedea dare vita alla propria idea e creazione in questa giornata di allenamento. La sua gestualità è ricca di espressione, come

se fosse «nel cuore della danza», come dice Ela. Marie è «una presenza consapevole», Gaia come «una scintilla» e infine Vinzi «una sorpresa nascosta», tutti professionisti che hanno scelto la danza come percorso: loro sono la compagnia MOPS, parola dai molti significati. Simone chiamava Ela «mocio» per i suoi capelli ricci, in inglese mops. Oggi per lei Mops rappresenta il suo modo di lavorare, vivere, essere. È però anche un acronimo che sta per «Milioni di operazioni per secondo», MOvimento PSichedelico. Infine i protettori dello spazio e dei templi in Cina sono le sculture rappresentanti i cani carlino, in tedesco MOPS. Tanti significati, ma quello che rappresenta è chiaro: la sindrome della danza. «È diventato quasi come un significato a sé stante. È qualcosa che è sempre in movimento ed evoluzione». Sostenuti dal Cantone Ticino, da Pro Helvetia e riconosciuti da Danse Suisse e altre fondazioni private, oggi l’obiettivo è quello di trovare sempre più realtà che credano nel progetto affinché questo possa crescere come già successo negli ultimi anni. Al fianco di Ela ci sono figure professionali formate passando quel know how che fino a questo momento si è dimostrato vincente. Corsi di danza gratuiti per giovani adulti dai 15 ai 35 anni presso l’atelier del Teatro dei Fauni a Locarno e la possibilità per loro di entrare a far parte della compagnia (previa selezione), questo il progetto che a settembre riaprirà le proprie porte per accogliere tutti coloro che con curiosità si avvicineranno a questo mondo fatto di passione. Già confermati cinque nuovi allievi che entreranno a far parte del progetto MOPS. In fondo, la vera forza di questo sogno sono loro, i danzatori e la loro presenza che è potente. «Ricorderò sempre la loro frase prima di entrare in scena la prima di un nostro spettacolo. “Siete pronti?” domandai. “Noi siamo nati pronti” loro risposero. Questa è consapevolezza».


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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Feriae Augustanae Ci fu un lungo periodo nella storia ormai centenaria dell’ antropologia nel quale si pensava che le formazioni sociali umane fossero sistemi internamente coerenti che funzionavano un po’ come un orologio di buona qualità. Le società semplici poi – quelle ovvero che si chiamavano «primitive» – sarebbero state capolavori di ingegneria in grado di autoregolarsi: le varie componenti del sistema sociale, dall’organizzazione della famiglia alla parentela, dalla politica alla religione e all’economia – si innestavano le une sulle altre con grande precisione così da mantenere nel tempo un assetto funzionale ottimale. Funzionale e ripetitivo: più una data società era «primitiva», meno dunque esposta al «progresso» che implica comunque cambiamento e dunque spesso disequilibrio, più funzionava in maniera armonica e prevedibile. Le chiamavano «società fredde» o «società senza storia», di contro alla società «calda» che era quella del progresso occidentale, nel quale il cambiamento, il conflitto e spesso la totale confusione fra settori sociali disfunzionali al

mantenimento dell’equilibrio erano all’ordine del giorno. O così rimuginava il vostro Altropologo preferito nei giorni a cavallo di Ferragosto considerando il fatto che contraddizioni, conflitti, dubbi e smentite sono invece all’ordine del giorno, chi più e chi meno, nella fisiologia di tutti i sistemi sociali. Prendete a proposito il Ferragosto. Se lo inventò l’Imperatore Cesare Augusto a compimento di una serie di riforme volte a piantare bene nella testa dei cives romani che l’Imperatore – e lui stesso medesimo come primo della serie – era una persona veramente speciale. Aveva in primis deificato Giulio Cesare con una mossa che avrebbe fatto rabbrividire gli austeri ed alteri patres repubblicani, creando così quel precedente che avrebbe in futuro aggiudicato a se stesso quel titolo di divus fino ad allora appannaggio degli odiati imperatori persiani e dei flaccidi faraoni. Fatto questo si era impadronito del mese centrale dell’estate rinominandolo pro domo sua «il mese di Augusto». Rimaneva da addolcire la pillola con un po’ di panem et circenses: e così nacque il Ferragosto

– quella Feria Augusti che segna fino a oggi lo spartiacque dell’estate, festa per tutti urbi et orbi. Ironia della Storia, contraddizione del Progresso o scherzo del Caso decidete voi: sta di fatto che quello che per i Romani antichi era «feriale» – e dunque vacanziero, non lavorativo, «festivo» – è diventato per noi esattamente il contrario: «feriale» equivale a lavorativo ordinario, di contro a «festivo» che per i Romani aveva il senso specifico di giorno dedicato alla celebrazione di una divinità o ad una qualche specifica attività rituale statuale. Fatto salvo il fatto, per aggiungere ancora un po’ di confusione, che «le ferie» – al plurale – sono diventate per noi «le feste» di chi lavora. Ferie o Feste che siano, certo un periodo che marca ad intervalli calendariali il periodo... feriale lo condividiamo con tutte le altre società del mondo in cui viviamo. La Feria Festa è un momento la particolarità del quale viene sottolineata in vari modi. Per ripartire dai Romani antichi, i Saturnalia celebrati nel mese di gennaio in onore di Saturno, il Dio Creatore della religione romana arcaica, prevedevano la sovversione

dell’ordine sociale «feriale»: gli schiavi e i servi erano infatti serviti a tavola dai loro padroni, secondo una logica di inversione rituale largamente presente nel calendario festivo. Nella Chiesa Romana antica, il 26 dicembre, Festa di Santo Stefano Protomartire, nelle chiese cattedrali di tutta Europa si sceglieva ai voti un giovane accolito che diveniva Vescovo per un giorno, usanza che peraltro si conserva fino ad oggi nella Cattedrale di Lincoln, nel Nord dell’Inghilterra. In alcune cattedrali di Francia e d’Inghilterra era inoltre invalso l’uso di celebrare la cosiddetta «Messa dell’Asino». Qui il protagonista era il basso clero che celebrava il festum utilizzando salsicce al posto del turibolo dell’incenso mentre puntuava il Kyrie col verso dell’asino. Lo scopo era di rendere omaggio all’Asino pulcherrimum et fortissimum (così il canone dell’Asinina Missa) che avrebbe messo in salvo la Sacra Famiglia dai massacri di Erode. L’usanza fu abolita ufficialmente col Concilio di Trento, e non senza resistenze, per poi trasferirsi armi e bagagli, secondo alcuni studiosi,

nel Carnevale contemporaneo. In difetto di un canone ufficiale da sovvertire, le popolazioni di etnia Gurunshi del Nord del Ghana invertono la ferialità celebrando gli avvenimenti importanti della comunità di notte: in occasione delle celebrazioni funebri in onore di un uomo si danza dal tramonto all’alba per tre notti – per quattro se si tratta di una donna. Tale logica di inversione della sequenza feriale notte/giorno pertiene peraltro anche alla devozione islamica del Ramadan, dove si prescrive il digiuno dall’alba al tramonto per poi celebrare nelle ore notturne. Una vaga parvenza della Feria Augustana, diventata «La Festa» almeno nella penisola cisalpina, rimane ad esempio a Bologna, dove il parco altrimenti off limits del Seminario arcivescovile è aperto alla cittadinanza nel giorno di Ferragosto. Ben fatto imperatore? Chissà. Forse. Cioè quasi. Intanto comunque il vostro aff.mo Altropologo si gode – pensandoci sopra natürlich – una Feria Augustana prolungata in barc(hett)a a vela fra Ravenna e le Isole Incoronate. Buon Vento a tutti!

si di mediazione familiare, m’insegna che il modo migliore per condurre in porto una separazione coniugale, è quello di rivolgersi ai genitori prima ancora che ai coniugi. Invitandovi a raccontare come siete diventati padre e madre, il mediatore vi condurrà su un terreno comune, dove potrete rivivere emozioni condivise e recuperare il patto di alleanza genitoriale che, qualsiasi cosa accada, non si deve mai spezzare. Come si è soliti ripetere, si può cessare in qualsiasi momento di essere marito e moglie ma si resta genitori per sempre. Non ho mai conosciuto ex figli. Come risulta dalle numerose testimoniante che ho raccolto nel libro Quando i genitori si dividono: le emozioni dei figli (Oscar Mondadori), sono i figli stessi che invocano una rapida conclusione del percorso separativo. L’attesa non fa che aumentare l’ansia e l’insicurezza. Se i genitori da soli non ce la fanno, è opportuno che chi li se-

gue, in veste di esperto, parente, amico o collega, li esorti a chiedere l’aiuto di un mediatore. Un buon mediatore entra in gioco, non solo come testimone della coerenza narrativa dei due interlocutori ma apportando anche la sua competenza empatica, intesa come capacità di stabilire rapporti costruttivi e di indurre sicurezza emotiva, calore affettivo, rispetto reciproco. Da un valido «laboratorio dei conflitti» alla fine tutti escono migliori, più capaci di utilizzare le loro risorse, di comprendere se stessi e gli altri e di far buon uso dell’inevitabile sofferenza che ogni separazione comporta.

ultimo sulla politica. Per evitare il pericolo di irritare le sensibilità permalose di governanti e detentori di potere, come pure di scrittori, artisti, campioni sportivi, insomma persone in vista, si è sviluppata l’autocensura, ormai iscritta nel nostro DNA. E che diventa uno strumento professionale per gli addetti ai lavori dell’informazione. Proprio a loro, il pubblico rimprovera accondiscendenza verso i poteri forti, se non addirittura viltà, un cedimento d’ordine morale. La realtà, però, è più sfumata. Anche l’autocensura si presenta con le due facce opposte. Esprime opportunismo e saggezza. Come dire, da un lato, induce il cronista, il critico d’arte, il commentatore sportivo a ponderare i termini dei giudizi, rispettando, per forza di cose, gli indirizzi imposti dai proprietari delle testate. Dall’altro, però, può far pensare a pusillanimità, ad asservimento ai padroni in nome del

quieto vivere. Con conseguenze persino grottesche nel nostro cantone: se i redattori in carica evitano di prendere posizione, lasciano spazio ai lettori, ormai promossi a opinion leaders. E, sono loro che, spesso in forme prolisse, toccano temi pruriginosi, veri e propri tabù: del tipo l’ente radiotelevisivo o la pletora degli eventi estivi, patrocinati dai municipi, e via enumerando i guai, per carità, sopportabili della nostra provincia. Per concludere non si può passare sotto silenzio un paradosso: l’autocensura è diffusa proprio nei paesi dove vige, diritto fondamentale ed esibito, la libertà di stampa. La contraddizione non è soltanto apparente. Stando alle diagnosi internazionali sulla libertà di stampa, la Svizzera, indebolita dall’autocensura, perde quota: si colloca al settimo posto, dopo la Finlandia e i Paesi Scandinavi.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Elaborare la separazione per tutelare i figli Cara Silvia, dopo alterne vicende, da un anno ho chiesto a mio marito di divorziare e di accordarci amichevolmente per la gestione congiunta dei figli, Marco ed Eleonora, di 14 e 10 anni. Ma lui non vuol capire e cerca in ogni modo di rinviare ogni decisione, mostrandosi freddo e distante. A questo punto, esasperata, gli ho proposto di rivolgerci a un Centro di mediazione familiare ma anche qui avanza mille perplessità. Secondo lui, per prima cosa dobbiamo metterci d’accordo tra di noi e poi, in un secondo tempo, entrare nel merito dell’affidamento dei figli. Detto questo, ostacola ogni dialogo e non so come, senza parlare, potremmo mai trovare un’intesa. Devo specificare che io da tempo ho un compagno che amo e stimo e che, comprendendo la difficoltà della mia situazione familiare, attende con pazienza il momento di andare a vivere insieme.

Anche i ragazzi, stanchi di un clima di tensione, sono d’accordo con questa soluzione. Ma temo che mio marito, pieno di rancore e di sospetto, si opporrà con mille ricatti. Che ne dice se chiedessi al giudice di obbligarlo a partecipare a un progetto di mediazione familiare? / Evelina Cara Evelina, l’ipotesi di costringere, con un’ingiunzione del Tribunale, suo marito a collaborare a un percorso di mediazione familiare è l’ultima da considerare perché raramente funziona. I mutamenti psicologici richiedono la collaborazione, anche parziale, di chi deve affrontare il difficile compito di mettersi in crisi per lavorare su di sé, al fine di costruire un nuovo assetto della mente e del cuore. Lo psicologo, che occupa la posizione del terzo rispetto alla coppia in conflitto, può motivare, favorire, sostenere, proteggere e incentivare il confronto coniugale, ma non

la può sostituire. I veri protagonisti dovrete essere voi. In questo momento l’ostilità di suo marito è tale che solo il malessere dei figli può convincerlo ad ammettere il fallimento del matrimonio e ad affrontarne le conseguenze. Il suo irrigidimento, la sua incapacità di comprendere la situazione dipendono dallo strenuo rifiuto di accettare la sofferenza mentale e di utilizzare il pensiero per elaborarla. Sono convinta che, in generale, il motore del cambiamento siano due forze, l’amore e il dolore, e che il ricorso all’anestesia delle emozioni provochi, come nel caso di suo marito, una paralisi esistenziale. Tuttavia, pur non conoscendo direttamente la vostra situazione familiare, sento che anche lui ama i vostri figli e che cerca, per quanto erroneamente, di tutelarli e proteggerli. È su questo affetto che occorre far leva per sciogliere il gelo che lo attanaglia. L’esperienza che ho tratto, anche dalla conoscenza degli ottimi servizi ticine-

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio La critica disturba, soprattutto a casa nostra L’ultimo episodio risale a tre settimane fa. A Locarno, presentando, con giustificato orgoglio, il bilancio positivo del Festival, il direttore Carlo Chatrian e il presidente Marco Solari non hanno però nascosto un disappunto persino stizzoso. Era rivolto, innanzi tutto, a quei critici che, per ottusità o peggio per partito preso, non avevano percepito i valori delle pellicole in lizza. Ma non soltanto a loro: concerneva, alla stregua di un monito morale, il pubblico, la popolazione insomma di un Paese che dovrebbe far fronte comune per sostenere, senza riserve, una manifestazione tanto importante e meritevole. Ora, sia subito chiaro, se riprendiamo adesso questo fatto di cronaca, non è certo per riaprire il dibattito sui meriti o demeriti dei film, passati sugli schermi locarnesi, un compito che mi trova impreparata, e ormai fuori gioco. E non si tratta, da parte mia, figurarsi, di

antipatia o pregiudizio nei confronti di un avvenimento, legato invece ai miei cosiddetti migliori anni: lo frequentavo da ragazza, con mio padre critico del «Corriere del Ticino», quando le proiezioni avvenivano nel parco del Grand Hotel. E mi capitò d’incontrare Tognazzi, Gino Cervi, la Lollobrigida, la deliziosa e ormai dimenticata Jean Simmons (di cui anche mio padre s’invaghì). Insomma, per venire al punto, le dichiarazioni dei responsabili del Festival meritano un’attenzione che va oltre l’attualità dell’avvenimento. Se possono apparire inopportune, sfuggite persino al diplomatico controllo di Solari, a ben guardare non sorprendono. In realtà, quelle parole risentite rivelano una suscettibilità che ci appartiene: un vizio, o magari una virtù, di casa nostra. E consiste nella difficoltà di fare e accettare la

critica, tipica di un piccolo paese, dove manca il distacco materiale, per non parlare di quello affettivo, premessa indispensabile per esercitare la critica: da affidare all’ironia, alla satira, alla spregiudicatezza. Sono doti, difficilmente praticabili in un ambiente dove, per una questione numerica, si è tutti in qualche modo, conoscenti, amici, colleghi, parenti, commilitoni. Come sempre avviene, e dappertutto, è una condizione territoriale a determinare le mentalità e i comportamenti. Non deve, quindi, sorprendere che questa vicinanza fisica abbia favorito una sorta di allergia alla critica, anche quella scherzosa. Manca l’allenamento, sia a esercitarla sia a subirla. Ci si sente subito vittime, offese e indignate, pronte a reagire, anziché incassare, con disinvoltura e tolleranza. A lungo andare, tutto ciò ha avuto effetti vistosi sulla vita collettiva, sui media, non da


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Attualità Migros

M Cuochi in TV, come supereroi Televisione Migros Ticino ha affidato al CISA di Lugano la realizzazione di una serie di spot

destinati a valorizzare la carne Migros. Andranno in onda dal 29 agosto al 18 settembre La carne svizzera protagonista di uno spot televisivo promozionale, girato da giovani aspiranti alla carriera di realizzatori cinematografici: mantenendo il proprio impegno di marcare una presenza efficace sul territorio in cui opera, Migros Ticino ha dato mandato al Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive di realizzare una serie di tre filmati pubblicitari destinati alla promozione della gastronomia di qualità e, soprattutto, basata sulla carne svizzera.

Un giovane cuoco, una madre di famiglia e una pimpante nonnina alle prese con ricette gustose a base di carne L’isitituto CISA è presente a Lugano dal 1992. Opera come scuola professionale indirizzata alla formazione di operatori specializzati nel settore delle arti cinematografiche, televisive e multimediali. Come tiene a precisare il suo direttore, Domenico Lucchini, una delle caratteristiche principali del sistema di insegnamento praticato al CISA è l’apprendimento pratico incentrato su progetti concreti. Ecco dunque che la proposta di Migros Ticino di realizzare una serie di filmati pubblicitari su alcuni piatti tipici della nostra cucina, che possano servire a rilanciare l’attenzione del pubblico sul valore della qualità della carne venduta da Migros Ticino, è stata raccolta dal laboratorio per la ricerca CISAlab. Si tratta in questo caso di una struttura che fa parte del piano globale delle attività proposte dalla scuola luganese, che impiega in questo contesto i propri allievi e li mette a confronto con una situazione di lavorazione assolutamente «autentica». L’esperienza, già operativa da tempo e sperimentata ad esempio in una solida collaborazione tra gli altri con Espoprofessioni, il festival JazzAscona, la FTIA (Federazione ticinese integrazione andicap) e molti altri enti, dà la possibilità agli allievi di lavorare su un vero «set», con tempi e tecnologie di qualità professionale. Assolutamente «reali» anche gli attori e gli specialisti coinvolti (in questo caso cuochi): l’obiettivo del CISAlab è infatti quello di offrire un messaggio visivo concepito con un livello qualitativo in linea con gli standard produttivi attuali.

Nel caso specifico, protagonista dei tre TV-spot sarà la carne Migros e sotto lo slogan «La scelta degli chef» sono state illustrate tre situazioni tipiche della nostra vita di tutti i giorni: un giovane «apprendista» cuoco che invita gli amici per una grigliata, una madre di famiglia che si trova a dover improvvisare una cena per la propria affamata famiglia e una nonna in difficoltà con la memoria perché ha dimenticato la sua famosa ricetta dell’arrosto. In tutti i e tre i casi la situazione sarà salvata da tre conosciuti chef ticinesi: Christoph Eichenberger del ristorante da Gina di Ascona, Luca Merlo del Ristorante Cereda di Sementina e Paolo Serra del Canvetto Luganese di Lugano. I filmati, divertenti e pieni di humour, saranno proposti dalla Rsi su La1 e La2 fino al 18 settembre. In seguito saranno visibili anche su Youtube.

Nelle immagini: un momento delle riprese, con Christoph Eichenberger nei panni del mago della griglia e, a destra, la celebre Sandra Zanchi nei panni di una nonna supertecnologica.

Biker in Valmaggia Migros Ticino Il Gruppo ricreativo dei collaboratori dell’azienda ticinese appassionati delle due ruote

Una delle uscite organizzate regolarmente dal Gruppo ricreativo di Migros Ticino ha riscosso particolare successo: il tour per gli amanti della motocicletta che in una giornata baciata dal sole ha riunito lo scorso 24 luglio oltre 20 partecipanti. I «bikers» sono partiti da Sant’Antonino per poi percorrere le strade della Valmaggia, fino alla val Lavizzara (con visita alla chiesa di Mogno realizzata da Mario Botta), salendo poi fino alla diga del Sambuco. In seguito hanno raggiunto Foroglio in Val Bavona, per poi fare ritorno alla centrale di Migros Ticino a Sant’Antonino. Un totale di 150 km, su ogni sorta di 2 ruote: dalla moto ultramoderna, allo scooter, a un oldtimer, in un’atmosfera distesa e amichevole.

Claudio Paganetti

ha animato un’escursione molto apprezzata


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Ambiente e Benessere Faroe, la fine del mondo Reportage da un’ampia valle glaciale che si getta nell’oceano con una cascata impressionante

Un’idea ambiziosa Se l’ambiente terrestre non offre buone condizioni per la ricerca scientifica, la soluzione è costruire un rilevatore gravitazionale che operi nello spazio

Abbinare alberi e agricoltura Un progetto che avrà effetti positivi per l’ecologia, grazie alla creazione di habitat vitali per diverse specie vegetali e animali

Questione di quantità? I lupi restano troppi per gli allevatori, e troppo pochi per i conservazionisti

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Illustrazione atzeca con chiaro il riferimento al mostro cannibale.

Psicosi Windigo e isteria artica Antropologia Esempi di come la cultura di una società – in questo caso quelle Inuit, Ojibwa e Cree –

possa influenzare una malattia Roberta Nicolò Il sapere dello psichiatra non è necessariamente universale, ma profondamente legato alla cultura d’appartenenza. Il punto di vista dell’osservatore occidentale è culturalmente condizionato da categorie, stili cognitivi, credenze e pregiudizi culturali. Anche per Franz Boas (antropologo e maestro della scuola culturalista nonché docente della Columbia University) la cultura deve essere studiata dall’interno poiché ogni etnia ha una coerenza intrinseca che può non essere evidente all’estraneo. Alcune psicosi e nevrosi hanno, infatti, rivelato similitudini e differenze delle patologie in vari contesti geografici e culturali. Questo prova che ci sono malattie per le quali la componente culturale ha una rilevanza fondamentale, ovvero nelle quali si possono riscontrare prove di una forte influenza esercitata sulla malattia dalla cultura. Uno dei casi più conosciuti di psicosi tipica di una società è quella dell’isteria artica. Un tipo di psicosi specifico che si riscontra in una determinata società: quella Inuit (eschimese) delle zone della calotta polare e sub polare. Diversamente dalle psicosi classi-

che, nella psicosi artica, chi ne è colpito inizia a saltare, si straccia le vesti, è colto da convulsioni e si rotola nudo nella neve e nel ghiaccio. Osservandolo sembra essere colto da una grave reazione claustrofobica. Queste popolazioni sono, infatti, costrette a vivere in alloggi molto stretti e affollati per lunghi periodi, durante i quali i sentimenti ostili sono repressi. Le crisi possono essere considerate degli sfoghi necessari per esprimere frustrazione e sono spesso addirittura ritualizzati. Alcuni antropologi della fine del XIX secolo, consideravano queste manifestazioni come un segno di trance sciamanica naturale e non autoindotta. Tuttavia questo non basta a spiegare l’isteria artica. Altra causa importante è data dalla dieta che prevede un massiccio apporto di carne a fronte di una carenza di vegetali. La poca presenza di luce, soprattutto in determinati periodi dell’anno, fa sì che per apportare al corpo le vitamine A e D necessarie, essi mangino grandi quantità di fegato di animali marini e orsi polari. È però noto che un’eccessiva assunzione di fegato produce un pernicioso eccesso di vitamina A. Inoltre, una dieta povera e poco variata, è anche causa di una defi-

cienza della vitamina B, che a sua volta può comportare una carenza di calcio nel flusso sanguigno. Entrambe queste situazioni, ovvero la presenza massiccia vitamina A o la mancanza di calcio nel sangue, possono causare convulsioni e episodi psicotici. Di conseguenza l’isteria artica è probabilmente causata dall’interazione tra condizioni di vita culturalmente determinate e un problema chimiconutritivo. Un altro esempio, nel quale la componente culturale ha una rilevanza importante nel determinare le cause di una malattia, lo ritroviamo nell’analisi fatta dagli antropologi della psicosi Windigo. Presso le comunità Ojibwa e Cree di cacciatori-raccoglitori settentrionali della foresta subartica canadese, vige una credenza diffusa secondo la quale alcuni esseri umani, possono essere posseduti dallo spirito Windigo, un mostro cannibale il cui cuore è fatto di ghiaccio. Secondo questo credo, chi viene posseduto da questo spirito, prova il grande desiderio di uccidere e cibarsi dei membri del suo stesso accampamento. Una volta assaggiata la carne umana, chi è soggetto alla sindrome Windigo, non sarà più capace

di cibarsi d’altro. Il loro cuore, trasformato in ghiaccio, non sarà più in grado di provare compassione per le persone, rendendo gli esseri umani alla stregua della normale selvaggina, da cacciare come si caccia un cervo o un alce. Per questo motivo, chi presenta sintomi della psicosi viene sovente ucciso dal resto della comunità. Ciò che non è chiaro è quali siano gli effettivi sintomi della sindrome. Quello che viene riferito dalle due popolazioni è vago e spesso mischiato a narrazioni mitologiche. Sia i Cree sia gli Ojibwe, vivono in un ambiente ostile, che li vede spesso bloccati dalla neve in piccole comunità isolate. È stato documentato che, in alcuni casi di estrema necessità, per sopravvivere siano stati effettivamente mangiati i membri deceduti della comunità. Lou Marano, antropologo che ha studiato questo fenomeno negli anni Ottanta, ha formulato un’ipotesi molto più realistica. Ovvero che in condizioni di fame e affaticamento estremi, le due tribù accusavano alcuni membri della comunità, responsabili di disordini, di essere posseduti da questo spirito malvagio, per potersi sbarazzare di loro e

aumentare così le possibilità di sopravvivenza del gruppo. Chi veniva accusato era un individuo malato, affetto da febbre alta, oppure non più in grado di camminare, un anziano o uno straniero. Per Marano, dunque, non si tratta di una vera psicosi ma piuttosto di un omicidio selettivo, cioè di una volontà precisa di far morire qualcuno perché altri possano vivere. La paura di essere mangiati veniva usata per infrangere il tabù che vieta di uccidere un membro del tuo stesso accampamento. A un esame più specifico quindi, la psicosi Windigo, si è dimostrata una variante prevedibile, anche se culturalmente condizionata, per l’appunto di omicidio selettivo caratteristico delle società in stato di forte tensione. Invocando la paura collettiva, generata da colui che funge da capro espiatorio, il gruppo è in grado di proiettare la sua profonda ansietà contro un singolo individuo, dando luogo, in questo modo, a una razionalizzazione dell’omicidio, in cui ognuno poteva identificarsi. Una strategia che possiamo ritrovare lungo tutto l’arco della storia dell’uomo e che, anche alle nostre latitudini, in tempi non remoti ha trovato ampio spazio.


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Ambiente e Benessere

Un salto nel tempo perduto Viaggiatori d’Occidente Le isole Faroe tra passato, presente e futuro

Natalino Russo, testo e foto Sono lontane le Faroe, arcipelago sperduto in mezzo al Mare del nord: se ci si potesse puntare un compasso, il cerchio toccherebbe le coste di Norvegia, Scozia e Islanda. Scuro basalto ammantato d’erba verdissima, niente alberi, tanto vento, pioggia per duecentosessanta giorni l’anno. Gli appassionati di birdwatching ci vengono per vedere i popolari pulcinella di mare (Fratercula arctica) che qui nidificano in gran quantità.

L’arcipelago delle Faroe è un luogo moderno e tecnologico immerso in una natura maestosa che conta 80mila pecore Le isole sono abitate da cinquantamila persone, metà delle quali concentrate a Tórshavn. La più piccola capitale del mondo è in una baia riparata a sudest di Streymoy, una delle diciotto isole dell’arcipelago. Un porto commerciale e uno turistico, qualche rimessa navale, sobri quartieri governativi e una strada commerciale. Tutto si raccoglie intorno alla penisola di Tinganes, dove agli inizi del IX secolo i Vichinghi stabilirono il primo insediamento. Su queste rocce c’è oggi un grappolo di casette in legno tinteggiate di rosso. A pochi passi qualche albergo e una manciata di ristoranti e pub che catalizzano la composta movida di questa cittadina nordica. Tórshavn è una vera metropoli tuttavia, se confrontata col piccolo villaggio di Gásadalur, all’estremità settentrionale dell’isola di Vágar. Venti

abitanti e poche casette coi tetti coperti d’erba. Minuscole finestre abbellite con oggetti di vita marinara. Tendine bianche ricamate a motivi floreali. Un gatto, qualche oca selvatica. C’è un grande silenzio, interrotto solo dai campanacci delle pecore che pascolano al margine delle case. Poi nel 2004 l’inaugurazione di un tunnel di un chilometro e mezzo ha portato il futuro anche a Gásadalur. Oggi qui si arriva comodamente in macchina e il villaggio dista solo quindici minuti dall’aeroporto internazionale di Vágar, collegato più volte al giorno con Copenaghen. L’arcipelago delle Faroe (anche Fær Øer o Føroyar, «isole delle pecore», che sono infatti ottantamila, ben più degli uomini), regione autonoma della Danimarca, ha un proprio governo, una lingua e persino una moneta: la corona feroese. È un luogo moderno e tecnologico immerso in una natura maestosa. Telefonia mobile e internet raggiungo-

no tutte le case. Le isole principali sono collegate da ponti e tunnel sottomarini, le altre mediante traghetti ed elicotteri. I feroesi sono felici e non rimpiangono il passato. Proprio per questo però gli abitanti di Gásadalur tengono molto a quel sentiero che è stato a lungo la loro unica porta verso il mondo. Oggi lo curano e lo consigliano ai turisti, che si arrampicano con entusiasmo su per i ripidi tornanti fino al valico. Qui il loro sforzo è premiato da un affaccio magnifico sull’oceano e sull’isola di Mykines, vero e proprio paradiso degli uccelli marini. Poi il sentiero scende per i ripidi prati del versante opposto fino al villaggio di Bøur. Gli abitanti di Gásadalur raccontano volentieri la storia del vecchio postino che, zaino in spalla, faceva questo percorso tre volte alla settimana per raccogliere e distribuire lettere. Lo fanno per tutelare la memoria di un’epoca che non esiste più. Perché sanno che le radici di una cultura affondano nel

tempo piuttosto che nello spazio. In questo luogo sperduto ha preso forma più chiara un pensiero che già altre volte mi aveva sfiorato: ogni viaggio nello spazio è anche un viaggio nel tempo. Viaggiamo nelle grandi metro-

poli per guardare avanti, verso stili di vita che ancora non conosciamo; siamo esploratori e continueremo a esserlo. Ma ogni tanto vale la pena di visitare luoghi che ci consentono di guardare indietro. Come quando eravamo bambini e in macchina trascorrevamo ore affacciati al lunotto posteriore. Cosa guardavamo? Il paesaggio che scivolava di lato, le altre macchine in corsa e i loro passeggeri, coi quali ci scambiavamo saluti e smorfie. Ma sovente restavamo imbambolati a fissare semplicemente la strada. La strada dritta che scorre all’indietro e che chilometro dopo chilometro sembra dire: tu vieni da lì, da quel punto sempre più piccolo in fondo alla linea sull’asfalto. Non lo sapevamo, ma affacciati a quel lunotto stavamo imparando che viaggiare significa farsi scorrere il futuro sotto i piedi. Significa fare un passo in più ma soprattutto osservare e conservare (cioè disegnare le mappe) di ciò che abbiamo già calpestato.


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Ambiente e Benessere

Maggiore autonomia, minori costi Motori Prosegue la ricerca automobilistica per soluzioni sempre più ecologiche

Mario Alberto Cucchi In pochi lo sanno ma spesso le tecnologie usate sulle automobili che guidiamo tutti i giorni vengono testate sui veicoli pesanti prima ancora che sulle quattroruote. In quest’ottica diventa di rilievo la presentazione da parte di Mercedes Benz dello Urban eTruck. Si tratta del primo veicolo per il trasporto merci a trazione completamente elettrica.

Lo Urban eTruck della Mercedes Benz è il primo veicolo per le merci a trazione completamente elettrica Guida a zero emissioni, con l’autista seduto al centro e dietro due sedili per i passeggeri. L’autonomia? Ben duecento chilometri con un carico utile paragonabile ai tradizionali veicoli diesel. Circa ventisei tonnellate. Un mezzo vero, funzionante, che però non entrerà in produzione prima del 2020. Fino ad oggi l’utilizzo di mezzi pesanti a emissioni zero era impensabile. Altissimi i costi delle batterie e ridotta l’autonomia disponibile. Adesso invece i tempi sembrano essere maturi. Daimler Trucks prevede che il costo delle batterie di un camion completamente elettrico sia de-

stinato a ridursi di oltre il 50 per cento dal 1997 al 2025, passando da 500 euro/kWh a 200 euro/kWh. Ma come è stato sviluppato lo Urban eTruck? L’alimentazione elettrica è garantita da un pacco batterie composto da tre moduli di batterie agli ioni di litio che sono alloggiate in tutta sicurezza all’interno dell’autotelaio. Questo grazie al posizionamento di motori elettrici collocati in corrispondenza dei mozzi ruota. Wolfgang Bernhard, membro del Board of management di Daimler Trucks und Buses ha dichiarato: «Fino ad ora l’impiego dei motori elettrici sui veicoli industriali è stato estremamente limitato. Oggi costi, potenza e tempi di ricarica migliorano con una rapidità tale da farci prevedere un cambio di tendenza nel mondo dei servizi di distribuzione: i tempi sono ormai maturi per i truck elettrici. Sul fronte autocarri leggeri per il servizio di distribuzione il Fuso Canter E-Cell è stato oggetto di numerosi e approfonditi test da parte dei clienti fin dal 2014. Ora, con il Mercedes-Benz Urban eTruck, la trazione elettrica debutta nel servizio di distribuzione pesante fino a 26 tonnellate. Miriamo ad affermarci come pionieri nello sviluppo dei veicoli elettrici». D’altronde le Nazioni Unite prevedono che nel 2050 sulla terra vivranno nove miliardi di individui e che il 70 per cento di loro vivrà in città. Diventa quindi prioritario il trasporto merci in contesti urbani e possibilmente in assenza di emissio-

ni inquinanti. Oggi buona parte delle risorse economiche della case automobilistiche è destinato ai reparti di ricerca e sviluppo in cui il lavoro procede in modo incessante. Da sempre l’unione fa la forza e, per questo, due grandi costruttori come Toyota e Nissan hanno avviato assieme lo studio

di inedite tecnologie per le batterie in modo da garantire in futuro una sempre maggiore autonomia delle rispettive vetture elettriche e plug-in. Toyota, con i suoi centri di ricerca in Giappone e Nord America, è concentrata sullo sviluppo di batterie al magnesio che ritiene più valide di

quelle agli ioni di litio oggi utilizzate. Mentre Nissan, in collaborazione con l’università di Tohoku, sta valutando l’introduzione di speciali additivi che consentirebbero di migliorare non solo l’autonomia ma le prestazioni in generale. La ricerca automobilistica non si ferma neppure d’estate. Annuncio pubblicitario

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Il futuro dell’astronomia gravitazionale Storia della scienza Misurare le onde gravitazionali emesse durante gli scontri tra buchi neri supermassicci è forse

l’unico modo per chiarire i meccanismi alla base della loro formazione – Quarto articolo di una serie

Simone Balmelli Come discusso nell’ultimo articolo di questa serie («Azione» del 25.7.16), i moderni rilevatori di onde gravitazionali sembrano promettere un futuro ricco di nuove osservazioni. Ma, nonostante tutto, hanno dei grossi limiti. In particolare perché le continue vibrazioni della crosta terrestre hanno un’intensità di gran lunga maggiore rispetto a quella di una qualsiasi onda gravitazionale che possa raggiungere il nostro pianeta, e, di conseguenza, il segnale registrato dai rilevatori è fortemente disturbato. È possibile misurare l’onda gravitazionale solo se, per quanto debole, essa ha una frequenza maggiore rispetto ai movimenti tellurici. La situazione è analoga a quella che si verifica in un luogo affollato, dove si ha più facilità a capire le parole di una certa persona se il timbro della sua voce si differenzia dal rumore di fondo. Per questo i rilevatori esistenti, come LIGO negli Stati Uniti, o Virgo, nei pressi di Pisa, sono in grado di misurare soltanto onde gravitazionali con una frequenza non inferiore a poche decine di Hertz. Le conseguenze di questo limite, dal punto di vista della ricerca scientifica, sono tutt’altro che trascurabili. Abbiamo già accennato al fatto che, fra le sorgenti più importanti di onde gravitazionali, ci sono sistemi binari di buchi neri e di stelle di neutroni. Ebbene, la frequenza di un’onda gravitazionale dipende dalla grandezza degli oggetti in questione: quanto più sono grandi, tanto minore è la frequenza di rotazione dei due corpi, e tanto minore anche la frequenza dell’onda emessa. I buchi neri di dimensione medio-piccola, come pure le stelle di neutroni, hanno la taglia ideale per essere misurate con gli strumenti attuali. Ma, di buchi neri, ce n’è di ogni sorta: da corpi di massa paragonabile a quella di una stella, fino a veri e propri mostri, pesanti quanto una piccola galassia (e cioè, quanto miliardi di

Al posto di tre satelliti, ne è stato utilizzato uno solo, con l’obiettivo di verificare la capacità dello strumento di mantenere il cubo in uno stato di quiete pressoché assoluta. Lo scorso giugno, LISA Pathfinder ha completato la sua fase operazionale principale, con risultati molto positivi, addirittura superiori alle aspettative. L’ostacolo più delicato per lo sviluppo di eLISA è stato quindi superato, e c’è ora molta fiducia che il progetto vero e proprio sarà realizzato, anche se non nell’immediato futuro.

Rappresenta– zione grafica di LISA_Pathfinder in orbita. (ESA)

Un progetto in fase di studio prevede il lancio di tre satelliti in orbita attorno al sole distanti un milione di chilometri l’uno dall’altro stelle). Quelli di grossa dimensione (che vengono denominati supermassicci), a ragione di quanto appena discusso, sono del tutto invisibili ai rilevatori odierni di onde gravitazionali. Oggi si ritiene che la maggior parte delle galassie ospitino, al loro centro, un buco nero supermassiccio, frutto di una serie di fusioni con altri buchi neri avvenute nel corso della loro storia. Ma restano delle enormi lacune nella conoscenza che abbiamo di essi. C’è in particolare grande incertezza in merito ai processi che hanno portato alla nascita dei primi buchi neri di grossa taglia, quando l’universo era ancora giovane. I segnali (si tratta di onde elettromagnetiche), che riceviamo da aree tanto remote, provengono da regioni eccezionalmente attive e permettono di trarre conclusioni su quella che probabilmente è solo una minima parte dell’intera popolazione di buchi neri, la quale resta, per così dire, nell’ombra.

Misurare le onde gravitazionali emesse durante gli scontri tra buchi neri supermassicci è forse l’unico modo per chiarire i meccanismi alla base della loro formazione, e compiere così un grande passo avanti nella comprensione dell’evoluzione dell’universo. Questo è uno dei motivi principali per cui la comunità scientifica non si accontenta della tecnologia attuale per la misurazione di onde gravitazionali. L’idea è semplice ma ambiziosa: se l’ambiente terrestre non può offrire delle condizioni sufficientemente tranquille, la soluzione è costruire un rilevatore che operi nello spazio. Il progetto più importante in questo ambito è l’europeo eLISA (evolved Laser Interferometer Space Antenna), che prevede il lancio di tre satelliti in orbita attorno al Sole, disposti a triangolo, a un milione di chilometri di distanza l’uno dall’altro. All’interno di questi satelliti, dei cubi in lega

metallica saranno liberi di fluttuare, e isolati in modo estremamente efficace da ogni fattore esterno, con l’unica eccezione della gravità (e dunque anche delle onde gravitazionali). Il funzionamento di base è simile a quello dei rilevatori terrestri: dei raggi laser si muovono lungo i lati di questo gigantesco triangolo, misurando il movimento relativo di un cubo rispetto all’altro. Al passaggio di un’onda gravitazionale, la grande distanza che separa due cubi subirà una lieve oscillazione, di ampiezza pari a circa un centesimo del diametro di un atomo, che permetterà di caratterizzare l’onda. Dal punto di vista tecnico, si tratta di una sfida che ha dell’incredibile, ma non stiamo parlando di fantascienza: lo scorso dicembre, la missione LISA Pathfinder, dell’Agenzia Spaziale Europea (a cui anche la Svizzera ha partecipato) è stata lanciata allo scopo di testare la tecnologia per un futuro rilevatore spaziale.

La portata scientifica di eLISA si estende oltre allo studio dell’evoluzione dei buchi neri supermassicci. Si potrà per esempio mettere ancora una volta alla prova, ma con maggior precisione, la correttezza della relatività, o anche, forse, misurare le onde gravitazionali emesse durante il Big Bang. E non si tratta nemmeno dell’unico nuovo progetto in questo ambito: citiamo per esempio il futuro Einstein Telescope, uno stadio più avanzato di rilevatore terrestre, o il Pulsar Timing Array, già in attività, che ha lo scopo di rilevare le onde gravitazionali tramite piccoli sfasamenti nel segnale di alcune pulsar (e cioè stelle di neutroni rotanti che si comportano come orologi cosmici di estrema precisione). L’avventura delle onde gravitazionali, nata un secolo fa grazie al genio di Einstein, e rimasta nell’incertezza per lunghi decenni, sta vivendo in questi mesi il suo secondo periodo di gloria, dopo quello degli anni Settanta; ma sembra, nonostante tutto, essere soltanto agli inizi. Annuncio pubblicitario

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Il Khamr e l’ebbrezza Il vino nella storia Il trionfo dell’Islam nel corso del VII-VIII secolo

sconvolse in maniera progressiva immagine e ruolo sociale dell’alcol

Davide Comoli Sui dizionari in lingua araba, l’etimologia della parola Khamr significa «vino». Sono qualificate con il nome Khamr tutte le bevande che provocano turbamenti nel fisico e nello spirito. Questa definizione fu data dal Califfo Umar ibn al-Khattab (581-644) parlando ad alcuni notabili a cui faceva notare la posizione dell’Islam (primitivo) sull’ubriachezza. Il Lissan al-Arab, dizionario medievale della lingua araba, fornisce molte corrispondenze alla parola Khamr: essa può indicare l’uva, oppure evocare una semplice fermentazione, la decomposizione d’una sostanza o l’evoluzione di un profumo. L’interdizione che tocca il bere vino nel mondo islamico, non venne come molti pensano in una sola volta; fu invece un processo progressivo che possiamo suddividere in quattro tappe e che si possono reperire nel Corano. Ci vorranno diciotto anni per arrivarci man mano che il Profeta Maometto rilascia le sue rivelazioni, tra la Mecca e Medina (luglio 622). L’uso del Kahmr, vale a dire una bevanda fermentata estratta dall’uva, dai datteri o dai cereali, era uno dei lussi dell’Arabia preislamica. Il vino consumato dalle classi più agiate e aristocratiche era importato dal Libano e dall’Iraq. La conferma di vigne coltivate nella penisola Arabica prima del VI secolo ci perviene da poeti arabi che evocano il vino con commenti favorevoli.

Al-Asha di Bakr, poeta contemporaneo di Maometto, descrive con dovizia di particolari una vendemmia nell’odierno Yemen. Anche il Profeta pare che in un primo momento non fosse insensibile, poiché in un versetto promette ai giusti nel paradiso «un vino sigillato»; la tradizione assicura che questo prodotto non porta all’ebrezza. (Si crede che un liquido fermentato miscelato all’acqua di Zemzem, dava origine al sawiq una bevanda sacra che trovava posto durante i riti alla Kaaba). Agli occhi dei musulmani, il Corano (610-632) è un testo divino colmo di saggezza, rivelato al Profeta Maometto tramite l’Arcangelo Gabriele. In esso sono indicate tra l’altro una serie di comportamenti alimentari e molti versetti di questo testo sacro, sono consacrate al vino. Ad esempio nella Sura l’Ape XVI, versetti 66-69, si menziona il vino (Kahmr) «Voi trarrete una bevanda che vi dà ebbrezza e un eccellente alimento dai frutti delle palme e delle vigne» (piuttosto incoraggiante). Sarà nella sua seconda tappa di predicazioni che comincia con la hijra, la fuga del Profeta dalla Mecca a Medina, che il vino viene isolato dalle altre bevande. Nella Sura Le donne IV, versetto 43, il Profeta dice: «O voi credenti, non avvicinatevi alla preghiera quando siete ebbri (la tagrabû as-salata wa antûm sûkara) – aspettate di sapere quello che dite! – o impuri – a meno che non siate in viaggio – aspettate di essere lavati». Questa proibizione sarà fatale a quei luoghi presso le

moschee dove si spacciavano bevande, anche perché con cinque preghiere al giorno, era fatica restare sobri, ma ancora questa non era una proibizione assoluta. Le cose però si complicano con la Sura La Tavola, versetto 90, che dice: «O voi che credete! Il vino, i giochi d’azzardo, le pietre erette, gli oroscopi, sono un abominio e opera del demonio. Evitatele» e il versetto 91 precisa che: «i giochi d’azzardo e le bevande alcoliche, sono degli artefizi che Satana usa con perfidia per creare discordia tra i popoli, provocare delle risse, odio e vendette». In verità gli storici affermano che il consumo del vino non fu mai completamente sradicato nell’Islam, nonostante i numerosi tentativi dei vari califfi e governatori regionali. È vero che il divieto imposto portò alla distruzione della viticoltura nei Paesi conquistati, ridimensionando e modificando la produzione dell’uva. Se oggi possiamo bere vini come lo Zibibbo (che significa uva passa in arabo) o i Moscati di Noto e Siracusa e molti altri provenienti dal Sud della Spagna, dobbiamo ringraziare l’Islam. Non vogliamo, per ragioni di spazio, ricordare il vino con i poeti arabi che hanno cantato le lodi di questa bevanda. Grazie a loro però sappiamo che gli Arabi di una volta riconoscevano nel vino sette sapori diversi: la dolcezza (halawa), l’amaro (marara), l’acre (harafa), la sapidità (mûlûha), l’acidità (hûmûda), l’asprezza (afûssa, quabdh), l’insipido (udûba, tafaha). E sempre attraverso i poeti possia-

Illustrazione di Edmund J. Sullivan che rappresenta il poeta astronomo persiano Omar Khayyam mentre beve del vino.

mo fare anche un’analisi organolettica del vino; Manoutchehri (1000-1040) afferma che il vino tra gli orientali è essenzialmente rosso: «Rosso sangue come i tulipani o vermiglio». La limpidezza viene comparata da Al-Jahiz (776-869) al sole: «Il vino è un nettare del sole, è vermiglio e lascia filtrare dei raggi gialli». Di effervescenza, scrive invece Omar Khayyam (10040-1123): «Gli uomini sono come delle bollicine nel vino nel bicchiere dell’esistenza». Sul profumo, Ahu Nuvas dice: «Storditi dal profumo di muschio che si scioglie dal vino». Mentre in merito al corpo, Manoutchehri scrive: «La caratteristica del buon vino è la leggerezza». Infine sull’età, Hafez (1320-1388) afferma che: «Si deve preferire un vino vecchio a uno giovane, ma è ancora meglio un vino né troppo vecchio né troppo giovane». A noi uomini del XXI secolo non resta forse che seguire i consigli di un

grande medico e filosofo Arabo, vissuto secoli fa: stiamo parlando di Ibn Sina (980-1037) meglio conosciuto come Avicenna, soprannominato «Il Principe dei Saggi» e autore del Canoni di Medicina. Nei suoi scritti dice: «Non abusare del vino, accontentati di una piccola quantità», e ancora «preso in piccole quantità è utile, troppo è pericoloso». Egli molto probabilmente si rifà alle conoscenze sul vino della scuola greco-latina, la sua regola 860 si conclude dicendo: «Il vino è sopportato meglio in un paese freddo che non in uno caldo» e dice di se stesso: «Quando i problemi sono molto grandi per me, vado alla moschea e prego il Creatore, affinché ciò che era complicato diventi semplice, e alla sera quando torno spossato, ricorro a un bicchiere di vino affinché mi ritempri». Forse vale la pena di meditare su queste parole. Annuncio pubblicitario

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Pesce crudo? No, marinato Vi ho già parlato della marinatura, più volte. Oggi vorrei confrontarmi con un sotto-problema (che brutta parola) ovvero su come si marina il pesce. Ma andiamo con ordine. La marinatura non è altro che un sistema di cottura: molto arcaico, con migliaia di anni di onesto lavoro alle spalle. D’accordo, non avviene «a caldo», cioè sul fuoco, ma resta pur sempre un sistema di cottura.

Ottima anche la papaia, grazie all’enzima papaina, di cui sono ricchi le foglie e i frutti acerbi Si marinano pesce, carne e verdure per renderli più teneri, più digeribili e per ridurre i tempi di cottura: tre cose estremamente positive. Mentre però la carne marinata, in linea di massima, richiede ancora una cottura a caldo, il pesce no. Può essere mangiato direttamente - o forse deve - ché se si cuoce del pesce marinato diventa subito stracotto, salvo le solite eccezioni. Ma attenzione: non si parla di pesce crudo Japan style, ma di pesce cotto: mai dimenticarlo. I grandi maestri del pesce marinato, a livello mondiale, sono i latinoamericani, soprattutto quelli che si affacciano sul pescoso Oceano Pacifico, i peruviani su tutti: lo chiamano ceviche, un termine oramai sdoganato a livello internazionale. È pesce innaffiato con succo di agrumi e profumato con verdure tagliate sottili. L’etimo sembra comunque essere di origine araba e vuol dire: metodo per conservare il cibo mediante alimenti acidi. Appunto, gli alimenti acidi. Sono loro che cuociono il pesce: gli odori profumano ma da soli non cuociono. Quindi vino, aceto, anche distillati, succo di agrumi e altri ancora.

Peraltro anche in Spagna e in Italia facciamo qualcosa del genere con l’escabece, diventato nello Stivale scapece e saor. La grande differenza è che i pesci (o le carni o le verdure) vengono prima fritti e poi annegati in una marinata resa acida dall’aceto, per poter essere conservati a lungo. Tendenzialmente si marina «al fresco», come scritto nei libri di cucina, che vuol dire in frigorifero, oggi. I tempi di marinatura ovviamente variano in funzione dell’ingrediente, di come è stato tagliato, eccetera. Per pesce a filetti e crostacei bastano 20 minuti: di più è troppo. Come sempre, è una regola generale: esistono infatti tante marinature di pesci più lunghe, anche di ore e ore: è la cucina... Per quanto classico, non è certo l’unico modo di marinare: ci sono tante soluzioni diverse. Per esempio con la papaia, grazie a un enzima, la papaina, di cui sono ricchi principalmente le foglie e i frutti acerbi (ne abbiamo già parlato in questa rubrica, sei anni fa). La papaina agisce come i nostri succhi gastrici nei confronti delle proteine animali, scomponendole in sostanze (più) facilmente assimilabili: in pratica, facendo marinare pezzi di pesce o carne in una salsa a base di papaia, li si rendono non solo morbidi ma anche assolutamente digeribili. Allo stesso modo può essere utilizzato anche l’ananas: è infatti ricco di bromelina, e di questo enzima che agisce comunque come la papaina non abbiamo mai parlato. L’ananas va centrifugato e usato immediatamente: la bromelina degrada in pochi minuti. Il grande vantaggio è che questi due profumi, al di là della marinatura, sono universali e buoni: arricchiscono sempre e tutto senza prevaricare mai. Ma attenzione: il mitico anisakis, il vermetto troppe volte presente nel pesce crudo, si fa un baffo di limone, aceto e affini. Quindi se volete cimentarvi con un ceviche, dovete prima sanificare il pesce tenendolo almeno 48 ore in freezer.

CSF (come si fa)

Stu Spivack

Allan Bay

Patrick Feller

Gastronomia Tra i diversi tipi di cottura «a freddo» anche quella in salsa di ananas

Ed ecco delle ricette di ceviche. La prima è peruviana, che più canonica non si può, le altre due sono mie elaborazioni. Ceviche alla peruviana. Ricavate i filetti dei pesci che volete, mondate i crostacei e, se piccoli come scampi e gamberi, lasciate le code intere, altrimenti tagliateli a medaglioni. Tritate zenzero, sedano e aglio. In un’ampia

ciotola mescolate il pesce con questo trito e con abbondanti lime spremuti. Lasciate marinare per 5’, mescolando, poi unite coriandolo tritato con peperoncino. Servite con cipolle rosse tagliate a julienne. Accompagnate con mais tostato, camote (patate dolci) bollite e pannocchie di mais peruviano (dai grandissimi chicchi) bollite. Ceviche al peperone. Per 2 porzioni. Scottate 6 gamberoni per 2’ in acqua bollente e raffreddateli in acqua ghiacciata. Sgusciateli, privateli del budellino nero, metteteli in una ciotola e irrorateli con il succo di 1 arancia, aggiungendo anche mezza cipolla bianca e 50 g di sedano affettati. Tagliate a dadi 100 g di peperoni, se possibile 1 terzo gialli, 1 terzo verdi e 1 terzo rossi, metteteli in una ciotola con 100 g di pomodorini ciliegia divisi in due,

2 dl di succo di lime e 1 dl di olio extravergine d’oliva leggero. Aggiungete i gamberoni scolati, 200 g di polpa di cernia tagliata a piccole fette, 150 g di piovra e 150 g di calamari tagliati finemente. Pepate, coprite con pellicola e lasciate marinare per 30’ al fresco. Spolverizzate con coriandolo sminuzzato, poco sale e servite. Ceviche di aringhe ai finocchi. Per 4 porzioni. Fate marinare 4 aringhe fresche, diliscate, in poco olio, 1 bicchierino di aceto di mele, 1 arancia spremuta, 1 schizzo di Grand Marnier e bacche di ginepro per almeno 12 ore. Scolatele, asciugatele bene e tagliatele a filetti. Serviteli su finocchi tagliati sottilissimi e sottili fette di arance private della buccia, condite con un’emulsione di olio, aceto di mele, poco succo d’arancia ed eventualmente poco sale.

Ballando coi gusti Oggi due antipastini semplici e simpatici. Se per caso utilizzate dei fagioli in scatola già cotti, fate pure…

Crostini con lardo e mozzarella

Crostini con crema di fagioli e speck

Ingredienti per 4 persone: 12 crostini di pane a piacere · 200 g di mozzarella di

Ingredienti per 4 persone: 12 crostini di pane a piacere · 100 g di fagioli bianchi · 1 cipolla · 60 g di ricotta · 12 fettine di speck · olio di oliva · sale e pepe.

bufala · 12 fette sottili di lardo · prezzemolo · latte · sale e pepe. Tagliate la mozzarella a piccoli bocconcini e fateli scolare in un colino per 30’. Poi frullateli a velocità lenta col minipimer unendo poco latte se necessario e prezzemolo a piacere. Regolate di sale. Tostate il pane nel tostapane. Nappate i crostini con la crema di mozzarella e copriteli con le fette di lardo. Profumate con pepe e passate per pochi istanti in forno, in modo che il lardo si sciolga leggermente. Serviteli ben caldi.

Ammollate i fagioli in acqua tiepida per una notte poi scolateli e lessateli coperti a filo di acqua per 2 ore, unendo 1 cipolla spezzettata e 2 foglie di alloro. Alla fine eliminate l’alloro e frullateli unendo un poco di olio e un poco di acqua di cottura se necessario, ma dovrete avere una crema densa. Mescolate questa crema con la ricotta e regolatela di sale e di pepe. Tostate il pane nel tostapane. Nappate i crostini con la salsa di fagioli e completate ogni crostino con un ricciolo di speck.


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Ambiente e Benessere

Metti un albero nel tuo campo Biodiversità Un progetto a livello svizzero vuole promuovere i sistemi agroforestali, ossia l’abbinamento

tra agricoltura e alberi da frutto o da legna d’opera Elia Stampanoni A differenza dei frutteti ad alto fusto, un elemento caratteristico del territorio elvetico dove la superficie agricola viene sfruttata come pascolo o terreno da sfalcio (fieno), in altri sistemi agroforestali gli alberi vengono piantati a filare e gli spazi al suolo sono destinati alla campicoltura. Si tratta di abbinare alberi da frutto, o alberi per la produzione di legno d’opera, con lo sfruttamento agricolo per la coltivazione di cereali o altre specie. Per favorire questo «nuovo» tipo di sistema agroforestale in Svizzera, nel 2011 si è formato il gruppo d’interesse IG Agroforst che, coordinato da Agridea, ha come scopo principale di riunire le conoscenze, coinvolgendo e favorendo gli scambi tra agricoltori, consulenti ed esperti. Al gruppo d’interesse aderiscono agricoltori e forestali, la scuola tecnica agricola di Zollikofen, il Politecnico federale di Zurigo, l’Ufficio federale dell’agricoltura (Ufag), il centro di ricerca Agroscope e il Fibl, istituto di ricerca per l’agricoltura biologica. L’abbinamento tra alberi e agricoltura ha effetti positivi per l’ambiente, grazie alla creazione di habitat vitali per diverse specie vegetali e animali. Il sistema è inoltre benefico anche per la stabilità dei suoli, prevenendo erosioni o dilavamenti e migliorandone la fertilità a lungo termine. Gli alberi ad alto fusto sono parte integrante del paesaggio elvetico sin dal 17° secolo, ma si

stima che dal 1950 al 2000 circa l’80 per cento delle piante situate in zone agricole siano sparite dal territorio. In passato sono già state svolte delle osservazioni in quest’ambito e si presume che l’accostamento agricolo forestale sia, a lungo termine, non solo interessante ma anche economicamente redditizio, offrendo valide opportunità ad agricoltori e selvicoltori. Nuovi studi vorrebbero ora confermare tali suggestioni, presentando dati e risultati concreti che confermino il valore aggiunto di queste superfici sulla diversità delle specie, sulla protezione dell’avifauna e sulla qualità del suolo. Nello studio, eseguito dal centro di ricerca Agroscope, verranno però osservati anche altri parametri: la produttività della superficie agricola e degli alberi, altri influssi ecologici e i costi per il lavoro d’impianto e di manutenzione. In ambito agroforestale quasi ogni combinazione è possibile. Importante è soprattutto la distanza da mantenere tra i filari alberati in modo che i macchinari possano circolare senza ostacoli e che le colture possano svilupparsi al meglio. Particolarmente adatti sono di certo alcuni alberi tipici della Svizzera, come meli, peri, ciliegi, noci o altre specie che forniscono frutta o legname d’opera. Tra le colture campicole adatte per essere seminate tra i filari alberati troviamo invece le varietà invernali di frumento, orzo e colza, cioè quelle che vengono seminate in autunno e che in primavera hanno una crescita rapida.

Un esempio di campicoltura agroforestale. (Agridea)

In questo modo la coltura può svilupparsi approfittando della protezione data dagli alberi, ma senza che le fronde e le foglie ne ostacolino l’insolazione. La densità delle piante è di solito inferiore alle cinquanta unità per ettaro e la messa a dimora deve avvenire in contemporanea allo sfruttamento agricolo della superficie, così che la pianta si adatti da subito a crescere utilizzando lo spazio a disposizione, ossia in verticale e sviluppando le radici in profondità. La lavorazione del suolo (aratura e semina) deve avvenire in vicinanza delle piante (fino a una distanza di un

metro) in modo che le radici vengano tranciate e quindi obbligate ad occupare lo spazio scegliendo strati profondi. Attualmente in Svizzera ci sono ancora poche aziende agricole che si dedicano al nuovo modello agroforestale, ma l’interesse è in aumento, come spiega Mareike Jäger, responsabile del gruppo IG-Agroforst per Agridea: «Con il nostro progetto (avviato nel 2014) vogliamo sviluppare venticinque aziende modello, accompagnandole e monitorandole per cinque anni, durante i quali verranno rilevati alcuni criteri».

Appoggiata dai Cantoni e da una quarantina di organizzazioni che si occupano di agricoltura o di sviluppo nelle aree rurali, Agridea promuove lo scambio di conoscenze ed esperienze tra persone attive a diversi livelli, come la consulenza, la ricerca, la pratica, l’amministrazione o la politica. E a livello ticinese? Finora non ci sono aziende che fanno parte del progetto, ma Agridea è convinta che il tema sia di grande interesse anche per il sud della Alpi, dove Sara Widmer sta cercando di sviluppare l’iniziativa: «Vogliamo allargare la rete di agroforestali anche da noi – spiega la responsabile del progetto per il Ticino – coinvolgendo persone che, con la loro esperienza, possano promuovere questo sistema, vantaggioso a livello economico ed ecologico». Benefici che implicano chiaramente degli sforzi da parte del gestore: non è da sottovalutare l’impegno per la valorizzazione dei frutti o del legname (determinante per la redditività), oppure anche il lavoro necessario nei primi anni per la formazione e la cura dei filari. Giovamenti che, con l’intensificarsi dei mutamenti climatici in atto, potrebbero avere un’importanza ancora maggiore: «Durante le estati calde e secche, cosa non rara in Ticino, gli alberi riescono a mantenere un microclima più temperato», conclude Sara Widmer che, con Agridea di Cadenazzo spera di riuscire a coinvolgere nuovi agricoltori per la creazione di particelle agroforestali sulla loro azienda agricola.

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Ambiente e Benessere

Così diversi, così uguali a noi Mondoanimale L’eterna discussione sull’opportunità di una convivenza tra uomo e lupo

messa in una nuova luce dall’opinione dell’etologo Luigi Boitani

pologo» americano David Mech svolse il primo censimento del lupo sull’Appennino effettuato in Italia, commissionatogli dall’allora giovane Wwf Italia. Pur comprendendo le ragioni dei detrattori, non possiamo esimerci dal riportare un altro suo significativo pensiero: «Temiamo il lupo perché è troppo simile a noi». Affermazione alla quale si allinea il filosofo italiano Massimiliano Hellies quando dice: «Le pecore temono il lupo, ma alla fine sono sempre i pastori a portarle al macello». Ma torniamo a Boitani e alla sua percezione di questo grande predatore che studia da una vita: alla domanda di quantificare la presenza odierna del lupo in Italia, dopo aver sfiorato l’estinzione negli anni Settanta, egli risponde con una provocazione: «Che senso ha dare un numero? I lupi saranno sempre troppi per gli allevatori, e pochi per i conservazionisti». Detto ciò, egli afferma che il numero di lupi è aumentato sensibilmente grazie a una serie di fattori come le leggi nazionali e internazionali di conservazione, l’aumento delle aree selvatiche a disposizione e la conseguente crescita delle sue prede naturali. Interessante il motivo per cui, secondo Boitani, il lupo faceva e fa tanta paura: «Proprio come l’uomo, questi animali occupano vaste aree di territorio, vivono in branchi con strutture sociali, sono intelligenti e hanno un’incredibile capacità di adattamento». Ci assomigliano, ribadisce, provando altresì a motivare la «psicosi lupo» che sembra resistere tutt’ora: «Una convivenza pacifica è impossibile, pensare a un rapporto che non preveda il conflitto è pura utopia. È come vivere con le autostrade: ci saranno sempre delle vittime dettate dall’ignoranza delle leggi o dalle fatalità». Secondo il professore, l’obiettivo da raggiungere rimane comunque «quello di una coesistenza; non si può pensare di riservare tutto il territorio all’uomo, viceversa ai lupi».

Molto spesso abbiamo provato a rendere conto della presenza del lupo in Svizzera, ascoltando le ragioni dei suoi fautori come pure dei suoi detrattori. Realtà insindacabile: questo grande predatore, che comunque esercita un certo fascino sull’essere umano, sta ripopolando il nostro territorio, nelle modalità ben riassunte dalla «Strategia Lupo (Piano di gestione del lupo in Svizzera)» che al paragrafo 1.2 afferma: «A intervalli regolari lupi sono migrati in Svizzera dalle Alpi italo-francesi e hanno sbranato animali da reddito, causando gravi danni ad alcuni dei loro detentori». Per questo motivo, già nell’estate del 2006, le competenti autorità italiane, francesi e svizzere hanno convenuto di considerare i lupi nell’arco alpino occidentale come un’unica popolazione alpina, tenendo conto delle legislazioni nazionali e di quella internazionale. Le esperienze fatte in Italia, Francia e Svizzera mostrano che il reinsediamento del lupo avviene in tre fasi: «La prima consta nell’arrivo di singoli giovani maschi che dapprima vagano su ampi territori, insediandosi dove trovano cibo a sufficienza; la seconda fase vede l’arrivo di giovani femmine, la formazione delle coppie e la riproduzione in piccoli branchi famigliari che iniziano in genere in aree protette tranquille e ricche di selvaggina. La terza fase avviene con la diffusione sul territorio e la riproduzione regolare, con una crescita annua della popolazione del 20/30 per cento». Sempre secondo l’accorta descrizione della Strategia Lupo, in ciascuna di queste fasi e in tutte le regioni in cui ricompare il lupo, si riscontrano problemi e conflitti tipici e in ogni fase variano quindi anche le sfide per la ricerca di soluzioni pragmatiche: «Nella fase 1: singoli lupi trovano cibo a sufficienza in regioni ricche di selvaggina e l’impatto su di essa è quasi impercettibile: i lupi pos-

Franco Banfi

Maria Grazia Buletti

sono così vivere nel paesaggio culturale relativamente a lungo senza essere visti». E in questo caso vien da chiedersi: come non sentirsi «dalla parte del lupo»? Non fosse che: «Prima o poi, iniziano però ad attaccare greggi di bestiame minuti, in particolare non protette, provocando gravi danni». Ciò che rende comprensibile anche la posizione dei suoi detrattori, che si vedono fare razzia dei propri capi di bestiame in stabulazione libera. Senza dimenticare che, quella del lupo, è una presenza che non possiamo relegare a chissà quale zona della Svizzera, perché anche nel nostro cantone avviene regolarmente qualche razzia di capre o altri capi, a indicarne il passaggio, così come pure se ne avvista qualcuno. Uno degli ultimi avvistamenti risale a qualche mese fa, cioè a settembre 2015, quando un cacciatore ne ha addirittura fotografato i membri di una famigliola,

un adulto e tre cuccioli, che giocavano beatamente in valle Morobbia. Avvistamento confermato dal Dipartimento del territorio, dopo le dovute verifiche, che ha portato nuovamente sul piatto le misure di protezione delle greggi auspicate sempre dal documento della Strategia Lupo, nel quale si richiedono in sintesi: «Sostegno nell’attuazione della protezione delle greggi e abbattimento dei singoli lupi responsabili dei danni rilevanti; l’impiego di pastori, di cani e altre misure di protezione delle greggi che permettono di ridurre al minimo i danni ad animali da reddito». Sappiamo che il Ticino è il secondo cantone dove viene confermata la riproduzione di questa specie in Svizzera: esso è presente da ben 14 anni, la sua prima apparizione risale al gennaio del 2001 e da allora è stato confermato il passaggio sul nostro territorio di almeno 14 esem-

plari diversi (12 maschi e 2 femmine) che coi 4 individui osservati in val Morobbia arrivano a un totale di 18 lupi. Un argomento spinoso, controverso e a tratti giustamente emotivo, che ci ha portati ad approfondire alcuni degli aspetti che mette in disaccordo chi vede di buon occhio il suo ritorno e chi è costretto a doverci fare i conti che spesso non tornano. A incuriosirci è stata l’affermazione del professor Luigi Boitani (docente di biologia della conservazione ed ecologia animale all’Università La Sapienza di Roma e uno dei massimi esperti di lupi) che ha parlato ai microfoni di radio3.rai.it. Intervistato sul lupo dal giornalista Marco Motta, Boitani ha così esordito: «Il lupo è ancora vittima della scarsa conoscenza dell’uomo». Luigi Boitani si occupa dei lupi dagli inizi degli anni Settanta, quando insieme all’etologo tedesco Erik Zimen e al «lu-

Giochi Cruciverba Nel regno britannico la regina Elisabetta è la sovrana che ha… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 9, 3, 1, 5, 2, 5)

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Orizzontali 1. Ha la responsabilità

direttiva dello Stato 7. Cibele lo mutò in pino 8. Amò Orione 9. Satellite di Giove 10. Pasticcio di carne 11. Bassezza d’animo 12. Accorte 13. Mutava in oro ciò che toccava 17. Nome femminile 18. Si fanno in fabbrica 19. Profeta biblico 20. Anagramma di agra 21. Ma in latino 22. Disseminata di difficoltà 23. Le prime delle ultime... 24. Ne parlano i giornali

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Scopo del gioco

Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.

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dire orecchio 3. Sei romani 4. Verità tangibile 5. Una consigliera proverbiale 6. Profeta dell’Antico Testamento 10. Un peso del pugilato 11. Efficiente, adeguata 12. Stato dell’America del Sud 13. Affresco da strada a Madrid 14. Infiamma e trascina 15. Dono senza pari 16. È vietato calpestarla 17. Il Far di John Wayne... 18. Un’educatrice 20. Piccola costellazione australe 22. Il settentrione d’Italia 23. L’antico «do»

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Soluzione della settimana precedente

TUTTI IN VACANZA! – Tra amici: «Sei già stato in vacanza quest’anno?» «Sì, sono andato in Sardegna a cavallo tra giugno e luglio» Risposta dell’amico: ANCHE IO ANDRÓ IN SARDEGNA MA IN TRAGHETTO! A N A A V G I N E E R S E L I S P

C L Ó R O Z E R I

H E S I A N O D C I L O L P E O S A R T G E N T E A I N O T T I M T A H E O N E T

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Politica e Economia La questione migratoria In materia di accoglienza Angela Merkel non cambia politica ma mette a rischio la sua rielezione

Storia dell’Isis: 5. puntata Nel 2014 l’ascesa inarrestabile del Califfato in Iraq non fu solo il risultato della guerra siriana ma anche quello della politica settaria del premier iracheno sciita Al-Maliki

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Inchiesta Fra Pechino e il Vaticano sono ancora molti gli ostacoli sulla strada del dialogo

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L’utopia di Ventotene Europa in crisi Il summit della Merkel con Renzi e Hollande, insieme per rilanciare il sogno Ue

nato nel 1944 in uno dei momenti più duri della storia del Vecchio Continente Lucio Caracciolo Che cosa direbbero Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi se oggi potessero contemplare il panorama geopolitico e spirituale dell’Unione europea? I padri del federalismo europeo, autori oltre settant’anni fa del Manifesto di Ventotene – considerato alla stregua di un testo sacro dai fautori degli Stati Uniti d’Europa – proverebbero probabilmente un senso di profonda amarezza. Salvo alcuni inconcussi cultori dell’utopia federalista, nessuno dei quali in posizioni politiche apicali, il progetto di uno Stato europeo è considerato ormai impossibile o addirittura nefando. Ma in che consisteva la proposta lanciata nel 1944 dai due pensatori antifascisti confinati nell’isola di Ventotene? L’analisi era molto netta: con la Seconda guerra mondiale veniva a concludersi la parabola degli Stati nazionali europei. I quali avevano dimostrato di tendere alla risoluzione per via militare delle loro rivalità geopolitiche ed economiche. Di qui

la doppia catastrofe delle guerre mondiali, entrambe partite dal suolo europeo, con conseguenze catastrofiche per il mondo intero. Secondo Spinelli e Rossi, «tutti gli uomini ragionevoli riconoscono che non si può mantenere un equilibrio di Stati europei indipendente (…) né si può spezzettare la Germania e tenerle i piedi sul collo una volta che sia vinta. Alla prova è apparso evidente che nessun paese in Europa può restarsene da parte mentre gli altri vincono». Il bersaglio di questa critica è evidente: il «balance of power», l’equilibrio della potenza caro ai teorici del realismo politico e ai grandi leader europei dell’Ottocento, che ne avevano celebrato i fasti al Congresso di Vienna (1815). Fasti peraltro rinnovati, l’anno dopo la pubblicazione del Manifesto di Ventotene, con gli accordi di Jalta. Conclusione: «La Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia» per risolvere in pace e nel progresso le rivalità storiche che hanno dilaniato il Vecchio Continente. Di più: «Un’Europa libera e unita è premessa necessaria

del potenziamento della civiltà moderna di cui l’èra totalitaria rappresenta un arresto». Insomma, l’Europa continua ad avere una missione universale, ma non può svolgerla che unendosi nella libertà e nella democrazia. Quanto di questa visione è percolato nella costruzione europea, così come l’abbiamo concretamente conosciuta negli ultimi sessant’anni? Non molto. Fin dall’inizio, le Comunità e poi l’Unione europea sono state percepite dagli Stati membri come entità ambigue ma, alla fine, da utilizzare a sostegno dei rispettivi interessi nazionali. Oggi il «dolce mostro di Bruxelles», nella ironica definizione di Hans Magnus Enzensberger, ha perso ogni fascino. Anzi, è spesso bersaglio di critiche severe, se non di vera e propria demonizzazione, quasi che l’«Europa» fosse la sola causa dei mali che oggi scuotono la gran parte dei Paesi che ne fanno parte. Il recente vertice trilaterale Merkel-Hollande-Renzi, svoltosi significativamente a Ventotene (foto), ben simboleggia l’ambiguità dell’attuale

costellazione europea. Mentre inneggiavano allo «spirito di Ventotene», i tre leader incarnavano fisicamente una sorta di para-direttorio che si è autointitolato la guida dell’Unione dopo il referendum britannico sul Brexit. Dove in realtà le gerarchie sono ben chiare: prima la Merkel, secondo a distanza Hollande, terzo Renzi. Se poi analizziamo l’evoluzione delle posizioni dei Ventotto (presto Ventisette, quando Londra ritornerà isola), scopriamo che su tutti i grandi temi le differenze prevalgono sulle assonanze. Così soprattutto riguardo alle migrazioni, dove ciascun Paese cerca di scaricare il problema sul vicino meridionale, con il risultato di porre Grecia e Italia nella scomoda condizione di Stati assorbenti, costretti a tenere sul proprio territorio centinaia di migliaia di aspiranti migranti verso il Nord Europa – dalla Germania alla Scandinavia e alla Gran Bretagna. Così ancora rispetto alla crisi con la Russia. Qui si è determinato uno

schieramento del Nuovo Est (i quattro di Visegrad – Ungheria, Slovacchia, Cechia e Polonia, più Lettonia, Lituania ed Estonia), unito dalla russofobia e fermamente deciso a fare il viso dell’arme a Putin, contando sul supporto, peraltro incerto, degli Stati Uniti d’America e della Gran Bretagna. Germania e Italia, in misura minore anche la Francia, sono invece per un approccio pragmatico, che visto dal Nuovo Est non è altro che un nuovo appeasement. Così infine sulla questione centrale della gestione dell’euro e quindi delle politiche economiche, con la Germania a guidare un drappello di «formiche» nordiche, vocazionalmente affezionate alla politica di austerità, mentre l’Italia e le altre «cicale» mediterranee cercano di strappare qualche maggiore «flessibilità» (leggi: spesa in deficit) agli arcigni custodi della lettera di Maastricht. Tutto questo ci conferma nell’impressione che l’utopia di Ventotene sia destinata a restare tale per il tempo visibile. Per la tristezza di pochi, la gioia maligna di molti, l’incoscienza dei più.


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Politica e Economia

Merkel con le armi spuntate Questione migratoria La Cancelliera vede lontano e pesca nella memoria storica ma il più ristretto orizzonte

politico la punisce, soprattutto la CSU. E la sua apertura all’accoglienza mette a rischio la sua rielezione – Prima parte Alfredo Venturi Wir schaffen das, ce la facciamo: la Germania non cambia politica. In materia di accoglienza dei profughi Angela Merkel non demorde. Sfidando un’opinione pubblica esasperata dai recenti attentati, alcuni dei quali commessi da richiedenti asilo, insiste sulla sua visione aperta e ospitale. Le radici personali aiutano a capirla. Pur essendo nata all’Ovest, la Cancelliera ha vissuto l’infanzia e la giovinezza nel Brandeburgo, la grande «marca» attorno a Berlino che era allora parte integrante della Repubblica Democratica Tedesca. Per quasi la metà gli abitanti del Brandeburgo erano profughi, fuggiti dalle province che la sistemazione postbellica aveva lasciato al di fuori dei nuovi confini. Furono complessivamente dodici milioni i Vertriebene, i tedeschi costretti nel 1945 a lasciare le loro terre divenute straniere, affrontando drammatiche peregrinazioni fra campagne devastate, città in macerie e convogli di truppe occupanti, per rifugiarsi in ciò che restava della Germania prostrata dalla guerra. Venivano dalla Slesia, dalla Prussia orientale, dai Sudeti. Nell’insieme della Repubblica Federale si calcola che un quinto della popolazione, oltre sedici milioni, sia costituita oggi dai profughi e dai loro discendenti. La Merkel è il primo capo del governo nato nel Dopoguerra, precisamente nel 1954, ma non così tardi da non avere per così dire iscritta nel DNA questa memoria storica.

La Germania è sempre stata terra d’immigrazione, al secondo posto dopo gli Stati Uniti La stessa memoria spiega come mai in Germania il rigetto dei migranti sia ampio e diffuso, soprattutto dopo la recente catena di attentati, ma non generale. Eppure i profughi di oggi, rispetto ai Vertriebene del primo Dopoguerra, hanno ben altre caratteristiche: non parlano tedesco, sono portatori di culture diverse, faticano a integrarsi nella nuova realtà. Inoltre fra le loro file si nascondono, come la cronaca ha ampiamente documentato, minacce criminali e terroristiche. Resta il fatto che la Germania è sempre stata terra d’immigrazione, al secondo posto dopo gli Stati Uniti. Non è dunque nuova al trauma dell’incontro fra le culture, le etnie, le fedi. Non a caso è musulmana la più forte fra le minoran-

A Dresda una manifestazione di protesta anti-immigrati islamici. (AFP)

ze conviventi con i tedeschi, quella turca, una comunità che nella Repubblica Federale è ormai parte integrante del paesaggio umano. Non meraviglia dunque la presa di posizione della «brandeburghese» Merkel che nel settembre scorso, in piena crisi dei migranti fra Ungheria e Austria, dichiarò al mondo e ai connazionali sbigottiti che la Germania è pronta ad accogliere i profughi provenienti dai teatri di guerra in Siria e Iraq. La Cancelliera sapeva bene che cosa rischiava, in vista del voto federale in agenda nell’autunno del 2017 e del possibile quarto mandato. Infatti i sondaggi la puniscono. L’ultimo, il Deutschlandtrend di agosto della rete tv ARD, attesta la sua popolarità al 44 per cento; un mese prima era undici punti più alta. Anche alcune elezioni parziali hanno rivelato una marea montante di posizioni critiche, specchio delle preoccupazioni diffuse nel Paese preso d’assalto dai profughi. Fino a quella estrema che si raccoglie sotto un’eloquente denominazione: Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes (Pegida), in cui l’«islamizzazione dell’Oc-

Horst Lorenz Seehofer, leader della CSU e primo ministro bavarese. (AFP)

cidente» viene individuata come inevitabile conseguenza dell’immigrazione di massa. Un sondaggio Forsa dello scorso dicembre rivelò che due terzi dei tedeschi consideravano sopravvalutato questo rischio: ma gli attentati di luglio hanno fortemente ridotto il terreno della tolleranza. Serpeggiano dunque nella Repubblica Federale (come altrove in Europa) malumori, ansie, paure, sentimenti indotti dalle cronache dell’attualità che registrano la forte presenza straniera nelle statistiche criminali, mentre sconvolgono l’opinione pubblica episodi come quello di Colonia, dove la notte di Capodanno centinaia di donne furono circondate, molestate sessualmente e derubate da gruppi di stranieri. Gli episodi recenti di terrorismo hanno acuito l’esasperazione. Tensioni crescenti si registrano da un capo all’altro del Paese, sfociate non solo in manifestazioni di protesta ma anche in azioni violente: nel 2014 si erano registrati duecento attacchi contro i centri per rifugiati, l’anno successivo la cifra si è quintuplicata. Si consideri che nel 2015 sono entrati in Germania un milione di profughi. Stimolata dalla parte più conservatrice della sua maggioranza, la Cancelliera è corsa ai ripari correggendo il tiro, condizionando la politica delle porte aperte attraverso un pacchetto di misure di contenimento. In pratica si escludono i cosiddetti profughi economici, che non provenendo da zone di guerra non hanno diritto all’asilo, s’impone come requisito per l’accoglienza la frequenza di corsi per l’integrazione e l’apprendimento della lingua tedesca, si chiede una strategia europea coordinata. L’effetto della questione migratoria e della risposta governativa, che pone limiti all’apertura di Angela Merkel, è ambiguo. L’opinione pubblica tedesca vive in materia una condizione schizofrenica. Da un lato il continuo afflusso di migranti, le fosche previsioni di tendenza e la percezione del nesso profughiterrorismo fanno sì che continua a farsi strada un’insofferenza latente e a volte rabbiosa, non diversa da quella che induce altri governi ad alzare ponti levatoi, o da quella che nel Regno Unito ha contribuito al successo della Brexit. Dall’al-

tro l’esperienza sedimentata dalla storia alimenta una guardinga disponibilità: accogliere chi fugge le guerre è doveroso, purché anche i profughi siano consapevoli dei loro doveri. Siano cioè disposti a osservare le leggi del Paese di accoglienza, a rispettarne i costumi. La Cancelliera ha espresso questa posizione con un gioco di parole: nicht nur fördern, sondern auch fordern. Non solo favorire ma anche pretendere. La sua scommessa per le elezioni del 2017 e l’eventuale quarto mandato è tutta concentrata in quel fordern. E sulla capacità di usare il peso della Germania, ormai schiacciante dopo la defezione britannica, per costruire a Bruxelles una gestione comune del fenomeno migratorio.

Angela Merkel ha lanciato un segnale controcorrente sfidando l’opinione pubblica ma anche le forze politiche che la sostengono Agendo da statista che guarda lontano e non si lascia fuorviare dal piccolo cabotaggio delle contingenze elettorali, la Merkel ha lanciato un segnale controcorrente, sfidando non soltanto l’opinione pubblica spaventata da un fenomeno migratorio che tende sempre più a connettere con le attività terroristiche, ma anche la coesione delle forze politiche che la sostengono. Le elezioni del settembre 2013 le assicurarono un ottimo risultato personale, con il 41,5 per cento dei voti ai partiti della sua Unione (CDU e CSU), ma al tempo stesso lasciarono l’alleato della precedente legislatura, i liberal-democratici dell’FDP, al di sotto della soglia di sbarramento e dunque fuori dal Bundestag. Saltata così la vecchia maggioranza, fu necessaria una nuova grande coalizione con i socialdemocratici dell’SPD. Ma non sono certo loro, storicamente inclini all’accoglienza e all’integrazione, a ostacolarla su questo punto specifico, bensì gli uomini della CSU bavarese, il partito fratello della CDU, e anche alcune frange della stessa CDU di cui la cancelliera è presidente.

È stato proprio Horst Seehofer, presidente della CSU e primo ministro della Baviera, a criticare le aperture della Merkel (sia pure senza arrivare, come i Pegida, a chiamarla Flüchtlingskanzlerin, Cancelliera dei profughi), salvo poi salutare le nuove norme sull’asilo che ridimensionano questa posizione. Seehofer interpreta l’opinione prevalente nel suo Freistaat, la cui frontiera con l’Austria è la principale porta di accesso alla Repubblica Federale per i migranti provenienti dalla rotta balcanica e da quella mediterranea. Eppure un recente sondaggio in Baviera rivela che i consensi della CSU, pur rimanendo largamente maggioritari, sono in calo, mentre aumenta la popolarità personale di Seehofer. Bisogna considerare che le critiche alla Merkel rientrano in un contesto che va oltre la questione dei migranti investendone altre più generali, dal rapporto con l’Europa alle politiche economiche e finanziarie. Si arriva a parlare di una possibile rottura fra i due partiti dell’Unione, di una CSU che potrebbe svincolarsi dall’abbraccio con la CDU e nel 2017 fare campagna a sé; sempre più fra i cristianosociali, e non solo, si accarezza l’idea di Seehofer alla Cancelleria. Comunque si sviluppi la vertenza, è chiaro che il voto dell’anno prossimo si annuncia per la Merkel una scommessa più ardua rispetto a quelle del passato. Il cammino verso il quarto mandato è disseminato di insidie che potrebbero indurla a non candidarsi lasciando così via libera al leader bavarese. Molto dipenderà da fattori esterni: l’evoluzione del fenomeno migratorio in qualità e dimensioni, le conseguenze concrete della Brexit e le eventuali emulazioni, la presenza o l’assenza di una politica europea coordinata dell’accoglienza. Ma la generosa apertura che stupì il mondo spicca sullo sfondo delle paure nazionali, delle frontiere sbarrate e dell’ossessiva ricerca del consenso come il recupero di quella dimensione morale che la politica sembra avere smarrito. Anche se lo slancio di allora è stato corretto dal pragmatismo del potere e da un’attualità brutale, anche se alla Cancelliera venuta dall’Est potrebbe costare la rielezione.


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Politica e Economia

Il manifesto del Califfato Storia dell’Isis I jihadisti in Iraq hanno sempre puntato sullo scontro fra civiltà, e la loro forza, oggi come ieri,

dipende dal gioco di equilibri della suddivisione del potere fra le sue comunità etnico-confessionali – 5. puntata Marcella Emiliani Nel 2014, l’ascesa inarrestabile dell’Isis, o Daesh, in Iraq, che il 29 giugno aveva portato alla proclamazione del Califfato, non era solo il risultato della sua cinica strumentalizzazione della guerra civile in Siria. A dare una mano all’organizzazione del califfo Ibrahim (alias Abu Bakr al-Baghdadi) era intervenuta anche la miope politica settaria del primo ministro iracheno Nuri alMaliki, in carica ininterrottamente dal 2006. Amico di vecchia data dell’Iran, aveva fatto di tutto per sabotare il progetto americano di un’equa divisione del potere fra le comunità etnico-confessionali del Paese, a tutto vantaggio della propria, quella sciita. Il che si era tradotto in un accentramento del potere ben poco equilibrato nelle mani sue e del suo partito, il Partito islamico della Da’wa (predicazione), e nel costante tentativo di indebolire tanto la componente curda, quanto quella sunnita nel parlamento e nella società irachena. Ma l’errore più grossolano fu quello di tradire la promessa fatta fin dal 2007 agli americani e ai sunniti di integrare i miliziani della Sahwa (o Insurgency) nelle forze militari e di sicurezza. La Sahwa, ricordiamo, era stato il movimento di guerriglia sunnita che dal 2003 al 2007 si era opposto alla presenza americana in Iraq, aveva direttamente e indirettamente favorito l’ascesa di al-Qaeda in Iraq, per poi accettare la proposta di collaborazione anti-terroristica avanzata dal generale statunitense Petraeus agli sceicchi tribali della provincia sunnita di al-Anbar. Integrare i miliziani della rivolta nell’esercito e nei corpi di sicurezza iracheni avrebbe significato riconoscere un ruolo politico agli stessi sceicchi e – cosa non trascurabile – garantire uno stipendio alle migliaia di combattenti rimasti disoccupati dopo il 2007. Se vogliamo proprio dire la verità, in un Paese corrottissimo come l’Iraq post-saddamita, essere impiegati nei ministeri, nei circuiti amministrativi e nella Difesa nazionali significava entrare nel classico pollaio delle galline dalle uova d’oro. In quest’ottica la strategia di al-Maliki puntava a privare l’intera comunità sunnita di importanti fonti di entrate limitando il suo accesso alle cariche e agli impieghi pubblici, ben sapendo che in Iraq i sunniti sono insediati in aree semidesertiche e prive di risorse, soprattutto di quelle petrolifere che sono concentrate nel nord curdo e nel sud sciita. L’ostracismo nei confronti dei membri e degli sceicchi della Sahwa si traduceva inoltre nella loro persecuzione alla luce del sole con l’accusa di «ba’athismo» o peggio ancora di terrorismo, per non scordare la vecchia tattica del divide et impera nei confronti della sua intera leadership. Inutile dire che i sunniti, in quel 2014, si sentivano a dir poco umiliati e discriminati dalla politica ad escluden-

L’ex premier iracheno Al-Maliki.

Un soldato siriano con la bandiera dell’Isis dopo la liberazione di Palmira. (AFP)

dum del premier che impostò la campagna elettorale per le parlamentari del 30 aprile proprio sulla criminalizzazione dell’intera comunità. Parte degli sceicchi, a quel punto, tornò a giocare la carta terroristica appoggiando quell’ Isis che sembrava forte e determinato a sostenere la causa sunnita. Al-Maliki e il suo partito, la Da’wa, il 30 aprile vinsero le elezioni alla testa della Coalizione dello Stato di diritto, ma ormai l’Isis dilagava nel nord e nell’ovest del Paese. Per il primo ministro la situazione diventò drammatica dopo la caduta della seconda città dell’Iraq, Mosul, il 10 giugno dello stesso 2014, che ben più della proclamazione del Califfato, denunciava le gravissime carenze della Difesa e degli apparati di sicurezza iracheni, il cui controllo al-Maliki aveva monopolizzato. A quel punto gli Stati Uniti, che avevano speso miliardi di dollari per la ricostruzione delle Forze armate e di polizia prima e dopo il loro ritiro dall’Iraq, completato nel 2011, imposero a Nuri al-Maliki di farsi da parte, per insediare alla testa del governo un altro membro del suo partito, Haydar al-Abadi, sempre sciita, ma con una visione meno settaria della politica. Il tutto per dire che, come nel 2003 e nel 2014, ancor oggi la forza del terrorismo jihadista in Iraq dipende in gran parte dal delicatissimo gioco di equilibri della suddivisione del potere tra le sue comunità etnico-confessionali. Ma fu il tentato genocidio degli yazidi a Sinjar e la persecuzione dei cristiani caldei a Mosul, messi in atto dall’Isis, a convincere il presidente Barak Obama a impegnare ancora una volta militarmente gli Stati Uniti in Iraq con l’Operazione Inherent Resolve (Oir – Determinazione innata o intrinseca) nell’ambito della coalizione di 66 Stati (Combined Joint Task Force – Cjtf) sotto comando americano. I bombardamenti, iniziati l’8 agosto nel nord iracheno a copertura aerea della controffensiva curda contro il califfato, non si sarebbero più fermati. Anzi il 23 settembre si estesero alla Siria in appoggio alle opposizioni non jihadiste al regime di Bashar al-Assad ormai prese fra tre fuochi: l’esercito e l’aviazione governativi, le milizie sciite iraniane e libanesi (Hezbollah) al fianco di Bashar e le decine di organizzazioni islamiste radicali sunnite moltiplicatesi nel Pa-

ese, con il Fronte al-Nusra qaedista e il Daesh in testa. Tornando all’Iraq, la conquista di Mosul, presto proclamata capitale irachena del Califfato, provocò da una parte un’ulteriore polarizzazione tra sunniti, sciiti e curdi e dall’altra spinse l’Isis a internazionalizzare il proprio operato. Sul primo fronte, gli sciiti – e con loro l’Iran – si convinsero che la minoranza sunnita – sotto la bandiera nera dell’Isis – intendesse tornare a egemonizzare il potere come aveva fatto dall’indipendenza fino alla caduta di Saddam Hussein nel 2003. Perciò cominciarono a organizzare milizie concepite al solo scopo di contrastare l’avanzata del Califfato, le Forze popolari di mobilitazione, sostenute da Teheran e – come si sarebbe imparato in seguito – armate anche da Mosca.

Nel 2014 i sunniti si sono sentiti discriminati dalla politica settaria del premier iracheno Al-Maliki Ad invitare i giovani ad arruolarsi volontari in queste milizie fu nientemeno che la massima autorità religiosa sciita in Iraq, l’ayatollah Ali al-Sistani. Il pio al-Sistani però non poteva prevedere che proprio quelle milizie si sarebbero macchiate dei peggiori delitti ed efferatezze contro i civili sunniti quando fossero arrivate a «liberare» villaggi o cittadine cadute sotto la ferula dell’Isis. Dal canto loro i curdi, approfittando della copertura aerea americana, già il 14 giugno 2014 assunsero il controllo del polo petrolifero di Kirkuk, da decenni conteso tra arabi e curdi, e che la nuova Costituzione irachena non aveva compreso nel governatorato regionale curdo semi-autonomo. Detto in altre parole, la reazione all’espansionismo del Califfato in Iraq aggravò la guerra civile e lo scontro settario nel Paese. L’unico attore a cui tutto questo faceva gioco era proprio l’Isis. Caos, insicurezza, sangue sono sempre stati e continuano ad essere il «brodo di coltura» dello Stato islamico, che proprio nel 2014, perfezionò i propri meccanismi di autofinanziamento e cominciò a

proiettarsi apertamente sullo scenario internazionale. Con l’acquisizione di decine di pozzi iracheni, il contrabbando di petrolio continuò a rappresentare la principale fonte di entrate del Califfato per cifre che andavano – tra Siria e Iraq – dai due ai tre milioni di dollari al giorno. Ma a queste vanno aggiunte le rapine nelle banche delle città cadute sotto il suo controllo (la sola Banca di Mosul portò nelle casse di Abu Bakr alBaghdadi 420 milioni di dollari); i sequestri e i relativi riscatti (quando i prigionieri non venivano sgozzati davanti alle telecamere); la tassazione forzata di qualsiasi attività economica delle aeree conquistate per una ricchezza totale stimata in circa 2 miliardi di dollari. La qual cosa ai tempi spinse Matthew Levitte, direttore del programma antiterrorismo del Washington Institute for Near East Policy, a dichiarare: «Lo Stato islamico è probabilmente il gruppo terroristico più ricco mai conosciuto». Un capitolo a parte dell’autofinanziamento del Daesh è rappresentato dal contrabbando di opere d’arte. A Mosul infatti l’Isis non mise le mani solo sui caveaux delle banche, ma anche sul museo archeologico dell’antica Ninive, capitale dell’impero assiro, le cui rovine sorgono alla sua periferia. Il 26 febbraio 2015 l’Isis diffuse via Twitter un filmato che fece il giro del mondo in cui si vedevano gli uomini in nero e i loro scherani barbuti prendere a picconate opere d’arte vecchie di 3’000 anni rappresentanti re, divinità, tori alati tipici della iconografia mesopotamica che ai loro occhi erano solo testimonianze della jahiliyya, alias l’idolatria e l’ignoranza pre-islamica. Ma avevano avuto mesi per svuotare le sale del museo e far sparire i pezzi di maggior pregio e meno ingombranti per immetterli nei

circuiti del contrabbando di opere d’arte. Le mura dell’antica Ninive invece le avevano abbattute. La stessa operazione di demolizione propagandistica venne fatta in Siria nel meraviglioso sito archeologico di Palmira, il «gioiello del deserto», conquistata il 20 maggio 2015 (e fortunatamente liberata dall’esercito siriano il 27 marzo 2016). L’intento dietro questi scempi era la cancellazione della memoria storica di qualsiasi civiltà che non fosse quella estremista islamica del sedicente Califfato. Perché l’Isis puntava e punta apertamente allo scontro di civiltà e il manifesto di questo suo fine millenaristico, dunque proiettato su tutto il pianeta, è la copertina del n.4 di «Dabiq», la sua rivista online comparsa la prima volta sul web nel luglio 2014, che – sotto il titolo La crociata fallita – raffigurava la bandiera nera del califfato sventolante sull’obelisco di piazza San Pietro a Roma. Uno stupro simbolico paragonabile al picconamento dei tori alati assiri. E una promessa al cristianesimo: «Vi distruggeremo». Lo stesso nome della rivista, Dabiq, è un’anticipazione della fine dei tempi. Dabiq, infatti, è la località in cui si realizzerà l’apocalisse, e dove – secondo un detto del profeta Maometto – «un terzo dei musulmani che combatteranno fuggiranno ed Allah non li perdonerà mai; un terzo verranno uccisi e saranno presso Allah i martiri più amati; un terzo vinceranno e questi non saranno mai colpiti dalla fitna (cioè dalla guerra o dall’odio fratricida)». Su questo sfondo il jihad, la guerra santa, perdeva definitivamente il suo carattere difensivo originario per diventare strumento della conquista dell’intero pianeta e un dovere tassativo – non più una libera scelta – per tutti i musulmani del mondo. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Chiesa e Cina, molti gli ostacoli sulla strada del dialogo Inchiesta della Reuters Xi Jinping teme che il Papa possa giocare in Cina un ruolo simile a quello che ebbe

Giovanni Paolo II qualche decennio fa nella disgregazione dell’impero sovietico Beniamino Natale Il dialogo tra rappresentanti del governo cinese e il Vaticano è in corso ma sembra che, almeno per il momento, non ci sia un accordo pieno né all’interno della Chiesa né nel Partito Comunista Cinese. I due cardinali cinesi che risiedono a Hong Kong, John Tong e Joseph Zen, sono su posizioni opposte: il primo a favore di un accordo sulla nomina dei vescovi, il secondo fortemente contrario in nome di una libertà effettiva di religione che secondo lui Pechino non è pronta a concedere. Quanto al PCC, ha dichiarato alla Reuters una fonte «legata alla leadership cinese», «c’è una divisione, (non è chiaro) se ci si può fidare del Papa o no». Il gruppo dirigente di Pechino diretto dal segretario generale del PCC e presidente della Repubblica Xi Jinping è ossessionato dalla possibilità che la Chiesa giochi in Cina un ruolo simile a quello che ebbe qualche decennio fa Giovanni Paolo II nella disgregazione dell’impero sovietico.

La Costituzione cinese garantisce la libertà di culto ai seguaci delle cinque religioni riconosciute In anni più recenti le cosiddette «rivoluzioni colorate» in Paesi ex-comunisti e l’esplosione di movimenti democratici in alcuni Paesi arabi hanno rafforzato quella paura. Secondo l’agenzia, che ha dedicato un’approfondita inchiesta alla situazione dei rapporti tra Chiesa e Cina, «per il Partito Comunista – che è ufficialmente ateo ma che riconosce cinque religioni: buddhismo, taoismo, islam, protestantesimo e cattolicesimo – l’esistenza di una religione che riconosce in un leader straniero la propria autorità morale è vista come un potenziale pericolo». La Reuters prosegue sottolineando che il Ministero degli esteri di Pechino è favorevole ad un accordo perché questo porterebbe la Santa Sede a rompere le relazioni diplomatiche con Taiwan. Il Vaticano è infatti l’unico Paese occidentale ad avere la sua rappresentanza diplomati-

L’ex presidente taiwanese durante un incontro a Taipei con il cardinale francese Jean-Louis Tauran. (AFP)

ca, la Nunziatura apostolica in Cina, a Taipei e non a Pechino. «Ma – prosegue l’agenzia, che ha intervistato decine di persone coinvolte nelle trattative a Roma, Pechino e Hong Kong – il Dipartimento del fronte unito, un ufficio del Partito il cui compito è quello di espandere l’influenza della Cina, è meno entusiasta, temendo la minaccia dell’infiltrazione di una religione straniera». La Costituzione cinese garantisce la libertà di culto ai seguaci delle cinque religioni riconosciute. Questa libertà si esercita però entro confini ben ristretti, vale a dire all’interno delle politiche stabilite dagli organismi statali come l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, che ritiene di aver il diritto di nominare i vescovi. Attualmente in Cina ci sono 110 vescovi. Di questi una trentina appartengono alla cosiddetta Chiesa «clandestina», cioè sono stati nominati dal Papa ma non sono riconosciuti dal governo cinese e sono perseguitati dalle autorità, che li vorrebbero costringere ad aderire all’Associazione. Otto vescovi, invece, sono stati scelti dai cattolici «patriottici» e non riconoscono l’autorità papa-

le. Tre di loro sono stati scomunicati e almeno due di loro sono sposati e hanno figli. Secondo il cardinale Joseph Zen, dato il momento che sta attraversando la Cina, dove la repressione di tutte le istanze della società civile si è inasprita negli ultimi tre anni, «un accordo accettabile non è possibile». «Ho paura che lo faranno comunque, perché (il Vaticano) lo vuole ad ogni costo. Ma c’è una linea di fondo e non c’è speranza che (i cinesi) cedano su quello», ha detto il cardinale in una conversazione con «Azione». «Vogliono che si confermi lo stato attuale, è chiaro. Non vede (il Papa) che stanno facendo i prepotenti dappertutto e che in Cina stanno soffocando tutto?». «Adesso» prosegue il cardinale riferendosi alla pratica sempre più diffusa in Cina di costringere critici e dissidenti a «confessare» i loro «crimini» davanti alla telecamere della Tv di Stato «ogni giorno c’è qualcuno che fa l’autocritica in tv, dicendo “ho sbagliato”, “mi pento”, adesso non ammazzano più la gente ma ammazzano le coscienze, umiliano la gente. Ormai non ci sono atti di violenza ma c’è una situazione

di violenza». «Non è possibile per la Chiesa accettare l’Associazione patriottica. Per aver un buon accordo devono (i cinesi) cedere un lungo pezzo. Ma non cedono. Quando hanno conquistato tutto, perché dovrebbero cedere? Vogliono ottenere di più, vengono a parlare per ottenere di più non per cedere. Non è realistico pensare che vengano veramente a contrattare». Zen sottolinea che «questo Papa viene dal Sud America e lì il problema erano i governi militari che insieme ai ricchi opprimevano il popolo e anche nella Chiesa c’era la Teologia della liberazione. Il Papa non la poteva accettare, ma lì quando un prete lavorava per il popolo veniva chiamato “comunista” e in alcuni casi ucciso. Lui ha conosciuto i comunisti perseguitati, non i comunisti persecutori». Il fatto che dai cattolici cinesi, anche quelli che appartengono alla Chiesa clandestina – stimati in circa sei milioni, la metà dei fedeli cinesi – si siano levate voci a favore del dialogo è dovuto al fatto che «non sono liberi di parlare». «Io – conclude Zen – ho contatti quotidiani con decine di cattolici in tutta la Cina e so che hanno paura di un accordo…».

Secondo l’altro cardinale cinese, al contrario, il dialogo – che si svolge a Roma in una Commissione congiunta creata sul modello di quella che più di 20 anni fa elaborò l’accordo tra Cina e Gran Bretagna per il ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese – porterà benefici ad entrambe le parti. In una lungo articolo apparso sulla rivista dei missionari «Asianews» Tong sostiene che un accordo sulla nomina dei vescovi è possibile, citando l’esempio del Vietnam: in questo caso la Santa Sede propone tre candidati e il vescovo viene scelto tra questi dal governo di Hanoi. «Alcuni – ha scritto il cardinale – non apprezzano il contenuto e gli obiettivi del dialogo tra la Santa Sede e Pechino, dal momento che la Santa Sede non ha pubblicamente criticato la politica cinese sui diritti umani, che non intende far cambiare nessun aspetto del sistema politico cinese: la Santa Sede sembra rinunciare a promuovere alcuni valori base». «Tale genere di critiche – prosegue Tong – non è giusto né obiettivo. Papa Benedetto XVI nella Lettera a tutti i Cattolici cinesi del 2007 ha detto chiaramente che la Chiesa deve preoccuparsi della giustizia sociale e non rinunciare a fare i dovuti sforzi per promuoverla; tuttavia, la Chiesa non può certamente ingerirsi negli ambiti che sono di competenza del governo». L’ostacolo più difficile da superare rimane quello dell’Associazione patriottica – i cui funzionari hanno la doppia veste di cattolici e di comunisti e che con un accordo rischierebbero di perdere gran parte del loro potere – che è stata condannata esplicitamente da Benedetto XVI nella lettera citata da Tong. La vicenda della lettera di Papa Ratzinger è esemplare delle incomprensioni tra le due parti e che rendono difficile un accordo «senza vinti né vincitori» come quello prefigurato da Tong. Considerata un «importante passo» dalla Santa Sede, la lettera fu letta come un messaggio di intransigenza dalla leadership cinese e portò alla sospensione dell’accordo non scritto in base al quale, negli anni precedenti, numerosi vescovi venivano nominati dall’Associazione patriottica ma poi erano liberi di chiedere perdono al Papa, entrando quindi in «comunione spirituale» col Pontefice. Il dialogo fu bruscamente interrotto ed è ripreso solo nel 2013 per volontà di Papa Bergoglio. Annuncio pubblicitario

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Il velo della discordia Confederazione Partiti e opinione pubblica si dividono a proposito dell’opportunità di introdurre il divieto

di indossare il velo integrale per le donne appartenenti alla comunità islamica Marzio Rigonalli Il caldo estivo non ha completamente intorpidito la scena politica svizzera. Il merito, se di merito si può parlare, è in gran parte attribuibile all’irrompere del dibattito sul divieto di indossare il velo integrale (burqa e niqab) sul territorio nazionale. L’avvio di una lunga serie di prese di posizione è stato dato dal consigliere di Stato zurighese Mario Fehr. In un’intervista rilasciata alla «Neue Zürcher Zeitung», lo scorso 11 agosto, il magistrato socialista, responsabile della sicurezza nel suo cantone, si è dichiarato contrario all’uso del velo integrale, adducendo varie ragioni, riassumibili nel concetto che in una società liberale tutti devono mostrare il proprio volto. La dichiarazione di Fehr ha subito scatenato la reazione contraria dei giovani socialisti zurighesi, che hanno addirittura minacciato di non sostenere più il consigliere di Stato alle prossime elezioni cantonali, e degli ambienti turistici di Zurigo, preoccupati delle possibili conseguenze negative che il divieto del velo integrale potrebbe avere per gli alberghi di lusso ed i negozi della Bahnhofstrasse.

La soluzione legislativa ticinese è guardata con favore: il comitato di Egerkingen è pronto a lanciare un’iniziativa Mario Fehr è una forte personalità, appartiene all’ala liberale del partito socialista e nel suo cantone raccoglie consensi anche nelle aree degli altri partiti. La sua presa di posizione non è rimasta isolata; altri tenori socialisti si sono schierati dalla sua parte, come la consigliera agli Stati di Basilea Città, Anita Fetz, o il consigliere di Stato vodese Pierre-Yves Maillard, che si è dichiarato contrario alla tolleranza senza limiti e che ha annunciato di non opporsi ad un’iniziativa popolare che proporrà il divieto del velo integrale. È così emersa una frattura su questa questione all’interno del parti-

Nel nostro cantone il divieto di coprire il volto con burka o niqab è in vigore dal 1 luglio 2016. (Keystone)

to socialista, una frattura che si ritrova però anche negli altri partiti politici. Nel centro-destra, tendenzialmente favorevole al divieto, vi sono personalità schierate sul fronte del no, come Kurt Fluri, consigliere nazionale liberale radicale solettese e perfino in casa UDC vi sono voci che non vedono di buon occhio l’introduzione di una simile misura nella società liberale. Il dibattito, dunque, è lanciato e si intensificherà quando si avvierà la campagna in vista di una votazione popolare. Come è noto, il comitato di Egerkingen ha promosso un’iniziativa che chiede l’estensione a tutto il territorio nazionale del divieto del velo integrale nei luoghi pubblici in vigore nel canton Ticino. Il popolo ticinese ha detto sì al divieto il 22 settembre 2013, con una maggioranza del 65%, e la misura è entrata in vigore lo scorso 1. luglio. Il comitato di Egerkingen è guidato dal consigliere nazionale UDC Walter Wobmann ed è noto anche per aver lanciato l’iniziativa contro l’edificazione di nuovi minareti, approvata in votazione popolare il 29 novembre 2009. Con ogni probabilità, le 100 mila firme necessarie per questa

nuova iniziativa verranno raccolte in tempi brevi ed il popolo, quindi, dovrà pronunciarsi. I fautori e gli avversari del divieto del velo integrale nei luoghi pubblici elencano numerosi argomenti, dietro ai quali si delineano due diverse concezioni del ruolo dello Stato nella società civile. Per gli avversari del divieto, lo Stato non deve intervenire. Ogni individuo deve poter esercitare liberamente la propria religione e deve poterlo fare nel modo che gli sembri più conforme alle sue convinzioni. Non bisogna, quindi, intralciare la libertà della donna di vestirsi come vuole. D’altronde, il numero di persone interessate è piccolo e non merita l’attenzione che gli vien dedicata, prescrivendo una norma generale valida per tutti. Per i difensori del divieto, invece, lo Stato ha il diritto, per certuni il dovere, di prescrivere le norme che sono alla base del convivere civile. Le libertà individuali sono sacrosante, ma il loro esercizio non deve danneggiare i valori della società in cui vengono esercitate. In una società liberale tutti mostrano il viso e nessuno deve poter nasconderlo. Il velo integrale non fa

parte della cultura occidentale e non è neanche un simbolo dell’islam. È soltanto un’usanza regionale, in vigore soprattutto in Arabia Saudita, negli Stati del Golfo ed in Afghanistan. È un indumento che nuoce alla coesistenza pacifica in una società occidentale, che frena l’integrazione delle persone che sono chiamate ad avvicinarsi alla cultura che caratterizza il modo di vivere degli occidentali, che crea tensioni e che promuove la creazione di società parallele, ostili all’Occidente ed ai suoi valori. Per di più, non rispetta l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, un diritto che le nostre società hanno conquistato dopo lunghe ed estenuanti battaglie. La società liberale difende determinati valori come la trasparenza, o la convivenza fondata su una comune visione dei rapporti umani e confina nella sfera privata le singole convinzioni religiose. È suo dovere difendere questi valori contro qualsiasi minaccia esterna ed interna. Il dibattito sul velo integrale nei luoghi pubblici non è una prerogativa elvetica. Ha coinvolto e coinvolge tutt’ora molti Paesi europei. In Francia, il divieto del burqa e del niqab è

stato introdotto nel 2010. La misura è stata attaccata davanti ai tribunali, ma senza successo. Nel 2014, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha giudicato il divieto deciso dalle autorità francesi compatibile con il rispetto dei diritti umani. Anche in Belgio vige un divieto analogo che risale al 2011. In altri Paesi, come l’Olanda, il Lussemburgo, la Slovenia o la Bulgaria, è stata imboccata la strada che porterà ad un risultato analogo a quello francese. Molto recente è il dibattito che è sorto in Germania dopo gli attentati di luglio in Baviera, a Ansbach, davanti a un ristorante, a Würzburg, in un treno, e a Monaco, in un centro commerciale. Il governo tedesco sta preparando un pacchetto di misure di sicurezza che prevede maggiori controlli, più forze di polizia ed anche il divieto, almeno parziale, del velo integrale nei luoghi pubblici. Sono misure che tentano di rispondere alle preoccupazioni che si sono diffuse nell’opinione pubblica, ma che hanno anche una forte connotazione politica. Si tratta di far fronte alla perdita di consensi che Angela Merkel sta registrando a causa delle sue scelte sull’immigrazione e all’avanzata della destra dura, rappresentata dall’AfD (Alternative für Deutschland), annunciata dai sondaggi. Già in settembre ci saranno due importanti elezioni regionali: il 4 nel Meclemburgo-Pomerania e il 18 a Berlino. Nelle ultime settimane, al dibattito sul divieto del velo integrale si è aggiunto poi un nuovo capitolo, quello del burkini. Su varie spiagge europee, alcune donne musulmane hanno ostentato il costume da bagno che copre tutto il corpo, suscitando una certa perplessità e, in certi casi, una dichiarata avversità. Le autorità locali sono intervenute in diversi posti, soprattutto in Francia, ma anche in Belgio, in Austria ed in Ticino, vietando l’uso del burkini, nel quale molti hanno visto una provocazione. La vicenda, però, è ancora lungi dall’esser conclusa e avrà uno sbocco soddisfacente soltanto quando si troverà una possibile una soluzione condivisa, o quando una sentenza giudiziaria definitiva porrà fine ai numerosi ricorsi che sono già stati annunciati. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Il futuro del sistema pensionistico Previdenza sociale La Commissione del Nazionale si distanzia in parte da quella degli Stati, ma lasciando spazio

per un compromesso. Su tutto pesa il voto sull’iniziativa «AVS plus» Ignazio Bonoli A meno di un mese dalla votazione popolare sull’AVS, il Parlamento sta delineando le posizioni sull’altro grande tema della riforma del sistema pensionistico svizzero. Il momento è quindi politicamente delicato, poiché uno dei tanti motivi del contendere è dato proprio dalle future rendite dell’AVS, al punto che il grande cantiere di riforma di AVS e casse pensioni del consigliere federale Berset viene ormai chiamato nei media la «riforma delle rendite».

Il 25 settembre si voterà sulla proposta di aumentare le rendite AVS di circa il 10 per cento E questo è proprio il tema dell’iniziativa in votazione il 25 settembre, che chiede né più né meno un aumento delle rendite AVS di circa il 10%. Lo scopo dell’iniziativa è quello di dare un peso maggiore all’AVS (la pensione uguale per tutti per principio) nei confronti delle casse pensioni. Anche perché in futuro le casse pensioni, a causa dell’invecchiamento della popolazione, da un lato, e degli scarsi rendimenti dei mercati finanziari, dall’altro, non potrebbero più garantire un livello di rendite adeguate.

Il Consiglio federale (con il Parlamento) si oppone all’iniziativa, soprattutto a causa dei costi elevati che comporterebbe (circa 4 miliardi all’anno), mettendo fra l’altro in pericolo l’esito del progetto di riforma in cantiere e proprio in questi giorni all’esame delle Camere federali. Uno dei principali punti di disaccordo è quello dell’aumento dell’età di pensionamento, che il progetto vuole portare a 67 anni per tutti. Un punto voluto e accettato dalla Commissione della sanità e della socialità del Consiglio Nazionale con una maggioranza risicata e che probabilmente verrà respinto dal Consiglio degli Stati. La Commissione sta quindi cercando soluzioni che potrebbero favorire il compromesso, ma anche, a più breve scadenza, un sostegno ai contrari all’iniziativa in votazione, in attesa appunto della riforma completa in discussione. Diventano quindi importanti i costi. Rispetto al progetto del Consiglio degli Stati, la Commissione del Nazionale propone circa 2 miliardi di franchi di spese in meno nel 2030. Rinunciando a un aumento generale di 70 franchi al mese delle rendite (voluti dagli Stati), il Nazionale rinuncerebbe all’aumento dell’età di pensionamento a 67 anni, ma proporrebbe altre misure di risparmio: l’età di pensionamento delle donne verrebbe portata a 65 anni, distribuita su quattro anni, con un risparmio di 1,2 miliardi. Però le rendite delle donne verrebbero aumentate in modo da compensare le differenze salariali con gli

Nuovi scenari economici chiedono la revisione dei modelli previdenziali. (Keystone)

uomini; il costo sarebbe di 260 milioni all’anno. Le rendite vedovili sarebbero concesse solo a chi ha figli sotto i 18 anni (25 se agli studi), con un risparmio di 410 milioni. Inoltre le rendite per figli verrebbero adeguate a quelle di vecchiaia, con un risparmio di 200 milioni di franchi. Per il finanziamento la Commissione prevede dapprima un aumento dell’IVA dello 0,6% (entrate + 2,1 miliardi). Gli Stati prevedono però l’1%, per cui ci vorranno altre misure di risparmio con una nuova riforma nel 2028. La Commissione ha però deciso con una maggioranza

risicata e molte astensioni, per cui non si esclude qualche ripensamento. Un altro grande problema, del resto già sollevato nel messaggio governativo, è quello della garanzia delle prestazioni delle casse pensioni. La proposta della Commissione del Nazionale comporta ancora una lacuna di circa 800 milioni di franchi. L’entrata in vigore a partire dal 2028 provocherebbe problemi per chi ha oltre 50 anni. Per risolverli la Commissione non vuole un istituto centrale, ma assegnerebbe il compito alle singole casse pensioni. Le minori rendite sarebbero conseguenza della ri-

duzione del tasso di conversione dal 6,8 al 6%. A più lunga scadenza la compensazione avviene con l’inclusione dei diciottenni nel progetto e un aumento dei contributi fra i 25 e i 44 anni d’età. L’eventuale accettazione dell’iniziativa popolare sull’AVS, che chiede un aumento delle rendite piuttosto corposo, porrebbe parecchi problemi all’obiettivo principale della riforma del sistema pensionistico, che è quello di garantire in futuro il pagamento delle rendite e il loro finanziamento. Le vie percorribili sono però soltanto due: aumentare le entrate sia attraverso i contributi personali e del datore di lavoro, sia attraverso un aumento dell’IVA, oppure ridurre le rendite. Per percorrere queste vie si prevede sia di ridurre il periodo di percezione delle pensioni (aumento dell’età di pensionamento), sia di aumentare il periodo di contribuzione (idem). Il problema dell’aumento dell’età di pensionamento viene mantenuto, anche se a livello parlamentare si pensa che sarà uno dei più difficili da far accettare. È quindi prevedibile che questo tema susciterà ancora parecchie discussioni. D’altro canto tutti i Paesi europei stanno attuando questa misura, non fosse che per tener conto dell’aumento notevole della speranza di vita e quindi del prolungamento dell’età lavorativa. In caso contrario, il finanziamento delle rendite da parte delle persone attive (e/o dei consumatori) sarà ben più oneroso. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’importanza economica della scuola Oggi si riaprono le scuole. È il momento giusto per parlare della loro importanza per lo sviluppo economico e sociale del Cantone. I padri della nostra piccola repubblica avevano chiare in mente le priorità. Prima fecero le strade e poi fecero le scuole. Con le strade riuscirono a mantenere e a sviluppare il commercio di transito che, in quei tempi, era la sola attività economica che portava risorse all’erario cantonale, sotto forma di dazi e pedaggi. Realizzando la scuola dell’obbligo, con uno sforzo che continuò per tutto il secolo, i politici ticinesi dell’Ottocento hanno messo le basi per lo sviluppo di altre attività nei settori secondario e terziario. Il tasso di scolarizzazione dei giovani ticinesi (parliamo della scuola elementare), all’inizio dell’Ottocento, non superava il 50 per cento. Un secolo più tardi aveva raggiunto

già il 100 per cento e quel che conta di più, non solo per i maschi, ma anche per le femmine. Tuttavia, un’inchiesta della Confederazione del 1905, sulla partecipazione al lavoro degli scolari, rivelava che, in Ticino, tre quarti degli stessi svolgeva, anche durante l’anno scolastico, un’attività lavorativa. Il 90 per cento degli scolari che lavoravano lo facevano con grande probabilità nell’azienda agricola famigliare. Fino alla seconda guerra mondiale il problema di conciliare la frequenza della scuola con l’impegno lavorativo nell’azienda agricola famigliare continuò a far discutere. Poi, con la decadenza dell’agricoltura e lo sviluppo degli altri settori di attività, l’impegno di lavoro extra-scolastico degli allievi della scuola dell’obbligo diminuì e finì per diventare un dato della storia. Nella prima metà del secolo ventesi-

mo, le riforme scolastiche riguardarono soprattutto gli anni dell’obbligo successivi alla scuola elementare. Si tentarono nuove strade soprattutto per preparare meglio i ragazzi al periodo di apprendistato. Le scuole superiori restarono più o meno quelle che già erano all’inizio del secolo: il liceo, con l’unica sede di Lugano, che apriva ai suoi studenti le porte dell’università, la Scuola magistrale a Locarno che preparava gli insegnanti per le scuole dell’obbligo del Cantone e la Scuola superiore di commercio di Bellinzona, la quale, specie nei primi decenni del secolo, formava personale per le attività del terziario del Cantone e del resto del mondo. La spesa scolastica del Cantone restò, fino all’inizio della seconda guerra mondiale abbastanza costante. Il Ticino spendeva 3,9 milioni per l’educazione nel 1920; nel

1940 ne spendeva 4,1. Questo non significa però che le riforme scolastiche del periodo tra le due guerre furono a costo zero. Bisogna infatti tener conto del fatto che, tra il 1920 e il 1940, ci fu una diminuzione della popolazione scolastica pari al 23 per cento. Di conseguenza il costo per allievo salì, in quel periodo, del 36 per cento e non solo per effetto dell’inflazione. Ma l’aumento della spesa scolastica precedente la seconda guerra mondiale è niente rispetto al grosso balzo avanti fatto nel corso della seconda metà del Novecento. L’aumento del numero dei licei, la creazione della scuola media unica, la realizzazione con USI e SUPSI di ampie possibilità di formazione a livello terziario in casa e, last but not least, il forte aumento delle scuole di formazione professionale hanno fatto esplodere

la spesa scolastica del Cantone. Oggi il Cantone spende più di 800 milioni all’anno per la formazione scolastica. Per allievo o studente (università e scuole professionali incluse) spende circa 12’600 franchi all’anno contro i circa 120 franchi che spendeva una settantina di anni fa. La scuola ticinese (dal livello primario al terziario) è dunque diventata una delle aziende più importanti del Cantone, con costi di diverse centinaia di milioni. Sono soldi spesi bene? Per l’insieme dell’economia del Cantone certamente sì, perché profitta largamente dei salari degli insegnanti e delle commesse delle scuole. Per il Cantone, ente pagante, forse non così tanto perché, purtroppo, una frazione rilevante delle persone che forma sono ancora obbligate a lasciarlo per trovare occupazione o per fare carriera.

maravilhosa», mentre Suv dai vetri oscurati sfrecciavano indisturbati verso affari certamente leciti. Va detto che era la prima Olimpiade sudamericana: non si poteva pretendere né il gigantismo di Pechino, né lo sforzo masochista di Atene, né la grande dimostrazione di cultura sportiva di Sidney e più ancora di Londra, con il tennis a Wimbledon, l’ippica a Greenwich, il nuoto di resistenza a Hyde Park, il canottaggio sul Tamigi, il calcio a Wembley e il beachvolley a Whitehall, a metà strada tra il Parlamento e Trafalgar Square. Da allora Londra è diventata non a caso la città più visitata al mondo; Roma non è tra le prime dieci. Il Brasile non ha una cultura sportiva; ha una cultura calcistica. Questo spiega sia il magro bottino della nazione ospitante, sia il vuoto in molti impianti. Si è fatto di tutto per tenere la gente normale lontano dal parco olimpico, e ci si è riusciti. La fatica per i cronisti è stata improba. Ma, ripeto, un’Olimpiade non si giudica

da questo; anche se le code di atleti per prendere il pullmino non si erano davvero mai viste. Il Brasile può comunque dire di avercela fatta. E ha confermato che ormai l’era del gigantismo olimpico è finita. Nessun Paese che non sia un regime ansioso di affacciarsi al mondo e di annunciare la propria supremazia prossima ventura può pensare di spendere le cifre con cui i cinesi costruirono i Giochi più grandiosi di ogni tempo. In questa ottica, Roma può giocare le proprie carte. Ma è fondamentale che la sindaca Virginia Raggi ne sia convinta. Non è un Paese, né tantomeno un governo, che chiede l’Olimpiade; è una città. Madrid ad esempio ci prova da sempre e non c’è mai riuscita. Roma avrebbe ottime possibilità: è una città conosciuta in tutto il mondo, in confronto a Rio è un modello di efficienza e di sicurezza, ha luoghi meravigliosi che una casta arcigna e autoreferenziale di mandarini delle belle arti vorrebbe chiudere al pubblico ma

sarebbero splendidi scenari olimpici, come già nel 1960, quando la maratona arrivò sotto l’arco di Costantino. Luoghi e nomi che parlano a tutto il mondo. Il punto è coinvolgere tutta la città. Reclutando volontari in ogni quartiere, creando posti di lavoro, coinvolgendo le associazioni, organizzando per tempo corsi di lingue (a Rio in pochi tra i volontari parlavano inglese, nessuno parlava francese lingua olimpica per eccellenza, nessuno parlava spagnolo; in compenso parecchi parlavano italiano, per ascendenze familiari o per soggiorni in Italia, a volte anche nella Svizzera italiana). Roma è una città orgogliosa: non aspetta altro che occasioni di riscatto. Purtroppo prevale a volte una mentalità accidiosa, per cui in Italia non si può fare nulla: non opere pubbliche perché rubano tutti, non grandi eventi perché c’è sempre qualcuno che ci guadagna. Ma ragionando così come finanzieremo il reddito minimo garantito, cavallo di battaglia dei Cinque stelle?

nell’universo sempre connesso della turbofinanza e dei social media? A proposito di «stress-test» trovo un altro riferimento: l’intervista del «Corriere della Sera» a un banchiere luganese, Antonio Foglia della Banca del Ceresio: «Sono assolutamente leggeri, perché, nello scenario peggiore, immaginano una caduta del prodotto interno lordo soltanto del 2 per cento a fine 2018… Intendo dire che alcune banche potrebbero non avere il cuscinetto di capitale necessario per affrontare scossoni sistemici importanti, peggiori rispetto allo scenario avverso disegnato dall’Eba», convinzione che spinge il banchiere luganese a lanciare un allarme per altri pericoli: «Il dato più preoccupante riguarda l’indebitamento complessivo del sistema bancario europeo». A quanto sembra anche tra i banchieri qualche «vigile che vuol regolare il traffico» esiste ancora e riesce a trovare il coraggio di dichiararsi preoccupato di un indebitamento ormai globalizzato. L’irragionevolezza dell’industria finanziaria affiora ancora di più

dalle notizie riguardanti il volume dei derivati offerti alla speculazione dal colosso bancario tedesco Deutsche Bank. Il suo stato di crisi, iniziato in febbraio, cela una realtà difficile da configurare nel contesto sostanzialmente positivo dipinto dai controllori europei: DB, come un super-hedge fund, avrebbe emesso strumenti derivati per circa 75 mila miliardi di euro, cioè 20 volte il Pil tedesco! Visto che sul suo bilancio attuale pesano 32 miliardi di euro di derivati ad alto rischio, secondo gli esperti basterebbe un potenziale calo del 4 per cento del valore degli attivi per azzerare il capitale del colosso tedesco! Davanti a questi scenari il mantra che domina, l’alibi sventolato ormai da tutte le banche centrali, è che per tenere l’inflazione sotto controllo ed evitare rischi e grossi guai alle economie (dimenticano di specificare: alle politiche economiche basate sull’indebitamento) i tassi negativi sono necessari. È anche naturale che la maggior parte dei governi dell’Ue non muova ciglio e avalli il progres-

sivo passaggio a tassi negativi anche per i depositi bancari e persino quelli postali. In altre parole: «in piedi al crocicchio dell’economia» a chiedere riscatti ora ci sono soprattuto governi e burocrazie. Oggi sono loro che «voltano sotto» contribuenti e risparmiatori, per avere più fieno nelle loro cascine. Possono così continuare a mascherare la loro incapacità sia a riparare un ciclo finanziario ed economico che crea perdite e incertezze, sia a riformare (magari ripartendo dal basso e dai bisogni concreti della gente, sganciandosi dalle imposizioni della burocrazia) sistemi previdenziali oggi pesantemente intaccati dalla denatalità. A prevalere è la sensazione che nessuno voglia ammettere un’impotenza e che tutto stia sfuggendo di mano. Siamo a decisioni politiche prese per rassicurare e curare che invece allarmano e penalizzano. Siamo al cane che si morde la coda. O, se preferite qualcosa di più appropriato, alle cicale premiate e alle formiche penalizzate.

In&outlet di Aldo Cazzullo Quel che resta di Rio 2016 ficienza latina. Visti signori in divisa del Cio vagare in lacrime nottetempo attorno al parco olimpico, sbarrato ai taxi da una delirante ordinanza dello sciagurato sindaco della «cidade

AFP

Come si fanno le Olimpiadi al tempo della grande crisi globale? La logistica dei Giochi di Rio è stata la più disastrosa a memoria d’uomo. Un misto di burocrazia nordica e di inef-

Zig-Zag di Ovidio Biffi Il fieno e i tassi di interesse Nel dialetto ticinese, di sicuro in quello del Mendrisiotto, c’è un detto legato alla fienagione: «vultà sota ul fénn». È quasi italiano. Descrive il compito che il contadino assolve qualche ora dopo aver tagliato l’erba, quando sul prato quel che si vede è ormai fieno. Perché essicchi bene anche la parte che posa sul terreno, con un rastro si rimuove l’onda dell’erba falciata girandola: «volta sotto il fieno» perché il sole completi la sua opera e arrivi in cascina completamente secco. Per una certa similitudine con quel lavoro dei prati, il detto era entrato in uso anche per descrivere un’operazione bancaria: andare in banca a «vultà sota ul fénn» significava interessarsi degli interessi maturati sul proprio conto e decidere se incamerare o riscuotere i profitti annuali o semestrali. Ho pensato a quel detto mentre archiviavo la miriade di notizie agostane che riguardavano il settore finanziario (da mercati e banche in fibrillazione alle pensioni posticipate), in cerca di qualche appiglio che mi consentisse di decifrarle meglio.

Di sicuro appare del tutto privo di senso applicare oggi il detto dialettale alla finanza. Per depositare denaro su un conto in banca il cliente deve prepararsi a pagare, altro che «vultà sota» gli interessi maturati! Allora vien da chiedersi: come capita a dialetto, agricoltura e contadini, siamo all’alba di una scomparsa anche di banchieri e banche? Una domanda quasi analoga nel cocktail di notizie se la pone Stefano Cingolani. Scrivendo sugli «stress-test» per misurare l’affidabilità delle banche europee, oltre a far notare che tra gli istituti messi peggio figurano quelli acquisiti e controllati da governi, come la Commerzbank tedesca o la britannica Royal Bank of Scotland, l’economista rievoca la vecchia metafora di Raffaele Mattioli (gran capo della Banca Commerciale italiana): «Il banchiere sta in piedi al crocicchio dell’economia, ma non come un brigante che voglia chiedere il riscatto, bensì come il vigile che regola il traffico e mette in contatto chi risparmia e chi investe». E si chiede: questa figura di banchiere esiste ancora


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Cultura e Spettacoli Sull’arte di discettare Prima o poi varrebbe la pena di leggere Dell’oratore di Cicerone, testo più attuale che mai

La Mongolia di Manook Dopo avere conquistato la Francia, il giallista Ian Manook presenta il suo commissario mongolo agli italofoni

Lo sguardo di Beretta Ad Ascona una mostra omaggia l’accurato e affascinante lavoro della fotografa Stefania Beretta

King Kenny A colloquio con Kenny Barron, che oltre ad essere un pianista eccelso, ha fatto la storia del jazz

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Due passi nell’arte Mostre Morcote ospita un’esposizione

di sculture all’aperto

Alessia Brughera Morcote ha sempre avuto un rapporto privilegiato con l’arte. Quieto borgo accoccolato sulle rive del Ceresio, è stato nel tempo meta prediletta di molti artisti che qui hanno trovato terreno fertile per dare espressione alla loro creatività. Oggi, a rafforzare questo legame è una mostra all’aperto che per tutta la stagione estiva si snoda lungo le vie del paese e nei suoi luoghi più significativi, presentando i lavori di quindici autori contemporanei. Si tratta di sculture e di installazioni, alcune delle quali site-specific, raccolte in «un percorso d’arte», così si intitola l’evento, che tocca alcuni dei punti panoramici e degli edifici storici di Morcote. Un percorso che prende avvio dal nuovo autosilo comunale di Garavello per seguire il lungolago, addentrarsi nel nucleo abitativo risalendo stradine e scalinate, ridiscendere nuovamente verso le acque lacustri e procedere poi nel rigoglioso Parco Scherrer. La prima opera che incontriamo seguendo l’itinerario è quella del bernese Christian Megert, uno dei membri di quel movimento di rottura fondato in Germania negli anni Cinquanta che fu il Gruppo Zero, le cui creazioni volte a esplorare i processi della percezione visiva sono state precorritrici degli studi sugli effetti illusionistici dell’Optical Art contemporanea. Il lavoro di Megert consiste in un container navale rivestito al suo interno di specchi, a dar vita a uno spazio che riproduce all’infinito l’immagine di chi vi entra, in un gioco di riflessi e scomposizioni che animano l’ambiente e portano lo spettatore a interagire con esso.

Ci allontaniamo per un attimo dalle sponde del lago per raggiungere la Chiesa di Santa Maria del Sasso sul cui sagrato troviamo un’opera di Margherita Turewicz Lafranchi, artista polacca che risiede da diversi anni nel nostro cantone. Qui la sua delicata scultura in ferro, plexiglas e lana di acciaio «incornicia» il panorama regalandoci un’inedita vista su Porto Ceresio. Un altro interessante progetto coinvolge la Torre del Capitano, dove il ticinese Alex Dorici ha ideato una struttura in stretto dialogo con la costruzione, utilizzando della corda navale illuminata dalla luce di Wood: il risultato è un’installazione che ridisegna l’architettura creando volumi virtuali e nuove geometrie di colore. Continuando a passeggiare accanto al lago incontriamo un intervento di Miki Tallone, anche lei ticinese, che per l’occasione ha realizzato una palafitta ispirata alle abitazioni del Neolitico. Assemblata con materiali di recupero, quest’opera dall’emblematico titolo Archetipo nasce da una scrupolosa indagine del luogo e delle sue peculiarità, in questo caso omaggiando l’identità lacustre del borgo in un ritorno alle sue più antiche origini. Dirigendoci verso il Parco Scherrer, un’automobile attira la nostra attenzione: è ferma in un posteggio come una vettura qualsiasi, ma avvicinandoci notiamo che ha carrozzeria e sedili completamente ricoperti di pizzo e «aggrediti» qua e là da muschi e licheni. Opera del 2005 della mendrisiense Marisa Casellini, ci invita a meditare sul rapporto tra tecnologia, uomo e natura, proponendoci una sorta di rivincita del lavoro artigianale e dell’ambiente sul prodotto industriale.

L’opera no 405 di Carlo Borer. (Muriel Hediger)

Nel parco degli anni Trenta voluto da Arturo Scherrer per rievocare le atmosfere di paesi lontani e conservare gli oggetti riportati dai suoi numerosi viaggi intorno al mondo si dipana l’ultima parte del percorso, con nove sculture collocate nel giardino tra la lussureggiante vegetazione e gli eclettici fabbricati. Tra queste ci sembra particolarmente a suo agio l’opera di Not Vital, artista svizzero la cui produzione è creativamente condizionata proprio dall’incontro con le altre culture. Il suo Lotus in acciaio inossidabile, lungo tre metri, è adagiato sul pavimento della Casa Siamese del Tè e mescola le sue forme rilucenti e perfettamente levigate alle preziosità orientali della stanza.

Il Tempio di Nefertiti, che Scherrer aveva fatto erigere come copia fedele dell’originale custodito a Berlino, ospita un’installazione dell’architetto milanese Nanda Vigo, da sempre stimolata a sondare il rapporto tra luce e spazio. Qui una struttura fatta di specchi dai profili appuntiti, a richiamare le piramidi egizie, è il fulcro di uno scambio continuo di immagini riflesse e di tracce luminose che trasformano completamente l’interno dell’edificio. Ci soffermiamo infine vicino alla Palazzina Indiana, dove è stata posizionata un’opera di Alberto Garutti, una lastra in marmo appoggiata a terra su cui compare la frase «Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora», rappresentativa del lavoro

del maestro lecchese che mira a sollecitare le dinamiche relazionali tra artista e pubblico. E questa è anche la meta cui ci ha fatto giungere il nostro percorso, attraverso i tanti mondi artistici che nel borgo di Morcote hanno trovato il più suggestivo e accogliente punto di confronto e di unione. Dove e quando

Un percorso d’arte. Morcote. Fino al 25 settembre 2016. A cura di Daniele Agostini. Nel borgo le opere sono fruibili gratuitamente e senza limiti di accesso. Orari Parco Scherrer: 10.00-17.00, luglio e agosto 10.0018.00. www.morcoteturismo.ch


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Cultura e Spettacoli

Per chi ha molti «discorsi» da fare

Meridiani e paralleli Sarà (o sarebbe) utile a lettori, professionisti, appassionati e filosofi la traduzione italiana

del capolavoro ciceroniano Dell’oratore

Giovanni Orelli I libri che escono ogni giorno sono di gran lunga più numerosi di quelli che un lettore (anche se legge molto) può «consumare». Così non mi sento in colpa se ho letto con ritardo di anni di Cicerone Dell’oratore, traduzione italiana con testo latino a fronte, con un utile saggio introduttivo di Emanuele Narducci, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1994. È un libro bello, utile, specialmente direi, per un avvocato che deve fare molti discorsi, in tribunale e fuori, per le molte cause che ha sia in difesa di clienti sia contro avversari. Così per uno che fa politica. Dell’oratore si occupa soprattutto di eloquenza, retorica, e filosofia. Il libro è tradotto bene in italiano, ma il lettore che ha fatto a scuola anche un po’ di latino troverà, nella pagina a fronte la splendida prosa di Cicerone. Prosa del 55 prima di Cristo. Cicerone, nel suo trattato dice anche la sua su cosa s’abbia da intendere per oratore (per esempio alla pagina 163): «… a mio parere si reputerà degno di una qualifica tanto insigne quell’oratore, quale che sia il tema da sviluppare, se ne parlerà con competenza, ordine e garbo, a memoria e con, inoltre, un gestire dignitoso». E subito dopo Cicerone si ferma per un istante sul «quale che sia il tema da sviluppare»: egli non vuole un presuntuoso saccentone che parli di tutto fondandosi sul poco che sa intorno a molte cose. Ma «se il nostro Sulpicio dovrà parlare dell’arte militare, chiederà informazioni al nostro congiunto Gaio Mario (che fu console nel 107 a.C., quando ottenne anche il comando della guerra contro Giugurta, che concluse vittoriosamente); e ricevute le informazioni parlerà in modo tale da sembrare allo stesso Mario miglior conoscitore di lui; se invece dovrà parlare di diritto civile interpellerà te, Scevola (…)». Vedi la pagina 209 (e dintorni): «Tutta l’energia e l’abilità dell’oratore si applicano a cinque punti. Per prima cosa egli deve reperire gli argomenti, quindi organizzarli e disporli non solo secondo criteri di ordine logico, ma anche in base a criteri di importanza e di opportunità; poi rivestirli con gli ornamenti dello stile, fissarli nella memoria, e infine pronun-

ciare il suo discorso con dignità e grazia». Primo dovere dell’oratore è, per Cicerone, parlare in modo adatto a persuadere. Parlare un latino (noi italiano) «puro» (ho messo tra virgolette la parola «puro» perché avrei non poche difficoltà a dire a un ragazzo cosa può intendere con quella espressione. Avrei detto piuttosto, e più prudentemente «italiano corretto»). È molto possibile che un lettore trovi i cinque punti tirati in ballo poco fa con altri termini latini: si parla allora di inventio (ricerca degli argomenti che servono), la dispositio oppure ordo, ordinamento della materia trovata con l’inventio suddivisa, la dispositio, in exordium, narratio (narrazione dei fatti), demonstratio (dimostrazione della propria tesi e confutazione di quella avversaria), peroratio. Terzo punto: la elocutio o lexis (esposizione di quanto è stato trovato e usato); poi la memoria e finalmente l’actio, cioè l’arte del porgere, cioè del pronunciare, del gestire e altro. L’eloquenza era a Roma disciplina dominante, prassi connessa con la prassi politica e civile.

L’aspetto forse più straordinario del testo ciceroniano sta nella sua attualità E la filosofia? Certo che c’è, ma spesso interrotta da battute inaspettate, divertenti (vedi un capitolo a pagina 511 e sgg.). A Roma era nota la battuta di Novio contro un «filosofo» un po’ troppo sicuro di sé: «Per filosofo che tu sia, se avrai freddo, tremerai». O la battuta di un certo Marco Lepido: mentre altri si esercitavano nel Campo Marzio, lui, steso sull’erba disse: «vorrei che in questo consistesse la fatica» («vellem hoc esset laborare»). Usabile ancora oggi è la battuta di un certo Scipione Nasica che si era recato a casa del poeta latino Ennio, e aveva chiesto di lui stando alla porta; ma la serva gli aveva detto che Ennio non era in casa. Nasica però aveva capito che la serva aveva eseguito un ordine del padrone e che questi si trovava in casa. Pochi giorni dopo, Ennio si

potrà essere discusso. Per un esempio (anche qui, 533, si parte da un dunque): «Dunque l’oratore migliore dovrà essere il primo a parlare, così come il discorso deve presentare fin dall’inizio gli argomenti più solidi (…) gli eventuali argomenti mediocri – a quelli negativi non deve infatti essere mai dato spazio – vanno gettati nella massa confusa degli argomenti al centro dell’orazione. (il latino ha «in mediam turbam atque in gregem coicientur»: si noti il giudizio negativo che accompagna parole come «turba» e «gregge»).

La congiura di Catilina: Cicerone denuncia al senato il complotto orchestrato da Catilina (63 a.C.); affresco di Cesare Maccari (1882-1888) situato a Palazzo Madama, Roma. (Keystone)

recò da Nasica, e sulla soglia lo chiamò; Nasica gridò (exclamat) che non era in casa. «Come? Esclamò Ennio, vuoi che non conosca la tua voce?» al che Nasica: «Sei uno sfacciato (homo es impudens)! Quando ho chiesto di te, ho creduto alla tua serva che diceva che non eri in casa, e tu non credi a me in persona?». Un esempio di frase maligna che si cela sotto un’espressione apparentemente innocua: un siculo, a un amico che piangeva perché sua moglie si era impiccata a un fico, disse: «Per favore, dammi qualche talea (pezzo di ramo con gemme…) di questo albero da piantare». Battute dette stravaganti? Tra altre, Cicerone propone questa: «Che sciocco! / Quando cominciava ad avere soldi è morto». Aggiunge però: «Questo tipo di facezie è abbastanza frivolo, adatto ai mimi, come certe “sapide assurdità”». Un certo Pontidio così rispose a chi gli chiedeva: «Come definiresti uno che è colto in flagrante adulterio?» Risposta: «Lento!» Ma c’è dell’altro, e molto altro, nel libro di Cicerone. Comincerei col segnare il rapporto tra diritto civile e oratoria. In parole povere, che cosa si può fare e cosa no. Anche qui Cicerone cerca di non tralasciare nulla: «E che dire delle antiche leggi e dei costumi tramandatici dagli antenati? E che dire degli au-

spici cui io e te, Crasso, siamo preposti, con grande utilità per lo stato?». Crasso, che con Antonio è protagonista del De oratore (Antonio è campione della sagacia pratica; Crasso della cultura raffinata…), porta avanti l’idea centrale del libro, che alla pagina 585 è formulata così: «Non vi è nessun genere di cose che possa esistere da solo , separato dagli altri, e che non sia indispensabile agli altri per conservare la loro essenza e la loro eternità». Quel che vale per le cose che stanno dietro al dunque della frase appena citata (e qui nel mio riassuntino sono quasi del tutto carenti), vale anche per grandi pensatori del passato, greci in particolare. Per esempio Erodoto, «il primo a dare veste artistica (quinto secolo avanti Cristo) non si dedicò affatto alle cause; eppure è tanta la sua eloquenza che riesce a dilettare anche me, per quel che riesco a capire di un testo greco. Dopo di lui Tucidide, a mio parere, ha di gran lunga superato tutti nell’arte della parola: egli è così denso e ricco di concetti da pareggiare quasi al numero delle parole quello delle idee». (341). In una nota editoriale si dice che «egli concepisce il compito (di storico) come un’indagine medica, quindi il più obiettivamente possibile, per quanto traspaia la simpatia per Pericle. Qualche consiglio ciceroniano

Eccellente oratore è Crasso, che a un certo punto (p. 185) ai suoi curiosi dice: «Va bene, interrogatemi a vostro piacimento, ma a condizione che mi sia dato di dichiarare di non potere se non potrò e di confessare di non sapere se non saprò». Cicerone raccomanda di curare soprattutto l’esordio. Che deve essere sempre accurato, efficace, denso di pensieri, espresso bene e, inoltre, coerente con la causa. L’esordio dà infatti una prima idea dell’orazione e le serve da raccomandazione. E raccomanda più volte la correttezza della lingua, con tono del maestro delle elementari: sui mezzi con cui far capire ciò che diciamo: «(…) evitando periodi eccessivamente lunghi, senza prolungare troppo le metafore prese da altri campi, senza spezzettare le frasi, (…) e seguendo un ordine logico». Tra i più devoti seguaci di Socrate fu Antistene, considerato il fondatore della scuola cinica. Secondo la sua teoria filosofica, la felicità è basata sulla virtù, a sua volta fondata sulla conoscenza e quindi insegnabile. I piaceri, secondo lui, non contribuiscono alla felicità; l’unico piacere durevole e irreprensibile deriva dalla fatica. Dal lungo indagare sullo stile, Cicerone insiste sulla necessità di scegliere uno stile che catturi l’attenzione dell’uditorio, e che non solo diletti, ma diletti senza saziare. Non l’espressione stentata di chi, pur sapendo le cose, non riesce a esporle con le parole, né l’ignoranza di chi, pur fornito di loquela, non ha idee. Altri guarderanno con simpatia a Protagora (quinto secolo prima di Cristo), che sarebbe stato il primo a farsi pagare, e molto, per il suo insegnamento. È attribuita a lui la definizione per la quale l’uomo è la misura di tutte le cose.

Parole su parole Pubblicazioni Un libro sulla parola «parola» del linguista italiano Luca Serianni, nella collana «Parole nostre»

delle edizioni del Mulino Stefano Vassere «Le parole sono tutto, per qualsiasi scrittore, parole vecchie da reinventare e parole nuove da forgiare, perché ogni scrittore sogna di essere il miglior fabbro del parlar materno». Parola è una delle parole più parlanti di una lingua, soprattutto perché ha un notevole valore sui mercati più importanti di un sistema linguistico, potendo stabilire rapporti proficui con ciò che le sta intorno, nella prospettiva lessicale certamente, ma anche in quelle più strutturali, morfologiche e sintattiche, fino ad abbracciare le prospettive meno centrali ma anche più fantasiose e gaie: la pragmatica, la sociolinguistica, lo studio cognitivo. Sull’altro fronte ci sono le parole rare e i tecnicismi: posso dire, altrimenti spiegato, una bella parola, una brutta parola, parole parole parole, la parola del Signore, il dono della parola, parola mia!, in poche parole, parolacce, paroline, parolone, parolette e molte altre cose;

mentre di termini come gonorrea, barbacane, filematologia non posso fare un granché (la filematologia, che anche questo correttore automatico

La copertina del libro di Luca Serianni.

segnala con una bella linea ondulata rossa, è la scienza che studia i modi in cui uomini da una parte e animali dall’altra usano baciarsi. Roba da etologi si dirà, ma quello che conta qui è la quasi impossibilità di legame «sintagmatico» con altro materiale linguistico). Tra i linguisti italiani, Luca Serianni è uno di quelli che si legge con maggiore piacere. Per gli argomenti scelti a un primo e più immediato livello, ma anche per una capacità scrittoria e stilistica rara, che lo avvicina, per gradevolezza e profitto, a modelli anglosassoni come Steven Pinker o Jonathan Gottschall, saggisti e divulgatori sopraffini. Ora la casa editrice il Mulino pubblica questo Parola, che esce nella collana «Parole nostre», dove già Giuseppe Patota era uscito, qualche tempo fa, con Bravo!, storia e uso di quel termine. Come Patota, anche Serianni dedica le prime righe di questo suo studio a una dichiarazione di scuse: «dedicare un volumetto a una parola può sembrare un azzardo.

È troppo per un verso, troppo poco per un altro». Ma, aggiunge Serianni, più che a una parola qui ci troviamo di fronte a un mondo, perché parola vuole dire sì «termine linguistico», ma anche capacità cognitiva del linguaggio; e poi le parole «contano», la parola è anche la parola di Dio e parlare vuol dire mettere insieme universi naturali e culturali. Il volume, come detto, scorre e scorre, perché la parola scritta, a differenza di quella detta, è scelta, e si ha il tempo di ordinarla, ripulirla, deciderne sequenze e rapporti reciproci; qui, già detto, Luca Serianni è maestro di cose linguistiche ma anche di narrazione scientifica. Il tema generale, anche qui detto già, è interessante, ma il settore linguistico è studiato da qualche tempo fondamentalmente per un tema, quello dei neologismi, che si impone decisamente perché tocca gli ambiti del costume e probabilmente della politica e dell’economia di una comunità. Le parole nuove sono, secondo regola, parole che vengono da altre lingue,

parole derivate da altre parole, acronimi (cioè sigle che diventano parole). I neologismi, ci insegna Serianni, vengono fuori sui giornali numerosi come le uova di certi animaletti: poche di loro si schiudono per davvero, quelle che si schiudono generano esserini il più delle volte consumati dai predatori e tra i rimanenti una nuova selezione sarà infine spietata. Quello che resta, quello che conta per davvero, è quasi sempre veramente poco. «Le lingue non sono nomenclature e ciascuna organizza la realtà a suo modo. Non c’è nessuna ragione particolare nel fatto che per indicare il tempo cronologico, quello atmosferico e quello grammaticale l’italiano e altre lingue romanze abbiano la sola parola tempo, mentre le lingue germaniche solitamente distinguano i tre concetti: Zeit, Wetter, Tempus» Bibliografia

Luca Serianni, Parola, Bologna, il Mulino, 2016.


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Cultura e Spettacoli

Omicidi nell’Eden Editoria Con Yeruldegger, lo scrittore francese Ian Manook ha creato un commissario lontano

dalle convenzioni e proprio per questo destinato a farsi amare dal pubblico Blanche Greco «I libri gialli non sono la mia passione, le storie poliziesche mi piacciono, ma solo al cinema, perciò il mio primo “polar”, l’ho scritto come se fosse un film. Ogni capitolo è una sequenza d’immagini, possibilmente le più inattese, mentre i miei personaggi hanno fattezze e movenze da attori da Oscar». Aria da marinaio giramondo, Ian Manook, giornalista, editore, viaggiatore appassionato, scrittore di gialli per scommessa, con il suo Yeruldelgger, bestseller poliziesco e primo libro di una trilogia ambientata in Mongolia, ha vinto il premio Quai du Polar 2014, diventando celebre in Francia. Lo abbiamo incontrato a Roma alla vigilia dell’uscita del suo libro in italiano: Yeruldelgger. Morte nella Steppa, Fazi Editore. «La Mongolia è ancora oggi una visione folgorante di natura e di colori, così come ce l’ha raccontata il cinema, ma, lontano dalla steppa, la modernità ha portato anche molto altro. Le stridenti contraddizioni – oltre alla cultura sciamanica dove morte, violenza e vendetta, hanno significati e valenze particolari – ne hanno fatto per me il luogo giusto dove ambientare una storia di omicidi e di misteri», ci ha raccontato Ian Manook, alter ego di Patrick Manoukian, che dopo aver scritto sulle proprie origini armene, ha scelto di mimetizzarsi sotto un altro nome per affrontare una storia diversa, ma non meno complessa. «La

Mongolia è uno strano Paese, anacronistico, con i suoi 3 milioni di persone, una superficie grande due volte e mezzo la Francia e un esercito armato sino ai denti per proteggerla dai suoi vicini: a sud, la Cina, che nella notte dei tempi ha conosciuto la ferocia e il giogo dei mongoli e oggi ha un miliardo e duecentomila abitanti; e a nord la Siberia, ignorata da Putin, impero alla deriva che sopravvive deforestando a ritmo serrato e vendendo il legname alla Cina che produce infimo mobilio da esportare in Russia. Traffici proibiti, che però, come tanti altri, avvengono sul suolo della Mongolia». Dalle pagine ispirate di Ian Manook emerge un antico eden asiatico dove gli spiriti abitano ancora il cuore degli uomini, il vento, la steppa e la notte stellata, malgrado gli «appetiti» di un mercato internazionale votato al profitto e all’intrigo, che in Mongolia e nella capitale, ha trovato il suo epicentro. «Ulan Bator è tre città in una» – ci ha detto Manook – «lì, fatiscenti quartieri e musei di epoca sovietica confinano con altri, degni della capitale di un Paese emergente con alberghi sontuosi e palazzi avveniristici dove sbarcano gli squali della finanza mondiale, cinesi, coreani, russi, ma anche europei o americani con valigette, orologi costosi, grosse automobili e casse di vodka, pronti a fare “affari” e feste. Accanto a queste c’è anche una città spirituale in lenta rinascita. Ad Ulan Bator esistono ancora alcuni grandi templi buddhisti, perché dalla Mongo-

Lo scrittore francese Ian Manook.

lia è venuto uno dei primi Dalai Lama. Molte persone, in cerca delle vere radici spirituali del buddhismo, ma anche tanti hippies, baba cool che si fermavano a Kathmandu, adesso risalgono verso la Mongolia e Ulan Bator». L’abilità di Manook sta nel saper mescolare un reportage geo-politico dettagliato e affascinante su un Paese che mai arriva nelle pagine dei nostri giornali, a

una storia poliziesca, narrata con pathos, ma anche con spavalda ironia. Il protagonista, il possente commissario Yeruldelgger, è sia l’erede dei monaci guerrieri delle montagne dell’epoca di Gengis Khan, sia l’epigono di tutta una categoria di detective cinematografici e non solo. I suoi modi hanno lo stile stropicciato e sardonico di Humphrey Bogart, ma anche il travaglio interio-

re dei melancolici ispettori svedesi dei telefilm dei nostri giorni, nonché l’empatia dei patinati protagonisti di CSI, serie televisiva che ha conquistato anche gli abitanti delle yurte della steppa, grazie a provvidenziali antenne paraboliche. Sospesa tra tradizione e scienza è anche la bella Solongo, una sorta di principessa mongola-medico patologo la cui intensa spiritualità sfiora la magia. Anche i cattivi hanno caratteristiche che conosciamo, come Adolf, capo di un gruppuscolo neo-nazista; o il «turco», anima nera dai toni da capomafia, o lo spietato killer kazako. Tra colpi di scena, momenti di selvaggia ferocia, rivelazioni ed evocazioni, arcaici riti e malvagità, Yeruldelgger fa giustizia, ma non riesce ad affrontare ciò che lo tormenta. «Yeruldelgger è la Mongolia», conclude Ian Manook, «entrambi sono apparentemente belli, forti, potenti, eppure molto fragili: l’uomo può morire in ogni istante; la Mongolia potrebbe sparire nei prossimi quindici anni a livello economico, politico e anche territoriale, poiché è zona altamente sismica. Così nel terzo ed ultimo libro, ancora in stampa in Francia, immagino quale potrebbe essere il destino di entrambi». E Manook con uno sguardo divertito aggiunge: «Senza svelare il finale dico solo che Yeruldelgger è un vero nome mongolo, sopravvissuto alla “tabula rasa” tentata dai sovietici e significa promessa di abbondanza. Un auspicio che a me ha portato decisamente fortuna». Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Catullo, perché ogni cosa è vana Declinando il pensiero Gaius Valerius

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Catullus (Verona, 84 a.C.-Roma, 54 a.C.)

Carme 52

Quid est, Catulle? Quid moraris emori? Sella in curuli struma Nonius sedet, per consolatum peierat Vatinius: quid est, Catulle? Quid moraris emori? Che c’è, Catullo? Perché tardi a morire?, Su sedia curule lo scrofoloso Nonio è seduto, Vatinio spergiura per il suo consolato: Che c’è, Catullo? Perché tardi a morire? Una consapevolezza amara

Non c’è più niente, non c’è più nessuna speranza. La corruzione, il malgoverno, la boria, la spietata condotta dei potenti ammorbano l’aria, la fanno diventare non più respirabile e piena di cattivi auspici e di impenetrabili ragioni che rimandano all’inutilità di ogni cosa. Ma non sono solo le contingenze del momento storico e politico che spingono verso il territorio inesplorato, verso il silenzio, agognato e innalzato ad unica possibile ragione che possa commuovere ogni intelligenza, solo frequentabile ricovero, spazio dove finalmente non essere. C’è la consapevolezza amara che ogni cosa che si fa o che si tenta di fare è vanificata dall’essere in fine compiuta, o in fine rimasta puro insieme di frammenti che non riescono a diventare un unico definito frammento. Si fa strada l’idea che tutto sia nutrito da sghignazzanti entità che si prendono gioco degli umani e li irretiscono e attraggono nelle maglie strette e dolorose della luce suadente e ingannatrice di ogni illusione. Sembra che l’idea di bellezza sia fuggita nei gorghi dell’infinitamente inutile e si spenga assorbita dall’indifferenza immutabile della cosa del mondo, dalle sue dolorose asperità e inadempienti gioie. Il coinvolgimento nella catastrofe in cui è sprofondata ogni speranza è totale, senza possibili pertugi dove infilarsi e fuggire resistendo all’annichilimento: c’è come uno svuotarsi del desiderio e, allo stesso tempo, una profonda e sentimentale voglia di tramonto, di oscurità dolce e invisibile, quasi rasserenante. E perfino la luce, che illumina le nostre pretese, pare velocemente svanire per non esserci più. Si è ormai abbandonata alla tenebra che pervade non solo il pensiero con tutte le sue germinazioni ormai dentro l’appassimento, ma anche il paesaggio simulante colori impossibili. Prende corpo una penetrante e invasiva stanchezza, che spegne ogni volontà. Questo vedo, in questi versi, anche se le parole di Catullo non lo evidenziano, ma lo fanno solo immaginare. Di esplicito si trova solo un duro attacco contro Nonio (forse Lucio Nonio Asprenate, pretore e proconsole in Africa, o Marco Nonio Suffenate, che ricoprì l’edilità curule) e contro Publio Vatinio, questore e poi tribuno della plebe e infine, per un brevissimo periodo, console. È un aspro attacco a due rappresentanti del potere corrotto romano, ma insieme una presa di coscienza dell’impossibilità di un potere che non sia corrotto. Questo riconosco nelle poche parole di questo testo illuminante anche il nostro presente e la nostra fatica ridicola a protrarci nell’assuefazione. Tutta la speranza è riposta nella disperazione e nell’esito verso il quale conduce.

Lo stesso amore, tutto l’amore del mondo, perde valore. E così pure l’amore per Clodia, profondo e pervadente tutta la vita di Catullo, e l’amore per Giovenzio sono solo un ricordo confuso da dimenticare. E anche tutte le bellezze che ha voluto vedere e che ha intravisto, e anche tutto il male che invade ogni bellezza, e i giorni trascorsi nella villa del padre nell’amata Sirmione si sistemano in una zona sconsolata e oscura piena di cianfrusaglia inutilizzabile dove neanche il disappunto ha diritto di esistere, dove neppure il nulla trova consolazione. Eppure questi versi sono stati scritti. E per qualcosa si scrive, anche se solo per arrivare a un senso delle cose non chiaro e inarrivabile. Sembrano essere testimonianza, forse sterile, di una superstite fiducia nella poesia e nell’esistenza. Quell’anaforico primo verso («Che c’è, Catullo, perché tardi a morire?») ripetuto nel finale, è solo una domanda, quasi una richiesta di aiuto che prevede una risposta chiarificatrice che conduca a una specie di impossibile salvezza. Sembra un rimprovero verso sé stesso, verso la sua incapacità ad abbandonarsi al vuoto e al silenzio, che pure sono lì che lo attendono per accoglierlo nel più grande oblio. Ma quella domanda, posta attraverso quella retorica figura che la connota, nutre già in sé la risposta. Il cielo si rabbuia su Roma e sul mondo: prende il colore di tutti i colori e poi si raggruma in una nube scura che lo porta via.

in seguito a carenza di biotina.

Biografia

Nato a Verona da famiglia agiata, Catullo si trasferisce a Roma poco dopo i vent’anni di età. Qui prende contatto con gli ambienti politici e culturali del tempo, ma ne resta anche profondamente estraneo. Ma non talmente da impedirgli di registrarne gli eventi e sottoporli, attraverso i loro interpreti, a feroci e irridenti critiche. Con alcuni poeti provenienti in gran parte dalla Gallia Cisalpina fonda una sorta di cenacolo. In seguito Cicerone, in maniera dispregiativa, chiamerà questi autori «poetae novi» o «neoteroi». Ne facevano parte, tra gli altri, Gaio Elvio Cinna, Valerio Catone, Furio Bibaculo, Varrone Atacino, Licinio Calvo, Lutazio Catulo. La poetica che ispirava la loro opera era di chiara derivazione alessandrina: l’individualismo, la liricità, la concisione, la raffinatezza, l’erudizione impregnavano i loro componimenti. Tranne un viaggio in Bitinia e nella Troade, la sua vita trascorre tra Roma e Sirmione sul lago di Garda, nella villa del padre, ed è contrassegnata da grandi amori, profonde amicizie e altrettanti profondi odi, che nutriranno la sua poesia. Si conosce poco altro della sua vita e niente della sua morte, ma ci rimane la sua opera: 116 testi poetici, raccolti e organizzati forse da Cornelio Nepote, a cui sono dedicati, o, più probabilmente, dai suoi amici. Alcune traduzioni italiane delle poesie di Catullo: di Mario Rapisardi (Napoli 1889), di Guido Mazzoni (Bologna 1939), di Salvatore Quasimodo (Milano 1942), di Vincenzo Errante (Milano 1943), di Enzio Cetrangolo (Milano 1950), di Guido Ceronetti (Torino 1969), di Mario Ramous (Milano 1975), di Francesco Della Corte (Milano 1977), di Enzo Mandruzzato (Milano 1982), di Luca Canali (Firenze 2007).

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Cultura e Spettacoli

Percorsi da immaginare Fotografia La fotografa ticinese Stefania Beretta espone fino al 25 settembre una parte significativa

delle proprie opere al Museo comunale d’Arte moderna di Ascona

Giovanni Medolago Stefania Beretta ha, fondamentalmente, due passioni: la fotografia e i viaggi. Della prima ha fatto una professione sin dal 1979, quando aprì il proprio studio. La seconda l’ha portata ovunque. Ha soggiornato per mesi a Vilnius e a Parigi, ma è l’India la frazione del mondo che predilige: vi torna regolarmente da quasi quarant’anni e ormai, di quel Paese sospeso tra spiritualità e cielo, conosce molti segreti. Qualcuno ce lo svela nella mostra attualmente in corso ad Ascona, ma, com’è nel suo stile, Stefania accenna e incuriosisce, suggerisce ma non rivela. «Un occidentale che va in India ha tutto, ma non dà niente. L’India invece non ha nulla, in realtà dà tutto», annotava Pier Paolo Pasolini mentre lavorava a un film sul Paese del Mahatma Gandhi che aveva visitato nel 1961 con Elsa Morante e Alberto Moravia. L’India ha dato molto a Stefania Beretta, la quale ricambia tanta generosità con la poesia delle sue immagini: «I suoi scatti, nei luoghi sacri o sulla strada, restituiscono la trasparenza del suo sguardo, il distacco dal mondo degli stereotipi, l’empatia per un’umanità che condivide sogni e disillusioni, affetti e abbandoni», scrive Viviana Conti nel catalogo che accompagna l’esposizione. La Beretta non è mai stata una reporter nel senso stretto del termine: non si accontenta di documentare poiché interpreta le realtà che si trova di fronte con la sua sensibilità e

Un’immagine di Stefania Beretta del 2013.

attraverso uno stile che sfugge a qualsiasi definizione. Nei suoi ultimi viaggi nel subcontinente indiano ha forse cercato «Una segnaletica dell’essere» (questo l’impegnativo titolo dell’esposizione) lungo un percorso concreto e al tempo

stesso spirituale, che nelle sale del museo asconese si dipana dapprima con una visione rasoterra: flash di vita quotidiana che spaziano dal mare e i suoi doni alla vacca sacra che pigramente passa davanti all’obiettivo della fotografa.

Si entra poi nei «Paesaggi immaginari» che la Beretta ci presenta dopo averli ritoccati non già con l’esecrabile photoshop («Da abolire per legge», secondo Berengo Gardin!), bensì con le impunture della macchina per cucire: un’operazione volta, annota la direttrice del museo asconese Maria Folini Ceccarelli, a «restituire alle immagini riproducibili il loro valore di unicità, la famosa aura di Walter Benjamin». Un intervento dell’artista «come se cercasse di trovare un’intesa sostanziale con la trama stessa dell’immagine fotografica, come facesse delle sue opere lo specchio delle sue intime pulsioni in cui sublimarsi, nell’infondervi poesia, fantasia e creatività attraverso il tracciato del proprio intimo sentire». Quello della Beretta è un filo d’Arianna che non ci porta all’uscita del labirinto, poiché descrive altri imprevedibili percorsi che rompono la quiete di alberi e di ninfee, pronti però ad approfittare dei fili di Stefania per stagliarsi con maggior nitidezza davanti al suo obiettivo. È nella sezione «Indian Walls» che la Beretta si e ci concede qualche compiacimento estetico con giochi di luci e ombre, con accostamenti cromatici dettati da un gusto sottile e con immagini in cui l’arcano diventa il vero e proprio punctum: chi mai sarà stato a dare il welcome allo straccio azzurro? Che nutrimento potranno portare all’albero quelle sue radici imprigionate dai mattoncini? Provengono da un pittore

maldestro le strisce arancioni che prepotentemente scendono fino a terra? Non esiste alcuno spazio unitario, né un’attribuzione inequivocabile: sono rimaste solo tracce di quel che c’era, racconti frammentari che nascono dalla strada e che chiedono alla spettatore di ultimare la narrazione… Si giunge infine alle «Rooms», un progetto in progress che Stefania accarezza da anni e cui ha dedicato già nel 2000 un intero volume. Quasi «un’iconografia del cuore» (P. Bertelli), un racconto immaginario che fa della luce e delle ombre una comunione di segni. Altri racconti sovente «narrati» su più piani che si chiamano fuori dall’incompiutezza dell’informale o del simbolico per svelare un latente erotismo (quei letti disfatti…). La bellezza della fotografia, del resto, non sta in ciò che si fotografa, bensì in tutto quello che si vive! Dove e quando

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Cultura e Spettacoli

Gli sfizi di Steven Tyler Musica Niente di nuovo sotto il sole: l’esordio solista dell’instancabile

rocker soddisfa i fan, pur peccando di scarsa iniziativa

Garbani, a caccia di tradizioni Cartoline musicali Mauro Garbani è

il protagonista dei saluti di questa settimana Zeno Gabaglio Benedicta Froelich Forse non erano in molti ad aspettarselo, ingannati dall’età non esattamente giovanile del diretto interessato; eppure proprio adesso, a sessantotto anni suonati, Steven Tyler, l’inarrestabile e carismatico frontman della storica rock band americana degli Aerosmith, ha infine deciso di dare alle stampe il proprio debutto solista. Irriverente ed energico quanto il suo autore, questo nuovo We’re All Somebody from Somewhere costituisce una vera e propria «cartina di tornasole» delle nuove predilezioni musicali di Tyler – il quale ha raccontato di essersi espressamente recato a Nashville, capitale della musica country, per incidere quest’album, e di aver collaborato con quelli che lui definisce «alcuni tra i migliori compositori di Music City». E le atmosfere su cui Steven decide di concentrarsi sono evidenti fin dalla traccia di apertura, la delicata My Own Worst Enemy, ballatona che richiama il sound californiano degli Eagles di Hotel California: niente di particolarmente originale, dunque, ma comunque un brano di grande godibilità e dalla linea melodica a tratti perfino toccante, impreziosita dalla presenza centrale della fisarmonica. Decisamente su un altro tono risulta invece la title track, We’re All Somebody From Somewhere, un pezzo uptempo dagli accenti country rock stavolta ruvidi e spontanei, arricchito però da una sezione di fiati che ricorda suggestioni alla New Orleans: in questo senso, ciò che più risalta dell’album è proprio la grande energia interpretativa di uno Steven Tyler in forma smagliante, tuttora in grado di sfoggiare un fisico da trentenne – peraltro offrendo uno strano incrocio tra un cowboy hippy e Jack Sparrow, come si può vedere nel videoclip di Love Is Your Name, primo singolo estratto da quest’album. E sebbene Tyler abbia scelto di conferire all’intero lavoro un sapore decisamente più country rispetto alla sua produzione con gli Aerosmith, vi sono tuttavia nel CD alcune tracce che sembrano tratte da dischi storici quali Permanent Vacation (1987) o Nine Lives (1997): una di esse è la patriottica e pacchiana Red White and You, la quale, sebbene penalizzata da un testo che fa francamente rabbrividire chiunque non sia nato nelle pieghe più rurali dell’A-

Mauro Garbani

Nato nel 1959 ad Auressio, in Valle Onsernone, è da sempre appassionato ricercatore delle tradizioni musicali della Svizzera italiana. Negli anni 80 ha reintrodotto in Ticino l’organetto diatonico, antenato della fisarmonica. Nel 1991 ha fondato con la musicista basilese Esther Rietschin il duo Vent Negru, con cui ha realizzato numerosi concerti e presenze in Svizzera e all’estero. Per segnare il venticinquesimo anno di attività, il duo Vent Negru ha da poco pubblicato il disco Resumada. Cartoline Ad Aldo Giroldi; foto: una finestra aperta con una veduta sulla campagna verdeggiante

merica sudista, rappresenta un efficace esempio di pura spensieratezza rock nel miglior spirito della band di Steven. Passando a toni meno kitsch, il fantasma degli Aerosmith aleggia anche su un classico brano romantico come Only Heaven – il quale risulta in verità piuttosto banale, forse perché ricorda un po’ troppo certi exploit del canadese Bryan Adams. Tuttavia, le sorprese non mancano, come nel caso di un pezzo spensierato come l’irresistibile I Make My Own Sunshine, firmato dalla cantautrice Alyssa Bonavura e caratterizzato dal gradevole e inconfondibile sound dell’ukulele. Risulta affascinante anche la divertente Somebody New, che fonde sonorità country e atmosfere da rock’n’roll anni 50, con tanto di coretti suggestivi a completare il tutto; ma soprattutto, una delle gemme dell’album si rivela essere la singolare Hold On (Won’t Let Go), blues sporco e aggressivo nella migliore tradizione roots statunitense, con in più l’aggiunta di decise distorsioni elettroniche: tanto che spiace notare come il CD non offra altre tracce di questa forza. Così, per quanto la tracklist scorra con gran disinvoltura, non si può purtroppo negare che We’re All So-

mebody from Somewhere manchi della tensione e forza espressiva che caratterizzavano i primi lavori degli Aerosmith: la cosa si fa evidente verso la fine della tracklist, quando Steven si produce in una nuova versione del classico Janie’s Got a Gun (1994), senza riuscire a toccare le vette di allora. Nel campo delle rivisitazioni, la vera sorpresa è però una cover piuttosto fedele del classico di Janis Joplin Piece of My Heart, qui interpretato con l’aiuto della The Loving Mary Band, dando vita a un’ottima versione di questo brano immortale. In definitiva, Steven Tyler può essere soddisfatto di sé, dal momento che è riuscito a mettere insieme un album sicuramente destinato ad appagare i desideri dei suoi fan più accaniti, i quali apprezzeranno il perfetto equilibrio tra tradizionali prodezze rock e ballate ad alto voltaggio emotivo. Certo, tutto appare molto codificato e assai poco originale; ma l’effetto sorpresa non è probabilmente la prima cosa che oggi si richiede a una rockstar quasi settantenne. Il che, tuttavia, non ci impedisce di sperare che la prossima occasione ci doni uno Steven meno manierato e, perché no, più coraggioso.

A mio nonno, Manlio Zenone; foto: un cavallo di razza (so che gli farebbe piacere, a lui sottufficiale dell’esercito nelle mitiche «truppe del treno»)

Caro Gustav, anche se ci occupiamo di generi musicali diversi devi sapere che una tua celebre frase ci accompagna da molto tempo: «tradizione è tramandare il fuoco». Con riconoscenza l’abbiamo fatta nostra.

Ciao nonno! Sei partito troppo presto, ma sei riuscito a trasmettermi la relatività delle cose e della vita: maestro di aneddoti di ogni genere, di tanti tempi e tanti luoghi, storie di nebbie d’agosto e cuoco eclettico di esclusive pietanze, come i ghiri presi con le trappole poi arrostiti assieme alle patate tagliate a fette. Magistrale! Il primo organetto lo vidi da te, sopra l’armadio della tua stanza da letto, un vecchissimo strumento arrivato lì con l’emigrazione. Il tuo «mah» pronunciato mentre ascoltavamo alla radiolina transistor Blaser e Bigatto che commentavano i primi passi sulla luna mi risuona ancora oggi. Alégar!

A Roberto Leydi; foto: un’immagine dal mio archivio che raffigura un momento del Carnevale di Loco, in Onsernone, nel 1928

A Jimi Hendrix; foto: un’immagine degli anni 70 sui monti di Auressio durante la fienagione, con ranze, rastrelli e gerli

Caro Roberto, ti ascoltavo assieme a mia mamma – in quella che allora si chiamava Radio Monte Ceneri – nel-

Hi Jimi! Sei tu la mia prima finestra sul mondo, ti ascoltavo sul transistor, in alternativa alle strette regole della nostra oralità, vedendo scampoli dei tuoi concerti nelle immagini disturbate nei primi e rari televisori. Le tue stratocaster suonate sulla schiena – con la lingua e coi denti – poi distrutte contro gli ampli per me rappresentavano la rabbia, l’impotenza, la frustrazione dei meno ascoltati, dei neri, dei poveri, e la voglia di un altro mondo. Ti avevo fatto mio. Poi i cantautori come Guccini e De André, trasmessi senza paura dalla radio di quegli anni. Li cantavo, questi, con la chitarra tra una polka e una monfrina durante interminabili serate di gavetta (organettobar) nelle osterie. E così grazie a te e a loro ho imparato a fare pace con le mie radici e a occuparmi di quella che i professori hanno chiamato la «cultura delle classi subalterne». Stay alive!

A te che sei stato il mio maestro di «canto» alle scuole maggiori invio la prima cartolina. Come ringraziamento per avermi aperto le porte della musica, aiutandomi a liberare i primi suoni sul flauto ascoltando la Moldava di Smetana. Irriverente e sempre fedele a se stesso, Steven Tyler sulla copertina della sua più recente fatica. (Keystone)

le tue puntate di Sentite buona gente! Ricordo mia mamma che mi ripeteva «u parla propi begn!» («parla proprio bene!»). Il destino ha poi voluto che ci conoscessimo di persona: io principiante e inconsapevole ma con le trippe montanare (ti interessavano proprio quelle, ora lo so), con il mio vecchio organetto sgangherato e le dita che tremavano dall’emozione. Grazie di tutto! (Nel frattempo ho messo a riposo l’organetto sgangherato e lo strumento che suono adesso me lo sono costruito per bene)

A Gustav Mahler; foto: una moderna cornamusa elettronica

Il musicista ticinese Mauro Garbani.

Parliamone di Simona Sala Merveilleux Vincent

Partisan, un film inquietante e magnetico. (cinema.everyeye.it)

Vincent Cassel non sbaglia un colpo: l’attore francese accumula un successo dopo l’altro. Purtroppo però, ciò accade in tempi in cui la distribuzione cinematografica arranca sempre di più, e dunque il cinema è sempre meno un veicolo di promozione di film d’autore. È anche il caso dei due recenti Mon roi e Partisan. Il primo, realizzato dalla curiosa regista e attrice francese Maïwenn, è la storia di un amour fou, e se ha una pecca, è forse quella di ruotare interamente intorno al fascino dannato e appunto fou del suo protagonista maschile, insostenibilmente fascinoso (comunque il film ha vinto diversi César e la coprotagonista Emmanuelle Bercot si è aggiu-

dicata la Palma d’oro a Cannes 2015). Partisan lo dobbiamo invece al giovane e talentuoso regista australiano di origini ucraine Ariel Kleiman (su youtube si trova il suo splendido corto Deeper Than Yesterday premiato a Cannes nel 2010) che ha fortemente voluto Vincent Cassel per un film misterioso e inquietante sul concetto di famiglia in senso lato, girato tra l’Australia e la Georgia. Fino a dove può spingersi un padre per difendere con le unghie e con i denti quello che gli è più caro? Ce lo mostra un Vincent Cassel più in forma che mai, cui ormai basta una quasi impercettibile contrazione del labbro per esprimere uno stato d’animo. Quando si dice recitare...


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 agosto 2016 ¶ N. 35

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Cultura e Spettacoli

Vivere nel flusso delle note Personaggi Intervista al jazzista Kenny Barron, che è appena stato insignito del titolo di miglior pianista

nella classifica annuale della rivista «Downbeat» Alessandro Zanoli Pianisti jazz: riflettendo sulla storia di questa importante stirpe di musicisti, d’istinto, ci si rende conto che esiste una linea di demarcazione importante. E così, a orecchio, sul tronco dell’albero del jazz verrebbe voglia di tirare un segno con una matita più o meno all’altezza di Keith Jarrett. Quando ci si imbatte in un pianista anagraficamente precedente, lo si capisce subito per il suono brillante, assertivo e per la mancanza di tournure intellettuali. E l’esecuzione si trasforma in un momento, per quanto aristocratico, anche giocoso. Kenny Barron, dall’altezza dei suoi 73 anni, si siede alla tastiera con naturalezza e con un sorriso sornione. A vederlo da vicino, poi, ci si accorge che i 60 anni trascorsi pigiando tasti bianchi e neri qualche traccia l’hanno lasciata. In particolare sulle unghie dal bordo piatto, piegato all’in giù. Nato a Filadelfia, comincia a suonare negli anni 50 con il grande batterista Philly Joe Jones, forse il più celebre filadelfiano che si ricordi oggi. Punti di svolta della sua carriera sono gli incontri con Dizzy Gillespie, con James Moody, con il repertorio di Monk (di cui è uno dei più grandi specialisti) e infine con Stan Getz, negli anni 80. Il suo contributo al jazz odierno è puro suono della tradizione riconosciuta, quella che sale da Fats Waller e arriva a Oscar Peterson, per intenderci. Una messa in pratica quotidiana del «gioco del jazz», secondo la ricetta mainstream, che è ormai un’eredità «classica». Lo incontriamo ad Ascona dopo un bellissimo concerto, organizzato dal locale Jazz Cat Club, in cui ha suonato in duo con il pianista italiano Dado Moroni. Gli chiediamo se è vero quanto confessato da Moroni al pubblico durante la performance. Cioè che i due non si erano messi d’accordo sul programma da suonare e anzi avevano deciso di sfidarsi a turno: proponendo ognuno un pezzo a cui il partner era obbligato ad adattarsi. Lui ci guarda serafico: «Eh, sì, funziona così: ognuno di noi inizia un pezzo e l’altro lo segue». Nessun problema: questo è il vero jazz,

preso nella sua componente agonistica. Chiediamo se non è complicato duettare con un altro pianista, uno che gioca sulla stessa gamma di note, con gli stessi timbri. «Può esserlo» risponde Barron, «la prima cosa importante è che i due stili siano compatibili, siano simili. Nel corso della carriera mi è capitato di registrare alcuni dischi in duo, con altri pianisti. Ne ho fatto uno con John Hicks nell’89, Kenny Barron-John Hicks Quartet – Rhythm-A-Ning, e nel 1978 avevo registato Together con Tommy Flanagan. Nel primo dei due dischi John Hicks suonava molto più forte di me e abbiamo dovuto trovare un modo per far funzionare le cose. Nel caso del duo con Dado, invece, tutto è molto più semplice. Siamo molto compatibili stilisticamente». Intuitivamente viene da pensare che per un pianista sia molto più semplice duettare con qualcuno che suona uno strumento diverso, dal timbro e dall’articolazione differente, tipo il sax, o la tromba. «In realtà ci sono diversi livelli che devono essere messi in sintonia: melodia, ritmo e accompagnamento. Se torniamo al caso dei due pianisti, possono esistere differenze nel modo stesso di concepire gli accordi. Un accordo di Si come lo intendo io, può essere qualcosa di diverso per un altro. Sono differenze che possono creare situazioni affascinanti, ma anche qualche difficoltà». Poniamo a Barron una domanda forse un po’ scontata, ma significativa per ogni appassionato: se potesse scegliere un grande pianista della storia del jazz, con chi desidererebbe duettare? Forse con Monk? Con Ellington? «Per dire la verità» risponde Barron «l’ipotesi è affascinante, ma credo che se potessi suonare con quelli che sono reputati grandi maestri del jazz sarei piuttosto spaventato... (ride). Direi che il duo con Tommy Flanagan è la dimensione in cui mi sono trovato meglio. I pianisti che mi piacciono di più vengono in prevalenza dall’area di Detroit: Tommy Flanagan, Hank Jones, Barry Harris». E parlando di Filadelfia, la sua città natale, gli ricordiamo che lì, negli anni 60, si era creato un piccolo incubatore di ottimi solisti, jazzmen di sicura importanza, che hanno aggiunto po’ di funk al jazz. «Beh, è vero. Tra i sassofoni-

Un momento del concerto al Jazz Cat Club di Ascona. (Massimo Pedrazzini)

sti possiamo certamente ricordare Benny Golson; tra i batteristi Philly Joe Jones. Ma ci metterei anche un altro batterista, forse meno noto, Tootie Heat. Sono tutti jazzisti della mia generazione o di quella precedente. Di quelli di oggi non potrei dirle». Parlando con Kenny Barron della sua lunga carriera viene voglia di ripercorrerne le tappe più importanti, segnate ognuna da una forte originalità. Sono quelle che rendono unico il suo contributo alla storia del jazz. Parliamo ad esempio del periodo in cui ha affrontato il repertorio classico, creando un’originale miscela stilistica. «Il nostro Classical Jazz Quartett, in cui ho suonato con il vibrafonista Stefon Harris, è nato perché il pianista e arrangiatore Bob Belden, che aveva scritto quegli adattamenti di brani classici, non aveva poi voluto suonare nel gruppo. Così mi ci sono trovato io. Alla fine abbiamo registrato tre album, The Classical Jazz Quartet Play Tchaikovsky, The Classical Jazz Quartet Play Bach, The Classical Jazz Quartet Play Rachmaninov. Avremmo potuto suonare molto con quel gruppo» (composto anche da Ron Carter al contrabbasso e Lewish Nash alla batteria) «ma avevamo un sacco di problemi per poterci accordare

sulle rispettive agende. Quindi alla fine l’abbiamo lasciato cadere. Peccato, mi sembrava che il pubblico apprezzasse. La sezione ritmica era ottima e gli album hanno avuto successo». Altro grande campo di sperimentazione per Barron è stata la musica brasiliana. «Ho sempre suonato brani brasiliani all’interno del mio repertorio, anche se non spesso. La tradizione musicale brasiliana è molto ampia e complessa, quindi non facile da conoscere. Nel corso degli anni, del tutto per caso, sono poi entrato in contatto con musicisti che avevano questa inclinazione». Barron racconta come a New York gli capitasse di suonare regolarmente in un locale che dava su Union Square. Lì, il sabato, si teneva un mercato con specialità sudamericane. «C’erano molte persone che si riunivano per suonare. Alla fine mi sono trovato ingaggiato in uno dei gruppi. Mi hanno mostrato alcuni pezzi, anche difficili, e io ho cominciato a prendere confidenza. Come dicevo è una tradizione musicale ricca, complessa, con molti stili. Ci sono compositori straordinari, come Pixinguinha, che mi verrebbe da paragonare quasi a Bach. Ho visitato le scuole di samba, entrando in contatto con strumenti tradizionali come il cava-

quinho; i ritmi poi sono come i marchi d’origine delle varie zone del Brasile». Per avvicinare questa cultura a Barron non è stato necessario viaggiare: «Ci sono andato solo alcune volte, soprattutto per registrare album. Nel 2013 abbiamo fatto l’ottimo Kenny Barron & The Brazilian Knights con l’eccezionale trombettista Claudio Roditi». In una carriera ricca di collaborazioni di vario genere come quella di Kenny Barron è significativo infine sottolineare i rapporti che ha intrattenuto con alcuni importanti musicisti svizzeri: George Robert e Daniel Humair. «Con George, purtroppo morto nel marzo scorso, abbiamo registrato tre dischi: Soul Eyes, nel 2000, Peace, nel 2003 e Coming Home del 2014. Molto tempo fa abbiamo fatto anche un concerto a Lugano. Suonavamo prevalentemente standards. Ci siamo conosciuti per caso molti anni fa, in America, in occasione degli incontri della International Association of Jazz. Nel 2000 George mi ha poi invitato qui a suonare in un suo gruppo. Si trattava di un tributo a Phil Woods, e c’erano anche Alvin Queen alla batteria e Rufus Reid al basso». Per quello che riguarda la collaborazione con Humair, ha dato luogo a un disco molto bello: «Avevamo formato un trio: c’era Dave Holland al contrabbasso; era il 1985. Abbiamo fatto un disco che si chiamava Scratch. Proprio domani sera suonerò nuovamente con lui a Losanna in ricordo di George Robert: sono stato invitato con Dado per rendere omaggio al sassofonista svizzero». A distanza di giorni, sbobinando la registrazione di questo incontro, si rinnova lo stupore per l’affabilità e la semplicità di questi grandi artisti, protagonisti della storia del jazz. Il discorso scorre con grande naturalezza e gli accenni alla tradizione della musica neroamericana – per noi appassionati quasi frammenti di un’epica sospesa nell’empireo jazzistico – per Barron, come per altri personaggi del suo livello, sembrano quasi un ricordo di famiglia. Quando glielo si fa notare, Barron sembra sorpreso dalla nostra sorpresa, lui che vive galleggiando in un continuum fatto di musica, in un flusso di note e canzoni che è la sua quotidianità. Il suo unico, incredibile, posto nel mondo.

L’eterno rischio del terremoto Gli antichi e noi Alcune zone dell’Italia sembrano destinate ad essere colpite da terremoti, come confermano

alcuni brani dell’antichità Elio Marinoni La giornata di mercoledì 24 agosto è stata scandita, nella Svizzera italiana come nella vicina penisola, dalle notizie sempre più allarmanti sul terremoto che ha colpito l’Italia centrale: dall’alba del 24 alle prime ore di giovedì 25 agosto il numero dei morti accertati è progressivamente salito da 3 a 247. E si tratta ancora di un bilancio provvisorio. I media hanno fortemente sottolineato la sismicità dell’Italia e in particolare della dorsale appenninica centro-meridionale: è sufficiente la cronaca degli ultimi cinquant’anni a dimostrare che le popolazioni di queste regioni sono destinate a convivere (e talvolta a morire) con i terremoti. Uno sguardo ad età più remote conferma che si tratta di una costante. Ecco cosa scrive Seneca (I sec. d.C.), nel VI libro delle Naturales quaestiones, dedicato appunto al fenomeno del terremoto, a proposito del sisma che colpì Pompei e l’area limitrofa il 5 febbraio del 62 d.C. (solo 17 anni prima della fatale eruzione del Vesuvio!):

«Pompei […] è sprofondata a causa di un terremoto che ha devastato tutte le regioni adiacenti. […] Questo terremoto […] ha devastato con gravi distruzioni la Campania, regione che non era mai stata al sicuro da questa calamità e che ne era sempre uscita indenne, anche se tante volte morta di paura: infatti, anche una parte della città di Ercolano è crollata e anche ciò che è rimasto in piedi è pericolante, e la colonia di Nocera, pur non avendo subito gravi danni, ha comunque motivo di lamentarsi; anche Napoli ha subito perdite […] « (Naturales quaestiones, VI, 1-2). L’autore si sofferma poi sulle reazioni emotive al sisma e sulle sue conseguenze anche in termini si salute mentale: «Alcuni dopo questi fatti sono andati errando con la mente sconvolta e non più padroni di sé. […] Bisogna cercare modi per confortare gli impauriti e per togliere il grande timore. Infatti, che cosa può sembrare a ciascuno di noi abbastanza sicuro, se il mondo stesso viene scosso e le sue parti più solide

vacillano? Se l’unica cosa che c’è di immobile e di fisso in esso, tanto che regge tutte le cose che tendono verso di essa, tremola; se la terra ha perso quella che era la sua peculiarità, la stabilità: dove si acquieteranno le nostre paure? […] Lo sbigottimento è generale, quando le case scricchiolano e si annuncia il crollo. Allora ciascuno si precipita fuori […] e si affida all’aria aperta […]»(Naturales quaestiones, VI, 3-5). Confrontando queste annotazioni con ciò che abbiamo visto alla televisione possiamo concludere che ben poco è cambiato da allora in termini antropologici. Il filosofo esorta però a evitare reazioni impulsive dettate dal panico (Naturales quaestiones, VI, 1-2 : «Facciamoci coraggio contro questa catastrofe che non può essere né evitata né prevista, e smettiamo di dare ascolto a coloro che hanno rinunciato alla Campania e che sono emigrati dopo questo evento e dicono che non rimetteranno mai piede in quella regione» (Naturales quaestiones, VI, 10). E adduce due mo-

Quel che resta di Pescara del Tronto. (Keystone)

tivazioni: l’inevitabilità della morte e il fatto che, a suo avviso, nessuna terra è immune dal pericolo sismico: «questo difetto di mancare di coesione e di disgregarsi per più cause e di durare nel complesso, ma di crollare nelle singole parti è proprio di tutte le terre» (Naturales quaestiones, VI, 15). Un convincimento che Seneca ricava dalla cosmolo-

gia stoica, secondo cui il movimento è la legge generale dell’universo: «La natura non ha generato niente che fosse immobile; qualcosa cade un giorno, qualcosa un altro e, come nelle grandi città si puntella ora questa casa ora quella, così in questo globo terrestre va a pezzi ora questa parte ora quella» (Naturales quaestiones, VI, 12).


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Idee e acquisti per la settimana

Cucina & Tavola

Ben filtrata è più buona Il filtro per l’acqua di Cucina & Tavola riduce il contenuto di calcare, metalli pesanti come piombo e rame come pure altri residui contenuti nell’acqua potabile. Il filtro ottimizza il sapore dell’acqua, che così potrà essere usata ancor meglio per cucinare e per preparare bevande calde e fredde. L’acqua filtrata protegge gli apparecchi domestici e allunga la loro durata.

Con ogni cartuccia si possono filtrare fino a 150 litri d’acqua: Cucina & Tavola Duomax Cartucce 3 pezzi Fr. 14.80

Filtro per l’acqua plus 1 Duomax cartuccia Fr. 16.80

Mirtilli e cetrioli nell’acqua filtrata non sono solo belli da vedere, ma conferiscono all’acqua anche uno speciale sapore.


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Idee e acquisti per la settimana

Idee e acquisti per la settimana

Potz, Hygo e Migros Plus

Per la perfetta pulizia autunnale È giunta l’ora di rimettere a lucido la casa dopo le vacanze estive. Soprattutto per il bagno e la cucina servono prodotti per la pulizia efficaci ed affidabili. Molti prodotti per l’igiene dei marchi Potz e Hygo, nonché quelli ecologici di Migros Plus, sono in offerta speciale fino al 12 settembre Testo Dora Horvath

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1

4

3 2 La cucina e il bagno sono i locali della casa più difficili da pulire.

Azione Grazie alla nuova formulazione garantisce un risultato senza aloni, anche sugli specchi: Potz Vetri Duo, 2 x 500 ml Fr. 5.90 invece di 7.40

3 Con carbonato di sodio per sciogliere efficacemente il grasso dalle superfici; biodegradabile al 99 percento: Migros Plus Deterente per La Cucina 750 ml Fr. 4.50

Azione Con limone per pulire delicatamente diverse superfici; biodegradabile al 98 percento: Migros Plus Crema Detergente Duo, 2 x 750 ml Fr. 5.60 invece di 7.–

Per il bagno e il WC

Azione Scioglie sporco e grasso con sostanze naturali e rinnovabili, ed è biodegradabile al 99 percento: Migros Plus Detergente Universale Duo, 2 x 1l Fr. 4.85 invece di 6.10

2 Per la cucina

Per la casa

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4 Azione* Pulisce e decalcifica efficacemente il WC: Hygo WC Power Concentrato 500 ml Fr. 2.80

Azione* La potente schiuma per il WC e il bagno elimina sporco, calcare e macchie di urina: Hygo WC Maximum Power Mousse 500 ml Fr. 4.10

5 Azione Elimina con efficacia sporco, resti di sapone, macchie di calcare e aloni di grasso: Potz Detergente Bagno Duo, 2 x 500 ml Fr. 5.90 invece di 7.40

Nuovo Rimuove il calcare ed evita che si riformi nella cabina doccia grazie alla protezione attiva anticalcare: Potz Shower* 500 ml Fr. 4.20 *Nelle maggiori filiali

*All’acquisto di due prodotti Fr. -.60 di riduzione

L’M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i prodotti per la pulizia Migros Plus e Potz.


! 5 R E P I T A C I L P I T L O M I S I R SOR

Se utilizzi l’App Migros con conto Cumulus per la prima volta tra il 23.8.2016 e il 31.10.2016, ricevi un buono sconto esclusivo 5x.


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Idee e acquisti per la settimana

Invito alla festa di compleanno di Migros Bellinzona Giubileo Domenica 4 settembre, dalle 10 alle 18 il supermercato

Migros di Bellinzona vi aspetta!

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La filiale di Migros Bellinzona situata nell’inconfondibile «cupola» festeggia i suoi primi 50 anni! Il negozio Migros dei bellinzonesi è ancor oggi un oggetto d’interesse per i numerosi turisti che si affacciano dalle mura di Castelgrande. La sua inaugurazione risale al 1966, anno in cui Migros Ticino trasferì il suo primo negozio aperto nella capitale situato in Piazza Collegiata. Oggi questo punto vendita, aperto dalle 8 alle 18:30 (giovedì fino alle 20) soddisfa pienamente i bisogni dei numerosi clienti che lo frequentano per la spesa di tutti i giorni. Il restyling completo apportato nel 2005 ha permesso non solo di ottenere un ambiente dalla luminosità naturale unica, ma anche invitanti «isole del fresco» centrali; dalla frutta e verdura alla panetteria, dal banco gastronomia alla macelleria. Grazie alle sue caratteristiche architettoniche, all’in-

terno del punto vendita ci si muove con estrema funzionalità, aspetto che sarà ulteriormente migliorato a breve con l’implementazione di nuove casse «selfcheckout». Per una pausa caffè con le dolci tentazioni della rinomata pasticceria artigianale; per uno spuntino o per la pausa pranzo con un succulento trancio di pizza o un gustoso panino, oppure con una fresca insalata per i più attenti alle calorie; tutto questo è offerto ogni giorno al Migros De Gustibus, i cui tavolini sia all’interno che all’esterno sono gettonatissimi a tutte le ore. Ma torniamo a domenica; per questa occasione speciale il supermercato e il De Gustibus rimarranno aperti dalle 10 alle 18 e offriranno il 10 per cento di riduzione su tutto l’assortimento (ad eccezione di un numero ridotto di prodotti e delle prestazioni di servizio). Inoltre per tutti gli appassionati di tec-

nologia per il tempo libero, ecco due eccezionali promozioni da non perdere: un televisore Samsung LED 4kuhd ue-55ku6400-55” al prezzo di Fr. 699.–* invece di 1’399.– e un Notebook Acer Extensa 2511G54P9 al prezzo di Fr. 299.–* invece di 599.–. (* a questo prezzo si aggiungerà il 10% di riduzione indicato sopra). Le quantità sono limitate e, vista l’eccezionalità di queste due promozioni, non si accettano riservazioni e un solo televisore e un solo Notebook per cliente. E ancora vi sarà la possibilità di imbucare il tagliando a lato per partecipare al concorso che mette in palio una carta regalo Migros del valore di Fr. 5’000.–! Alle ore 16 verrà distribuita in omaggio – fino ad esaurimento – una fetta di torta di compleanno a tutti i visitatori. Il gerente Renato Mazzoletti e il suo team vi invitano a questa festa!

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Idee e acquisti per la settimana

Il buon pane ticinese Attualità I due pani nostrani sono prodotti esclusivamente con

farina da cereali coltivati sui campi ticinesi. Per garantire un prodotto buono e genuino, entra in gioco ancora il lavoro artigianale

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Sono una trentina i produttori ticinesi che coltivano cereali destinati alla panificazione secondo i criteri IP-Suisse. Il loro raccolto viene consegnato al Mulino Maroggia, dove viene delicatamente trasformato in farina secondo le necessità del panificio Jowa di S. Antonino.

Nel panificio di S. Antonino e nelle panetterie della casa di S. Antonino e Serfontana la farina ticinese viene impastata con l’ausilio di piccole impastatrici. Successivamente il panettiere modella a mano l’impasto delle pagnotte per conferire la forma desiderata.

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Le pagnotte appena uscite dal forno sono subito imballate nel loro sacchetto e prendono la via dei supermercati Migros. L’addetto al reparto del pane controlla regolarmente gli scaffali affinché siano riforniti di delizioso pane nostrano in ogni momento della giornata.

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Sono due le aromatiche tipologie di pane nostrano ottenibili alla Migros: il pane tipo alla ticinese – Pan Nostran – è formato da quattro micche facilmente spezzabili con le mani. Molto soffice al suo interno, è fatto con farina bigia. Il Pane Passione è un intramontabile dell’assortimento: questo filone bianco stuzzica i palati grazie alla sua crosta croccante e alla mollica morbida e aerata.

Dopo aver riposato il tempo necessario per sviluppare tutto il loro aroma, le pagnotte vengono infornate con l’ausilio dell’apposita pala. La temperatura del forno viene costantemente monitorata per poter ottenere un prodotto croccante al punto giusto.

Pane Passione Nostrano 420 g Fr. 3.80

Pan Nostran 300 g Fr. 2.20


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Idee e acquisti per la settimana

Un pomodoro molto versatile Attualità Il pomodoro Intense ha

conquistato i gusti dei consumatori ticinesi Vuoi per la sua capacità di mantenere forma e struttura anche dopo la cottura, vuoi per il fatto che non perde il proprio succo una volta tagliato e preserva l’intenso colore rosso a lungo, vuoi ancora per il suo sapore delicato: il pomodoro Intense si è ormai ritagliato un posto di riguardo nel già ampio assortimento di pomodori nostrani venduti da Migros Ticino. Introdotto due anni or sono, oggi questo particolare pomodoro è coltivato con successo da una decina di orticoltori della nostra regione. Intense è l’ingrediente perfetto per tutti gli amanti della buona cucina. È ottimo utilizzato nelle più svariate preparazioni: in insalata, ripieno, per zuppe e succhi, grigliato, cotto al forno, sulla pizza; tagliato a fette sottili è perfetto per farcire sandwich, per

la caprese oppure per fantasiose decorazioni, a dadini diventa l’ingrediente ideale per sfiziose bruschette o ancora per essere aggiunto alla pasta a freddo. Intense è anche indicato per preparare una gustosa marmellata di pomodori: pelare quattro pomodori e tagliarli in quarti. Eliminare i semini e tagliare la polpa a cubetti. Riscaldare un poco d’olio in una casseruola e soffriggervi a fuoco medio uno spicchio d’aglio sminuzzato finemente per due minuti. Aggiungere i pomodori, un cucchiaio di concentrato di pomodori e un cucchiaio di miele. Salare e pepare a piacimento. Cuocere lentamente mescolando regolarmente per una ventina di minuti fino a quando il tutto si addensa. Travasare in un vasetto e, una volta raffreddato, conservare in frigo.

Pomodoro Intense 700 g Azione 20% di sconto Fr. 3.30 invece di 4.20 Dal 30.8 al 5.9

La salute passa anche dall’acqua: Aquaciara, l’acqua sorgiva del Monte Tamaro

Aquaciara naturale 1.5 l Fr. –.70 Aquaciara frizzante 1.5 l Fr. –.70 Aquaciara frizzante 0.5 l Fr. –.55

Attualità Un’acqua a basso contenuto di sali

minerali apprezzata da tutta la famiglia

La TAMARO DRINKS SA, azienda ticinese a conduzione familiare (che gode inoltre dal 2011 della certificazione di qualità FSSC 22000 Food Safety), fondata il 4 giugno 1984, compie quest’anno 30 anni di imbottigliamento dell’unica acqua minerale naturale ticinese. La TAMARO DRINKS SA rifornisce Migros Ticino con la nota Aquaciara nelle varianti naturale e frizzante, acqua che sgorga alle pendici del Monte Tamaro, che si contraddistingue per il grado di mineralizzazione molto basso, che risulta così vicina ai valori massimi di purezza riscontrabili in acque naturali, rispettivamente nella costanza della sua composizione chimica, qualità

che la rendono un’acqua ideale per un uso quotidiano per qualsiasi fascia d’età e quindi per tutta la famiglia, per di più a Km zero. L’acqua di sorgente è simbolo di dinamicità e vitalità ed è questo il caso dell’Aquaciara. Grazie a queste qualità l’Aquaciara è particolarmente indicata per la preparazione degli alimenti per neonati e bambini, nonché per diete povere di sodio, come pure perfetta come base per la preparazione di tisane, tè, limonate e fruttati sciroppi. L’Aquaciara è disponibile presso Migros Ticino nel formato PET da 1,5 litri nelle varianti naturale e frizzante, mentre il pratico formato PET da 0.5 litri è ottenibile solamente nella versione frizzante.

Il consumatore deve essere attento a ciò che consuma, in particolar modo se il bene alimentare è appunto l’acqua, quindi un bene assunto in grande quantità. Durante la stagione calda il fabbisogno di liquidi da parte del nostro organismo aumenta. Chi non beve a sufficienza e regolarmente si sente stanco, fa fatica a concentrarsi e il suo rendimento diminuisce. Le bevande più adeguate sono l’acqua naturale o frizzante, oppure anche tè o tisane alle erbe o alla frutta non zuccherate. Ogni individuo necessita di almeno 1,5/2 litri di acqua al giorno per rimanere sano e in forma.

Flavia Leuenberger

L’importanza di bere


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Idee e acquisti per la settimana

Porte aperte al Mulino Maroggia Attualità 30 lettori di Azione potranno visitare in esclusiva

la dinamica azienda luganese attore il campicoltore; nella fattispecie circa una trentina fra grandi e piccoli produttori sparsi per tutto il cantone». Le zone più produttive, è facile intuirlo, sono situate nel piano di Magadino, ma anche il Mendrisiotto e la Riviera sono degnamente rappresentati. Per il 2016 le quantità raccolte sono le seguenti: grano tenero (Triticum aestivum): 480 tonnellate; grano duro (Triticum durum): 35 tonnellate; segale (Triticum Secale): 4 tonnellate. «Una volta raccolti, i cereali passano nelle nostre mani. Il Mulino Maroggia ha infatti il compito di valutare, attraverso diverse analisi di laboratorio, la qualità del grano consegnato e, successivamen-

te, di procedere allo stoccaggio finale, alla trasformazione in farina e al confezionamento secondo le richieste dei clienti». Vuoi partecipare ad una visita guidata presso il Mulino Maroggia? Per farlo è necessario iscriversi, telefonando al numero 091 840 12 61, mercoledì 31 agosto, tra le ore 10.30 e 11.30. Le porte aperte si terranno: ¶ martedì 13 settembre, ore 14.00; ¶ mercoledì 14 settembre, ore 15.00; ¶ giovedì 15 settembre ore 17.00. Sono riservate a 10 persone per giornata. La durata della visita è di circa un’ora e mezza.

Flavia Leuenberger

Farina bianca, farina per pizza e, prossimamente, farina di segale: questi sono i prodotti dei campi ticinesi accuratamente trasformati dal Mulino Maroggia e disponibili sugli scaffali di Migros Ticino. Alessandro Fontana, responsabile della produzione presso il mulino, ci parla del raccolto di quest’anno di cereali panificabili ticinesi: «L’ultima settimana di luglio nel nostro Cantone è terminata la raccolta dei cereali destinati alla produzione di pane e pasta. Contemporaneamente si chiude un ciclo, durato diversi mesi, sempre molto delicato e dipendente dalle condizioni climatiche, che vede come principale

Affettato misto e luganighetta sono solo due delle molte proposte nostrane.

Voglia di specialità locali Il raccolto 2016 di cereali ticinesi è stato buono.

Farina per Pizza 500 g Fr. 1.40

Farina Bianca 1 kg Fr. 2.–

Durante le settimane ticinesi, come consuetudine, anche i Ristoranti Migros di S. Antonino, Agno, Grancia e Serfontana offrono ai propri avventori un’ampia scelta di deliziosi piatti a base di ingredienti rigorosamente locali. Che si tratti di uno sfizioso piatto freddo, di una croccante insalata oppure di una specialità dalla padella, tutte le proposte sono pre-

parate freschissime dagli abili chef. Tra i piatti proposti, vi segnaliamo ad esempio la polenta abbrustolita con formaggella Monte Lema; il manzo in salsa verde; la selezione di genuini formaggi misti nostrani; i raviöö con diversi ripieni; la luganighetta in umido con risotto; lo stinco di maiale al forno con rösti oppure ancora il brasato di manzo con polenta taragna.


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Idee e acquisti per la settimana

Migros Sélection

Susina e albicocca in uno Le Plumcot sono un incrocio naturale tra susina e albicocca, e il nome è composto dalle parole inglesi «plum» e «apricot». La superficie e la polpa ricordano maggiormente una susina piuttosto che un’albicocca. Il sapore è dolce e aromaticamente rinfrescante. Questo frutto rosso dalla polpa leg-

germente chiazzata è disponibile solamente per due-tre settimane. Un’ottima occasione insomma per assaggiare le Plumcot provenienti dalla Spagna e dalla Francia. Le Plumcot sono ideali come snack, ma anche per la preparazione di piatti a base di selvaggina, salse e dessert.

Disponibili solo per breve tempo.

Le Plumcot sono particolarmente dolci e hanno un piccolo nocciolo.

Migros Sélection Plumcot vaschetta da 3 pezzi, 250 g Fr. 1.95 *Nelle maggiori filiali


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Idee e acquisti per la settimana

Olio di cocco

Tuttofare in cucina Per cuocere al forno, arrostire o cucinare: l’olio di cocco bio certificato Fairtrade è sempre la soluzione ideale in cucina. Quest’olio pressato a freddo regge bene le alte temperature e non contiene nessun additivo, in quanto è ricavato direttamente da noci di palme da cocco coltivate biologicamente nello Sri Lanka. In tal modo si mantengono anche le sostanze nutritive naturali e il tipico aroma. Le noci di cocco provengono da contadini che producono seguendo le severe linee direttive bio e Fairtrade.

Insalata di cavolo bianco con dadini di pollo croccanti Piatto principale per 4 persone Ingredienti 500 g di cavolo bianco 2 cipollotti 1 peperoncino 1 cucchiaio d’olio di cocco 4 cucchiai d’aceto di vino bianco, ad es. con dragoncello 2 cucchiai di salsa di soia 1 cucchiaio di miele ai fiori liquido 6 cucchiai d’olio di girasole sale Dadini di pollo: 400 g di petti di pollo sale, pepe 2 cucchiai d’amido di mais 50 g di noce di cocco grattugiata 30 g di pangrattato 2 albumi ca. 200 g d’olio di cocco

Preparazione 1. Dimezzate il cavolo bianco ed eliminate il torsolo. Tagliate il cavolo a fette sottili. Tritate la parte bianca dei cipollotti. Dimezzate il peperoncino, eliminate i semini e tritatelo finemente. Scaldate l’olio di cocco e soffriggetevi i cipollotti e il peperoncino. Unite il cavolo e soffriggetelo per ca. 5 minuti. Nel frattempo, mescolate l’aceto con la salsa di soia, il miele e l’olio in una scodella. Tagliate il verde dei cipollotti ad anelli. Aggiungete alla salsa il cavolo ancora bollente e mescolate bene. Unite il verde dei cipollotti e condite l’insalata con sale. 2. Tagliate la carne a dadini di ca. 2 cm. Condite con sale e pepe e spolverateli tutt’intorno di lievito. Mescolate il cocco e il pangrattato in un piatto fondo. Mettete gli albumi in un secondo piatto. Passate

la carne prima negli albumi e poi nella miscela al cocco. Scaldate l’olio in una padella per friggere. Friggete i dadini, mezzi immersi nell’olio, in due porzioni per 3-4 minuti. Estraeteli con una schiumarola, fateli sgocciolare su carta da cucina e serviteli con l’insalata di cavolo bianco. Suggerimento Lasciate raffreddare l’olio di cocco dopo la cottura, passatelo attraverso un colino a maglie fini in un contenitore pulito o di nuovo nel vasetto e riutilizzatelo per piatti salati. Tempo di preparazione ca. 30 minuti Per persona ca. 27 g di proteine, 39 g di grassi, 16 g di carboidrati, 2250 kJ/530 kcal

Consiglio Dopo la cottura, lasciar raffreddare l’olio di cocco, versarlo in un vasetto pulito attraverso un colino fine e riutilizzarlo per pietanze salate.

Foto e Styling Claudia Linsi; Ricette Lina Projer

L’olio di cocco rende morbidissima la pasta per i pancake.

Pancake alla banana e alla mela

Faitrade Max Havelaar è simbolo di prodotti commercializzati in modo equo e coltivati in modo sostenibile.

Per ca. 12 pezzi Ingredienti 60 g d’olio di cocco 2 uova 2 dl di latte 200 g di farina 2 cucchiaini di lievito in polvere 1 presa di cannella 1 presa di sale 50 g di zucchero 1 mela acidula piccola, ad es. Cox Orange 1 banana sciroppo d’acero per servire

Preparazione 1. Scaldate leggermente 2/3 dell’olio di cocco, finché diventa liquido. Sbattete le uova con il latte. Aggiungete l’olio liquido. Mescolate in una scodella la farina con il lievito, la cannella, il sale e lo zucchero. Aggiungete la miscela di latte e uova e mescolate velocemente fino a formare una pasta omogenea e densa. Lasciate riposare ca. 30 minuti. 2. Nel frattempo dimezzate la mela ed eliminate il torsolo. Dividete le mezze mele in sei pezzi e poi a fettine sottili. Aggiungetele all’impasto e mescolate.

3. Scaldate il forno e un piatto a 80 °C. Tagliate la banana a fette di ca. 3 mm. Scaldate un po’ dell’olio di cocco restante e versate nella padella 2 cucchiai d’impasto per ogni pancake. Distribuitevi alcune fette di banana. Dorate i pancake da entrambi i lati a fuoco medio. Teneteli in caldo nel forno. Servite i pancake con lo sciroppo d’acero. Tempo di preparazione ca. 20 minuti + riposo ca. 30 minuti Ogni pezzo ca. 2 g di proteine, 6 g di grassi, 14 g di carboidrati, 500 kJ/120 kcal

Migros Bio è simbolo di un’agricoltura rispettosa della natura. L’assortimento Bio comprende circa 1600 prodotti. Migros Bio Fairtrade Max Havelaar Olio di cocco 200 g Fr. 6.90 Nelle maggiori filiali

Parte di


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 29 agosto 2016 ¶ N. 35

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Idee e acquisti per la settimana

La raccolta

Nuri (3 anni) e Mila (5) accoccolate sul gigantesco trattore, le cui ruote sono molto più alte delle due bimbe.

Julia (9 anni) salta sopra una balla di paglia sul percorso di agilità.

Come funziona la Farmmania

Dal 30 agosto al 17 ottobre per ogni acquisto di 20 franchi si riceve una bustina con una figura o un seme e il relativo adesivo da incollare sull’album della raccolta. Immagine dopo immagine, si otterrà l’album completo della vita in fattoria. Il contadino sarà seguito durante tutte le stagioni dell’anno. E così, giocando, i bambini conosceranno tutto quel che ruota attorno alla campagna: Quando si semina? Quando si raccoglie? Cosa fanno gli animali d’inverno? L’album fornisce la risposta a ogni domanda.*

Farmmania

Collezionare e scoprire la campagna

Un modo per allenare l’olfatto e riconoscere le piante dal profumo Alcuni riquadri profumati nell’album – contrassegnati da un naso rosso – consentono di annusare alcuni odori, come ad esempio quelli di finocchio, mela o terra. Per rilasciare le fragranze basta strofinare un dito sul naso rosso e si sprigionerà il profumo abbinato all’immagine.

Ed eccoci nuovamente a collezionare, scambiare, incollare e giocare con le figurine. Farmmania, la nuova raccolta della Migros, parte martedì alla scoperta delle fattorie svizzere e di tutto ciò che c’è. Il preludio alle avventure in campagna era costituito da un pomeriggio in famiglia nella cascina Birkenhof nel Toggenburgo Testo Claudia Schmidt; Foto Daniel Ammann, Heiko Hoffmann

Durante una giornata d’agosto la fattoria Birkenhof della famiglia Sennhauser a Bazenheid (SG) si è trasformata in un paradiso di avventure per bambini. Famigros e il programma della Migros che promuove i prodotti regionali «Dalla Regione. Per la Regione» (in Ticino i prodotti Migros del territorio sono proposti sotto il marchio dei «Nostrani del Ticino»), hanno invitato bambini e genitori a scoprire da vicino il mondo agricolo. In concomitanza con l’evento è stata presentata la nuova collezione della Migros intitolata Farmmania. L’azienda agricola Birkenhof è incastonata nell’idilliaca regione del Toggenburgo, nel Canton San Gallo. Franz Sennhauser (40 anni) e sua moglie Petra ci vivono con i loro tre figli e il cane Amira, uno

splendido bovaro bernese, attorniati da 33 mucche da latte, un’infinità di galline, un paio di cavalli, conigli e qualche gatto. Durante un giro attraverso il cascinale, Franz Sennhauser presenta chi lavora in fattoria e cosa fa. Ad esempio Reto, uno dei suoi fratelli, munge le 33 vacche. Per molti bambini di città è inimmaginabile quante «confezioni di latte» dà una mucca ogni giorno: una bestia dei Sennhausers produce quotidianamente fino a 30 litri di latte. Ciò che corrisponde ad altrettanti imballaggi da un litro. Bontà dei produttori della Svizzera orientale

Dopo il giro è già ora di far merenda con la treccia, i tipici Landjägern, mele e uova della regione. E così si chiude il ciclo ali-

mentare: dalla fattoria alla tavola. Tutto il cibo è prodotto da aziende agricole come quella dei Sennhauser. Infatti, senza latte non ci sarebbe la panna, e senza panna con ci fa il burro con cui s’impasta la treccia. Senza contadino con ci sarebbero dunque mele, uova e neppure salsicce. Ora lo capisce anche il più piccino, nonostante sia tutto preso dal piacere della merenda. Imparare giocando sul percorso di campagna

Su piccoli trattori, i bambini potevano trasportare mini bidoni di latte, avventurandosi con coraggio sopra una rampa di carico. Alcuni si facevano spingere dai genitori per andare più veloci. Sul percorso di agilità è stata messa alla prova

anche la forma dei genitori: dovevano spingere a tutta velocità una carriola con dentro i bambini fino al primo ostacolo. Da qui in poi si testava l’agilità e l’abilità dei bambini, che dovevano strisciare, saltare e correre superando balle di paglia fino al traguardo. Via alla raccolta Farmmania

Alla fine ogni bambino riceveva una borsa con l’album della raccolta e qualche bustina per iniziare la Farmmania. Bisogna collezionare figure di animali domestici e selvatici, semi con una zolletta di terra, come pure attrezzi che un agricoltore utilizza quotidianamente: bidoni del latte, casse di legno, trattore e tutto il resto. Completa la raccolta una fattoria in miniatura.

Mikko (2 anni) in posa con peluche e forcone. Ogni bambino riceveva una sua foto stampata sul posto.

Coltivare aromi, verdure e fiori di campo In alcune bustine si celano delle zollette di terreno e dei semi. Con un po’ d’acqua e di calore (e tanto amore) dai semi spunteranno delle piantine. Una volta raccolte tutte le 15 differenti zolle di terra, i bambini (e gli adulti) avranno realizzato un piccolo orto domestico. Ispirarsi su Internet: www.farmmania.ch Su Internet troverete molte altre informazioni riguardanti l’eccitante mondo della fattoria, con filmati che vi incitano a creare un piccolo

mondo agricolo a casa vostra. Per gli insegnanti c’è anche una rubrica con materiale didattico. Una bustina ogni 20 franchi di spesa La promozione è valida in tutte le filiali e i negozi specializzati della Migros (esclusi e-shop), nei negozi Obi, nei ristoranti e take-away Migros, così come per ogni menù Lilibiggs per bambini e sul sito Le-Shop.ch. Vengono consegnati al massimo dieci bustine alla volta, corrispondenti a una spesa di 200 franchi. * I membri di Famigros che, tra il 30 agosto e il 19 settembre 2016, presentano alla cassa le tessere Famigros o Cumuls ricevono gratis l’album della raccolta, fino a esaurimento delle scorte. Si può diventare membri Famigros su www.famigros.ch.


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Idee e acquisti per la settimana

La fattoria di Farmmania

Una fattoria tutta vostra Affinché gli animaletti della collezione Farmmania abbiano una casa ritagliata su misura, bisogna assembleare personalmente la propria fattoria. Con pochi pezzi si può costruire la cascina, le stalle per le capre e i cavalli ed anche un recinto da pascolo. I bambini diventano loro stessi dei contadini e possono far finta di vivere in campagna attorniati da animali. La casa ha il tetto amovibile. Così, dopo aver giocato, si potranno riporre all’interno tutti le bestiole e gli attrezzi agricoli, senza correre il pericolo di smarrire alcunché. La fattoria (senza pezzi della raccolta) è disponibile in tutte le filiali Migros al prezzo di Fr. 9.80.

Farmmania Roadshow

Tre bustine gratis Ogni venerdì e sabato del periodo della raccolta, si svolgeranno spettacoli itineranti in determinate filiali Migros. I bambini possono partecipare a un gioco e ricevono tre bustine Farmmania a testa con le figurine o le zolle di terra con i semi. A partire dal 14 settembre, ogni mercoledì e sabato ci sarà una borsa per scambiarsi immagini e figure della collezione. Infatti, in ogni bustina si nasconde una sorpresa e i doppioni non sono rari. Così, i bambini potranno scambiarseli durante la borsa. Maggiori informazioni sui roadshow: www.farmmania.ch

Spettacolo itinerante Farmmania www.farmmania.ch


Azione 50%

30%

8.90 invece di 17.80

Salame Rapelli classico e rustico affettato e al pezzo, per es. classico affettato, Svizzera, 155 g, 4.90 invece di 7.05

SalmĂŹ di cervo, cotto Nuova Zelanda, 600 g

20%

25%

30%

1.50 invece di 1.90

2.15 invece di 2.90

5.60 invece di 8.-

Emmentaler surchoix per 100 g

Uva americana Italia, conf. da 500 g

Bresaola Beretta Italia, affettata in vaschetta da 100 g

33% 30%

30%

3.70 invece di 5.30

2.65 invece di 3.80

Pomodori ciliegia a grappolo Svizzera/Paesi Bassi, vaschetta, 500 g

Ananas Costa Rica/Ecuador, il pezzo

Migros Ticino Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli giĂ ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.8 AL 5.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

3.60 invece di 5.40 Prugne Svizzera, cestino, 1 kg


. to a rc e m l a e m o c a z z e h c s La fre 40% 8.– invece di 14.50 Ali di pollo speziate Optigal Svizzera, al kg

20% 1.30 invece di 1.70 Lattuga rossa e verde per es. rossa, Svizzera, il pezzo

50%

20%

4.55 invece di 9.10

2.40 invece di 3.05

Filetto di maiale Angus Brasile, al banco a servizio, per 100 g

Arrosto spalla di manzo TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

30%

30%

30%

16.10 invece di 23.10

2.55 invece di 3.65

1.75 invece di 2.55

Salmone affumicato Migros Bio d’allevamento, Scozia/Norvegia/Irlanda, 260 g

Salametti di cavallo prodotti in Ticino, conf. da 2 pezzi, ca. 180 g, per 100 g

Fettine coscia di maiale Svizzera, conf. da 8 pezzi, per 100 g

40%

40%

30%

25%

30%

25%

4.90 invece di 8.20

3.90 invece di 6.55

3.25 invece di 4.70

1.70 invece di 2.30

1.25 invece di 1.85

3.05 invece di 4.10

Prosciutto contadino TerraSuisse 226 g

Pancetta a dadini TerraSuisse 4 x 68 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.8 AL 5.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Pesce fresco selezionato Migros Bio per es. filetto di salmone con pelle, d’allevamento, Norvegia, per 100 g

Orata reale pulita 300–600 g Grecia, per 100 g, fino al 3.9

Luganighetta Svizzera, conf. da ca. 800 g, per 100 g

Spiedini di vitello TerraSuisse Svizzera, imballati, per 100 g


conf. da 2

20%

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5.60 invece di 7.–

2.10 invece di 2.80

8.30 invece di 13.90

7.45 invece di 10.70

16.80 invece di 24.10

Insalata novella Anna’s Best in conf. da 2 2 x 100 g

Hit 13.50 Bouquet di rose Fairtrade, mazzo da 30 lunghezza dello stelo 40 cm

Insalata mista Ticino, conf. da 200 g

Fettine di pollo impanate Don Pollo prodotte in Svizzera con carne del Brasile, 5 x 130 g

25%

20%

2.90 invece di 3.90

3.90 invece di 4.90 öv nostrán (uova Nostrane allevamento all’aperto) conf. da 9 pezzi, 53 g+

Cetrioli da campo Ticino, sciolti, al kg

Salmì di cervo, cotto Nuova Zelanda, 350 g

Sole del Ticino prodotto in Ticino, a libero servizio, al kg

20% Bastoncini alle nocciole, fagottini alle pere e fagottini alle pere Migros Bio per es. bastoncini alle nocciole, 4 pezzi, 4 x 55 g, 2.60 invece di 3.30

conf. da 12

25%

20%

25%

20%

2.50 invece di 3.40

3.60 invece di 4.50

2.85 invece di 3.80

12.– invece di 15.–

Peperoni Migros Bio Spagna, imballati, 400 g

Pesche noci gialle extra Italia, sciolte, al kg

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.8 AL 5.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Fragole Paesi Bassi, conf. da 250 g

Latte intero Valflora UHT in conf. da 12 12 x 1 l

20% Tutto l’assortimento Andros per es. Les Compotes mela/fragola, 8 x 100 g, 4.95 invece di 6.20


! re e c ia p ro e v n u è ì s o c a Far la spes conf. da 2

20% 7.– invece di 8.80 Miscela per torta al formaggio M-Classic in conf. da 2 2 x 250 g

M consiglia

a partire da 2 confezioni

20% Tutto l’assortimento Salsa all’italiana per es. alla napoletana, 250 ml, 1.25 invece di 1.60

30% Tutta la pasta Agnesi a partire da 2 confezioni, 30% di riduzione

COPPIA ASSORTITA Un delizioso piatto unico che contiene tutto ciò che di più buono ci possa essere. Stiamo parlando delle lasagne alla bolognese. Servite con un’insalata, arricchita di scaglie di parmigiano, la coppia in tavola si completa a meraviglia. Tutti gli ingredienti sono in vendita alla Migros, trovate la ricetta su www. saison.ch/it/consigliamo.

conf. da 2

conf. da 3

30% 8.80 invece di 12.60 Lasagne alla bolognese M-Classic in conf. da 3 3 x 400 g

25% Michette in conf. da 1 kg e panini al burro in conf. da 600 g, precotti, M-Classic, TerraSuisse per es. panini al burro, 600 g, 4.25 invece di 5.70

30% 9.10 invece di 13.05 Délice di pollo Don Pollo surgelati, 1 kg

40% 6.75 invece di 11.25 Bastoncini di merluzzo Pelican, MSC in conf. da 3 surgelati, 3 x 300 g

conf. da 2

20%

30%

7.80 invece di 9.80

9.60 invece di 13.80

Gnocchi Anna’s Best in conf. da 2 per es. alla caprese, 2 x 400 g

conf. da 3

Pizza Anna’s Best in conf. da 2 per es. al prosciutto e al mascarpone, 2 x 395 g

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.8 AL 5.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

conf. da 4

20% Cornetti al burro, di Sils e rustici per es. cornetto al burro, 45 g, –.65 invece di –.85

20% Tutte le conserve di verdura e la purea di mela svizzere in conf. da 4 per es. piselli e carote, 4 x 260 g, 5.10 invece di 6.40

PUNTI

20x Tutto l’assortimento Namaste India e Al Fez per es. insalata di taboulé Al Fez, 495 g, 4.90

20% Tutti i tipi di maionese, senape e salsa tartara Thomy per es. maionese à la française, 265 g, 2.– invece di 2.50


conf. da 2

20% Noci Sun Queen Premium in conf. da 2 per es. noci miste, 2 x 170 g, 7.80 invece di 9.80

20% 5.90 invece di 7.40 Sanbittèr San Pellegrino in conf. da 10, 10 x 10 cl

Hit 4.50 M&M’s Peanuts, sacchetto, 400 g

conf. da 2

20%

20%

7.80 invece di 10.40 Rivella in conf. da 8, 8 x 50 cl rossa e blu, per es. rossa

33% Tutte le bevande Passaia in conf. da 6 per es. Regular, 6 x 1,5 l, 8.40 invece di 12.60

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.8 AL 5.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

Tutti i gelati Crème d’or da 750 ml e 1000 ml surgelati, per es. al cioccolato, 1000 ml, 7.80 invece di 9.80

conf. da 3

Docciaschiuma Nivea in conf. da 3 per es. docciacrema Creme Soft, 3 x 250 ml, 5.75 invece di 7.20, offerta valida fino al 12.9.2016

Kellogg’s in conf. da 2 per es. Special K, 2 x 500 g, 7.60 invece di 9.50

8 per 6

20%

20% Tutti i tipi di caffè UTZ, in chicchi e macinato per es. caffè in chicchi Boncampo, 500 g, 3.65 invece di 4.60

conf. da 2

20% Tutti i prodotti per la cura del viso Nivea e Nivea Men per es. struccante occhi delicato Nivea Visage, 125 ml, 3.75 invece di 4.70, offerta valida fino al 12.9.2016

30% 20% Farina bianca da 1 kg e in conf. da 4, 4 x 1 kg, TerraSuisse per es. 1 kg, 1.45 invece di 1.85

Tutti i prodotti e gli accessori per la preparazione dell’acqua Cucina & Tavola, Brita, M-Classic, SodaStream e BWT (cilindro a noleggio anticipato e ricarica SodaStream esclusi), per es. cartucce per filtro Brita Maxtra, 3 pezzi, 13.85 invece di 19.80, offerta valida fino al 12.9.2016

20% Prodotti per la cura di viso, corpo e capelli Nivea in conf. da 2 per es. tonico per il viso Nivea Visage, 2 x 200 ml, 7.80 invece di 9.80, offerta valida fino al 12.9.2016

3 per 2 Tutti i pannolini Pampers (confezioni speciali escluse), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. Baby-Dry 4, maxi, 3 x 44 pezzi, 33.60 invece di 50.40, offerta valida fino al 12.9.2016


Altre offerte. Pesce, carne e pollame

Altri alimenti

Tutto l’assortimento Nescafé, per es. cappuccino, 125 g, 3.15 invece di 3.95 20% Marie Croccant e Noisette in conf. da 3, per es. Noisette, 3 x 245 g, 7.30 invece di 9.15 20%

Spiedini di pesce, prodotti in filiale (pangasius Vietnam/salmone Norvegia/pescatrice Atlantico sud-orientale/tonno Oceano Pacifico/ gambero Vietnam), per 100 g, 2.70 invece di 3.40 20% Fino al 3.9

set da 2

1.50

di riduzione Tutti i prodotti Potz in confezioni multiple per es. Calc Forte in set da 2, 2 x 500 ml, 5.90 invece di 7.40, offerta valida fino al 12.9.2016

a partire da 2 pezzi

–.60

di riduzione l’uno

Filetto di passera MSC, Atlantico nord-orientale, per 100 g, 2.10 invece di 2.90 25% Fino al 3.9

Pane e latticini

Tutto l’assortimento Hygo WC a partire da 2 pezzi, –.60 di riduzione l’uno, per es. detergente Lavender Clean, 750 ml, 2.50 invece di 3.10, offerta valida fino al 12.9.2016

Pan del cantinin, 380 g, 2.70 invece di 3.20 15% Cake Generoso, 380 g, 2.– invece di 2.50 20%

conf. da 2

20% Detergenti Migros Plus in confezioni multiple per es. crema detergente in conf. da 2, 2 x 500 ml, 5.60 invece di 7.–, offerta valida fino al 12.9.2016

Hit 4.90

Fiori e piante

Spazzolini per stoviglie in conf. da 2 offerta valida fino al 12.9.2016

Tutti i brodi Bon Chef in barattolo, a partire da 2 pezzi, 2.– di riduzione l’uno, per es. brodo di verdure, 230 g, 3.40 invece di 5.40

Tutto l’assortimento Costa, surgelato, per es. gamberetti in salsa all’aglio, 200 g, 6.– invece di 7.50 20%

Near Food/Non Food

Chips Zweifel in conf. da 2, per es. Corn Chips Original, 2 x 125 g, 3.80 invece di 4.80 20%

Tutti i mascara Covergirl, a partire da 2 pezzi, 20% Borracce o lunch box Farmmania, per es. lunch box verde, il pezzo, 4.90 Hit Offerta valida fino al 17.10.2016

Zucchero d’uva M-Classic in conf. da 2, lampone e arancia, per es. lampone, 2 x 200 g, 2.85 invece di 3.60 20%

Puzzle Farmmania Ravensburger, 100 pezzi, 9.80 Hit Offerta valida fino al 17.10.2016

Branches ai cornflakes, Fruit Branches Mango Maracuja e Fruit Branches Raspberry Frey in conf. da 3, UTZ, per es. Raspberry, 3 x 115 g, 8.60 invece di 10.80 20%

Ricarica salviettine umide Nivea Baby in conf. da 9, Soft & Cream e Pure & Sensitive, 9 x 63 salviettine, per es. Soft & Cream, 25.35 invece di 42.30 40% **

Bromelia in coprivaso di ceramica, disponibile in diversi colori, per es. rosa, 9.65 invece di 12.90 30% *In vendita nelle maggiori filiali Migros. **Offerta valida fino al 12.9 Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 30.8 AL 5.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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Hit 14.80 Cuscino per la nuca Knuddel disponibile in diversi colori, il pezzo, per es. turchese, 20 x 29 cm, offerta valida fino al 12.9.2016

50% 11.85 invece di 23.70 Carta per fotocopie Papeteria, FSC, in conf. da 3 bianca, 80 g/m2, 3 x 500 pezzi, offerta valida fino al 12.9.2016

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Hit 39.90 Scarpe outdoor da donna o uomo, idrorepellenti disponibili in grigio o in kaki e in diversi numeri, per es. kaki, n. 40, 1 paio, offerta valida fino al 12.9.2016

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Tutto l’assortimento per uccelli e roditori, per es. trucioli di legno M-Classic, 1 kg, –.75 invece di –.95 20% Carta per uso domestico M-Classic, FSC, rotolo maxi, il pezzo, 2.40 invece di 3.– 20% **

Novità

PUNTI

20x

Funghi prataioli e misti M-Classic in conf. da 3, per es. funghi misti, 3 x 200 g, 7.80 invece di 11.70 33%

Pasta al Farro e al Kamut Bio Poggio del Farro, 500 g, per es. penne di Farro Bio, 500 g, 2.95 invece di 3.70 20%

20% Tutti i detersivi per capi delicati Yvette liquidi per es. Care in conf. di ricarica, 2 l, 8.95 invece di 11.20

Olio di colza svizzero Migros Bio, 50 cl, 6.90 Hit

Tutte le capsule Twin, per es. latte macchiato, 16 capsule, 4.30 invece di 6.20 30%

Donut Simpson, senza ripieno, 57 g, 1.50 Hit

conf. da 2

Tutte le bevande Oasis, per es. Tropical, 6 x 25 cl, 5.– invece di 7.20 30%

Tutto l’assortimento Ice Tea in polvere, per es. Classic, 700 g, 4.– invece di 5.– 20%

Tutto l’assortimento di detergenti Pial, a partire da 2 pezzi, 1.– di riduzione l’uno, per es. schiuma per tappeti Tapino, 500 ml, 3.40 invece di 4.40 **

Ora

799.– Finora

869.–

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Il vero saporito gusto messicano.

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Idee e acquisti per la settimana

Alnatura

Bio dalla a A alla Z Allo scopo di garantire una dieta naturale ai bambini sin dalla più tenera età, Alnatura offre da oltre vent’anni un assortimento completo di qualità bio al 100 percento. Possibilmente gli ingredienti provengono tutti da associazioni di coltivazione biologica certificata, come Bioland, o da contadini che praticano un’agricoltura biodinamica. Controlli regolari e certificazioni sono effettuati da enti indipendenti. La gamma comprende prodotti alimentari di tutti i tipi: dal latte per neonati a quello

di proseguimento, dalle tisane alle pappe di verdure senza sale, dai prodotti contenenti al 100 percento frutta fino alle pappe ai cereali e ai pasti completi. E appena spuntano i primi dentini, cresce nei bimbi anche la voglia di mettersi a sgranocchiare da soli. A questo scopo Alnatura propone barrette di frutta, gallette di riso, fette biscottate, biscotti e molti altri prodotti. In totale, la Migros offre 58 prodotti Alnatura per neonati e bambini piccoli. www.alnatura.ch

Alnatura Pappa di avena* 250 g Fr. 3.40

Alnatura Lenticchie ai legumi e couscous* 190 g Fr. 1.60

Alnatura Mela con banana e spelta* 190 g Fr. 1.50

Alnatura Latte di proseguimento 2* 500 g Fr. 10.80 Alnatura Barretta di frutta mela-pera* 25 g Fr. –.80

Alnatura Succo diluito di mela-mango-banana* 500 ml Fr. 1.80

Alnatura Mini gallette di riso mela-mango* 35 g Fr. 1.10

*Nelle maggiori filiali

Alnatura Tisana alle erbe aromatiche per bambini* bustine, 40 g Fr. 2.40

L’OMS consiglia «Alnatura primo latte per neonati e latte di proseguimento dopo il sesto mese. L’allattamento al seno è il nutrimento migliore per i vostri bebè. Noi consigliamo di usare alimenti per lattanti solo se consigliati da specialisti indipendenti come medici, ostetriche o enti ospedalieri».

Alnatura, il marchio bio per uno stile di vita sostenibile e responsabile, utilizza solo ingredienti di alta qualità e davvero indispensabili. Parte di


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Idee e acquisti per la settimana

Ellen Amber

Semplice eleganza Grazie alla loro elasticità, i leggings sono comodi e dunque adatti alla vita quotidiana, ma possono anche diventare un capo da indossare in occasione di feste e cerimonie. I versatili pantacollant sottolineano un certo stile femminile: si possono combinare praticamente con qualsiasi

indumento, dalla giacca di pelle ai capi più classici. La Migros propone un vasto assortimento di leggings alla moda del marchio Ellen Amber. Tutti i modelli, ad esempio in similpelle, con le borchie o in stile motocilista, sono fabbricati con materiali d’alta qualità. Trend Leggings Denim Jeans Look taglie S-XL* Fr. 24.80

Trend Leggings Biker taglie S-XL* Fr. 29.80

*Nelle maggiori filiali Trend Leggings Stampa pitonata taglie S-XL* Fr. 24.80

Trend Leggings con applicazioni in pelle taglie S-XL* Fr. 29.80

Trend Leggings con rivetti taglie S-XL* Fr. 29.80 Trend Leggings Similpelle taglie S-XL* Fr. 24.80

Testo Anette Wolffram-Eugster; Foto Mirjam Kluka; Styling Mirjam Käser

Trucchi e consigli

Chi vuol nascondere pancia, fianchi e glutei, può farlo con eleganza per mezzo di tuniche e altri capi abbondanti. Con il cappotto aperto i leggings regalano gambe affusolate e una silhouette sottile. Ai piedi s’indossano ballerine o scarpe da ginnastica. I leggings di colore scuro o in tinta unita possono creare un look elegante se combinati con una camicetta bianca o una giacca. Indossati di sera, i pantacollant di pelle sono «rock & sexy». Si possono combinare elegantemente con blusa, collana e tacchi a spillo.


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Schermo HD ComfyView 15.6” (1366x768) opaco, processore Intel Core i5-4210U (1.7GHz), SSD 256 GB, RAM 8 GB, NVIDIA Ge Gorce 920M con RAM 2 GB (dedicato), masterizzatore da DVD, Webcam, blocco dei numeri, Cardreader, HDMI, VGA, 1x USB 3.0, Windows 10.

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PANORAMICA DI TUTTI GLI ELEMENTI DELLA COLLEZIONE 1

2

RAGNO CROCIATO

CICOGNA

10

11

CORVO E VERME

TALPA

19

20

VITELLO SIMMENTAL

CUCCIOLO DI BOVARO DEL BERNESE CON CIOTOLA

28

29

RONDINE E NIDO

MALVAROSA

37

38

PREZZEMOLO

RAZZA BOVINA BRUNA

46

47

PULCINO E CESTINO CON UOVA

GALLO SVIZZERO

3

4

MAIALE DOMESTICO

12

MAIALINO

13

OCA DI DIEPHOLZ

21

LUMACA E INSALATA

22

FIORI SELVATICI

BALLA DI FIENO E SACCO DI CEREALI

30

31a 31b

PRATOLINE

A: PATATE B: MELE

39

40

TORO DI RAZZA D’HÉRENS

48

RAZZA OVINA BIANCA ALPINA

49

GALLINE

RAZZA HOLSTE IN

5

6

PONY

GERMANO REALE

14

15

LATTUGA CAPPUCCIO

LATTUGA FOGLIA DI QUERCIA ROSSA

23

24

MINI PEPERONI

32

POMODORINI CILIEGIA

33

SPINACI A FOGLIE

41

ANETO

42

TOPO DOMESTICO E FORMAGGIO

SCOIATTOLO E TRONCOD’ALBERO CON GHIANDE

7

8

PULEDRO FRE IBERGER

CAVALLO FRE IBERGER

16

17

MUCCA SIMMENTAL

25

CAPRA DI SAANEN

26

CESTA DEL MERCATO E CEREALI

GIRASOLI

34

35

BASILICO

ERBA CIPOLLINA

43

44

CONIGLIO SCHWE IZER SCHECKE E CAROTE

RICCIO

50

CASSETTA DI LEGNO E BIDONE DEL LATTE

Una bustina (elemento della collezione + figurina) ogni fr. 20.– spesi. Al massimo 10 bustine per acquisto. Solo fino a esaurimento dello stock. In tutte le filiali Migros, Do it + Garden Migros, melectronics, Micasa, SportXX incluso Outdoor, OBI, nei ristoranti e nei take away Migros e su LeShop.

GIORNATE JOLLY Trattore: SOLO IL

21.9.2016

Cuccioli di cane: SOLO IL

28.9.2016

Famiglia di gatti: SOLO IL

Mini annaffiatoio: SOLO IL

12.10.2016

5.10.2016

DAL 21.9.2016 OGNI MERCOLEDÌ ALLA MIGROS RICEVI UN JOLLY PER OGNI ACQUISTO A PARTIRE DA FR. 60.–.

Una bustina jolly per ogni acquisto a partire da fr. 60.–. Al massimo 3 bustine per acquisto. In tutte le filiali Migros, Do it + Garden Migros, melectronics, Micasa, SportXX incluso Outdoor, OBI, nei ristoranti e nei take away Migros e su LeShop, fino a esaurimento dello stock.

9

ASINO

18

BOVARO DEL BERNESE

27

TACCHINO

36

CAMOMILLA

45

FORMENTINO


E L L E D M U A LB E N I R U G FI * O T I G R ATU

UNA BUSTINA IN PIÙ IN OMAGGIO PER OGNI ACQUISTO**

* Tutti i membri Famigros riceveranno gratuitamente l’album di raccolta dal 30.8 al 19.9.2016 presentando la loro carta Famigros o Cumulus alla cassa. Diventa ora membro su www.famigros.ch/iscrizione ** Per ogni acquisto a partire da fr. 20.– effettuato dal 30.8 al 17.10.2016 i membri Famigros riceveranno una bustina supplementare. Fino a esaurimento dello stock e dietro presentazione della carta Famigros alla cassa. Tutti i dettagli relativi alle offerte sono disponibili su www.famigros.ch/mania

WWW.FARMMANIA.CH

Il mondo della fattoria da collezionare.


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