Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 5 settembre 2016
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Azione 36
Società e Territorio La campagna MenCare mira a rafforzare il ruolo dei padri
Ambiente e Benessere Stando a una ricerca svizzera, il numero di tumori è in aumento, ma il tasso di mortalità per chi è colpito da queste patologie è in calo
Politica e Economia Il porto iraniano di Chabahar diventa di importanza strategica
Cultura e Spettacoli Le foto del giapponese Domon Ken sono un omaggio alla sua terra e alla gente
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Keystone
Le cappelle della Val Verzasca
di Elena Robert pagina 6
Se si confonde l’ombelico con il mondo di Peter Schiesser Sul tabellone delle ordinazioni dell’azienda di famiglia, mio padre aveva scritto di suo pugno due massime che lo ispirarono tutta la vita: «Non chiedere che cosa il tuo Paese può fare per te, chiedi che cosa puoi fare per il tuo Paese» (John Fitzgerald Kennedy) e «Non lasciare che la paura sia la tua consigliera» (frase che attribuiva al generale americano George S. Patton, ma non sono certo che l’avesse pronunciata così). Era figlio della generazione nata fra le due guerre mondiali, capitano dell’esercito per orgoglio patriottico e cittadino convinto che il benessere del singolo dipendesse da quanto faceva per la collettività e per lo Stato, cui riconosceva un’autorità morale indiscutibile. Allora, ancora bambino, non coglievo il senso di queste frasi, ma oggi, cittadino di una società votata all’individualismo, mi appaiono come testimonianza significativa di un tempo che non c’è più: noi, agire per il bene dello Stato? È lo Stato che deve soddisfare i bisogni del cittadino, assicurargli benessere, felicità, libertà e al contempo disturbare il meno possibile la sua vita. Questo è il tono di fondo della società odierna. Un bene? Un male?
Non cediamo alla tentazione di risposte in bianco e nero. Ma chiediamoci in che modo è cambiata la società e il rapporto del cittadino con la collettività e lo Stato dopo cinque decenni in cui la ricerca del benessere individuale ha prevalso sull’interesse collettivo. Osserviamoci, nella nostra vita quotidiana: il tempo è scandito dalla ricerca di un benessere personale, materiale ed emotivo, le informazioni che ci attirano riguardano perlopiù la nostra sfera individuale, quanto ci diciamo è spesso espressione del nostro ego, molto meno ci interessa sapere come va il mondo, come funziona, come si trasforma la società; e poco ci interessa il prossimo, cui diamo poco vero ascolto. Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che ci stiamo trasformando in una società narcisista, in cui l’attenzione esasperata alle aspettative dell’individuo è la misura di tutte le cose. L’affermazione dell’individuo è una conquista quando si vive in società rette da strutture autoritarie, in cui persino la famiglia soffoca le potenzialità del singolo. L’individualismo ha quindi aspetti fortemente positivi: ogni persona vede riconosciuta la propria libertà e dignità. Ma quale collante tiene ancora insieme una società quando gli equilibri sono completamente rovesciati e i cittadini pensano
solo a se stessi? Il nostro sguardo sul mondo si focalizza su pochi elementi, quelli che ci toccano personalmente, va persa la curiosità di comprendere con uno sguardo il più oggettivo e ampio possibile che cosa succede qui ed altrove. Se ci si mobilita, non è per ideali astratti, come era in uso nel ’68, ma per un interesse più ristretto e che ci tocca più da vicino. Lo vediamo nella politica, anche in quella svizzera: gli interessi individuali o di gruppo prevalgono su quelli collettivi, rendendo sempre più difficile la ricerca di compromessi accettabili da tutti. Tutto bene, finché tutto va bene. Finché c’è pace e prosperità. Ma quando l’oscurità di mondi lontani irrompe nel nostro quotidiano sotto forma di attentati, di camion lanciati sulla folla, di fanatici che sparano all’impazzata mentre prendiamo l’aperitivo serale, la paura si impossessa di noi. E subito chiediamo allo Stato una protezione totale che non ci può dare. Il nostro benessere individuale si scontra con la paura di perderlo (e di perdere la vita), lasciandoci soli di fronte al panico, orfani di una sicurezza perduta. Improvvisamente, il nostro narcisismo rivela una vulnerabilità che nessuno può toglierci. E rischiamo che la paura diventi la nostra pessima consigliera.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 5 settembre 2016 ¶ N. 36
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Attualità Migros
M Activ Fitness a Bellinzona Nuova apertura Dopo Losone e Lugano, Migros Ticino amplia la propria offerta
Il Titanic arriva in porto
sul territorio cantonale con un nuovo centro
Concorso Sabato 10
Il nuovo centro si trova in zona centralissima, al 1° piano dello stabile della Posta in viale Stazione 18. Comodamente raggiungibile grazie alla realizzazione di una passerella che ne permette l’accesso diretto, occupa una superficie di 1300 m2 equipaggiata con gli standard più moderni. Apparecchi di ultima generazione tra cui spiccano alcune novità: la zona funzionale Queenax «The Bridge», con 10 postazioni che consentono un allenamento multifunzionale, mentre a marchio Technogym sono invece stati installati i nuovi tappeti da corsa «Skill Mill», con vari gradi di resistenza per un allenamento efficiente e variato, così come le macchine per la forza «Selection Pro». I corsi di gruppo offrono un variegato calendario di una trentina di ore settimanali con le ultime tendenze di settore. Tra le novità in tale ambito l’innovativa attrezzatura «Group Cycle Connect», sempre a marchio Technogym, grazie alla quale è possibile effettuare un allenamento di qualità, migliorare le proprie prestazioni, rilevando nel contempo frequenza cardiaca, potenza erogata, cadenza e livello di resistenza. Sulla base degli obiettivi prefissati, con ogni iscritto viene elaborato un programma di allenamento persona-
si conclude il viaggio del musical sul lago di Lugano
lizzato, con garanzia di assistenza per l’intero periodo di validità dell’abbonamento da parte di istruttori che ricevono una formazione altamente qualificata e aggiornamenti continui. L’abbonamento comprende inoltre sauna, bagno turco e il servizio di baby sitting, così come l’accesso agli altri 37 centri Activ Fitness presenti in Svizzera. L’offerta si completa con servizio massaggi e solarium, un nuovo modello con funzione classica di abbronzatura e – novità! – con funzione elasticizzante del collagene per ringiovanire la pelle, entrambi non compresi nell’abbonamento. A disposizione dei soci anche due ore gratuite nell’adiacente posteggio coperto. Il costo dell’iscrizione è assolutamente competitivo e in occasione dell’apertura, fino al 30 settembre, è possibile approfittare dell’offerta di lancio, con l’abbonamento annuale a 590 franchi (anziché 740); per studenti, apprendisti, beneficiari di AVS e AI a 490 franchi (anziché 640). L’allestimento del centro Activ Fitness ha richiesto un investimento di 2 milioni di franchi per installazioni, attrezzature, tecnica e mobili. Sotto la guida della gerente Alice Bonardi, sono attivi 22 collaboratori: 11 tra istruttori fitness e per i corsi di gruppo, 5 addetti
Pubblicizzato come l’evento dell’estate in Ticino, «Titanic Openair Musical» iniziato lo scorso 10 agosto, ha in effetti riscosso un ampio successo di pubblico. I commenti ricorrenti al termine degli spettacoli raccolti fra gli spettatori sono stati: «Fantastico! Molto bello! Una grande sorpresa!…». Grazie a una meteo quasi sempre favorevole tutte e tredici le rappresentazioni finora in programma si sono potute svolgere senza che si siano resi necessari annullamenti o rinvii. Per festeggiare il lavoro di tutti i protagonisti che hanno reso possibile questo musical, abbiamo pensato di offrirvi l’opportunità di assistere all’ultimo spettacolo, previsto per sabato 10 settembre. I lettori di «Azione» possono aggiudicarsi alcuni preziosi e ambiti biglietti di prima categoria per l’ultimo spettacolo di sabato 10 settembre alle ore 20.00 telefonando domani, martedì 6 settembre alle ore 10:30 (fino ad esaurimento) allo 091 840 12 61. Buona fortuna!
Undici istruttori assistono la clientela sotto la direzione della gerente Alice Bonardi. (Tipress)
Le più moderne attrezzature su una superficie di 1300 mq. (Tipress)
alla cura dei bambini e 6 per le pulizie. Activ Fitness è presente in Ticino da ottobre 2014 con l’apertura della prima sede a Losone, cui ha fatto seguito a settembre 2015 l’inaugurazione di un secondo centro a Lugano al 5° piano di via Pretorio 15. L’attività è svolta in franchising ed è frutto di un accordo tra Migros Ticino e Activ Fitness SA, società della Cooperativa Migros Zurigo, leader del settore, con 38 centri e 75’000 soci in Svizzera. Nel corso dei prossimi anni Migros Ticino intende aprire ulteriori 2 sedi nelle altre regioni del cantone.
Activ Fitness, viale Stazione 18, 6500 Bellinzona, tel. 091 821 78 70, è aperto 365 giorni all’anno, lunedì e mercoledì dalle 7.00 alle 22.00, martedì, giovedì e venerdì dalle 8.00 alle 22.00, sabato, domenica e festivi dalle 9.00 alle 18.00; servizio baby sitting da lunedì a venerdì dalle 8.45 alle 11.30. Corsi di gruppo da lunedì 05.09.2016. Informazioni
www.activfitness.ch/bellinzona. Uno scenario affascinante.
Una ghianda ai confini dell’universo
© 2016 Twentieth Century Fox Film Corporation. All Rights Reserved
Concorso Nei cinema ticinesi la quinta puntata di una delle più divertenti saghe animate
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Anche stavolta, al di là di tutto, protagonista della storia è il povero vecchio Scrat. Lo sfortunatissimo scoiattolo dei suoi mille batticuori ne farebbe magari a meno. Tutti conosciamo le sue spassose disavventure e la sua affannosa ricerca della ghianda inafferrabile. In fondo, ad ogni puntata di questa interminabile saga preistorica a cartoni, è l’animaletto a cui succedono le cose peggiori. Ma noi come potremmo divertirci senza di lui? L’era glaciale. In rotta di collisione non smentisce le sue quattro puntate precedenti. Come sempre, è proprio grazie alla concitata ricerca di Scrat (o meglio agli effetti perversi della sua ostinazione) che tutto si mette in moto. Stavolta gli animali che fanno parte del suo mondo congelato verranno proiettati addirittura nello spazio, agli albori del mondo. Là dove tutto è cominciato e dove a noi sembrerebbe più normale
trovare un’astronave interstellare, invece di una minuscola ghianda ribelle. A dispetto degli effetti più prevedibili e del «tormentone Scrat», il film In rotta di collisione presenta al pubblico, in effetti, una trama sorprendente e intricata. Per gli animali del gruppo. Diego, la tigre coi denti a sciabola, Sid il bradipo, Manny il mammuth, Buck, la donnola e gli altri, si tratterà di vivere una situazione esistenziale difficilissima. Da un lato lo sconvolgimento climatico che minaccia la regione in cui vivono, un cataclisma che li costringerà a trovare nuove forme di adattamento; dall’altro le dinamiche affettive legate alla loro famiglia e ai loro cari. Di mezzo, infatti, ci sono innamoramenti, matrimoni e molto altro. Situazioni altrettanto complesse ed esplosive per il loro ambiente. E che apriranno prospettive nuove alla vita quotidiana di ognuno di loro: richie-
deranno infatti altrettanto importanti strategie di adattamento sociale e famigliare. Ancora una volta, insomma, alla bellezza e alla perfezione tecnica della realizzazione cinematografica (messa ancor di più in rilevo dalla prospettiva siderale in cui si svolgono le avventure) si affiancherà un racconto dal tono affettivo e forte e commovente, in cui i grandi valori dell’amicizia e della collaborazione reciproca sapranno coinvolgere spettatori di tutte le età. Tra asteroidi che si schiantano sulla terra, tra fulmini e peripezie di ogni genere, una certezza rimane nel pubblico: il rapporto di profonda amicizia tra i vari protagonisti, tutti così diversi, rimarrà inalterato, cementato dalle difficoltà. Poi c’è la ghianda maledetta e c’è Scrat con i suoi affanni: un elemento fondamentale nella magica ricetta di Era Glaciale.
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
Tiratura 101’035 copie
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Titanic, il musical, Melide, fino al 10 settembre
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Gadget in palio per i nostri lettori In occasione dell’uscita in questi giorni in Ticino (anche in 3D) di Era Glaciale - In rotta di collisione, Twentieth Century Fox in collaborazione con Migros Ticino mette in palio due kit contenenti ognuno: - un orologio digitale - un set per la scuola - una lunch bag - una borraccia in alluminio - una borsa in plastica La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in altri concorsi promossi da «Azione» negli scorsi mesi. Telefona allo 091 8401261 mercoledì 7 settembre dalle 11.00. Buona fortuna!
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 5 settembre 2016 ¶ N. 36
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Società e Territorio Rieducare a scrivere La disgrafia è un disturbo specifico dell’apprendimento dei bambini e degli adolescenti: intervista all’esperta Maria Anna Zaramella
Itinerari tra i santi dipinti Sette libri tascabili invitano a scoprire le cappelle sparse sul territorio della Val Verzasca
Mugnaio per passione Al mulino di Frasco l’amore per un’antica professione unisce nonno e nipote pagina 8
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Il padre, genitore attivo Tempi moderni La campagna internazionale
MenCare mira a rafforzare il ruolo dei papà nella cura dei figli a favore di un’equa ripartizione dei compiti tra uomo e donna
Roberta Nicolò L’epoca in cui la cura della prole era esclusivo appannaggio femminile sembra essere sorpassata. La parità di genere, il crescente ruolo della donna nel mondo del lavoro e nuove ricerche scientifiche, hanno fatto sì che anche i papà trovassero la loro giusta collocazione nel contesto educativo dei figli. Oggi è confermato dalle ricerche scientifiche che la presenza e l’impegno paterno nella cura dei bambini agisca in maniera positiva sullo sviluppo cognitivo, emozionale e sociale dei neonati. Inoltre rafforza i legami famigliari e incoraggia il ruolo produttivo delle donne. La funzione del papà, infatti, è notevolmente cambiata negli ultimi dieci anni, mettendo i padri nella condizione di poter assumere, con nuova consapevolezza, un rinnovato ruolo nell’educazione dei figli. Essi non sono più delegati al mero ambito del sostentamento finanziario, ma hanno una veste attiva nell’accudimento e si propongono come modello maschile positivo. Proprio per promuovere questa innovativa visione, è nata la campagna di sensibilizzazione MenCare, promossa dall’organizzazione Promundo e sostenuta dalla Fondazione OAK. MenCare vuole rafforzare il ruolo dei padri nella cura e nell’educazione dei figli. Un progetto che è attivo in ben 35 Paesi del mondo e che si sviluppa in 5 continenti. La sua missione non è solo quella di rafforzare il ruolo del padre come genitore attivo, ma anche quella di prevenire la violenza domestica e fare leva sulla società per un’equa distribuzione tra i sessi del lavoro retribuito e non retribuito. Il progetto è stato sviluppato in maniera partecipata tra il 2013 e il 2014, con un primo piano d’azione che riunisce le organizzazioni attive nell’ambito della famiglia, della protezione e della
promozione dei diritti dell’infanzia e delle donne. L’obiettivo di questo programma è di dare avvio ad un cambiamento dei valori e del comportamento sociale, favorendo una crescita dell’ impegno del maschile nell’ambito dell’assistenza alla prole. Nello stesso tempo offrire un sostegno essenziale all’idea di equa ripartizione dei compiti tra uomo e donna. La campagna in Svizzera è stata affidata a männer.ch, associazione che raggruppa iniziative e associazioni regionali sul tema. Nel 2018 MenCare Suisse lancerà due progetti quinquennali con una grande campagna nazionale, mentre il progetto Più uomini nella cura dell’infanzia è già in fase di realizzazione. Anche in Ticino questa nuova visione dei ruoli all’interno della cura parentale ha trovato spazio. La Fondazione ASPI ha infatti presentato, proprio ad inizio estate, un nuovo progetto, dal titolo Giochiamo papà, che prenderà avvio nel prossimo autunno. «Il progetto si inserisce in una riflessione di respiro internazionale, che vuole valorizzare la figura maschile uscendo dallo stereotipo per il quale un uomo non si possa prendere cura di un bambino, soprattutto se piccolo. La figura del padre, oltre a educare, è anche quella di proteggere, al pari delle madri, e lo saprà fare tanto meglio, quanto più si sentirà sicuro nelle sue modalità di relazione. La complementarietà dei ruoli tra i genitori e l’assunzione comune della responsabilità verso i figli, nel rispetto reciproco, è la base di un quadro di vita sereno e sicuro per i bambini. Sentirsi sicuri nel rapporto con i propri figli aiuta il genitore ad assumere un ruolo attivo. Il compito di ogni padre e di ogni madre è quello di aiutare il bambino a crescere in maniera sicura e serena, per questo Giochiamo papà vuole offrire degli strumenti per
La campagna di sensibilizzazione a sostegno del ruolo dei papà in Svizzera è stata affidata a männer.ch. (Keystone)
accrescere la propria consapevolezza di genitore e per dare delle basi su cui sviluppare un rapporto basato su rispetto reciproco, complementarietà e assunzione di responsabilità», spiega Myriam Caranzano-Maître, direttrice della Fondazione ASPI. Questa assunzione condivisa di responsabilità a favore dei figli necessita non solo di un cambiamento di pensiero sociale, ma anche di regole formali che ne favoriscano la messa in opera. Il congedo paternità, per esempio, è una novità su cui si discute da qualche tempo e che proprio nella primavera di quest’anno è stata bocciata dal Consiglio Nazionale. Niente congedo quindi per i neo papà (se non quelli previsti dai singoli datori di lavoro), ai quali evidentemente a livello nazionale non viene ancora riconosciuto un ruolo fondamentale nell’accudimento del neonato. Un altro scoglio importante, nel
cammino di un rapporto più equilibrato nella gestione dei figli, viene anche dalla disparità di trattamento in caso di separazione e divorzio. Le associazioni Papageno e Agna si battono sul territorio ticinese proprio per garantire ai figli di coppie separate una corretta presenza di entrambe le figure genitoriali, promuovendo l’autorità parentale e l’affidamento congiunto, al fine di tutelare l’interesse del bambino. «Per il genitore non affidatario, spesso, mantenere un rapporto costante e di qualità con i propri figli è difficile. Soprattutto in caso di contrasto con l’ex partner. Questo a volte comporta un trauma psicologico e affettivo per il genitore che deve lasciare casa. L’autorità parentale congiunta dovrebbe essere garantita, soprattutto a tutela del minore. Oggi non è ancora così, per questo diamo un sostegno ai genitori non affidatari in difficoltà. Va inoltre
detto che molto spesso sono i padri a dover combattere con l’impossibilità di condividere con equità il proprio ruolo di genitore», spiega il presidente dell’associazione Papageno Gianfranco Scardamaglia. La campagna MenCare, vuole aiutare a veicolare un’idea del ruolo maschile in un’ottica di parità, andando di fatto a migliorare la condizione di entrambi i genitori, che insieme possono garantire ai propri figli le cure e le attenzioni necessarie per crescere nel modo migliore. Il programma nazionale MenCare Suisse è sostenuto dalla Fondazione OAK, dalla Società svizzera d’utilità pubblica, dalla Fondazione Jacobs, dalla Fondazione Mercator Suisse, dalla Fondazione Promozione della salute Svizzera e dai cantoni di Zurigo, Obvaldo, Sciaffusa e Basilea città, oltre che dall’Ufficio federale per l’uguaglianza tra uomini e donne.
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Società e Territorio
Se la brutta scrittura è un problema Disgrafia Intervista a Maria Anna Zaramella esperta in rieducazione della scrittura
Eliana Bernasconi Non sono certo rari i bambini e gli adolescenti che presentano grafie disordinate, sgradevoli, spesso illeggibili. Disgrafia è il nome della difficoltà di scrivere lettere e numeri in modo chiaro, leggibile, veloce e senza fatica e di realizzare correttamente con la mano forme di lettere e numeri. Si tratta di un disturbo specifico di apprendimento riconosciuto dal manuale Diagnostico dei Disturbi neuroevolutivi (DSM). Può a volte presentarsi associato a problemi di ortografia e calcolo, o abbinato alla dislessia. Ancora poco noto oggi è il lavoro del grafoanalista, che interviene e guarisce definitivamente questo penoso disturbo. Maria Anna Zaramella, è diplomata in Psicologia della scrittura con specializzazione nell’attività grafica in età evolutiva e rieducatrice della scrittura, da anni analizza scarabocchi disegni e grafie di bambini e adolescenti, lavora privatamente con bambini disgrafici, interviene nelle Scuole dell’infanzia e elementari del cantone con laboratori di preparazione al gesto grafico e di prevenzione delle difficoltà grafo motorie. Tiene corsi di aggiornamento per docenti sull’apprendimento della scrittura e incontri per genitori sul tema dello scarabocchio e del disegno, preziosissimi strumenti questi ultimi per interpretare e capire davvero ciò che passa nell’animo del bambino. Signora Zaramella, come si riconosce un bambino disgrafico?
Scrive con fatica, in modo molto disordinato e confuso e quindi illeggibile, spesso è eccessivamente lento rispetto al ritmo di scrittura degli altri bambini della classe. Nel corso della scolarizzazione non è riuscito ad acquisire significativi progressi nel modo di scrivere, ad esempio in 5° elementare ha ancora la scrittura semplice e impersonale di un bambino di seconda, nel dettato non riesce mai a tenere il ritmo e commette molti errori ortografici causati dalla sua lentezza che non gli consente di rileggersi e auto correggersi. In matematica compie facilmente errori causati dalla scarsa distinzione delle cifre o dall’incolonnamento molto disordinato nelle quattro operazioni.
grafo motori, velocemente risolvibili, o una disgrafia. In base al grado di disgrafia accertato propongo un piano di intervento di durata variabile che prevede una seduta settimanale di un’ora. Uso tecniche di rieducazione nate in Francia e ormai collaudate da tempo che portano a buoni risultati e non impongono noiosi esercizi di bella scrittura, ma utilizzano vari materiali e strumenti grafici. Non è certo possibile proporre a tutti i bambini una rieducazione «standard», perché ogni disgrafia ha origine e cause diverse, a volte psicologiche e ogni bambino o adolescente nel suo personale modo di scrivere esprime inconsciamente ciò che è la sua intelligenza e affettività, la sua problematica. Mi avvalgo degli studi in psicologia della scrittura perché è fondamentale predisporre un piano di recupero che tenga conto della personalità del bambino, dei suoi bisogni e ritmi di apprendimento.
Il bambino disgrafico scrive con fatica, in modo disordinato, confuso ed eccessivamente lento. (Keystone)
Ma i bambini all’inizio scrivono con fatica, è normale...
Faticano a scrivere bene perché sono ovviamente in fase di apprendimento, ma già dal secondo anno di scuola si notano grandi progressi e vengono risolte le principali difficoltà grafo motorie, la grafia diventa fluida, scorrevole e personale. Nel bambino disgrafico ciò non accade, permane negli anni una «brutta scrittura», spesso unita a cattiva postura, scorretta prensione della penna e dolore alla mano, lentezza o velocità eccessiva nello scrivere, lettere deformate, troppo piccole o grandi, pressione irregolare, troppo forte o leggera, mancato rispetto dei margini del foglio, spazi irregolari tra lettere e parole, collegamenti difficoltosi tra lettere. In seguito hanno un naturale miglioramento?
No, la disgrafia non è un disturbo che si risolve da solo con il tempo, anzi spesso si aggrava e necessita quindi di un intervento di rieducazione al più presto
possibile per evitare ricadute importanti sull’autostima e sul rendimento scolastico. È importante per il bambino che questi segnali di allarme non vengano ignorati o sottovalutati e che la disgrafia venga accertata per tempo, attraverso un accurato esame grafo motorio che può essere fatto dalla terza elementare in poi. Quali cause predispongono alla disgrafia?
Possono essere diverse, esclusi i problemi di tipo neurologico e intellettivo, principalmente sono legate a lateralità crociata o non ben definita, disturbi alla motricità e alla coordinazione motoria, difficoltà visuospaziali, prensione scorretta dello strumento, problemi di linguaggio, immaturità e difficoltà psicoaffettive. Si ritiene che imparare a scrivere sia semplice, ma si tratta in realtà di un’attività molto complessa per la quale è necessario all’inizio della scolarizzazione avere gradualmente acquisito diverse abilità tramite le esperienze
psicomotorie, il gioco e il disegno. Gran parte dei bambini arrivano in prima elementare possedendo queste abilità, tuttavia negli ultimi anni si nota un aumento delle difficoltà grafomotorie e visuospaziali della scrittura a mano, dovuto in parte anche al massiccio uso della tecnologia che limita le opportunità di esercitare la manualità e la precisione negli anni che precedono la scolarizzazione. Un bambino arriva da lei: in che consiste il suo intervento?
Nel corso del primo incontro con il genitore raccolgo informazioni e compio un’analisi grafica dei disegni e della scrittura, esamino i quaderni scolastici per comprendere come ha appreso a scrivere, qual è il modello di scrittura che gli è stato impartito. Dopodiché gli propongo un serie di esami (motricità generale e fine, schema corporeo, orientamento spaziale, lateralizzazione, lettura, prensione, velocità grafica) per valutare se ha solo semplici problemi
Non esiste una rieducazione «standard» perché ogni disgrafia ha cause diverse e si deve tener conto della personalità e dei bisogni del bambino Perché è importante rivalutare la scrittura manuale?
Questa scrittura, nonostante la concorrenza dei mezzi tecnologici, è ancora oggi in uso nelle nostre scuole e rimane un’abilità di base fondamentale. È un potente mezzo per comunicare pensieri e trasmettere conoscenze, registrare idee, prendere appunti ed esprimere la propria individualità. Gli studi più recenti con tecniche di scanning cerebrale hanno mostrato che chi scrive a mano usa il cervello in modo più intenso rispetto a chi scrive su una tastiera, questo aiuta ad apprendere meglio e a memorizzare più facilmente. Scrivere a mano aiuta i bambini a imparare con maggior facilità le lettere, a leggere meglio e incrementare le abilità di motricità fine così importanti per la nostra vita quotidiana. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Itinerari tra i santi dipinti Val Verzasca Una piccola collana per conoscere alcune tra le oltre trecento cappelle sparse sul territorio Elena Robert All’escursionista curioso il territorio in Ticino e soprattutto le sue valli, offrono un gran numero di cappelle e dipinti murali. La Verzasca da sola ne ha un numero elevato, collocate in edicole, su case o stalle e persino su massi: di queste immagini di devozione popolare se ne incontrano più di trecento lungo le strade, i vicoli di paese, nelle proprietà private, sui sentieri e in luoghi discosti. Nella collana di tascabili «Passeggiate tra i Santi dipinti» avviata nel 2011 e praticamente conclusa, le tre autrici Angela Maria Binda Scattini, Chiara Brenna e Carla Rezzonico Berri, ci suggeriscono alcuni itinerari e una scelta di testimonianze pittoriche tra le più visibili e riconoscibili, escludendo quelle che si raggiungono con difficoltà o ubicate su proprietà private. Non si tratta di un’esplorazione sistematica, né di un inventario ma di proposte di piacevoli passeggiate in valle, anche su sentieri montani, alla scoperta di questo patrimonio religioso, storico e culturale forse un po’ dimenticato e a volte trascurato. «C’è ancora chi apprezza le cappelle per una preghiera, un momento di riposo o di meditazione. Certo una volta le si considerava molto di più, ci si fermava davanti, anche i bambini» ci dice Angela Maria Binda Scattini che ha a cuore la valorizzazione delle ricchezze etnografiche della regione e ha avuto, tra l’altro, un ruolo fondamentale nella costituzione e nella guida del Museo di Val Verzasca a Sonogno: «Le cappelle sono un’eredità significativa del nostro passato, ci te-
niamo che non vengano trascurate». A fine anni Ottanta, come emanazione del museo di valle, era nata la commissione restauri delle cappelle grazie alla quale fino ad alcuni anni fa si sono potuti recuperare diversi dipinti. Altri sono stati restaurati da privati. In anni recenti è nato anche il gruppo Amici delle cappelle. La collana è frutto di qualche sostegno o offerta di enti o privati sul territorio, ma è soprattutto la risultanza di un tenace impegno di volontariato alimentato da un profondo attaccamento alle radici da parte delle tre autrici, persone che per la valle si sono attivate in modi diversi. Chiara Brenna ha realizzato i libretti su Brione, Frasco e Lavertezzo (il primo, uscito nel 2011, esaurito, sarà ristampato nel 2017). Angela Maria Binda Scattini quelli su Sonogno e Gerra Verzasca, Carla Rezzonico Berri (autrice tra l’altro nel 1996 di una pubblicazione sulla chiesa di Vogorno) ha curato gli ultimi usciti (a metà maggio 2016) su Vogorno e Corippo. Da questa operazione editoriale è purtroppo rimasto fuori, ci auguriamo solo temporaneamente, il comune di Mergoscia, che appartiene geograficamente alla Verzasca. È il più vicino al fondovalle, ha un ampio comprensorio territoriale ed è raggiungibile in auto da Brione sopra Minusio o da Tenero, passando per Contra. L’unico paese della valle col quale è collegato è Corippo, attraverso un sentiero. Mergoscia è una realtà a sé, sviluppatasi in modo autonomo, economicamente e storicamente. Anche se la chiesa di San Bartolomeo a Vogorno, del 1234, è la più antica della valle, il patrimonio dei
Madonna di Re affrescata su un masso a Gerra Verzasca alla fine del XIX secolo. (F. Scattini e F. Binda)
La Cappella al Ponte di Liano a Corippo risale al 1634 ed è attribuibile al «pittore di Brione». (Carla Rezzonico Berri)
dipinti murali e delle cappelle in Verzasca giunto fino a noi si è formato a partire dal Quattrocento e continua con gli affreschi della contemporaneità. Due gli inventari, realizzati a metà anni Settanta e metà anni Novanta del secolo scorso. Diversi i testi di riferimento, pubblicati a partire dagli anni Venti, il più recente dei quali, della Società di storia dell’arte in Svizzera, è uscito nel 2013, curato da Elfi Ruesch. Nel passato, come oggi, i committenti delle cappelle sono famiglie o persone singole. Per capire queste testimonianze di religiosità popolare, osservano Brenna e Binda Scattini nell’introduzione alla piccola collana, vanno considerati diversi aspetti: dall’isolamento della valle all’asprezza del territorio, dalla vita quotidiana (spesso confrontata col pericolo) alle poche gioie terrene, dalla povertà della gente al duro lavoro necessario per sopravvivere: tutte condizioni che dovevano favorire un grande bisogno di rivolgersi al cielo, per alimentare il senso di sacrificio, la pazienza e il coraggio per tirare avanti, per trovare il conforto, la forza e la speranza in una
vita migliore nell’al di là. Parte delle cappelle hanno origine in una promessa fatta nel bisogno o come ringraziamento per una vita salvata. I santi rappresentati e invocati sono una moltitudine, tra le Madonne più dipinte figurano la Madonna di Re (Valle Vigezzo, Italia), la Madonna del Sasso, pellegrina anche in Val Verzasca, la Madonna del Rosario e del Carmelo. Il cristianesimo trovò terreno fertile in valle. Chiara Brenna ci racconta che Vincenzo Ferrer, raffigurato in un quadro nella chiesa di San Bernardo a Frasco, frate domenicano spagnolo (1350-1419), diventato santo, grande predicatore, arrivò anche in Ticino, esortando alla conversione, lasciando tracce in almeno quattordici ex voto nelle valli del Sopraceneri. A Mergoscia gli è dedicato un oratorio. Gli affreschi recenti delle cappelle in Val Verzasca sono firmati, quelli antichi rimangono di solito anonimi, anche se in alcuni non mancano i segni di riconoscimento che permettono di attribuirli a questo o quell’artista. È il caso del «pittore di Brione» (come l’ha chiamato Piero Bianconi) che
negli anni Trenta e Quaranta del Seicento ha realizzato affreschi in valle; o di Giovanni Antonio Vanoni (18101886) di Aurigeno che ha affrescato negli anni 1877-78 alcune cappelle della Verzasca. O di Francesco Maria Rotanzi, attivo in valle nella seconda metà del Settecento, cui è attribuito l’affresco del Giudizio universale a Sonogno. O ancora di Cherubino Patà (1827-1899) di Sonogno che si fece conoscere in Francia riuscendo a esporre al Salon di Parigi e divenne amico e collaboratore di Gustave Courbet. Informazioni
Passeggiate tra i Santi dipinti, sette libretti tascabili (testi in italiano e tedesco), 2011-2016: Gerra Verzasca e Sonogno (di Angela Maria Binda Scattini); Lavertezzo, Frasco e Brione Verzasca (di Chiara Brenna); Vogorno e Corippo (di Carla Rezzonico Berri). Si possono acquistare nel Museo di Val Verzasca a Sonogno, alla Libreria Ascona a Ascona, alla Libreria Locarnese a Locarno e alla Libreria Paoline a Lugano. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Il mulino, il nonno e il nipote Incontri L’antico mulino di Frasco racchiude la storia di una passione di famiglia tramandata da generazioni
Fabio Dozio Questa è la storia di una passione. Tramandata da nonno a nipotino, che perdura e che non svanisce, anche se il bambino si è fatto grande. È la passione per un luogo e un vecchio mestiere: il mulino e il mugnaio. «Noè, quando ancora era bambino, stava dei quarti d’ora a guardare la cascata d’acqua dell’Efra. Si incantava davanti al ruscello che veniva deviato verso il mulino». Guglielmo Ferrini, classe 1939, è orgoglioso di suo nipote, che oggi ha vent’anni e si appresta a iniziare l’Università a Zurigo. Da quei primi entusiasmi infantili, la passione di Noè per il mulino è sempre cresciuta. «Quando frequentavo le scuole medie di Breganzona – racconta – ogni sabato venivo in Val Verzasca dal nonno per mettere in funzione il mulino. Prendevo il treno a Lugano e incontravo il nonno a Gordola. Si saliva in valle, si macinava e si accoglievano i turisti o i curiosi che si fermavano e acquistavano la farina. Ho anche organizzato gite con i compagni di scuola, per mostrare come funziona un vecchio mulino e far scoprire un mestiere che ormai non esiste più». C’era una volta in Val Verzasca, a Frasco, penultimo paese della valle, a 900 metri di altitudine, un vecchio mulino, costruito nel 1880 dal mugnaio Luca Lanini per macinare la segale, che permetteva di cuocere il pane per gli abitanti, e il granoturco, che si trasformava in farina per la polenta. La segale, nei secoli scorsi, veniva ancora coltivata in valle e permetteva di produrre il tradizionale pane casalingo. Per questo scopo all’interno del mulino c’è anche un piccolo forno a legna. Il granoturco utilizzato per preparare la polenta, piatto tipico a partire dall’ottocento, veniva portato dal piano, perché quello coltivato nell’impervia Verzasca non bastava. Nel 1925 Guglielmo Ferrini, nonno e omonimo del nostro, che nel frattempo era diventato proprietario del mulino, costruì una centralina elettrica che sfruttava, dalla sera alla mattina, la forza dell’acqua per far girare una turbina che produceva energia elettrica. Elettricità sufficiente, ai tempi, a illuminare le case di Frasco e di Sonogno. Una sola lampadina per casa: era la regola che permetteva di offrire a tutti un po’ di luce. Solo la Chiesa poteva usufruire del permesso di accendere due lumi. La piccola casa di sasso fu costruita sul ponte, a ridosso della cascata dell’Efra, il torrente che porta
l’acqua necessaria per far vivere mulino e centralina. Per anni il mulino di Frasco fu l’unico della Valle e rimase in attività fino al 1950. Poi, come molti residui di una civiltà contadina che andava spegnendosi, si fermò e restò inattivo per decenni. La rinascita è avvenuta nel 1996, quando il Museo di Val Verzasca ha acquisito mulino e centralina, restaurando e rimettendo in funzione i palmenti. Il mulino è costituito da due ruote orizzontali a cucchiai, poste all’interno dell’edificio. Un sistema semplice e adatto ai piccoli corsi d’acqua. L’acqua viene introdotta nella casetta dopo aver percorso un canale scolpito nella roccia e uno scivolo di legno che permette di imprimere la forza necessaria per azionare la ruota che, a sua volta, fa funzionare la macina di granito che trita il granoturco.
Guglielmo Ferrini con il nipote Noè Zardi. (Stefano Spinelli)
In Svizzera rimangono circa 300 mulini storici, in Ticino l’Associazione dei mugnai sarà presto una realtà «Senza mio nipote – dice il nonno – il mulino sarebbe già chiuso. Io l’ho contagiato con la mia passione, che a mia volta ho ereditato da mio nonno, ma Noè mi ha caricato di energia aiutandomi a tenere in vita quello che, per noi, è anche un pezzo di storia famigliare». Noè affianca il nonno a partire dal 2008, quando aveva dodici anni. «I primi anni – ricorda Guglielmo Ferrini – Noè girava con un carrettino a vendere la farina. Andava fino a Brione». In questi anni il mulino è diventato un’attrazione in Val Verzasca: grazie alla collaborazione del Museo si sono organizzati atelier e attività legate al mulino, con lo scopo di promuoverne la conoscenza e far riscoprire un pezzo di storia del nostro paese. Insomma, il mulino come strumento didattico. Intanto, negli anni, la farina macinata a Frasco si è fatta un nome. Si lavorano due qualità di mais: giallo e rosso, sempre proveniente da coltivazioni ticinesi. Deve essere un granoturco particolare, a grana piccola, adatto ai mulini a pietra. Il mais grosso non si può macinare perché rimane appiccicato alla pietra. Oggi si producono in media circa 3 quintali all’anno e ci vuole un’ora per ottenere tre chilogrammi di farina. Nessuno è profeta in patria, men
che meno in Val Verzasca. La delusione maggiore di nonno e nipote è di non essere riusciti a sensibilizzare gli esercenti della valle sulla bontà della loro farina. «A Sonogno, però, – precisa Noè – c’è una panetteria con una sciureta che vende la nostra farina. I turisti svizzero tedeschi l’apprezzano e l’acquistano! Molti ristoranti ci hanno invece fatto notare che è troppo cara e chiedono che differenza c’è tra la nostra farina e quella che comperano in un supermercato. Non capiscono la differenza tra un prodotto artigianale, biologico, e uno industriale». La farina gialla costa 6 franchi al chilo, quella rossa, più pregiata, 14 franchi. In Svizzera nel 2000 è nata l’Associazione svizzera degli amici dei mulini. Attualmente conta circa 400 membri e ogni anno organizza la Giornata dei mulini. Lo scopo dell’associazione è di
mantenere vive queste testimonianze dello spirito creativo dell’uomo. La storia dei mulini, precisa l’Associazione, «illustra uno dei percorsi più significativi dei progressi tecnici dell’umanità ed è strettamente legata ad altre tecnologie storiche sempre d’attualità. I mulini tradizionali sono oggetto in Svizzera da diversi anni di un’attenzione sempre maggiore e sono apprezzati quali eredità culturali e monumenti tecnici». Si stima che un tempo nella Confederazione ci fossero dai 6 ai 7 mila mulini: ora rimangono circa 300 mulini storici e molti sono stati restaurati con cura nel corso di questi ultimi anni. Anche Noè Zardi si preoccupa del futuro dei mulini e non solo di quello di Frasco. «Dopo alcuni anni che ero qui ho capito che c’erano diversi altri mulini simili. Ho conosciuto anche altri
di quelle alle quali piace lasciare il segno quando fa una cosa, le piace cercare, imbattersi in locali e luoghi carini per caso, il fatto di affidare tutto ad un’altra persona teme che alla fine la lascerebbe insoddisfatta. Le dico allora che ho sentito dire da alcune amiche che in Internet si trovano un sacco di chicche, forum, consigli, perfino siti dedicati. Magari vale la pena dare un’occhiata. Non la sento più per alcune settimane, fino al nostro consueto appuntamento per il brunch in centro, la prima domenica del mese. Betty è un treno: è andata in Internet ed è strepitoso, mi dice, quello che si trova. Dalle fashion blogger che ti aggiornano sulle ultime collezioni da sposa e ti dicono dove andare a comprare l’abito dei tuoi sogni, ai siti che ti danno ottimi consigli per le bomboniere, dai classici prendipolvere alle originali piantine grasse, vere naturalmente, in vasetti variopinti. Se poi cerchi una location basta mettere qualche coordinata in Google e hai solo l’imbarazzo della scelta. Trovi anche idee per realizzare il famoso Tableau du mariage, non solo
per la scelta del tema ma anche per i materiali da usare, le misure e via dicendo. Ma Betty è andata oltre, cerca, cerca, ha infatti trovato un sito e relativa applicazione pensata per programmare, gestire e organizzare le nozze nel minimo dettaglio. L’offerta in questo campo è enorme, c’è Weddy, un’app molto minimal ma efficace, Wedstyle, un social network che raccoglie tutte le idee e gli spunti per le nozze e ti mette in contatto con profili come il tuo, My Wedding, un ottimo organizer per smartphone, a tanti altri. Betty ha scelto matrimonio.com, dice che sin dal suo log in sulla piattaforma, le si è aperto un mondo. Le è bastato digitare il nome del luogo dove vorrebbe sposarsi e subito ha ricevuto numerose proposte di romantiche location, ristoranti originali con menù personalizzabili, utili nomi di fornitori e aziende attive sul territorio per ordinare fiori e bomboniere. Ha anche potuto allestire un sito personale al quale far accedere solo gli invitati per condividere tutte le informazioni importanti, creare le
mugnai e, soprattutto con la mugnaia di Bruzella, in Valle di Muggio, Irene Petraglio, abbiamo pensato che sarebbe stato bello fare qualcosa assieme. Così è nata l’idea dell’Associazione. Irene ha recuperato il catasto degli edifici e, grazie al censimento dei mulini svizzeri, abbiamo capito quali erano i mulini storici ancora in funzione in Ticino». L’Associazione dei mugnai del Ticino sarà presto una realtà. Noè ha preparato lo statuto assieme a un avvocato e nei prossimi mesi sarà costituita l’associazione. Per ora sono circa una ventina le persone interessate, per altrettanti mulini storici. I vecchi mulini ad acqua erano morti e dimenticati, ma ora stanno tornando a macinare, come pezzi, più vivi che mai, di un museo diffuso sul territorio.
La società connessa di Natascha Fioretti
Wedshoots
I matrimoni nell’era digitale La mia migliore amica Betty si sposa, finalmente. Donna in carriera, brillante, creativa, impegnata 24 ore al giorno, dice di essere stressata all’idea perché le nozze sono fissate tra esattamente sei mesi, gli invitati supereranno sicuramente la soglia dei cento e, insomma, come organizzare il tutto proprio non ha idea.
Le hanno parlato molto bene delle agenzie Wedding planner, organizzatrici di eventi, che pensano a tutto e ti propongono un miliardo di idee a partire dalla location fino al tipo di carta da utilizzare per i segnaposto. Sarà sicuramente un po’ caro ma il successo è assicurato. Però Betty, mentre ne parliamo e mi elenca 4 o 5 papabili agenzie di grido, non è convinta. Insomma, lei è una creativa, una
partecipazioni in formato digitale, creare una agenda con tutte le scadenze e, ciliegina sulla torta, ha scoperto l’app Wedshoots che a tutti gli invitati alle nozze permette di condividere le foto scattate con il cellulare. Un modo originale e low cost per creare un album fotografico. E se per Betty non ci sono più dubbi, grazie a questi utilissimi strumenti, penserà lei ad organizzare le sue nozze, c’è un altro trend interessante da segnalare ed è quello dei matrimoni sostenibili o anche detti eco-sensibili. Si tratta di eventi che nascono e crescono rispettando l’ambiente e le economie locali e dunque invitano ad una serie di attenzioni. Ad esempio, si sconsigliano location molto lontane dal luogo in cui si celebra il matrimonio per non inquinare con lunghi e strombazzanti cortei d’auto. Le decorazioni floreali devono privilegiare fiori stagionali e decorazioni semplici fatte con fiori di campo e girasoli. Il menù meglio se vegetariano o con una moderata offerta di carne. Insomma nell’era digitale anche i matrimoni cambiano!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 5 settembre 2016 ¶ N. 36
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Burka, burkini, bikini In Francia il divieto d’indossare il burkini sulle spiagge è stato giudicato illegale, e dunque ritirato; ma questa decisione ha suscitato polemiche e proteste. C’è qualcosa di paradossale e un po’ buffo in queste polemiche sull’opportunità o meno di vietare il burkini alle donne islamiche che intendono fare il bagno vestite. Alcuni decenni fa, da noi, le polemiche riguardavano le donne che scendevano in spiaggia seminude, con bikini minuscoli o addirittura in topless: un simile attentato al pudore era scandaloso per una società che si lasciava gradualmente alle spalle l’età vittoriana. Ma se, un tempo, era l’esibizione della nudità ad essere biasimata, adesso invece si direbbe che si contesta alle donne di voler rimanere vestite. È un bell’esempio di come sia difficile mantenere un equilibrio; molto più facile, invece, passare da un estremo all’altro. Se il divieto di coprire il volto con il
niqāb può avere qualche giustificazione per motivi di sicurezza, l’argomento non regge quando si vuole imporre di mostrare il resto del corpo. E dunque, non riesco a comprendere l’irritazione di chi vorrebbe costringere una donna musulmana a spogliarsi sulla spiaggia. Tanto più se ripenso alla nostra storia passata, non solo dopo l’avvento del cristianesimo, ma già al tempo degli Assiri, dei Greci e dei Romani: il velo sul capo era quasi sempre e dovunque un obbligo per la donna che usciva di casa, e ne attestava la dignità, il pudore, e anche l’onorabilità dell’uomo del quale era figlia o moglie. Quanto al resto del corpo, la nostra civiltà ha avuto scrupoli e tabù per lo meno pari a quelli dei musulmani d’oggi. Basti un solo episodio: intorno al 1820 Victor Hugo, allora ventenne, aveva una fidanzata di nome Adèle Foucher; un giorno la vide passare su un marciapiede fangoso e notò che la ragazza, per non infangarsi
l’abito, sollevava la gonna scoprendo la caviglia. Il futuro autore dei Miserabili andò su tutte le furie e scrisse alla fidanzata una lettera indignata e minacciosa: «Mi sembra che il pudore sia più importante della gonna», la rimproverò fieramente. È pur vero che da allora sono passati quasi due secoli. Sono cambiate le mode, i costumi, e soprattutto i codici del pudore. Ma perché pretendere che le donne musulmane si presentino disinibite come le nostre? Forse, almeno da alcune di loro, l’abbigliamento castigato può essere visto come elemento di seduzione… Non diceva forse Bertrand Russell che se fosse di moda la nudità, essa non ci ecciterebbe più? E aggiungeva che allora, forse, le donne sarebbero spinte a fare come si usa in certe tribù selvagge: usare le vesti come un mezzo per rendersi sessualmente attraenti. Ma so bene che gran parte degli oppositori del burka, del burkini
e del niqāb si battono per la liberazione delle donne, per abbattere quella subordinazione della donna all’uomo che l’Islam ha conservato, diversamente dal cristianesimo degli ultimi tempi. Ed è indubbio che le severe regole religiose sull’abbigliamento femminile hanno la funzione di sancire l’inferiorità e la dipendenza della donna dall’uomo. San Paolo prescrive che l’uomo preghi Dio a capo scoperto in quanto riflette la gloria del Signore; la donna invece pregherà a capo coperto in segno di subordinazione all’uomo, della cui gloria è solo un riflesso. Senza contare che, nella Genesi, Dio dice testualmente alla donna che il marito la «dominerà»: un’esplicita volontà divina, dunque, stabilisce l’inferiorità della donna e il suo dovere d’obbedienza all’uomo. Di questa rigida ortodossia noi ci siamo liberati; l’Islam non ancora. Perciò è possibile che molte donne cresciute
dentro una cultura e una mentalità che noi stessi abbiamo condiviso per secoli e secoli non vogliano affatto liberarsi del burka e del burkini: e una liberazione non può essere imposta, dev’essere voluta. Di certo, se a mia nonna fosse stato chiesto di mostrarsi in bikini su una spiaggia, si sarebbe sentita insultata. Così, non mi pare il caso di voler indire crociate contro l’abbigliamento femminile islamico: quella che dovrebbe essere una battaglia per la liberazione delle donne potrebbe rivelarsi, all’opposto, una lotta per costringerle tutte quante a conformarsi ai nostri costumi, l’imposizione della nostra cultura ad un’altra. Ed infine, traendo lezione dalla storia passata, dovremmo sempre tenere presente che quello che per noi oggi è indiscutibilmente vero, giusto e sacrosanto, tra cento anni non lo sarà più. Probabilmente anche prima.
ai suoi piedi si riunivano i magistrati della regione al posto del tribunale odierno. «Aspettare sotto l’olmo»: nella sua Mitologia degli alberi (1989) Jacques Brosse individua l’origine di questo desueto modo di dire proprio in questa usanza, quando le parti in causa non avevano affatto intenzione d’incontrarsi. Nel gioco d’osteria romanesco chiamato passatella invece, l’olmo era il giocatore che non poteva bere, forse per via della funzione dell’olmo di reggere la vite senza però berne il vino. Da lì l’espressione «rimanere olmo» che significa rimanere a bocca asciutta. O per estensione, come indica il dizionario De Mauro: «andare olmo, restare olmo, rimanere ingannato, beffato». Dietro l’olmo c’è il bar ristorante pizzeria Vecchio Olmo dove sulla terrazza ombreggiata dagli oleandri rosa salmone, mi siedo a bere un caffè. Il Vecchio Olmo è in piazza Cavour, dunque il nostro venerando olmo segna il confine tra piazza Vittorio Veneto, dove passano tante macchine, e piazza Cavour, zona
pedonale. Per la venerazione contemplativa dell’olmo, il traffico vacanziero distrae un po’. Il semaforo è proprio accanto all’olmo, eppure l’olmo non sembra badarci più di tanto. Appare un po’ sopra le cose. Degne di nota le due aperture nella corteccia : una finestrella irregolare e una fessura tipo feritoia. Qui non ci sono leggende a proposito di melusine ammaliatrici che albergano nella cavità per poi tuffarsi la notte nel lago come nella leggenda dell’olmo cavo di Bissone che non c’è più. Ci sono a quest’ora quattro turisti tedeschi che bevono vino bianco, una coppia francofona di motociclisti con due coche, diversi pensionati locali con il crodino. In chiesa brancolo nel buio a caccia dell’olmo ai piedi della Madonna. Di fianco all’altare, sei ceri accesi mi permettono di percepire una macchiolina arborea dipinta da Carolus Canis quasi quattrocento anni fa. «Qualche anno fa l’olmo stava tirando le cuoia» mi dice il cuoco con baffo malandrino alla Clay Regazzoni del Ristorante
Toscano da Dino, onirica fermata imprevista sulla statale trentatré all’imbocco della Val d’Ossola proprio alle pendici della cava madre del Duomo, lassù. La stavo guardando in vespa quando ecco la scritta oggi arista e lo scorcio veloce e oggi ormai raro di un posto immutevole. Sedie fuori in ferro bianco battuto, bancone circolare di zinco dentro, camino. Si deve per forza mangiare bene qui, e infatti. La cicoria, per dirne una, è dell’orto dietro la casa seicentesca che un tempo era la stazione di posta a cavalli che valicava il Sempione. I porcini quando ci sono li trova Franco, il cuoco-oste d’altri tempi che trova il tempo di parlare e che è un fungiatt sfegatato e li cucina alla toscana, alla brace. Imperdibile dev’essere la selvaggina che si procura dai suoi amici cacciatori. «Poi hanno fatto l’aiuola intorno per proteggerlo un po’ e si è ripreso». Un camionista, dopo le fettuccine al ragù di chianina e due chiacchiere con Franco, riparte sereno per Venezia.
piccoli e grandi, in grado di offrire, quasi magicamente, informazione e intrattenimento. Insomma, la crisi del libro rispecchia una realtà che giustifica gli allarmi. Sta di fatto che, anche da noi, in un paese considerato di buoni lettori, si teme che quest’abitudine vada persa. E ci si dà da fare, per sventare il pericolo. Sono all’ordine del giorno le iniziative destinate, appunto, a esaltare e trasmettere l’attenzione e il piacere per la lettura, organizzando spettacoli, bancarelle, dibattiti. Con i migliori propositi, per carità, che però rischiano di sottrarre tempo all’obiettivo finale della lettura. Va di moda la presentazione, in libreria, di una novità editoriale, da parte di un autore che sa promuoversi: ma, poi, quanti ascoltatori compreranno il volume e lo leggeranno? Del resto, qui si apre un altro aspetto nella nostra relazione con i libri: ed è l’imbarazzo di fronte alla superproduzione di volumi: troppi per essere tutti meritevoli d’attenzione. E allora come comportarsi? All’interro-
gativo rispondeva, giorni fa, lo scrittore bernese Rolf Dobelli, sulla «Neue Zürcher Zeitung»: «Leggere meno, ma leggere doppio». Cioè, immergersi in profondità, rileggendo, piuttosto che scivolare in superficie («surfen») sulle pagine. Una raccomandazione che sorprende da parte di un autore di bestseller. E si tocca, così, un altro fenomeno attuale che si ricollega al nostro titolo: «Scrivere scrivere scrivere»: una sollecitazione ormai altrettanto diffusa di «Leggere leggere leggere». Si sta, infatti, assistendo al rilancio di un mezzo d’espressione, qual è la scrittura, ma con obiettivi diversi da quelli tradizionali: non per cimentarsi sul piano letterario o per utilizzare adeguatamente il vocabolario, ma per conoscere se stessi e addirittura per liberarsi da angosce. «Scrivere per vivere»: con questo titolo il domenicale del «Corriere della Sera» presentava, recentemente, il corso di scrittura narrativa, organizzato, a Roma, dalla scuola Molly Bloom, che,
quest’anno ha arruolato come docenti tre grandi firme: Paolo Giordano, Sandro Veronesi, Alessandro Piperno. Non s’intende, sia chiaro, favorire ambizioni sballate. Anzi, secondo Piperno, scrivere, guidati dalla lettura delle grandi opere, «è un esercizio spirituale gratificante, impratichirsi con la grandezza senza mai aspirare a raggiungerla». Del resto, le lezioni di scrittura non sono una novità. In Ticino, vengono impartite, ormai da decenni, anche nei corsi delle Scuole Club Migros. Fra i docenti, ci fu, negli anni 90, anche una presenza illustre: Giuseppe Pontiggia. Per lui, come ci spiegò, la scrittura rappresentava un’abilità necessaria e raggiungibile, utile nella vita professionale e sociale, e preziosa per gli effetti nella propria identità. Da questa premessa è partita, l’esperienza, condotta dai volontari dell’Associazione Triangolo nell’ambito oncologico: proporre ai pazienti di raccontarsi, attraverso l’autobiografia. Scrivere, insomma, non è più soltanto una questione letteraria.
A due passi di Oliver Scharpf L’olmo di Mergozzo A Mergozzo, in mezzo alla piazza che guarda il lago omonimo, c’è un vecchissimo olmo cavo. Alcuni credono sia stato piantato quando hanno iniziato a costruire il Duomo di Milano. È proprio da una cava alle sue spalle che hanno estratto nel 1387 il primo blocco di marmo: il famoso marmo di Candoglia. E da queste parti si è sempre detto che finché vivrà l’olmo anche il Duomo rimarrà in piedi. Di sicuro l’olmo campestre (Ulmus minor) è lì dal 1623: datazione del dipinto che lo raffigura giovincello ai piedi della Madonna nella chiesa parocchiale di questo paesino tra Val d’Ossola e Verbano dove approdo in vespa un bel mattino inoltrato di quasi fine estate. È qui dunque da almeno trecentonovantatré anni, l’olmo di Mergozzo (204 m). La chioma verde scuro supera le case affacciate su piazza Vittorio Veneto, ma è il tronco rugoso, la cui circonferenza misura cinque metri e mezzo, a imporsi sulla scena. Soprattutto, avvicinandosi, per via della cavità vista lago. Il lago di
Mergozzo, secoli fa, era l’estremità del braccio occidentale del Verbano dove c’è Pallanza, le isole Borromee eccetera. Oggi a dividere i due laghi c’è la chilometrica piana alluvionale di Fondotoce. Torba in granuli, rosmarino prostrato, altre pianticelle tipo lavanda senza fiori e sassi tondi, vivono nell’aiuola rialzata in granito attorno all’olmo secolare. Forse per scoraggiare la tentazione di entrare dentro il tronco cavo a schiacciare un pisolino. Le foglioline tremano e ondeggiano leggere a ogni minimo alito di vento. Sotto ciascuna di queste foglioline ellittiche con nervature regolari e bordo seghettato, appesi, di solito, stanno i sogni, cantava Virgilio nell’Eneide. Già nella mitologia greca antica l’olmo era associato a Oniro, dio omerico dei sogni che si metamorfizza più tardi attraverso Ovidio, in Morfeo, noto anche come dio del sonno. Sonno, sogni, poi potere oracolare in epoca romana. Mentre a partire dal medioevo all’ombra dell’olmo si amministrava la giustizia. Infatti qui
Mode e modi di Luciana Caglio Scrivere scrivere scrivere… A scanso di equivoci, il nostro titolo non è un plagio. Ricalca, volutamente, quello dell’indimenticabile mostra, proposta lo scorso autunno alla Pinacoteca Züst di Rancate, che si chiamava appunto «Leggere leggere leggere». Ripetuto tre volte, quel verbo doveva assumere la forza persuasiva di uno slogan, addirittura di un ordine, rivolto ai visitatori. Voleva dire: mettetevi in riga, seguite gli esempi, illustrati nei dipinti, che ritraggono gente che legge libri e giornali. E si trattava, in molti casi, di nostri antenati, sia pure non diretti. Erano, in particolare, i contadini, le massaie, i maestri, gli scolari della campagna bernese, che Albert Anker, nella seconda metà dell’800, aveva colto, e forse idealizzato, nella loro quotidianità. La mostra se ne serviva per lanciare quel suo «Leggere leggere leggere», simile a un SOS. Che, in verità, denuncia un tipico paradosso dell’epoca. Mai come oggi, libri, giornali, periodici d’ogni tipo, sono stati una presenza tanto vicina ai cittadini. Sia come merce, distribuita
nei punti di vendita più disparati e a prezzi sempre più accessibili. Un bel romanzo costa meno di un aperitivo. Sia come strumenti educativi e culturali, promossi attraverso recensioni, critiche, interviste con autori e specialisti. D’altra parte, mai come oggi, i libri, e la carta stampa in generale, si sono trovati alle prese con concorrenti tanto invadenti e seducenti: schermi,
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Ambiente e Benessere Tornano alla ribalta i gerani Dopo un periodo di declino è tempo di rivalutare la bellezza e il profumo dei gerani
Post Travel Blues Di certo il momento migliore di una vacanza non è il periodo dopo il ritorno
Progetti del futuro Una serie di articoli per dare voce alle ricerche «minori». Il primo è dedicato a una possibile soluzione contro la desertificazione in Uzbekistan
Spine e aculei Rigide escrescenze evolute su piante e animali con scopi di difesa e offesa
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Cancro, tasso di mortalità in calo Salute Nonostante il numero di tumori
Maria Grazia Buletti Notizie incoraggianti circa la cura dei tumori in Svizzera. Parla chiaro l’Ufficio federale di statistica (Ust) i cui primi dati a disposizione indicano la tendenza emersa nel 2015 nella quale si evidenzia che il numero di tumori è in aumento. Malgrado ciò, il tasso di mortalità della popolazione colpita da queste patologie è in calo. A fine marzo 2016 è stato pubblicato nel dettaglio il Rapporto 2015 sui tumori in Svizzera, nel quale troviamo i dati più recenti disponibili sul cancro nel nostro Paese, per opera dell’Ust, dell’Istituto Nazionale per l’Epidermiologia e la Registrazione del Cancro (Nicer) e del Registro Svizzero dei Tumori Pediatrici (Rstp). Il Rapporto pubblicato contiene le principali cifre concernenti l’epidemiologia dei tumori nel loro insieme e di 23 tipi specifici di cancro. Secondo l’Ust, il motivo dell’incremento del numero di tumori, come pure quello dei decessi per queste patologie, è da imputare all’invecchiamento della popolazione. Nel contempo però si ribadisce che «in tutte le fasce di età sta diminuendo il rischio di morire di cancro». Di fatto, nel periodo che va dal 1983 al 2012, i tassi di mortalità a causa di un tumore sono scesi in media del 27 per cento per le donne, e del 36 per cento per gli uomini: «Ciò significa che oggi per le donne il rischio di morire di cancro è di un quarto inferiore rispetto a quello corso 30 anni fa dalle persone di sesso femminile della stessa età. Per gli uomini, negli scorsi 30 anni il rischio di morte è pure diminuito addirittura di oltre un terzo». Dal 2010 ad oggi, il numero di cantoni che in Svizzera hanno aderito al Registro dei tumori è sostanzialmente aumentato e nel 2015 questo Registro è ancora vacante solamente nei cantoni Svitto e Soletta, mentre i dati inerenti i bambini sono recensiti a livello nazionale da più di 40 anni. Questa preziosa raccolta di dati ha permesso ai differenti partner di comprendere
che, in media, nel periodo che va dal 2008 al 2012 il tasso di sopravvivenza a cinque anni per tutti i tipi di tumore era pari al 65 per cento per gli uomini, rispettivamente al 68 per cento per le donne: «Rispetto al periodo 1998-2002 corrisponde a un incremento di nove, rispettivamente sei punti percentuali». Nel caso di bambini «il tasso di sopravvivenza a cinque anni ha nel frattempo raggiunto addirittura l’85 per cento». Le probabilità di sopravvivenza dipendono dal tipo di tumore, dall’accessibilità alle cure e ai trattamenti medici e dalla loro efficacia. L’Ust sottolinea che ogni anno in Svizzera i tumori provocano novemila decessi tra gli uomini e settemila tra le donne. Questo significa che da noi il 30 per cento dei decessi nell’uomo e il 23 percento nelle donne sono dovuti a un cancro. Nella differenziazione dei tipi di tumori che più colpiscono, l’Ust mette in graduatoria: «Per gli uomini, il 22 per cento dei decessi per cancro è dovuto al tumore polmonare, il 15 per cento a quello della prostata e il 10 per cento al tumore colon-rettale». Per le donne: «Il tumore al seno è responsabile del 19 per cento dei decessi per cancro, quello al polmone del 15 per cento e il tumore colon-rettale tocca il 10 per cento». I decessi per cancro che riguardano i bambini sono dovuti a leucemie e tumori al cervello. «Nel complesso, il tumore del polmone è la forma di cancro che provoca il maggior numero di decessi (tremila all’anno)». Possiamo infine trarre le somme affermando che, dunque, in Svizzera ogni anno muoiono di cancro circa 16mila persone. Quattro i tipi di tumore indicati come «dominanti»: «Tra gli uomini, il 53 per cento dei nuovi casi registrati ogni anno è costituito dai tumori della prostata, del polmone e da quelli colon-rettali. Per le donne, invece, nel 51 per cento dei casi si tratta di tumori al seno, del polmone e colonrettali». Vengono indicati, per l’appunto, nella categoria delle leucemie, dei tumori cerebrali e quelli dovuti a tessuti embrionali immaturi, quelli che
Keystone
in Svizzera sia in aumento, i decessi sono diminuite circa del trenta per cento
maggiormente colpiscono i bambini. Come detto è emerso anche un aumento del numero dei tumori perché la popolazione invecchia: «Nel periodo 2008-2012, sono stati diagnosticati circa 21mila tumori all’anno tra gli uomini e circa 17mila tra le donne». Questo significa che, rispetto al quinquennio precedente, sono duemila i casi in più verificatosi per ciascuno dei due sessi. L’Ust rende però attenti sul fatto che: «L’aumento dei casi non è dovuto al rischio di mortalità, che (anzi) considerati tutti i tipi di tumore (tra il 1998 e il 2012) è rimasto pressoché invariato». Anche nel caso dei bambini, il rischio di mortalità negli ultimi due decenni non ha subito variazioni sostanziali. Tirando le somme, possiamo dire che
in Svizzera vivono 317mila persone cui è stato diagnosticato un tumore («170mila donne e 147mila uomini»), 55mila persone si sono ammalate negli ultimi due anni, mentre a 60mila persone la diagnosi è stata posta tra due e cinque anni fa. Interessanti sono i risultati terapeutici: «200mila persone che si sono viste diagnosticare un tumore più di cinque anni fa sono considerate guarite. Oggi in Svizzera vivono oltre quattromila bambini, giovani e adulti che hanno avuto un tumore in età infantile». Infine, uno sguardo comparativo con l’Europa: «Rispetto a nove Paesi europei, la Svizzera si situa nella media per quanto riguarda i tassi d’incidenza dei tumori nel loro insieme tra gli uomini;
per le donne i tassi svizzeri figurano invece tra i più bassi». Il nostro Paese, dunque, registra un tasso di mortalità che si situa al penultimo posto per gli uomini e all’ultimo per le donne. Questo permette all’Ust di affermare che: «I tassi di sopravvivenza svizzeri sono nella media». Ottima notizia per quanto attiene ai bambini per i quali i tassi di sopravvivenza in Svizzera risultano essere tra i migliori di tutta Europa. A sostegno della ricerca sul cancro
Segnaliamo che sabato 17 settembre 2016 avrà luogo a Lugano (Piazza Riforma) la «Corsa della speranza» (www.corsadellasperanza.ch): 5 km per la ricerca sul cancro.
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Ambiente e Benessere
Un messaggio di speranza attraverso lo sport
Tutto per la vostra salute.
Marcheton CF Ritorna a Biasca il classico
Erste Hilfe bei Verletzungen und Erkrankungen
appuntamento di fine estate: la XII edizione della gara a sostegno dei malati di fibrosi cistica è in programma sabato 10 settembre
Amavita – Sentirsi meglio, semplicemente. La sinergia tra agonismo e solidarietà: coinvolgendo la popolazione in un evento sportivo di grande richiamo è possibile raccogliere forze e mezzi finanziari per un obiettivo importante,. La «formula» Marcheton, inaugurata ormai da tempo in Svizzera, si propone di sensibilizzare sulla necessità di un impegno comune contro la fibrosi cistica, una malattia che colpisce oggi circa un migliaio di persone in Svizzera e che richiede un costante impegno dei ricercatori e dei curanti. Per raggiungere questo importante obiettivo la proposta è di trovarsi a Biasca il 10 settembre per trascorrere una giornata divertente e piacevole. Oltre alle tradizionali gare podistiche e al walking, con partenza alle ore 11 per gli adulti e alle 14.30 per i bambini, saranno poi previste numerose animazioni e intrattenimenti: giochi per bambini e ragazzi con parete d’arrampicata, gonfiabili, truccabimbi, caccia al tesoro, merenda pane e cioccolato offerta e… tanto altro. A pranzo, maccheronata e fornitissima grigliata accompagnate dalla musica dei Vitamina. Il mago Valery ci stupirà con la sua sorprendente magia e la giornata sarà allietata dalle esibizioni della scuola Fit&Gim di Roveredo, dal team BlancoSpin del maestro di spinning Ben Nott, dallo Sport Twirling Bellinzona e dalle Fisarmoniche del Conservatorio della Svizzera Italiana dirette dal maestro Peter Vanzella. In collaborazione con il gruppo NaregnaDogs vedremo i nostri amici a quattro zampe in azione. La giornata si concluderà con grigliata e risottata in musica con la Güggen Carnasc Band di Cadenazzo e la band Lysa Maff. Madrina e padrino della manifestazione saranno Alessandra Ferrarini, pediatra e genetista presso l’Ente Ospedaliero Cantonale di Bellinzona, e Paolo Guglielmoni, nota voce radiofonica e inflessibile guardia di confine nella serie Frontaliers. I proventi della manifestazione saranno interamente devoluti alla Società Svizzera Fibrosi Cistica (CFCH). La CFCH ha lo scopo di promuovere e attuare ogni forma di assistenza ai soggetti affetti da fibrosi cistica, favorendo altresì tutte le iniziative di carattere sociale tendenti a garantire la tutela del diritto alla salute e il superamento dell’emarginazione dei malati. La CFCH, inoltre, insieme al Swiss Working Group for Cystic Fibrosis, sostiene progetti di ricerca scientifica sulla fibrosi cistica. La fibrosi cistica è una malattia causata dalla mutazione di un gene che viene ereditata dai genitori e che colpisce i polmoni e il sistema digerente. Negli ultimi decenni, l’aspettativa di vita per le persone affette da fibrosi cistica è au-
mentata considerevolmente grazie ai progressi medici che hanno permesso di sviluppare nuove terapie clinicamente applicabili. Il passo decisivo verso una guarigione definitiva non è stato ancora fatto, ma molti piccoli passi hanno permesso di migliorare la qualità di vita delle persone colpite dalla malattia. Resta quindi il bisogno di diffondere un messaggio di speranza e solidarietà, perché sempre meno persone si sentano sole e discriminate e perchè gli sforzi di tutti vengano indirizzati a rafforzare la ricerca scientifica e il sostegno diretto al malato. La solidarietà non è semplice partecipazione, ma anche l’unico investimento che non fallisce mai.
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Marcheton, 10 settembre 2016, Biasca
Programma 10:20 Apertura della manifestazione con «I Vitamina» 11:00 Partenza gara Runners e Camminata popolare 11:40 Musica con «I Vitamina» 12:30 Grigliata / maccheronata 13:00 Premiazioni gara Runners e Popolari 13:20 Esibizioni di Hip-Hop della scuola Fit&Gim di Roveredo, Sport Twirling Bellinzona e dimostrazione cinofila del gruppo NaregnaDogs di Biasca 14:30 Partenza gara Scolari, Piccoli e Mini 15:00 Caccia al Tesoro 15:15 Esibizioni Fisarmoniche del Conservatorio della Svizzera Italiana dirette dal maestro Peter Vanzella e Ginnastica 16:10 Premiazioni gara Scolari, Piccoli e Mini ed estrazione lotteria 16:30 Merenda offerta da Frey Cioccolata 16:45 Esibizione Mago Valery 17:45 Güggen Carnasc Band di Cadenazzo 18:30 Risotto offerto dalla ditta Starnini per il 100° anniversario e musica live con l’orchestra Lysa Maff. Griglia sempre in funzione.
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Ambiente e Benessere
Intramontabili gerani Mondoverde Colorati, resistenti e in alcune loro varietà anche profumatissimi
Almeno una volta nella vita ognuno di noi ha avuto a che fare con i gerani. Presenti su terrazzi e balconi, utilizzati per decorare intere balconate o anche una sola fioriera, da decenni colorano le estati degli amanti del verde. Solo una decina di anni fa c’è stato un calo nell’uso di queste belle piante (il cui nome botanico corretto è Pelargonium) a causa di una farfallina e del suo bruco che provocarono un rapido deperimento dei gerani, dove nella maggior parte dei casi portava alla morte dei vegetali. Si tratta di Cacyreus marshalli, un piccolo lepidottero che depone le sue uova in prossimità di fusti e di foglie dei Pelargonium; le larve scavano delle gallerie divorandoli dall’interno e provocando piccoli fori rotondi alla base dei rami o in prossimità dei nodi. Oltre a indebolire le piante, le larve si nutrono dei boccioli fiorali, rendendo brutti e malati i gerani. In grado di moltiplicarsi molto velocemente, i Cacyreus avevano costretto molte persone a orientarsi verso l’acquisto di altre piante, ma fortunatamente il problema negli anni è andato ridimensionandosi grazie all’uso di insetticidi specifici e all’azione di preparati biologici (come l’uso di Bacillus thuringensis var. kurstaki) ai preparati a base di assenzio o di olio di Neem e grazie anche alla comparsa in natura di una mosca antagonista naturale del piccolo le-
pidottero. È quindi possibile ospitare nuovamente queste resistenti e coloratissime piante. Provenienti dal Sud Africa, arrivarono in Europa agli inizi del Seicento e solo dopo mesi di ambientamento, passando da un clima nativo molto caldo e secco, a uno freddo e umido come quello inglese e olandese, le prime piante riuscirono a fiorire.
Tra gli aromi dei gerani odorosi: lavanda, noce moscata, verbena, cedro, menta, pepe, limone, fragola, mela, arancia… Grazie a un’attenta selezione da parte di vari floricoltori, si sono ottenuti gerani zonali, parigini, a edera e imperiali con fiori sempre più grandi e sgargianti tinte dal bianco al porpora. Sicuramente il più classico risulta essere lo zonale, con infiorescenze tonde, dense e corpose, dai fiori semplici, doppi e semidoppi. Molto resistente e rustico, si adatta a qualsiasi tipo di terriccio, vive in pieno sole o a mezz’ombra e presenta fusti carnosi con crescita verticale, che si riempiono di boccioli densi di petali pronti a schiudersi tra maggio e ottobre. Coltivati con il corretto apporto di concime e in vasi via via più ampi, raggiungono anche alle nostre latitudini i 150 cm di altezza, purché du-
Stojanoski Slave
Anita Negretti
rante gli inverni più rigidi vengano ritirati in locali luminosi e riscaldati. Prediligete cascate di fiori in grado di coprire per quasi un metro le ringhiere dei vostri terrazzi? Allora optate per la scelta dei gerani cascanti, conosciuti come parigini o a edera, dai fusti sottili ma ricchi di fiori e foglie simili per forma a quelli dell’edera. Una cura necessaria, oltre ad adeguate annaffiature da eseguire due volte alla settimana e concimazioni con prodotti per piante fiorite, consi-
ste nella pulizia dei fiori vecchi, recidendo il lungo peduncolo che li porta fin dall’attaccatura con il ramo principale. Così facendo si stimola la pianta a emettere nuovi boccioli durante tutta la stagione calda. Se non vi accontentate della sola fioritura ma volete deliziarvi anche con aromi particolari, è possibile ottenere buoni risultati ospitando dei gerani odorosi, le cui profumazioni vanno dalla lavanda alla noce moscata, passando per la verbena, il cedro,
la menta e il pepe. Molto utilizzate nell’industria profumiera, questi gerani rilasciano fragranze inebrianti semplicemente sfregando con la mano le loro foglie. Potete utilizzare per profumare ambienti, le varianti come Pelargonium «Bitter Lemon» e P. «Mabel Grey», entrambi al limone, P. subuliginosum alla fragola, P. odoratissimum alla mela, P. tomentosum alla fragranza di menta o ancora P. «Prince of Orange» dal forte sentore di arancia. Altro consiglio: in cucina possono anche essere utilizzate le loro foglie per insaporire le vostre insalate estive oppure per combattere le fastidiose zanzare basterà sistemare alcune piante di geranio odoroso sui davanzali o attorno alla vostra zona di relax all’aperto per risparmiarvi molte fastidiose punture. Un metodo interessante per allargare la collezione di Pelargoni è quello di crearvi da soli le nuove piantine. Basterà recidere alcuni getti lunghi una decina di centimetri nei mesi tra maggio e agosto. Togliete tutte le foglie, ad esclusione delle ultime 2-3 foglioline apicali, ed eventualmente i boccioli fiorali (che indebolirebbero la talea) e interrateli per almeno 5 cm in singoli vasetti con terra leggera mischiata a sabbia. Tenete i vasetti all’ombra con il terriccio sempre umido e vedrete che in poche settimane si svilupperanno le nuove radici accompagnate dalla formazione di nuove foglioline. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Batteri contro la desertificazione Progetti del futuro Uno dei principali problemi del governo dell’Uzbekistan è l’impoverimento
dei suoli che affligge l’agricoltura, una studiosa testa una possibile soluzione
Amanda Ronzoni Prende avvio su questo numero la serie di articoli dedicata ai «Progetti del futuro», e voluta per dare voce ad alcune delle ricerche «minori» più interessanti, alcune in via di sperimentazione altre in corso, a livello mondiale. Per il primo servizio di questa serie parliamo degli studi condotti da Dilfuza Egambardieva, microbiologa dell’università dell’Uzbekistan, a Tashkent, che ha isolato batteri resistenti alle alte concentrazioni di sale. Uno dei problemi principali che il governo dell’Uzbekistan si trova ad affrontare è quello dell’impoverimento dei suoli che affligge l’agricoltura, una delle voci tradizionali dell’economia locale. I cambiamenti climatici hanno, infatti, peggiorato la capacità produttiva della regione, dove circa la metà dei 4,4 milioni di ettari destinati alle colture sono poco produttivi, a causa della siccità crescente e di concentrazioni di sale sempre maggiori provenienti dal bacino del lago d’Aral. La situazione ha poi ripercussioni sull’allevamento di bestiame e il mercato interno del lavoro, con masse di contadini che lasciano i campi. In tutto il mondo il 52 per cento delle aree agricole mostra segni di degrado, spesso a causa delle infiltrazioni di sale nel terreno. La presenza del sale inibisce la crescita delle radici, con conseguente diminuzione della capacità di produzione. In partico-
lare, alte concentrazioni saline pregiudicano la «nodulazione», ovvero la produzione di piccoli noduli nelle radici delle piante, all’interno dei quali avviene la fissazione dell’azoto, elemento fondamentale per la crescita dell’apparato radicale. Addetti alla fissazione dell’azoto sono i Rhizobium, batteri del suolo che entrano in simbiosi con la pianta ospite, convertendo l’azoto atmosferico dallo stato gassoso in forma più adatta per la pianta medesima, che contraccambia producendo degli essudati utili per i batteri.
La microbiologa Dilfuza Egambardieva sfrutta particolari popolazioni di batteri del suolo in aiuto alle piante Egambardieva studia le popolazioni di batteri del suolo da più di dieci anni e ha individuato dei ceppi resistenti al sale, in grado di aiutare coltivazioni come cotone, cetrioli, grano e pomodori a crescere meglio, ma ha anche isolato, sempre in terreni salini, batteri che sono nocivi per la salute umana. All’interno dei protocolli per la classificazione dei batteri, la discriminante tra nocivo e benefico per l’uomo è ovviamente di primaria importanza. In particolare, la microbiologa ha
Moynaq in Uzbekistan. (Anton Ruiter)
isolato batteri della famiglia Pseudomonas, il ceppo extremorientalis per la precisione, che oltre a non essere dannoso per l’uomo, compete con altri batteri nocivi nella colonizzazione delle piante, aiutandole a difendersi da funghi e a sviluppare un apparato radicale più resistente. I batteri testati, innestati nelle radici delle piante in laboratorio, hanno dato buoni risultati, presentando un
rendimento maggiore del 10-15 per cento. Per massimizzare gli effetti, Egambardieva ha messo a punto una tecnica, che ha brevettato, la quale consente l’arricchimento selettivo dei soli ceppi di Pseudomonas e l’isolamento nel terreno dei soli batteri utili alla crescita delle radici. Lavorando prima in serre protette e poi in campi aperti controllati, è stato possibile verificare gli effetti di
questa tecnica, e si è iniziato a lavorare con agricoltori locali. Grazie all’intervento di aziende private, ma anche ai fondi ottenuti grazie al supporto di organizzazioni internazionali e fondazioni, si è passati alla produzione di questi ceppi batterici e alla loro introduzione sul mercato. Tra gli effetti positivi, va sottolineato che l’incremento delle produzioni avviene senza il ricorso a prodotti chimici e fertilizzanti, ottenendo di fatto un controllo biologico delle malattie delle piante coltivate. Ottimi i risultati nella lotta ai patogeni del cotone. Si parla quindi di fertilizzanti naturali e di fito-ormoni in grado di sostenere le coltivazioni anche in situazioni geografico-climatiche difficili. Al momento la microbiologa uzbeka si trova in Germania, dove prosegue i suoi studi nel campo della sicurezza alimentare e dei cambiamenti climatici, con l’obiettivo di trasformare i risultati delle ricerche in tecnologie utili da trasferire nei Paesi in via di sviluppo. Nota
Gli spunti per questa serie sono tratti dall’attività promossa da TWAS (The World Academy of Sciences, www. twas.org), che – tra l’altro – sostiene scienziati provenienti da Paesi in via di sviluppo, mediante l’assegnazione di grant e fondi di ricerca. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Una perfetta felicità
Il surf come ricerca di sé
Viaggiatori d’Occidente Qual è il momento migliore di una vacanza, la partenza
Bussole Inviti
o il ritorno, il viaggio vero e proprio o il suo ricordo?
a letture per viaggiare
Soffrite di Post Travel Blues? È quella sottile malinconia che ci coglie dopo il ritorno a casa dalle vacanze, quando ripensiamo alla felicità appena passata. Certo anche in vacanza capita di annoiarsi, anzi la noia può essere un ingrediente importante in una rilassante vacanza marina, dove le ore passano lente senza che nulla accada, e ci piace che sia così. Ma l’associazione tra vacanze e felicità viene naturale ed è anche confermata da ricerche accademiche. Per esempio, secondo uno studio della Cornell University, il denaro speso per viaggiare ci rende felici più a lungo rispetto all’acquisto di beni materiali. Il piacere che deriva dal possesso di un nuovo oggetto diminuisce, infatti, rapidamente con l’abitudine, mentre il viaggio dispiega il suo benefico effetto sul lungo periodo. E col tempo anche le peggiori disavventure tendono a essere ricordate (e raccontate) come divertenti aneddoti, dai quali comunque abbiamo imparato qualcosa.
Le ferie incarnano il modello ideale di una vita perfetta, per questo le prepariamo con grande gioia Naturalmente la felicità in vacanza prende forme diverse. Per chi conduce una vita scandita dalle abitudini, la felicità può essere un viaggio avventuroso, alla scoperta di paesaggi e culture diverse, dove ogni nuovo incontro risveglia energie sopite. Viaggiamo per conoscere meglio noi stessi e gli altri, per metterci alla prova e aumentare l’autostima, per diventare persone più interessanti… Per altri invece la vacanza è sinonimo di riposo, serve soprattutto a recuperare le forze fisiche e mentali, a ritrovare un rapporto armonioso tra il corpo e la psiche, in una prospettiva di benessere. Non c’è però accordo su quale sia il momento più felice di una vacanza: quel fermo immagine che ricorderemo per anni, quel momento di piena e luminosa completezza che trasforma tutto il resto in una preparazione. Anche in questo caso alcuni ricercatori di un’università olandese hanno cercato di individuarlo con precisione, intervistando centinaia di persone, con un risultato sorprendente. Di certo il momento migliore
Vincenzo Cammarata
Claudio Visentin
della vacanza non è il periodo dopo il ritorno, quello che tutti stiamo sperimentando in questi giorni. Anzi nella maggior parte dei casi gli effetti benefici sembrano svanire nel giro di qualche settimana, non appena si torna alla routine consueta. Si potrebbe allora pensare che il momento più felice sia intorno alla metà della vacanza, quando abbiamo superato la stanchezza della partenza e ci siamo acclimatati nella nostra destinazione. C’è molto di vero natural-
mente, eppure neanche questo, a detta degli intervistati, è il momento più felice in assoluto. La felicità sembra essere maggiore quando pensiamo al prossimo viaggio: un lungo periodo di settimane e mesi quando decidiamo la nostra prossima meta, cominciamo i preparativi e siamo visitati da piacevoli pensieri anticipatori. La varietà di possibilità che si dischiude dinanzi a noi ci riempie d’eccitazione e anche le occupazioni pratiche – cartine, orari, biglietti ecc. – possono risultare insolitamente piacevoli se affrontate senza pressione. È rivelatore come spesso queste ricerche di informazioni in rete avvengano sul posto di lavoro, di nascosto dai capi. Naturalmente queste considerazioni non si applicano agli ultimi giorni che precedono la partenza, particolarmente stressanti perché il lavoro da finire si aggiunge ai preparativi incalzanti. Questa teoria potrebbe spiegare perché rispetto al passato si preferiscono numerose vacanze brevi a lunghi soggiorni: in questo modo l’attesa del viaggio viene moltiplicata. Ma soprattutto ci spinge a riflettere sul ruolo delle vacanze nella nostra vita. Anche se le consideriamo una libera scelta, in realtà delle vacanze non possiamo fare a meno, ne siamo in un certo sen-
so dipendenti. Da almeno un secolo, il ritmo della nostra esistenza si è fatto così intenso che siamo costretti a interromperlo regolarmente per recuperare energie e motivazioni. Dal 1936, quando le ferie pagate furono introdotte per la prima volta in Francia, le vacanze sono state considerate un diritto, proprio perché necessarie. Dopo un’iniziale resistenza, col tempo anche i datori di lavoro hanno compreso che i dipendenti che fanno vacanze sono più produttivi al loro ritorno. La vacanza finisce per incarnare il modello ideale della vita perfetta: possiamo scegliere liberamente cosa fare del tempo, assecondare le nostre inclinazioni, dedicarci alle attività preferite oppure oziare. Ma ci arriviamo gravati da troppe aspettative. Al tempo magico della vacanza non chiediamo solo quello che può ragionevolmente darci, ci aspettiamo anche che compensi eccessi di lavoro, frustrazioni, delusioni del tempo ordinario. Insomma chiediamo troppo. Per questo, fino a quando non riusciremo ad alleggerire e migliorare la nostra vita di ogni giorno, ogni vacanza è destinata al fallimento, quanto meno parziale. Ma in fondo lo accettiamo perché sappiamo già quale sarà la vacanza perfetta: la prossima.
«Non pensavo di essere un bambino cresciuto nella bambagia, eppure arrivare alla Kaimuki Intermediate School fu un’esperienza scioccante. Ci eravamo appena trasferiti a Honolulu, facevo la seconda media, e quasi tutti i miei nuovi compagni di classe erano “tossicomani, sniffatori di colla e teppisti” – o almeno questo scrissi a un mio amico di Los Angeles. Anche se non era vero…» Giorni selvaggi è diventato rapidamente un libro di successo e il suo autore, il giornalista e corrispondente di guerra William Finnegan, ha vinto il prestigioso Premio Pulitzer 2016. È il racconto di un viaggio attorno al pianeta con la tavola da surf (surfari), cominciato nell’infanzia alle Hawaii, dove il surf ha le sue radici, e proseguito poi in Polinesia, Australia, Sud-est asiatico, Madeira, Sudafrica, Madagascar, Perù, insomma ovunque vi fosse un’onda da cavalcare. Lunghi anni di un’estate senza fine spesa alla ricerca dell’onda perfetta (trovata infine a Tavarua, un’isoletta nelle Figi) e al tempo stesso del proprio posto nel mondo. Per la generazione raccontata in Un mercoledì da leoni, il surf era molto più di uno sport spettacolare; fu prima di tutto uno stile di vita, un tentativo di prolungare all’infinito l’adolescenza e la sua ricchezza di possibilità e di emozioni, un rifiuto dell’età adulta, della nuova religione del lavoro e della guerra. Il surf come via alla ricerca di sé: «Le onde sono il campo da gioco. Il fine ultimo. Sono l’oggetto dei tuoi desideri e della tua ammirazione più profonda. Allo stesso tempo, sono anche il tuo avversario, la tua nemesi, il tuo nemico mortale. L’onda è il rifugio, il tuo nascondiglio felice, ma anche un territorio selvaggio e ostile, una realtà indifferente e dinamica». Bibliografia
William Finnegan, Giorni selvaggi. Una vita sulle onde, 66thand2nd, 2016, pp.496, € 25. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere Cucina di Stagione La ricetta della settimana
Polenta con verdure al forno Piatto principale Ingredienti per 4 persone: 4 peperoni di vari colori · 2 spicchi d’aglio · 100 g di olive nere snocciolate · 4 cucchiai d’olio d’oliva · sale, pepe · ½ mazzetto di origano · 1.5 l di miscela metà acqua metà latte · 250 g di semolino di granoturco · 60 g di parmigiano
Scaldate il forno a 220 °C. Tagliate i peperoni a pezzi. Dimezzate l’aglio e le olive. Accomodate gli ingredienti su una teglia foderata con carta da forno. Irrorate d’olio e condite con sale e pepe. Aggiungete la metà delle foglioline di origano. Arrostite al centro del forno per circa 15 minuti. Nel frattempo portate a ebollizione la miscela d’acqua e latte, salate leggermente. Versate il semolino di granturco. Togliete la pentola dal fuoco e lasciate riposare la polenta incoperchiata per circa 4 minuti. Aggiungete il parmigiano grattugiato. Servite la polenta con le verdure al forno. Guarnite con il resto di origano e, a piacere, condite con un filo d’olio e scaglie di parmigiano..
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Ambiente e Benessere
C’è chi si difende (oppure offende) Biodiversità Le spine hanno costituito da sempre un efficiente strumento di protezione
L’uomo, con il suo filo spinato, non ha fatto altro che imitare quanto la Natura ha creato dalla notte dei tempi equipaggiando vegetali e animali con strutture di protezione, che fanno parte del loro corpo. Da vecchia data (cioè da molti milioni di anni dal loro primo apparire sulla Terra), i vegetali e gli animali hanno escogitato un complesso arsenale – elaborato e via via perfezionato – di armi di difesa e offesa, il cui fine ultimo, ed essenziale, è nutrirsi e non essere mangiati, offendere e non essere offesi, perpetuare la continuità della vita. Non potendo muoversi, i vegetali sono stati obbligati a cercare l’ausilio del vento e dell’acqua, e degli animali (dagli insetti agli erbivori mammiferi e dagli uccelli) per assicurare la loro diffusione e la loro esistenza. Per difendersi dai morsi, hanno elaborato barriere chimiche tossiche (gli alcaloidi) oppure barriere fisiche come sono le spine e la feltrosità delle foglie. La Dionea, famosa pianta carnivora (di cui si parla nell’articolo apparso su «Azione 32» dell’8 agosto 2016), ha creato una corona di spine sulle foglie
Una zampa di una mantide religiosa, tre centimetri. (Alessandro Focarile)
per trattenere e digerire la preda. Le spine sono un efficace mezzo di difesa contro i predatori, che siano animali e vegetali. Le spine sono presenti ovunque. Un’intera famiglia, le cactacee (630 specie in tutto il mondo) è emblematica per queste singolari strutture elaborate dalla pianta per difendersi dai morsi.
Dagli aculei degli istrici e dei porcospini alle spine dei cactus, c’è solo l’imbarazzo della scelta, in natura Un Cactus, un cardo, un fico d’India (Opuntia), un pungitopo (Ruscus aculeatus), sono un unico ammasso di spine, inavvicinabili da parte di qualsiasi erbivoro. Nell’agrifoglio (Ilex) e in alcune querce soltanto la parte basale dell’albero è spinosa, in quanto questa è la porzione raggiungibile dagli erbivori. Il nastro Velcro, di universale utilizzazione, è stato inventato imitando le spine ricurve che caratterizzano i portasemi della bardana (Arctium lappa). Questi si attaccano agli indumenti e al pelame degli animali agevolando la dispersione della pianta. Nel mondo vegetale, queste escrescenze indurite e pungenti si possono formare su qualsiasi parte della loro struttura: sui tronchi, sugli steli, sulle foglie , sui frutti e persino sui petali dei fiori, come nei carciofi. Nel mondo animale, c’è solo la difficoltà della scelta in quanto a spinosità. Oltre ai ben noti porcospini e istrici alle nostre latitudini, vi sono i ricci di mare, gli echinodermi (dal greco «pelle con le spine») e i pesci scòrfani, prelibato componente di ogni buona zuppa di pesce (la bouillabaisse del Midi francese). Entrambi
Petr Kratochvil
Alessandro Focarile
esempi di efficiente spinosità difensiva, in quanto le loro spine contengono ghiandole velenifere. Tra gli insetti, spiccano per la singolarità dell’ornamentazione, i bruchi di molte farfalle diurne e crepuscolari: sui loro corpi le spine isolate oppure radunate in fascetti non mancano. Molte specie di cimici che frequentano le piante, di cavallette, e nella stessa mantide religiosa, le spine costituiscono un efficace mezzo di difesa e di offesa, e sono insediate su tutto il corpo, dalla testa alle zampe. Tra i molti esempi di spinosità, che si possono osservare tra gli insetti alle nostre latitudini, meritano di essere ricordate anche due specie di coleotteri crisomelidi. La prima è la vistosa Hispa testacea, molto fre-
quente d’estate sui cespugli di cisti, componenti principali della macchia mediterranea sui litorali marini; un diavoletto rosso-lacca irto di spine su tutto il corpo, ben al sicuro dagli attacchi di probabili predatori. E poi c’è la più piccola Hispella atra, che scava minuscole gallerie di alimentazione negli steli di differenti erbe, specialmente le graminacee. Negli animali (vertebrati e insetti), è tuttora misteriosa la ragione grazie alla quale un pelo primitivo – un tipico terminale tattile del sistema nervoso – si sia trasformato nel corso dell’evoluzione in una rigida escrescenza preposta alla difesa e all’offesa. In alcune specie, le spine sono cave e contenenti, come nei pesci scòrfani, ghiandole velenifere, il che aumenta il
potere tattico delle spine stesse. Per quanto riguarda i vegetali, è stato scritto (Mancuso e Viola 2015) che l’intelligenza è la facoltà di risolvere, più o meno efficacemente, i problemi, gli ostacoli e le opportunità offerte dalla vita. Ebbene, pur non potendo muoversi, i vegetali hanno intelligentemente risolto un’incredibile varietà di problemi, che hanno dovuto affrontare nel corso della loro evoluzione ed esistenza. Bibliografia:
Jones Richard, Extreme insects, HarperCollins Publishers (London), 2011, 288 pp. Mancuso Stefano e Viola Alessandra, Verde brillante, Giunti Editore (Firenze, Milano), 2015, 142 pp.
Giochi Cruciverba Tra amiche: «Cosa pensi, tra due genitori musicisti nasceranno figli musicisti?» «I tuoi genitori sono intelligenti?» «Sì, molto!» Trova la risposta dell’amica leggendo, a cruciverba ultimato, le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 6, 4, 3, 3, 1, 5)
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sport 20. Danno un punto a scopa 21. Cassetta con telai mobili 23. Autocarro 25. Le iniziali della campionessa Compagnoni 26. Nome femminile 27. Le ossa del carpo
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Orizzontali 1. Segnale di pericolo 7. La circense Orfei 8. Nella storia ce n’è una volgare 9. La madre di Piritoo 11. Metà di un cono 12. La vita dei greci 13. Organi di presa di molti antropodi 17. Disciplina sportiva 18. Utilizzata in molti sport 19. Viene praticata in quasi tutti gli
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Verticali 1. Allegre, divertenti 2. Pronome personale 3. Prima moglie di Giacobbe 4. Sigla della città del Vasari 5. Luminosa, splendente 6. Si è preso la libertà ... 10. Nona lettera dell’alfabeto greco 12. Villano, grossolano 13. Simboli sul pentagramma 14. Suo (di lei) a Londra 15. Relativi alla morale 16. Articolo 17. Ultimo cerchio dell’Inferno
dantesco 19. L’ultimo della covata 21. Ne ha molti la tirlindana 22. Lo scrittore Umberto 24. Le iniziali di Lincoln 25. È detta senza età...
Sudoku Livello facile Scopo del gioco
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Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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Soluzione della settimana precedente
UN PO’ DI STORIA – Nel regno britannico la regina Elisabetta è la sovrana che ha … GOVERNATO PIÚ A LUNGO DI TUTTI 1
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Politica e Economia La questione finanziaria Berlino insiste sul rigore ma anche la locomotiva tedesca perde colpi: seconda parte
La storia dell’Isis: 6. e ultima parte Mentre colleziona sconfitte su sconfitte, il Califfato dal 2015 inaugura una nuova fase delle sua strategia espansiva: seminare il caos in Europa e dividere l’opinione pubblica europea fra intolleranti e non nei confronti dell’islam
AVS, quale futuro? Il 25 settembre si vota sull’iniziativa popolare che chiede un aumento del 10 per cento delle rendite di vecchiaia del primo pilastro
Quanto italiana è la Svizzera Uno studio sociologico sulle tracce che l’italiano ha lasciato nell’identità elvetica pagina 26
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Una nuova via per l’India Accordo strategico Quello che riguarda
il porto di Chabahar rappresenta il più importante tra i vari accordi firmati da Iran, India e Afghanistan a livello geopolitico ed economico
Francesca Marino In apparenza soltanto l’ennesimo trionfo di Super-Modi: il premier indiano ha firmato difatti con l’Iran e con l’Afghanistan un accordo capace di rivoluzionare e cambiare per sempre il volto del commercio in tutta l’area geopolitica: l’India aprirà una linea di credito da settecento milioni di dollari per sviluppare il porto iraniano di Chabahar (foto), nel sud-est dell’Iran. Porto che si affaccia sull’Oceano indiano e si trova nella regione del Sistan-Baluchistan, al confine con il Baluchistan pakistano e a soli settanta chilometri da un altro porto strategico: Gwadar. Il porto di Chabahar, e gli altri dodici accordi di vario genere firmati durante l’incontro, sono anzitutto di importanza capitale in senso economico: l’India è in pieno sviluppo, affamata di materie prime, di risorse energetiche e di minerali. L’Iran, d’altra parte, ha bisogno di un mercato per petrolio e affini, e di un mercato che non sia soggetto a potenziali ricatti da parte dell’Occidente e, per interposta persona, dell’Arabia Saudita. L’Afghanistan, d’altra parte, è ricchissimo di minerali: rame, oro, mercurio e ferro, ad esempio, ma anche minerali rari. La ricchezza mineraria globale del Paese oscilla, secondo le stime, tra gli uno e i tre trilioni di dollari statunitensi: le esportazioni, e le esportazioni verso un Paese economicamente in crescita come l’India, potrebbero dare una spinta potenzialmente illimitata all’economia di Kabul e liberare il Paese dalla dipendenza endemica dalle colture di papavero da oppio. Secondo gli esperti, lo sviluppo di Chabahar potrebbe far crescere il commercio indiano, nei prossimi cinque anni, dagli attuali seicento milioni di dollari fino a cinque miliardi. Con l’ac-
cesso diretto al porto di Chabahar l’India conquista una via di accesso privilegiata, e sgombra da problemi politici e geopolitici, verso l’Asia Centrale ma anche verso i mercati europei e la Russia. Fino a ieri difatti l’accesso a ovest della democrazia più grande del mondo verso il centro dell’Asia e in potenza verso il Mediterraneo, così come l’accesso a est dell’Afghanistan, era sempre stato strozzato dalle forche caudine del Pakistan. Che non ha mai permesso all’India di usare il porto di Karachi per esportare merci a ovest, e che soltanto di recente ha permesso agli afghani di transitare da Karachi per esportare verso l’India. India che negli ultimi anni aveva stretto anche numerosi accordi di «partnership strategica» con l’Afghanistan e investito moltissimo in varie province. I rapporti tra Delhi e Kabul diventano sempre più stretti, e oltre agli accordi economici investono anche le forniture di armi e la collaborazione di intelligence. Non deve quindi meravigliare la rabbia pakistana all’annuncio formale dell’accordo trilaterale: la costruzione di Chabahar, economia a parte, rischia di cambiare il famoso «Grande Gioco» in atto nella regione introducendo nuovi giocatori, come l’India. Ma soprattutto il Pakistan, a breve, potrebbe non essere più così essenziale al gioco giocato tra Afghanistan e Asia centrale dalle potenze straniere. Fino a questo momento, la rotta che da Karachi arriva a Kabul è stata ed è ancora di vitale importanza per trasportare beni ed equipaggiamento americani. La stessa rotta è servita, negli anni, a definire e poi consolidare la dipendenza economica e strutturale di Kabul da Islamabad. Senza sbocchi sul mare, e soprattutto senza un sistema stradale degno di questo nome che connettesse l’Afghanistan al resto del mondo,
Con l’accesso diretto al porto di Chabahar l’India acquista una via di accesso all’Asia sgombra da problemi geopolitici. (AFP)
la sopravvivenza di Kabul per il commercio di beni dipendeva quasi interamente dalla buona volontà pakistana. Nel corso di questi anni, però, molte cose sono cambiate. Annullando così potenzialmente l’importanza strategica del porto di Karachi e della rotta che da qui, attraverso il pericoloso Khyber Pass, arriva in Afghanistan. Un disastro per Islamabad, sia in termini economici che geopolitici, se si pensa che al momento circa il settantacinque per cento dei rifornimenti alle truppe americane passa per il porto di Karachi e per il Khyber Pass. La Russia si è inoltre offerta di provvedere una specie di corridoio ferroviario che connetta direttamente l’Afghanistan all’Europa. Il Pakistan, giocatore di importanza fondamentale data la sua posizione geografica, rischia di rimanere pateticamente isolato sia in senso economico che politico. E la Cina, che sul Pakistan ha scommesso negli ultimi anni, rischia di vedere vanificata, o
almeno di molto diminuita, la propria strategia politico-economica. Che Pechino sia interessata all’Afghanistan non è un segreto: politicamente, si è spinta difatti fino a entrare in gioco direttamente nei cosiddetti colloqui di pace con i talebani e a ospitare di recente una delegazione dei talebani suddetti. Non solo: ha investito miliardi nel porto di Gwadar, la cui importanza strategica rischia adesso di essere per sempre oscurata da Chabahar e dalla presenza indiana che godrebbe degli stessi vantaggi economici e geografici dei rivali cinesi. Anzi, di vantaggi maggiori: perché i cinesi, per raggiungere Gwadar, devono passare attraverso le forche caudine geografiche dell’Himalaya e della provincia dello Xinjang. Non solo: Gwadar si trova in Baluchistan, regione in rivolta verso il governo di Islamabad e in perenne fermento. A causa di Chabahar, Islamabad rischia concretamente di vedere sfumare anni e anni di strategie geopo-
litche: rischia di perdere il sogno di profondità strategica verso ovest e di perdere definitivamente il controllo sull’Afghanistan. Controllo fondamentale, perché è quello che ha assicurato per anni a Islamabad una posizione di primo piano nelle alleanze con l’Occidente, nonché milioni di dollari in aiuti economici e armamenti. Il Pakistan continua ad aggrapparsi ai talebani, dunque, cercando di controllare i colloqui di pace per ottenere a Kabul un governo filo-pakistano che sbatta fuori dal Paese gli indiani. Perché Islamabad rischia di ritrovarsi il nemico di sempre anche sul confine afghano, praticamente in casa. E a poco servono le offensive diplomatiche internazionali degli ultimi mesi, con cui Islamabad cerca di accusare l’India di giocare al suo stesso gioco in politica estera finanziando i ribelli in Baluchistan e i talebani del TTP. Non gli crede praticamente nessuno, e la politica estera pakistana mostra ormai abbondantemente la corda.
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Politica e Economia
Anche la Germania è fragile Questione finanziaria La strategia del rigore verso i meno virtuosi dell’Europa appare in contraddizione
con gli scossoni che in questi giorni sta subendo il mito germanico della stabilità finanziaria – Seconda parte Alfredo Venturi Alla fine il più italiano dei discorsi lo ha fatto un tedesco, il capo economista della Deutsche Bank David FolkertsLandau. In un’intervista alla «Welt am Sonntag», il dirigente del primo istituto di credito della Repubblica Federale ha avanzato una proposta: l’Unione Europea mobiliti un fondo di 150 miliardi di euro per risanare il sistema creditizio. L’Europa, argomenta Folkerts-Landau, è estremamente malata, se non si provvede in tempi rapidi si rischia una crisi bancaria paragonabile per gravità, se non per dimensioni, a quella che si scatenò nel 2008. Immediata la reazione di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo: non se ne parla nemmeno. Probabilmente sorpreso di dover rispondere con questi accenti non già ai soliti spendaccioni del Sud, i Paesi dai conti perennemente in disordine, ma proprio ai campioni teutonici del rigore, il falco olandese che veglia sui destini dell’euro ha avuto parole durissime, attaccando «la facilità con cui certi banchieri pretendono denaro pubblico» e auspicando che costoro «affrontino i loro problemi invece di scaricarli sui governi».
Il fatto che il FMI denunci il sistema bancario tedesco non fa che rendere ancora più critico questo periodo di incertezza che segue alla decisione britannica di abbandonare l’Ue Non è stata, la sortita di Folkerts-Landau, il primo scossone al mito germanico della stabilità finanziaria. In quegli stessi giorni un annuncio del Fondo Monetario Internazionale inchiodava proprio la Deutsche Bank a una pesantissima responsabilità. La massima banca tedesca è fragile, faceva sapere il FMI, al punto da mettere a rischio l’intero sistema creditizio europeo. La ragione? La DB ha in cassa derivati per oltre 54 mila miliardi di euro. Non è una bazzecola: si tratta di una cifra cinque volte superiore al prodotto interno lordo dell’intera Eurozona. I derivati, come si sa, sono strumenti finanziari ad alto rischio: dunque come mai una simile anomalia, vera e propria mina vagante in tempi d’incertezze come gli attuali, non viene considerata almeno altrettanto insidiosa dei pericolanti sistemi bancari dei Paesi sud-europei? Perché mai non ne fa cenno il duro Jens Weidmann, presidente della Bunde-
Christine Lagarde, direttore del FMI con Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. (AFP)
sbank, nelle sue periodiche schermaglie con il più accomodante Mario Draghi, il governatore della Banca centrale Europea che Berlino accusa di eccessiva condiscendenza con chi non rispetta i vincoli di bilancio? Del resto non è la prima volta che l’ossessione tedesca per il rigore, figlia di pesantissime esperienze storiche a cominciare dalla vertiginosa inflazione del primi anni Venti del Novecento, viene incrinata da realtà di fatto e comportamenti del tutto contraddittori. Per esempio il Paese che guida i virtuosi del Nord Europa nel pretendere che i meno virtuosi del Sud applichino alla lettera le rigorosissime norme negoziate a livello di Unione Europea e di Eurogruppo, non è forse lo stesso che pochi anni addietro, quando Gerhard Schröder guidava la Cancelleria federale, risolse i propri problemi di bilancio ricorrendo proprio a quella flessibilità che oggi viene negata ai soci in cattive acque? Se Schröder poté sforare i sacri parametri, perché mai non possono farlo i governi attualmente in rosso? La risposta tedesca cerca di superare l’imbarazzo chiamando in causa altri fattori, per esempio quel pesantissimo debito pubblico che paralizza Paesi come l’Italia o la Grecia. A proposito di Grecia, anche qui siamo di fronte a qualche contraddizione nell’approccio tedesco alla tera-
La cancelliera tedesca Angela Merkel. (AFP)
pia dei bilanci in crisi. È stato, come si ricorderà, un approccio intransigente, che mise a dura prova la coesione nazionale falcidiando occupazione, salari e pensioni e dunque impoverendo il Paese e dando spazio a formazioni estreme tipo Alba Dorata. Ad Atene l’immagine di Angela Merkel diventò l’icona della spietata severità teutonica, mentre il governo di Alexis Tsipras navigava faticosamente fra gli scogli dell’esasperazione popolare cercando di sopravvivere ai diktat pervenuti da Berlino via Bruxelles. Ma fra le spese che il governo ellenico era invitato a tagliare non figuravano certo quei due sottomarini della Thyssen Krupp, che la Germania aveva venduto alla Grecia. Che c’entrano quelle navi da guerra col grande dibattito europeo attorno alla dialettica rigore-flessibilità dei conti pubblici? C’entrano eccome, perché sono la plastica rappresentazione del contrasto fra interessi di breve periodo e visioni a lungo termine, più banalmente fra economia e finanza, che sta al centro della questione. Quei sofisticati prodotti dell’industria bellica tedesca sono stati venduti alla Grecia per la bella cifra di 1,3 miliardi di euro. E questo proprio mentre l’Europa a trazione germanica premeva per una rigorosissima politica di tagli alle spese che permettesse di risanare gli ansimanti bilanci ellenici. Del resto la fedeltà tedesca al principio della stabilità finanziaria ha conosciuto una vistosa eccezione anche in patria. Accadde nei giorni della ritrovata unità nazionale. Estate 1990, alcuni mesi prima è crollato il Muro di Berlino, il Cancelliere Helmut Kohl è riuscito a superare le molte perplessità internazionali e in un clima di entusiasmo pantedesco le due Germanie si stanno avviando verso la riunificazione. Ma bisogna prima omologare il sistema monetario, dunque sostituire la derelitta valuta della Repubblica Democratica Tedesca con il potente marco dell’Ovest. Come stabilire il livello di cambio? Il marco orientale è valutato circa un decimo di quello occidentale, ma Kohl non vuole applicare un cambio che proprio per essere ancorato alla realtà rappresenta con crudezza una condizione mortificante per la gente dell’Est.
Facendo prevalere le ragioni della politica su quelle dell’economia, il Cancelliere fa in modo che l’operazione abbia il massimo di popolarità fra i nuovi concittadini. E dunque il cambio sarà alla pari fino a seimila marchi a persona, per importi superiori un DM per due marchi orientali. Evidentemente la scelta implica costi altissimi, tali da far traballare le pur floride finanze federali: in totale disaccordo con la decisione del governo Karl-Otto Pöhl, presidente della Bundesbank e dunque inascoltato custode della stabilità finanziaria, rassegnerà presto le dimissioni.
La Merkel deve vedersela all’estero con i sentimenti antitedeschi, all’interno con una società inquieta Il fatto che autorità internazionali come il Fondo Monetario denuncino che anche il sistema bancario tedesco è vulnerabile non fa che rendere ancora più critico questo periodo d’incertezza che segue alla decisione britannica di abbandonare l’Unione Europea. Un periodo che potrebbe essere assai più lungo di quanto auspicano molti governi europei a cominciare dal francese. E anche su questo punto l’atteggiamento tedesco suscita polemiche. All’indomani della Brexit Angela Merkel invitò a Berlino François Hollande e Matteo Renzi, e subito si manifestò una differenza di fondo. Mentre il francese e l’italiano chiedevano che il negoziato euro-britannico fosse il più rapido possibile, la Cancelliera sostenne che bisognava lasciare ai britannici il tempo necessario a elaborare la novità. Più tardi, quando David Cameron, travolto dall’esito inatteso del referendum, dovette dimettersi e Theresa May che ne aveva preso il posto a Downing Street immediatamente si precipitò a Berlino, la Merkel ribadì questa posizione. Forti le critiche da diverse capitali europee: in questo modo la Germania crea le premesse di una lunga fase di transizione, durante la quale proprio i
Paesi più esposti possono subire i colpi della speculazione internazionale, sempre pronta ad avventarsi sui più deboli fra le nebbie dell’incertezza. Nel gestire dalla sua oggettiva posizione di forza in seno all’Unione Europea, resa ancora più evidente dalla scomparsa del contrappeso britannico, questa difficile fase politico-economica, Angela Merkel deve vedersela all’estero con i sentimenti anti-tedeschi alimentati dalla strategia del rigore, all’interno con una società attraversata da crescenti inquietudini. Questi malumori investono non soltanto l’ardua questione migratoria e i rapporti con i soci dell’Unione, ma anche gli equilibri finanziari interni. A cominciare dal Länderfinanzausgleich, il meccanismo di solidarietà previsto dal federalismo tedesco, che impone massicci trasferimenti di risorse dai Länder più ricchi, come la Baviera, il Baden-Württemberg e l’Assia, a quelli dai conti in rosso, come Berlino e le province orientali eredi della Repubblica Democratica. La sola capitale ha assorbito a questo titolo, negli ultimi venti anni, circa sessanta miliardi di euro. Ma questo sistema deve fare i conti, in tempi di crisi, con un vistoso arretramento del concetto di solidarietà. Le proteste dunque si sprecano, in particolare questo problema di trasferimenti finanziari è fra le ragioni dell’attuale fase critica dei rapporti fra i due partiti dell’Unione: differenziandosi dalla CDU la CSU bavarese contesta il meccanismo dei vasi comunicanti attraverso i quali ingenti risorse scorrono verso chi, questa l’accusa ricorrente, non sa gestire correttamente il denaro pubblico. Per alimentare questi flussi automatici la Baviera ha sempre pagato il prezzo più alto. È curioso notare come l’epiteto di allegra cicala, che al livello europeo è riservato ai Paesi del Sud Europa dalle finanze ballerine, tocchi in patria proprio a quella stessa Berlino in cui viene gestita la politica federale del rigore. Del resto la metropoli inghiotte risorse da sempre, abituata com’è a vivere di sovvenzioni fin dai tempi della divisione: l’Est come capitale dello Stato comunista, l’Ovest come scintillante vetrina del mondo libero.
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Politica e Economia
Obiettivo Europa Storia dell’Isis Parallelamente alle sconfitte in Iraq e Siria fra il 2015 e il 2016, il Califfato inaugura la propria
strategia espansiva: quella di seminare il caos nel mondo e innescare una guerra civile all’interno dell’Ue – 6. puntata Marcella Emiliani Nel 2015 il sedicente califfato vantava di aver creato «province» nel Sinai egiziano, in Libia, in Algeria, in Nigeria, in Arabia Saudita, in Yemen, in Afghanistan, in Pakistan e nel Caucaso russo. Era vero o si trattava solo dell’ennesima sparata propagandistica? Era vero e falso contemporaneamente. La maggior parte delle adesioni all’Isis o Daesh dopo il 2014 è arrivata da formazioni estremiste islamiche nate e cresciute in virtù di dinamiche locali indipendenti dall’ideologia e dalle conquiste sul terreno dell’Isis. Anche le loro finalità erano altrettanto locali, anche se potevano essere accomunate dal mantra di rito: «Abbattere il regime apostata al potere e creare lo Stato islamico». Ma cos’è uno Stato islamico? Sono Stati islamici due arci-nemici come l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita che si stanno affrontando attraverso guerre per procura in Siria, Iraq, Yemen, Afghanistan, tanto per citare gli scenari di conflitto più drammatici. Diciamo allora che le formazioni islamiste che hanno chiesto il brand del califfato hanno sfruttato la congiuntura dell’ascesa del Daesh per aumentare la propria statura politicomilitare e ottenere aiuti, ma questo non significa che siano disposti a sottomettersi nel medio-lungo periodo alla visione estremamente rigorista dell’Islam predicata da Abu Bakr al-Baghdadi e tantomeno ai suoi metodi di governo sanguinari e dittatoriali. La fitna (la guerra intra-musulmana), insomma, è sempre dietro l’angolo. A titolo puramente esemplificativo vediamo cosa è successo alla prima provincia (wilaya) creata dal califfato fuori dal Siraq (Siria ed Iraq) nel Sinai egiziano. Dopo la caduta del regime di Hosni Mubarak l’11 febbraio 2011, nella penisola si era creato un vuoto di potere, abilmente sfruttato dai beduini locali e da elementi qaedisti provenienti dal mondo arabo che avevano dato vita a diverse organizzazioni islamiste. Nata nel medesimo 2011, Ansar Bayt al-Maqdis (AbmPaladini di Gerusalemme) aveva annunciato ufficialmente la propria formazione solo nel 2012 quando, invece di colpire come sua abitudine poliziotti e militari egiziani, il 5 febbraio aveva preso di mira un obiettivo internazionale, il gasdotto di al-Arish. Fino a quel momento era difficile capire cosa l’Abm volesse realmente se non continuare a contrabbandare armi verso la Striscia di Gaza e il resto del Medio Oriente, e «trafficare in esseri umani», cioè organizzare la fuga di profughi e migranti arabi e africani costretti dalla guerra o dalla fame a fuggire verso l’Europa. Anche la sua leadership era incerta e contesa tra vari candidati, finché a capo dell’organizzazione finì Abu Osama alMasri, egiziano, (già militante del Jihad islamico locale), che salì alla ribalta della cronaca internazionale il 31 ottobre 2014 quando nei cieli del Sinai venne abbattuto il volo KGL9268 della Metrojet russa che collegava Sharm el-Sheick a San Pietroburgo. Nella rivendicazione via internet dell’attentato da parte dell’Abm, Abu Osama al-Masri urlava: «Siamo stati noi, morite di rabbia». A chi fosse rivolta la sua revanche non è chiaro (chi doveva morire di rabbia? Al-Sisi? Putin? Il mondo intero?), ma da quel momento Ansar Bayt al-Maqdis entrò nel triste empireo del terrorismo globale. L’attentato, del resto, era avvenuto con un tempismo perfetto perché nello stesso mese di ottobre del 2014 la Russia era scesa in campo apertamente, con truppe di terra, flotta e aviazione in teoria per combattere il terrorismo internazionale, in realtà per mantenere in vita il periclitante regime di Bashar al-Assad in Siria e tornare a giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente, tanto per far dimenticare le sue mire neo-imperiali in Crimea piuttosto che in Ucraina.
Musulmani davanti alla chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray dopo l’attentato. (AFP)
Nel gioco sempre rischioso delle strumentalizzazioni incrociate, Ansar Bayt al-Maqdis aveva colto al volo l’occasione per «dare il benvenuto» al nuovo attore sulla scena del caos mediorientale e al tempo stesso trasformarsi da una banda di assassini e contrabbandieri in organizzazione terroristica transnazionale. Come tale e solo in quel momento, col volo KGL9268 all’occhiello, il 4 novembre Abu Osama al-Masri fece atto di baya cioè di fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi che benevolmente – il 10 successivo – l’accettò e Ansar Bayt al-Maqdis venne ribattezzata Wilaya Sinai (WS). Ufficialmente il suo scopo ultimo diventò la liberazione di Gerusalemme e la distruzione dello Stato di Israele. Tutto bene, dunque, per lor signori? Nient’affatto. Nel momento stesso in cui è avvenuto il rebranding dell’Abm in WS, l’organizzazione si è spaccata tra un nucleo locale (detto cairota) ed uno transnazionale (detto sinaitico) che sono entrati in rotta di collisione. La branca locale voleva concentrarsi sulla creazione di uno Stato islamico in Egitto mantenendo una piena autonomia da chicchessia e non trovò di meglio che avvicinarsi ad al-Qaeda, per rintuzzare le mire egemoniche dell’Isis. La branca sinaitica invece rimase fedele al califfato e cominciò a coltivare legami operativi con formazioni jihadiste nelle vicine Libia e Striscia di Gaza. Nel frattempo l’Isis sembrava aver esaurito la propria «spinta propulsiva» e aveva cominciato a collezionare sconfitte su sconfitte. Nel biennio 2015-2016, infatti, su Raqqa, la capitale siriana del califfato, si era decuplicata l’offensiva aerea dei caccia della Combined Joint Task Force (Cjtf) sotto comando americano e dei Mig russi e siriani che erano riusciti a tagliare il collegamento tra Raqqa e il confine turco, attraverso cui arrivavano armi e foreign fighters per il Daesh. In Iraq, invece, l’esercito e le milizie sciite (le Forze di mobilitazione popolare) con l’appoggio delle brigate dei pasdaran iraniani, una dopo l’altra liberavano Ramadi (il 9 febbraio 2016) e Falluja (il 26 giugno 2016), le due città principali della provincia sunnita di al-Anbar e, assieme ai guerriglieri curdi in luglio cominciavano a stringere d’assedio Mosul con la copertura aerea della Cjtf guidata dagli Stati Uniti. Stati Uniti che il 3 agosto – su richiesta del primo ministro del governo di unità nazionale libico Fayez al-Sarraj – iniziarono a bombardare anche Sirte dove si era rifugiata gran parte della leadesrship dell’Isis in fuga dal Siraq. Il Califfato, però, aveva già inaugurato una fase ulteriore della sua strategia espansiva (o di sopravvivenza): seminare il caos in Europa, negli Stati Uniti e ovunque fosse possibile nel mondo, con qualunque mezzo. L’elenco degli attentati rivendicati dal Daesh nel solo 2016 è impressionante. Solo per citare i principali; 7 gennaio l’attacco alla redazione di «Charlie Hebdo» a Parigi; 9 gennaio la sparatoria dentro un negozio kosher sem-
pre a Parigi; 22 marzo il duplice attentato all’aeroporto di Zaventem e alla stazione del metro di Maelbeek a Bruxelles; 12 giugno la strage nel night club Pulse di Orlando in Florida; 14 giugno l’uccisione di due poliziotti a Magnanville, in Francia; 29 giugno l’attentato all’aeroporto di Istanbul; 1. luglio la strage nel ristorante Holey Artisan Bakery di Dacca, capitale del Bangladesh; 3 luglio una catena di attentati a Baghdad che in un sol giorno fa 250 morti; 14 luglio, altra strage lungo la Promenade des Anglais a Nizza; 18 luglio l’attacco con un’accetta ai passeggeri di un treno in Baviera; 27 luglio la sparatoria in un centro commerciale a Monaco sempre in Germania; 26 luglio lo sgozzamento di
un sacerdote cattolico a Saint-Etienne du Rouvray vicino a Rouen in Francia; 7 agosto il ferimento col machete di due poliziotte a Charleroi in Belgio. Si può pensare quello che si vuole dell’attuale forza del califfato. Stando a fonti del Pentagono – all’agosto 2016 – avrebbe perso il controllo sul 40% del proprio territorio e, nell’ultimo anno, almeno 45.000 miliziani tra Siria e Iraq. Essendo poi a corto di risorse, avrebbe dimezzato gli stipendi ai suoi soldati, cosa che avrebbe spinto molti di loro a cambiar casacca, tanto sul mercato delle organizzazioni terroristiche c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ma con la catena di attentati che abbiamo appena elencato, due risultati li ha già raggiunti lo stesso: seminare il panico nell’opinione pubblica soprattutto europea ed evidenziare la mancanza di coordinamento e le innegabili carenze dell’intelligence e dei servizi di sicurezza degli Stati dell’Unione (Ue). Ma in Europa l’Isis mira a ben altro: punta dritto ai 20 milioni di musulmani residenti o cittadini della Ue per costringerli a schierarsi pro o contro il califfato ed eliminare così la cosiddetta «zona grigia» cioè quel consenso empatico ma non militante nei suoi confronti, che si registra nelle comunità islamiche in Occidente ma, per quel che ci riguarda, soprattutto europee. Uno sviluppo necessario al vero obiettivo ultimo: innescare una vera e propria guerra civile in tutti gli Stati Ue tra intolleranti verso l’Islam, e fautori di una pacifica convivenza. Detto in altre parole, le Marie Le Pen, i Salvini e quanti
altri leader intendano cavalcare l’islamofobia fanno il gioco del Califfato che non aspetta altro che arruolare nei suoi ranghi emarginati e perseguitati da quanti odiano i musulmani, per distruggere qualsiasi struttura statuale organizzata. Si tratta, in fondo, dello stesso gioco perverso che ha innescato in Iraq e in Siria col settarismo: provocare gli sciiti per scatenare la loro reazione e capitalizzare poi la contro-reazione dei sunniti. E per la sua strategia europea non esita ad esortare tutti i musulmani ad usare qualsiasi mezzo per colpire in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo. Come hanno evidenziato le indagini sugli attentati in Europa, quanti hanno imbracciato un kalashnikov, impugnato un machete o un’accetta, usato un Tir per scaraventarsi contro civili innocenti non erano profughi dell’ultim’ora, ma cittadini francesi, belgi o tedeschi, emarginati, psicolabili, o border line, che nell’invito dell’Isis hanno visto l’unica via per riscattare una vita intera e guadagnarsi così la fama e il paradiso. Il loro è già un jihad fai-da-te, un jihad low cost che è appunto quanto si augurava nel suo messaggio via internet del 21 maggio scorso Abu Muhammad al-Adnani ashShami, portavoce ufficiale dell’Isis, quando lanciava l’allarme per il «Califfato sotto assedio». Lui intanto è morto il 30 agosto nel corso di un raid aereo su Aleppo in Siria. Russi e americani si contendono l’impresa ma l’annuncio della scomparsa di al-Adnani è stato dato ufficialmente il 31 successivo da Amaq, l’agenzia di stampa del Califfato. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
«L’integrazione non rende immuni dalla radicalizzazione» Jihadismo Sono 14 gli ex combattenti rientrati in Svizzera da Siria e Iraq e sono circa 500 i potenziali jihadisti
nel mirino dell’intelligence elvetica. Quali misure ha finora adottato la Svizzera per deradicalizzare queste persone? Lo abbiamo chiesto a un’esperta Luca Beti Mette paura il ritorno in Svizzera di persone radicalizzate e che hanno trascorso un periodo nelle zone controllate dal sedicente Stato islamico. Se nove ex combattenti su dieci rientrano disillusi e disingannati da Siria e Iraq, il 10 per cento è formato da jihadisti convinti e «inclini alla violenza che «potrebbero passare all’azione anche in Svizzera […] o esercitare un influsso sulla radicalizzazione di singole persone», scrive nel suo ultimo rapporto il Servizio delle attività informative della Confederazione. Per conoscere i programmi di deradicalizzazione finora adottati in Svizzera abbiamo incontrato Miryam Eser Davolio, esperta di estremismo e radicalizzazione jihadista e docente presso il Dipartimento lavoro sociale dell’Alta scuola di scienze applicate di Zurigo ZHAW. Finora sono 14 gli ex combattenti rientrati in Svizzera. Stando all’intelligence elvetica costituiscono una minaccia per la sicurezza interna. Nel nostro Paese c’è un programma di deradicalizzazione per queste persone?
In Svizzera non c’è ancora un vero e proprio modello per lavorare con questi ex combattenti. Per il momento ci si rifà ai programmi sviluppati nella lotta contro l’estremismo politico o contro gli hooligan, a cui è stata aggiunta un’attività volta a favorire il confronto e il dialogo sull’interpretazione del Corano. Secondo me è un approccio che non favorisce la deradicalizzazione di questi individui poiché con la discussione non è possibile allontanarli dalle convinzioni jihadiste. L’importante è evitare di trasformarli in vittime dell’ISIS. Se hanno abbracciato la causa dell’autoproclamato Stato islamico è perché provavano un’affinità con le sue idee e i suoi ideali. Sarebbe troppo semplice scusare i crimini commessi in Iraq o in Siria dando la colpa alla propaganda jihadista e al lavaggio di cervello. La Svizzera non è certo il solo Stato
nostro Paese l’integrazione funziona meglio che in altri Stati europei?
a dover gestire questo fenomeno. Quali progetti di deradicalizzazione jihadista sono stati sviluppati in altri Paesi europei?
Germania, Gran Bretagna e Danimarca propongono approcci diversi al fenomeno. In Danimarca, per esempio, questi ex combattenti seguono un percorso di riabilitazione, durante il quale possono parlare delle loro esperienze ed elaborare i traumi che hanno vissuto nei territori in cui si sono recati. È un programma che non si basa sulla repressione, bensì che fa leva sulla motivazione di queste persone a reintegrarsi nella società e ad allontanarsi dal fondamentalismo islamico. È un approccio che ha però una pecca: come riconoscere il vero pentito da quello che si spaccia come tale per evitare la prigione? Quali approcci vengono invece privilegiati in Gran Bretagna e in Germania?
In Gran Bretagna viene proposto un mentoring. Gli ex foreign fighter sono seguiti da un musulmano, che può anche professare un islam radicale, salafista. Attraverso la discussione e grazie al rapporto di fiducia instauratosi, questo mentore spiega all’ex combattente come vive un buon musulmano. L’obiettivo è di convincerlo ad allontanarsi dalle convinzioni jihadiste. E infine c’è il modello tedesco. È proposto dal Violence Prevention Network; è un’associazione di esperti di prevenzione dell’estremismo con sede a Berlino. Stando a questi specialisti, non è necessario avere delle conoscenze approfondite sulla religione. Molto più importante è la capacità di stabilire un rapporto di fiducia e di relazionarsi con la persona radicalizzata, di comprendere i suoi problemi, i suoi bisogni per capire se si sta davvero allontanando dall’estremismo religioso. L’associazione si concentra anche sulla reintegrazione sociale e professionale di queste persone. Secondo lei, quale programma dovrebbe adottare la Svizzera?
Prima di tutto è necessario fare una va-
Due militanti dell’ISIS catturati in Siria: come deradicalizzare quelli che sfuggono alla morte o alla cattura e tornano in patria, Svizzera compresa? (Keystone)
lutazione dei vari modelli e svilupparne uno tagliato su misura per la Svizzera. Si devono elaborare dei percorsi di deradicalizzazione che gli ex combattenti, giovani o adulti, seguono in prigione e dopo la pena detentiva. All’assistente sociale che si occupa già ora della reintegrazione sociale e professionale degli ex detenuti è necessario affiancare un esperto che si concentri sul recupero su un piano ideologico e religioso. Bisogna accertarsi che questa persona si sia veramente distanziata dal movimento terroristico e che non rappresenti più una minaccia per la società. Per il momento mancano però gli esperti capaci di seguire queste persone radicalizzate…
Il fenomeno della radicalizzazione jihadista è assai giovane e la Svizzera è meno interessata di altre nazioni, come la Francia o il Belgio. Per questo motivo
nel nostro Paese mancano ancora gli specialisti. Va anche ricordato che stiamo parlando di 14 casi sparsi su tutto il territorio nazionale. Per questo motivo è importante creare un sistema che favorisca la condivisione del sapere acquisito e dei programmi di deradicalizzazione sviluppati nei vari cantoni. Alcuni cantoni, come Zurigo, Berna, Basilea e Ginevra, hanno già creato strutture e modelli per lottare contro l’estremismo jihadista. Altri sono invece ancora ai blocchi di partenza. Da una parte non dispongono né delle risorse né delle persone necessarie, dall’altra non sono ancora confrontati direttamente con il fenomeno. Solo un servizio gestito dalla Confederazione favorirebbe la coordinazione nella lotta alla radicalizzazione islamica. In Svizzera si registrano pochi combattenti per l’ISIS. Significa che nel
Durante le nostre ricerche ci siamo posti spesso questo interrogativo legato all’integrazione e alla marginalizzazione nella società di singoli o di intere comunità. Sarebbe interessante capire come mai certi Paesi sono colpiti più di altri. Per esempio, gli Stati scandinavi registrano un elevato numero di partenti per i territori occupati dall’ISIS in rapporto alla popolazione, nonostante abbiano svolto un enorme lavoro per integrare nella società gli stranieri o le persone con un retroterra migratorio. Ci si deve quindi chiedere se l’integrazione protegge davvero contro la propaganda dello Stato islamico. Ciò che sappiamo è che l’integrazione è importante. La propaganda dell’ISIS punta proprio sulla difficoltà dei musulmani di ritagliarsi un ruolo nelle società occidentali, di trovare un lavoro, di essere accettati. Tuttavia, va ricordato che tra i combattenti stranieri ci sono anche persone perfettamente integrate, con un posto di lavoro ricco di prospettive e una famiglia. L’integrazione non immunizza contro la radicalizzazione. L’interesse mediatico attorno al fenomeno della radicalizzazione dei musulmani in Svizzera non rischia di marginalizzare ulteriormente questa comunità?
Dopo ogni attacco terroristico, ognuno si sente meno sicuro ed è preso dalla paura. I musulmani vengono guardati con sospetto. Anche se non condividono l’ideologia jihadista, quando si muovono nello spazio pubblico sentono di essere diversi, di non far parte della società. I musulmani percepiscono tutta questa diffidenza che rende la loro vita in Occidente ancora più difficile. Già ora sono vittime di discriminazioni di vario genere. E l’avanzata dei partiti di destra in vari Stati europei non fa altro che favorire la loro marginalizzazione; proprio ciò che vuole la propaganda dell’ISIS, ossia trasformare i musulmani in vittime delle società occidentali e poi in suoi combattenti.
Costi e benefici dell’agricoltura Svizzera I contadini operano in un mercato protetto, sul quale spira però un vento liberalizzatore Ignazio Bonoli Stanno risorgendo, qua e là nel mondo, teorie che vedono nella rinascita del protezionismo la panacea a molti dei mali provocati dalla globalizzazione. Sotto certi aspetti non si può negare che il processo di globalizzazione, invece di generare una crescita altrettanto «globalizzata» abbia creato situazioni di disagio e perfino di decrescita. Storicamente però si può constatare che il rimedio con un ritorno al protezionismo sia potenzialmente peggiore del male. In alcuni casi però, di fronte a spinte estreme, come il trattato di libero
scambio transatlantico, noto ormai con la sigla TTIP, si possono capire reazioni del tipo di quelle note anche in Svizzera e sostenute sia dalla sinistra, sia dai contadini e dagli ecologisti, nonché da singoli esponenti di altri partiti. Il discorso si chiude poi del tutto quando si parla di agricoltura. Ovunque infatti l’agricoltura beneficia di una notevole protezione ai confini e di altrettanto notevoli sostegni sul piano interno. Ogni Paese considera importante conservare un certo grado di autosufficienza alimentare e un ceto agricolo solido, che contribuisce pure alla cura del territorio. Una politica Annuncio pubblicitario
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che trova piena giustificazione, ma che comporta anche un costo elevato. Nelle statistiche dell’OCSE, la Svizzera, con la Norvegia, figura tra i Paesi che offrono le maggiori protezioni all’agricoltura, sia attraverso dazi doganali, sia attraverso sussidi o pagamenti diretti. Questi ultimi sono inferiori solo a quelli norvegesi, mentre dazi doganali analoghi vengono applicati soltanto dal Giappone. Analizzando il bilancio di una fattoria media in Svizzera, che dispone cioè di 22,24 ettari di superficie agricola utile, conta 34 capi di bestiame grosso, 14 maiali e 185 unità di pollame, gestiti con un lavoro al 121% del proprietario e al 50% da personale salariato, si constata che le entrate annuali sono di 273’732 franchi. Da notare che la fattoria media considerata è quella di pianura. In montagna la situazione è infatti ben diversa. Statisticamente il reddito di questa fattoria media si compone dei pagamenti diretti (64’090 franchi), che sono la maggior fonte di entrata, cui si aggiunge il reddito da attività paraagricole (vendite dirette, lavori per terzi,
ecc.) per 21’995 franchi. Il reddito della produzione vera e propria viene valutato in 71’788 franchi per la carne; 56’048 franchi per i prodotti del latte, 37’143 franchi per frutta e verdura. Accanto a questo reddito di base si contano ancora 19’852 franchi per affitti da terzi e 2’866 per entrate diverse. La statistica valuta le componenti dei costi (totale 212’013 franchi) nelle seguenti categorie: allevamento bestiame 60’050 franchi, altri costi reali 39’245 franchi e costi reali della paraagricoltura 5’985 franchi. 13’177 franchi vengono poi aggiunti per i costi di gestione della produzione di frutta e verdura. I costi finanziari sono dovuti a: ammortamenti 36’142 franchi, manutenzione e riparazioni 23’908 franchi, personale 19’487 franchi, affitti e interessi sul debito 13’749 franchi. Da questa cifre si può quindi dedurre il reddito netto della famiglia contadina che è di 88’456 franchi annui, (61’719 franchi di reddito dell’attività agricola vera e propria e 26’737 franchi di reddito da attività extra-agricole). Anche in questo caso si tratta di un valore medio che può variare molto
da azienda ad azienda. Così come può variare molto l’attività delle aziende agricole che tendono a specializzarsi: produzione di latte, di carne, di cereali o altro, produzione di vino, frutta e verdura o perfino mangime per animali. Le cifre delle entrate e delle uscite possono pure variare secondo il tipo di lavoro e di produzione. Ultimamente, per esempio, il calo del prezzo del latte mette in difficoltà alcune aziende poco diversificate. Vista l’importanza, non solo economica dell’agricoltura, la stessa è sempre stata oggetto di attenzioni da parte del potere politico. L’ultima grande riforma della legge sull’agricoltura è quella di 20 anni fa con l’introduzione dei pagamenti diretti. Ma anche oggi il tema è molto presente nelle discussioni politiche. Non meno di quattro iniziative sono pendenti a livello federale per una modifica della Costituzione: per la sicurezza alimentare, per la sovranità alimentare, contro la speculazione sui beni alimentari, per alimenti equi. Tutte iniziative che ostacolerebbero ancor più un eventuale accordo di libero scambio al quale la Svizzera dovesse associarsi.
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Politica e Economia
AVSplus: un’operazione rischiosa? Votazioni federali 25 settembre L’iniziativa popolare lanciata da sindacati, dalla sinistra e da organizzazioni
di salariati chiede un aumento del 10% delle rendite di vecchiaia - Governo, Camere e borghesi sono contrari
Alessandro Carli Aumentare le rendite di vecchiaia dell’AVS del 10%. Lo chiede l’iniziativa popolare «AVSplus: per un’AVS forte», sottoposta a popolo e cantoni il 25 settembre prossimo. In caso di approvazione, dal 2018 la rendita per le persone sole salirebbe in media di 2400 franchi all’anno e quella per le coppie sposate di 4230. Nel contempo, le uscite dell’AVS lieviterebbero di circa 4 miliardi (5,5 miliardi entro il 2030). Per i sindacati, la sinistra e numerose organizzazioni di salariati l’iniziativa permette di rispondere all’«erosione delle pensioni», mentre per gli avversari (Consiglio federale, parlamento e partiti borghesi) si tratta di un’«operazione irresponsabile, troppo costosa, che minaccia la stessa AVS». Stando al primo sondaggio SSR, il 49% degli interrogati si dichiara a favore, il 43% contrario e l’8% è indeciso. In Ticino vi è maggiore incertezza.
Costerebbe 4 miliardi all’anno, finanziati aumentando dello 0,4% i contributi dei salariati e dei datori di lavoro I cittadini sono dunque nuovamente chiamati a pronunciarsi sull’assicurazione vecchiaia e superstiti (AVS), ossia il primo pilastro della previdenza per la vecchiaia. Stavolta, si chiede loro se vogliono aumentare le rendite del 10%, per compensare la perdita rispetto all’evoluzione dei salari e il calo di quelle della previdenza professionale (secondo pilastro). Costo dell’operazione: 4 miliardi di franchi. Quale soluzione di finanziamento, i promotori dell’iniziativa prevedono un aumento dello 0,4% dei contributi da parte dei salariati e altrettanto a carico dei datori di lavoro. Attualmente, la rendita di vecchiaia minima individuale (senza lacune contributive) è di 1175 franchi al mese. Quella massima è pari al doppio, ossia 2350 franchi. La rendita massima per le coppie sposate e i partner registrati è di 3525 franchi al mese, equivalente a quella massima singola moltiplicata per 1,5. Un calcolo che svantaggia i coniugi rispetto ai concubini, che percepiscono due rendite separate. Questa disparità è da anni in cerca di una soluzione. A ogni modo, in caso d’accettazione della modifica costituzionale, il supplemento della rendita AVS oscillerebbe tra un minimo di 117,50 e un massimo di 352,50 franchi al mese. Le donne sarebbero le prime beneficiarie dell’iniziativa. L’iniziativa «AVSplus: per un’AVS forte» è stata lanciata dall’Unione sindacale svizzera (USS) per garantire il livello delle rendite e «l’adeguata continuazione del tenore di vita abituale» in età avanzata, come prescrive la Costituzione. Perciò occorre rafforzare il primo pilastro. Per i sindacati e la sinistra, l’iniziativa è l’unico mezzo per compensare le perdite di rendite del secondo pilastro. La crisi finanziaria pone infatti la previdenza professionale in una situazione difficile. Le casse pensioni abbassano il tasso di conversione, che serve a fissare le future rendite. Risultato: quest’ultime continuano a diminuire, mentre si paga sempre di più. Le rendite AVS
sono invece state adeguate al rincaro. La previdenza per la vecchiaia non consente più ai pensionati di mantenere un livello di vita appropriato, sostiene «l’Alleanza per un’AVS forte». Secondo il presidente dell’USS Paul Rechsteiner «è chiaro che se si aumentano le rendite si debba pagare qualcosa in più», come detto 0,8 punti percentuali in tutto. Per il sindacalista si tratta di un contributo modesto, tenuto conto anche del fatto che il tasso di questo contributo paritetico per l’AVS è fermo all’8,4% dal lontano 1975. È meno della metà della quota versata alla previdenza professionale, oggi mediamente superiore al 19%. Gli avversari non ci stanno: temono un aggravamento della situazione finanziaria dell’AVS, che sta registrando i primi deficit (320 milioni nel 2014 e 579 nel 2015). Attualmente, l’AVS versa rendite di vecchiaia a 2,2 milioni di persone, per complessivi 40 miliardi di franchi annui. Per l’AVS si prospettano gravi problemi di finanziamento, anche perché la generazione del «baby boom» degli anni Cinquanta e Sessanta sta raggiungendo progressivamente l’età di pensionamento. Si stima che, senza riforme, nel 2030 il deficit raggiungerà i 7 miliardi. Se l’iniziativa fosse accolta, si aggiungerebbero altri 4 miliardi (se non si interverrà con il citato aumento dei contributi dello 0,8%) a partire dal 2018, che crescerebbero fino a 5,5 miliardi nel 2030, per un deficit complessivo di 12,5 miliardi. Sindacati e sinistra tendono a sdrammatizzare. Per loro, le maggiori uscite dovute al pensionamento della generazione del «baby boom» possono essere tranquillamente coperte con un punto percentuale in più dell’IVA. Per gli avversari, è «irresponsabile» aumentare i contributi per finanziare il supplemento di rendita AVS, caricando il peso dell’operazione sulle giovani generazioni. Poi, un massiccio aumento dell’IVA peserebbe su tutti, in primis sull’economia. L’iniziativa potrebbe anche peggiorare la situazione di certi pensionati: secondo i calcoli dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali, circa il 7% di loro perderebbe denaro. In caso di accettazione, la maggior parte dei beneficiari di una rendita AVS avrebbe più soldi in tasca, ma il Consiglio
Alain Berset e Paul Rechsteiner: il primo padrino della riforma «Previdenza 2020», il secondo dell’iniziativa AHVplus. (Keystone)
federale rammenta che i pensionati che necessitano di prestazioni complementari, potrebbero avere brutte sorprese, a seconda della loro situazione finanziaria. Infatti, circa 140’000 persone non trarrebbero vantaggio dall’aumento delle rendite, in quanto le loro prestazioni complementari verrebbero ridotte in misura corrispondente. Circa 15’000 pensionati disporrebbero di meno denaro, poiché perderebbero il diritto alle prestazioni complementari. In questo calcolo, occorre poi tener presente che le prestazioni complementari, diversamente dalla rendita AVS, sono esentasse. Gli oppositori rimproverano all’iniziativa anche il principio della distribuzione a pioggia: un supplemento del 10% per tutti andrebbe a vantaggio anche di chi non ne ha bisogno. Va detto che l’iniziativa dell’USS è sottoposta al voto di popolo e cantoni proprio mentre le Camere stanno esaminando il progetto di riforma «Previdenza per la vecchiaia 2020», che propone una serie di modifiche che
concernono sia l’AVS, sia la previdenza professionale. Le misure mirano a far fronte ai problemi di finanziamento e a mantenere invariato il livello delle rendite dal 2020 in poi, quando si farà maggiormente sentire appunto il pensionamento della generazione del «baby boom», in uno scenario caratterizzato dal costante aumento della speranza di vita. Orbene, il campo borghese, nonché governo e parlamento preferiscono questa riforma del consigliere federale socialista Alain Berset, ritenuta da quest’ultimo «equilibrata, con la garanzia di un finanziamento a lungo termine». Prevede l’aumento a 65 anni dell’età di pensionamento delle donne, un finanziamento complementare dell’AVS con un aumento massimo dell’IVA di 1,5 punti e una riduzione del tasso di conversione al 6%. Una parte della destra vorrebbe spingersi oltre, prevedendo un aumento dell’età di pensionamento. Ma Berset ammonisce che, per convincere la maggioranza, la riforma dovrà rimanere equilibrata.
Si tratta ora di conoscere le sorti dell’iniziativa, bocciata dal Nazionale con 139 voti contro 53 e dagli Stati a 33 contro 9. Come voteranno i pensionati? Daranno la precedenza al proprio portafoglio o penseranno alla salute stessa dell’AVS e alle generazioni attive, chiamate a versare maggiori contributi? Se fosse accolta, l’iniziativa dovrà essere applicata entro il 2018. Avrà conseguenze dirette sul progetto «Previdenza per la vecchiaia 2020» (anche se non è ancora nota la versione che sarà licenziata dalle Camere) o, addirittura, lo silurerà, come temono taluni avversari? Il Consiglio federale ritiene che non vi sia alcun margine di manovra finanziario per aumentare le rendite dell’AVS, come chiedono gli autori dell’iniziativa. Quest’ultimi replicano che l’AVS è il pilastro delle assicurazioni sociali: non è solo meno caro rispetto al secondo (previdenza professionale) e al terzo (previdenza privata), ma è anche il più equo ed efficace. Ecco perché va rafforzato. Ma la strategia proposta è veramente la più opportuna?
riduzione al 6,4% del tasso di conversione della legge sulla previdenza professionale (LPP) che sarebbe sfociata in una diminuzione accelerata delle rendite del II pilastro. Il 16 maggio 2004, il 67,9% dei votanti, ha silurato l’11.ma revisione dell’AVS che prevedeva l’aumento a 65 anni dell’età di pensionamento per le donne. Una nuova versione dell’11.ma revisione è stata affossata dal Nazionale nel 2010. I dibattiti parlamentari vertono ora sul progetto di riforma «Previdenza per la vecchiaia 2020» di Alain Berset, che riunisce AVS e LPP. Altre votazioni federali hanno riguardato il finanziamento dell’AVS e l’età di pensionamento. L’iniziativa dei Verdi «Per garantire l’AVS – tassare l’energia e non il lavoro!» è stata respinta nel 2001, mentre quella del
Partito evangelico e della sinistra volta a tassare le successioni è stata bocciata nel 2015. Tra questi due progetti vi è poi stata una lunga discussione provocata dai 21 miliardi di franchi frutto della vendita di 1550 tonnellate di oro della Banca nazionale (BNS). L’iniziativa dell’UDC «per destinare le riserve d’oro in esubero della BNS al Fondo AVS» è stata respinta nel settembre del 2002, contemporaneamente al compromesso proposto dalle Camere (dividere gli interessi di questo capitale in tre parti: AVS, cantoni, Fondazione solidale da istituire). Alla fine, il malloppo è stato suddiviso, come da prassi per gli utili della BNS, tra i cantoni (2/3) e la Confederazione (1/3). L’AVS ne ha però beneficiato, ottenendo i 7 miliardi attribuiti alla Confederazione.
AVS: numerose riforme La storia dell’AVS risale al 6 dicembre 1925, quando venne accolta in votazione popolare. Tuttavia, ci volle molto tempo prima che l’idea si concretizzasse. Un primo progetto venne respinto nel 1931. L’assicurazione divenne una realtà solo dopo la guerra: una legge licenziata dal parlamento nel 1946 venne approvata dal popolo nel 1947, per entrare in vigore l’anno successivo. Allora, l’età di pensionamento era di 65 anni per tutti. La rendita per coppia scattava quando il marito aveva compiuto i 65 anni e la moglie i 60. Nel 1957, l’età di pensionamento per le donne venne ridotta a 63 anni e, nel 1964, a 62, per poi risalire a 63 anni nel 2001 e a 64 nel 2005. Se dal 1948 l’età di pensionamento è rimasta sorprendentemente stabile, le rendite
AVS hanno registrato negli anni una grande crescita. All’inizio, la rendita minima era di 40 franchi mensili (circa 183 franchi di oggi). La rendita massima era di 125 franchi, equivalenti a 575 dei nostri giorni. Attualmente, si raggiungono, rispettivamente, i 1175 e i 2350 franchi, grazie a varie revisioni, in particolare all’ottava che, nel 1973, decretò un aumento delle rendite dell’80%. Dal 1980, le rendite vengono adeguate all’evoluzione del rincaro e dei salari. Anche i contributi sono aumentati: dal 4% nel 1948 all’8,4% nel 1975, tuttora in vigore. Il sistema pensionistico svizzero è stato segnato negli ultimi anni da due sonore sconfitte per le autorità. Il 7 marzo 2010, il popolo ha bocciato con una maggioranza del 72,7% una
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Politica e Economia
E la Svizzera divenne italiana Ricerca sociologica Un progetto coordinato dal professor Cattacin si prefigge di indagare le tracce dell’italiano
nella Confederazione, una lingua e una cultura diventate un pezzo fondativo dell’identità nazionale
Serena Tinari Sono le dieci di sera dell’11 luglio 1982. L’Italia vince il Mondiale e una folla festante travolge Elvezia. Striscioni, canti e balli. E l’indomani la Confederazione si sveglia contenta. Le prime pagine dei quotidiani di Zurigo e Ginevra sfoggiano titoli cubitali in italiano. Titoli affettuosi, che trasudano empatica identificazione con le foto in bianco e nero che ritraggono immigrati italiani di prima e seconda generazione con sorrisi a cento denti, allegramente affaccendati con un Carosello d’auto di cui si immagina il frastuono. «La vittoria calcistica è stato un acceleratore dell’inclusione della comunità italiana in Svizzera», racconta ad «Azione» il sociologo dell’Università di Ginevra Sandro Cattacin, che su quell’evento ha scritto con la collega Irene Pellegrini un breve e sfizioso saggio di prossima pubblicazione. Mundial di Spagna 1982: come l’Italia vinse anche in Svizzera è parte di un progetto di ampio respiro sulle tracce della storia sociale della migrazione italiana nella Svizzera francese e tedesca. Un pacchetto di progetti di ricerca sul campo che mette al centro i segnali sociali, culturali e linguistici. Perché se con la nascita dello Stato ticinese l’italiano autoctono della regione è entrato a pieno titolo nel Paese, la penetrazione capillare transalpina della lingua di Dante si deve soprattutto alla migrazione italiana. Una storia che inizia alla fine dell’800, con l’arrivo di copiosa manodopera dal Belpaese nei grandi cantieri, Sempione e Gottardo in testa. «Successivamente arrivarono gli esuli politici, seguiti dagli antifascisti negli anni Venti e Trenta e, infine, da oltre due milioni di italiani che in Svizzera vennero in cerca di fortuna a partire dall’immediato secondo dopoguerra. Parliamo di oltre un secolo di presenza migratoria, una presenza che ha creato quello che è oggi il mosaico dell’italofonia in questo Paese», riassume Cattacin. L’importanza della componente italiana nel Paese viene confermata dai dati dell’Anagrafe italiana residenti all’estero, secondo i quali è tuttora la comunità straniera più numerosa della Confederazione, circa 613mila persone pari al 7 per cento della popolazione. «In Svizzera l’italiano è presente simbolicamente dappertutto», racconta il professor Cattacin, che snocciola esempi come Elvetino, Panini, Subito, Passabene ed Espresso. Fino alla Ticketteria, luogo in cui si comprano i biglietti del tram a Zurigo, e a vocaboli entrati nella quotidianità di chi vive nei cantoni in cui la lingua ufficiale è il francese o il tedesco: parole che sono diventate parte integrante di quelle lingue come vengono parlate a Losanna o a Berna e pensiamo a quasi, subito, ciao e mamma mia. Parallelamente si è imposto, fra mille battaglie, l’italiano confederale, quello dell’amministrazione e della grande distribuzione, e anche su questo piano la lingua – autoctona e immigrata – ha fatto passi da gigante. Eppure c’è una diffusa preoccupazione per la marginalizzazione dell’italiano, come del francese. La soppressione delle cattedre di italianistica, certo, così come la scarsa rappresentanza di latini nell’Amministrazione federale o tra le più alte autorità. Eppure, secondo il sociologo Cattacin a preoccupare «è soprattutto il ritorno di un modello che si voleva superare, quello della territorializzazione delle lingue. Quindi non lingue nazionali, piuttosto cantonali. Cosa si può e cosa si deve fare? Se l’italiano si insegna a scuola o no,
Emigranti italiani e spagnoli si ritrovano all’Università di Zurigo, nel 2011, per celebrare il contributo degli emigranti allo sviluppo della Svizzera. (Keystone)
se lo si trovi per qualche ragione brutto o utile, non cambia il paradigma di fondo». Da queste riflessioni è nato il progetto sulle tracce dell’italianità coordinato dal professor Cattacin e finanziato grazie ai fondi per il plurilinguismo in Svizzera, come previsti dalla Legge federale sulle lingue, con il sostegno fra gli altri di Ufficio federale per la Cultura, Università di Friburgo e Coscienza Svizzera, un’associazione che promuove l’italiano in Svizzera. «Vogliamo ricostruire come e quando è successo che l’italiano da lingua di immigrati sia diventato un pezzo fondativo dell’identità nazionale della Confederazione». Un mutamento epocale che il sociologo ha vissuto in prima persona. Sandro Cattacin è un tipico confederato di questo millennio. Forse il più celebre sociologo di Elvezia, il professore trilingue è autore di una miriade di saggi e ricerche. Insegna a Ginevra, ma passa molte ore al mese in viaggio, in Svizzera e all’estero, per partecipare a conferenze, svolgere ricerche per le sue pubblicazioni e far parte di progetti di ogni sorta. Poliglotta e mobile, Cattacin è nato e cresciuto nel Kreis 4, la «Little Italy» di Zurigo, figlio di immigrati italiani di prima generazione: «Fino a cinque anni parlavo solo veneto e ci ho messo parecchio a capire che il veneto non era italiano. Ho vissuto la paura dei miei genitori, una iniziativa xenofoba dopo l’altra. Quel terrificante “ci mandano via”, quel “vogliamo restare, ma ci
Il sociologo Sandro Cattacin. (Keystone)
vogliono cacciare”». Un trauma che ha segnato anche la seconda generazione, che: «ha imparato a non fidarsi degli svizzeri». Il progetto sulle tracce dell’italiano nella Confederazione è appena iniziato e si compone di tanti moduli paralleli. «Uno dei moduli consisterà nell’analisi di alcune strade. Un buon esempio, ma certo non l’unico, è la Langstrasse di Zurigo. Che spazio occupa l’italiano in quel microcosmo? Chi ci abita, nelle case che si affacciano sulla celebre via zurighese, e che storia raccontano le insegne dei negozi? Andremo alla ricerca di segni e segnali, in quella e in altre strade di diverse città della Svizzera francese e tedesca. Dal punto metodologico, in questa come in altre parti del progetto, il nostro intento è di adottare modalità abbastanza innovative. L’obiettivo è di relativizzare la posizione del ricercatore. Piuttosto chiediamo alla gente di raccontare, descrivere, interpretare».
Uno dei moduli del progetto consiste nell’analisi di alcune strade, per capire quale spazio occupa l’italiano Una parte importante del progetto riguarda il web, spazio contaminato per definizione, perché «sono cambiati i modi e i tempi di spostamento e sono cambiati i modi di comunicare, di esprimersi, di ricevere e di dare informazioni, è cambiato l’intrattenimento, le modalità di vivere le relazioni amicali, il consumo culturale, il modo di cercare lavoro, per non parlare del mercato del lavoro stesso. C’è una vera esplosione di gruppi e siti italiani sul web, che mettono “fuori uso” la vecchia migrazione organizzata. Le nuove migrazioni si muovono a velocità incredibile e ci interessa andare a verificare se è vero, come noi ipotizziamo, che la digitalizzazione ha staccato l’italiano dal ghetto degli italiani». Il web è anche strumento elettivo per la raccolta di segni e memorie. Così sotto il suggestivo
titolo Dalla valigia di cartone al web è partita la raccolta. Racconti di vita, ma anche tanta musica. La storia ricostruita a partire dalla strada o dalle cucine, dove si cantavano Gianni Morandi e Adriano Celentano, i Santo California e altri interpreti e gruppi che sono stati inghiottiti dalla storia. I dorati anni Cinquanta e Sessanta, tempo di nuove musiche e del boom economico, erano il tempo della migrazione italiana che non poteva tornare spesso a casa: il viaggio costava troppo, la meta era lontana con i mezzi di trasporto dell’epoca. E allora Little Italy trovava casa in un tripudio di testi evocativi di partenze e ritorni. Canzoni spesso melodiche, dalle rime nostalgiche, come Italia Italia di Emanuela Tinti & Ben Venuti: «Italia Italia, dolce paese /dove l’amore è vita e la vita è amore / un paradiso tutto per noi». «Quella canzone vinse al Festival di Zurigo del 1966», sorride Cattacin. Il Festival, che i meno giovani ricorderanno, era anche noto come Festival della Canzone Italiana in Svizzera e tenne banco dal 1957 al 1967. Dalla valigia di cartone al web lo riporta ai giorni nostri, con la pubblicazione sul portale YouTube dei brani di successo dell’epoca. «Sei edizioni consecutive del Festival videro trionfare canzoni napoletane e gli ospiti speciali erano in genere i vincitori di Sanremo». Ma se in quegli anni la musica italiana era tanto pittoresca da meritare un festival dedicato, nei decenni successivi il paesaggio cambia radicalmente: «Negli anni Ottanta e Novanta i big del pop italiano passano per la Svizzera come prima tappa per vendersi all’estero. E talvolta un brano diventa un tormentone anche dalle nostre parti. Penso ad un pezzo di Edoardo Bennato e Gianna Nannini, Un’estate italiana, che nel 1990 arrivò in vetta alle classifiche svizzere. Ma già non c’era più un legame diretto fra territorio e lingua. E quella melodiosità, come il caffè italiano, è da tempo entrata nella normalità. Non è più la lingua degli immigrati, né una lingua straniera. E d’altronde i nuovi italiani in Svizzera, penso alle immigrazioni più recenti, persone nate e cresciute in Italia ma trasferitesi da poco qui a vivere e lavorare, ebbene questo tipo di migran-
ti non ha più bisogno dell’associazione diretta, come era nel secolo scorso, fra scuola, lingua e cultura italiana. È una generazione digitale, che grazie a Internet è in legame costante con l’Italia. Sono modalità più mobili, nomadiche. Mi ha colpito un episodio cui ho assistito ad una “Festa della Repubblica” a Ginevra. A fianco a me c’era una famiglia di italiani. La mamma comunicava con i figli in inglese, il padre parlava con loro in italiano. Uno scenario lontano secoli, si direbbe, da quello di un siciliano arrivato in Svizzera nel 1966. Eppure sono passati solo cinquant’anni». Attorno ai nuovi, talvolta sorprendenti percorsi dell’italianità in questo Paese, uscirà in ottobre un primo volume, che per molti aspetti prelude al progetto coordinato da Cattacin. Italiano per caso. Storie di italofonia nella Svizzera non italiana è una raccolta di ritratti di quattordici persone, «che amano l’italiano un po’ per caso. Personalità più o meno conosciute che parlano italiano oltre Gottardo e che raccontando la loro storia consentono di tracciare un’analisi dei percorsi e una riflessione più politica su cosa significa oggi parlare questa lingua in Svizzera». Il libro, un progetto in collaborazione con Coscienza Svizzera con il sostegno dell’Ufficio federale della cultura e del Cantone Ticino, è curato da Verio Pini, Irene Pellegrini, Sandro Cattacin e Rosita Fibbi, con prefazione di Sergio Romano, un contributo di Sacha Zala e la postfazione di Remigio Ratti. Alle storie di vita si accompagnano articoli di analisi e il racconto di cosa si è fatto negli ultimi anni nelle istituzioni per l’italiano in Svizzera. Il progetto complessivo andrà avanti a raccogliere segnali di storiografia sociale e l’appello di Sandro Cattacin ai lettori di «Azione» è: «partecipate! L’idea è quella della coproduzione della conoscenza. Siamo lontani dal modello “Noi dell’accademia sappiamo come stanno le cose”. È proprio il contrario: abbiamo bisogno di voi e dei vostri ricordi: dai racconti, alle foto, alle canzoni». La raccolta si svolge su Internet, nella pagina Facebook del progetto: https://www.facebook.com/ valigiaweb/
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Politica e Economia
Oggi la previdenza deve cominciare prima La consulenza della Banca Migros
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80000 60000 40000
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Albert Steck è responsabile delle analisi di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
A partire da quale età sarebbe opportuno cominciare con i versamenti nel terzo pilastro? Ancora poco tempo fa avrei risposto che per la maggior parte delle persone è sufficiente partire dai 40 anni. Ma con i tassi attuali estremamente bassi la mia valutazione è superata. Oggi consiglierei di iniziare tra 25 e 30 anni. Infatti, questa generazione deve prepararsi mentalmente a lavorare oltre i 65 anni. Inoltre le loro rendite nella cassa pensioni segnano un ristagno. Ma la buona notizia è che, compiendo le scelte giuste, i giovani possono aumentare notevolmente il loro capitale di previdenza senza bisogno di versare più denaro. Ipotizziamo che vogliate versare complessivamente 100’000 franchi nel terzo pilastro: se risparmiate 5000 franchi l’anno a partire dai 45 anni, il vostro capitale raggiunge i 124’000 franchi entro il pensionamento, con un rendimento del 2 percento. Se invece cominciate già a 25 anni, il versamento annuo si dimezza a 2500 franchi, perché risparmiate per un periodo due volte più lungo. Sebbene in entrambi i casi utilizziate un capitale di pari entità, cominciando presto a risparmiare il vostro patrimonio aumenta di 30’000
30’000 franchi in più di capitale grazie al risparmio precoce
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La previdenza per la vecchiaia è sotto pressione, soprattutto a causa dei tassi estremamente bassi. I giovani devono dunque cominciare a risparmiare molto prima. Ma chi compie le mosse giuste non ha bisogno di più denaro.
Il versamento cumulato nel pilastro 3a ammonta a 100’000 franchi in entrambi i casi, il rendimento è del 2%: cominciando a risparmiare a 25 anni il capitale raggiunge quota 154’000 franchi. Chi comincia solo a 45 anni non accumula più di 124’000 franchi.
franchi in più, a 154’000 franchi, grazie agli interessi composti (v. grafico). Ci investe il proprio capitale nel pilastro 3a a lungo termine dovrebbe puntare su un fondo previdenziale. Ad esempio, il Mi-Fonds (CH) 40 V con una quota azionaria del 40 percento ha ottenuto un rendimento medio del 2,6 percento negli ultimi dieci anni, addirittura del 4,6 percento su cinque anni. Inoltre gli sgravi fiscali nell’ambito
del terzo pilastro contribuiscono notevolmente alla crescita del patrimonio. Nell’esempio del versamento annuo di 2500 franchi un single, residente a Berna, con un reddito netto di 80’000 franchi può ri durre l’onere fiscale di ben 575 franchi ogni anno. Di conseguenza il capitale previdenziale, incluso il risparmio fiscale, sale addirittura a 177’000 franchi – un bel successo, partendo dai 100’000 franchi versati!
Proprio quando si è giovani è forte la tentazione di rimandare la previdenza. Ma chi resiste a questa tentazione e comincia presto a versare capitale nel pilastro 3a sarà premiato con risultati molto migliori sui suoi risparmi, senza dover utilizzare più denaro. Attualità su blog.bancamigros.ch: Oggi la previdenza deve cominciare prima. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Pensioni, alla ricerca di un nuovo modello Uno dei compiti più difficili che dovrà essere affrontato nei prossimi anni è la riforma del nostro sistema di pensioni. Oggi, lo stesso viene finanziato essenzialmente con i contributi della popolazione attiva. Sono le persone che lavorano che, con i loro contributi mensili, pagano le rendite dei pensionati. Per quel che concerne l’AVS esiste poi un meccanismo di compensazione per effetto del quale le persone che hanno redditi alti contribuiscono, in misura superiore alla media, al finanziamento delle rendite. Il finanziamento di un sistema di pensioni come questo presuppone, per essere sicuro, che tra la popolazione dei pensionati e la popolazione che lavora esista un certo rapporto. Senza essere specialisti della materia possiamo capire che il finanziamento del sistema pensionistico – se non si diminuiscono le rendite o si aumentano i premi - sarà tanto più
sicuro quanto più alto è il rapporto tra la quota di popolazione che lavora e quella che gode invece della pensione. Ancora nel 2010 si contavano, in Svizzera, 3.6 lavoratori per un pensionato. Il valore del rapporto tra chi lavora e chi è al beneficio della pensione sta però scendendo e presto raggiungerà valori preoccupanti per quel che riguarda la sicurezza del finanziamento delle pensioni. Si sa, per esempio, che nel 2015 il fondo AVS ha chiuso i suoi conti con un deficit e che questa perdita, purtroppo, continuerà a manifestarsi anche negli anni a venire. Le previsioni ci dicono che tra venti anni, nel 2035, la perdita annuale di questo fondo sarà vicina ai 10 miliardi di franchi, il che non è certamente poco. Data questa situazione è comprensibile che si stia sviluppando un dibattito su cosa fare per assicurare il finanziamento del nostro sistema pensionistico nel
lungo termine. Le proposte sono di due tipi. Quelle del primo tipo tendono a ridurre, in diversi modi, le prestazioni delle casse pensioni pubbliche e private. Quelle del secondo, invece, propongono diverse soluzioni per aumentare la durata della vita lavorativa. Di recente questo secondo tipo ha ricevuto le grandi attenzioni. Ricordiamo, a questo proposito, che mentre in altri Paesi si discute o già si è deciso di portare l’età del pensionamento a 67, o addirittura a 70 anni, in Svizzera i lavoratori continuano ad andare in pensione a 65. Più che in altri Paesi, da noi, la pensione a 65 anni sembra essere tabù anche se, un paio di settimane fa, l’apposita commissione del Consiglio nazionale ha deciso a maggioranza di proporre il pensionamento a 67 anni. Più accettabile sembra invece la proposta di flessibilizzare l’età del pensionamento, facilitando il pensiona-
mento anticipato di chi deve accettare condizioni di lavoro particolarmente dure e consentendo invece la continuazione dell’attività lavorativa, oltre i 65 anni, a chi esercita professioni che non richiedono un grande sforzo fisico. Questi lavoratori dovrebbero essere in grado di pagare alle casse pensioni i premi che a queste vengono a mancare in seguito al pensionamento anticipato di chi lavora in condizioni spossanti. L’incognita di ogni proposta di flessibilizzazione dell’età del pensionamento è rappresentata dalla durata media della vita lavorativa. Se gli uni riducono la durata della loro e vanno in pensione anticipatamente, gli altri dovranno invece aumentare la loro e andare in pensione oltre i 65 anni, se il deficit dell’AVS superasse una determinata soglia. Non solo, ma c’è da credere che gli effettivi di coloro che lavoreranno oltre i 65 dovrà essere maggiore di
quello di coloro che vanno in pensione anticipata, se si vuole che la situazione finanziaria delle casse pensioni resti sicura. Di recente Anton Schaller, che è stato giornalista televisivo e poi anche consigliere nazionale per l’Anello degli indipendenti e oggi presiede un’associazione di pensionati, ha affermato che secondo lui il finanziamento delle pensioni, in futuro, sarebbe assicurato se la durata media della vita lavorativa fosse di 44 anni. È probabile che abbia ragione ma è altrettanto probabile che la sua proposta provocherà una levata di scudi da parte di chi – per esempio i lavoratori con formazione accademica – si vedrebbe prolungata la vita lavorativa di diversi anni se questa proposta venisse accettata. Purtroppo, per intanto, non sembra che, rispetto al nodo del finanziamento delle pensioni, si profili una soluzione facile e indolore.
riavvicinamento di personalità altrimenti molto distanti. La nostalgia per la Remania è uno dei grandi leitmotiv di chi prova a raccontare che cos’è oggi, culturalmente e socialmente, la Brexit. C’è chi vorrebbe trasformare la Remania in realtà, unendo davvero forze che, pur infastidite, sono tornate nel loro territorio d’origine, divise tra conservatori e laburisti. È difficile per un Paese come il Regno Unito immaginare una convergenza partitica non tradizionale: ci provò Sir Goldsmith con il Referendum Party, che era l’embrione del «leave» odierno, e ci provò l’Sdp, con uno spin off europeista da un Labour euroscettico degli anni Ottanta. Ma si tratta di esperienze temporanee – peraltro sempre legate all’Europa, e questo è molto significativo – che non sono riuscite a costruire una casa accogliente per una compagine liberale. Ora la tentazione è di nuovo alta, i liberaldemocratici, che sono i senzatet-
to della politica inglese avendo perso grandi consensi alle elezioni dell’anno scorso, lanciano ormai un’offensiva quotidiana per provare a fare da magnete del 48 per cento. Per ora senza grande successo, forse perché prevale quel che ha raccontato John Lanchester, scrittore e saggista dalla storia personale straordinaria, in un articolo pubblicato sulla «London Review of Books» dal titolo Brexit Blues. Più che la classe sociale di appartenenza, scrive Lanchester, conta la geografia, che nel Regno Unito, piccolo ma grande perché densamente popolato, è «un destino non sempre felice». La spaccatura tra Londra e il resto del Paese, nell’esito referendario, è soltanto l’ultimo esempio di un condizionamento geografico che ha costruito un’identità peculiare in diverse parti del Paese, e che oggi sta perdendo la propria componente economico-sociale lasciando soltanto quella nazionalista. Sono tutti precari, scrive Lanchester, e «precario ha un
suo significato preciso di “dipendenza dai favori di un’altra persona”. Il precariato, come viene chiamata questa nuova classe, può forse non conoscere l’etimologia di questa parola, ma non ne ha bisogno: la realtà risulta molto più familiare». In questa dicotomia tra aspettative e geografia, sta il racconto della Brexit, che è un racconto di sofferenza e rammarico. Anche se ai blues si stanno unendo canti più ottimisti, forse più gioiosi addirittura, che vedono nella Brexit quello shock che, nei romanzi, porta poi alla trasformazione dell’eroe, e al lieto fine. Il balbettio politico sulla road map della Brexit – voluto dalla neopremier Theresa May, abbottonatissima – non aiuta a consolidare il racconto della speranza, però dopo il primo shock, aspettando la fine dell’estate e i dati sull’economia reale, si piange un po’ di meno, e si comincia a pensare che il Regno Unito è sì in tensione, ma ha proprio una gran resistenza.
sca è rimasta aggrappata tenacemente ai suoi vernacoli. Il che, com’è noto, non agevola la comunicazione interna e l’apprendimento della stessa lingua tedesca (o «buon tedesco»). Per questo è interessante, per una volta, conoscere le riflessioni di un autore che opera all’interno della componente maggioritaria (senza per questo assimilarlo a qualche gruppo di potere). Quali sono dunque le armature che impediscono ad un Paese così diverso come la Svizzera di disgregarsi? O di far la fine del Belgio, sempre sul punto di sfasciarsi come una botte priva di doghe? La risposta è semplice: un federalismo caparbiamente difeso che tuttavia non assume mai tratti estremi, di natura secessionistica. Detto altrimenti: le differenze interne – religiose, linguistiche, culturali – non danno luogo a «blocchi» di tipo etnico-identitario destinati allo scontro, come accadde nella Jugoslavia del dopo Tito. Questo non vuol dire che il Paese non sia percorso da tensioni e linee di faglia: la disputa sulle lingue da insegnare nelle scuole o la presenza
di esponenti dei gruppi minoritari all’interno dell’Amministrazione federale sono motivi costanti di litigio, e questo da decenni. Ma i mugugni, le delusioni, le sconfitte non diventano mai una bandiera minacciosa in grado di intaccare i princìpi su cui posa l’intera impalcatura. L’equilibrio e il compromesso restano le stelle fisse verso le quali orientare l’azione pubblica. Hermann lo dice chiaramente: non si tratta di negare i conflitti: ci sono, sono sempre esistiti in forme aperte o sotterranee. Si tratta di riconoscere che il sistema ha saputo finora incanalarli e governarli senza compromettere le basi della convivenza. Anche nei momenti più tesi del dopoguerra, come la crisi giurassiana, la Confederazione riuscì a mediare tra le parti in lotta, tra il canton Berna da una parte e i distretti francofoni separatisti dall’altra. Il tentativo di «politicizzare» la vertenza con motivazioni di tipo religioso e ideologico fece presa solo parzialmente sulla popolazione. Chi scrive ricorda che nelle cerchie più radicali questa strada fu imboccata. La
Svizzera d’oltre Sarine era considerata una provincia sottomessa, in base ad un modello teorico che ricalcava le teorie del neo-neocolonialismo. In un saggio del 1982, intitolato La Romandie dominée, gli autori Alain Charpilloz e Geneviève GrimmGobat sostennero proprio questo, che la parte francofona era vittima di una «colonizzazione a freddo» da parte dei centri di potere svizzero-tedeschi: multinazionali, grandi banche, amministrazione, mezzi di comunicazione. Il sistema reggerà anche in futuro? Qui l’autore è meno ottimista. Le votazioni su temi rilevanti (asilo, immigrazione, trattati europei) restituiscono un Paese sempre più spaccato in due. L’iniziativa popolare, un tempo utilizzata soprattutto dalla sinistra politica e sindacale, è diventata un’arma cui ricorre frequentemente anche il centro-destra, con prospettive di successo molto maggiori di prima. E spesso succede che i promotori non si rendano ben conto delle conseguenze post-voto. Come nel caso della consultazione sull’immigrazione di massa.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Londra dopo il grande shock A più di due mesi dalla Brexit i commentatori stanno ancora cercando il modo giusto per raccontare quel che è accaduto. Il Regno Unito vive in un misto di rimpianto e di senso di colpa che spacca il Paese lungo le percentuali del referendum: il partito del 48 per cento, cosiddetto, è il più frantumato e scosso. Va a caccia di un riscatto, che se fosse istituzionale – un altro referendum – sarebbe completo, ma non trova il modo di esplicitarlo, perché in questa parte del Paese si collocano anche i più strenui sostenitori della superiorità della democrazia: non si può ribaltare un voto popolare. Rafael Behr, columnist del «Guardian» e autore di alcuni saggi, ha scritto uno degli articoli più belli e importanti su quel che è accaduto con la Brexit. Il rimpianto di Behr è palpabile – non è così che doveva andare – ma non riguarda soltanto i pericoli che comporta l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, quanto piuttosto la consapevolezza che quel partito
trasversale unionista che si era creato durante la campagna referendaria si è sfasciato, ed è un peccato. «Alcuni leader del “remain” – scrive Behr – avevano scoperto una simpatia reciproca tenuta insieme da una stessa visione del mondo. Come mi ha detto uno di loro: “Eravamo la forza pluralista, centrista e liberale della politica britannica”. Il pro europeismo era diventato un collante per la fusione di quel liberalismo sociale ed economico che è stata la filosofia politica dominante di una generazione, pure se i suoi seguaci erano spezzettati in diverse compagini partitiche. Questi centristi erano la classe dirigente di uno Stato non riconosciuto – chiamiamolo Remania – in cui il popolo era diviso tra conservatori, laburisti e liberaldemocratici, come una tribù il cui Paese è stato suddiviso da un noncurante cartografo vittoriano. La Remania era un progetto politico che si è costruito attorno a un’idea e a un progressivo
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La chimica del modello elvetico Prendere due provette. Nell’una si versi la politologia, nell’altra la geografia. Indi trasferire entrambi i liquidi in un’unica ampolla, farli reagire e vedere che cosa succede. Originale, no? È quanto fa regolarmente Michael Hermann, di professione «Politgeograf», ossia «geo-politologo», opinionista del quotidiano «Tages -Anzeiger» e titolare, a Zurigo, di un’azienda di sondaggi, la «Sotomo» (Società, Politica e Spazio). Concretamente Hermann raccoglie e intreccia dati apparentemente lontani, per poi costruire grafici animati che interagiscono sulla base di appositi programmi informatici. In questi giorni esce da ZytgloggeVerlag un suo saggio sulle ragioni della coesione nazionale: Che cosa tiene assieme la Svizzera (Was die Schweiz zusammenhält). È questo un tema ricorrente nella cultura politica elvetica fin dal 1848. Ma senza dubbio ha tormentato più le minoranze che la maggioranza germanofona, per secoli forza dominante, nonché trainante, della piccola «nazione» elvetica. Cuore
primigenio dell’alleanza, la vecchia Confederazione non ha nutrito i dubbi esistenziali che invece hanno assillato i cantoni di più recente adesione. Lo prova la divaricazione linguistica creatasi tra le principali famiglie: mentre Romandia e Ticino hanno via via abbandonato i dialetti, perlomeno nella sfera pubblica, la Svizzera tede-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 5 settembre 2016 ¶ N. 36
Cultura e Spettacoli Ascona in musica Il pianista Francesco Piemontesi racconta le Settimane musicali di Ascona
Here I am Ad appena trentanove anni, lo scrittore americano Jonathan Safran Foer ha già lo status di scrittore di culto. Ora, dopo unidici anni di lavoro, esce Eccomi
Rievocazione di un’utopia Al Monte Verità si è concluso l’omaggio teatrale alla storia di una grande utopia del 900
Progettare creativamente Ritorna per la seconda volta il workshop dedicato allo sviluppo creativo degli spazi pagina 37
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Di Ken Domon, Bagno presso il fiume davanti all’Hiroshima Dome, dalla serie «Hiroshima», 1957. (Ken Domon Museum of Photography)
Il maestro del realismo giapponese Fotografia A Roma una grande mostra celebra la dedizione e il talento di Domon Ken Blanche Greco «Lo avevano soprannominato il “Diavolo della Fotografia” perché era un maestro silenzioso e assorto, e noi, suoi allievi, dovevamo andare a intuito per capire cosa si aspettasse dalla fotografia che ci preparavamo a scattare. Eravamo tutti terrorizzati di deluderlo, quanto di ricevere il violento scappellotto che era il suggello del suo irato scontento. Altrimenti Domon Ken era una persona aperta, sensibile, con il quale si stava bene insieme», ha raccontato Takeshi Fujimori, un signore brizzolato, vestito di nero, una grossa macchina fotografica reflex al collo con l’obbiettivo che ammiccava come i suoi occhi dietro alle lenti, lucidi di emozione, all’inaugurazione della Mostra: Domon Ken. Il Maestro del Realismo Giapponese al Museo dell’Ara Pacis a Roma, dedicata al suo Maestro di più di cinquant’anni fa. È la prima volta che 150 immagini in bianco e nero e a colori, realizzate dal geniale fotografo al quale in Giappone è stato dedicato un Museo (il Ken Domon Mu-
seum of Photography di Sakata), sono oggetto di una mostra all’estero, dove Domon Ken è quasi sconosciuto malgrado sia un personaggio importante nella storia della fotografia, tanto che l’evento romano ha richiamato decine di fotografi professionisti, italiani e stranieri. «Ci sono voluti tre anni per organizzare la mostra, ma soprattutto per scegliere, tra le tante fotografie del Museo, quelle più rappresentative della sua storia professionale e della sua vita privata, che per buona parte hanno coinciso», ha sottolineato la professoressa Rossella Menegazzo, che con Takeshi Fujimori è la curatrice della mostra, che non è una semplice esposizione di fotografie, seppure bellissime, quanto un affresco storico e sociologico del Giappone dal 1920 al 1970. La mostra mette in luce anche lo stile, la tecnica e la modernità dello sguardo di Domon Ken (1909-1990). Così sin dalle prime immagini appare evidente il segreto dei suoi scatti, quel punto di vista che faceva impazzire i suoi allievi; quella qualità
misteriosa che rendeva i suoi soggetti affascinanti. Come traspare dai suoi primi servizi fotogiornalistici, si tratta di un gusto particolare per la realtà, di un approccio legato all’istantanea, e del suo profondo amore per il Giappone e il suo popolo. Si spazia dall’immediatezza delle immagini delle feste popolari e degli scorci di vita quotidiana alle patinate fotografie di propaganda dell’anteguerra dalle geometrie pulite che mostrano i cadetti impegnati in esercizi ginnici; ma troviamo anche le esercitazioni delle crocerossine e il «realismo sociale» delle tante serie sui bambini, testimoni della povertà e delle trasformazioni del dopoguerra. Poi ancora vi sono i burattini Bunrako e i templi giapponesi – migliaia e migliaia di scatti realizzati dagli anni 30 agli anni 70. Se i Bambini di Chikuhō e Il padre della piccola Rumie è morto diventarono subito dossier famosi, Pellegrinaggio ai templi antichi, è considerato addirittura un capolavoro. Le fotografie a colori dei trentanove santuari immersi nella natura, tra le nevi dell’inverno o le mille sfu-
mature della primavera e dell’autunno, ci ricordano per certi versi i quadri di Monet, mentre negli scatti delle sculture i tratti delle grandi statue dorate, sono colti con lo stesso interesse indagatore dei ritratti che Domon Ken faceva a suoi contemporanei come gli scrittori Yukio Mishima, Kawabata, Tanizaki, o a registi e attori, come Ozu e Toshiro Mifune, alle volte suoi amici, spesso personalità della rinascita culturale del Giappone. È rimasto celebre l’incontro-scontro di Domon Ken con il pittore Umehara, che appare furente per l’occhio dell’ingombrante macchina fotografica che gli stava appiccicata al viso, e per l’ostinazione del fotografo, determinato a carpire la sua «essenza». Domon Ken raccontò che Umehara gli sibilava frasi insultanti perché smettesse, ma lui, pur temendo di venire picchiato, tenne duro sino a quando non fu soddisfatto del ritratto. Il 23 luglio del 1957 alle 14 e 40, come annotò sul suo taccuino, dodici anni dopo la catastrofe, il fotografo entrò a Hiroshima. Forse aveva atteso tanto perché voleva che la vita rico-
minciasse a scorrere anche lì, prima di documentare, seguendo i suoi principi di realtà e di verità, quale fosse l’esistenza dei sopravvissuti e dei luoghi colpiti dalla bomba atomica. Lavorò per quattro mesi senza sosta e da quei settemilaottocento scatti, dalle sue annotazioni e riflessioni, nacque il volume Hiroshima. La mostra dedica a quel dossier una sezione a parte, con le macchine fotografiche, gli articoli di Domon Ken e una serie di immagini che ci colpiscono e turbano profondamente, lasciandoci intuire le difficoltà e lo strazio che aveva affrontato. All’epoca della pubblicazione nel 1958, lo shock del pubblico fu enorme, l’opera venne aspramente criticata, ma il premio Nobel Ōe Kenzaburō, la definì «la prima opera d’arte moderna che affrontava il tema dell’atomica parlando dei vivi anziché dei morti». Dove e quando
Domon Ken, Roma, Ara Pacis. Fino al 18 settembre 2016. www.arapacis.it
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 5 settembre 2016 ¶ N. 36
Là dove nulla è ovvio Incontri A colloquio con la scrittrice ticinese Anna Felder,
che sarà ospite della sesta edizione di Piazzaparola
Simona Sala La scrittrice Anna Felder in qualche modo si muove in sordina. Lontana dai riflettori ma attenta a quello che succede nel mondo della letteratura, da sempre segue una strada propria, in cui le parole, la loro scelta, la loro disposizione e le evocazioni che possono portare con sé rivestono la stessa importanza della trama. La lettura si fa dunque stimolante, e una volta entrati nella dimensione che riesce a creare la Felder, si riconosce la densità di testi mai scontati, ma permeati di quelle associazioni insolite (non ovvie, direbbe lei) che scolpiscono intere frasi nella mente del lettore. Come scrisse Italo Calvino dopo avere letto la sua Disdetta (1974), «il suo modo di raccontare (...) richiama esperienze della poesia contemporanea». Anna Felder quest’anno leggerà a Piazzaparola, la manifestazione sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino dedicata alla letteratura, che si svolgerà a Lugano dal 7 al 10 settembre e a Locarno (per i bambini) il 15 settembre. Il «padrino» della manifestazione sarà Cervantes. Fra i numerosi ospiti presenti segnaliamo anche Carlo Silini, Thomas Meyer e Irena Brezna. Anna Felder, dove nasce la sua scrittura?
Sono molto interessata a un quotidiano non fatto di grandi scombussolamenti, ma di storie. Già in questo quartiere bastano solamente due ore perché succedano molte cose. L’importante è metterle a fuoco… È quindi una grande osservatrice?
Non osservo le persone attivamente con la mira di captare. Si tratta piuttosto di corrispondenze strane, incontri casuali, piccole sorprese nel bene e nel male. Credo che chiunque abbia un proprio mistero, perfino la persona apparentemente qualunque o quella più grigia. La letteratura deve dunque mantenere un proprio di mistero…
La vita stessa è un mistero, ciò che ci aspetta, i motivi per cui ci troviamo sulla terra. Nasciamo per avvicinarci alla morte, anche questo paradosso della vita è un mistero. Naviga molto con la sua mente?
Sì certo, ma anche con la scrittura. Quando scrivo mi accorgo che la parola
ha un destino. La prima parola di un romanzo è come la prima nota di una sinfonia: dovrebbe già contenere tutto lo sviluppo. Guardando il suo primo libro e l’ultimo, si osserva un processo di sottrazione lessicale a favore di un’addizione poetica. È un percorso consapevole?
No, inconsapevole. In mezzo ci sono state altre opere e molti racconti; amo molto quest’ultima forma letteraria poiché è stringata, composta, contiene una misura, e in questa misura accende un momento che può svilupparsi. Già nella Disdetta ricordo che gli inizi di capitolo mi parevano importanti, così come il cambiamento di registro e di ritmo. Sono attenta alla sonorità di una pagina, che spesso ne rispecchia anche il contenuto. Questo sviluppo è stato naturale e mi ha portato a condensare e stilizzare. Con il passare degli anni si tende sempre più all’essenziale, si fanno delle scelte. Questo vale anche per le letture. Nella recente edizione di Tra dove piove non piove l’editore Dadò riporta delle pagine del manoscritto originale. Scrive ancora a mano?
L’inizio della scrittura avviene sempre con carta e penna e la calligrafia diventa come un incontro per strada. A volte cambia, anche se solo ai miei occhi: riconosco cosa ho provato scrivendo una determinata parola. In un secondo tempo mi affido anch’io al computer, grazie al quale correggere è più facile. Non rileggo però mai a voce alta, perché il ritmo lo sento internamente. Riesce ad avere il giusto distacco da quanto scrive?
La distanza è necessaria, in questo senso il cestino della carta è importantissimo. Lavoro spesso la sera, ma poi il mattino successivo, a mente più fresca, torno su quello che scrivo. Cosa prova quando rilegge i suoi vecchi testi? Riconosce i suoi pensieri?
A volte mi stupisco per avere già pensato determinate cose, e a quel punto mi rendo conto di ritrovare me stessa. Ho rimaneggiato alcune cose di Tra dove piove e non piove: il testo mi pare a tratti vecchio... ma ero giovane quando scrivevo, e la scrittura deve essere rispettata e nulla rinnegato. Lei è nata in Ticino e ha vissuto
molti anni ad Aarau…
Mio padre era svizzero tedesco ma non mi ha mai insegnato la lingua. La sentivo quando parlava in famiglia o quando andavamo dalla nonna sul lago di Sempach. Il tedesco dunque è sempre risuonato come una lingua familiare.
Più o meno, anche se a noi figli faceva una certa impressione. Mia madre non lo parlava perché diceva che le faceva male alla gola! Forse questo mi ha influenzato... Mentre studiavo ho cominciato a dare supplenze in italiano e in francese, il confronto con il tedesco è dunque andato gradualmente crescendo. Se dovesse contestualizzarsi letterariamente si reputerebbe una scrittrice italofona?
I miei riferimenti sono la Svizzera italiana e l’Italia. Insegnando l’italiano mi occupavo di letteratura italiana, che amo molto in tutte le sue sfaccettature. Amavo perfino i frammenti del Novellino. Mi piace ciò che è frammentario, quanto ha un silenzio prima e dopo: c’è infatti sempre una risonanza significativa. Gli autori che avevo conosciuto allora e che mi hanno indotto a scrivere erano Montale, su cui ho scritto la tesi di laurea, e prima ancora Cesare Pavese e Vasco Pratolini. Ho poi mandato il manoscritto della Disdetta a Italo Calvino, altro autore a me molto vicino. Trovandomi in terra germanofona seguivo con consapevolezza maggiore le uscite in Italia. Sentivo il bisogno di rimpolparmi nella mia lingua e quindi, per conservare la mia identità mi sono legata molto a questi autori. Spesso scrivendo, sentivo in strada voci tedesche, e la scrittura mi permetteva di sentire quelle interiori, italiane. Quando scrivo ad Aarau sono su un’isola, all’interno di una bolla che nel subconscio contiene la familiarità con l’italiano. Dunque la scrittura si rafforza quando lei è ad Aarau?
Forse qui in Ticino mi ricarico, mi accorgo di ascoltare i discorsi in autobus, in strada o nei negozi, e mi fa molto bene. Le ore sedute a tavolino a scrivere sono molto più numerose ad Aarau. Inoltre si tratta di luoghi pieni di ricordi. La scrittura è nata là e là continua, e lo scontro tra il tedesco e
La scrittrice Anna Felder nella sua abitazione luganese. (Cdt - Chiara Zucchetti)
l’italiano è forse produttivo, fruttuoso. Quando vado ad Aarau è come se ogni volta accendessi un fornello, il mio fornello. Mi reputo una ticinese con la valigia in mano, e ho bisogno di questa continuità. Come vive il Ticino oggi?
È meno lontano di un tempo, perché nel mondo l’italianità è molto più presente. La Svizzera in generale è cambiata, basti pensare a Tra dove piove e non piove, dove gli italiani erano ancora preceduti da molti pregiudizi. L’italianità si trova in molti aspetti della quotidianità, dalla gastronomia al modo in cui oggi la gente si saluta. Grazie alla mia italianità ho potuto immedesimarmi tra due mondi linguistici, anche con degli aspetti di ambiguità. Questo suo vivere a cavallo tra due realtà è anche il riflesso di una sua irrequietezza?
una frase in diversi modi. Questo crea tensione. L’assenza è uno degli aspetti della sua scrittura: con il passare degli anni, lei ha tolto molti elementi.
Sì ma in fondo si tratta di un’assenza che rispecchia la tensione del racconto. Qual è il suo rapporto attuale con la letteratura?
Il mio interesse principale è sempre rivolto a quella italiana, ma guardo anche alla letteratura tedesca e a quella americana. Ho appena comperato Bontempelli, per conoscerlo maggiormente, e amo molto Gadda, Meneghello. Di Meneghello apprezzo molto il lavoro sulla lingua, che è fondamentale. La scrittura è anche una ricerca di onestà, e dunque è necessaria l’elaborazione della parola . Dove e quando
La mia è un’irrequietezza produttiva e bella, in cui nulla è ovvio. Anche ai miei allievi, quando leggevamo dei testi, mostravo come molte cose non fossero ovvie, come si potesse leggere
Anna Felder a Piazzaparola leggerà due racconti inediti (9 settembre, ore 18, hall del LAC). Per il programma: www.dantealighierilugano.ch
quale, anche perché libero da imperativi mediatici troppo prepotenti, e sempre con il fido Matt Damon, il regista era riuscito a fondere finzione e realtà, invenzione e documento. A mutare le regole del thriller in riflessione morale, constatazione sociale e politica. Qualcosa del genere traspare anche dall’inizio di questo Jason Bourne. La faccenda ristagna fra reminiscenze edipiche del protagonista e tentativi sempre più fisici della CIA condotta dal cattivissimo Tommy Lee Jones di liquidare il superman creato grazie a esperimenti perversi. Ma al film riesce pure di riferirsi all’attualità: i misfatti di un uso degenerato dell’informatica, le conseguenze del caso Edward Snowden, gli abusi nella geolocalizzazione, la smodata manipolazione da parte dei social media. Oltre che
uno sfondo eloquente come quello delle manifestazioni politiche in Grecia. Presto, però, la svolta: che fa dilagare la pellicola in un crescendo quasi astratto di esplosioni e carambole, inseguimenti e agguati. Un concentrato d’azione che potrà anche non dispiacere a una parte delle platee, con un Matt Damon ingrassato ma impeccabile. Una svolta che appare tentata dal cinema di Hong Kong? Ma l’universo culturale e di mercato dei blockbuster hollywoodiani non è quello dei maestri asiatici dell’azione e di una violenza parodistica che finisce in balletto coreografico. E Paul Greengrass non sarà mai Johnnie To. Dopo i moti ateniesi di piazza Syntagma, l’abituale girotondo turistico ci porta a Las Vegas, ma il tutto in odore di James Bond.
Damon e il ritorno alle origini Cinema Quarto episodio della saga su Jason Bourne Fabio Fumagalli **Jason Bourne, di Paul Greengrass,
con Matt Damon , Alicia Vikander, Julia Stiles , Tommy Lee Jones, Vincent Cassel (Stati Uniti 2016) Rieccoci al quarto episodio della celebre saga, tratta dai romanzi di Robert Ludlum su Jason Bourne, l’agente smemorato, addestrato dalla solita infame CIA a uccidere contro il proprio volere. Una vera e propria macchina da guerra, a conoscenza di 104 modi di eliminare gli avversari a mani nude; e resa celebre dalla volitiva mascella, oltre che dallo charme bodybuildato di Matt Damon. Un eroe da sempre a rischio d’amnesie dovute allo stress sopportato. Ma con questo, di una vulnerabilità che lo ha
Matt Damon in Jason Bourne.
reso ancora più caro agli spettatori. Dopo il capitolo di proficua collaborazione fra Damon e il regista Paul Greengrass, dopo il rimpiazzo dell’attore con Jeremy Renner (The Bourne Legacy), si ritorna alle origini della formula iniziata nel 2002. In nome di una legge dei sequel che pare ormai imperante nel quadro incerto della produzione attuale. Un prolungamento all’infinito di situazioni e personaggi, forse un tentativo di riappropriarsi di parte del successo dilagante delle serie televisive. Se ne sentiva il bisogno? Forse, per la qualità del cinema di Paul Greengrass, regista cresciuto nell’efficienza televisiva, capace di finalizzare il proprio stile, contraddistinto da una energia cinetica proverbiale. Come in Green Zone (2010) sulla presa della Baghdad di Saddam, nel
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Là dove nulla è ovvio Incontri A colloquio con la scrittrice ticinese Anna Felder,
che sarà ospite della sesta edizione di Piazzaparola
Simona Sala La scrittrice Anna Felder in qualche modo si muove in sordina. Lontana dai riflettori ma attenta a quello che succede nel mondo della letteratura, da sempre segue una strada propria, in cui le parole, la loro scelta, la loro disposizione e le evocazioni che possono portare con sé rivestono la stessa importanza della trama. La lettura si fa dunque stimolante, e una volta entrati nella dimensione che riesce a creare la Felder, si riconosce la densità di testi mai scontati, ma permeati di quelle associazioni insolite (non ovvie, direbbe lei) che scolpiscono intere frasi nella mente del lettore. Come scrisse Italo Calvino dopo avere letto la sua Disdetta (1974), «il suo modo di raccontare (...) richiama esperienze della poesia contemporanea». Anna Felder quest’anno leggerà a Piazzaparola, la manifestazione sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino dedicata alla letteratura, che si svolgerà a Lugano dal 7 al 10 settembre e a Locarno (per i bambini) il 15 settembre. Il «padrino» della manifestazione sarà Cervantes. Fra i numerosi ospiti presenti segnaliamo anche Carlo Silini, Thomas Meyer e Irena Brezna. Anna Felder, dove nasce la sua scrittura?
Sono molto interessata a un quotidiano non fatto di grandi scombussolamenti, ma di storie. Già in questo quartiere bastano solamente due ore perché succedano molte cose. L’importante è metterle a fuoco… È quindi una grande osservatrice?
Non osservo le persone attivamente con la mira di captare. Si tratta piuttosto di corrispondenze strane, incontri casuali, piccole sorprese nel bene e nel male. Credo che chiunque abbia un proprio mistero, perfino la persona apparentemente qualunque o quella più grigia. La letteratura deve dunque mantenere un proprio di mistero…
La vita stessa è un mistero, ciò che ci aspetta, i motivi per cui ci troviamo sulla terra. Nasciamo per avvicinarci alla morte, anche questo paradosso della vita è un mistero. Naviga molto con la sua mente?
Sì certo, ma anche con la scrittura. Quando scrivo mi accorgo che la parola
ha un destino. La prima parola di un romanzo è come la prima nota di una sinfonia: dovrebbe già contenere tutto lo sviluppo. Guardando il suo primo libro e l’ultimo, si osserva un processo di sottrazione lessicale a favore di un’addizione poetica. È un percorso consapevole?
No, inconsapevole. In mezzo ci sono state altre opere e molti racconti; amo molto quest’ultima forma letteraria poiché è stringata, composta, contiene una misura, e in questa misura accende un momento che può svilupparsi. Già nella Disdetta ricordo che gli inizi di capitolo mi parevano importanti, così come il cambiamento di registro e di ritmo. Sono attenta alla sonorità di una pagina, che spesso ne rispecchia anche il contenuto. Questo sviluppo è stato naturale e mi ha portato a condensare e stilizzare. Con il passare degli anni si tende sempre più all’essenziale, si fanno delle scelte. Questo vale anche per le letture. Nella recente edizione di Tra dove piove non piove l’editore Dadò riporta delle pagine del manoscritto originale. Scrive ancora a mano?
L’inizio della scrittura avviene sempre con carta e penna e la calligrafia diventa come un incontro per strada. A volte cambia, anche se solo ai miei occhi: riconosco cosa ho provato scrivendo una determinata parola. In un secondo tempo mi affido anch’io al computer, grazie al quale correggere è più facile. Non rileggo però mai a voce alta, perché il ritmo lo sento internamente. Riesce ad avere il giusto distacco da quanto scrive?
La distanza è necessaria, in questo senso il cestino della carta è importantissimo. Lavoro spesso la sera, ma poi il mattino successivo, a mente più fresca, torno su quello che scrivo. Cosa prova quando rilegge i suoi vecchi testi? Riconosce i suoi pensieri?
A volte mi stupisco per avere già pensato determinate cose, e a quel punto mi rendo conto di ritrovare me stessa. Ho rimaneggiato alcune cose di Tra dove piove e non piove: il testo mi pare a tratti vecchio... ma ero giovane quando scrivevo, e la scrittura deve essere rispettata e nulla rinnegato. Lei è nata in Ticino e ha vissuto
molti anni ad Aarau…
Mio padre era svizzero tedesco ma non mi ha mai insegnato la lingua. La sentivo quando parlava in famiglia o quando andavamo dalla nonna sul lago di Sempach. Il tedesco dunque è sempre risuonato come una lingua familiare.
Più o meno, anche se a noi figli faceva una certa impressione. Mia madre non lo parlava perché diceva che le faceva male alla gola! Forse questo mi ha influenzato... Mentre studiavo ho cominciato a dare supplenze in italiano e in francese, il confronto con il tedesco è dunque andato gradualmente crescendo. Se dovesse contestualizzarsi letterariamente si reputerebbe una scrittrice italofona?
I miei riferimenti sono la Svizzera italiana e l’Italia. Insegnando l’italiano mi occupavo di letteratura italiana, che amo molto in tutte le sue sfaccettature. Amavo perfino i frammenti del Novellino. Mi piace ciò che è frammentario, quanto ha un silenzio prima e dopo: c’è infatti sempre una risonanza significativa. Gli autori che avevo conosciuto allora e che mi hanno indotto a scrivere erano Montale, su cui ho scritto la tesi di laurea, e prima ancora Cesare Pavese e Vasco Pratolini. Ho poi mandato il manoscritto della Disdetta a Italo Calvino, altro autore a me molto vicino. Trovandomi in terra germanofona seguivo con consapevolezza maggiore le uscite in Italia. Sentivo il bisogno di rimpolparmi nella mia lingua e quindi, per conservare la mia identità mi sono legata molto a questi autori. Spesso scrivendo, sentivo in strada voci tedesche, e la scrittura mi permetteva di sentire quelle interiori, italiane. Quando scrivo ad Aarau sono su un’isola, all’interno di una bolla che nel subconscio contiene la familiarità con l’italiano. Dunque la scrittura si rafforza quando lei è ad Aarau?
Forse qui in Ticino mi ricarico, mi accorgo di ascoltare i discorsi in autobus, in strada o nei negozi, e mi fa molto bene. Le ore sedute a tavolino a scrivere sono molto più numerose ad Aarau. Inoltre si tratta di luoghi pieni di ricordi. La scrittura è nata là e là continua, e lo scontro tra il tedesco e
La scrittrice Anna Felder nella sua abitazione luganese. (Cdt - Chiara Zucchetti)
l’italiano è forse produttivo, fruttuoso. Quando vado ad Aarau è come se ogni volta accendessi un fornello, il mio fornello. Mi reputo una ticinese con la valigia in mano, e ho bisogno di questa continuità. Come vive il Ticino oggi?
È meno lontano di un tempo, perché nel mondo l’italianità è molto più presente. La Svizzera in generale è cambiata, basti pensare a Tra dove piove e non piove, dove gli italiani erano ancora preceduti da molti pregiudizi. L’italianità si trova in molti aspetti della quotidianità, dalla gastronomia al modo in cui oggi la gente si saluta. Grazie alla mia italianità ho potuto immedesimarmi tra due mondi linguistici, anche con degli aspetti di ambiguità. Questo suo vivere a cavallo tra due realtà è anche il riflesso di una sua irrequietezza?
una frase in diversi modi. Questo crea tensione. L’assenza è uno degli aspetti della sua scrittura: con il passare degli anni, lei ha tolto molti elementi.
Sì ma in fondo si tratta di un’assenza che rispecchia la tensione del racconto. Qual è il suo rapporto attuale con la letteratura?
Il mio interesse principale è sempre rivolto a quella italiana, ma guardo anche alla letteratura tedesca e a quella americana. Ho appena comperato Bontempelli, per conoscerlo maggiormente, e amo molto Gadda, Meneghello. Di Meneghello apprezzo molto il lavoro sulla lingua, che è fondamentale. La scrittura è anche una ricerca di onestà, e dunque è necessaria l’elaborazione della parola . Dove e quando
La mia è un’irrequietezza produttiva e bella, in cui nulla è ovvio. Anche ai miei allievi, quando leggevamo dei testi, mostravo come molte cose non fossero ovvie, come si potesse leggere
Anna Felder a Piazzaparola leggerà due racconti inediti (9 settembre, ore 18, hall del LAC). Per il programma: www.dantealighierilugano.ch
quale, anche perché libero da imperativi mediatici troppo prepotenti, e sempre con il fido Matt Damon, il regista era riuscito a fondere finzione e realtà, invenzione e documento. A mutare le regole del thriller in riflessione morale, constatazione sociale e politica. Qualcosa del genere traspare anche dall’inizio di questo Jason Bourne. La faccenda ristagna fra reminiscenze edipiche del protagonista e tentativi sempre più fisici della CIA condotta dal cattivissimo Tommy Lee Jones di liquidare il superman creato grazie a esperimenti perversi. Ma al film riesce pure di riferirsi all’attualità: i misfatti di un uso degenerato dell’informatica, le conseguenze del caso Edward Snowden, gli abusi nella geolocalizzazione, la smodata manipolazione da parte dei social media. Oltre che
uno sfondo eloquente come quello delle manifestazioni politiche in Grecia. Presto, però, la svolta: che fa dilagare la pellicola in un crescendo quasi astratto di esplosioni e carambole, inseguimenti e agguati. Un concentrato d’azione che potrà anche non dispiacere a una parte delle platee, con un Matt Damon ingrassato ma impeccabile. Una svolta che appare tentata dal cinema di Hong Kong? Ma l’universo culturale e di mercato dei blockbuster hollywoodiani non è quello dei maestri asiatici dell’azione e di una violenza parodistica che finisce in balletto coreografico. E Paul Greengrass non sarà mai Johnnie To. Dopo i moti ateniesi di piazza Syntagma, l’abituale girotondo turistico ci porta a Las Vegas, ma il tutto in odore di James Bond.
Damon e il ritorno alle origini Cinema Quarto episodio della saga su Jason Bourne Fabio Fumagalli **Jason Bourne, di Paul Greengrass,
con Matt Damon , Alicia Vikander, Julia Stiles , Tommy Lee Jones, Vincent Cassel (Stati Uniti 2016) Rieccoci al quarto episodio della celebre saga, tratta dai romanzi di Robert Ludlum su Jason Bourne, l’agente smemorato, addestrato dalla solita infame CIA a uccidere contro il proprio volere. Una vera e propria macchina da guerra, a conoscenza di 104 modi di eliminare gli avversari a mani nude; e resa celebre dalla volitiva mascella, oltre che dallo charme bodybuildato di Matt Damon. Un eroe da sempre a rischio d’amnesie dovute allo stress sopportato. Ma con questo, di una vulnerabilità che lo ha
Matt Damon in Jason Bourne.
reso ancora più caro agli spettatori. Dopo il capitolo di proficua collaborazione fra Damon e il regista Paul Greengrass, dopo il rimpiazzo dell’attore con Jeremy Renner (The Bourne Legacy), si ritorna alle origini della formula iniziata nel 2002. In nome di una legge dei sequel che pare ormai imperante nel quadro incerto della produzione attuale. Un prolungamento all’infinito di situazioni e personaggi, forse un tentativo di riappropriarsi di parte del successo dilagante delle serie televisive. Se ne sentiva il bisogno? Forse, per la qualità del cinema di Paul Greengrass, regista cresciuto nell’efficienza televisiva, capace di finalizzare il proprio stile, contraddistinto da una energia cinetica proverbiale. Come in Green Zone (2010) sulla presa della Baghdad di Saddam, nel
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Cultura e Spettacoli
Per un pubblico disponibile Musica Le Settimane Musicali di Ascona (5 settembre-14 ottobre) sono giunte alla 71esima edizione: ne abbiamo
parlato con il direttore artistico nonché pianista di fama Francesco Piemontesi
Il pianista e direttore artistico Francesco Piemontesi. (Felix Broede)
Enrico Parola Stasera si inaugurano le Settimane Musicali di Ascona. Lì e a Locarno sfileranno grandi nomi e giovani emergenti selezionati da Francesco Piemontesi; 33enne locarnese, pianista di caratura internazionale (è reduce da concerti a Los Angeles con la Philharmonic e alla Wigmore Hall), è direttore artistico della storica rassegna ticinese. Maestro, la sua reazione quando le chiesero di assumere la guida delle Settimane Musicali?
All’inizio dissi di no, come avevo sempre fatto davanti alle richieste di altri festival. Poi mi sono messo a considerare la vita del concertista: sempre in giro, come casa le stanze d’albergo, sempre lontano da casa. Le Settimane mi davano la possibilità non solo di tenere un concerto, ma di fare qualcosa di grande e bello per la mia città, la mia terra. Qui ho assistito al mio primo concerto, c’era Alicia de Larrocha con le Goyescas di Granados, qui quando torno incontro ex compagni di scuola, amici ed ex maestri. Quanto aiuta essere un concertista?
Conosco direttori, orchestre e altri solisti con cui ho suonato, spesso una telefonata e si organizza tutto; ad esempio Gianandrea Noseda e la London Symphony, con cui c’è grande stima reciproca. Ha imparato qualcosa?
Davanti a certi atteggiamenti divistici e antipatici ho capito ancor meglio quanto
umiltà, disponibilità e pazienza siano valori utili anche nel nostro mondo. Da interprete ha gusti precisi. Sceglie musicisti che le sono affini o, per timore di personalizzare troppo, artisti che sente lontani?
Entrambe le opzioni, ma più la seconda. Mi capita di chiedere a un certo pianista un certo repertorio perché mi convince come lo affronta, ma in questi anni ho invitato parecchi nomi che mi sono
stilisticamente lontani. Thomas Zehetmair per me era perfetto nel Concerto di Beethoven, Vilde Frang ha interpretato Schumann in un modo molto particolare. Andras Schiff ha suonato la Fantasia cromatica di Bach in un modo che io non avrei mai fatto, ma che alla fine mi ha stregato. Come mi accadeva ascoltando Michelangeli: iniziavo a sentire il Carnaval di Schumann e mi veniva da pensare che fosse pazzo, dopo quattro minuti
capivo che era un genio. Su quale orizzonte si affaccia questa 71esima edizione?
L’ho dichiarato fin dal titolo: I fenomeni musicali della prima metà del Novecento. Decenni di grande fermento dove i linguaggi si ramificano e diversificano. C’è chi continua a guardare all’800 come Rachmaninov, la cui seconda sinfonia aprirà la rassegna con Noseda e la London; chi all’opposto rompe col passato: Berg, affidato al pianista statunitense Stephen Kovacevich, e Schönberg, con la Verklärte Nacht presentata nella versione per trio. Ci sono gli impressionisti, qui Ravel e Debussy, e chi elabora un linguaggio tutto suo come Shostakovich (Secondo Concerto per violino con l’Orchestra della Svizzera Italiana e Alina Ibragimova) e Janacek, boemo come Dvorak: tra questi due autori la Czec Philharmonich incastona il Concerto per violino K 219 di Mozart, solista una stella come Hilary Hahn. Però nella seconda parte del cartellone il 900 scompare: l’impressione è che classici e romantici siano ovvi, la presenza del 900 sia quasi da giustificare con scelte tematiche particolari…
Mozart e Beethoven per la Osi con Poschner, l’Ensemble Zefiro chiuderà il 14 ottobre con tre Ouverture di Bach. E purtroppo è vera anche la prima osservazione: c’è sempre diffidenza verso la musica non dico contemporanea ma anche moderna, per lo più il pubblico va a concerto non per conoscere qualcosa ma per ascoltare il già saputo. Poi capita che ascoltino brani nuovi – quando ho accostato i Preludi di Debussy e Ligety in tanti mi hanno confessato il loro stupore per la bellezza di Ligety – ma impaginare un programma solo con i loro nomi è sempre una sfida ardua, soprattutto in un festival e non in una stagione che ha i suoi abbonati. E alle Settimane cosa succede?
Devo dire che sento la disponibilità del pubblico verso proposte non scontate. Uno dei motivi che hanno portato alla mia nomina è la fiducia della gente nei miei confronti; mi hanno chiesto di suonare e non solo progettare, sto affrontando i cinque concerti di Beethoven, quest’anno il terzo con Norrington. Devo suonare ancor meglio del solito, proprio perché sento questa fiducia e questa responsabilità. In collaborazione con
L’impressione è giusta: Roger Norrington dirige la Chamber Orchestra of Europe in Beethoven e Haydn, Diego Fasolis esplora coi Barocchisti il mito di Orfeo, Le Cercle de l’Harmonie accosta le ultime tre sinfonie di Mozart, ancora Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Undici anni per un capolavoro Letteratura È fresco di stampa Eccomi, il nuovo, atteso libro del giovane scrittore statunitense
Jonathan Safran Foer
Mariarosa Mancuso I numeri sono importanti. Jonathan Safran Foer ha 39 anni, gli ultimi 11 li ha passati a scrivere un romanzo di quasi 700 pagine, in libreria con il titolo Eccomi. Non che fosse uno sconosciuto: il suo primo lavoro, uscito nel 2002 da Guanda con il titolo Ogni cosa è illuminata, lo aveva subito proiettato tra i grandi d’America. Raccontava la storia di Jonathan, giovanotto ebreo in Ucraina alla ricerca di Augustine, la donna che salvò la vita a suo nonno – poi scappato negli USA – durante le persecuzioni naziste, nella città ormai fantasma di Trachimbrod. Ha con sé una vecchia fotografia e si fa accompagnare da Alex, una guida dall’inglese incerto e bizzarro: sbaglia i contrari e fa scempio di ogni frase idiomatica (con gran divertimento per il lettore). Tre anni dopo arrivò il secondo romanzo, Molto forte, incredibilmente vicino (sempre da Guanda la traduzione italiana). Il protagonista è Oskar Shell, un ragazzino di nove anni che ha perso il padre nell’attentato alle Torri Gemelle. La segreteria telefonica di casa ha registrato cinque messaggi accorati prima del crollo, lui avrebbe potuto rispondere a una sesta chiamata. Non lo ha fatto, paralizzato dal terrore, e non riesce a perdonarselo. Il secondo romanzo è difficile per tutti, quando il primo ha avuto un successo strepitoso. Ma con tutto il rispetto, sembrava meno appassionato e più studiato a tavolino del precedente. Se niente importa celebra le gioie del vegetarianesimo, aiutandosi con il
L’autore in una foto scattata nel quartiere di Neveh Tzedek a Tel Aviv. (Keystone)
racconto sempre un po’ atroce degli allevamenti intensivi di polli e mucche. Subito adottato come bibbia chic di chi non mangia carne (tra i seguaci, Natalie Portman che intrattiene con lo scrittore uno scambio di e-mail recentemente reso pubblico, in concomitanza con l’uscita – in poche e scelte sale USA – del film che l’attrice ha tratto dall’autobiografia di Amos Oz, Una storia d’amore e di tenebra). Concede al massimo di mangiare la carne di animali uccisi con le proprie mani. Risultato (ma forse è solo
un leggenda metropolitana): i macellai di Brooklyn, dove lo scrittore abita con altri colleghi, sono costretti a finire pietosamente galline e conigli che i radical chic sono riusciti solo a tramortire. Nulla lasciava immaginare un romanzo strepitoso come Eccomi. Esce in italiano una settimana prima che nel resto del mondo, regalo che Jonathan Safran Foer ha fatto alla Guanda diretta da Luigi Brioschi, l’editore straniero che per primo si era innamorato di Ogni cosa è illuminata. Strepitoso per maturità,
soprattutto – e naturalmente ogni confronto con quel che a 40 anni scrivono mediamente gli scrittori italiani viene sospeso per decenza. Nell’età in cui alcuni dei nostri ancora rimpiangono la morosa del liceo, Jonathan Safran Foer disegna il ritratto di un matrimonio che si sta sfasciando. Il figlio ragazzino Sam è stato espulso dalla scuola per una serie di insulti razziali scritti su un foglietto. Il nonno Isaac sta meditando se suicidarsi o trasferirsi all’ospizio per vecchi ebrei, e si dà un’al-
tra scadenza: il Bar Mitzvah del primo pronipote (il dottore, interpellato dai familiari, sostiene invece che il vecchietto dovrebbe già essere morto da cinque anni, in base alle certezze della medicina). Sono pagine bellissime e devastanti, per i dettagli crudeli e la tristezza di un amore che finisce, complice un secondo cellulare che Jacob teneva nascosto alla moglie Julia, e hackerata da Sam rivela una conversazione piuttosto ardita con una sconosciuta. Ma da un divorzio – nella vita o nei romanzi – siamo passati tutti, e fin qui si tratta di uno splendido esercizio su un tema già noto. Quel che davvero sorprende – e non ci aspettavamo, abituati come siamo a patetici distinguo del tipo «Non sono antisemita, sono contro lo stato di Israele» – è appunto la celebrazione di Israele. «Il luogo al mondo dove le cose vanno meglio», certifica Tamir, cugino di Jacob, dopo aver fatto notare che «a vent’anni tu eri all’università e cercavi di non annoiarti, io ero nell’esercito e cercavo di restare vivo». Quando un terremoto distrugge Gerusalemme assieme a un pezzo di Medio Oriente, anche gli ebrei americani sono costretti a schierarsi. Siamo appena all’inizio. Altre pagine notevoli riguardano il rapporto tra padri e figli. Non c’è aspetto della cultura ebraica – religioso o mondano, tradizionale o moderno – che sfugga al giovane scrittore. Da applauso. E adesso aspettiamo le critiche tiepide e acidine degli scrittori italiani, non tarderanno ad arrivare.
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Cultura e Spettacoli
Un momento dello spettacolo Sogni di un’altra vita andato in scena al Monte Verità di Ascona. (Keystone)
Un dipinto acustico al Monte Verità Teatro Successo per l’avventura scenica
sul monte dell’utopia
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Giorgio Thoeni Sabato 27 agosto si sono concluse nel parco del Monte Verità di Ascona le repliche di Sogni di un’altra vita, spettacolo attorno ai primi vent’anni di storia di ciò che ha rappresentato la collina di Monescia, scelta all’inizio del ’900 da un gruppo di pionieri idealisti come luogo del loro sogno sociale. Anzi, dei Sogni di un’altra vita, come recita il titolo di questo «piccolo-grande kolossal» che ha radunato diversi importanti sostenitori fra cui il Percento culturale di Migros Ticino. È il frutto di un’organizzazione complessa e significativa con la Fondazione Monte Verità, il Werkstatt Theater di Lucerna, il Teatro San Materno, il Teatro Dimitri, con regista, drammaturgo, scenografa e attori professionisti accanto ad attori amatoriali provenienti dalla nostra regione e dall’Italia. Nell’idea di fondo, in un certo senso questa operazione ricalca il modello di Centovalli-Centoricordi, un progetto del 2012 con Livio Andreina (regia) e Anna Maria Glaudemans (costumi, trucco, maschere e scenografia) e Oliviero Giovannoni (musiche di scena). Non è dunque un caso se sono stati nuovamente chiamati per realizzare una proposta incentrata sulla magica fascinazione del Monte Verità, che all’inizio del 20esimo secolo attirò psicologi, artisti, filosofi, danzatori, tutti alla ricerca di un’altra vita per realizzare un sogno collettivo in alternativa a una società che si stava industrializzando sempre di più imponendo ritmi opprimenti. Una ribellione alla borghesia benpensante attraverso la riscoperta della natura con l’ausilio dell’arte, della danza, della pittura, della filosofia, della politica e di un’alimentazione naturale legata a uno stile di vita particolarmente semplice e severo. Un ghiotto menu per il drammaturgo Hanspeter Gschwend che ha ricamato su quelle atmosfere dapprima sei deliziosi siparietti lungo un percorso fra i luoghi «cult» del Monte Verità. Una passeggiata nel parco per delle brevi ouvertures con alcuni protagonisti di quegli anni, come lo
psicologo ideologo della rivoluzione sessuale Otto Gross e Lotte Hattemer o «il panettiere» Karl Vester, l’anarchico Karl Mühsam, Ida Hofmann e Henri Oedenkoven – fra i fondatori del centro – o ancora l’allora sindaco di Ascona con il capo della polizia che si interrogano sulle «bizzarrie» di Rudolf von Laban, Mary Wigman e tutti quei «balabiott». Dopo l’escursione segue lo spettacolo visto da un’alta tribuna posta ai lati del bosco: un’ora e mezza in cui i personaggi danno vita alle battute del testo per raccontare – in una sintesi esemplare – un’epoca, quei primi venti anni a cavallo fra utopia e creatività che porteranno anche al naufragio di un sogno. Un epilogo drammatico che lascerà però spazio a un’idea che continua a rivivere nel segno del Monte Verità, il simbolo di un’utopia motore di cambiamenti. Sul fronte recitativo, fra tedesco e italiano, dobbiamo citare Brita Kleindienst, Kristoph Keller, Judith Koch, Manuel Kühne e Marco Cupellari. Il ruolo-mascotte di Karl, inizialmente coperto da Dimitri, scomparso poco dopo il debutto, è stato assunto dallo stesso regista con grande e riuscita aderenza con il personaggio. Le musiche originali sono frutto dell’incontro fra Oliviero Giovannoni e Michael Fleiner per l’orchestra (Max Pizio, Michael Fleiner, Lorenzo Blanc, Paolo e Jessica Cervetti, Mauro Pesenti). Nell’orchestra e sulla scena fra teatro e danza troviamo l’infaticabile ed entusiasta Masha Dimitri. Un plauso particolare, oltre che all’accurato lavoro della regia, va certamente alle coreografie curate da Tiziana Arnaboldi per i movimenti ricchi d’emozione ad opera di Selina Thüring, Faustino Blanchut con Carlotta Dionisio, Tiziana Vonlanthen e Camilla Stanga. Al termine di ogni rappresentazione un buffet notturno con assaggi vegetariane. Sogni di un’altra vita ha accompagnato l’estate asconese sull’arco di 21 repliche seguite da un numeroso pubblico che ha accolto festante un «dipinto acustico» a tre dimensioni con parola, musica e danza.
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Cultura e Spettacoli
Per una città a misura d’uomo Architettura A San Pietro di Stabio la seconda edizione del Workshop di Progettazione Urbana aperto a tutti
Alessia Brughera Le città vivaci e con una forte connotazione identitaria sono quelle in cui lo spazio urbano è vissuto dalla collettività: è l’utilizzo delle aree pubbliche da parte della gente a rivelarne infatti la natura di luoghi gradevoli, a misura d’uomo, contenitori di esperienze, scenari di relazioni ed espressione di cultura. Ecco perché riqualificare e reinventare gli spazi cittadini in risposta alle esigenze delle persone risulta di estrema importanza per rafforzare le relazioni sociali nella comunità. È questo l’obiettivo del Workshop di Progettazione Urbana, giunto alla sua seconda edizione, organizzato dal 12 al 17 settembre a San Pietro di Stabio. «Si tratta di un seminario», spiega l’architetto Felicia Lamanuzzi, coordinatrice dell’atelier, «che intende riscoprire il valore dello spazio urbano come luogo collettivo, innescare, attraverso dinamiche interdisciplinari, la sua riappropriazione e avviare il miglioramento della qualità della vita». La finalità è dunque quella di concepire spazi deputati alla comunicazione e all’integrazione, in cui gli abitanti si possano riconoscere consolidando il loro rapporto con il territorio. Proprio in quest’ottica, l’iniziativa è rivolta non solo a studenti e giovani professionisti che operano nell’ambito dell’architettura, del giardinaggio e della progettazione paesaggistica, ma anche, e soprattutto, ai cittadini, che sono i fruitori diretti delle aree
Il docente, geografo e ricercatore Gian Paolo Torricelli sarà fra gli ospiti che interverranno durante il workshop. (Tipress)
pubbliche. Alla base del workshop, difatti, c’è l’idea di creare gruppi eterogenei in cui il dibattito tra gli addetti ai lavori e la gente comune possa far scaturire suggerimenti e spunti preziosi per attuare interventi che intensifichino l’interazione tra l’uomo e la città. Così le competenze degli architetti e la loro visione qualitativa degli spazi avranno modo di misurarsi con le reali necessità delle persone: «È un percorso che mira a coinvolgere i cittadini di ogni provenienza professionale ed età, invitandoli a prendere parte a iniziative volte alla conoscenza del
territorio in cui vivono e a discutere insieme le proposte per migliorarlo», continua Felicia Lamanuzzi. «Si vuole offrire un’opportunità di dialogo e confronto su tematiche come la salvaguardia del paesaggio, per le quali proprio la consapevolezza dell’opinione pubblica può costruire il tessuto favorevole al miglioramento». Come è avvenuto nella scorsa edizione, il laboratorio intensivo ruota attorno allo studio di progetti atti a riqualificare creativamente quegli spazi considerati strategici per le loro potenzialità di diventare sedi di incontro e
di condivisione. Non si tratta di grandi aree da sottoporre a sperimentazioni di grande respiro, bensì di piccole porzioni di territorio, spesso anche marginali, che si presentano però come zone attive, la cui modificazione può avere un impatto non indifferente sulla qualità della vita urbana: si tratta di «luoghi fisici specifici», spiega l’architetto Lamanuzzi, «in cui poter definire delle azioni concrete, delle tecniche di trasformazione, anche minimali, capaci però di stimolare il metabolismo urbano e di produrre una conversione dello spazio pubblico da anonimo a identitario».
Rileggere questi luoghi, rivalutarli con estrema attenzione tenendo conto delle loro peculiarità ambientali e renderli riconoscibili agli occhi degli abitanti sarà un modo per testare l’efficacia di un approccio alla progettazione che si vuole distinguere dalla pianificazione diffusa, sempre meno interessata al rispetto del territorio e ai bisogni dei cittadini. Oltre ai laboratori creativi, il workshop fornirà una valida occasione di dibattito attraverso una serie di conferenze tenute da esponenti della cultura ticinesi e italiani: architetti paesaggisti, geografi, filosofi e artisti (tra questi ultimi parteciperà ancora Alex Dorici, street artist che ha fatto della città il teatro delle sue creazioni) che discuteranno con il pubblico sulle questioni inerenti la valorizzazione delle aree urbane da punti di vista differenti. Quello di San Pietro si pone dunque come un workshop dall’anima semplice, che si rivolge a tutti per dar vita a un confronto costruttivo e stimolante su come ritornare a vivere i tanti spazi cittadini che rischiano sempre più di diventare anonimi, e che invece dovrebbero essere luoghi dove la gente possa trascorrere momenti ben vissuti della sua avventura umana. Dove e quando
Workshop di Progettazione Urbana San Pietro di Stabio, 12-17 settembre 2016. Per informazioni: www.architettolamanuzzi.com Annuncio pubblicitario
La SMUM si allea con i festival Jazz La scuola di Lugano ha rinnovato
il suo comitato e rilancia la sua immagine Ci sono piccoli avvenimenti che meritano di essere immortalati, perché particolarmente significativi di una situazione o di un contesto: mentre chiacchieriamo con Giorgio Meuwli, chitarrista, docente e direttore della Scuola di Musica Moderna di Lugano, Meuwli estrae gli occhiali dal loro astuccio. Insieme a quelli, e inavvertitamente, dall’astuccio cade a terra un diapason... Ci guardiamo negli occhi e ridiamo per questa tecnologia vintage, oggi nell’epoca degli accordatori elettronici. L’oggetto è comunque indice di una fedeltà al mestiere, di una competenza che viene dalla «vecchia scuola». Un’attitudine artigianale che rincuora. Siamo alla conferenza stampa di presentazione della nuova stagione di attività della SMUM di Lugano. L’istituto, che conta tra i suoi docenti un gruppo di jazzisti di grande esperienza e di alto profilo artistico. È la scuola musicale «non classica» più longeva del nostro cantone e a distanza di più di vent’anni dalla sua nascita può guardare al passato con una certa fierezza. Alcuni dei migliori nostri giovani musicisti jazz, pop e rock che si stanno facendo onore sulle scene musicali non soltanto elvetiche si sono formati propri nelle aule del vecchio «Studio Radio» alla Foce di Lugano. Per guardare al presente, la SMUM si colloca oggi su un mercato in piena espansione: come ha ricordato Guido Parini durante l’incontro con la stampa, i giovani che scelgono una carriera musicale oggi possono contare su una formazione di qualità e su un mercato del lavoro ricettivo. Probabilmente molti di loro non troveranno un impiego da rockstar, ma le opportunità nel
settore dell’animazione musicale sono tutto sommato ampie e in espansione. Certo, l’ambizione non ancora soddisfatta dell’istituto luganese è quella di diventare scuola accademica. I suoi migliori allievi possono oggi frequentare un corso «pre-professionale», che in 8 semestri li porta ad essere pronti per iscriversi a una delle cinque scuole di jazz svizzere. Chi l’ha fatto si è presentato sulla scena nazionale con le carte in regola. Resta però nei responsabili della SMUM la speranza che la scuola, affiancando la propria offerta a quella del Conservatorio della Svizzera italiana, possa finalmente aspirare a un ruolo universitario nel contesto del nostro cantone. «I tempi delle decisioni politiche hanno un loro corso» ha commentato Jacques Ducry, nuovo presidente della SMUM, lasciando intendere che le discussioni di pianificazione scolastica hanno un’evoluzione dettata da... altri ritmi. Presentando alla stampa anche il nuovo comitato della Scuola, Ducry ha tenuto a sottolineare un importante novità: tra i membri del nuovo gruppo direttivo sono entrati proprio quest’anno i due direttori delle principali rassegne jazz cantonali, Estival e Jazzascona. Jacky Marti e Nicolas Gilliet porteranno in comitato il peso della loro esperienza, il patrimonio dei loro contatti e anche nuove idee per la promozione della scuola. Intanto, da stasera riprendono i corsi, con una serata di «porte aperte» (dalle 18.00). Il 20 settembre poi giornata speciale con workshop di Billy Cobham (ore 18.00) e concerto della Smum Big Band con Franco Ambrosetti (20.45) al Foce. Info su www.smum. ch. /AZ
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Equivoci redditizi I telespettatori non leggono i titoli di coda dei programmi. Io per primo. Non abbiamo tutti i torti, specie quando scorrono gli interminabili rulli finali dei film americani, dove sono indicati i nomi e le mansioni di tutti, ma proprio tutti, coloro che hanno dato una mano, anche di quelli che passavano di lì per caso. Per una volta fateci caso, troverete il nome di chi ha retto la scala all’elettricista che doveva cambiare una lampadina e quello dell’assistente parrucchiera che ha spruzzato di lacca il ciuffo ribelle di una comparsa che transitava sullo sfondo mentre i due protagonisti si baciavano. Credo che le emittenti televisive siano obbligate a trasmetterli per contratto quando noleggiano un film; in caso contrario sarebbe un caso di puro masochismo. Da questa bella abitudine di non leggere i titoli finali ho tratto qualche vantaggio, lo confesso. Per spiegarmi devo parlare di un caso personale, mi scuso in anticipo. Dunque: subito dopo la chiusura del telegiornale della seconda rete della Rai va in onda un programma dove si parla con competenza di cibo
e di vini: Eat Parade. Sulle immagini di chiusura scorre, tra gli altri, il nome di chi l’ha realizzata: Bruno Gambacorta. Lo conosco, siamo diventati amici quando per qualche mese ho lavorato alla sede della Rai di corso Sempione a Milano; consegnavano a lui la mia posta e viceversa. È un bravo giornalista, laureato in medicina, originario di Benevento. La mia tesi, suffragata da prove, è che talvolta i telespettatori distratti, arrivati al Gamba del cognome lo completino con il mio «rotta» anziché con il suo «corta». Inoltre lui resta sempre dietro le quinte del programma, non lo si vede mai in faccia, al contrario di quanto in passato è successo a me. Un bel giorno, mentre sto leggendo un servizio sui vini che hanno vinto i «Tre Bicchieri», assegnati ogni anno dal Gambero Rosso, suonano al citofono di casa e il corriere mi consegna un cartone di sei bottiglie inviate dall’enoteca nazionale di Siena. Sono le sei etichette che hanno conseguito i Tre Bicchieri, ciascuna per la sua categoria, tra cui un Brunello di Montalcino caro come l’oro.
della cittadina di provincia dove si è effettivamente svolto uno degli episodi del romanzo abbiamo messo quello di Sessa Aurunca dove nessuno di noi era mai stato; l’abbiamo fatto solo perché suonava bene alle nostre orecchie. Una lettrice del luogo, lusingata, ha suggerito al sindaco di invitarci. E ora eccoci, su una bella piazza affollata. Al tavolo degli oratori, oltre all’assessore alla cultura del comune, trova posto anche il presidente del consorzio dei produttori di mozzarella di bufala, rinomata specialità locale. Quando gli danno la parola spiega: «In onore del nostro ospite abbiamo preparato una degustazione delle nostre mozzarelle, nelle varie specialità». In effetti sull’altro lato della piazza hanno allestito un lungo tavolo con un trionfo di prodotti caseari, gestito da tre signori vestiti da cuochi. Il presidente completa il suo pensiero: «L’abbiamo fatto nella speranza che il nostro illustre ospite parli bene di noi nel suo bel programma televisivo». Cosa fare? Ringraziare e lasciar correre l’equivoco? Quando, dopo i saluti, mi danno la parola per il-
lustrare il romanzo, decido di togliermi il peso e rivelo che l’autore di Eat Parade è l’Altro. Tanto oramai, ho pensato, il tavolo della degustazione è stato allestito e non oseranno smontarlo. Così è stato, la mozzarella non è in cima alla mia classifica dei formaggi ma quella di Sessa Aurunca è superlativa. Gli organizzatori mi hanno poi mostrato dei ritagli dai giornali locali dove la presentazione era annunciata con il nome dell’Altro. Se non sono costretto a farlo non svelo l’equivoco. Due anni or sono, all’ultimo Salone del Gusto di Torino, il responsabile dello stand dell’Umbria mi ha quasi costretto ad accettare una discreta quantità di omaggi di prodotti tipici della regione. Avevo deciso di non dirgli niente, quando, prima di congedarmi, domanda: «Posso avere il suo indirizzo e mail? Così possiamo mandarle i nostri comunicati». Ha impugnato un bloc notes dicendo: «Dunque, Bruno Gambacorta...» Ho dovuto correggerlo per dettargli la mia mail, tenendo ben stretti in mano i due sacchetti pieni di prodotti tipici, ciauscolo compreso.
D’altra parte, conclude lo stoico latino, è assai stolto temere le catastrofi naturali, perché portano la morte né più né meno delle malattie, degli incidenti, di banalità varie. «Prima o poi questa terra mi ricoprirà. Che differenza c’è se sarò io a gettarla su di me o vi si getterà da sola?». Tra l’altro vedere che anche la terra soffre ci fa capire che anch’essa è mortale, e ci consola, ma i vantaggi dei terremoti non finiscono qui: i terremoti infatti ci ricordano che tutte le vite terminano con la morte e tu, Lucilio (a cui le Questioni sono dedicate), «medita questo soltanto: non aver paura della parola “morte”; fa’ sì che ti diventi familiare, pensandoci molto, cosicché, se ce ne sarà bisogno, tu sia in grado di andarle incontro». Lasciamo Seneca, del quale riesco ad apprezzare solo quest’ultimo invito a non dimenticare la fine della vita. Lasciamo dunque Seneca e vediamo cosa risponde un utente del blog: «ecco, ecco le solite parole astratte dei filosofi che stanno
in cattedra, comodi e lontani dalla vita! Prova a essere in casa durante una scossa forte e vedrai, caro Seneca, che pensieri sublimi riuscirai a proporci». Più o meno l’accusa di Rousseau a Voltaire: «voi vivete libero in seno all’abbondanza, e sicuro dell’immortalità ormai raggiunta, filosofeggiate tranquillamente, e tuttavia non vedete altro che il male sulla terra». Rousseau si sente invece «uomo oscuro, povero, solo, tormentato da un male senza rimedio», che però medita con piacere nel suo eremo e trova «che tutto è bene». Ma sia il pedagogo di Nerone che i membri del circolo dei philosophes sono in buona compagnia: per Leibniz viviamo nel migliore dei mondi possibili, e se vi si togliesse un qualcosa di male perderebbe la sua armonia e non sarebbe più il migliore; per Rousseau le catastrofi naturali livellano equamente la società, impoverendo i ricchi e arricchendo i poveri; per Kant (che scrisse tre opere sui terremoti subito dopo
quello di Lisbona), per quanto sia inutile pensare di comprendere razionalmente il perché di queste disgrazie, bisogna apprezzarle in quanto ricordano all’uomo i suoi limiti e l’ammoniscono a non pretendere di generare «dimore eterne su questo palcoscenico di vanità». Hegel, poi, vedeva i terremoti come parti della rigidezza, della negatività che si libera ed evolve positivamente, così come Croce li intendeva come «gradini della negatività» per superarsi. Eppure, siamo ancora qui, secoli dopo i grandi pensatori, a non sapere come vincere la paura e soprattutto l’ineluttabilità dei terremoti e delle loro conseguenze. Un’idea ci sarebbe, ed è stata accennata sia da Seneca che da Rousseau: prima di poter prevedere o addirittura evitare i terremoti, rispettiamo la terra e le leggi sulle costruzioni antisismiche. È meglio rinunciare al balconcino che mi ricorda il bisnonno defunto, piuttosto che raggiungerlo prima del tempo e in buona compagnia.
cambiato il concetto di capolavoro se nei capolavori attuali non c’è mai una descrizione capace di emozionare come questa (tra le tante): «La pioggia aveva cessato di cadere; cominciava a farsi giorno, e sui rami dei meli privi di foglie se ne stavano immobili certi uccelli che drizzavano le loro piccole piume nel vento gelido del mattino» (è troppo un 6?). Del resto, se Faulkner confessava di leggere ogni anno Shakespeare, Balzac e Flaubert come certe persone fanno con la Bibbia (e non citava McInerney), avrà avuto qualche buona ragione. «Il vantaggio di una prosa che sembra una corda allentata è che lo scrittore non ci si può impiccare», scrisse un critico cattivo a proposito dell’autore de Le mille luci di New York e, metafora suicidaria a parte, come dargli torto. Ma di quanti libri si potrebbe affermare la stessa cosa? Quante corde allentate! Non sembra però che sia un’opinione condivisa, se in tanti sostengono che è letteralmente impossibile sottrarsi al
fascino di un incipit come quello del romanzo Io prima di te, da tempo in vetta alle classifiche di vendita ovunque nel mondo. Autrice la giornalista inglese Jojo Moyes: «Quando lui esce dal bagno lei è sveglia, appoggiata ai cuscini, e sta sfogliando i dépliant di viaggi che ha trovato sul comodino. Indossa una sua T-shirt e i lunghi capelli arruffati sono un chiaro richiamo alla notte precedente. L’uomo resta sulla porta ad assaporare il breve flashback, strofinandosi l’asciugamano sulla testa per asciugarsi i capelli. Lei alza gli occhi dal dépliant, imbronciata. Forse è un po’ troppo grande per mettere il broncio, ma i due stanno insieme da un tempo abbastanza breve da farlo ancora apparire un atteggiamento carino». Altro che corda allentata (2). Un paio di domande a Jojo: se qualcuno si strofina la testa con un asciugamano è per asciugarsi che cosa? I piedi? Le cosce? Il flashback quanto può essere lungo? In cosa consiste un atteggiamento carino? Trovo già prolisse le tre-quattro frasi
iniziali, figurarsi l’intero libro: eppure piace da impazzire. Per i lettori del sito InternetBookShop (Ibs) «ti prende subito, fino alla fine» e gli aggettivi si sprecano: stupendo, assolutamente fantastico, travolgente, tenero, commovente… Voto dei lettori: 4.8/5. Vado a cercare su Ibs i voti a Madame Bovary e trovo un solo, timido 4/5 firmato da Antonella, la quale dice che ha cominciato a leggere Flaubert con sospetto temendo che fosse pesante, ma poi si è ricreduta. Buon per lei. Ho visto la copertina del megaseller rosa della Moyes in una spiaggia pugliese, sull’asciugamano di una ragazza che alternava la lettura con la spremitura dei brufoli del suo fidanzato: uno spettacolo rivoltante. Certamente peccando di snobismo intellettuale (autovoto: 2), ho associato la lettura banale con la volgarità di quel gesto pubblico e mi sono chiesto: una lettrice di Madame Bovary si metterebbe mai, in una spiaggia affollata d’agosto, a spremere i brufoli al suo fidanzato?
Nella scatola c’è anche un biglietto con i saluti del presidente dell’enoteca, che non ho il piacere di conoscere e dove io peraltro non sono mai stato. Richiudo il coperchio sul quale leggo il nome del destinatario: Bruno Gambacorta. Però l’indirizzo di casa è il mio. Sul biglietto c’è il numero telefonico del presidente dell’enoteca, lo chiamo e gli faccio notare l’imbroglio. Ho l’impressione che stia boccheggiando, prende un grande respiro prima di rispondere: «Guardi che l’omaggio era destinato proprio a lei». «Grazie», rispondo, «ma nel caso volesse omaggiare anche il mio quasi omonimo, deve provvedere a spedire un altro cartone, questo me lo tengo». Subito dopo ho chiamato il mio amico Bruno: «Sto bevendo il tuo vino! Grazie!». Un altro caso è ambientato a Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, dove sono invitato in estate per presentare un legal thriller scritto a quattro mani con un amico avvocato per rievocare un clamoroso errore giudiziario. Per farlo impunemente abbiamo cambiato nomi di persone e luoghi; in luogo del nome
Postille filosofiche di Maria Bettetini Catastrofi e filosofia «Converrete che la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quelle città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto». Così JeanJacques Rousseau scrive a Voltaire, in risposta al suo Poema sul terremoto di Lisbona del 1755. I filosofi, da sempre, hanno cercato risposte razionali a ciò che sembra dovuto a caso o capriccio. Trovare spiegazioni rasserena, solleva dai sensi di colpa e di impotenza. Il terremoto che ha scosso il cuore dell’Italia con disastrose conseguenze non poteva essere né previsto né evitato, per quel che l’umanità a oggi sa dire e fare, però si sarebbero potuti evitare i tragici danni, non lo dicono solo politici e ingegneri, lo affermano anche le autorità giapponesi, che di terremoti ne devono gestire un paio al giorno. Certo è facile la polemi-
ca a distanza di spazio e di tempo, l’ho letto anche su un blog in questi giorni: qualcuno aveva citato Seneca sui terremoti, invitando a seguirne l’esempio. Ai terremoti è dedicato il sesto libro delle Questioni naturali, Seneca pensa che siano dovuti all’aria che riempie a poco a poco alcune caverne sotterranee fino a farle scoppiare: naturalmente «gli sconvolgimenti del cielo e della terra non sono le conseguenze della collera divina: questi fenomeni hanno le loro cause, e non infuriano a comando, ma gli elementi, come i nostri corpi, vengono alterati e, mentre sembra che facciano del male, lo subiscono». Non è colpa delle divinità né degli elementi, non può essere colpa degli uomini, allora perché abbiamo tanta paura? Perché siamo ignoranti, si risponde Seneca, se conoscessimo le cause dei terremoti non li temeremmo. Dunque, dedichiamoci a studiare le cause delle cose, l’unica attività in cui conviene mettere tempo e fatica.
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Capolavori sotto il sole d’agosto «Macché ispirazione, devi alzarti, sbarbarti e scrivere ogni singolo giorno che Dio manda in terra». È il consiglio che lo scrittore americano Jay McInerney, dal suo superattico al tredicesimo piano del Greenwich Village di New York, elargisce ai narratori esordienti: la scrittura è mestiere duro non folgorazione mistica. Un’ovvietà (4-). L’aveva già detto (molto meglio) Gabriel García Márquez: «Scrivere? Il 10 per cento ispirazione, il 90 traspirazione». Per la verità, dando un’occhiata alle fotografie dello scrittore McInerney seduto in poltrona nel prestigioso salotto di casa, tra tappeti, camini, marmi, statue e statuette, vasi, formidabili quadri astratti, ampie vetrate, la durezza del suo lavoro è difficile da immaginare. Poi: «Condivido la massima di Hemingway per cui la peggior sfiga che ti può accadere, a patto che non ti uccida, è il massimo che possa capitarti come scrittore» (affermazione alquanto pericolosa: 3). Interviste e anticipazioni ovunque, per il nuovo romanzo di
McInerney (La luce dei giorni), ambientato nel mondo letterario di Manhattan. Viene salutato come un capolavoro, ma a leggere l’incipit non pare proprio niente di speciale: «Anche se dopo decenni la città sembrava per molti aspetti ridimensionata rispetto alla capitale della sua giovinezza, Russel Calloway non si era mai disamorato di New York, né dell’effetto che gli faceva viverci. Lo sfondo di Manhattan gli pareva conferire a ogni gesto una grandiosità supplementare, una dignità metropolitana» (4-). Capolavoro anche l’ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer, Eccomi: undici anni di lavoro (durissimo), che a differenza del nuovo capolavoro di McInerney, sembra un po’ più capolavoro, sempre giudicando dall’incipit: «Quando la distruzione di Israele ebbe inizio, Isaac Bloch stava meditando se suicidarsi o trasferirsi alla Casa ebraica» (5+). Siamo circondati, anzi sommersi, dai capolavori americani. Poi apri a caso Madame Bovary e ti chiedi com’è
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la Piscicoltura di Pura. Sono disponibili nei supermercati Migros a poche ore dalla cattura sia al banco che a libero servizio
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Illustrazioni Sergio Simona
Le trote sono allevate a Pura in limpidi laghetti di acque sorgive immersi nella natura. La temperatura dell’acqua rimane stabile tra gli 8 e i 12 gradi durante tutto l’anno. I pesci dispongono di ampi spazi per nuotare. Le peculiarità di questa tipologia d’allevamento contribuiscono a rendere le loro carni particolarmente sode e leggere.
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Fin dai primissimi giorni di vita, gli avannotti di trota iridea ricevono esclusivamente mangime di origine biologica controllata. I pesci sono catturati al raggiungimento di un peso di 200-300 grammi, dopo circa 18 mesi di vita. Una volta lavorati nel rispetto di severe norme igieniche, vengono subito forniti ai supermercati Migros.
Le trote allevate a Pura appartengono alla varietà iridea, conosciuta anche con il nome di trota arcobaleno. Questi pesci si caratterizzano per il corpo slanciato dai colori vivaci, il ventre bianco e i puntini neri su dorso e pinne. La iridea è una specie che si adatta bene all’allevamento.
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Trota Nostrana bio 100 g Fr. 2.60 invece di 3.30 Azione dal 6 al 10 settembre
Prodotto da spalmare tutto ticinese Un sapiente connubio tra miele e nocciole dà vita a quello che è diventato un prodotto da spalmare sul pane molto amato dai bambini, ma non solo: la Méröla. Questa crema a base di miele ticinese di robinia – o acacia – e pasta di nocciole è stata sviluppata da Giuseppe Camponovo di Mendrisio. Appassionato apicoltore da oltre vent’anni, per
la sua specialità Camponovo utilizza esclusivamente materie prime naturali, in primis il miele da lui personalmente prodotto e certificato biologico – il 75% del prodotto è composta da quest’ultimo – senza l’aggiunta di altri zuccheri, grassi e nemmeno cioccolato o lecitina. La Méröla non è solo una leccornia spalmata sul pane, ma è pure indicata
Da sempre in cucina la trota è apprezzata per la sua versatilità e delicatezza. La si può preparare in moltissimi modi, sia intera che sfilettata, ma è importante non cuocerla mai troppo a lungo. Che sia rosolata, fritta, al cartoccio, alla mugnaia, in carpione o grigliata; la sua carne compatta conquisterà i palati di ogni buongustaio.
per altri usi alternativi: miscelata allo yogurt al naturale gli conferisce un tocco delicato, sulle crêpes è irresistibile, può essere usata per confezionare biscotti al posto della glassa o per incollarne due fra di loro o ancora per preparare delle barrette energetiche casalinghe mescolandola a cereali e semi tostati o soffiati.
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Tenera e prelibata tartare Attualità La carne di manzo nostrano Charolais ben si presta alla preparazione
di questo raffinato piatto crudo Benché sia considerata una pietanza raffinata, la tartare di manzo è tuttavia sempre molto gettonata per la sua semplicità e sapidità, ove ognuno prepara il suo boccone come meglio preferisce mischiando la tenera carne cruda ai vari condimenti. I tagli del manzo più indicati per la tartare sono il filetto, lo scamone e le bistecche. I macellai Migros sono a disposizione della clientela per la preparazione del taglio giusto, sia che la si desideri tagliuzzata finemente al coltello oppure macinata. Il manzo nostrano Charolais
«Anche il manzo di razza Charolais allevato sul Piano di Magadino, grazie alla sua carne tenera, magra e dal sapore delicato, si presta bene per la tartare», spiega Patrick Dodi, responsabile assortimento carne e salumeria per Migros Ticino. Di questa pregiata carne sono disponibili tagli quali lo scamone e il filetto ai banchi macelleria di Locarno, Serfontana, Agno e S. Antonino; mentre al libero servizio di tutte le filiali sono ottenibili le bistecche. Come preparare un’ottima tartare? Patrick Dodi: «Aggiungere a ca. 200 g di carne a persona, a piacere, della cipolla, dei capperi e dei cetriolini tritati molto fini. Unire un poco di senape, ketchup, Tabasco (per chi ama il piccante), olio d’oliva, salsa Worcester e del prezzemolo. Regolare di sale e pepe. Aggiungere un uovo crudo intero ogni 400 g di carne, un cucchiaino di pasta d’acciughe e un goccio di cognac. Mischiare per bene il tutto e servire su pan carré tostato spalmato di burro. Buon appetito!».
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Giovanni Barberis
Le mele Gala nostrane
Cesare Bassi, produttore di mele a S. Antonino
«Malgrado il tempo primaverile umido, quest’anno la qualità delle mele risulta buona sia nel colore che nel calibro. La quantità fortunatamente è da ritenersi sopra la media. La raccolta è iniziata verso il 20 agosto con la varietà Gala, poi continuiamo con
la Golden fino a metà settembre, per terminare con la Braeburn a metà ottobre. Per poter garantire degli ottimi frutti, vengono effettuati dei trattamenti nel rispetto delle direttive della produzione integrata. I nostri meli idealmente hanno una durata media di una quindicina d’anni, dopodiché vengono gradualmente sostituiti alfine di poter sempre contare sulla migliore qualità. Le mele Gala sono sicuramente tra le più apprezzate per la loro dolcezza e croccantezza. Per questo sono anche molto amate dai bambini. Personalmente mi piace gustarle appena raccolte dalla pianta, ma sono pure ottime su torte e crostate. Consiglio ai consumatori di trattare le mele acquistate con grande cura, senza picchiettarle, in questo modo dureranno più a lungo». Le mele Gala nostrane da domani sono offerte ad un prezzo molto vantaggioso.
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Flavia Lauenberger
Pane del mese: il pane campo di mais
Terza rassegna Carne Migros nei ristoranti ticinesi
Attualità Dal 9 al 18 settembre in 12 ristoranti della regione gli chef
cucineranno le loro specialità con la carne svizzera Migros
Migros Ticino, GastroTicino e Mérat presentano la terza rassegna gastronomica dedicata alla carne svizzera, che si terrà dal 9 al 18 settembre in 12 ristoranti del Ticino, dal Mendrisiotto, al Locarnese alla bassa Leventina. Per 10 giorni il pubblico potrà gustare la carne del nostro Paese, cucinata e interpretata dai dodici chef che hanno collaborato attivamente rendendo possibile questa iniziativa. Rispetto alle precedenti prime due edizioni, che si articolavano su tre weekend, questa rassegna offrirà una continuità per 10 giorni consecutivi. Migros Ticino pone una costante attenzione al territorio, al consumatore, alla qualità delle scelte che propone alla clientela nei propri supermercati. In questa ottica, la nuova edizione della manifestazione che coinvolge associazioni, produttori
e ristoratori, conferma e suggella un sistema di fare rete tra tutti gli attori del territorio, consumatori inclusi. È cosa nota che la carne svizzera è soggetta alla concorrenza di un mercato sempre più globalizzato, fatto anche di prezzi al ribasso che orientano gli acquisti dei consumatori anche oltre confine, esercitando una pressione sul mercato interno e sugli operatori che privilegiano la qualità. Aleardo Zaccheo, ingegnere alimentare e microbiologo, ha partecipato all’incontro stampa di presentazione con Massimo Suter, presidente di GastroTicino, e Fabio Rossinelli, responsabile Marketing di Migros Ticino. In questo contesto, ha evidenziato quali sono i motivi per privilegiare il consumo domestico di carne svizzera. Oltre alla motivazione «ideologica» di sostenere e promuovere l’economia del
nostro Paese, l’ing. Zaccheo ha parlato di genetica di animali da reddito, di agricoltura fedele a principi ecologici, di vicinanza delle fattorie al consumatore e di sensibilità del produttore al benessere degli animali. Tutto questo sarà dal 9 al 18 settembre sulle «carte» dei ristoranti: Montalbano, S. Pietro di Stabio; Osteria Andina, Madonna del Piano; Canvetto Luganese, Lugano; Casa Berno, Ascona; Cereda, Sementina; Giardino, Bombinasco; Da Gina, Ascona; Madonnone, Purasca; Grottino Orselina, Orselina; Grotto Pergola, Giornico; San Grato, Carona; Della Torre, Morcote. Maggiori informazioni e contatti per riservazioni si possono trovare su www.carnemigros.ch e sulle locandine disponibili nei supermercati Migros del Ticino. Buon appetito!
Il pane campo di mais è la specialità di settembre dei reparti panetteria, prodotta con frumento chiaro, granoturco e semi di girasole. La sua crosta bella dorata è cosparsa di granelli di mais. Vanta un sapore particolarmente delicato, grazie anche alla presenza di semi di girasole nella mollica. Questa bontà accompagna a meraviglia formaggi stagionati e aromatici salumi, ma è pure indicata per canapè al salmone e alle verdure. Il pane campo di mais è ottimo leggermente abbrustolito, tagliato a fettine non troppo sottili.
Pomeriggio in panetteria per bambini Mercoledì 21 settembre, dalle ore 14.00 alle 16.30 ca., è previsto un pomeriggio in panetteria per bambini dai 7 ai 14 anni a S. Antonino e Serfontana (10 partecipanti per filiale), dove si potranno creare simpatiche figure con la pasta per trecce. Per iscriversi telefonare mercoledì 7 settembre, dalle ore 14.00, al numero 091 840 12 61.
Pane Campo di mais 300 g Fr. 2.30
Ci scusiamo
A causa di uno spiacevole errore tipografico, sulla scorsa edizione di Azione a pag. 69 è apparso il testo «50% - 4.55 invece di 9.10, Filetto di maiale An-
gus, Brasile, al banco a servizio, per 100 g»; in effetti si trattava evidentemente di filetto di manzo Angus e non di maiale.
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Avviso importante : L’allatamento al seno è ideale per il suo bambino. L’OMS raccomanda l’allattamento esclusivo al seno per i primi 6 mesi. Chieda consiglio al personale qualificato del servizio medicosanitario nel caso in cui il suo bimbo abbia bisogno di un apporto nutritivo complementare o qualora lei non allatasse. *GOS = Galatto-Oligosaccaridi, FOS = Frutto-Oligosaccaridi
Da più di 90 anni, Milupa nutre il pancino dei neonati. In base a questa esperienza, Milupa propone la nuova generazione di latte di proseguimento Milumil NUTRIMIX. Si tratta della prima e unica preparazione di latte di proseguimento prodotta con un processo di fermentazione lattica riconosciuto e che contiene la nostra miscela di fibre (GOS/FOS*) brevettata.
Questo latte di proseguimento è ben tollerato ed è progettato appositamente per il pancino dei neonati. La nostra combinazione di grande qualità è completata da nutrimenti importanti come l’acido grasso essenziale Omega 3, il ferro, le vitamine A e C oltre alla vitamina D, che è importante per la crescita e lo sviluppo delle ossa. Milumil latte di proseguimento – Dolcezza per il pancino dei neonati.
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Idee e acquisti per la settimana
M-Classic
Una domenica all’insegna del gusto
Tutto l’occorrente per un brunch spontaneo: il pane precotto può essere anche congelato.
Non c’è niente di meglio di un’abbondante colazione domenicale con dei panini appena sfornati. I pani precotti firmati M-Classic soddisfano praticamente tutti i palati. Si possono conservare alcuni giorni del frigorifero e sono pronti e croccanti in pochissimo tempo. Molte di queste specialità come la treccia e i panini al burro sono preparati con farina svizzera di qualità TerraSuisse.
M-Classic TerraSuisse Panini al burro 300 g Fr. 2.85 Nelle maggiori filiali
M-Classic Gipfel al burro 210 g Fr. 3.–
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Idee e acquisti per la settimana
Prugna ciliegia (Prunus cerasifera)
Rescue Pastiglie arancio-sambuco fiori di Bach originali 50 g Fr. 6.90
Stella di Betlemme (Ornithogalum umbellatum)
Rescue
Una forza della natura Che si tratti di un colloquio importante, di un esame o di una visita medica: le essenze floreali calmano i nervi e aiutano a rilassarsi. Una scoperta che si deve al medico inglese Edward Bach (1886–1936), che sviluppò un trattamento di medicina alternativa da allora chiamato terapia della fioritura. In pratica, definì 38 stati emozionali, abbinandoli ad altrettante essenze floreali. I prodotti Rescue contengono estratti di prugna ciliegia, clematide, balsamina, eliantemo maggiore e stella di Betlemme. Sono disponibili in gocce, pastiglie, spray e crema e indicati sia per adulti che per bambini, come pure per gli animali domestici.
Rescue Spray Fiori di Bach originali 20 ml Fr. 22.50
Rescue Gocce Fiori di Bach originali 10 ml Fr. 14.50
Clematide (Clematis vitalba)
Eliantemo maggiore (Helianthemum nummularium)
Balsamina (Impatiens glandulifera)
Rescue Fiori di Bach originali 30 ml Fr. 14.90
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Idee e acquisti per la settimana
Specialità di selvaggina
Viva la cacciagione Chi conosce la selvaggina solo grazie ad Asterix e Obelix farebbe bene a provare una volta personalmente quella carne magra e gustosa. Migros ha in assortimento una vasta scelta di specialità diverse Testo Sonja Leissing; Foto Studio Kiba
Castagne in salsa al caramello 250 g Al prezzo del giorno
Salmì di capriolo 350 g / 600 g Al prezzo del giorno
Salmì di cervo con funghi 350 g / 600 g Al prezzo del giorno
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Consigli
A proposito di cacciagione Salmì di selvaggina: La carne della spalla, del collo e della coscia si prestano bene per il salmì di capriolo, cinghiale e cervo. La si lascia per tre-dieci giorni in una marinata di vino rosso, verdure e spezie, poi la si cuoce fin che è ben morbida. Chi è di fretta può acquistare il salmì di cervo e di capriolo bell’e pronto. Cervo e capriolo: Cotolette, entrecôtes, fettine e sminuzzato di cervo e capriolo sono la scelta migliore per le cotture brevi. Un consiglio: cospargere la carne con bacche di ginepro, anice stellato e chiodi di garofano tritati, poi con un po’ d’olio d’oliva e mettere in fresco per 30 minuti.
Un bel piatto con prosciutto crudo, salame e carne secca di slevaggina è ideale come merenda o per accompagnare il café complet.
Contorni: Per accompagnare i piatti di selvaggina sono ideali castagne, spätzli, cavolo rosso, gallinacci e cavolfiore lessato, tutti sono disponibili già pronti alla Migros. Salumeria: Il prosciutto crudo di cinghiale, il salame di cervo selvatico, la carne secca di cervo e il salame di selvaggina si gustano preferibilmente crudi. Sono però adatti anche per pietanze calde, finemente affettati nei ripieni o come aggiunta a zuppe o minestre. Buono a sapersi: La cacciagione è generalmente una carne magra, e viene quindi utilizzata spesso nella cucina dietetica. Inoltre è una preziosissima fonte di ferro. Per le donne che soffrono di carenza di ferro non sarebbe quindi male avere di tanto in tanto qualcosa di «selvaggio» nel piatto.
Prosciutto crudo di cinghiale Austria, per 100 g* Azione Fr. 7.80** invece di 9.80
Carne secca di cervo Nuova Zelanda per 100 g* Azione Fr. 7.75** invece di 9.70
Salame di cervo selvatico Svizzera/Nuova Zelanda, per 100 g* Azione Fr. 4.15** invece di 5.20
Piatto di selvaggina Svizzera/Nuova Zelanda/Austria per 100 g* Azione Fr. 6.60** invece di 8.30
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Racks dâ&#x20AC;&#x2122;agnello Nuova Zelanda/Australia, imballati, per 100 g
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Kiwi Nuova Zelanda, vaschetta da 500 g
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Cialde finissime ChocMidor in conf. da 3 Classico, Noir e Diplomat, per es. Classico, 3 x 165 g
conf. da 2
20% 3.35 invece di 4.20 Magdalenas M-Classic in conf. da 2 al limone e marmorizzate, per es. marmorizzate, 2 x 225 g
20% Tutti i biscotti in sacchetto Midor (prodotti Tradition esclusi), per es. schiumini al cioccolato, 175 g, 1.80 invece di 2.30
conf. da 2
25% Tutte le confetture Favorit in conf. da 2 fragola/albicocca, fragola/lampone e ciliegia/ albicocca, per es. fragola/albicocca, 2 x 350 g, 5.40 invece di 7.20
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30% Tutti i mitici Ice Tea in bottiglie di PET in conf. da 6, 6 x 1 l* per es. al limone, 5.45 invece di 7.80
40% 14.55 invece di 24.30 Gamberetti tail-on Pelican, ASC surgelati, 750 g
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20% Tutto l’assortimento Pancho Villa per es. soft tortillas, 326 g, 3.65 invece di 4.60
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30% Involtini primavera J. Bank’s in conf. da 2 surgelati, con verdura o pollo, per es. con pollo, 2 x 6 pezzi, 740 g, 9.80 invece di 14.–
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20x Tutto l’assortimento Candida (confezioni multiple escluse), per es. dentifricio Fresh Gel, 125 ml, 2.75, offerta valida fino al 19.9.2016
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20% Collutori Listerine in conf. da 2 per es. protezione per denti e gengive, 2 x 500 ml, 8.30 invece di 10.40, offerta valida fino al 19.9.2016
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Pane e latticini
Pasta Subito in conf. da 3, all’arrabbiata, ai funghi e alla carbonara, per es. all’arrabbiata, 3 x 160 g, 5.40 invece di 8.10 33% Cavolo rosso e crauti al vino in conf. da 3, per es. cavolo rosso, 3 x 500 g, 3.90 invece di 5.85 33% Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in conf. da 6, UTZ, al latte e alle nocciole e Noir Special 72%, per es. al latte e alle nocciole, 6 x 100 g, 7.75 invece di 11.10 30% Red Bull Standard in conf. da 24, 24 x 250 ml, 27.70 invece di 39.60 30%
Veneziane, 4 pezzi/220 g, 2.20 invece di 2.80 20%
Tutto l’assortimento Riso Scotti, per es. olio di riso, 750 ml, 6.20 invece di 7.80 20% Tutti i Crunchy Clouds, UTZ, nocciole, scagliette di mandorle e pistacchi, per es. nocciole, 150 g, 4.70 invece di 5.90 20% Eimalzin e Banago in conf. da 2, per es. Banago, Fairtrade, 2 x 600 g, 12.60 invece di 15.80 20% Miele in vasetto da 550 g o in flacone squeezer da 500 g, –.60 di riduzione l’uno, per es. miele di fiori cremoso, 550 g, 4.70 invece di 5.30
Michettine M-Classic, TerraSuisse, 6 pezzi, 180 g, 1.70 invece di 2.– 15%
Altri alimenti
Tutte le pizze e le baguette Finizza, surgelate, per es. baguette Margherita, 220 g, 2.70 invece di 3.40 20% Tutto l’assortimento Wasa, per es. original, 205 g, 1.35 invece di 1.70 20%
Palline di cioccolato Frey in sacchetto da 750 g, UTZ, cioccolato al latte finissimo, Giandor e assortite, per es. assortite, 11.– invece di 18.60 40%
Novità
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Biancheria da donna Skiny, Schiesser Women e Wonderbra, per es. slip Skiny in conf. da 2, bianchi, tg. 40, 17.90 Novità **
Cold Brew Coffee, 330 ml, classic e caramel, a partire da 2 pezzi 50%
Yogurt Migros Bio, Fairtrade, 180 g, –.80 Novità **
Near Food/Non Food
Riso al latte Anna’s Best, 180 g, 3.20 Novità ** Birchermüesli alla fragola Anna’s Best Vegi, vegano, 180 g, 3.40 Novità ** Anice stellato intero, Migros Bio, 34 g, 2.70 Novità **
Tazza dal colore cangiante You & Me Leonardo, il pezzo, 16.80 Hit ** Prodotti per la cura del corpo, detergenti e deodoranti Le petit Marseillais in conf. da 2, per es. prodotto per la doccia sens. alla mandorla, 2 x 400 ml, 8.40 invece di 11.20 25%
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Con trazione su ruote e funzione pacciamatura
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Con formaggio per raclette.
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Con crema e pezzetti di castagne.
15.60 Torta ai vermicelles e alle castagne 670 g
Hummus vegano al curr y.
3.60 Hummus al curry Anna’s Best Vegi 175 g
Birchermüesli di stagione, senza o. lattosio, da asport
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4.40 Torta di formaggio con Gruyère Anna’s Best, Migros Bio 200 g
Müesli vegano con lamponi freschi.
2.90 Fruits’n’Oats ai lamponi Anna’s Best Vegi 180 g
Tovaglietta e carta da cucina in uno. one Maggiore idratazi grazie all’olio di avocado.
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Super assorbenza e resistenza agli strappi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 5 settembre 2016 ¶ N. 36
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Idee e acquisti per la settimana
Di nuovo assieme. L’autista Anton Imhof sul furgone della Migros, con il quale ha fornito i clienti per 34 anni.
Noi firmiamo. Noi garantiamo.
Quando Toni guidava la Migros Il vallesano Anton Imhof era al volante dell’ultimo furgone della Migros. Per lui, il negozio ambulante era una questione di cuore. E, per i suoi clienti, un luogo d’incontro Testo Thomas Tobler, Foto Paolo Dutto
È quasi con reverenza che Anton Imhof sale sull’autobus della Migros restaurato. L’azienda ha salvato dalla rottamazione due di questi veicoli e li ha fatti restaurare esattamente come gli originali. Ora si trovano su un parcheggio accanto al centro di distribuzione della Migros a Neuendorf, aspettando di fare il loro Tour de Suisse, quando dal 13 al 24 settembre andranno a trovare i vincitori del «Concorso della cartoline» indetto dalla Migros. E così Anton si siede nuovamente al volante del suo vecchio posto di lavoro. Per oltre tre decenni ha infatti guidato il grosso furgone su e giù per le valli dell’Alto Vallese. Oltre 100 chilometri al giorno tra i tornanti della Gomsertal, della Löschtertal o dell’Eggerberg. Poi, nel 2007, anche l’ultimo autista di bus Migros nel Paese era stato mandato in pensione assieme al suo mezzo. Il record di Toni
Per 82 anni i furgoni adibiti a negozi ambulanti hanno rifornito di prodotti Migros la clientela di tutta la Svizzera.
Negli anni Sessanta la flotta contava ben 144 veicoli. Ma queste filiali mobili non raccoglievano solo consensi tra la popolazione locale. I negozianti regionali combattevano questa concorrenza motorizzata. Anton Imhof si ricorda bene i suoi inizi: «Ad esempio, alla parentela dei negozianti era spesso vietato di fare la spesa sui camion della Migros. Molti, perciò, arrivavano di nascosto o mandavano i figli». Comunque, il risentimento verso le filiali ambulanti si placò ben presto. L’offerta era troppo ricca e i prezzi troppo buoni. E col passar del tempo Anton Imhof venne soprannominato «Migros Toni». Un nomignolo che si porta appresso ancora oggi. «Quando, ad esempio, vado a fare una passeggiata a Goms, la gente mi chiama ancora “Migros Toni”. Non sanno neppure il mio vero nome». Anton Imhof aveva rapporti molto amichevoli con la clientela. Conosceva tutti per nome. Ogni settimana passavano a far la spesa da lui tra le 80 e le 130 persone, secondo la stagione. Anche turisti che trascorrevano le vacanze in Valle-
se facevano acquisti regolarmente da «Migros Toni». «Dopo le ferie qualcuno mi mandava addirittura una cartolina di ringraziamento. La spesa sul camion Migros per loro era un ricordo speciale delle vacanze». Sul bus come al mercato
Sulla strada tra passi e villaggi del Vallese, dove molti abitanti hanno ormai da tempo raggiunto l’età della pensione, sono nate amicizie che durano tutt’oggi. «Quando il giorno del mio compleanno feci tappa in un paesino, vi trovai un cartellone con la scritta: “È il compleanno di Toni”. Tutto il villaggio mi fece gli auguri. È bello poter ricordare momenti del genere». Una volta alla settimana il furgone della Migros arrivava sulla piazza del paese, dove la gente si ritrovava per far la spesa e quattro chiacchere. «Col passar del tempo conoscevo le preoccupazioni di ogni cliente e perfino il nome dei suoi nipotini». Anton Imhof sistemava le compere nei sacchetti e a volte glieli portava fin sulla soglia di casa. «La maggior parte delle persone
comprava da mangiare per l’intera settimana e talvolta la borsa era troppo pesante per le signore anziane». Detersivi e dolciumi erano particolarmente richiesti. «Ma la merce che andava per la maggiore era il cibo per gatti. Ne dovevamo sempre avere grandi scorte». In totale sul suo bus erano disponibili 1300 articoli diversi, Lacrime finali
Nell’ultimo giorno di lavoro, a fine novembre 2007, Anton Imhof fu accompagnato da un’equipe televisiva. Oberwald, alla fine della valle di Goms, fu il suo capolinea. Era già uno dei paesini preferiti del suo giro abituale, perché ci abitavano alcuni parenti e si era fatto molti clienti. Le lacrime scorrevano a fiumi quando risalì a bordo del bus della Migros per partire per non far più ritorno. «Penso che ad alcuni il camion della Migros manchi davvero tanto. Sicuramente per una questione di praticità, ma anche sociale. Ed anche a me manca questo contatto quotidiano con i clienti».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 5 settembre 2016 ¶ N. 36
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Idee e acquisti per la settimana
I Sennhauser del Birkenhof rappresentano la famiglia contadina moderna: (da sin.) Lara (13 anni), Julia (9), Franz senior (69), Helen (64), Franco (8), Franz junior (40), Aline (11) e Petra (39) con il cane Amira (5). Farmmania
Non c’è tempo per annoiarsi I bambini si entusiasmano a collezionare gli elementi della Farmania e giocando scoprono la vita in fattoria. Ma vediamo come si svolge nella realtà la vita in campagna, con una visita alla fattoria Birkenhof della famiglia Sennhauser, agricoltori a Bazenheid (SG) Testo Claudia Schmidt; Foto Daniel Ammann, Heiko Hoffmann
Con 33 ettari di superficie agricola e altri 30 di bosco la famiglia Sennhauser della fattoria Birkenhof non ha di certo tempo da perdere. La mungitura delle mucche non ammette proroghe e le galline vanno nutrite. I Sennhauser hanno un’azienda agricola che richiede un lavoro indefesso, al punto che non è per nulla facile riunirli tutti per fare una foto di gruppo: campi seminati ad orzo e colza, alberi da frutto per la produzione di mosto, produzione di latte, allevamento di polli. In più ci sono i cavalli tenuti in pensione. Come se non bastasse, Franz Sennhauser (40 anni) lavora anche per terzi con le sue macchine agricole. «Oggi, avere una fattoria significa molto di più che raccogliere semplicemente il fieno e
mungere le mucche», afferma Sennhauser, il quale non si vede più come un contadino nel senso tradizionale del termine, ma come un «manager agricolo». E sua moglie Petra non si occupa soltanto dei propri figli, ma lavora al 30 percento anche come maestra. Considerando che ha quattro figli, si dice felice che nonna Helen abiti con loro: «Il suo apporto è fondamentale per accudire i bambini». Ogni tanto anche Franz Sennhauser Senior (69 anni) aiuta il figlio in fattoria, ma ama sempre di più godersi la pensione andando in viaggio con la moglie. Quando si guardano indietro, entrambi ammettono che con i moderni macchinari molto è cambiato: «Raccogliere il fieno, ad esempio, oggi è diventato molto più
veloce», spiega Helen Sennhauser. Nel frattempo, però, l’azienda agricola si è dovuta ingrandire. Per vivere in fattoria ci vuole versatilità
«Oggi una famiglia non riesce più a vivere soltanto con 30 o 40 vacche e un po’ di campi da coltivare», indica Franz Sennhauser. Anche suo fratello Reto, dopo l’apprendistato come muratore, ha studiato da agricoltore per lavorare in fattoria con il resto della famiglia. «Così dal 2010 alleviamo anche polli per il programma della Migros “Dalla regione. Per la regione”. Se ne occupa Reto, che conosce meglio il settore», sottolinea Franz Sennhauser. Reto, però, non abita al Birkenhof, ma vive
con la sua famiglia in paese, dove da oltre un secolo sorge la casa colonica storica dei Sennhauser. «Un’eccessiva vicinanza non va bene, perché quando uno vede che l’altro lavoro troppo… gli viene la coscienza sporca!», dice ridendo Franz. E i bambini? Devono fare come una volta e dare una mano dopo la scuola? Petra Sennhauser scoppia a ridere: «I bambini non “devono” lavorare. Ma quando c’è bisogno, ad esempio per raccogliere le mele o per accudire gli animali, aiutano spontaneamente». La grande famiglia funziona come un meccanismo e ciò dà ad ognuno l’impressione di essere una componente di un insieme più grande. Di far parte di una vera famiglia contadina.
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Farmmania
Una fattoria tutta da scoprire Mele e patate* della fattoria sono conosciute da ogni bambino.
Cassette e bidoni del latte* sono utensili di cui non si può fare a meno in una fattoria.
La fattoria di Farmmania** si costruisce velocemente. Grazie al tetto scoperchiabile, gli elementi della raccolta si possono sistemare all’interno della casa.
Mucca bruna alpina* Circa il 30 percento dei manzi allevati in Svizzera sono di razza bruna alpina. Le mucche hanno la particolarità di dare molto latte. Cavallo Freiberger * Questi cavalli sono originari dell’altopiano giurassiano delle Franches-Montagnes («Freiberger» in tedesco). Raggiungono un peso compreso tra i 450 e i 600 chilogrammi.
Bovaro bernese – Cucciolo con ciotola* I cani di questa razza sono grandi e robusti e hanno un buon carattere.
* Una bustina ogni 20 franchi di spesa in tutte le filiali e i negozi specializzati della Migros (esclusi e-shop), nei negozi Obi, nei ristoranti e take-away Migros, nonché per ogni menù per bambini Lilibiggs e per acquisti sul sito Le-Shop.ch. Al massimo dieci bustine alla volta, corrispondenti a una spesa di 200 franchi. ** La fattoria è disponibile in tutte le filiali Migros al prezzo di Fr. 9.80. A partire dall’8 settembre troverete idee per il bricolage e filmati sul tema della fattoria su: www.farmmania.ch www.facebook.com/migrosmania
È tempo di selvaggina.
conf. da 3
33% Cavolo rosso e crauti al vino in conf. da 3 per es. cavolo rosso, 3 x 500 g, 3.90 invece di 5.85
30% 3.85 invece di 5.50 Fettine di capriolo Austria/Repubblica ceca, per 100 g
20% 5.20 Castagne in salsa al caramello 250 g
Hit 11.80 Grattugia per spätzli Cucina & Tavola il pezzo
4.20 Insalata autunnale Anna’s Best 250 g + 20% di contenuto in più, 300 g
* In vendita nelle maggiori filiali Migros. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 6.9 AL 12.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Tutti i salumi di selvaggina in vaschette jumbo* per es. carne secca di cervo, Nuova Zelanda, per 100 g, 7.75 invece di 9.70
5.90 Menu e pasta con selvaggina per es. agnolotti con ripieno di carne di cervo e mirtilli rossi, 250 g
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Idee e acquisti per la settimana
Candida
Efficace igiene orale per tutta la famiglia
Azione 20X Punti Cumulus Cumulus sull’intero assortimento Candida fino al 19 settembre
Pulizia e cura di base Candida Fresh Gel garantisce una cura di base efficace e delicata dei denti e li protegge dalla carie, fornendo sali minerali allo smalto dentale. Lavarsi i denti diventa un piacere e l’alito rimane fresco. Candida Fresh Gel 125 ml Fr. 2.75
Contro le colorazioni e la placca Candida White Micro-Crystals elimina le colorazioni e la placca dentale delicatamente ma con efficacia grazie ai micro cristalli. In tal modo i denti ritrovano il loro bianco splendente naturale, mentre la riformazione di tartaro e placca viene attivamente combattuta. Candida White Micro-Crystals 75 ml Fr. 3.30
Per denti e colletti sensibili Candida Sensitive Professional è stato appositamente sviluppato per i denti e i colletti particolarmente sensibili. Un’efficace combinazione di fluoro riduce durevolmente la sensibilità al dolore. Candida Sensitive Prefessional 75 ml Fr. 3.30
Per i denti dei bambini Con il suo delicatissimo potere pulente Candida Lilibiggs Bubble Gum è il dentifricio ideale per sensibilizzare i bambini all’igiene orale quotidiana. Oltre al suo effetto curativo e protettivo, sostiene il naturale processo di rafforzamento dello smalto dentale. Candida Lilibiggs Bubble Gum 75 ml Fr. 3.30
I dentifrici Candida sono indicati per l’igiene orale quotidiana. La loro efficacia è stata confermata da test clinici.
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche i dentifrici Candida.
Molti altri bellissimi premi su www.swissmilk.ch
Che buoni gli yogurt svizzeri! Tanti premi per chi raccoglie i punti fedeltà Premi esclusivi attendono chi raccoglierà i punti fedeltà «Swiss milk inside». I punti si trovano su numerosi yogurt di produzione svizzera. Un modo per ringraziare di cuore anche Lei, che sa apprezzare gli yogurt svizzeri. Lista dei premi, tessere punti e tutte le informazioni allo 031 359 57 28 oppure su www.swissmilk.ch
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Idee e acquisti per la settimana
Favorit
Diversamente dolce Le nuove creme di frutta Favorit della linea «les intenses» non sono dolcificate con zucchero cristallizzato ma con sciroppo di agave o miele d’acacia. Spalmate sul pane, le marmellate emanano una dolcezza delicata che sottolinea il sapore naturale della frutta.
Favorit les intenses Lamponi (con sciroppo di agave) 185 g Fr. 2.35
Azione 20X Punti Cumulus
Favorit les intenses Albicocca (con sciroppo di agave) 185 g Fr. 2.35
sulle creme di frutta Favorit les intenses fino al 12 settembre
Favorit les intenses Fragola (con miele d’acacia) 230 g* Fr. 3.30
Favorit les intenses Albicocca-Pesca (con miele d’acacia) 230 g* Fr. 3.30
Lo sapevate? Le creme di frutta Favorit sono zuccherate con sostanze dolcificanti alternative, quindi non si possono chiamare confetture. Secondo la definizione ufficiale, infatti, le confetture sono costituite di frutta cotta assieme allo zucchero o a qualche tipo di zucchero.
*Nelle maggiori filiali
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le creme di frutta di Favorit.
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Idee e acquisti per la settimana
Azione 20X Punti Cumulus per la nuova crostata al formaggio di Anna’s Best dal 6 al 19 settembre
Le crostate di mele e al formaggio sono fra le più gettonate.
Anna’s Best
Crostate per tutti Con diverse varietà dolci o salate, Anna’s Best offre una ricca scelta di crostate. Come novità, l’assortimento viene completato dalla crostata al formaggio con Gruyère nella qualità Migros-Bio. Ad eccezione delle ciliegie, tutta la frutta utilizzata per le deliziose crostate Anna’s Best è di provenienza svizzera. Le crostate vengono farcite a mano, cotte in forno, confezionate e inviate a tutte le filiali Migros il giorno stesso della produzione.
Un tempo nelle economie domestiche svizzere il venerdì era tradizionalmente il giorno dedicato alla preparazione del pane. Gli avanzi di impasto venivano spianati finemente e farciti con ingredienti dolci o salati, a seconda della disponibilità. Nelle regioni fruttifere dell’Altipiano si utilizzava della frutta, mentre nelle zone alpine principalmente derivati del latte, come formaggio o «Nidel» (panna densa).
Migros-Bio Anna’s Best Crostata al formaggio 200 g Fr. 4.40
Migros-Bio Anna’s Best Crostata alle mele 215 g Fr. 3.10
Migros-Bio Anna’s Best Crostata alle albicocche 215 g Fr. 3.10
Migros-Bio Anna’s Best Crostata alle prugne 215 g Fr. 3.10
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Idee e acquisti per la settimana
Sanactiv
Fa bene alle articolazioni Quando muscoli e articolazioni sono pesanti, Sanactiv apporta un sollievo efficace. È un preparato a base di sostanze naturali
Il gel ai mitili dalle labbra verdi ha un immediato effetto rinfrescante e viene assorbito rapidamente. In seguito, sviluppa una gradevole sensazione di calore e favorisce la rigenerazione cutanea. I mitili dalle labbra verdi neozelandesi contengono sostanze nutritive, che legano l’acqua aumentando l’elasticità del tessuto.
Dr. med. Stefan Brunner è specialista in Ortopedia nella Clinica per i piedi di Lucerna.
Stefan Brunner
«Dimagrire può alleviare i dolori articolari» Dottor Brunner, quali sono i problemi di articolazioni più frequenti e quali le cause? Tra gli adolescenti e i giovani adulti si tratta perlopiù di problemi collegati a sforzi muscolari. Nei pazienti più anziani, invece, si tratta spesso di usura della cartilagine, ovvero di artrosi.
Sanactiv Gel a base di mitili dalle labbra verdi 125 ml Fr. 9.90
Il bagno termoattivo regala una sensazione di benessere dopo soli 10-20 minuti. Dopo il bagno ci si sente fisicamente rilassati e distesi. Sanactiv Bagno termoattivo 250 ml* Fr. 8.50
In caso di artrosi, fa bene assumere estratti di mitili dalle labbra verdi? I successi di una terapia conservativa contro l’artrosi a base di mitili dalle labbra verdi sono già stati accertati fin negli anni ’80. Questi molluschi hanno proprietà antiinfiammatorie e lubrificanti. Come prevenire i problemi articolari? Un esercizio moderato con pesi leggeri mantiene le articolazioni in movimento. Allo scopo è indicata un’attività sportiva con movimenti regolari, come il nuoto, la bicicletta o lo sci di fondo. Un altro fattore è il peso, che ha un impatto diretto sui disturbi alle articolazioni degli arti inferiori. Un dimagrimento può essere un rimedio decisivo contro i dolori.
Il gel all’artiglio del diavolo rigenera e distende muscoli e articolazioni. All’inizio ha un effetto rinfrescante, ma in seguito irradia un piacevole calore rilassante. Sanactiv Gel all’artiglio del diavolo 100 ml Fr. 8.90
Le capsule di mitili dalle labbra verdi sono arricchite di vitamina C. Quest’ultima favorisce la formazione di collagene per una normale funzione della cartilagene articolare.
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Illustrazione Shutterstock
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