Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXIX 12 settembre 2016
Azione 37
Società e Territorio Lo studio di Tiffany Watt Smith sulle emozioni umane e le parole che usiamo per definirle
Ambiente e Benessere Nel suo libro Forme del divenire Alessandro Minelli ci spiega la biologia evolutiva dello sviluppo
Politica e Economia La politica della Merkel sconfessata nel Meclemburgo
Cultura e Spettacoli Al m.a.x. Museo di Chiasso un omaggio alla poliedrica artista Simonetta Ferrante
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I bambini sono grandi artisti
Ti-Press
di Laura Di Corcia pagina 5
Troppo light per essere digerita? di Peter Schiesser Indubbiamente, trovare il modo per rendere compatibile l’iniziativa dell’Udc contro l’immigrazione di massa (che prevede tetti massimi di immigrati e contingenti), accettata di misura il 9 febbraio del 2014, con la libera circolazione della manodopera, perno del primo pacchetto di accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea, avrebbe equivalso ad un’acrobatica quadratura del cerchio. Ma la variante votata il 2 settembre dalla Commissione delle istituzioni politiche del Consiglio nazionale assomiglia più a una sfera rinchiusa in una quadrata scatola di cartone: un’armatura molto fragile, e soprattutto con poco potenziale di «dirigere autonomamente la politica migratoria svizzera», in soldoni di ridurre l’arrivo di stranieri nel nostro Paese (di cui circa 50 mila all’anno dall’Ue fino al 2014). Non per nulla Christoph Blocher ha minacciato di lanciare un’iniziativa popolare contro la libera circolazione delle persone se il parlamento accetterà la variante di legge proposta dalla suddetta commissione. Dopo proposte quali il modello «bottom up», elaborato dall’ex segretario di Stato Michael Ambühl su incarico del Ticino e fatto
proprio dai Cantoni, di tetti massimi di lavoratori stranieri per ramo economico, per regione, limitato nel tempo e solo in presenza di particolari condizioni congiunturali, come propagato da economiesuisse e dal Partitolo popolare democratico, e altre proposte ancora, in commissione si è affermato il modello subito definito Inländervorrang light, che potremmo tradurre con «prima i nostri light» – un po’ come peroravano l’Unione padronale svizzera e l’Unione svizzera delle arti e mestieri. In questo modo, la Commissione delle istituzioni politiche del Nazionale ritiene di aver ottemperato al principio dell’iniziativa del 9 febbraio 2014, che chiede di dirigere autonomamente la politica migratoria, e al contempo salvaguardato gli interessi dell’economia svizzera. Si è così riconfermata nella politica europea l’alleanza fra Plr, Ps, Ppd contro l’Udc. Accompagnato dall’ invito al Consiglio federale di sfruttare meglio il potenziale di lavoratori presente in Svizzera, ossia di favorire l’integrazione nel mondo del lavoro di forze attualmente «dormienti» (soprattutto disoccupati e donne), il semplice annuncio di un posto vacante da parte delle imprese agli uffici regionali di collocamento (ma senza l’obbligo di assumere personale residente) dovrebbe
ridurre l’immigrazione di 5-10 mila unità all’anno, secondo le aspettative della maggioranza della commissione. Troppo poco per l’Udc, che vorrebbe dimezzare l’attuale saldo di 70-80 mila arrivi. D’altronde, una quadratura del cerchio forse non esiste. L’Ue ha più volte dichiarato che di contingenti non se ne parla e che la libera circolazione non è negoziabile, persino il Tribunale federale ha messo in chiaro che in una causa darebbe precedenza agli accordi bilaterali con l’Ue rispetto ad una legge federale. Un problema che ora non si porrebbe più: di fronte a questa proposta commissionale, che verrà discussa e molto probabilmente accettata dal plenum del Nazionale a fine settembre, non c’è neppure più bisogno di avviare negoziati con Bruxelles sulla libera circolazione, poiché un «prima i nostri light» ha buone possibilità di essere accettato in breve tempo. Certo, in dicembre si occuperanno del tema gli Stati, qualche variante può ancora emergere, ma colpi di magia restano improbabili. Se i fautori dell’iniziativa del 9 febbraio si sentiranno derubati della vittoria popolare, attaccheranno frontalmente la libera circolazione con una nuova iniziativa popolare. Si giungerebbe così al chiarimento atteso dal 2014.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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Attualità Migros
M Inizia un nuovo ciclo di tirocinio a Migros Ticino Apprendistato Sono diciassette i giovani che da quest’anno intraprendono un nuovo percorso di formazione
aggiungendosi agli altri 25 già attivi nei 14 rami di impiego offerti dalla Cooperativa Con la formazione di apprendisti Migros Ticino investe in modo mirato nei giovani offrendo loro una prospettiva per il futuro, non solo attraverso la formazione di base, ma con dei piani di sviluppo e di carriera individuali successivi. Nel corso del 2016 sono giunte centinaia di candidature che hanno dato luogo a numerosi colloqui di se-
lezione e a stage sul campo. Durante la giornata speciale di informazione per i nuovi assunti sono stati trasmessi i valori e gli obiettivi aziendali e mostrate le possibilità di sviluppo al termine del ciclo di studi. Occorre sottolineare infatti che, annualmente, circa al 70 per cento dei neo diplomati viene offerta una possibilità di permanenza (percen-
tuale superiore alla media nazionale della Comunità Migros) e di crescita professionale grazie a una politica che promuove e sostiene la formazione continua. In particolare con la partecipazione a corsi interni organizzati sulla base di esigenze specifiche di gruppi di collaboratori, così come a corsi che rispondono a necessità individuali.
Quattro volti, quattro voci
Todorovic Simeun, app. banchi a servizio, Pregassona
Giulia Bizzozero, app. di commercio, centrale S. Antonino
Ritengo che Migros sia una delle migliori aziende in Svizzera. Ho avuto sempre un forte interesse per il settore della carne. Una volta effettuato lo stage non ho avuto più dubbi: ho ricevuto nuovi stimoli per accettare e iniziare questa avventura.
Frequento i negozi Migros con i miei genitori sin da piccola e sono sicura che offre una formazione di qualità per i giovani. Inoltre ho la possibilità di girare nei vari settori amministrativi, vedere come funziona il «dietro le quinte» ed acquisire molte conoscenze come altrove non potrei. Sono entusiasta e guardo con fiducia al mio futuro in azienda.
Andrea Borges Da Silva, app. autista dei veicoli pesanti, Centrale S. Antonino
Foto di gruppo per gli apprendisti che iniziano il tirocinio a Migros Ticino. Da destra in prima fila: Nicolò Ferla, Loris Minardi, Jessica Texeira, Egzona Arifi, Giulia Bizzozero, Filomena Fischetti, Alberina Namani, Kevin Boin, David Grgic. Fila dietro, da sinistra: Davide Vannini, Simeun Todorovic, Dalila Spadafora, Andrea Borges Da Silva, Boran In, Vitor Pereira. Assenti: Kevin Sarubbi e Jessica Wernli.
Sin da piccolo rimanevo impressionato ed affascinato nel vedere i «bestioni» della Migros e, come grande appassionato di motori, ho scelto di iniziare questa formazione. Ho scelto Migros perché so che si tratta di un datore di lavoro serio e affidabile, che mette al primo posto il benessere dei collaboratori.
Jessica Teixeira de Sousa, app. alimentari, Pregassona
Ho scelto di formarmi nel settori alimentari perché Migros è sinonimo di qualità e freschezza. Si tratta di un azienda attiva nel campo sociale e della sostenibilità che ha a cuore il futuro di noi giovani. Sono felice di far parte di questa grande famiglia.
I dieci giorni del gusto, per la terza volta Gastronomia È iniziata la nuova edizione della rassegna «La scelta degli chef», a cui partecipano dodici ristoranti
ticinesi proponendo fino al 18 settembre le loro ricette a base di carne Migros Migros Ticino, GastroTicino e Mérat presentano la terza rassegna gastronomica dedicata alla carne svizzera, che si terrà fino al 18 settembre in 12 ristoranti del Ticino, dal Mendrisiotto, al Locarnese alla bassa Leventina. Per 10 giorni il pubblico potrà gustare la carne del nostro Paese, cucinata e interpretata dai dodici chef che hanno collaborato attivamente rendendo possibile questa iniziativa. Rispetto alle precedenti prime due edizioni, che si articolavano su tre weekend, questa rassegna offrirà una continuità per 10 giorni consecutivi. Migros Ticino pone una costante attenzione al territorio, al consumatore, alla qualità delle scelte che propone alla clientela nei propri supermercati. In questa ottica, la nuova edizione della manifestazione che coinvolge associazioni, produttori e ristoratori, conferma e suggella un sistema di rete tra tutti gli attori del territorio, consumatori inclusi. È cosa nota che la carne svizzera è soggetta alla concorrenza
Azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Aleardo Zaccheo, ingegnere alimentare e microbiologo, ha partecipato all’incontro stampa di presentazione con Massimo Suter, presidente di GastroTicino, e Fabio Rossinelli, responsabile Marketing di Migros Ticino. In questo contesto, ha evidenziato quali sono i motivi per privilegiare il consumo domestico di carne svizzera. Oltre alla motivazione «ideologica» di sostenere e promuovere l’economia del nostro Paese, l’ing. Zaccheo ha parlato di genetica di animali da red-
dito, di agricoltura fedele a principi ecologici, di vicinanza delle fattorie al consumatore e di sensibilità del produttore al benessere degli animali. Tutto questo è sulle tavole dei dodici ristoranti ticinesi che, fino al 18 settembre, propongono piatti originali a base di manzo, maiale e vitello di casa nostra. Per informazioni e prenotazioni
www.carnemigros.ch
I ristoranti
Da sinistra: Massimo Suter, Fabio Rossinelli, Aleardo Zaccheo. (Flavia Leuenberger)
di un mercato sempre più globalizzato, fatto anche di prezzi al ribasso che orientano gli acquisti dei consumatori
anche oltre confine, esercitando una pressione sul mercato interno e sugli operatori che privilegiano la qualità.
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Grottino Orselina, Orselina; Hotel Ristorante Cereda, Sementina; Ristorante Montalbano, San Pietro di Stabio; Ristorante Casa Berno, Ascona; Grotto Pergola, Giornico; Grotto Madonnone, Purasca; Ristorante
Tiratura 101’035 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Della Torre, Morcote; Ristorante San Grato, Carona; Canvetto Luganese, Lugano; Osteria Andina, Madonna Del Piano; Ristorante Giardino, Bombinasco; Ristorante Da Gina, Ascona.
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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Società e Territorio L’arte a misura di bambino Incontro con Loredana Bianchi direttrice del Museo in erba che da poco si è trasferito a Lugano
Guidini e la tutela dei beni culturali L’eclettica figura dell’architetto Augusto Guidini nelle parole di Angela Windholz curatrice della monografia pubblicata dall’Accademia di Mendrisio pagina 6
Emigrazione La storia delle colonie ticinesi in California raccontata da Maurice Edmond Perret è stata tradotta e pubblicata dalle edizioni Dadò pagina 9
pagina 5
Anche in una società in cui le persone continuano a inviarsi emoticon rimane difficile a volte trovare la parola giusta per definire un’emozione. (Keystone)
Nominare le emozioni Parole e sentimenti Abbiamo un vocabolario ancora limitato per descrivere i nostri stati d’animo.
Una ricercatrice inglese ha scritto una piccola enciclopedia che ci viene in soccorso Stefania Prandi Succede a tutti di provare un’emozione senza riuscire a trovare la parola giusta per definirla. Si resta in uno stato di incertezza, cercando inutilmente di nominarla, spesso accontentandosi di una definizione approssimativa. Abbiamo un vocabolario ridotto per descrivere i nostri stati d’animo; certi termini, addirittura, nella nostra lingua non esistono. In nostro soccorso arriva Tiffany Watt Smith, ricercatrice al Centro di storia delle emozioni della Queen Mary University of London. La studiosa, inserita dalla Bbc nella classifica delle menti più brillanti del 2014 (The New Generation Thinkers), ha raccolto gran parte del suo lavoro – precisando di non avere la pretesa di essere esaustiva – in un volumetto dalla copertina dorata, pubblicato dalla casa editrice inglese Profile Books. Leggendo Il libro delle emozioni umane (The Book of Human Emotions), in corso di traduzione in diversi Paesi come Italia, Cina, Germania, Corea, Giappone, si scoprono diversi termini affascinanti. Ad esempio, c’è una parola finlandese, Kaukokaipuu, per indicare la nostalgia di un posto dove in realtà non si è mai stati. Awumbuk, invece, è un termine
che arriva dalla Papuasia e descrive la tristezza che si prova dopo una cena o una festa quando gli ospiti se ne sono andati. L’appel du vide, cioè il richiamo del vuoto, è un’espressione francese per chi avverte il desiderio di buttarsi giù da uno strapiombo oppure dall’alto di un palazzo. Non si tratta di un istinto suicida, ma di una sorta di vertigine; secondo il filosofo esistenzialista JeanPaul Sartre è «la sensazione snervante di non potersi fidare del proprio istinto». Cybercondria è la preoccupazione infondata (spauracchio di molti medici) di chi cerca su internet i sintomi di una malattia, entrando in uno stato di angoscia. È un’emozione recente, così come ringxiety, la sensazione di ansia che si prova quando si sente suonare un cellulare e, credendo che sia il proprio, lo si cerca in modo forsennato nella borsa o nelle tasche. In tailandese il termine greng jai indica la riluttanza nell’accettare un’offerta di aiuto per paura di causare problemi. Fago è un vocabolo usato dagli abitanti di Ifaluck, isola della Micronesia, per descrivere la consapevolezza della sofferenza umana, mista alla speranza che gli sforzi di prendersi cura degli altri possano servire per alleviare la pena. E ancora, torschlusspanik, in tedesco definisce il
panico che ci prende quando ci rendiamo conto che il tempo sta passando velocemente e la vita, con le sue molteplici possibilità, scivola via. Wanderlust è il desiderio incontrollabile di avventura, di provare qualcosa di diverso, di scoprire posti nuovi. «Quando si parla di emozioni bisogna premettere che non c’è una definizione univoca di che cosa siano» spiega Watt Smith ad «Azione». «Per alcuni specialisti le emozioni sono principalmente risposte adattive dell’organismo e stati della mente. Per altri sono costrutti culturali. Io credo che siano una combinazione dei nostri riflessi fisici e della matrice dei significati che usiamo per dare un senso ai nostri impulsi». La parola «emozione», per come la intendiamo oggi, è piuttosto recente. Risale al 1830, quando l’anatomista Thomas Willis iniziò a usarla in modo simile al nostro. Prima si parlava di passioni, malesseri dell’animo, sentimenti morali, si credeva che i demoni impiantassero nel cuore la noia, che la rabbia fosse portata dai venti avversi. Soltanto negli anni Sessanta e Sessanta si è formata l’idea che le emozioni sono condizionate dalla cultura in cui viviamo. «Pensiamo alla felicità. Tutti noi crediamo che sia un’emozione positiva, ma non è
così. Uno studio recente pubblicato dal “Journal of Happiness Studies” dimostra che gli abitanti di Ifaluk (isola della Micronesia) sono diffidenti verso la felicità, che viene associata all’idea di avere fallito nel fare il proprio dovere». Oggi è opinione condivisa che riconoscere le emozioni sia importante per l’evoluzione personale, per stare insieme agli altri, per aumentare la resilienza, cioè la capacità di affrontare e superare eventi traumatici e periodi di difficoltà. «Per il nostro cervello è più semplice distinguere le esperienze legate a cose che già conosciamo rispetto a quello che non ci è familiare. Quando impariamo a collegare una parola a un gruppo di sensazioni stabiliamo una connessione che ci sarà utile per quando ci troveremo di nuovo a provare quell’emozione». Una delle parole più affascinanti del libro, secondo l’autrice, è amae. «Un termine difficile da tradurre in maniera sintetica; definisce il piacere di sentirsi al sicuro con una persona che per un breve periodo di tempo si prende in carico la responsabilità della nostra vita. In Giappone è una parola molto usata, implica dare per scontato l’amore, stabilendo connessioni profonde e durature: è l’emblema della
fiducia profonda. Il fatto che noi occidentali non abbiamo una parola simile forse non è un caso. Una delle possibili spiegazioni è che dal Settecento almeno la nostra società ha premiato l’individualità e l’autonomia. Al contrario, la cultura giapponese è collettivista e ha valorizzato le forme di interdipendenza e mutuo supporto». Le parole che abbiamo e che ci mancano possono dirci molto riguardo ai nostri sentimenti e a chi siamo davvero. A questo proposito è interessante riflettere sull’importanza che noi occidentali attribuiamo a certi termini, come felicità. Un’enfasi paradossale perché «continuando a focalizzarci sull’idea di quanto dobbiamo essere felici, di fatto otteniamo l’effetto contrario». La felicità è un’ossessione collettiva, con libri che ci incoraggiano a cercare di ottenerne sempre di più, studi che indicano che ha effetti positivi sulla salute e sulla longevità, sulle nostre relazioni con gli altri. Questa pressione ci porta a pensare che se non siamo felici abbiamo sbagliato qualcosa. Può quindi essere utile smettere di accanirsi e ricordare, come un monito, le parole del filosofo britannico John Stuart Mill: «chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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Società e Territorio
Coltivare la passione per l’arte Museo in erba Dopo 17 anni di attività il museo ideato per i bambini si è trasferito da Bellinzona a Lugano.
Incontro con la direttrice Loredana Bianchi
Laura Di Corcia L’approccio ai musei e alle mostre può essere suddiviso in due modalità opposte e non dialoganti: c’è chi crede che portino in serbo esperienze estetiche da non perdere, chi (la maggior parte) ritiene che siano scatole chiuse, inaccessibili, destinate a un’élite pronta a sorbirsi un’ora e mezza, anche due ore, di pura noia. Come mettere in comunicazione i due gruppi? Come far scoprire il piacere di fruire dell’arte? Il gusto va educato, è tutt’altro che spontaneo e incondizionato. Per questo un lavoro come quello svolto dal Museo in erba di Lugano, nato sulla scia del Musée en Herbe di Parigi, è manna, perché permette ai bambini sin dalla tenera età di avvicinarsi a un mondo che risulta inaccessibile e qualche volta mette in soggezione. Le esperienze proposte dal Museo, che recentemente si è spostato a Lugano (al Central Park in Riva Caccia 1, a due passi dal LAC) da Bellinzona, dove ha aperto i battenti 17 anni fa, sono essenzialmente due: la mostra, ogni volta incentrata su un tema diverso, e le formule laboratorio, pensate per bambini dai 2 ai 12 anni. «Il nostro scopo è quello di avvicinare i bambini a un artista ogni volta diverso» spiega Emanuela Bergantino, storica dell’arte che si occupa nello specifico del progetto didattico, affiancando in questo la direttrice e ideatrice del Museo, Loredana Bianchi. «Non diamo troppe informazioni all’inizio, ma lasciamo i bambini liberi di esplorare gli aspetti che più li attraggono, per permettere una sperimentazione spontanea. Solo in un secondo momento arrivano le spiegazioni, mentre creano interveniamo solo con qualche input». La incontro a fine agosto, visto che durante il periodo estivo il Museo non ha chiuso
A destra, alcuni bambini mostrano le loro creazioni all’interno dello spazio ricreativo; in basso, bambini all’opera durante gli atelier allestiti per la mostra in corso «Arte che passione!». (Museo in erba)
i battenti ma ha proposto laboratori per piccoli gruppi, bambini spesso molto piccoli, accompagnati dalle mamme e pronti a tuffarsi in un mondo di colori e fantasia. La mattina che ho visitato il Museo erano in sette, armati di matite e pastelli, oltre che di entusiasmo e voglia di fare. «Quali colori vedete?», ha chiesto Emanuela mostrando una scultura di Niki de Saint Phalle. Il blu! Il rosso! Il verde! «E che cos’ha sul petto?». Due palloncini! Due scudi! Dopo via, pronti a disegnare ognuno la sua Nana, con i colori più scintillanti e cerchietti, cuori, triangoli. I più grandicelli erano autonomi, i più piccoli, sui tre anni, esploravano aiutati dalle mamme e dall’educatrice. «Quando escono dal laboratorio si sono confrontati un giorno con una scultura, un altro con un paesaggio e un altro con una natura morta: hanno sperimentato la tempera, l’acquerello, il pastello», conclude Emanuela Bergantino, accompagnandomi nella sala d’entrata, dove adesso e fino a novembre c’è la mostra «Arte che passione». È la direttrice
a condurmi attraverso l’esposizione, dove la cosa che colpisce di più, forse, è il pannello iniziale, che reca una scritta «Tutti i bambini sono grandi artisti». «Noi puntiamo molto sull’autostima del bambino», mi spiega Loredana Bianchi, aggiungendo che nei 17 anni di lavoro le soddisfazioni sono state tante e rispondendo anche ai miei quesiti un po’ meno accomodanti. Detta in parole povere: ma non è che questo pur meritorio progetto finisca per piovere sul bagnato, quindi per essere frequentato da bambini con genitori già dotati di una sensibilità verso l’arte? Ovvero: si tratta di bambini che ad ogni modo verrebbero portati a visitare mostre, collezioni d’arte, esposizioni? «Un grosso lavoro lo fa la scuola – spiega la direttrice – con la quale collaboriamo. Ci sono dei progetti che coinvolgono proprio le classi, come quello chiamato “Il mio libro dell’arte”, un quaderno dove per ogni artista nuovo incontrato si inserisce una scheda biografica e un disegno elaborato proprio dal bambino o dalla bambina. Così gli allievi sono spinti a
cercare l’arte anche al di fuori delle aule scolastiche, e molto spesso sono loro che portano i genitori al Museo, facendo da guida. Molte mamme e molti papà mi hanno confessato di essersi avvicinati per la prima volta ai quadri e alle sculture proprio grazie ai loro figli». L’esposizione attuale è un percorso che permette di avvicinarsi ad artisti di epoche differenti, mettendo a confronto tecniche disparate e proponendo ai più piccoli anche concetti difficili, come quello dell’arte astratta: a fine visita, i bambini si sono confrontati con Gauguin e Picasso, con Mirò e Kandinsky, apprendendo la differenza fra un paesaggio e un ritratto, scoprendo anche le arti affini alla pittura, come il teatro e la danza. Tutto per il tramite del gioco e dell’esperienza diretta, che fanno sì che i più piccoli siano gentilmente accompagnati ad un’esplorazione più approfondita delle opere, lungo un iter didattico che stimola la fantasia, oltre che la conoscenza. «Trasferendoci a Lugano intendiamo anche allargare gli orizzonti», spiega la direttrice, aggiungendo che
al piano terra prenderà vita il progetto multidisciplinare KidsArti, che proporrà laboratori per le famiglie fra arte, musica, teatro e danza, oltre a un programma speciale «adulto-bambino», destinato alla fascia pre-asilo: una vera novità, un fiore all’occhiello per il Museo, che ora si estende su una superficie di 600 metri quadri. «Pensiamo che investire nell’accrescimento culturale dell’infanzia sia porre le basi per i buoni cittadini di domani», conclude Loredana Bianchi, mostrandomi lo spazio ricreativo, la ludoteca che dà la possibilità alle famiglie in visita con i bambini di fermarsi anche dopo la mostra a giocare con i propri figli. Proprio lì sul muro ci sono sei pannelli con l’uccellino Biriki, realizzati da Bruna Ferrazzini, che presentano i principi cardine su cui dovrebbe svilupparsi l’educazione: prima di tutto l’autostima e l’amicizia ma poi anche il principio della tolleranza e del rispetto della diversità e della natura che ci circonda. Un suggerimento per i bambini, ma anche per gli stessi genitori.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Philip Reeve, Oliver e le isole vagabonde (illustrazioni di Sarah Mc Intyre), Il Castoro. Da 8 anni Immaginifico e avventuroso, questo bel romanzo di Philip Reeve, nell’impeccabile traduzione di Laura Bortoluzzi, ci porta dentro vorticosi paesaggi marini seguendo le peripezie di un ragazzino sulle tracce dei genitori, esploratori misteriosamente scomparsi. Il giovane Oliver è accompagnato da Iris, una deliziosa sirena miope (nonché rotondetta e stonata) in cerca di un oculista da spiaggia; da un albatros che si fa chiamare signor Burbery; e da Rocky, un’isola semovente. Già una sirenetta così si scosta dal canone, e anche l’albatros parlante, per non parlare dell’«oculista da spiaggia». E che dire dell’isola vagabonda di nome Rocky? Ottime invenzioni narrative, a cui l’autore non è nuovo (nella sua quadrilogia Macchine mortali, si trattava di città che si muovevano). Qui però si rivolge a lettori più piccoli, il tono è leggero e umoristico, e si parla di isole. Rocky del resto non è l’unica isola se-
movente, perché il romanzo ne è pieno: sembrano in tutto e per tutto dei normali isolotti, poi ogni tanto si issano sulle loro gambe petrose facendo uscire il testone dall’acqua e si mettono a camminare spostandosi nel mare. La storia le coglie nel momento in cui le
Isole Vagabonde si stanno recando alle Sacre Secche per la consueta gara delle Parrucche di Mare: vincerà l’isola con in testa più relitti e fantasiose cianfrusaglie trovate in mare. Incautamente anche i genitori di Oliver, in una delle loro esplorazioni, sono finiti – senza saperlo, è ovvio – in testa a un’isola vagabonda, un’isola malvagia per giunta, il temibile Petrobrivido, che vorrà utilizzarli come strepitosi addobbi, chiusi in sfere, tipo orecchini, per vincere la gara. I nostri eroi tenteranno il tutto per tutto per salvarli e sconfiggere il Male, e lo faranno con grande coraggio, nonostante le loro paure e i loro limiti: Iris non ci vede bene e il suo canto è tutt’altro che seducente; Rocky è un isolotto spelacchiato e anche un po’ depresso; Oliver è solo un esile ragazzino di dieci anni. Ma è proprio questo a renderli dei veri eroi. Virginie Morgand, Le Olimpiadi degli Animali, La Nuova Frontiera Junior. Da 3 anni Le Olimpiadi si sono concluse, ma è il momento di farle ricominciare con
questo semplice ed elegantissimo libro: un albo realizzato dalla giovane artista francese Virginie Morgand, perfetto per i lettori più piccoli, che magari hanno appena avuto occasione di essere spettatori di qualche gara delle prime Olimpiadi della loro vita.
Ad ogni doppia pagina una situazione sportiva, raccontata con colori accesi, briosi e tratto volutamente rétro. Poche le parole, quello che conta sono le immagini – che raccontano gli exploits olimpici di svariati animali – e i numeri, che ritmano la progressione narrativa: «1 coppa in palio, 2 colpi di fischietto; 3 ostacoli caduti, 4 linee a terra…» fino a 20 e ritorno «il numero 19 si fa male, Stop! 20 minuti di pausa; e il numero 19 torna in campo! Incoraggiato da 18 bandiere; 17 bottiglie d’acqua vuote, 16 km a piedi…». Da raccontare con la voce, che segue il climax dell’azione, e con il dito, per contare sulle pagine gli elementi enumerati. Raccontare e contare, ricontare e ri-raccontare. E incantarsi a guardare le figure. Leopardi corridori, canguri campioni di salto, scimmie ginnaste, orsi sollevatori di pesi, coccodrilli nuotatori, volpi tenniste, e molto altro ancora. È bello tifare, è bello salire sul podio, ma ancora più bello è ricordarsi, come ci dice l’ultima pagina (dedicata, in simmetria con la prima, al numero uno) che siamo 1 sola squadra!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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Società e Territorio
Tra impegno civico e creatività Pubblicazioni Una monografia curata da Angela Windholz indaga la figura dell’architetto
Augusto Guidini, promotore della prima Legge cantonale di tutela dei beni culturali
Dieci proposte interessanti e curiose Forum elle Pronto
il nuovo programma, mentre i vertici si sono riuniti a Lugano
Stafania Hubmann L’impegno per la salvaguardia dei beni artistici e culturali del Cantone Ticino, con la proposta di una legge a loro tutela, avanzata nel 1905 e approvata dal Gran Consiglio nel 1909 dopo un iter travagliato, resta una delle principali eredità di Augusto Guidini, architetto fra i più rappresentativi della sua epoca, ma anche artista, politico, scrittore. Nato a Barbengo nel 1853, oltre ad affermarsi professionalmente in Ticino e in Italia, in particolare a Milano, Guidini è stato protagonista della vita culturale e sociale di entrambe le realtà nelle quali ha vissuto e operato fino al 1928, anno della sua scomparsa avvenuta a Milano il giorno di Natale. Fra i progetti realizzati spicca il Palazzo cantonale degli Studi di Lugano (con il collega Otto Maraini), mentre la sua casa di Barbengo custodisce la memoria storica di questa figura colta e versatile. La donazione da parte della famiglia dei progetti di Augusto Guidini all’Archivio del Moderno e di circa 600 titoli alla Biblioteca dell’Accademia di architettura ha offerto lo spunto per la prima monografia sulla vita e l’opera dell’architetto. Ricerche e analisi seguite a una giornata di studio organizzata nel 2011 sono state raccolte nel volume Augusto Guidini di Barbengo. Architetto, giornalista, politico, edizioni Casagrande, curato da Angela Windholz, responsabile della Biblioteca dell’Accademia di architettura a Mendrisio. È a lei che abbiamo rivolto alcune domande per scoprire gli aspetti più interessanti e curiosi di una personalità che il nipote Arnaldo Guidini descrive così: «Di alta statura, massiccio, imponente, aveva occhi azzurri dallo sguardo scrutatore ed una bella barba che, negli anni della vecchiaia, gli conferirà un aspetto leonino, carducciano». Agela Windholz, quale importanza riveste il Fondo Augusto Guidini per la Biblioteca dell’Accademia di architettura?
La biblioteca professionale di Augusto Guidini, in parte acquisita dal nostro istituto, testimonia la grande sete di informazione di un architetto erudito. Guidini si interessava alla storia della disciplina, ma anche all’architettura contemporanea e in particolare alle correnti più evolute che si stavano sviluppando in diversi Paesi europei. La donazione del Fondo è stata quindi l’occasione per approfondire quel periodo storico, mentre finora l’Archivio del Moderno si era concentrato soprattutto sul periodo precedente neoclassico e successivo, legato alle Avanguardie storiche. Grazie agli scritti di Augusto Guidini è stato inoltre possibile ricostruire in modo piuttosto esaustivo la sua biografia intellettuale, il suo orizzonte teorico e il suo impegno a favore della modernizzazione delle istituzioni e dell’istruzione. Era un uomo molto attivo, in campo professionale, politico e sociale. Fra le sue molteplici iniziative nella terra d’origine figurano la promozione di legislazioni per salvaguardare il patrimonio artistico e per riforma-
È stato pubblicato negli scorsi giorni il programma d’attività da settembre 2016 a febbraio 2017 di Forum elle, l’associazione femminile nazionale di Migros. Il calendario dettagliato e il regolamento per la partecipazione alle manifestazioni organizzate è disponibile sul sito web dell’associazione, www.forum-elle.ch. Sullo stesso sito sono possibili anche le iscrizioni. Per ciò che riguarda la vita dell’associazione, lo scorso 5 settembre le presidenti nazionali di Forum-elle Svizzera assieme al gruppo direttivo si sono trovate a Lugano per una due giorni di lavori al Suitenhotel Parco Paradiso. Nella foto (da destra) Beatrice Richard-Ruf, presidente nazionale e Monica Duca Widmer, Presidente del CdA di Migros Ticino, che ha tenuto una relazione sulla nostra Cooperativa regionale. Augusto Guidini affacciato alla torretta della casa di Barbengo. (Archivio Guidini Barbengo) re le Scuole di disegno, il tentativo di introdurre la cremazione facoltativa, il progetto del Piano Regolatore di Lugano. Tutte proposte lungimiranti e in diversi casi troppo innovative per l’epoca. Qual è oggi la sua maggiore eredità?
Sicuramente l’azione di sensibilizzazione per la salvaguardia dei monumenti storici, testimoniata dalla sua attività in Italia – si pensi in particolare al suo piano regolatore per la città di Messina dopo il terremoto del 1908 che prevedeva la ricostruzione di gran parte del tessuto urbano storico e della famosa Palazzata – e sfociata in Ticino nella relativa Legge del 1909. A Milano Augusto Guidini era membro della Commissione conservatrice dei monumenti storici della città e della provincia e partecipò al restauro del Duomo e di altre chiese. Ha quindi svolto un ruolo di ponte tra il dibattito già molto avanzato nella capitale lombarda e la situazione ticinese. Purtroppo nel nostro cantone la riflessione è iniziata solo all’inizio del Novecento; fino ad allora la società era poco consapevole del valore del proprio patrimonio artistico, architettonico e paesaggistico. Augusto Guidini ha dunque promosso la generale attenzione sull’eredità storica del costruito, cercando anche di salvare alcune opere dalle speculazioni. Sono emersi aspetti di particolare curiosità durante le ricerche che hanno portato alla pubblicazione del volume?
Diversi sono gli aspetti originali di questa personalità così capace. Sono rimasta colpita dalla sua mano, molto raffinata. Era un grande disegnatore e acquarellista, molto esuberante anche nei disegni tecnici, spesso affiancati da elementi floreali. Si vede proprio che non riusciva a frenare questo estro artistico. Oltre a ciò, egli era interessato all’impiego delle
tecniche fotografiche e tipografiche più avanzate che completava con interventi manuali, come si può notare ad esempio nelle presentazioni e pubblicazioni dei propri progetti. Dalle sue pubblicazioni emerge quindi il desiderio di sperimentazione, combinando varie tecniche artistiche e tipografiche nella rappresentazione dei progetti. Da rilevare, anche il contrasto tra la sua espressione artistica, riflesso di una formazione accademica tradizionale, e le sue idee fin troppo moderne per l’epoca, come ad esempio la sua volontà di realizzare importanti riforme sociali. I suoi scritti rivelano infatti anche l’attenzione per piccoli progetti, come quelli per la costruzione di stalle modello che permettessero alle mucche di non ammalarsi. Nel volume figura anche il testo biografico firmato dal nipote Arnaldo. La famiglia ha quindi partecipato in modo diretto alla realizzazione del libro.
Certo, l’apporto di Arnaldo Guidini è stato essenziale, non solo perché ha deciso di donare parte del patrimonio familiare ai due istituti di Mendrisio, ma anche perché ci ha spesso accolto nella sua dimora di Barbengo, acquistata da suo nonno nel 1890 e successivamente trasformata in una stravagante ed eclettica casa-atelier. L’archivio dei progetti, la biblioteca, le innumerevoli opere d’arte, sono testimonianze del percorso umano e artistico del nonno Augusto, non conosciuto personalmente, ma la cui figura l’ha affascinato sin da bambino e la cui eredità ha sempre cercato di mantenere. Entrare nella casa che fu di Augusto Guidini significa compiere un viaggio nel tempo che ci riporta indietro di un secolo. Di fronte alla ricchezza della documentazione e a una vita così intensa come quella di Augusto Guidini, quali sono oggi le prospettive di ricerca?
Il volume rappresenta un punto di partenza per sviluppare nuovi studi su Augusto Guidini, per il quale l’architettura era al contempo manifestazione artistica e progettualità civica. Prima di questo lavoro c’era solo una ricerca mirata di Chiara Lumia, presente con un saggio anche nel libro, sul tema del restauro dei monumenti storici e una tesi di laurea degli anni Novanta del secolo scorso rimasta inedita. Malgrado fosse molto apprezzato in vita e sia oggi citato nell’«Inventario svizzero di architettura» (1850-1920) come pioniere della storiografia e salvaguardia dell’arte e come uno dei più importanti architetti eruditi svizzeri dell’epoca, Guidini non è stato oggetto né di pubblicazioni coeve alla sua attività e nemmeno di un’adeguata valutazione storiografica dopo. Il volume, che annovera pure i contributi di Stefania Bianchi, Ornella Selvafolta, Valeria Farinati e Riccardo Bergossi, è sicuramente un tassello importante per future ricerche su Guidini, ma anche su altri artisti dell’epoca. In quale misura la figura di Augusto Guidini può rappresentare una fonte d’ispirazione per chi oggi è chiamato a livello professionale e politico a intervenire sul territorio ticinese?
Il percorso di Augusto Guidini offre innanzitutto lo spunto per approfondire la ricerca sull’epoca in cui ha vissuto e sulle rappresentazioni che l’hanno caratterizzata. La valutazione negativa dell’Eclettismo deve essere superata, riconoscendo i meriti delle diverse forme di espressione artistica già sviluppate e che in quel periodo si sono intrecciate. Animato da grande curiosità e desiderio di documentarsi, Guidini è portatore della necessità di cambiare in meglio, tutelando però le testimonianze del passato. Un’attitudine valida ancora oggi.
Forum elle Ticino Il programma dei prossimi mesi: 15 settembre 2016
Gita a Gandria 6 ottobre 2016
Corpo di Guardia di Confine. Incontro con il Com. Mauro Antonini. 6 novembre 2016
Milano – Teatro Nazionale, Musical Footloose. 17 novembre 2016
Como – Visita al Museo della Seta. 20 novembre 2016
Milano – Teatro della Luna, Musical Evita con Malika Ayane. 26/27 novembre 2016
Gita a Monaco di Baviera: la magia dei mercatini di Natale. 2 dicembre 2016
Visita agli studi della Radio di Besso e conferenza di Milena Folletti. 12 gennaio 2017
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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Società e Territorio
La California delle colonie ticinesi Emigrazione Le ricerche di Maurice Edmond Perret pubblicate in un volume da Dadò,
con l’introduzione di Giorgio Cheda Pier Baroni «Le colonie ticinesi in California possono essere considerate uno degli esempi più felici di colonie svizzere all’estero. Sebbene in America rappresentino solo un elemento minimo, una pietra di un edificio, esse si pongono tuttavia tra le colonie straniere che hanno contribuito a rendere forti gli Stati Uniti». È il pensiero finale che il ricercatore neocastellano Maurice Edmond Perret (1911-1996) affida alla sua pubblicazione in francese Le colonie ticinesi in California edita nel 1950 e ora disponibile nella traduzione in italiano (curata da Christine Fornera) con la parte introduttiva di Giorgio Cheda, per le edizioni Dadò. Cheda ha dedicato parecchi libri all’emigrazione ticinese in California, usciti a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Nel suo lavoro di ricerca è stato capace di contestualizzare il fenomeno migratorio ticinese nell’ambito dei milioni di europei che si sono trasferiti, dopo la metà dell’Ottocento, verso il «nuovo mondo» e il «nuovissimo mondo», l’Australia. 400mila svizzeri si sono distribuiti nella parte orientale degli USA «mentre quasi tutti i ticinesi preferirono la California». «Un migliaio dei 27mila ticinesi arrivati nel Golden State – afferma ancora Cheda – sono diventati proprietari di 1800 chilometri quadrati di terra, con i principali insediamenti lungo le catene costiere e sulle propaggini della Sierra (...) La superficie corrisponde a quella dei quattro distretti di prove-
Ranch di Giovanni Foletta, di Gerra Verzasca, a Gonzales, nel 1900.
nienza della maggior parte dei ranceri: Vallemaggia, Locarno, Leventina e Bellinzona, i due terzi del territorio cantonale». L’espulsione dall’Italia di 6mila ticinesi (su ordine di Metternich, cancelliere austriaco), il gold rush (la ricerca dell’oro) e l’endemica povertà nelle nostre valli furono i motori di una emigrazione di massa. Considerando che il Ticino, fin verso gli anni Trenta del secolo scorso, contava circa 150mila abitanti. Aggiunge Cheda: «L’emigrazione-immigrazione rappresenta una
costante nella storia della civiltà. Si dimentica che i ticinesi sono sempre emigrati per lo più con la bisaccia sulle spalle che non con la valigia diplomatica o la ventiquattr’ore (...) Sono aumentati anche da noi coloro che colpevolizzano gli ultimi immigrati, riducendoli a capri espiatori delle difficoltà dell’esistenza e della propria insipienza». Il libro di Perret si apre con la prefazione di Enrico Celio (già consigliere federale). Nel 1943 Harrison, ministro degli USA a Berna, venne nel suo ufficio per invitarlo a ricevere un colonnello ameri-
cano di nome Celio, che diceva d’essere originario di Ambrì. Con «commossa riconoscenza» ha accettato un blasone della famiglia e visitato i luoghi da dove erano partiti i suoi antenati. Attualmente i Celio californiani sono insediati presso il lago Tahoe, con una vastissima tenuta agricola e una azienda multimediale. Sono i Celio di terza-quarta generazione. Nel libro, Perret presenta le origini dell’emigrazione ticinese oltremare, gli sviluppi migratori nelle catene costiere (compresa la valle di Salinas, nota per il libro del premio Nobel John Steinbeck
La valle dell’Eden), a San Francisco e nella Sierra Nevada. Si sofferma sull’importanza delle nostre colonie e conclude con gli effetti positivi e negativi del fenomeno. Gli emigranti avevano inviato somme importanti alle loro famiglie. Un dato qualificante: il totale dei depositi a risparmio e delle obbligazioni presso le banche ticinesi era passato da 21 milioni (1890), a 43 milioni (1900) e 83 milioni (1913). Cheda aggiunge che molti edifici della regione sono stati restaurati con i dollari: la chiesa di Cevio, l’organo di Broglio, l’ospedale di Cevio (140 emigrati nel Golden State fra i benefattori), la chiesa di Brontallo e altri edifici pubblici e privati. In alcuni comuni (per esempio Giumaglio) la perdita di forze lavorative emigranti era stata altissima. Afferma Perret: «L’emigrazione ha certamente assicurato al Ticino delle risorse economiche ma, a causa della sua ampiezza, il fenomeno ha avuto soprattutto conseguenze negative per il paese, in particolare per le alti valli della Vallemaggia, della Verzasca e della Leventina, dove si è assistito allo spopolamento dei villaggi rurali, alla diminuzione degli armenti e conseguente abbandono delle fattorie e degli alpeggi, alla perdita di soggetti forti ed attrattivi della popolazione che ha dovuto essere compensata dall’immigrazione di stranieri e di svizzeri provenienti da altri cantoni». L’emigrazione in America «ha permesso ai ticinesi di sollevare la propria condizione al disopra di quella in cui si trovavano all’inizio. Pochi, restando in Svizzera, avrebbero potuto fare lo stesso». Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi I buoni andranno in Paradiso Quando mi si chiede di definire in modo semplice e conciso in che cosa consista l’antropologia, mi piace rispondere che antropologizzare vuol dire guardare ai fatti della vita da punti di vista inusuali, insoliti. E riuscire a considerare la stranezza dei nostri usi e costumi così come risulta dal punto di vista dell’Altro è il massimo che si possa ottenere in quella disciplina strana ed insolita che è l’Altropologia. Prendete ad esempio starsene sdraiati in un comodo letto d’ospedale, pancia all’aria e faccia in su a contare con pazienza le gocce che stillano dal flacone della flebo per entrare – uno ad uno con ordine – nel flusso sanguigno e fare il loro lavoro. Niente di grave, a cose fatte: un’inopinata discesa nelle acque men che cristalline del Marina per grattare lo scafo della barca dalla flora estiva che quest’anno ci ha cresciuto un orto botanico, le inevitabili escoriazioni da denti di cane ed altre amenità abrasive non immediatamente disinfettate come diceva la mamma e – tac! Uno si trova delirante in ospedale con un febbrone da infezione virale che non vi raccomando.
«E le sarebbe potuto andar peggio, molto peggio», glossa la dottoressa, severa e segaligna mentre prescrive un altro lotto di flebo antibiotiche. So bene che qui da noi avrebbe anche aggiunto volentieri un bel «mona che non sei altro». In terre lombarde sarebbe «p….a», ma il senso non cambierebbe. E comunque la protesta interiore, quella che poi innesta la Filosofia vera, quella che si interroga sul Fato, sul Destino e sul Caso e, a partire da questi piccoli accidenti ci produce gli Aristoteli e i Platoni – la protesta interiore, l’indignazione etica, la rivolta morale subito scatta: «Perché proprio IO?». A pulire la carena delle barche eravamo quel giorno almeno venti, tutti escoriati da sembrare l’Ecce Homo. E allora, inevitabile, perché proprio IO? E la colpa non era certo di aver fatto quel che hanno fatto TUTTI: come dicono i miei amici nei villaggi del Nord del Ghana «il primo p….a non è un p….a». Posto dunque che non debba prendermela tanto con me stesso per essere stato il primo, resta però il fatto che è capitata a me e non a quell’antipatico del mio vicino. Il
problema della giustificazione del male del mondo attraversa le culture umane con la costanza e la frequenza di un orologio. Per quanto riguarda il mio caso, mi fosse capitato nel Nord del Ghana sarei andato da un anziano indovino che mi avrebbe diagnosticato una qualche minore mancanza o nei confronti della pietas dovuta ad un qualche remoto antenato oppure una trascuratezza nell’attendere a questo o quel santuario: un modesto sacrificio di un pollo avrebbe sistemato tutto. La logica che sottende tali forme di spiegazione delle disgrazie potrà apparire grossolana e poco scientifica, ma funziona alla grande. Ricordo quella volta che il villaggio fu colpito da un uragano d’acqua che in una nottata ridusse le abitazioni in mattoni d’argilla ad un budino squagliato. Un’anziana semiparalizzata non era riuscita a fuggire dalla sua abitazione prima che crollassero le travi del tetto ed era rimasta sotto le macerie. Il giudizio unanime del villaggio fu che la poveretta era morta perché era una strega: la pioggia, si sa, non ha grande simpatia per le streghe, e morire
per annegamento è indizio indubbio di stregoneria. «Un corno!» – sentenziò un indignato altropologo al quale la nonnina stava anche simpatica. «Un corno: Amina è morta perché le è caduto un palo in testa in quanto non poteva scappare perché nessuno di voi ha avuto la cortesia di andare a tirarla fuori prima che fosse troppo tardi!». Ricordo che nella luce stenta di quell’alba memorabile si accese una discussione sui massimi sistemi – dalle cause del male alla giustezza delle punizioni. La partita fu chiusa quando si fece avanti Pentu. Mostrava con orgoglio una cicatrice piuttosto brutta che gli marcava a metà la testa: «E io allora?!», esordì con tono di sfida. «L’ultima volta che successe una roba del genere mi cadde una trave sulla testa ma invece di morire io sono ancora qui! Perché? Perché non sono uno stregone!». Applausi a Pentu e fischi all’Altropologo che si ritira in buon ordine e va a prendere appunti. Spiegarsi il male nel mondo non è roba da poco. Quando pochi giorni fa il Vescovo di Rieti ha dichiarato nell’omelia per le vittime del terremoto
che ha colpito il Centro Italia che la colpa dei terremoti non è «della natura» ma «degli uomini», la cosa non è andata giù così liscia. Certo, il prelato intendeva riferirsi alle inadempienze e all’incapacità di prevenire le conseguenze dei disastri naturali, cosa particolarmente marcata al di qua delle Alpi. Ma altro hanno voluto leggerci ancora una volta l’eco di forme di eziologia che collegano la virtù morale alla disgrazia ed all’accidente in senso causale. Famosamente disse Fra Girolamo Savonarola: «Dio manda terremoti e pestilenze per punire i cattivi dei loro peccati». E a chi gli obiettava che ci vanno ahimè di mezzo anche i buoni rispondeva: «Beh, quelli andranno in Paradiso». Però. Dal canto suo, l’Altropologo a pancia e faccia in su continua a contare lo stillicidio della flebo. Punto di vista e prospettiva che – lasciate da parte forme primitive di spiegazione del male – lo lasciano peraltro a riflettere con roba del tipo il Caso, l’Accidente, la Sfortuna, la Legge di Murphy o semplicemente la… E non so cosa funzioni meglio.
parole d’amore sono un balsamo per la vulnerabilità dei più piccoli. In questi casi meglio rassicurarla dicendole con tenerezza: «so che sei stufa di stare qui, che hai voglia di tornare a casa. Andremo via presto e potrai dormire comoda nel tuo lettino». Il suo desiderio non sarà subito esaudito ma lei sentirà che è stato accolto e riconosciuto. Ed è più importante sentirsi compresi che accontentati. In tal modo imparerà ad attendere, una condizione sempre più disattesa nella società della fretta, del «voglio tutto subito». Un’altra cosa è quando il gesto di pizzicare la guancia della mamma si ripete nel lettone. Probabilmente in quei frangenti la bambina vive con ansia il sonno dei genitori. I nostri corpi compiono infatti, durante le fasi REM del sonno, movimenti improvvisi e inconsulti che possono spaventare. Temendo di essere schiacciata da quelle grandi masse, Greta si tutela cercando di svegliare la mamma, di attirare la sua attenzione. Il mio consiglio è di convincere poco per volta Greta a dormire sempre da sola, evitando di condividere il letto matrimoniale. Al risveglio può raggiungerlo, magari
la domenica, per sgranocchiare un dolcetto insieme, ma non deve diventare un’abitudine e neppure un diritto. Sarà per lei l’occasione di compiere un passo avanti sulla strada dell’autonomia e dell’indipendenza, premiato con i riconoscimenti e privilegi che si accordano, di solito, ai fratelli maggiori. A due anni e mezzo la peggior offesa è sentirsi definire «piccola» e il più ambito riconoscimento è sentirsi definire «grande». Per alleviare l’inevitabile frustrazione di essere esiliata dal lettone, è opportuno arricchire la cerimonia della buona notte con un raccontino o la lettura di una fiaba, con la vicinanza di un peluche, con la musichetta di un carillon. Gli affetti si compensano e, avendo ricevuto tante attenzioni prima, sentirà meno il bisogno di chiederne poi.
affollate e variegate, dei seguaci del no, sempre e ovunque. La categoria non è nuova, ma nuovi sono le sue dimensioni e il suo influsso. Un tempo si chiamavano i bastian contrari, e si muovevano prevalentemente nell’ambito privato, in famiglia, al bar, alla partita, considerati alla stregua di piantagrane innocui. Negli ultimi decenni, con il ’68 e la psicologia di massa, sono diventati una categoria, di cui tener conto nelle nostre società, sempre più tolleranti e persino compiaciute nei confronti dei sostenitori del no: da modesti rompiscatole, sono stati promossi a contestatori, spiriti critici, innovatori, moralizzatori, e personaggi onnipresenti. Dalla politica all’economia, dall’ecologia alle scienze, dalla letteratura alle arti, gli oppositori dello status quo hanno trovato un terreno in cui cimentarsi
lanciando messaggi, spesso allarmanti e, persino, suggestivi. Stiamo, insomma, assistendo a una moda di successo, che sfrutta il fascino dell’insolito, della ventata d’aria fresca. Gran tentazione, insomma, andare contro corrente: ma bisogna essere dotati. Ci era riuscito, a suo modo, Montanelli, conducendo sul «Giornale» di allora, una rubrica che s’intitolava proprio così. Altrimenti, come succede adesso, perché troppo praticato e sotto la spinta di motivazioni banali, andare contro sfocia nelle derive di alternative persino pericolose, tipo antipolitica, antiscienza, antitecnologia, con conseguenze che fanno notizia negativamente, tipo bimbi non vaccinati o referendum a iosa. Se, agli inizi, scegliere il no sempre e ovunque può sembrare un hobby divertente, strada facendo si rivela una fatica sprecata e rischiosa.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Affettuosi pizzicotti Cara Silvia, una nostra amica ha una bimba di 2 anni e mezzo, Greta, molto carina, una piccola bambolina bionda, vivace e simpatica. Una sera siamo usciti tutti insieme e naturalmente verso le 22 la bimba era stanca e si faceva prendere in braccio dalla mamma con l’aria assonnata, come per volersi addormentare. Cosa curiosa: sdraiata in grembo alla mamma ha cominciato a strizzarle la guancia. Stando reclinata sulle sue braccia, alzava mano e la teneva tra le dita stretta, tanto che la guancia era tutta arrossata. Io mi sono incuriosito, anche perché la mamma dava segni di impazienza, pur contenendosi data la situazione «pubblica». Un po’ tesa la nostra amica mi ha confessato che sua figlia lo fa spesso, specialmente nei momenti in cui deve addormentarsi: lei e il suo compagno la tengono spesso nel letto con loro e la bimba si addormenta con questo contatto fisico particolare, ma anche fastidioso. Io ho cercato di distoglierla un po’ dalla preoccupazione dicendole che si trattava evidentemente di un caso di «fusione mentale»: in Star Trek c’è un personag-
gio bravissimo, Mister Spock, che ha la capacità di leggere nel pensiero delle persone con questa tecnica di empatia vulcaniana (!) e cioè appoggiando tre dita della mano sulla loro guancia (Spock fa questo comunque raramente perché è uno sforzo emotivo molto grande). Quindi ho detto all’amica: «forse tua figlia vuole solo sapere quello che pensi». Lei mi ha risposto «interessante» mi è sembrata un po’ sollevata, ma mi ha confessato che il comportamento della figlia in effetti la spiazza, la mette a disagio. Cosa ne pensi? / Franco Caro Franco, penso che hai colto perfettamente nel segno. Anche gli autori di film, come i pubblicitari, si dimostrano spesso capaci di straordinarie intuizioni, confermando la convinzione di Freud che, sulla via della verità, gli artisti ci precedono sempre. Ma cominciamo dall’inizio. Tutti i cuccioli di mammiferi e, in particolare i gattini, appena il latte materno smette di fluire abbondantemente, cercano di incrementarne il flusso pigiando
la mammella con le zampette. Anche quando sono svezzati, utilizzano poi quel «pigia pigia» per festeggiare il padrone mentre sta a letto o in poltrona. È un gesto affettuoso che esprime, agli occhi di chi lo riceve, gratitudine e affetto. Lo stesso fa Greta con la guancia della mamma per sollecitare la sua attenzione, far fluire il suo amore, sottrarla alla conversazione con gli amici che la porta lontano da lei. I bambini conoscono i loro bisogni e i loro desideri e spesso si comportano da veri e propri «sindacalisti» di se stessi. Noi adulti dobbiamo accogliere le richieste che ci inviano e cercare di rispondere adeguatamente. La tua amica ha reagito alla stanchezza della bambina nel modo migliore abbracciandola e accogliendola dolcemente sulle ginocchia trasformate in culla. Prendere un piccino tra le braccia serve a tranquillizzarlo, a dirgli «io sono qui», ad aiutarlo a superare il senso di abbandono che spesso coglie chi ha bisogno degli altri per sopravvivere. Ma a Greta, bambina intelligente e acculturata, quel gesto di contenimento non basta. Lei vuole anche i pensieri e le parole della mamma. Le
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Andare sempre contro: fatica rischiosa Anche l’indignazione, sentimento politicamente in auge, subisce i contraccolpi dell’attualità. In parole povere, va giù di moda, da un momento all’altro. Sintomatica, in proposito, la vicenda di «Charlie Hebdo» che, il 2 settembre scorso, si è bruciato gran parte delle simpatie conquistate il 7 gennaio 2015, quando la redazione del settimanale fu decimata da due terroristi di Al Qaeda. Quel tragico episodio doveva attribuire a un periodico di nicchia, apprezzato da pochi cosiddetti «intellos», una momentanea popolarità. Per un paio di settimane, le tirature, abitualmente magre, attorno alle 10/15 mila copie, salirono a 4/5 milioni. Un’impennata passeggera sul piano editoriale, che, però, aveva lasciato un segno persistente su quello emotivo: «Je suis Charlie» era diventato uno slogan di portata
mondiale. Sulla scia di quel «Ich bin ein Berliner», pronunciato da J.F. Kennedy, di fronte al Muro di Berlino, nel giugno del ’63, esprimeva l’indignazione per un sopruso. Anche se attraverso le pagine di una pubblicazione, di per sé, tutt’altro che simpatica. In verità, le recenti vignette sul «Séisme à l’italienne», brutte nella grafica e odiose nei contenuti, non stupiscono. Anzi, rispettano la linea di un giornale che vuole essere indisponente e sgradevole: perché questo sarebbe il prezzo da pagare per esercitare, a pieno titolo, la trasgressione, garantita dalla libertà di stampa. Certo è che, al di là delle inevitabili reazioni di leso patriottismo, con le inevitabili conseguenze politiche e diplomatiche, che si sono viste nell’Italia ferita del dopo terremoto, il caso «Charlie Hebdo» riapre un interrogativo, che è sempre nell’aria,
nelle nostre democrazie: quale spazio spetta a chi sceglie di stare dall’altra parte, schierandosi sempre contro? Sul «Corriere della Sera», Pierluigi Battista, spiegava bene il suo imbarazzo, del resto condiviso da molti di noi: «Je suis Charlie sempre anche se non ci piace». Per poi precisare: «Naturalmente deve esistere una reciprocità di diritti: se la satira vuole vedere riconosciuto quello dell’irriverenza assoluta e offensiva, deve anche riconoscere il diritto altrui a criticare le schifezze che si pubblicano in nome della satira». Riecco, dunque, il citatissimo principio attribuito a Voltaire (e non solo a lui): «Mi batto per difendere la libertà di chi la pensa diversamente da me». Ma si giustifica il dubbio che questo sacrosanto principio possa poi trovare riscontro tra le file, oggi più che mai
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La formazione professionale è la chiave per sconfiggere la miseria. Ciò vale tanto nei Paesi del Nord quanto in quelli del Sud: la formazione di un ragazzo non si conclude alla fine della scuola elementare.
Foto: Alexandra Wey
Franka (17 anni) può guardare in faccia al futuro Nel Nord dell’Uganda, la giovane madre di Flexy (15 mesi) ha ritrovato la gioia di vivere. Abbandonata dal padre di suo figlio, esclusa dalla scuola, ha finito per ammalarsi. Oggi è una ragazza raggiante e una madre attenta che impara un mestiere che la libererà dalla povertà, dandole autonomia. Imparare il mestiere di cuoca, istruirsi, aiutare. Così gli adulti descrivono la determinazione di Franka. Oggi è una ragazza raggiante, piena di energia e di progetti. Si è illuminata da quando ha iniziato la formazione professionale presso la Nwoya Girls Academy, alcuni mesi fa. La sua condizione di madre giovanissima non le pesa più. È felice di ritrovare suo figlio Flexy diverse volte al giorno, fra un corso e l’altro. Ancora fino a poco tempo fa, Franka non aveva un futuro, nessuna prospettiva. Sua madre l’aveva ritirata dalla scuola per mancanza di mezzi. A quel tempo aspettava un bambino il cui padre l’ha immediatamente abbandonata. Quando Franka ha messo alla luce suo figlio, sua madre ha
sentito parlare della Nwoya Girls Academy alla radio locale. Non ha indugiato: Flexy aveva una settimana quando Franka e sua madre si sono presentate alla porta della scuola. Da allora, questo adorabile bimbo è diventato la mascotte dell’istituto. E Franka una delle ragazze più apprezzate dalle insegnanti. Nonostante la severa disciplina che regna nell’internato, le sveglie mattutine, le ore di lezione e di lavori pratici che si susseguono, Franka non cambierebbe vita per nulla al mondo. «Quando avrò terminato la formazione aprirò il mio ristorante. Sarò autonoma e potrò educare mio figlio in buone condizioni. Aiuterò mia madre affinché tutti i miei fratelli e le mie sorelle vadano a scuola.» I suoi occhi scintillano quando parla del futuro. Anche il
Alice Achan, fondatrice delle scuole per ragazze, è categorica: «La formazione professionale è la chiave per vincere la miseria. Ciò vale tanto nei Paesi del Nord quanto in quelli del Sud. La formazione di un ragazzo non termina alla fine della scuola elementare. Ciò vale soprattutto per le ragazze e le giovani madri che devono cavarsela da sole nella vita.»
Uganda: un mestiere per le giovani madri nubili
piccolo Flexy ride. Si stringe fra le sue braccia. La guerra ha sconvolto la società. Il Nord dell’Uganda, dove vive Franka, ha sofferto il martirio negli anni di guerra tra l’Esercito di resistenza del Signore e l’esercito ugandese. I minorenni sono stati le principali vittime di questo movimento: i ragazzi diventavano soldati e le ragazze schiave sessuali dei comandanti. Franka aveva 7 anni quando la guerra è finita. Molte ragazze che frequentano la Nwoya Girls Academy sono nate in campi di rifugiati. La loro lotta continua. Poiché non è facile essere una ragazza. Devono lottare per liberarsi dall’ingranaggio che le mantiene nella povertà: abusate da uomini che non le sanno rispettare, costrette dalle loro famiglie a sposarsi troppo presto per una misera dote. Come se non valessero nulla. Alcune devono prostituirsi. La scuola le ha dato nuova vita Franka afferma che la scuola le ha dato nuova vita. Sua madre, che ha perso il marito anni fa, ha la vita difficile. La ragazza non vuole avere lo stesso destino. Madre e figlia sono molto attive in seno alla loro comunità per convincere la gente che occorre mandare le ragazze a scuola. Poiché il salario che si riceve dopo il tirocinio val più di una dote irrisoria! In Uganda le ragazze incinte sono escluse dalla scuola. Nessuna legge lo prescrive, ma la pratica sociale è molto forte. Le famiglie hanno spesso scarsi mezzi e
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le ragazze non sono considerate prioritarie per la scuola o la formazione professionale. La guerra è finita, ma la violenza continua. Le ragazze sono vittime della prostituzione, del lavoro minorile, dei matrimoni forzati e delle gravidanze precoci. Di conseguenza sono ostracizzate dalla società e sono dunque doppiamente vittime.
Frequentare la scuola e svolgere un tirocinio è il modo più sicuro per rendere le ragazze indipendenti. Così sfuggono all’ingranaggio della povertà e della dipendenza. Caritas le aiuta a istruirsi e a imparare un mestiere. Grazie a Caritas, 105 ragazze e 16 bambini approfittano ormai di un ambiente benevolo che consente loro di ricostruirsi. In futuro saranno in 300 alla Nwoya Girls Academy. Costruiamo edifici scolastici adeguati e dormitori, come pure le infrastrutture che permettono di impartire una buona formazione. Insegnanti ben formati e adeguati trasmettono istruzione e savoir-faire preziosi. Mentre le ragazze si formano, i loro bambini ricevono l’attenzione e le cure che necessitano. Apriamo prospettive professionali e di vita alle ragazze, ai loro figli e alle loro famiglie. Inoltre, un lavoro in stretto contatto con la comunità delle studentesse e delle loro famiglie consentirà di far cambiare le mentalità circa la posizione delle ragazze in seno alla società.
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Ambiente e Benessere Attenzione e prevenzione Nella relazione cane-bambino non esiste una ricetta che metta al sicuro tutti quanti
Zafferano fatto in casa Grazie a una coltivazione locale la costosa spezia per il risotto giallo è anche made in Ticino
Torna la Ferrari giapponese Dopo quasi trent’anni la Honda fa debuttare la nuova generazione della potente NSX
Tra marroni e caldarroste Si sta avvicinando la stagione delle castagne, tanto utili in tempi passati e ancora buone pagina 19
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Lo sviluppo propone e la selezione dispone Biologia evoluzionistica La natura
non ha un progettista che possa sbizzarrirsi in esercizi di libera creazione
Lorenzo De Carli Lo zoologo Alessandro Minelli ha scritto: «Gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta si trovano all’incrocio fra due logiche, quella dello sviluppo e quella dell’adattamento evolutivo». Minelli è un’autorità mondiale nel campo di una nuova disciplina, che si è andata imponendosi negli ultimi vent’anni: la biologia evoluzionistica dello sviluppo – detta anche «evo-devo». Si trova al punto di convergenza di due discipline che, senza l’aiuto della genetica dello sviluppo, forse per lungo tempo ancora non si sarebbero incontrate: la biologia evoluzionistica e la biologia dello sviluppo. Per il modo un po’ rigido con cui si è divulgata la Sintesi Moderna della selezione naturale, siamo stati indotti a pensare che il codice genetico è una specie di programma di computer, che esegue le sue istruzioni indipendentemente da tutto; e che le mutazioni possibili sulle quali può esercitarsi la selezione naturale siano pressoché infinite. L’evo-devo ci dice che le cose stanno diversamente. Il paragone tra genoma e programma di computer è molto semplicistico, innanzitutto perché l’ambiente – sia quello esterno ai nostri corpi, sia i nostri corpi stessi, sia l’ambiente intracellulare medesimo – influisce senza interruzione sull’espressione genica, e poi perché, nella loro crescita, gli organismi debbono attenersi a precisi vincoli di sviluppo. Prendiamo il collo di una giraffa, per esempio. È chiaro che la selezione naturale ha fatto in modo che diventasse sempre più lungo, favorendo la riproduzione di quegli esemplari in grado di cogliere le foglie più alte; ma non poteva liberamente scegliere qualunque «opzione di allungamento»! La selezione poteva esercitarsi solo nei limiti di un piano di sviluppo che, per i mammiferi, prevede solo sette vertebre cervicali. «Dunque – scrive Alessandro
Minelli nel suo Forme del divenire – in termini di anatomia scheletrica l’evoluzione del collo della giraffa ha comportato solo un allungamento delle sette vertebre cervicali, perché solo questo aspetto è soggetto alla variabilità». Anche l’esempio dei centopiedi è interessante perché in maniera emblematica mostra i vincoli, dentro i quali deve operare la selezione naturale. Gli esemplari dell’ordine degli scolopendromorfi hanno tutti un numero dispari di segmenti, in generale 21 o 23; ci sono casi in cui i segmenti possono quasi raddoppiare, ma mai essere in numero pari. Ciò significa che non dobbiamo pensare che il numero dispari di segmenti sia stato selezionato perché più favorevole al fitness dei centopiedi, ma semplicemente perché la natura non può dare ai centopiedi segmenti pari. In considerazione di questi vincoli, non è mostruoso che possano esserci vitelli a due teste; è invece mostruoso che possano esserci centopiedi con un numero pari di segmenti. «Anche i mostri rispettano le leggi, così come fanno gli animali “normali”». Ciò che l’evoluzione «vede» sono i fenotipi, vale a dire gli esseri concretamente viventi, impegnati a sopravvivere e a riprodursi. Lo sviluppo di ciascuno di questi esseri viventi è vincolato da specifici limiti, i quali definiscono per così dire le condizioni della loro «evolvibilità». È stata la genetica dello sviluppo a far luce in quella che per molti anni è stata la «scatola nera» dello sviluppo. Lo studio del moscerino della frutta, per esempio, in particolare l’esame delle mutazioni indotte – che hanno dato luogo, per esempio, a due paia di ali – è stato fondamentale per scoprire il funzionamento di alcuni geni che svolgono un ruolo di primo piano nell’impostazione strutturale di tutti gli animali: i geni Hox. Ma più recentemente nella «scatola nera» dello sviluppo si è potuto addirittura seguire la crescita cellulare di un piccolo orga-
La giraffa non avrebbe potuto liberamente scegliere qualunque «opzione di allungamento». (Bernard Dupont)
nismo, un minuscolo verme del terreno denominato Caenorhabditis elegans. I biologi dello sviluppo immaginavano che tutte le cellule di uno stesso tipo, coinvolte nella formazione di uno stesso organo, dovessero arrivare da uno stesso precursore; invece – studiando la crescita di C. elegans – sembrava che gli organi reclutassero le cellule un po’ a caso. Ci volle un po’ di tempo prima di comprendere la rilevanza della dimensione spaziale: una data cellula diventava la cellula di uno specifico organo perché collocata in un punto specifico del corpo. Occorre dire che, finora, la disciplina che ha contribuito di più ai progressi della biologia evoluzionistica dello sviluppo è stata proprio la biologia dello sviluppo «grazie ai risultati spettacolari di quella che possiamo
chiamare la genetica molecolare dello sviluppo». Alessandro Minelli attira però l’attenzione su due insidie che, soprattutto a danno dei biologi, rischiano di creare malintesi nel corso della ricerca scientifica: il finalismo e la visione adultocentrica. Abbiamo un orientamento finalista quando tendiamo a pensare che il primo vertebrato terrestre sia vissuto allo scopo di generare tutta una filiera di creature, al termine della quale ci siamo noi. Questo orientamento è facilmente indotto quando, tracciando l’evoluzione di un organismo, ne collochiamo le varie mutazioni lungo l’asse del tempo senza renderci conto di come la contingenza abbia ad ogni momento creato la condizione dei «sentieri che si biforcano»: «la storia evolutiva non segue un progetto, ma disegna un percor-
so la cui logica potrà essere letta solo a posteriori». La visione adultocentrica, invece, è un orientamento simile portato nell’osservazione dello sviluppo degli organismi, un orientamento, cioè, che ci induce a pensare che lo sviluppo prepara l’animale o la pianta alla sua esistenza adulta; orientamento che occorre superare, anche perché comincia a diventare difficile definire l’«adulto», quando scopriamo organismi che si riproducono non da adulti bensì da larve (come alcuni coleotteri). La biologia evoluzionistica dello sviluppo non è una critica della teoria dell’evoluzione per selezione naturale; nient’affatto: è lo studio della natura e dell’origine di quella variabilità sulla quale la selezione naturale può operare. Ci indica un filone di ricerca ricco di preziose scoperte.
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Ambiente e Benessere
Cani e bambini: come prevenire una tragedia? Mondoanimale Rispetto, prudenza, competenza e buonsenso: ingredienti essenziali per evitare
morsicature e aggressioni
Maria Grazia Buletti Ha destato scalpore e indignazione la recente triste notizia dell’incidente consumatosi in Sicilia, dove una signora stava giocando con il figlio di un anno e mezzo e i due cani. Si trovavano nella piscina di plastica del giardino di casa, una villa a Mascalucia, alle falde dell’Etna, quando i molossi hanno aggredito improvvisamente il bimbo azzannandolo alla gola e all’addome. La tragedia è avvenuta lo scorso mese di agosto. La madre del bambino, una donna di 34 anni, ha tentato disperatamente di strappare il piccolo dalla furia dei due mastini, rimanendo a sua volta ferita a un braccio. Quando la donna è riuscita a rinchiudere in casa i cani e ha chiesto aiuto, era oramai troppo tardi per il bimbo che è deceduto per le gravi ferite riportate, malgrado il pronto intervento dei soccorsi e dei medici dell’Ospedale che hanno potuto solamente constatarne il decesso. I due cani, di tre e otto anni, erano regolarmente denunciati all’anagrafe e dotati di microchip. Ciò significa che, malgrado quella che crediamo essere la nostra profonda conoscenza e la fiducia che possiamo riporre nel nostro cane di famiglia, anche il suo rapporto con gli esseri umani e, a maggior ragione, con i bambini del nucleo famigliare merita di essere analizzato e puntualizzato, perché tragedie indescrivibili come questa non abbiano più a capitare. Interrogarci sul motivo per cui
un cane arrivi a mordere o aggredire un bambino è il minimo che possiamo fare. «Non è sempre colpa del cane, non è sempre colpa del bambino» esordisce la presidente della Società cinofila ticinese Désirée Mallè, alla quale abbiamo chiesto di spiegarci i meccanismi del rapporto bambini-cani e di darci qualche utile consiglio su come comportarci quando i bambini hanno a che fare con gli amici a quattro zampe. «Il rapporto cane-bambino è qualcosa di estremamente variabile e delicato e perciò non può essere racchiuso in schemi o categorie», la nostra interlocutrice mette subito i puntini sulle «i» e ci ricorda che le immagini di tenerezza tra bimbi e animali piacciono a tutti, ma c’è ben altro da considerare: «Sicuramente crescere con un cane può essere un’esperienza meravigliosa, ma è solo una parte della realtà». Désirée ci ricorda che esiste, purtroppo, anche l’altra faccia della medaglia, tristemente assurta alle cronache in queste settimane, ma pur sempre presente: «Mi riferisco a cani che i bambini li aggrediscono e feriscono anche molto gravemente». E questo capita per le ragioni più svariate e non
necessariamente attribuibili a una sola delle parti in causa: «A volte la “colpa” non c’entra proprio per niente e l’aggressione è il risultato di un insieme di fattori». Una sola regola deve valere sempre e in assoluto: «È l’attenzione! Non lasciare mai cani e bambini da soli, essere sempre vigili ed educare entrambi a una corretta interazione». Tuttavia, l’esperta sottolinea una verità da non prendere sotto gamba: «Alcuni cani, senza aver subito nessun trauma, e ai quali si è pure impartita un’ottima educazione, non amano i bambini». Nel dubbio, dunque, va ricordato che «la prevenzione è l’unica arma di buonsenso: bisogna evitare il contatto piuttosto che andare incontro all’incidente o, peggio, alla tragedia». Désirée Mallè precisa che i cani mordono di rado, ma mordono: «È una loro forma di comunicazione». Anche su questo punto, secondo lei, «le situazioni sono molteplici ed è difficile stilare un prontuario esaustivo e chiaro». Non esiste una ricetta che metta al sicuro tutti quanti, a maggior ragione i bambini: «Ciò che possiamo sicuramente fare per prevenire una buona casistica
di morsicature è evitare di costringere il cane a contatti e interazioni indesiderate. Poi, abbiamo i cani “inseguitori” che corrono appresso a jogger o biker e qui è il proprietario che può agire con responsabilità, tenendo il suo cane al guinzaglio (e rivolgersi a un professionista che lo aiuti a gestire, migliorare e risolvere la situazione)». Negli ulteriori esempi, la nostra interlocutrice parla inoltre di «cani
territoriali che mordono se qualcuno invade il loro territorio, cani che aggrediscono per allontanare, per difendere una risorsa e per un sacco di altre (loro) ragioni». Alla base di tutto sta il fatto che conoscere il cane, le sue peculiarità, il suo modo di comunicare e quant’altro rimane il modo migliore per prevenire gli incidenti: «Se poi dobbiamo, nostro malgrado, affrontare un cane minaccioso o aggressivo, ricordiamoci che non bisogna scappare via, mentre dovremmo dare il fianco e, se possibile, rimanere fermi e calmi, senza fissarlo». Désirée ammette che tutto ciò è più facile a dirsi che a farsi, in situazioni come quella evidenziata, e conclude con l’esempio del cane «difficile» che ci appartiene: «Se siamo proprietari di un cane problematico abbiamo una sola possibilità: dobbiamo smetterla di trovare giustificazioni dando la colpa a questo o a quell’agire, mentre dobbiamo immediatamente farci aiutare da qualcuno di competente». Alla luce di quanto affermato, non ci resta che ricordare che la legislazione inerente la tenuta dei cani parla chiaro e in Svizzera differisce da cantone a cantone. Essere proprietari di un cane dovrebbe assolutamente e indissolubilmente passare per il concetto di «proprietà responsabile», che mette in gioco buonsenso, educazione, responsabilità e profonda conoscenza della natura di questi magnifici animali dai quali ci facciamo accompagnare, ma che non dobbiamo mai sottovalutare. E questo sarà argomento di una delle prossime pubblicazioni del nostro settimanale.
Effusioni sgradite Alzi la mano chi non ha mai, almeno una volta d’impulso o meno, abbracciato il proprio cane. Una dimostrazione d’affetto che per l’essere umano è per lo più scontata. Ma per il cane lo è altrettanto? Anche la scienza si è interrogata su questo punto che, manco a dirlo, si interseca con l’antropomorfizzazione che l’uomo tende sempre a traslare sull’animale quando vi si rapporta. Dunque, secondo uno studio riportato da «Psychology Today», ai cani non piacerebbe proprio essere
abbracciati, nemmeno dai loro padroni. Per capirlo, un esperto ha analizzato 250 fotografie di cinofili «abbarbicati» ai loro amati quattro zampe, rilevando che nell’80 percento dei casi a questi ultimi la cosa non piace proprio per nulla. Come l’esimio scienziato sia arrivato a questa conclusione è presto svelato da egli stesso: «Basta osservare lo sguardo del malcapitato animale». Ancora una volta, c’è di che riflettere, su tema e metodo di analisi, naturalmente. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Al debutto la seconda generazione della sportiva NSX Motori Raddoppia il modello, ma di fatto quadruplica il motore Mario Alberto Cucchi Si chiama Honda NSX e nei primi anni Novanta era conosciuta come la Ferrari giapponese. Al suo sviluppo aveva collaborato anche Ayrton Senna. A quasi trent’anni dal suo debutto è arrivata ora la seconda generazione della NSX. Un vero e proprio bolide. Velocità massima? Ben 308 chilometri orari. Accelerazione da ferma? Ufficiosamente bastano meno di tre secondi per raggiungere i cento orari. Ma cosa nasconde sotto il cofano? Alle spalle dell’abitacolo si torva un motore doppio turbo con sei cilindri a V da 3500 cc in grado di erogare ben 507 cavalli. Quest’ultimo è abbinato a un propulsore elettrico da 48 cavalli posizionato posteriormente che aiuta il motore tradizionale ai bassi regimi sin quando il turbo a bassa pressione (1,05 bar) non inizia a spingere. Quindi la nuova Honda NSX ha due motori? No, quattro! Ebbene ai due propulsori di cui abbiamo già parlato si aggiunge la «Twin Motor Unit» montata all’anteriore. Si tratta di due motori elettrici da 37 cavalli e 73 Nm di coppia cadauno inseriti ciascuno su una delle due ruote anteriori per una potenza totale sistema di 581 cavalli e 646 Nm di coppia massima. Non si scherza: sono numeri da automobile da corsa che però percorre tranquillamente dieci chilometri
Il nuovo modello della Honda Nsx.
con un litro di benzina. «Si tratta del più costoso progetto di serie nella storia della Honda Automobili», spiega il capoprogetto Jason Widimer. «Ho avuto l’incarico più eccitante per un ingegnere: i vertici dell’azienda hanno firmato un assegno in bianco perché realizzassimo la migliore delle su-
percar» continua Widimer. «Per due anni abbiamo guidato tutte le migliori granturismo. Da Ferrari a Lamborghini, Da Porsche a Maserati. Cercando il modo per migliorare le loro già ottime prestazioni…» Indubbiamente un progetto molto ambizioso il cui obiettivo era quello
di realizzare un’auto di serie, piccola serie: si parla di circa duemila pezzi all’anno. Una vettura che mostrasse al mondo di cosa sono capaci gli uomini Honda. A cosa servono quattro motori della NSX? Sporto Hybrid SH-AWD. In pratica una trazione integrale ottenuta mantenendo indipendenti le ruote da-
vanti da quelle dietro. Un modo per distribuire la coppia fra gli assi e le singole ruote in base all’aderenza e alle condizioni di guida. Insomma dove serve e quando serve in modo da migliorare le prestazioni dinamiche. SH sta per Super Handling. Quattro le modalità di guida disponibili: Quiet in cui il motore non supera i quattromila giri, sport, Sport+ e Track dedicato esclusivamente alla pista. Il cambio? Un automatico robotizzato a nove rapporti dotato di doppia frizione. Le batterie del complesso ibrido vengono ricaricate dal motore termico e dal sistema di recupero di energia in frenata. In questo modo la decelerazione è potenziata dal sistema frenante super sport di nuova generazione che unisce l’efficacia di un sistema frenante meccanico ad alte performance a una frenata rigenerativa fluida. Dotata di un baricentro molto basso la supercar giapponese è stata costruita senza badare a spese: alluminio leggero e fibre in acciaio e carbonio sono tra i materiali utilizzati. La struttura del telaio space frame è realizzata con barre di alluminio estruso unite tra loro mediante l’applicazione della tecnica di saldatura automatica Metal arc Inert Gas. Il risultato? La rigidità torsionale è tre volte superiore a una Ferrari 458 Italia. Il prezzo di questo sogno orientale? Dovrebbe aggirarsi intorno ai 200mila franchi. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Lo zafferano ticinese Dall’orto alla tavola A Castel San Pietro si coltiva una delle spezie più pregiate
Prima delle fusioni, Castel San Pietro era il comune più vitato del cantone, ma non per questo si coltiva solo uva e Merlot. Presso la fattoria dell’istituto di Loverciano, da qualche stagione, c’è infatti anche una coltura molto speciale, quella dello zafferano. Particolare per le caratteristiche della pianta, un croco, ma anche per le peculiarità del raccolto e della lavorazione, così come per il prodotto finale, giacché si ottiene una spezia che sul mercato può essere quotata anche oltre quaranta franchi per ogni grammo. Cifra che non deve comunque spaventare chi si ritrova ai fornelli per preparare un buon risotto per quattro persone; di zafferano, infatti, ne serve solo un decimo di grammo, quindi meno di cinque franchi, una spesa di certo sostenibile per ottenere quel gusto e quel colore tipici. Se alle nostre latitudini lo zafferano è sinonimo di risotto, altrove trova però molti altri impieghi per la preparazione di salse, pane ma anche dolci e dessert. Tantissime le opportunità di questo vegetale, di cui si utilizzano i tre filamenti (stigmi o stimmi) che si trovano al centro del fiore. «Per ottenere un grammo di prodotto finito ci vogliono almeno duecento fiori e ogni piantina ne produce da uno a sette», ci spiega Gianluca Ghirotti, responsabile della coltivazione presso l’istituto del Mendrisiotto, una struttura che dal 1950 accoglie minorenni e giovani con di-
sabilità o con problematiche derivanti dal disagio sociale, con lo scopo di offrire un’educazione e una formazione scolastica o professionale.
La raccolta dei pistilli di zafferano avviene ai primi di ottobre nel pieno della fioritura e dev’essere tempestiva Anche i ragazzi aiutano quindi nella cura della coltivazione, che segue un ritmo tutto particolare, come ci racconta Gianluca: «Sì, lo zafferano è un bulbo sotterraneo della famiglia dei Crocus e la sua particolarità è che fiorisce in autunno, quando quasi tutte le altre piante finiscono il loro ciclo vegetativo». La raccolta avviene ai primi di ottobre e dev’essere tempestiva in modo da non perdere l’attimo buono, ossia quando la pianta è in piena fioritura. Gli stigmi raccolti vanno immediatamente essicati per garantire la conservazione e una qualità ineccepibile. Un ciclo al rovescio quindi, che non richiede particolari cure se non quella di mantenere il terreno libero da altre erbe nel corso di tutta l’estate. «Dopo la fioritura – conclude Gianluca – la pianta produce le foglie che rimarranno durante l’inverno». Lo Zafferano, Crocus sativus, effettua pertanto la sua pausa vegetativa in estate, dopo che in primavera le foglie sono seccate.
Luigi-CC
Elia Stampanoni
Ma com’è arrivato lo zafferano a Loverciano? Ce lo spiega Thierry Castellazzi, che in questo progetto ha svolto il ruolo di propulsore sin dai primi esperimenti avvenuti nel 2012: «L’idea è nata in una discussione con amici, quando un conoscente mi ha chiesto come mai non ci fossero coltivazioni di zafferano in Ticino (ndr: alla redazione è nota solo una coltivazione presente a
Gudo nel 2009). Io mi sono informato e mi sono appassionato a questo fiore dalle grandi virtù». Thierry ha quindi conosciuto Gianluca che si apprestava a riprendere la gestione della fattoria di Loverciano, per la quale era giunto il momento di differenziarsi con nuove coltivazioni innovative e all’avanguardia. Da qui il duo ha lavorato congiuntamente, per arrivare ai primi soddisfa-
centi raccolti di oro rosso, come viene venduto il prodotto finito. Nel frattempo sui terreni di Loverciano sono stati piantati circa 15mila bulbi, che il prossimo autunno dovrebbero dare un raccolto stimato attorno a un chilo e mezzo, per ora destinato prevalentemente alla vendita diretta e a qualche ristorante che già lo usa nella propria cucina. La raccolta avviene nel giro di una ventina di giorni e dev’essere eseguita in modo accurato e, chiaramente, rigorosamente a mano. Anche la cernita e la seguente essiccazione sono passaggi molto delicati per non pregiudicare il prezioso bottino. Una piccola quantità se rapportata alla produzione mondiale: «Sì, siamo una goccia nel deserto – ci spiega Thierry – nel Mondo se ne producono approssimativamente 180 tonnellate l’anno, di cui una buona fetta (80 per cento circa) in Iran. Seguono poi altri paesi come Afghanistan e Marocco, mentre in Europa le maggiori coltivazioni le troviamo in Spagna, Grecia e Italia. In Svizzera il quantitativo annuo si aggira sui tre chilogrammi, garantiti dalla nostra produzione e da quella vallesana di Mund». Oltre alla raccolta, la coltura offre anche uno spettacolo visivo quando, a ottobre, il campo è in piena fioritura. La superficie si colora di un colore violetto e nell’aria si sprigiona un odore particolare, di croco. Non c’è ancora profumo di zafferano, quello si percepirà nell’aria solamente durante l’essicazione e poi, di certo, al momento del suo utilizzo. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Viticoltura sugli altopiani andini Bacco Giramondo Il vino prodotto in Bolivia e Uruguay non è molto ma si lascia apprezzare
Davide Comoli Furono i missionari cattolici spagnoli a introdurre i primi vitigni in Bolivia fra il 1550 e il 1570. Esattamente come avvenne in Messico (v. Azione 33 del 16.8.2016). Nel 1600 furono impiantati i vigneti a Tarija, luogo dove ora si producono i migliori vini boliviani. I vitigni Criolla Negra (provenienti dalla Baja California) arrivarono in Bolivia da Panama e dal Perù grazie ai missionari messicani. Far crescere la vite sugli alberi è un metodo antiquato già usato dagli Etruschi, che facevano arrampicare la vite come una liana. La maggior parte di queste vigne «maritate» è scomparsa, ma non in Bolivia. Nella regione di Capinota, fra Oruro e Cochabamba, ai piedi delle Ande ci sono ancora 217 acri di vigneti piantati alla vecchia maniera. Una particolare caratteristica della Bolivia è il contrasto tra gli altopiani caldi e umidi nell’est del Paese e le fredde regioni nel sud-ovest. Le più alte cime andine sono troppo fredde per la viticoltura (5-10° C media annuale). Gli altopiani con il loro clima tropicale sono troppo caldi e, cosa più determinante per la viticoltura, troppo umidi. I migliori vigneti si trovano nelle valli montane tra i 1500 e i 3000 m di altezza, dove la temperatura media è più favorevole: 15-25° C. Durante il giorno le vigne sono riscaldate dal sole tropicale e di notte vengono rinfrescate dai venti che scendono dai monti.
Pochi sono i vini di qualità prodotti in Bolivia, da parte di altrettante poche aziende. I migliori vini provengono da una vecchia missione di Gesuiti (molto ben installati nel Paese), la Concepción de Jesús a Tarija. I primi vigneti furono impiantati qui più di 400 anni or sono, ma il loro potenziale qualitativo non è stato capito fino agli inizi del 1980, quando un enologo californiano, Sergio Prudencio, decise di portare dei vitigni nobili europei, sui più alti contrafforti del Tarijadal. Questi moderni vigneti, 222 acri (1 acro = 4046,85 mq) contrastano molto con quelli delle aree più basse con le viti sostenute ancora da tralicci (molle). Confermiamo, per averli provati, che i vini della Bodega della Concepción sono di una qualità che ci ha piacevolmente sorpreso, e pensate che sono uve che provengono dai vigneti più alti del mondo, (ci sono vigne molto più alte nel Nepal, ma per fortuna le uve non vengono usate per fare il vino). Abbiamo trovato i vini bianchi di questa Bodega gradevoli, ma molto interessanti sono i rossi, tra i quali il Merlot, il Syrah, il Cabernet Sauvignon e il Tannat: corposi, rotondi e caldi, sono vini difficili da trovare fuori dal continente americano. La bassa resa delle uve ha fatto sì che la domanda sia molto più alta del prodotto disponibile. L’ultima sera a Sucre, abbiamo consumato la nostra insalata di pollo innaffiandola con un profumato vino rosato prodotto con uve Tannat; il giorno dopo ci saremmo trasferiti a Montevideo,
Vigna nel dipartimento di Colonia, Uruguay. (viagemdasommeliere.com)
dove questo vitigno ha trovato il suo luogo elitario. Mentre Cile e Argentina si sono già da tempo creati un’ottima fama come produttori di vino, l’Uruguay sta facendo enormi sforzi per raggiungerli. L’Uruguay – 30°–35° latitudine sud – ha una ricca storia vinicola, i conquistadores portarono la viticoltura nel XVI sec., Francisco Cervantes de Toledo fu il primo a impiantare la vitis vinifera europea nella regione della Plata e produrre il vino per celebrare la S. Messa, vincendo la notevole quantità di denaro messo in palio dall’imperatore Carlo V per questo scopo; correva l’anno 1550, opera poi continuata dagli ordini monastici. La viticoltura uruguaiana conobbe un forte impulso quando nel Pae-
se si insediarono migliaia di emigrati provenienti dalla Spagna (tra cui molti Baschi), Francia, Germania, Italia e Svizzera. Un ruolo di primo piano venne svolto dal francese Pascal Harriague, che nel 1870 introdusse in Uruguay il vitigno Tannat. Questo vitigno è ben noto nel sud-ovest della Francia, specialmente nella zona del Madiran, dove si producono dei vini rossi adatti all’invecchiamento, nel frattempo questo vitigno è diventato il fiore all’occhiello dell’industria vitivinicola uruguaiana e così il Tannat ha preso il nome di Harriague. Altre importanti figure dell’enologia uruguaiana sono: Francisco Vidiella, che nel 1876 introdusse il vitigno Folle Noire, e Francisco Piria che alla
fine del XIX sec. introdusse il Merlot, il Malbec e il Cabernet Franc; ma nessuna di queste uve è riuscita a raggiungere la popolarità e la qualità del Tannat. Il clima è subtropicale, umido, e il vento antartico proveniente dalle isole Malvinas che arriva sulla costa ha un’influenza moderata. Il sole brilla più di 220 giorni all’anno, la temperatura media al sud è di circa 16,5° C e di 3° C superiore al nord. Le grandi regioni viticole sono situate al sud nei dintorni di Montevideo, essenzialmente a Canelones, dove vengono prodotti il 60 per cento degli 11 milioni d’ettolitri. Altri dipartimenti vinicoli sono: San José, Florida, Colonia Paysandù, Salto, Artigas a nord-ovest, Rivera e Tacuarembò a nord-est. I terreni variano molto, si va dall’argilla sciolta a sud, sedimenti sciolti a sud-est, sabbia e ghiaia al centro, argilla a nord-est e ghiaia a nord. Una peculiarità del mercato uruguaiano è l’interesse per i vini rosati. È da notare come dall’inizio degli anni Novanta c’è stata una profonda trasformazione per raggiungere uno standard qualitativo che potesse essere apprezzato a livello internazionale. L’importatore storico dei vini uruguaiani è il Brasile, ma anche la Russia ne sta importando molto e gli sforzi profusi stanno dando i loro frutti. Con i suoi vini bianchi, rosati e rossi ben equilibrati e piacevoli, l’Uruguay sta attirando l’attenzione di molti e guarda al futuro con ottimismo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
Ambiente e Benessere
È quasi tempo di castagne Allan Bay Le castagne sono sempre state viste come un’assicurazione per i tempi grami. L’inverno era stato rigido e la carestia incombeva? Per riempire la pancia in autunno e in inverno c’erano le castagne. Passava un esercito, d’estate naturalmente (il freddo non piaceva agli eserciti), e saccheggiava o meglio rubava il raccolto? In autunno c’erano le castagne. Insomma, una risorsa ricca e inviolabile. Ricca perché le castagne fresche hanno un elevato valore alimentare, con il 36,7 per cento di carboidrati, e poi secche si conservano senza problema. E inviolabile perché come ha dimostrato il grande storico delle guerre greche Victor Davis Hanson, per un esercito invasore razziare il raccolto era molto facile mentre distruggere gli alberi era virtualmente impossibile. E quindi le castagne sono state onnipresenti nella storia del nostro modo di alimentarci. Oggi, che per fortuna le carestie (e le guerre) sono un ricordo del passato, perlomeno in Italia e in Svizzera (altrove purtroppo no), le castagne sono quasi dimenticate – salvo le caldarroste a Natale, ovviamente: questa è una tradizione inviolabile, ma non ho mai capito cosa facciano i caldarrostai negli altri mesi dell’anno… E se si trovano sono estremamente care dato il costo della raccolta. Dispiace, ma le leggi dell’economia sono queste. Non ci resta che celebrarle speran-
Natura morta di Paolo Antonio Barbieri.
do che questo trend negativo si possa interrompere. Le castagne sono il frutto del castagno, racchiuso in un riccio spinoso che a maturazione, in settembre-ottobre ma anche dopo, si secca e si apre. Schiacciate da un lato, hanno la scorza marrone scuro. Si dividono in due categorie: le castagne vere e proprie, piccole e scure, e i più nobili marroni, più grossi e con la buccia striata. In autunno si trovano le castagne fresche, che si preparano lessate o arrostite. Nelle altre stagioni si trovano quelle secche già sbucciate, che devono essere fatte rinvenire in acqua tiepida per poi essere bollite. Vengono utilizzate in molte preparazioni sia dolci sia salate. Tutto l’anno si trova la farina di castagne, che si usa per preparare frittelle, biscotti, pane, pasta e polenta. La confettura di castagne, che si chiama marronita, è straordinariamente buona. Per gustarle occorre sbucciarle da cotte: devono essere private sia del guscio esterno sia della pellicina rossiccia che riveste la polpa, ma una volta cotte basta un coltellino. Per bollire le castagne, mettetele in una pentola colma d’acqua con 1 pizzico di sale, 1 presa di semi di finocchio, così dice la tradizione, per una volta assecondiamola, e se volete unite un paio di foglie di alloro, portate al bollore e fate sobbollire per circa 40’, poi scolatele. È più facile sbucciare le castagne quando sono ancora calde, pertanto prelevatene poche alla volta – e se avete un guanto a prova di ustione, un attrezzo veramente utile in cucina, è meglio. Per le caldarroste, dopo aver inciso con un coltellino le castagne sulla faccia piatta, distribuitele sulla placca del forno. Cuocetele in forno a 200° fino a che non si aprono. Privatele del guscio e della pellicina con le mani non appena escono dal forno e gustatele subito. Altrimenti usate la classica padella di ferro forata e cuocete le castagne sulla brace oppure sul gas ma con l’aggiunta di una retina spargifiamma.
Dèsirèe Tonus
Gastronomia Bollite o caldarroste, sono sempre buone e molto nutrienti
CSF (come si fa)
Oggi, vediamo come si fanno due piatti a base di peperoni; due proposte che sono un contorno universale e vanno bene con tutti i piatti di carne e di pesce. Peperonata. Per 4 porzioni. Mondate 1 kg di peperoni gialli e rossi, tenendo la buccia e tagliateli a julienne. In una casseruola scaldate 1 filo di olio con 1 spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato, unite i peperoni e fateli insaporire a fuoco vivo mescolando per 10’. Aggiungete 150 g di salsa di pomodoro, 1 punta di con-
centrato di pomodoro stemperata in poca acqua e 4 cucchiaiate di soffritto di cipolle, coprite e cuocete a fuoco basso per circa 30’, unendo poca acqua bollente se la peperonata asciugasse troppo. A cottura regolate di sale e cospargete con 1 manciata di prezzemolo tritato. Variante. Durante la cottura spruzzate la peperonata con 2 o 3 cucchiaiate di aceto e unite pochi minuti prima che sia pronto 60 g di olive denocciolate e tagliate a rondelle. Peperoni in agrodolce. Per 4. Mondate 1 kg di peperoni gialli e rossi, tagliateli a falde piccole e fateli rosolare in una padella con 1 filo d’olio per 5’. Sgocciolateli. Nella stessa padella mettete 2 cipolle affettate sottili, lasciatele insaporire per qualche istante, versate 1 mestolino di brodo vegetale bollente e lasciate sobbollire a fuoco medio per 10’. Aggiungete i peperoni, 2 cucchiai di capperi sotto sale dissalati, 100 g di olive verdi denocciolate tagliate a
metà, 1 cucchiaio di pinoli leggermente tostati e 1 punta di pasta di acciughe stemperata in poca acqua, quindi cuocete a fuoco basso per 20’. Regolate di sale. Unite in un pentolino 1 dl di aceto di mele e 4 cucchiai di vino bianco con 40 g di zucchero, fate parzialmente evaporare a fuoco vivo e versate il liquido agrodolce sulle verdure. Mescolate, profumate con prezzemolo o menta tritati e servite la caponata tiepida o a temperatura ambiente. Variante. Insieme alle olive aggiungete 6 cucchiai di salsa di pomodoro.
Ballando coi gusti Oggi crocchette e polpette. Potete considerarle un pasto leggero per il mezzogiorno, prima mangiando il baccalà e poi le crocchette addolcite con la pera Polpette di baccalà
Crocchette di patate, pere e formaggio
Ingredienti per 4 persone: 600 g di baccalà già bagnato · 2 cipollotti · 1 grossa fetta
Ingredienti per 4 persone: 2 patate grosse e farinose · 1 pera · 40 g di formaggio
di pane raffermo · 2 uova · paprika · origano · sale.
duro a piacere finemente grattugiato · 2 uova · pangrattato · olio per friggere · sale e pepe.
Ammollate in acqua la fetta di pane spezzettata. Tritate molto finemente i cipollotti, senza la parte verde. Controllate che nel baccalà non ci siano spine, passandolo fra le dita, tenete comunque la pelle che è saporita e tritatelo con il pane strizzato. Mettete il tutto in una ciotola, aggiungete le uova, un pizzico di paprica, i cipollotti tritati e sale e impastate bene. Suddividete il composto in polpettine e infilzatele negli spiedini, abbondantemente unti di olio. Metteteli sulla griglia e cuoceteli lentamente, rigirandoli, finché le polpettine non saranno rosolate uniformemente. Cospargete gli spiedini di origano e serviteli.
Pelate le patate e fatele cuocere a vapore per circa 30’. Levatele e passatele allo schiacciapatate. Sbucciate la pera, togliete il torsolo e tagliatela a dadini, poi amalgamatela al composto di patate. Insaporite con il formaggio, regolate di sale e di pepe e formate delle crocchette. Passatele nelle uova sbattute e nel pangrattato, poi friggetele in olio ben caldo. Scolatele su carta assorbente da cucina e servitele subito.
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Ambiente e Benessere
Giochi Cruciverba Affinché le uova sode si sbuccino facilmente, nell’acqua di cottura, dovrai aggiungere... Trova l’ingrediente a soluzione ultimata, leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 10, 2, 5)
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Completare lo schema classico (81 caselle, 9 blocchi, 9 righe per 9 colonne) in modo che ogni colonna, ogni riga e ogni blocco contenga tutti in numeri da 1 a 9, nessuno escluso e senza ripetizioni.
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23 Soluzione della settimana precedente
RISATE A DENTI STRETTI – Tra amiche: «Cosa pensi, tra due genitori musicisti nasceranno figli musicisti?» «I tuoi genitori sono intelligenti?» «Sì, molto!» «ALLORA VEDI CHE NON È DETTO!» Orizzontali 1. La dea bendata 7. È un’arrampicatrice... 8. La parola più generica 9. Un po’ di gusto 10. Non cambia letto da sinistra a
destra o viceversa 11. Si ripete alzando i calici 12. Articolo 13. Patologie che persistono nel tempo 16. Tenue, debole 17. Universo
18. Dentro in tedesco 20. Sciocco, ottuso 21. Uniti da uno
stretto legame 22. Sono unità di peso 23. Ghiotto Verticali 1. Di patate in cucina 2. Colpisce il naso... 3. Torna al fornitore 4. Sta in mezzo 5. Sono in mezzo ai guai
6. Sta attenta alle spiegazioni 9. Semplice è da ragazzi! 11. Si legge sul pentagramma 13. Neoformazione contenente
materiale organico 14. Massimo… a Roma 15. Il Morricone musicista 16. Con «ball» in uno sport 17. Questo a Parigi 18. Preposizione articolata 19. In alcune espressioni... 20. Sono divise da cd... 21. Traslocare in centro
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Politica e Economia La questione europea Un’Europa tedesca o una Germania europea? Ultimo articolo della serie
L’ora dei giudici in Sud America In Brasile, Venezuela, Argentina e Cile, Paesi diversissimi fra loro per storia e situazione economica, il potere giudiziario è al centro assoluto della scena politica
Globalizzazione: 4. parte Prosegue l’inchiesta sul libero mercato e sul pentimento degli economisti
Sempre più indebitati I debiti di Stati, aziende e privati ammontano nel mondo a 200’000 miliardi di dollari
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AFP
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Un segnale dalla periferia Voto nel Meclemburgo Il successo dei populisti di destra dell’Alternative für Deutschland (AfD), come risposta
alla politica di apertura versi i migranti della Merkel, rappresenta un test importante per le elezioni del 2017
Lucio Caracciolo Alternativa per la Germania (AfD, Alternative für Deutschland) sarà probabilmente il primo partito di destra radicale a entrare nel Parlamento tedesco dopo le elezioni politiche previste per l’autunno del prossimo anno. E non con un piccolo drappello di deputati, ma con una rappresentanza consistente, capace di squilibrare gli storici rapporti di forza sulla scena parlamentare tedesca, così come si sono consolidati dalla fine della Seconda guerra mondiale in avanti. Confermando una tendenza positiva emersa negli ultimi mesi, il successo ottenuto dall’AfD in MeclemburgoPomerania Anteriore – un improbabile Land nel Nord-Est della Repubblica Federale, ritagliato ai tempi della DDR in tre distretti, con appena il 2% della popolazione nazionale – segna un notevole successo per questa recente formazione: 20,8% dei voti, davanti alla CDU della cancelliera Angela Merkel (cresciuta proprio nel Meclemburgo, ai tempi del comunismo) e dietro alla SPD. Non abbastanza per entrare nel
governo del Land, anche perché nessuno fra i partiti stabiliti – dalla CDU alla CSU, dalla SPD alla Linke, dai liberali ai Verdi – intende trattare l’AfD come un possibile partner di coalizione. Tantomeno a livello nazionale. Eppure si tratta di un terremoto politico, che segnala la crescente distanza fra l’establishment partitico tradizionale e larga parte del popolo tedesco. Come è stato possibile? Il successo dell’AfD viene di norma ascritto a una reazione estrema rispetto alla politica di apertura verso i migranti inaugurata – e poi in parte corretta – dal governo Merkel esattamente un anno fa. All’insegna dello slogan «Wir schaffen das» («Ce la facciamo»), preso a prestito dal più celebre «Yes we can» che marcò l’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca, la cancelliera decise lo scorso settembre di inaugurare un nuovo corso nella gestione dei flussi migratori, e in particolare dei richiedenti asilo, verso la Germania Federale. Mentre quasi tutti gli altri Paesi europei puntavano sulla chiusura delle frontiere o comunque su un approccio più rigido verso i migranti, sotto la spinta di opinioni pubbliche
seriamente impaurite dalla cosiddetta «invasione», Berlino apriva le braccia a un milione e centomila persone provenienti soprattutto dalla Siria e dal resto del Medio Oriente. Una scelta che aveva almeno tre facce. La prima, umanitaria: la democrazia tedesca accettava la sfida migratoria senza rinnegare i propri princìpi costituzionali fondati sulla libertà e sull’apertura, nel contesto di una società sempre più multietnica. La seconda, demografica: la Germania è un Paese che non cresce più in termini di popolazione, con ovvie conseguenze sul clima sociale, sulla sostenibilità del welfare e sulla stessa economia; di qui la necessità di rinsanguare il Paese con gente giovane, sperando di poter integrare una parte consistente degli aspiranti nuovi tedeschi. La terza, economica: il sistema industriale tedesco ha bisogno di forza lavoro relativamente qualificata (è il caso di molti siriani) e soprattutto a basso costo. Dopo una prima fase di passione e di entusiasmo, quando fra i tedeschi sembrava scatenarsi una gara di solidarietà verso la povera gente che bussava
alla porta, si è scatenata una risacca. Ha prevalso la paura. Paura di perdere identità, abitudini, posti di lavoro. Paura di accogliere terroristi, accentuata dagli attentati di questa estate. Paura, insomma, di un futuro ignoto e minaccioso. Questo treno di paure giova a tutte le forze anti-establishment, in particolare alla destra estrema. È vero che il partito esplicitamente neonazista (NPD) non sfonda, tanto che nelle elezioni del Meclemburgo ha subìto una sonora sconfitta. Ma l’AfD, che neonazista non è ma sul tema dell’immigrazione gioca di sponda spesso e volentieri con il razzismo, ha raccolto buona quota del malcontento e della sfiducia popolare verso i maggiori partiti. Per l’AfD votano infatti elettori già della SPD e della CDU come della Linke – ma soprattutto cittadini che nelle ultime elezioni non avevano votato – disillusi dalla Merkel e terrorizzati dalle minacce che loro intravvedono nell’«invasione» dal Sud. Specie considerando la radice musulmana dei nuovi arrivati. Nel tempo, l’AfD sta cambiando pelle. Nato come partito anti-euro, molto scettico nei confronti dell’Ue,
sta diventando soprattutto il rifugio di chi teme che i migranti sfigurino il volto dell’amata patria. Se prima a dare il tono erano alcuni augusti accademici, adesso prevalgono i demagoghi. Con una forte propensione all’estremismo. Sarebbe tuttavia sbagliato attribuire alla sola questione migratoria il successo dell’AfD. Più in generale, molti tedeschi diffidano della politica tout court e della signora Merkel in specie. La quale presenta le sue politiche inclusive ed europeiste (almeno nelle dichiarazioni) come obbligate, senza alternativa. Come dice la stessa sigla, l’AfD vuole offrire un’alternativa. Di qui a stabilire che la parabola di Angela Merkel sia avviata a concludersi nel 2017, molto ci corre. Ma c’è chi ricorda il celebre motto attribuito a Bismarck: «Quando il mondo scomparirà, mi ritirerò in Meclemburgo, perché lì succede tutto cinquant’anni dopo». Per chiedersi se per caso stavolta non sia accaduto il contrario. E se dunque da questa periferia non sia partito in anticipo il segnale della fine di un sistema politico di grande successo, ma sempre più asfittico.
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Politica e Economia
Berlino, quale destino? Questione europea La storia impone alla Germania di esercitare una funzione egemonica diluendosi in un quadro
istituzionale europeo, ma la supremazia su Bruxelles compromette la sua immagine nell’Ue– Terza e ultima parte Alfredo Venturi Un palcoscenico inconsueto per Angela Merkel, la portaerei italiana Garibaldi, e uno sfondo di grande suggestione non soltanto paesaggistica ma anche storica: l’isoletta tirrenica di Ventotene in cui tre intellettuali antifascisti, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, redassero il manifesto che proponeva, in piena guerra mondiale, la fantastica scommessa degli Stati Uniti d’Europa. È proprio qui che la Cancelliera ha celebrato, con François Hollande e Matteo Renzi, il vertice trilaterale d’agosto all’insegna di un improbabile rilancio dell’ideale federalista. L’Unione europea esiste ancora, non è finita con la Brexit: così i tre interlocutori unanimi dopo la visita alla tomba di Spinelli. Già, ma che razza di Unione? Non certo lo Stato compatto che avevano vagheggiato gli esuli di Ventotene, con esercito comune e comune politica estera. Di quella visione generosa, che riscattava un passato di conflitti proiettando l’Europa verso un futuro di armoniosa coesione, non resta che una comunità di ventotto Stati litigiosi e diffidenti uno dei quali, il Regno Unito, ha deciso di andarsene, e al suo interno un nucleo di diciannove Paesi uniti, almeno, dalla stessa moneta. Mentre il povero Spinelli si rivoltava nel sepolcro in nome dell’ideale tradito, i tre leader spendevano la giusta dose di retorica sull’Europa che rimane in fieri e intanto ribadivano le rispettive posizioni sui temi caldi. Flessibilità sui conti, come richiesto da Italia e Francia? Come no, risponde accomodante la Merkel con un pizzico d’ironia forse involontaria: avrete tutta la flessibilità consentita dai trattati... Non è certo quello che chiede Renzi, assillato da una congiuntura che si ostina a rimanere al palo e dunque desideroso di allargare le possibilità di spesa ben al di là dei margini concordati. Ma la Cancelliera sa di non potersi spingere oltre, anche se qualche giorno più tardi, all’indomani del devastante terremoto nell’Italia centrale, ammetterà che l’emergenza richiede misure adeguate da parte dell’Europa. Perché l’opinione pubblica tedesca la tiene nel mirino non soltanto per la questione migranti, ma
anche sul piano del rigore finanziario e delle politiche europee. Si è votato nel Meclemburgo e date le circostanze un giudizio severo era inevitabile, ora si tratta dunque di limitare i danni per quanto possibile. Proprio il rapporto con l’Unione Europea è al centro della collocazione internazionale della Germania e della sua percezione da parte degli altri Paesi. L’egemonia di fatto di Berlino su Bruxelles, imposta dal peso economico della Repubblica Federale, arriva a minacciare l’immagine saldamente democratica che la Germania da tempo era riuscita a sostituire agli inquietanti fantasmi del passato. Al punto che alcuni disegnatori satirici non esitano a tratteggiare la Merkel con tanto di elmo chiodato o addirittura di baffetti hitleriani, mentre altri rispolverano un epiteto che già rimbalzava nelle capitali europee alla vigilia della riunificazione: Quarto Reich. Berlino insiste invano sulla formula della Germania europea: si fa strada una beffarda inversione dei termini, Europa tedesca, il quarto impero germanico dopo quelli fondati rispettivamente da Carlomagno, Bismarck, Hitler... Si tratta ovviamente di assurdità, ma non è affatto assurdo, soprattutto dopo la defezione britannica, lo strapotere germanico all’interno dell’Unione Europea. Il settimanale «Der Spiegel», tradizionalmente sensibile all’immagine internazionale della Germania, ha cercato di mettere a fuoco il tema. La conclusione dell’inchiesta è che la Repubblica Federale esercita di fatto una funzione egemonica in Europa, ma lo fa in modo riluttante, senza l’afflato del grande Paese. «L’Eurozona è chiaramente governata dalla Germania, anche se il ruolo di Berlino non è incontrastato. Tuttavia ha una funzione decisionale nel determinare il destino di milioni di persone di altri Paesi... Eppure l’atteggiamento assunto in certe occasioni dal governo tedesco... è quello di chi governa un piccolo Paese. Infatti, pur avendo acquisito un ruolo politico dominante evidenziato dai suoi successi nell’economia, la Germania è ancora del tutto impreparata ad assumere una vera leadership politica mettendo a repentaglio i suoi interessi di breve ter-
Un palloncino dell’Ue sventola alle spalle di Winston Churchill. (AF)
mine». L’orizzonte ristretto degli obiettivi contingenti limita dunque la visione d’insieme, l’albero nasconde la foresta. Lo «Spiegel» ricorda come al centro della contestazione di chi critica la politica tedesca ci sia il concetto di austerità. Questo termine «si riferisce alle politiche di parsimonia, un concetto che in Germania ha un’immagine positiva. Ma nei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi del debito, la parola si traduce in politiche frustranti fatte di privazioni imposte dall’esterno. Oltre ai suoi beni, la Germania esporta anche le sue regole... La sua esuberanza diplomatica nasce da un desiderio intransigente che vuole l’adesione di tutta l’eurozona ai principi tedeschi di parsimonia ed efficienza, alimentando così il dissenso sempre più manifesto degli oppositori dell’egemonia tedesca». I giornalisti dello «Spiegel» paragonano l’attuale situazione a quella degli anni bismarckiani, la Germania del Secondo Reich era in una situazione ambigua: pur essendo divenuta la prima potenza d’Europa non era sufficientemente forte per poter dominare il Continente. Secondo gli autori dell’inchiesta, la Germania oggi si trova in una situazione simile: è troppo grande e al tempo stesso troppo piccola per guidare efficacemente l’Europa. Come uscire dal dilemma? Lo «Spiegel» dà la parola allo storico Hans Kundnani, studioso di politica estera tedesca, questa la sua risposta: «Una po-
tenza egemone vera come gli Stati Uniti non si limita a dettare norme, ma crea incentivi per coloro che governa affinché rimangano parte del sistema». Occorre dunque creare un sistema a vantaggio di tutti, rinunciando a perseguire interessi a breve termine a favore di «una politica economica più magnanima». Sembra evidente che il quadro di riferimento dell’Unione Europea, indipendentemente dai possibili sviluppi che sono stati retoricamente evocati a Ventotene, si presenta come il più appropriato perché questa funzione si trasferisca dal predominio di uno Stato sugli altri a una visione propriamente federalista. In fondo fu proprio questo l’obiettivo tenacemente perseguito dall’allora Cancelliere Helmut Kohl, quando in seguito agli eventi del 1989 pilotò la Germania verso la riunificazione nazionale. In quella circostanza, nel turbinoso precipitare egli eventi, il mondo era pieno di apprensione di fronte alla prospettiva di un colosso germanico da ottanta milioni di abitanti installato nel cuore del continente. Soprattutto la Gran Bretagna di Margaret Thatcher e la Francia di François Mitterrand provarono a condizionare il processo unitario, mentre si citava a ripetizione la nota battuta attribuita volta a volta a un politico italiano e a un francese: amo tanto la Germania, mi va benissimo che ce ne siano due... Kohl riuscì a convincerli che una Germania
europea avrebbe esorcizzato per sempre lo spettro di una Europa tedesca. Per «acquistare» l’unità nazionale, ma soprattutto per tranquillizzare i vicini, Berlino era persino disposta al doloroso e costosissimo sacrificio del marco sull’altare dell’euro. Due decenni più tardi sono arrivate la crisi finanziaria globale e l’emergenza delle migrazioni di massa, e così le paure hanno ripreso il sopravvento e sul capo della Cancelliera che proprio Kohl, l’uomo della riunificazione, aveva lanciato nell’arena politica qualcuno è arrivato a calcare l’elmo prussiano. Ora si chiede a Berlino una politica «più magnanima», che superando le convenienze nazionali adotti anche sul piano dei rapporti con l’Unione Europea lo stesso spirito lungimirante che Angela Merkel ha saputo intravvedere quando, un anno fa, pronunciò il famoso invito ai profughi delle guerre mediorientali. È il ruolo paradossale che la storia impone a questo Paese: esercitare una funzione egemonica ma farlo al riparo di un quadro istituzionale europeo. Non come uno Stato che domina gli altri, ma come la parte di un tutto destinato dalle leggi e dal destino comune a livellare le differenze psicologiche e sociali, fino a ridurre l’attuale distanza fra cittadini di Paesi diversi a semplici rivalità regionali. E ancora riducendo la percezione del flusso migratorio da angosciante fenomeno dalle ricadute imprevedibili a indispensabile contributo demografico. Siamo di fronte a ottiche non certo proponibili dall’oggi al domani e infatti Angela Merkel, che ne ha intuito la necessità con la sua visione di lungo termine, ha per così dire anticipato i tempi e paga dunque il pedaggio di una dilagante disaffezione popolare. È accaduto in Meclemburgo, accadrà ancora, è in gioco la stessa sopravvivenza politica della Cancelliera. Ma la storia cammina e guadagna terreno l’idea che certi sviluppi siano ineluttabili. Ne era convinto uno statista tedesco di mezzo secolo fa, il presidente della Commissione di Bruxelles Walter Hallstein, che per illustrare il concetto amava citare Seneca: ducunt fata volentem, nolentem trahunt. Il destino conduce chi lo asseconda, trascina chi lo contrasta. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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Politica e Economia
La politica si fa in tribunale America Latina La destituzione di Dilma Rousseff in Brasile avviene in un clima
da Tangentopoli. Ma anche in Venezuela, Cile e Argentina i giudici hanno preso il posto dei colonnelli Angela Nocioni Magistratura alla ribalta in America latina. In Brasile, in Venezuela, in Argentina e in Cile, pare sia scoccata l’ora dei giudici. In Paesi inconfrontabili e diversi tra loro per storia antica e recente, momento politico e situazione economica, i motori fondamentali e determinanti dell’attualità politica sono negli ultimi tempi, curiosamente, singole iniziative della magistratura. Non si tratta di increspature di cronaca giudiziaria, né di singoli protagonismi di alcuni pm finiti sotto i riflettori, ma di catene di fatti politici di cui il potere giudiziario è stato in vario modo regista assoluto. Vediamo quali. L’odissea del governo del Partido dos trabalhadores in Brasile (Pt) è il caso più clamoroso. La storia è nota. La presidente eletta Dilma Rousseff (Pt) è stata deposta attraverso un processo di impeachment avviato per la contestazione di un illecito amministrativo. A Dilma (foto) non è stato contestato nulla di penalmente rilevante, né di politicamente disastroso. La ragione formale della sua defenestrazione è stata una semplice pedalata fiscale, ossia una correzione non consentita nella manovra fiscale del 2015. Dilma è stata processata e rimossa per aver fatto prestare al governo dei soldi senza passare prima per il voto parlamentare. Quel denaro non era a disposizione del governo che se lo è procurato ritardando un pagamento a una banca pubblica. Il denaro è stato rapidamente restituito, ma Dilma è stata processata perché, stando alla lettera della norma, non avrebbe dovuto prenderlo in prestito per il governo poiché la legge vieta all’esecutivo di farsi anticipare soldi da un istituto di credito pubblico senza previo assenso parlamentare. Ben altri e ben più gravi sono stati gli errori politici di Dilma, ostinata nel non capire come la crisi economica brasiliana avesse bisogno di risposte efficaci e non di sermoni politici. Ma per quegli errori non era facile per l’opposizione farla cadere anche perché in Brasile, repubblica presidenziale, non esiste il voto di sfiducia. Quindi l’escamotage dell’impeachment avviato per un illecito amministrativo – maturato in un clima di processo alla politica molto simile a quello che si respirava in Italia durante Tangentopoli e costruito attorno a una maestosa inchiesta sui finanziamenti illeciti alla politica tramite un sistema di sovrapprezzi nella distribuzione di appalti della impresa statale del greggio Petrobras – è stato nemmeno tanto velatamente usato come scorciatoia per mettere alla porta un governo il cui gradimento stava colando a picco, ma non era ancora affondato. «Golpe» lo chiamano i difensori di Dilma. Tecnicamente non hanno ragione visto che un golpe, stando ai manuali di scienze politiche, ha bisogno di una componente di violenza che in Brasile non c’è stata. Eppure si fa fatica ad archiviare l’allontanamento di Dilma dal potere come una procedura corretta, tanto che lo stesso Senato a lei
ostile che l’ha giudicata e condannata non ha osato toglierle i diritti politici, come sarebbe invece stato logico se lei avesse commesso una colpa così grave da giustificare il verdetto. È stato un processo politico celebrato per via giudiziaria così da affrettare l’uscita di scena. Non proprio un colpo di Stato, ma tutt’altro che una pagina pulita della storia brasiliana.
Il punto è: quanto è democratica una democrazia che incarcera i leader più visibili della sua opposizione poltica? Di peggio succede in Venezuela, dove in un quadro generale di fine d’epoca chavista, il governo del presidente Nicolas Maduro, assediato da una guerra per bande interna in cui gli interessi del contrabbando e dei narcos sono ormai rappresentati da ministri di spicco che contendono a Maduro la successione, il Tribunale supremo, chiamato a dirimere questioni fondamentali per una strategia d’uscita non violenta della crisi politica, è completamente nelle mani dell’esecutivo. Con tanti saluti alla divisione e separazione dei poteri dello Stato. I giudici del Supremo, lontani dall’essere poteri terzi, si comportano da camerieri servili del governo. I pochi che non si rendono disponibili ad assecondarne le esigenze, finiscono allontanati dal ruolo, se non accusati di nefandezze varie. I principali leader di un’opposizione divisa e rissosa al suo interno sono in carcere non per le ragioni di chi li accusa, ma per il loro legittimo ruolo di oppositori politici. E ciò può accadere perché già il defunto presidente Chavez si era organizzato nella bonifica del potere giudiziario, così da poter contare su un ulteriore braccio armato a disposizione oltre a quello militare.
Tutt’altra situazione regna in Cile dove, però, è sempre un’iniziativa giudiziaria a dettare l’agenda politica. L’ex presidente Sebastian Piñera, uno dei principali imprenditori cileni, è accusato di varie malefatte da giudici che, di fatto, stravolgono i tempi della rimonta politica della destra cilena di cui Piñera è leader al momento. Ancora più chiaro è il ruolo politico avuto dai pm d’assalto in Argentina. Lì l’ex presidente Cristina Kirchner, dopo aver perso le elezioni dell’anno scorso, è (probabilmente anche a ragione) accusata di numerose ruberie allo scopo di finanziare non la politica del suo partito, come è avvenuto invece nei più clamorosi casi della Tangentopoli brasiliana, ma per arricchirsi lei personalmente. Il punto drammatico è sempre lo stesso: quanto è democratica una democrazia che incarcera, o aspira ad incarcerare, i leader più visibili della sua opposizione politica? Quali costi, in termini di salute della repubblica, paga un Paese che aspira a sbattere in galera, foss’anche per ragioni fondate, i protagonisti politici che garantiscono un confronto e una dialettica con il governo in carica? Nella cronaca del passato recente argentino c’è in proposito un piccolo fatto illuminante. Un anno e mezzo fa, dopo che il magistrato Alberto Nisman che proprio su Cristina stava indagando, fu trovato morto a Buenos Aires nel bagno di casa sua riverso su una calibro 22, in una pozza di sangue, ci fu un sollevamento del potere giudiziario. Nisman accusava la Kirchner, il suo ministo degli esteri Hector Timerman e alcuni funzionari minori, di aver coperto segretamente i mandanti e gli esecutori iraniani della strage del 18 luglio 1994 alla Amia, la mutua ebraica di Buenos Aires (85 morti) in cambio, ipotizzava Nisman, di finanziamenti cash al governo argentino e di forniture di gas sottocosto. Aveva appena depositato la richiesta di interrogare sia la presidente della repubblica, sia il ministro degli esteri, prima di morire. Non si è mai scoperto se ucciso o se sui-
cida, come disse incautamente all’inizio Cristina Kirchenr. Pochi giorni dopo il ritrovamento del corpo, con il Paese sconvolto e le elezioni presidenziali alle porte, un buon numero di pm argentini chiamarono in piazza i cittadini con slogan fortemente antigovernativi. Fu la marcia dei giudici, così la chiamarono giornali e tv. Quattrocentomila persone aderirono. Il fatto che uno dei tre poteri dello Stato fosse sceso fisicamente in piazza portandosi dietro quattrocentomila persone in aperta contestazione al governo e le conseguenze politiche e istituzionali che ciò comportò, fu materia di guerra di propaganda a Buenos Aires, non di dibattito politico. L’evidenza che buona parte del Paese si mostrasse smaniosa di raccomandarsi al potere catartico di un repulisti della vita politica affidato genericamente ai magistrati, quasi fossero i nuovi super eroi, non fu oggetto di riflessione. Sembrò un fatto naturale, ovvio, sul quale non valeva la pena riflettere. I pochi a prendere parola sulla questione furono solo gruppi militanti, per definizione poco attendibili. Le grandi firme del giornalismo argentino non si soffermarono sulla natura della marcia. Ne descrissero il successo, ma non si interrogarono sulla natura di quella inquietante testa di corteo composta da soli pm. Alcuni intellettuali pro Cristina chiesero alla Corte suprema di vietare la marcia perché, scrissero: «È responsabilità storica doverosa frenare l’autonomizzazione di uno dei poteri della repubblica che pone in rischio la vita istituzionale della democrazia». Ma si trattava di personaggi schierati, di solito talmente ciechi agli strappi alla democrazia compiuti dal governo Kirchner, da non riuscire a sollevare nessun dibattito sul tema del ruolo dei pm. A quel corteo partecipò anche Mauricio Macri, allora sindaco di Buenos Aires. Lo fece a titolo personale, come richiesto dai giudici. Pochi mesi dopo fu eletto presidente della repubblica.
Fra i libri di Paolo A. Dossena Islamismo, Tilman Seidensticker, Il Mulino, 2016
«L’Islamismo non è che un aspetto dell’Islam». Questo il nucleo del libro di Tilman Seidensticker, insegnante di Cultura Islamica alla FriedrichSchiller-Universität di Jena. In un’epoca in cui i media sono invasi da notizie su Jihad, Isis, sunniti, sciiti, wahabismo e salafismo, questo saggio di un centinaio di pagine, agile e accessibile, è un piccolo tesoro per chi desideri schiarirsi le idee. Il libro giunge a questa fondamentale conclusione: «L’Islam nacque quattordici secoli fa, mentre il fenomeno che oggi viene chiamato “islamismo” esiste» da meno di un secolo, e «non ha nessuna influenza determinante sulla religiosità quotidiana della maggioranza dei musulmani. Eppure oggi l’islamismo, con i suoi lati violenti, richiama forse più l’attenzione dello stesso Islam». Se non bisogna confondere Islam e Islamismo, il secondo va collocato storicamente. Sebbene goda di antenati ideologici, l’Islamismo è un fatto storico molto recente, che appare nel 1928 tra Egitto e Gerusalemme. Infatti, come forza politica l’Islamismo appare in Egitto nel 1928, sotto il nome di Fratelli musulmani. L’organizzazione «è stata fino alla fine del 2013 la principale forza islamista dell’Egitto in termini numerici, ed è alle origini di quasi tutti i raggruppamenti analoghi, nel mondo arabo e non». Una delle cause principali della nascita e dello sviluppo dell’Islamismo è il colonialismo europeo, specialmente quello britannico. Infatti, la dichiarazione di Balfour del 1917 è alle origini della nascita dello Stato ebraico ed è quindi «l’avvenimento più incisivo della storia coloniale del mondo arabo». Il conflitto etnico derivatone, fu come benzina sul fuoco, provocando «l’islamizzazione della questione palestinese» avvenuta «nel 1928 per opera del muftì di Gerusalemme». Quindi il 1928 è l’anno cruciale per la nascita dell’Islamismo, sia in Egitto sia a Gerusalemme. Eppure, questo fenomeno ha acquistato visibilità in Europa sono all’inizio del 1979, con la rivoluzione islamica in Iran, e nel 1981, con l’omicidio del presidente egiziano Sadat, assassinato proprio dai Fratelli musulmani. Questi ultimi godono dal 1982 di un’organizzazione transnazionale, sebbene il coordinamento ideologico e strategico sia molto limitato. Dopo la collocazione storica dell’Islamismo, occorre definirlo. Esso è «un insieme di aspirazioni a trasformare la società, la cultura, lo Stato o la politica in funzione di valori e norme ritenuti conformi all’islam». Tutto questo include «progetti rivoluzionari» e l’aspirazione a sostituire «alla sovranità popolare di stampo occidentale la sovranità di Dio». In altre parole, quello che Tilman Seidensticker definisce «Islamismo», è quello che i media e i politici definiscono grossolanamente «fondamentalismo islamico». Chiamatelo come volete, ma l’Islamismo include fenomeni come la giustificazione e l’uso della violenza, il Jihad («lotta santa») e gli attentati suicidi. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Economisti pentiti Inchiesta sulla globalizzazione Fra le conversioni illustri spicca quella del Fondo monetario internazionale
che moltiplica le analisi sulle distorsioni del commercio mondiale – 4. parte
Per contrastare l’avanzata dei nazionalismi, Obama si è riunito con gli altri due leader nordamericani, il canadese Justin Trudeau e il messicano Enrique Nieto. La loro sfida: trasformare il mercato unico del Nafta in un’avanguardia dello sviluppo sostenibile, raggiungendo il 50% di energie rinnovabili entro il 2025. È il tentativo di imboccare una strada diversa, a un quarto di secolo dal boom della globalizzazione, prima che prevalgano spinte di segno opposto.
Federico Rampini «Quando sarò presidente – promette Donald Trump – usciremo dal Nafta (mercato comune con Messico e Canada), e denuncerò la Cina per concorrenza sleale e manipolazione del cambio». Gli risponde la US Chamber of Commerce che è l’equivalente della Confindustria: «Se si realizzano le proposte di Trump avremo rincari dei prezzi, una recessione, tre milioni di posti di lavoro a rischio. Il 40% dell’occupazione americana è legata in qualche modo al commercio estero». A sinistra Bernie Sanders prima di concedere la vittoria a Hillary Clinton, in cambio del suo appoggio ha ottenuto che la candidata democratica metta nella suo programma elettorale una forte presa di distanza dai nuovi trattati di libero scambio (che Hillary appoggiò quando era segretario di Stato). All’ultimo G7 in Giappone, prima ancora dello shock di Brexit, un alto dirigente della Commissione europea aveva paventato uno scenario estremo: «Che ne sarà dell’economia mondiale, se fra un anno il prossimo G7 riunirà tra i leader dell’Occidente personaggi tipo Donald Trump, Boris Johnson, Marine Le Pen e Beppe Grillo?»
I sondaggi mostrano che sia gli elettori democratici che quelli repubblicani vivono il disagio della globalizzazione
Il dibattito elettorale americano incrocia continuamente il tema della globalizzazione: la spaccatura è verticale fra chi voterà per Hillary e chi per Trump Ma non è solo dalle frange radicali, dai populismi di destra e di sinistra, che parte l’assalto alla globalizzazione. Segnali di ripensamento, ripiegamento e ritirata arrivano da molte direzioni. La Cina sotto Xi Jinping è più nazionalista, rivaluta il capitalismo di Stato e il dirigismo, moltiplica le forme di protezionismo occulto, gli ostacoli alle imprese occidentali. L’India si vede incoraggiata nella sua reticenza ad abbracciare il liberismo: ha sempre mantenuto un alto livello di intervento pubblico e molteplici barriere agli stranieri. Perfino tra i protagonisti americani delle prime stagioni della globalizzazione, dilagano i «pentiti». Un caso clamoroso è Larry Summers. Quando era segretario al Tesoro di Bill Clinton, fu l’artefice della deregulation finanziaria. Ora che è tornato a fare il professore a Harvard, parla di «stagnazione secolare» e fa autocritica. «Nuove ricerche – riconosce Summers – hanno cambiato le idee dominanti sul commercio internazionale. Abbiamo le prove che la globalizzazione ha aumentato le diseguaglianze all’interno degli Stati Uniti, ha aumentato le opportunità riservate ai più ricchi e ha esposto i lavoratori a una competizione più serrata». Summers avanza proposte per aprire un nuovo corso. «La maggiore mobilità del capitale e delle imprese non deve togliere agli Stati la capacità di proteggere i cittadini». Sul trattato Tpp fra gli Stati Uniti e l’Asia-Pacifico, le idee di Summers non divergono molto da quelle di Barack Obama: i nuovi patti devono includere meccanismi vincolanti sui diritti dei lavoratori, le conquiste sociali, la protezione dell’ambiente. Nella sua recente visita in Vietnam, Obama ha sottolineato che grazie al Tpp il governo comunista di Hanoi s’impegna a consentire dei sindacati liberi. Un altro protagonista del revisionismo è Paul Krugman. Il premio Nobel dell’Economia nel 2008 gli fu asse-
Donald Trump. (AFP)
gnato proprio per i suoi studi originali sul commercio estero. Fu uno dei primi teorici della globalizzazione. Anche lui è diventato più critico. Senza ripudiare l’idea che gli scambi tra nazioni sono benefici, Krugman sottolinea che la distribuzione dei vantaggi dipende dalle regole, e le regole sono il frutto di scelte politiche. I sistemi fiscali sono stati distorti per favorire il grande capitale e le multinazionali. Le regole sul mercato del lavoro hanno rafforzato il potere contrattuale delle imprese e indebolito i dipendenti. Un dato recente sull’economia americana conferma uno squilibrio tipico di questa fase: i profitti delle imprese sono saliti molto più del Pil (quasi del 5% al netto delle tasse nel secondo trimestre 2016, contro una crescita dell’1,1% per il Pil in generale). È una ripresa diseguale, che ha concentrato i suoi benefici su una piccola porzione della società. La stessa traiettoria da «pentito» l’ha percorsa, per sua stessa ammissione, l’economista Jeffrey Sachs della Columbia University: «Ho sempre
creduto all’utilità degli investimenti internazionali. Anch’io ho contribuito a promuovere la globalizzazione. Ma non bisognava dare il controllo di questi processi in mano a Wall Street e Big Pharma». Tra le sue proposte: trattare in modo diverso gli investimenti produttivi e quelli della finanza speculativa a breve termine. Una delle conversioni più spettacolari sta accadendo nel tempio dell’ortodossia liberista: il Fondo monetario internazionale. Lo slittamento progressivo del Fmi verso posizioni più critiche sulla globalizzazione, è avvenuto sotto la gestione del «clan dei francesi»: l’ex direttore generale Dominique StraussKahn e il suo capo economista Olivier Blanchard hanno aperto la strada, poi proseguita con Christine Lagarde. C’è chi sostiene che se Strauss-Kahn non si fosse rovinato con gli scandali sessuali, la svolta sarebbe stata ancora più radicale. Il Fondo moltiplica le analisi sulle distorsioni del commercio mondiale. Un ampio studio a cui hanno collaborato otto economisti sotto la direzione
di Siddharh Tiwari, analizza «Cause e conseguenze della diseguaglianza nei redditi, in una prospettiva globale». Di recente il Fmi ha raccomandato i controlli sui movimenti di capitali, in certe situazioni di crisi: l’opposto di quel che predicava negli anni 80 e 90. Le critiche avvengono sullo sfondo di un commercio mondiale che rallenta: l’inaugurazione recente del nuovo canale di Panama «extra-large» coincide con una crisi del trasporto navale, colpito da eccesso di capacità e calo dei noli. Rallentamento della crescita e neo-protezionismi si alimentano a vicenda. Uno dei più autorevoli storici dell’economia, Harold James dell’università di Princeton, traccia analogie con gli anni Trenta: quando la Grande Depressione innescata dal crack di Wall Street del 1929 fu poi aggravata dalle guerre tariffarie, l’innalzamento di barriere doganali. Il protezionismo sarebbe tanto più deleterio per una nazione di medie dimensioni come l’Italia, la cui ricchezza è stata costruita in larga parte dalle esportazioni.
Il dibattito elettorale americano incrocia continuamente questi temi, anche quando i segnali che manda sembrano contraddittori. Per esempio: a un’osservazione superficiale si potrebbe pensare che una maggioranza di elettori siano piuttosto favorevoli alle frontiere aperte. Se si osservano le mappe disegnate dai sondaggi, infatti, che cosa si vede? Due Americhe, divise più che mai: globalisti contro protezionsti, cosmopoliti contro nazionalisti, multietnici contro localisti. A poco meno di due mesi dal voto la spaccatura di valori e visioni del mondo è verticale, fra chi voterà per Hillary e chi sceglierà Trump. Ed è anche una spaccatura geografica, più netta che mai. Con delle caratteristiche sorprendenti. Per la prima volta nella storia la divisione della mappa elettorale Usa potrebbe essere tracciata quasi «col righello» su una mappa: in certe proiezioni dai sondaggi apparirebbero totalmente democratiche le due coste, e totalmente repubblicano quel che sta in mezzo. Questo scenario sarebbe ottimale per Hillary perché le coste hanno più popolazione e quindi pesano di più i loro collegi elettorali. Gli aspetti sorprendenti? Anzitutto, l’immigrazione fa meno paura proprio dove ce n’è tanta. L’America di mezzo è meno multietnica, eppure sta lì il serbatoio di consensi per Trump. Le coste sono anche le aree del Paese più aperte al commercio col resto del mondo, più esposte alla globalizzazione. È «contro-intuitivo» che le aree meno protette siano quelle che rifuggono dal nazionalismo/protezionismo? Al tempo stesso, però, quelle fasce costiere e progressiste vogliono più Stato nell’economia e nella vita sociale, ciò che promette la piattaforma elettorale di Hillary. Un altro dato interessante viene fornito dall’economista capo dell’istituto demoscopico Gallup, Jonathan Rothwell. Spiega che l’elettorato di Trump, a maggioranza bianco e con un livello d’istruzione medio-basso, si riconosce in questa affermazione: il tenore di vita dei miei figli sarà inferiore al mio. Non è per forza un’America povera o impoverita in assoluto. È certamente un’America che si sente in via di declassamento, con aspettative decrescenti. Vive meno a contatto con gli immigrati, ma li teme molto di più, come una minaccia ad un modello di società. Dunque se decifriamo i segnali che giungono dai sondaggi, gli elettori sia democratici sia repubblicani vivono un disagio della globalizzazione, ne percepiscono gli effetti divaricanti e la pressione sul loro tenore di vita. Divergono piuttosto sulle soluzioni, tra una destra sempre più isolazionista che pensa a proteggersi alzando il ponte levatoio, e una sinistra che chiede allo Stato interventi più generosi per sanare le sofferenze sociali provocate dalla competizione internazionale.
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Politica e Economia
Preservare il pianeta Terra Votazioni federali 25 settembre L’iniziativa popolare lanciata dai verdi, dalla sinistra e dagli evangelici mira
a minimizzare l’impatto sull’ambiente riducendo di due terzi il consumo delle risorse naturali entro il 2050 Alessandro Carli «Se nel mondo tutti consumassero tante risorse naturali come la popolazione svizzera, occorrerebbero risorse equivalenti a circa tre pianeti Terra». Alla luce di questa constatazione, l’iniziativa «per un’economia sostenibile ed efficiente in materia di gestione delle risorse (economia verde)» vuole ridurre questo consumo, entro il 2050, in modo tale che, rapportato alla popolazione mondiale, non superi le capacità naturali della Terra.
Soluzioni proposte: una tassa d’incentivazione, prescrizioni sui processi produttivi, sui prodotti e sui rifiuti e un incoraggiamento all’uso di prodotti più durevoli Un obiettivo lodevole, che richiede però strategie estreme. Unitamente a altri due temi in votazione (l’aumento delle rendite AVS e le attività informative della Confederazione), il 25 settembre prossimo, i cittadini dovranno pronunciarsi anche sulla portata dei sacrifici da adottare per usare in modo più attento le risorse naturali del nostro pianeta. Gran parte del fenomeno del consumo delle risorse è legato alle energie fossili quali petrolio, gas naturale e carbone, nonché ai beni e ai servizi importati. Orbene, in merito l’iniziativa dei Verdi vuole obiettivi chiari e chiede alle autorità di adottare provvedimenti per favorire un uso efficiente delle risorse naturali. Ed è su queste misure, al di là dei nobili intenti, che vi è scetticismo e opposizione, sebbene in un primo sondaggio – a sorpresa – il 61% degli interrogati sia favorevole all’ini-
Lugano, 29 novembre 2015: manifestazione in favore della difesa del clima. (Keystone)
ziativa, il 24% contrario, con un 8% di indecisi. L’iniziativa, sostenuta dalla sinistra, dai Verdi liberali, dal Partito evangelico (PEV) e da varie organizzazioni, chiede che l’«impronta ecologica» della Svizzera venga ridotta in modo tale che, se rapportata alla popolazione mondiale, non superi, entro il 2050, l’equivalente di un pianeta Terra. Perciò, lo Stato deve fare in modo che l’attività economica non prosciughi le risorse naturali. La Confederazione è chiamata a fissare obiettivi a medio e lungo termine. Se non fossero raggiunti, dovrà adottare misure supplemen-
tari. Gli avversari non vogliono però una «vita pilotata dallo Stato». Tra le soluzioni, i fautori dell’iniziativa propongono una tassa d’incentivazione, prescrizioni sui processi di produzione, sui prodotti e sui rifiuti, come pure un incoraggiamento alla ricerca e la commercializzazione di determinati beni e servizi. Ricordando che il nostro carico sull’ambiente è superiore alla sua capacità, essi sostengono che si tratta di produrre in modo diverso e di consumare meglio. Al posto dei prodotti usa e getta, vanno privilegiati quelli di lunga durata, che si possono riparare e rivaloriz-
zare. Il consumo energetico di diversi equipaggiamenti va ulteriormente migliorato. Con questo cambiamento di strategia si creano nuovi posti di lavoro. Occorre poi produrre a livello locale, evitando trasporti insensati. Applicando ai prodotti d’importazione standard ecologici minimi – rammentano ancora i sostenitori dell’iniziativa – è possibile tutelare l’ambiente e favorire una produzione svizzera rispettosa della natura. Un esempio: usare legno svizzero invece d’importarlo da foreste pluviali disboscate. I promotori ritengono che tutto ciò possa essere raggiunto e contestano le
Rafforzare i poteri di indagine dei servizi segreti? Gli Svizzeri diranno il 25 settembre se intendono rafforzare l’arsenale a disposizione dei servizi d’informazione, in altre parole dei servizi segreti elvetici. La forte minaccia terroristica in Europa, con attentati non esclusi anche nel nostro paese, come ha recentemente dichiarato il ministro della difesa Guy Parmelin, fa affluire acqua al mulino dei fautori della Legge federale sulle attività informative, accolta a stragrande maggioranza dal Parlamento. Contro il progetto è però stato lanciato il referendum. I suoi fautori sono convinti che consentirebbe di intercettare, registrare e analizzare anche comunicazioni private. La legge sembra comunque godere dei favori popolari. «Non abbiamo il diritto, in nome di una protezione totale della sfera privata, di diventare complici di un attentato, perché non facciamo nulla», ha recentemente dichiarato Parmelin. «Adottando la Legge federale sulle attività informative, la situazione migliora e di molto», ha sottolineato il ministro della difesa in una recente intervista a «Le Matin Dimanche». La legge permetterà al Servizio delle attività informative della Confederazione (SIC) di compiere operazioni di intrusione. A certe condizioni, il SIC sarà autorizzato a infiltrarsi nelle reti informatiche, procedere ad ascolti telefonici, sorvegliare gli invii postali o sistemare telecamere in luoghi privati. Il progresso tecnologico, l’interconnessione globale sempre più capillare e nuove forme di terrorismo hanno
intensificato le minacce. Le basi legali su cui si basa l’attività del SIC non consentono più di rispondere adeguatamente ai rischi. Orbene, la nuova legge introduce strumenti per l’acquisizione delle informazioni al passo coi tempi. Attualmente, il SIC può basarsi soltanto su informazioni pubbliche o disponibili presso altre autorità. In queste condizioni – secondo il Consiglio federale – non è più possibile rispondere alle nuove minacce. Per contrastare i pericoli, Confederazione e cantoni dipendono dunque più che mai da informazioni tempestive e complete. Inoltre, la Svizzera non deve più dipendere eccessivamente dai servizi stranieri. Ove la Svizzera fosse gravemente minacciata da terrorismo, spionaggio, proliferazione di armi di distruzione di massa o da attacchi a infrastrutture d’importanza nazionale, il SIC deve poter raccogliere informazioni sulle persone da cui tali minacce provengono, sorvegliando i luoghi segreti dei loro incontri. Le maggiori azioni di intrusione dovrebbero limitarsi a una decina all’anno. Per i fautori, la nuova legge è un giusto equilibrio tra la necessità di garantire la sicurezza e la difesa delle libertà individuali. Per poter ricorrere alle nuove misure di acquisizione, la nuova legge prevede una procedura di autorizzazione rigorosa e ampi controlli. Le ricerche speciali saranno decise solo in ultima ratio, di fronte a una minaccia concreta e grave. Potranno essere avviate previa autorizzazione giu-
diziaria e politica. I rispettivi compiti delle autorità di perseguimento penale (polizia, ministero pubblico) e del SIC non cambieranno: le prime indagheranno su un’infrazione già commessa, mentre il secondo deve determinare una minaccia in modo preventivo. I massacri che hanno insanguinato l’Europa, in particolare Francia e Belgio, e i ripetuti appelli dello Stato islamico a colpire l’Occidente peseranno non poco sulla coscienza dei cittadini chiamati a pronunciarsi sulla nuova legge. Intanto, gli oppositori mettono in guardia dall’approvare un’«illusione di sicurezza». La nuova legge, che dà maggiori poteri e competenze al SIC, non sarebbe comunque stata in grado di evitare attentati come quelli di Parigi, Bruxelles e Nizza. Per individuare potenziali terroristi – affermano – occorre affidarsi al lavoro svolto dai servizi sociali o dalla scuola. Gran parte della sinistra (sebbene numerosi deputati socialisti sostengano la legge), come pure una serie di organizzazioni preoccupate dalla protezione dei dati fanno leva sullo scandalo delle schedature del 1989, su altri episodi che hanno scosso il servizio d’informazione, come pure sulla vicenda dell’informatico statunitense ed ex tecnico della CIA Edward Snowden che, nel giugno del 2013, aveva rivelato pubblicamente dettagli di diversi programmi di sorveglianza di massa del governo statunitense e britannico, fino ad allora tenuti segreti. Per molti osservatori, le sue rivelazioni hanno «confer-
mato i sospetti di lunga data che negli Stati Uniti la sorveglianza della National Security Agency (NSA), ossia l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, è stata più invasiva di quanto si pensasse». Tutto ciò consente agli avversari di concludere che con la nuova legge si prenderanno di mira interi gruppi e tutti i cittadini diventeranno presunti colpevoli. Le garanzie poste dalla legge non basteranno e potranno facilmente essere aggirate, in particolare a causa delle previste deroghe. Insomma, si apriranno le porte allo «Stato ficcanaso». Per i fautori del referendum, la legge mina in modo subdolo la nostra neutralità, visto che il servizio segreto svizzero potrà collaborare strettamente con agenti stranieri, trasmettere dati e sferrare attacchi informatici all’estero. Il preposto federale alla protezione dei dati Adrian Lobsiger ritiene invece che la legge sia un compromesso tra sicurezza e libertà individuale, con cui si può convivere. Ebbene, Consiglio federale e Parlamento sono consapevoli della difficoltà di conciliare sicurezza e libertà. Sono però convinti che, grazie a possibilità di sorveglianza sofisticate e a procedure di autorizzazione molto severe, la nuova legge garantisca a tutti maggiore sicurezza e tuteli la libertà del singolo. È innegabile che, pur tenendo conto dei timori e delle preoccupazioni degli oppositori, il SIC debba poter disporre di strumenti moderni per continuare a garantire la sicurezza in Svizzera. Starcene con le mani in mano è un atteggiamento irresponsabile. /AC
considerazioni sull’«impronta ecologica» del Consiglio federale. Quest’ultimo, pur condividendo le preoccupazioni degli autori dell’iniziativa, sostiene che la modifica costituzionale proposta «vuole ottenere troppo in troppo poco tempo». Il governo rammenta che l’economia ha bisogno di un buon margine di tempo per adattarsi. Misure troppo drastiche avrebbero un impatto negativo su competitività, crescita e impiego. Gli esigui termini imposti, si traducono per le imprese in costi supplementari. I prezzi dei beni e dei servizi che hanno un impatto ecologico aumenterebbero. Lo Stato avrebbe bisogno di maggiori risorse finanziarie e di più personale. Da sole, le misure in favore della ricerca e della commercializzazione di beni e servizi richiederebbero centinaia di milioni di franchi. Infine, come sempre in casi del genere, la Svizzera non dovrebbe essere l’unico Stato a imporsi simili drastici provvedimenti. Solo un approccio coordinato con l’estero può dare frutti. Inoltre, il Consiglio federale ha già preso numerose misure per favorire un uso efficiente delle risorse naturali. Confida parzialmente nell’economia, affinché s’impegni per gestire efficacemente le risorse naturali. Il governo e partiti borghesi si oppongono all’iniziativa. Secondo il comitato interpartitico contrario al progetto, entro il 2050, la Svizzera dovrebbe ridurre l’utilizzo di risorse di almeno due terzi (–65%). Per raggiungere questo obiettivo estremo, ci vorrebbero misure drastiche, con l’alimentazione, l’alloggio e la mobilità tra i settori più colpiti. Il comitato rammenta che si vuole introdurre una vera e propria «dittatura verde» quando il nostro Paese è già un modello esemplare in materia di rispetto dell’ambiente e di utilizzazione delle risorse naturali. Se il nuovo articolo 94° della Costituzione fosse accolto, le sue ripercussioni concrete dipenderebbero da ciò che decideranno le Camere. In merito, la ministra dell’ambiente Doris Leuthard si è già scontrata in Parlamento con la resistenza borghese che non vuol saperne di misure superflue, costose e dirigiste per l’economia e, di riflesso, per la popolazione. Qualunque sia il verdetto delle urne, le intenzioni dell’iniziativa, per buone o estreme che siano, sembrano destinate a rimanere un «sogno proibito».
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Politica e Economia
Ancora in crescita l’indebitamento pubblico e privato Congiuntura Nel dopoguerra ci fu un forte recupero, ma oggi le condizioni sono cambiate e la cura sarà drastica.
Anche la Svizzera non potrà sottrarsi a una eventuale crisi in Europa Ignazio Bonoli Da tempo, tanto alcuni economisti, quanto altrettanti storici, avvertono del pericolo creato dal crescente indebitamento tanto dei privati, quanto degli Stati. Nessuno vede in pratica la possibilità di rovesciare una tendenza in atto da anni. «Al massimo» precisa il capo degli investimenti della Banca Bantleon in un’intervista alla «Neue Zürcher Zeitung» «vedo la possibilità che la valanga dei debiti ci travolga più tardi di quanto oggi possiamo prevedere». Questo crescente indebitamento è molto evidente presso quasi tutti gli Stati del mondo.
Secondo un’indagine della McKinsey, l’indebitamento globale è vicino ai 200’000 miliardi di dollari In rapporto al prodotto interno lordo (PIL) gli Stati Uniti sono, per esempio, al 104%, ma il Giappone è perfino al 229%. In Europa, la cui media è all’89% (comunque al di là dell’auspicato 60% al massimo dell’Unione Europea), si parla spesso di Paesi, come anche l’Italia, il cui debito è in costante crescita e
supera ormai il 120% del PIL. Storicamente una situazione del genere non è nuova. Nel 1946, il debito degli Stati Uniti era, per esempio, al 122% del PIL. Ma a quel momento uscivano da un immane sforzo bellico a livello mondiale. Con il crescere dell’economia che ne è seguito, questa quota era scesa nel 1974 al 32%. Allo sforzo di riduzione del debito, grazie alla crescita economica e all’aiuto americano partecipava anche l’Europa. Perché oggi molti pensano che non sia più possibile, anche con uno sforzo di tutti, tornare a limiti più sopportabili? Gli esperti fanno notare che i debiti degli Stati sono solo una parte dei debiti globali di un Paese. Sia le famiglie, sia le imprese sono infatti indebitate a un livello che sta diventando pericoloso. Per esempio, questo debito globale negli Stati Uniti che, alla fine della seconda guerra mondiale, era salito al 160% del PIL, è oggi al livello del 248%. Ma anche gli USA sono in buona compagnia. Secondo un’indagine della McKinsey, l’indebitamento globale è oggi vicino ai 200’000 miliardi di dollari, il che corrisponde a oltre il 286% del PIL mondiale. Nel dopoguerra, invece, la popolazione era giovane e le necessità di recupero economico enormi. Allora gli Stati si impegnavano molto nella riduzione del debito e l’inflazione era superiore alla rendita realizzabile con titoli
Cresce l’indebitamento pubblico, delle aziende, ma anche dei privati. (Keystone)
di Stato o conti bancari. In sostanza vigeva una grande «imposta occulta». Gli Stati Uniti ridussero così il loro debito, tra il 1945 e il 1990, del 3,2% all’anno. L’Italia arrivò perfino al 5,3% all’anno tra il 1945 e il 1970. Oggi questo sforzo non c’è più. Non solo, ma la popolazione è molto invecchiata e nei prossimi trent’anni le spese per le rendite di pensione promesse e quelle per la salute aumenteranno notevolmente. Ci sono metodi che valutano questo «debito implicito» dello Stato. Uno spe-
cialista in Europa è il professor Berndt Rafferhüschen, dell’Università di Freiburg. Viene calcolato il «debito occulto» che si genera se non si modificano i sistemi fiscali e si tiene conto dell’evoluzione demografica, il tutto tradotto in termini monetari odierni. I risultati sono impressionanti. Se i 28 Stati dell’UE non adottano misure di risanamento, l’indebitamento pubblico salirà dalla media odierna dell’89% al 266%. La sola correzione possibile potrebbe essere quella di un improvviso
miglioramento della crescita economica, che però non si vede ancora all’orizzonte. Non potendo correggere la tendenza all’invecchiamento della popolazione, resta la possibilità di un sensibile aumento della produttività, accompagnato però dal risanamento della situazione odierna. Alcune misure sono già state prese, come il salvataggio delle banche, anche tramite i risparmiatori, l’acquisto di titoli di Stato o perfino gli interessi negativi. Anche la Svizzera, benché dal punto di vista dell’indebitamento pubblico si trovi molto meglio di altri Paesi, non potrà sfuggire all’aumento del debito pubblico. La riforma della previdenza vecchiaia provocherà un aumento del debito pubblico dall’attuale 35% del PIL al 59% entro il 2045. L’indebitamento privato in Svizzera è invece dato soprattutto dalle ipoteche sugli immobili ed è salito al 120% del PIL, il più alto tra i Paesi dell’OCSE. Inoltre, la possibilità di dedurre i debiti dalle imposte non invita all’ammortamento. Anche le banche hanno ridotto i loro bilanci. I loro impegni restano comunque elevati rispetto al capitale proprio: per UBS si tratta di 886 miliardi contro 57 miliardi; per Credit Suisse di 776 miliardi contro 45 miliardi. In caso di un’eventuale crisi generalizzata, anche la Svizzera non verrebbe risparmiata. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
In&outlet di Aldo Cazzullo Nel secolo della Rete Sofia Viscardi ha un milione e mezzo di follower, tra Instagram e Twitter. La prima edizione del Porto Sepolto di Giuseppe Ungaretti fu stampata in 80 copie. (È una storia, quella del Porto Sepolto, che mi commuove ogni volta che ci penso. Ungaretti, volontario, bocciato al corso ufficiali perché «inadatto al comando», fece tutta la Grande Guerra da soldato semplice, accanto ai fanti diciottenni che lo adoravano e gli portavano lo zaino e il fucile durante le marce. Un giorno, al termine di una marcia molto lunga, Ungaretti si lasciò cadere a terra per riposare. Passò un tenente, e lui non lo salutò. Per molto meno si poteva essere fucilati. Invece il tenente, che si chiamava Ettore Serra, fu incuriosito da quel fante dall’aria quasi anziana e gli chiese chi fosse. «Sono un poeta», rispose fiero Ungaretti. «Un poeta? Tu? E che poesie scrivi?». Ungaretti si tolse un foglio di tasca e l’altro vi lesse: «Mi illumino d’immenso». «Hai scritto altre poesie?». Ungaretti tirò
fuori altri fogli scritti a matita in trincea. In pratica affidò a uno sconosciuto la sua vita. Serra chiese una licenza, tornò a casa, e fece pubblicare le ottanta copie del Porto Sepolto). Oggi molti tra i nostri ragazzi non leggono Ungaretti. Comprano i libri di Favi-J, che non sono poi libri ma quadernetti su cui farsi fare un autografo. Eppure Ungaretti non è difficile. «E forse io solo so ancora che visse» è un verso comprensibile a tutti. Come «lasciatemi qui come una cosa posata e dimenticata». Non sappiamo chi e cosa resterà degli youtuber, dei blogger, delle star della rete. Chiunque abbia un pubblico va preso sul serio. Molti sapranno reinventarsi, rinnovarsi, mantenere un contatto con i coetanei. Altri, forse la maggior parte, spariranno. Ma il cambiamento cui stiamo assistendo è epocale. Sta saltando un metodo di trasmissione della cultura tra le generazioni che funzionava da secoli, se non da millenni.
pubblica è stata segnata dai giornali, oltre che ovviamente dalla musica. Il nostro è il secolo della Rete. E la Rete è un frullatore che fa tutto a pezzetti e li getta in aria come coriandoli. Articoli, film, trasmissioni televisive, canzoni, arie liriche vengono spezzettati e condivisi. Questo rappresenta una straordinaria opportunità, almeno per chi ha gli strumenti per coglierla. Ma a teatro o all’opera il più giovane ha cinquant’anni (con le eccezioni che confermano la regola), l’editoria vacilla, i cinema chiudono, l’industria culturale si riconverte al ritmo frammentato e seriale che la Rete impone. Mantenere la concentrazione per più di due minuti è diventato un problema; figurarsi seguire un film che dura due ore, o leggere un libro che ne dura molte di più. Il prodotto più fruito sul web e in genere sulle nuove piattaforme, però, non sono i frammenti della vecchia cultura o dello spettacolo. Sono i videogame. Non a
caso «Candy Crush» è stato venduto per l’incredibile somma di sei miliardi di dollari. (Anni fa ho scritto una rubrica su «IoDonna» critica sull’abuso dei videogiochi. Sul sito sono arrivati 400 messaggi: 5 di mamme preoccupate; 5 di persone che mi insultavano ma argomentavano – il concetto era che i videogame sono ormai interattivi e quindi più creativi di un film o di una trasmissione tv o di un libro –; 390 erano persone che mi maledicevano con parole di una violenza e di un odio impressionanti. Erano tutti maschi, nessuno di loro aveva letto la rivista, tutti commentavano il post che avevano ricevuto. Non mi sono offeso, perché in realtà non ce l’avevano con me; difendevano la loro passione). Ognuno passa il tempo libero come crede; l’importante è la consapevolezza che stiamo perdendo tutti qualcosa. Salvare i libri, il cinema, l’industria culturale nel secolo della Rete: questo è il problema.
probabilmente vero che gli svizzeri-tedeschi conoscono il territorio ticinese meglio di quanto i ticinesi conoscano la geografia dei cantoni di oltre San Gottardo, non è altrettanto vero che lo svizzero-tedesco medio conosca meglio il ticinese medio di quanto questi conosca lo svizzero-tedesco medio. I pochi studi comparativi sul carattere, le virtù e i difetti delle popolazioni dei nostri Cantoni offrono più di un’indicazione empirica in questo senso. Al corrispondente della NZZ dà fastidio soprattutto l’atteggiamento di indifferenza, se non addirittura di ostilità, dei ticinesi verso il resto della Confederazione. Ma veniamo al secondo punto dell’argomentazione di Jankowsky. Lo stesso consiste nell’ipotesi stando alla quale, con la realizzazione della nuova trasversale ferroviaria alpina, la situazione criticata nel primo punto potrebbe migliorare perché
molti ticinesi potrebbero diventare pendolari verso i centri dell’Altipiano imparando così a conoscere meglio gli svizzeri-tedeschi. Come dire che se vuoi conoscere i padroni devi andare al loro servizio. Anche se è possibile che l’emigrazione pendolare dei ticinesi, in particolare dei giovani, verso i centri dell’Altipiano aumenti nei prossimi anni è però difficile dimostrare che la stessa potrebbe agire da elemento decisivo per combattere il Ticinocentrismo. C’è piuttosto da temere che, confrontati con molte realtà lavorative nelle quali la comunicazione si svolge solo in dialetto, i nostri pendolari di domani trovino ribaditi i loro preconcetti sugli svizzeri-tedeschi. Come si diceva in entrata, l’articolo di Jankowsky non ha trovato responso né critico, né approvatorio, da parte dei ticinesi. Ha invece fatto andare su tutte le furie il prof. Hans Ulrich Jost che per qualche
decennio ha insegnato storia svizzera all’università di Losanna. In una lettera alla NZZ, Jost ha spezzato una lancia in favore dei ticinesi ricordando che il cantone Ticino, più volte occupato da truppe federali, ha più di una ragione di diffidare dagli svizzero-tedeschi. Aggiunge che ci sono altri esempi che dimostrano che alla maggioranza svizzero-tedesca interessano più gli interventi autoritari che una vera cooperazione con i ticinesi. Secondo Jost, l’articolo di Jankowsky è permeato da questo stesso spirito. Per chi scrive, l’articolo in questione non è così criticabile. È solamente un po’ ingenuo nel pensare che la riduzione del tempo di viaggio in treno dal Ticino ai centri svizzero-tedeschi dell’Altipiano possa migliorare la comunicazione tra due popoli che non si capiscono. Per ridurre le distanze culturali non basta costruire una galleria di base.
Büchi suggerisce di denominare… «Rivellagraben» l’ormai sorpassato fossato dei Rösti. Oltre a soffermarsi sulle differenze gastronomiche citate, l’articolo esamina anche quelle socio-culturali. In questo campo, mettendo in evidenza la costante omogeneizzazione che avviene a rimorchio di un costante multiculturalismo, l’autore dell’articolo approfondisce la sua ricerca sulle particolarità linguistiche evidenziando le influenze che esse determinano. È noto che gli svizzero-tedeschi sono gelosi della loro «Mundart» e la difendono anche per distinguersi dai tedeschi di Germania, da sempre incuranti di critiche e richiami. In Romandia invece i dialetti sono ormai scomparsi, resistono solo certe espressioni e usi idiomatici che permettono ancora di risalire alle radici regionali di chi parla. Secondo il giornalista della Nzz da questo divario legato ai dialetti derivano le differenti aperture mentali dei due blocchi, con i romandi di fatto più internazionalisti e più «eurofili», mentre i connazionali di lingua tede-
sca sono più chiusi e conservatori, perché ancora legati al territorio. Stesse disuguaglianze anche nello «humor», nonostante il livellamento apportato dai moderni consumi mediatici. Per Büchi i romandi continuano a privilegiare lo stile umoristico francese (e specifica: con punte sottratte a quello belga), giocando sulle parole, spesso con riferimenti sessuali e una sempre spiccata aggressività contro la politica. Gli svizzero-tedeschi in fatto di «humor» continuano invece a privilegiare il ridere per ridere, un umorismo quasi inglese, mai d’assalto. In tutto l’articolo l’autore limita competenza e confronti ai romandi: la terza regione linguistica elvetica, cioè noi, gli «ch’tis» del sud, non viene mai presa in esame. Solo all’inizio, introducendo l’argomento, Büchi parla di «una certa aria del sud, una certa leggerezza piuttosto gradevole… una sorta di nuvola» che addolcisce gli svizzero-tedeschi quando soggiornano in Romandia. Il riferimento sembra una conferma che l’«aria del sud», quindi anche quella della
Svizzera italiana, è essenziale per affinare la convivenza democratica della Svizzera. Inoltre concludendo il suo articolo Büchi giudica indispensabile che le piccole diversità, come pure le particolarità che derivano dal bilinguismo, continuino a sussistere e vengano coltivate badando anche a non esagerarne l’importanza. Un’analoga esortazione in difesa del plurilinguismo come fulcro della convivenza democratica è risuonato anche nel magnifico discorso pronunciato lo scorso 31 luglio dal consigliere federale Alain Berset all’inaugurazione della nuova ala del Museo nazionale di Zurigo: «Notre plurilinguisme est essentiel. Notre diversité fait que ce n’est pas toujours la même majorité qui prend le pas sur la même minorité. Dans chaque dossier, il y a une autre majorité et une autre minorité» ha ricordato il consigliere federale. È la prova che l’effetto «ch’ti», cioè la diversità garantita dalle minoranze, è essenziale per un solido ponte fra conservazione del passato e rinnovamento del futuro.
Non che le generazioni passassero il tempo a leggere; molti erano analfabeti. Ma i libri erano considerati una cosa nobile, importante; e l’ignoranza era qualcosa di cui vergognarsi, non di cui vantarsi; da nascondere, non da rivendicare. Noi neocinquantenni siamo stati ad esempio l’ultima generazione ad avere una formazione classica, certo superata: il libro Cuore, Pinocchio, Salgari, Verne; l’Iliade, l’Odissea; Manzoni, Dante; i francesi, i russi. A un certo punto molti di noi si sono fermati. Mi ci metto anch’io: non sono mai stato un grande lettore di narrativa. Ma non abbiamo mai pensato che un videogame, o la recensione di un videogame, potesse sostituire la letteratura e forse anche la realtà. Invece è quello che sta accadendo. Il ’700 è stato il secolo del teatro. L’800 è stato il secolo del romanzo. Il ’900 è stato il secolo del cinema e, nella seconda metà, della televisione. In forme diverse, in tutti e tre i secoli la vita
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Ticinocentrismo, variazioni sul tema I corrispondenti dei quotidiani svizzero-tedeschi in Ticino non hanno un compito invidiabile. Raramente l’attualità del cantone, o della zona di frontiera italiana, offre loro spunti per articoli che possono interessare i loro lettori. Succede così che spesso il corrispondente dal Ticino, alla ricerca di soggetti interessanti per i suoi articoli, va oltre il compito dell’informazione e si mette spiegare ai suoi lettori il Ticino e i ticinesi proprio come se fosse un corrispondente da una paese poco conosciuto, che so il Giappone o la Giordania. L’intenzione è certamente buona e molti lettori dei quotidiani di oltre San Gottardo apprezzano questi interventi. Non così i lettori ticinesi di quei quotidiani che si sentono spesso mal compresi o addirittura giudicati in modo sbagliato. In passato le polemiche sugli articoli dei corrispondenti dal Ticino dei giornali svizzero-tedeschi
erano abbastanza frequenti in Ticino. Oggi lo sono meno va a sapere perché. Così l’articolo che Peter Jankowsky ha pubblicato a inizio agosto sulla «Neue Zürcher Zeitung» nel quale, senza mezzi termini, accusa i ticinesi di «Ticinocentrismo» non ha avuto nessuna eco o quasi in Ticino. Era il periodo delle vacanze e le redazioni lavoravano a ranghi incompleti. Jankowsky nel suo articolo si concentrava su due punti. Dapprima criticava i ticinesi per ritenere il loro cantone il centro del mondo e per non interessarsi molto a quel che succede fuori dai loro confini, fosse pure solo nel resto della Confederazione. Va bene! Tuttavia resterebbe da appurare se il rimprovero debba essere applicato solo al Ticino. Chi scrive non ha l’impressione che negli altri cantoni, in particolari quelli non urbani, il grado di apertura verso l’esterno sia maggiore che nel caso del Ticino. Se è
Zig-Zag di Ovidio Biffi Effetto «Ch’ti» e plurilinguismo Lo «Ch’ti» è un dialetto regionale parlato ancora nel Nord-Ovest della Francia e in parte anche in Belgio (nei dintorni di Lilla c’è una variante denominata «rouchi»: qualche legame con il «rügin» segreto dei magnani della Valcolla?). È stato riportato in auge qualche anno fa da un bel film francese (Bienvenue chez les Ch’tis, titolo italiano: Giù al Nord, filone subito fotocopiato dal remake italiano Benvenuti al sud) che narra le peripezie di un buralista postale trasferito al Nord della Francia dopo aver fatto domanda per una promozione che avrebbe dovuto portarlo al sole del Sud. Oggi infatti, oltre al dialetto della Piccardia, il vocabolo «ch’ti» indica anche coloro che abitano nel nord della Francia, da Lilla a Calais. Un po’ come capita al «terùn» lombardo, ma un titolo Effetto “terùn” e plurilinguismo avrebbe però indicato solo gente che abita al sud, non un idioma. Per questo lo «ch’ti» si addice meglio a introdurre le considerazioni di un collega svizzero-tedesco sul plurilinguismo, lette in un articolo sulla Nzz online.
Il collega è Christoph Büchi, fino al 2014 corrispondente della Nzz dalla Romandia e autore di Mariage de raison. Romands et Alemaniques – une historie suisse, libro pubblicato a Ginevra da Editions Zoé. Stesso argomento nell’articolo: le differenze ancora riscontrabili fra romandi e svizzerotedeschi. Büchi si addentra con molto tatto e mestiere negli anfratti che separano le due maggiori componenti demografiche della Confederazione divise dalla «grande muraglia elvetica» che tutti ci ostiniamo a chiamare «Röstigraben», vale a dire il vallo geopolitico che di tanto in tanto sondaggi e votazioni nazionali riportano alla luce. Un fossato che resiste, nonostante le patate arrostite non siano più solo svizzero-tedesche, così come la pizza non è più solo napoletana. Restando da noi, più ancora delle patate è il pane a confermare un generale livellamento in fatto di gusti: un po’ ovunque si sfornano infinite specie di pane (il «gipfel» parla per tutti!) a dimostrazione di un livellamento ormai totale in fatto di gusti e consumi. Per questo
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Cultura e Spettacoli Il mondo di Robert Frank La Ziegelhütte di Appenzello ripercorre la vita del grande fotografo nato in Svizzera
Trubetzkoy a Verbania Lo scultore di origine russa Paolo Trubetzkoy è l’attuale protagonista del Museo del Paesaggio di Verbania, che ha riaperto i battenti recentemente
Lux, amarcord Lunga e ricca è la storia del mitico cinema Lux di Massagno, recentemente passato al CISA
Cartoline di fine estate Carlo Ciceri, compositore, manda cinque saluti non solo musicali
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Simonetta Ferrante, La gioia di scrivere, 2012. (Archivio Simonetta Ferrante, m.a.x. museo, Chiasso)
La libertà del segno Mostre Il m.a.x. Museo di Chiasso ospita una mostra monografica di Simonetta Ferrante
Alessia Brughera Curiosa e determinata, versatile e appassionata: Simonetta Ferrante, milanese, classe 1930, è un’artista che con inesauribile energia ha saputo mantenere viva la voglia di sperimentare lungo tutto il suo percorso creativo. Un percorso che non poteva essere altro che eclettico, in quanto specchio di una mentalità aperta e sempre pronta a recepire nuovi stimoli, con un’attitudine a considerare l’inedito e il diverso come preziose fonti di arricchimento. Fin da giovane la Ferrante alimenta la sua natura estrosa e irrequieta con esperienze che spaziano dall’arte alla musica alla letteratura, una commistione di linguaggi che lei sa armonizzare con intelligenza, scoprendo i punti di aderenza e gli accostamenti fecondi utili a rafforzare ciascuna disciplina. Ben introdotta nel mondo creativo del capoluogo lombardo, soprattutto grazie al nonno Attilio Calabi che è stato direttore generale de La Rinascente, l’artista è in contatto con molti dei personaggi che nel secondo dopoguerra animano la vita culturale di Milano.
Questo ricco bagaglio di interessi e frequentazioni si ripercuote sulla sua prolifica e variegata produzione artistica, che abbraccia in maniera trasversale la grafica, la pittura, la scultura, l’illustrazione e la calligrafia: un applicarsi in diverse tecniche che si rivela non una sperimentazione fine a sé stessa, bensì un modo per dare concretezza a una ricerca coerente sul rapporto fra segno e colore. La mostra allestita al m.a.x. Museo di Chiasso, la prima antologica dedicata alla Ferrante, documenta proprio il muoversi con disinvoltura dell’artista tra ambiti differenti e la sua capacità di saper saggiare materiali nuovi lasciandosi ispirare da culture lontane. Raccolto in un percorso cronologico e tematico, troviamo difatti esposto un nutrito gruppo di opere dell’artista che dal periodo della sua formazione e della sua attività di graphic designer ci conduce fino alla stagione più recente, con gli esiti delle sue perlustrazioni a tutto campo. È nei primi anni Cinquanta che la Ferrante incomincia l’apprendistato di
grafica, lavorando dapprima con Max Huber e poi con Pier Giacomo Castiglioni. Sebbene il clima meneghino sia particolarmente vivace, le esperienze milanesi non le bastano. Decide quindi di completare la sua istruzione a Londra, città cosmopolita dove i metodi di insegnamento intuitivi le aprono ancor più la mente. A testimonianza di questo momento, la rassegna chiassese espone alcuni disegni, in cui già si coglie quel tratto spontaneo che sarà l’impronta distintiva della Ferrante, e alcuni studi eseguiti alla Central School of Arts and Crafts, in cui è già evidente il suo approccio originale che sa oltrepassare la staticità dell’immagine attraverso l’attenzione al ritmo e agli effetti cromatici. Forte delle competenze acquisite, l’artista ritorna a Milano, centro attorno a cui gravitano creatività e innovazione. Sono gli anni in cui è palpabile la voglia di fare e di distinguersi, e in cui il design grafico viene identificato come un mezzo strategico per l’imprenditoria. La Ferrante diventa una delle figure di rilievo di questo clima
all’avanguardia e carico di speranze: lavora con Bob Noorda e con Bruno Munari, conosce Lora Lamm, collabora con il fotografo Serge Libiszewski, con l’illustratrice Giovanna Graf e con il grafico Carlo Pollastrini. Di questo periodo di grande fervore incontriamo in mostra alcuni elaborati realizzati per vari committenti. Interessante, ad esempio, è la pubblicità per i supermercati Esselunga, dove l’ingrandimento di uno scontrino viene utilizzato come idea vincente per palesare il costo contenuto della spesa. Quando poi verso la fine degli anni Ottanta la Ferrante decide di dedicarsi totalmente all’indagine artistica, ha inizio la lunga stagione di grandi sperimentazioni caratterizzata dalla fascinazione per molteplici modalità espressive. Nascono così incisioni, dipinti a olio, acquerelli, collage, installazioni, sculture e libri d’artista che si fanno strumento per sviluppare un segno sempre più libero e per sondare le potenzialità relazionali tra materiali e consistenze differenti. Tutte opere in cui non è difficile individuare anche corrispondenze
con l’universo musicale o con quello poetico, in un gioco di evocazioni in cui la ricerca calligrafica intensifica suggestioni e accordi intuitivi. Nelle incisioni e negli inchiostri la scrittura si affranca dal suo legame con la parola per trasformarsi in raffinate immagini astratte che accendono spesso esotiche memorie, nelle sculture diviene una traccia trasparente su plexiglas che dà vita a trame luminose e fuggevoli, o, ancora, nei collage, emerge dalle stratificazioni polimateriche con un dinamismo avvolgente. La Ferrante crea così spazi narrativi dalle movenze fluide in cui segno, colore e materia divengono proiezioni di uno spirito audace ed entusiasta. Dove e quando
Simonetta Ferrante. La memoria del visibile: segno, colore, ritmo e calligrafie. m.a.x. museo, Chiasso. Fino al 25 settembre 2016. A cura di Claudio Cerritelli e Nicoletta Ossanna Cavadini. Orari: ma-do 10.00-12.00 / 14.00-18.00; lu chiuso. www.centroculturalechiasso.ch
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Cultura e Spettacoli
Robert Frank, una leggenda Fotografia Ad Appenzello una stimolante mostra propone alcuni
frammenti della vita di un fotografo straordinario
Gian Franco Ragno Settant’anni or sono un giovane fotografo ventenne si aggirava per la Landsgemeinde di Hundwil, per scattare caustiche fotografie di un evento che non richiedeva l’opinione delle donne sulla cosa pubblica. E non l’avrebbe richiesta per altri tre decenni. Di quelle fotografie ne vendette solo una alla «Zürcher Illustrierte». Presto, annoiato dall’angustia elvetica, in cui l’unica emozione era «andare allo Zoo», si sarebbe imbarcato per gli Stati Uniti, per diventare, dopo anni di lavoro, difficoltà economiche e esperienze biografiche straordinarie e drammatiche, uno dei fotografi e artisti contemporanei di riferimento, un maestro indiscusso. Parliamo naturalmente di Robert Frank (1924), il quale in questi mesi è ritornato nell’agreste cornice di Appenzello. Da parte sua, il piccolo cantone, nel frattempo e soprattutto negli ultimi anni, si è dotato di strutture museali d’eccellenza: il Kunstmuseum degli architetti Gigon & Guyer (coppia di archi-star che in Ticino ha lasciato un piccolo saggio nella Fondazione Arp di Locarno) e la magistralmente ristrutturata Kunsthalle Ziegelhütte, una suggestiva fabbrica di mattoni del XVII secolo che con le sue intricate assi
in legno sembra una prigione di Piranesi – essa ospita la mostra di cui parleremo nelle sale ricavate al secondo e terzo piano. Tutto ciò è stato reso possibile grazie al generoso contributo della Fondazione Heinrich Gebert, che in questi anni ha sostenuto iniziative e progetti culturali capaci – recitano orgogliosi i giornali – di attirare più visitatori dello stesso numero di abitanti nel cantone. Concepita dalla stesso Frank e dall’editore Gerhard Steidl, l’esposizione Books and Films 1947-2016 evita di mostrare stampe originali e sotto cornice. D’altra parte, esse ormai hanno raggiunto quotazioni impressionanti: un vintage dello scatto che fa da copertina a The Americans è stato battuto recentemente a seicentomila dollari. Per questi motivi l’allestimento non comprende fotografie – libero, suggestivo, volutamente precario esso si basa su numerose lunghe stampe di lavoro, grandi precari, riguardanti ognuno un libro. L’impressione complessiva è quella di trovarsi in un atelier, un’officina, una stamperia, davanti a un menabò di un giornale. Con tanto di frigo-bar, scritte sui muri e precarie seggiole ricavate da palette ferroviarie. Il percorso dell’esposizione non può essere che suggestivo e ricco di vi-
sioni, tante quante quelle vissute da Frank, scandite da libri che hanno costituito la storia della fotografia contemporanea: il primo senza dubbio il già citato The Americans, ritratto di un Paese senza veli e senza epica, riprese di momenti «in between», apparentemente banali, volutamente in contrapposizione all’«istante decisivo» di Cartier Bresson; il secondo, lo struggente The Lines of My Hand del 1972 – concepito nel suo ritiro in Nuova Scozia dopo l’abbandono della moglie, la schizofrenia del figlio e, da lì a poco, la prematura morte della figlia in un incidente aereo. Ma vi sono altri frammenti dell’opera di una vita che qui è impossibile ripercorrere in breve: dall’educazione di un formalismo svizzero (Schuh, Matter, Goebli), agli intensissimi reportage, dall’amicizia creativa con i protagonisti della Beat Generation (Kerouac, Ginsberg, Burroughs) sino alle opere più recenti. Oltre allo spazio, l’esposizione richiederebbe anche il tempo, mai abbastanza per gustare all’ultimo piano una rassegna a ciclo continuo – con un té freddo artigianale alle erbe offerto dalla ditta Frank&Steidl – dell’imprescindibile filmografia d’avanguardia dell’autore svizzero: da Pull my Daisy
Robert Frank controlla la prova di stampa della «Süddeutsche Zeitung», Mabou/ Canada, settembre 2014. (Gerhard Steidl)
con la sceneggiatura aperta di Jack Kerouac al proibitissimo documentario dietro le quinte, assai affollate a dire la verità, del tour Exile on Main St. dei Rolling Stone, manifesto del cinema verità – e molti altri che hanno contribuito largamente alla creazione del linguaggio cinematografico contemporaneo. Tutt’altro che raffazzonato, il progetto ha in realtà basi profonde: da alcuni decenni, Steidl assiste Frank nel rileggere il proprio archivio attraverso nuove pubblicazioni e con nuove immagini inerenti i suoi reportage più famosi (Perù, Valencia, Parigi, Inghilterra e Scozia nel primo dopoguerra). Ma non solo: la coppia continua a collaborare a nuovi progetti, fotolibri che ne proseguono la ricerca – perlopiù in piccoli edizioni dal chiaro impianto concettuale.
Merito di Frank e Steidl, amici e complici, nell’esposizione appenzellese, è stato quello di aver evitato un’antologia, l’agiografia dell’artista inseguito dai curatori di musei di tutto il mondo. Ribadendo la capacità (e la necessità) di reinventarsi e rileggere il proprio passato ogni volta, i due sembrerebbero avvertire soprattutto le nuove generazioni con un monito: prima di essere rinchiusi in un museo, prima di cercare conferme in premi, riconoscimenti, vendite e borse di studio, uscite e affrontate il mondo, e, soprattutto, abbiate qualcosa da dire. Dove e quando
Robert Frank. Books & Films 19472016. Kunsthalle Ziegelhütte, Appenzello. Fino al 31 ottobre 2016. www.h-gebertka.ch Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
L’autoironia ci salverà
Pubblicazioni Ancora una volta Fausto Boffi, grazie ai suoi arguti scritti, ci permette di essere
fiduciosi nel genere umano Manuel Rossello Ogni nuovo libro di Fausto Boffi alimenta la speranza che in fondo la fiducia negli esseri umani, al netto delle innumerevoli nefandezze di cui si sono macchiati da Adamo ed Eva in poi, non sia ancora del tutto mal riposta. In quest’ultima fatica (è il suo sesto volume e come i precedenti è arricchito dalle illustrazioni di Emilio Rissone) l’autore ha raccolto i numerosi interventi «filosofici» (spiegheremo tra poco la ragione delle virgolette) che man mano è andato pubblicando sulla «Regione».
I commenti di Fausto Boffi su quanto accade nel mondo sono sempre empatici e molto fini Nella sua rubrica l’autore si è concesso la libertà di spaziare tra gli argomenti più vari, attingendo di volta in volta dalla cronaca politica, dagli avvenimenti internazionali, dallo sport e perfino da fatti apparentemente insignificanti, commentandoli con finezza, a volte pungendo, altre manifestando una profonda empatia con il tema affrontato. Senza far mai mancare in filigrana una garbata ironia, che insieme alla struttura dialogica è la nota stilistica dominante della sua scrittura.
L’ironia, o meglio l’autoironia, agisce fin dall’intenzionale sgrammaticatura del titolo, che ci invita a non prenderci troppo sul serio. Va detto inoltre che c’è qualcosa di profondamente anglosassone nell’understatement con cui l’autore spiega (o meglio, racconta) i meccanismi dell’economia, il funzionamento della democrazia rappresentativa o le degenerazioni del potere. Egli infatti procede (ed è questo l’aspetto che ci ha deliziato di più durante la lettura) tessendo una scoppiettante trama di corrispondenze ora con una scena notturna dei Promessi Sposi, ora con un’algida sentenza di Nietzsche, ora con un episodio esilarante dal Barone di Münchhausen. In questi rispecchiamenti sempre calzanti tra l’attualità più prosaica da un lato e la riflessione filosofica e la letteratura dall’altro egli rivela una profonda conoscenza dell’animo umano e una lunga consuetudine con le buone letture e la meditazione sui classici. Questo stesso gusto per gli accostamenti inaspettati lo porta a commentare il deficit di bilancio cantonale alla luce di una pagina dei Diari di Gide. Ecco dunque spiegate le virgolette. Quella di Fausto Boffi non è una filosofia improvvisata, tutt’altro. È invece un discettare attorno alle cause dei fatti evitando l’aridità terminologica e lo sterile avvitamento epistemologico di tanta filosofia (che cosa rimane oggi, per esempio, della controversia tra «analitici» e «continentali» che tanti fiumi d’inchiostro ha fatto scorrere non
Per vederci più meglio di Fausto Boffi (2015).
molti anni or sono?). Queste pagine, insomma, propongono delle riflessioni assennate, ma con il garbo e la convivialità di chi ha sulle spalle una lunghissima esperienza di vita e un robustissimo bagaglio di letture. Un ragionare che in ultima analisi invita alla tolleranza. Visti i numerosissimi richiami alle auctoritates avremmo visto di buon occhio un indice analitico che desse conto delle dotte e sempre pertinenti citazioni, massimamente tratte dai classici del pensiero. A titolo d’esempio (ma non sono che una piccola parte) abbiamo raccolto qualche nome dall’inclita schiera: Socrate, Plutarco, Giovenale, Agostino, Dante, Cervantes, Vico, Ster-
ne, Adam Smith, Baudelaire, Keynes, Heidegger, Camus, Adorno, Auden… Se dovessimo trovare un antecedente a questo lavoro, non può non tornare alla mente un libro singolare che il sommo storico dell’arte Federico Zeri diede alle stampe, vari anni fa, con il titolo di Sbucciando piselli. Con un tono all’apparenza altrettanto svagato e salottiero Zeri in quel libro spargeva erudizione a piene mani (pure lì in forma di dialogo) evitando qualunque pedanteria. Tra i nuclei del volume vanno citati da un lato le pungenti osservazioni sulla crisi economica e sulle possibili soluzioni, dall’altro l’amore-odio per
Lugano, a cui Boffi riserva un’invettiva che discende direttamente, crediamo, da quelle che Dante riserva a Firenze. Né l’umile recensore può astenersi dal metterci del suo in questo accorato grido di dolore per la politica di dissennate amministrazioni cittadine che, solo per fare un paio d’esempi, prima hanno permesso che la più grande collezione privata al mondo di pittura rinascimentale, la Thyssen-Bornemisza, partisse per la Spagna, poi hanno lasciato che si distruggesse quasi interamente il patrimonio urbanistico della città per poi stilare (solo nel 2008!) un elenco degli edifici degni di protezione. Ma non renderemmo giustizia al libro se non accennassimo pure ai ricordi infantili che affiorano qua e là come un fiume carsico e che talvolta muovono l’autore a trapassare dall’italiano al dialetto. Perfette, nella loro densità averbale, le istruzioni per costruire una fionda: «Na furcela da legn, dü elastic, na pezzeta da curam». I tempi di composizione di questo bel volume non hanno consentito all’autore di commentare da par suo un avvenimento troppo recente per poter essere incluso nella raccolta, la famigerata «Brexit». Spiace perciò non poter leggere le sue considerazioni al riguardo, che sarebbero state saggiamente argute. Poco male, perché Fausto Boffi per nostra fortuna ha l’abitudine di spargere la propria saggezza anche in ricorrenti raduni conviviali. Poiché egli sa bene, da autentico dipnosofista qual è, che la cultura inizia a tavola. Annuncio pubblicitario
A Londra tutte le lingue del mondo Rassegne letterarie L’undicesima edizione
del Festival Babel è alle porte
Il logo del festival.
Londra come (simbolica) capitale del mondo. È con questo motto che il 15 settembre prenderà il via il Festival bellinzonese di letteratura e traduzione Babel, giunto all’undicesima edizione. Quest’anno infatti, anche alla luce di Brexit e delle conseguenze sul medio e lungo termine che la scelta di gran parte dei britannici ha comportato, il comitato organizzativo ha deciso di dedicarsi a una città che, oltre ad essere la capitale indiscussa del Regno Unito, è anche una fertilissima fucina creativa in tutti i campi artistici immaginabili, e grazie a queste sue caratteristiche si trasforma in un naturale ombelico del mondo. Il Festival non sarà dunque all’insegna della celebrazione di grandi scrittori britannici affermati da anni come Jonathan Coe o Ian McEwan (tanto per abitrariamente citarne solo qualcuno), ma proporrà un percorso di scoperta per mettere in luce coloro che saranno i protagonisti di domani. Come ben recita il programma «Gli scrittori invitati a Babel sono londinesi solo perché esiliati, rifugiati, innamorati e liberati. A Babel portano quello che a Londra sta per
accadere: testi in uscita, nuove traduzioni e progetti editoriali inediti». Guardando ai nomi in programma è subito chiaro che al centro dell’attenzione vi sono scrittori indubbiamente cittadini sì del mondo, ma provenienti soprattutto da quei Paesi che per i motivi più svariati si vedono gli occhi del mondo puntati addosso. Dal Mediterraneo il viaggio letterario porterà alla Cina, passando per la Somalia, il Messico, la Scozia, l’Eritrea, l’India, la Giamaica e Calais. Ancora una volta la letteratura uscirà dalla sua prima dimensione di pura narrazione, per toccare ambiti come la denuncia, la riflessione, l’introspezione personale e il viaggio. Gli appuntamenti di Babel (anche quest’anno gratuiti) saranno accompagnati da una serie di momenti collaterali,e più informali. Dove e quando
Babel, Festival di letteratura e traduzione, 15-18 settembre 2016, diversi luoghi. www.babelfestival.com
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Cultura e Spettacoli
La riscoperta del «Rodin russo» Musei Dopo due anni di lavori riapre il Museo del Paesaggio di Verbania con un omaggio allo scultore
di origine russa Paolo Troubetzkoy a 150 anni dalla nascita
Emanuela Burgazzoli Vale una gita – anche in battello da Laveno –, la visita al centro storico di Pallanza e a Palazzo Viani Dugnani. Una sobria costruzione di epoca barocca, dal 1909 (la denominazione è del 1914) sede del Museo del Paesaggio, fortemente voluto da un lungimirante insegnante di lettere e filosofia, Antonio Massara che, già agli albori del Ventesimo secolo, individuava nel paesaggio il maggior valore del Verbano, un valore da difendere, perché «minacciato nelle sue forme autentiche dal turismo, dall’industria e dalla speculazione edilizia». Oggi il museo ospita collezioni permanenti di pittura, scultura, archeologia e religiosità popolare ed è dislocato su tre sedi – oltre a Palazzo Viani Dugnani, Palazzo Biumi Innocenti e Casa Elide Ceretti – e la pinacoteca dovrebbe riaprire al pubblico l’anno prossimo. Dal bel cortile interno con un portico a colonne si accede al piano terra: otto sale e 150 opere (sulle 340 possedute dal museo) dello scultore nato nel 1866 a Intra, figlio del principe russo Pietro Troubetzkoy e della cantante lirica Ada Winans. Nonostante una vita «internazionale» – viaggia in Russia, negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia frequentando i più importanti salotti aristocratici e alto borghesi – Paolo Troubetzkoy torna periodicamente nella villa di famiglia di Ghiffa: è qui che entra in contatto con alcuni pittori scapigliati lombardi come Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni. Comincia la sua formazione a Milano, dove conosce fra gli altri Grubicy, Segantini, D’Annunzio e Crispi, di cui esegue i ritratti. Cruciale per lo scultore anche il periodo russo, all’Accademia di Belle arti di Mosca, città dove incontra Lev Tolstoj, a cui dedica due busti e alcuni ritratti. Il
Il portico del Museo del Paesaggio di Verbania.
drammaturgo George Bernard Shaw e l’attrice Mary Pickford sono altri nomi di personaggi illustri immortalati da Troubetzkoy, scultore «impressionista» che predilige scolpire eleganti figure di signora, i bambini, gli animali e i nudi femminili. Della sua figura abbiamo parlato con la curatrice dell’esposizione, Federica Rabai.
L’opera di Troubetzkoy, probabilmente, era stata considerata troppo innovativa per la sua epoca; egli era molto conosciuto tra gli esperti d’arte ma poco «popolare», l’artista internazionale ha lasciato più segni all’estero che nella sua terra natìa, l’Italia, anche se molte sue opere sono presenti in musei italiani e i suoi monumenti ufficiali in tutta la Nazione.
L’influenza è chiara soprattutto nei delicati effetti di luce sapientemente creati con pochi tocchi di «mano» sulla materia (lavorava principalmente con le mani. Aveva dita molto lunghe e affusolate che usava come dei veri e propri pennelli).
Si tratta di una retrospettiva importante per riscoprire uno scultore che è stato «trascurato»; perché questa mancanza di riconoscimento?
Troubetzkoy viene definito anche il «Rodin russo»; perché questa definizione? Come si colloca nel panorama artistico di inizio Novecento?
Era sicuramente un ritrattista anti convenzionale, fuori dagli schemi e dalle regole. Le sue figure sono sempre colte in atteggiamenti intimi e rilassati, poco istituzionali (se non in rari casi) senza mai tradire, però, lo stato sociale e il ruolo della persona raffigurata.
«Ancora non me dispero» è il motto del museo «Ancora non me dispero» dice il Pallanzotto costretto dal duca Francesco Sforza a superare un’enorme difficoltà. Pallanzotto è il soprannome di certo Bertolotto de’ Giorgi di Pallanza, commerciante di tessuti. Essendosi vantato delle proprie ricchezze e di essere in grado di coprire con un tessuto «cremisile» gran parte della superficie del lago Maggiore,
è invitato e poi costretto dal duca di Milano a costruire a proprie spese il torrione del Castello Sforzesco, che poi prende nome da lui e ancora oggi si chiama torre del Pallanzotto. «Ancora non me dispero» è il motto con il quale nel 1914 si fregia il Museo del Paesaggio, ben conscio delle difficoltà da affrontare nel raggiungere le proprie finalità.
Troubetzkoy inizia la sua formazione nell’ambito della scapigliatura lombarda con Daniele Ranzoni e Tranquillo Cremona ma è nel suo periodo francese che acquisirà la cifra stilistica ispirata proprio dallo scultore Rodin e dal pittore Boldini, da molti – infatti – è ricordato come «lo scultore impressionista». Troubetzkoy era un grande fautore del «ritratto dal vero» che cogliesse i sentimenti e i tratti caratterizzanti dei suoi modelli, le sue opere comunicano «emozioni», non sono mai semplici ritratti. In che modo si coglie nella sua scultura la formazione influenzata dai pittori della scapigliatura lombarda?
Come si potrebbe definire il «ritrattista» Troubetzkoy?
Nuovi sono anche i materiali e le tecniche utilizzati dallo scultore…
Argilla, cera, marmo e gesso sono tutti materiali che portano alla fusione in bronzo, vera e propria opera d’arte. La preziosità della nostra collezione sta proprio nell’avere così tanti bozzetti di materiale diverso, bozzetti che non erano considerati come pezzi d’arte ma solo semplici «tramiti» per raggiungere un altro scopo. Troubetzkoy amava molto patinare le sue opere, specialmente color bronzo, per dare l’idea ai propri committenti di come sarebbe risultata l’opera finita in bron-
zo; ma anche color ocra o verde oliva forse per «trasformare» l’esercizio/ bozzetto in opera d’arte? La fusione a cera persa era la sua preferita in quanto ritenuta l’unica in grado di mantenere l’effetto dei chiaro-scuri, delle pieghe e delle «sfumature» del bozzetto originale. Era davvero troppo innovativo, tanto da non veder realizzato il suo monumento a Garibaldi per esempio?
Non solo il Garibaldi, ritenuto troppo poco «celebrativo» e degno della grandezza del condottiero ma piuttosto dimesso e «troppo umano», ma è di particolare significato il meraviglioso monumento ai caduti di Pallanza. Il monumento ai caduti più dolce e anti convenzionale mai realizzato prima. Al posto del soldato caduto sono i sentimenti e il dolore di una giovane vedova che si reca sulla tomba del marito caduto in guerra a posare un fiore tenendo in braccio il figlioletto ad emergere e a colpire il pubblico. Dove e quando
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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Cultura e Spettacoli
L’arte difficile di far sognare Filmselezione Dall’India alla Francia,
commedie romantiche per iniziare la stagione Fabio Fumagalli ** Mohenjo Daro, di Ashutosh Gowariker, con Hrithik Roshan, Pooja Hegde, Kabir Bedi (India 2016)
Lo storico cinema Lux di Massagno.
Una nuova vita per il Lux Cinema Dallo scorso maggio, con il pensionamento di Maurice
Nguyen, il Lux di Massagno è gestito dal CISA e da Domenico Lucchini: è l’occasione per ripercorrerne la storia Giovanni Medolago Sono nato e cresciuto in una casa distante cento metri dal Lux, cinque anni prima di quella che sarebbe diventata la mia sala cinematografica preferita. Era allora una Massagno in cui tutti o quasi parlavano dialetto e dove – sulla curva detta «del Sole» – stavano fianco a fianco una farmacia, una filiale Migros, una macelleria, una panetteria, una bottega di barbiere, un bar, una calzoleria, un vinaio e una latteria. Cinematograficamente parlando, sono stato svezzato «sotto» il Cinema Lux, in quel Salone Cosmo dove la domenica mattina (prima e dopo la messa) si giocava a ping pong, a biliardo e al trottolino. Nel pomeriggio, invece, proiezione di filmine sugli episodi del Vangelo: era una lotta per farsi scegliere dal compianto don Emilio, che impartiva gli ordini dando una bacchettata sul biliardo, quale incaricato di passare da una filmina all’altra! Poi il catechismo lasciava spazio all’agognato film: ci si appassionava con le avventure dei cowboys e si rideva con Stanlio&Ollio, che gli adulti chiamavano familiarmente «chel grass e chel magru». Compiuti finalmente i dodici anni, si poteva entrare al Lux, passare cioè dall’oratorio a una sala cinematografica vera e propria: era un’altra avventura, un autentico rito di iniziazione. Prima bisognava accontentarsi di respirare quell’aria che profumava di mistero e che usciva dal cinema da una grata d’aerazione (tipo quella che alza la gonna di Marilyn in Quando la moglie è in vacanza), sistemata vicino alla vetrinetta che ancora oggi annuncia il cartellone della sala. Si vedeva di tutto, poco importa se fossero terze o quarte visioni: la TV era appena entrata nelle case dei più abbienti, i telefilm erano diffusi a scaden-
za settimanale e noi si era avidi di immagini, di storie su cui poi fantasticare. Il cinema era un’emozione! Tutta questa manna dal cielo era dovuta alla lungimiranza della Parrocchia di Massagno, che aveva pensato di offrire oratorio e cinema non solo a noi ragazzi ma a tutta la popolazione, e finalmente, il 20 dicembre del 1958 il Lux apriva i battenti. Prima pellicola proiettata: un film di guerra made in Hollywood: Mare caldo, interpretato da Clark Gable e Burt Lancaster. In diretto proseguimento dalle passerelle dei concorsi di bellezza, nel cast finiva anche Nina Bruce, che non fece poi una gran carriera, ma ha il merito d’aver messo al mondo George Clooney! La regia era invece affidata a Robert Wise, il quale girò il film obtorto collo: dopo i successi dei suoi film sul pugilato (Stasera ho vinto anch’io e Lassù qualcuno mi ama) già pensava, da cineasta curioso di cimentarsi in generi diversi, di passare al musical. L’avrebbe fatto pochi anni dopo, cogliendo due clamorosi successi con West Side Story e Tutti insieme appassionatamente, film che dopo una rincorsa durata decenni ha superato gli incassi del mitico Via col vento. Attento alle psicologie dei due protagonisti più che alla spettacolarità, Mare calmo è quasi un huis clos ambientato in un sottomarino e non il solito film bellico costruito sull’azione: sin dalla sua prima proiezione, dunque, il Lux proponeva un particolare tipo di pellicole, più vicine al cinema d’essai che non a quello di cassetta. La prima grana, per la sala, venne dall’Ufficio cantonale delle insegne: quella scritta «cine» sull’entrata faceva storcere il naso (allora si era più attenti alla difesa dell’italiano). Ma a Bellinzona si rispose con un semplice quanto perentorio «tüta la parola cinema la ga sctava mia»! È uno dei tanti ricordi di
Filippo «Pippo» Chiarini, protagonista del documentario 50 anni di Lux, realizzato nel 2008 da Mino Müller e Loris Fedele. Nel 1967, la «Cinema Lux S.A.» (azionista unico la Parrocchia di Massagno) lascia la sala nelle mani della «Supercinema SA» della famiglia Tami, che a Lugano già gestiva il Corso, il Super e il Paradiso. Abituati alle pellicole scelte per il loro rigore etico e morale, gli spettatori del Lux scoprirono così un altro tipo di cinema: Blow up e le forme di Jane Birkin e Vanessa Redgrave restarono a lungo impresse nella mente dei ragazzi di allora! Passa qualche anno ancora: la Parrocchia vende tutto il comparto (compreso il Grotto Valletta) al Comune di Massagno, ma nel frattempo comincia a serpeggiare aria di crisi: Giancarlo Tami abbandona e il Lux chiude i battenti. Risorgerà grazie a Castellinaria: Fabrizio Quadranti, direttore delle scuole di Massagno nonché cinefilo appassionato, dapprima accoglie qualche film della rassegna bellinzonese; poi con l’aiuto dell’imprenditore Lorenzo Spinelli, dei fratelli Ellestern (futuri responsabili del Cinestar) e soprattutto di Maurice Nguyen, nel dicembre 1993 porterà alla rinascita vera della sala, con la proiezione di due film da Lux: The Snapper di Stephen Frears e Film blu di Krzysztof Kieślowski. Nguyen e la sua «Helvietcinema» diventano gli unici gestori responsabili alla partenza degli Ellestern e grazie a Maurice (programmatore, proiezionista, cassiere, maschera, barista e uomo delle pulizie!) il cinema massagnese è rimasto ben vivo, divenendo un luogo d’incontro per tutti i veri appassionati di cinema d’autore. L’arrivo del CISA di Domenico Lucchini garantisce adesso la sopravvivenza del glorioso cinema Lux.
Da quel 2001, le tradizionali migliaia di spettatori che gremiscono la piazza del Festival di Locarno raccontano del fascino indimenticabile di aver scoperto sotto le stelle l’universo delle produzioni bollywoodiane. A Lagaan – Once Upon a Time in India era infatti riuscita l’impresa di rivelare a un vasto pubblico un panorama cinematografico immenso (800 film prodotti all’anno, milioni di spettatori) ancora sconosciuto ai più. Oltre a un modo di proporre lo spettacolo ritenuto perso da sempre: una storia condivisibile, una interminabile partita di cricket fra i colonizzatori inglesi e i poveri contadini locali, in palio l’annullamento di una tassa ingiusta. E poi l’amore contrastato, le musiche, le danze, gli sfondi sontuosi; e colori, costumi, coreografie a disposizione di attori generosi, dalle mimiche ormai ritenute eccessive dalle nostre parti. Che ci riconducevano, però, a codici obsoleti ma per nulla sgradevoli. Con questo Monhenjo Daro, Ashutosh Gowariker ritenta, 15 anni dopo, un’operazione che allora lo aveva condotto fino agli Oscar. Certo, senza l’effetto sorpresa. La vicenda è pure intrigante: nella valle dell’Indo, addirittura all’epoca preistorica del rame, gli autori riesumano civiltà che hanno preceduto Atene e Roma, sulle quali esistono pochissimi riferimenti iconografici. Ne nasce un film fantasioso, un paradossale peplum; ma su un sito storico, Monhenjo Daro, effettivamente esistito. Che, a causa dell’avidità imperante (ecco un aspetto che potrebbe anche essere d’attualità) sta per essere distrutto. Se non fosse per l’arrivo dalla campagna di un impavido coltivatore di indaco, che finirà per innamorarsi della figlia già promessa sposa del Sacerdote. Gli ingredienti dell’epopea romanzata ci sono tutti. Così come quelli dello spettacolo; a cominciare, ahimè, da un uso degli effetti digitali assai approssimativo. Un’immagine resa così liscia dal computer da annullare l’effetto prezioso dei chiaroscuri: di quelle ombre
benefiche che aggiungevano mistero. E, soprattutto, celavano il trucco. Così si marcia entusiasti all’inizio quando il fascinoso eroe Hrithik Roshan (16.375.529 like su Facebook) si sbarazza con una misera fiocina del coccodrillo fuori misura. Dopo, bisogna stare al gioco; il che non è sempre evidente. *(*) Un homme à la hauteur, di Laurent Tirard, con Jean Dujardin, Virginie Efira, Cédric Kahn (Francia 2016)
Autore della serie divenuta cult in Francia, Le petit Nicolas, Laurent Tirard non è considerato per questo un grande di quel cinema. Più indicativo per lui, è forse accennare ai primi passi della sua carriera: compiuti a Los Angeles, come lettore di sceneggiature per la Warner Bros. Una vocazione cinematografica apparentemente più vicina ai contenuti che all’estetica di un film. Qualcosa, di quegli esordi, gli dev’essere rimasto impresso. Lo si nota nella parte iniziale di questa sua ultima, simpatica commedia romantica. Dai dialoghi freschi e naturali, di quelli che dettano il ritmo. Con un tono e l’accenno a una progressione drammatica (che nella sua prevedibilità finirà in seguito per costituire uno dei limiti della pellicola) ad evidenziare un’impronta dichiarata sugli schemi della gloriosa commedia all’americana. Gli attori sono ben diretti, Jean Dujardin riesce a dimenticare la sua fortunata quanto affettata prestazione nell’oscarizzato The Artist; la biondina Virginie Efira, reduce dal formidabile Elle di Paul Verhoeven, è deliziosa. S’inizia con un telefonino dimenticato e ritrovato, seguito da una telefonata dalle apparenze accattivanti. Finisce tutto anche un po’ lì; dopo un sussulto, invero sorprendente e da non rivelare, piuttosto occhieggiante dalle parti di un altro successo francese da venti milioni di spettatori, Quasi amici (Intouchables). Tirard preferisce le prospettive amabili a quelle inquietanti; il suo film non si avvia quindi per le vie del thriller. Perché no: se non fosse che sono proprio le scene più romantiche ad essere le meno riuscite. In un quadro convenzionale di personaggi secondari scarsamente profilati. Sempre più all’acqua di rose.
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Cultura e Spettacoli
Alla moglie, al sosia e a lassù
Cartoline musicali Il compositore Carlo Ciceri approfitta dell’invio della sua cartolina per salutare chi gli è caro,
ma anche per raccontare quello che allieta e riempie le sue giornate Zeno Gabaglio Carlo Ciceri
Nato nel 1980 a La Spezia, vive da dieci anni in Ticino. Attivo principalmente come compositore, i suoi lavori spaziano da brani per strumento solo a opere orchestrali e sono regolarmente suonati nei maggiori festival europei. Come musicologo ha collaborato con diverse istituzioni fra cui la Fondazione Paul Sacher di Basilea e la Fondazione Cini di Venezia. È membro del consiglio di RepertorioZero (associazione che produce eventi di musica contemporanea) e co-fondatore di Crile, associazione nata a Lugano nel 2012 che produce spettacoli di danza e musica. www.carlociceri.com Cartoline
A mia moglie Antonella Mi sono giunte le tue foto del portale del Duomo di Perugia. Sì, direi che malgrado la pietra sia molto corrosa si possono scorgere una zampogna, un portativo, un flauto, oltre a un cane che – benché non sia propriamente uno strumento – può essere considerato musicista. Un po’ come il cane Seamus che compare nel disco Meddle dei Pink Floyd. No, non mi risultano viole da gamba con nove corde: chi le ha dipinte ha senz’altro lavorato di fantasia… e sì, ho comprato i biglietti per il concerto dei Sunn O))) il 9 settembre a Parma (non credo ci sarà molta ressa perché il genere drone doom non attira grandi folle, ma sarà bene andare per tempo).
der per canto e pianoforte e mi sei venuto in mente. Il pomeriggio è immobile e la Kettenbrückengasse è deserta come sempre. Poco fa, tornando dal centro, ho sentito una voce di donna che cantava, un flautino lontano, forse un pianoforte suonato da un bimbo. Sono entrato in casa, ho aperto le finestre e per un istante un leggerissimo vento da est ha animato le tende. Poi, come sempre, ho guardato fugacemente in basso, verso questa stessa strada da cui, come sai, arrivai anni fa. Spero tu stia bene. Tuo, Franz Schubert.
Al Maestro (Giorgio Bernasconi) Caro Maestro, qui sul retro le ho trascritto un passaggio per il quale avrei bisogno di un suo consiglio. Non sono infatti sicuro che il passo sia eseguibile anche da chi non è addentro alle più maliziose tecniche contemporanee: forse il moto dei pistoni del corno «su e giù» è macchinoso? Non vorrei rovinare il fraseggio, che, come sappiamo, è tutto. Grazie come sempre! P.S.: ho seguito il suo invito e ho trascritto alcuni Lieder di Schubert che sono stati presentati ieri nell’ambito dei «Concerti di San Biagio» a Bellinzona. Durante l’esecuzione m’è sembrato di avvertire una sua – provvidenziale – «zampata» da lassù. Al direttore Francesco Bossaglia Ciao Fra, questa che ti mando è la prima pagina del piccolo ciclo di trascrizioni schubertiane, in ricordo del concerto di Bellinzona. L’organico alla fine era quello che si concordato; ho solo aggiunto alcuni piccoli strumenti (un piano-giocattolo, un flauto dolce, una melodica soprano) per avere dei timbri che potessero rimandare a quel mondo dell’infanzia così pertinente al progetto. Abbiamo inoltre usato un megafono, un altoparlante, dei bicchieri da suonare con le dita e alcuni musicisti hanno anche dovuto fischiare: gli elementi giusti per un lavoro direttoriale senz’altro creativo! Il primo Lied trascritto è stato Nacht und Träume (D. 827), di cui ti riporto sotto i bellissimi versi di Matthäus von Collin. A presto!
A Michele Baraldi Caro Michele, ho letto la tua recente raccolta L’enigma della sorgente e sono rimasto molto toccato dal tuo breve racconto La cima. Dovrei veramente seguire l’esortazione a scrivere un brano dedicato a questa vetta bianca; la stessa che evochi tu e che mi fai immaginare quasi metallica, quando la accosti a una lama affilata. Affilata è ogni opera d’arte e, forse ancora di più, lo stesso mestiere di creare. Spero che la tua estate proceda bene al tuo/nostro Golfo dei Poeti. Immagino Tellaro piena di luce e dell’odore dei limoni, come canta Montale. Spero di vederti presto!
Il compositore Carlo Ciceri. (Roberto Mucchiut)
«O santa notte, tu stai per finire; così svaniscono anche i sogni, come il raggio di luna nelle stanze, nel silenzioso cuore dell’uomo. Egli con piacere li spia; li richiama, sul far del giorno: torna indietro, o santa notte o sogni d’incanto, tornate indietro!»
Al Sosia (immaginando che sia Franz Schubert a scrivere al Sosia, il Doppelgänger alla cui figura è indirizzato l’ultimo brano del ciclo di Lieder Schwanengesang) Caro, sono ormai rientrato a Vienna per terminare questo ciclo di 13 Lie-
Cartoline musicali – elenco
1. A mia moglie Antonella 2. Al Maestro (Giorgio Bernasconi) 3. Al direttore Francesco Bossaglia 4. Al Sosia 5. A Michele Baraldi Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
L’artigianato dei Gov’t Mule Musica «Chi ben comincia…»: il nuovo album retrospettivo della formazione americana dei Gov’t Mule
rivela la maestria di una band matura fin dagli esordi
Benedicta Froelich In un’epoca come la nostra, in cui ogni singolo cantante della scena internazionale si avvale di onnipresenti quanto superflui ausili tecnologici del genere di filtri vocali, Auto-Tune e varie manipolazioni digitali, è facile convincersi del fatto che la componente più spontanea e visceralmente «artigianale» della musica pop-rock mondiale si sia definitivamente persa. Per fortuna, a smentire simili pessimismi ci sono gruppi come la formazione statunitense nota con l’intrigante nome di Gov’t Mule (contrazione di «the government mule», ovvero «il mulo del governo»), poliedrica e raffinata band specializzata nella difficile (e oggi perlopiù negletta) arte della jam session – al punto che, grazie alla guida dell’iperattivo frontman Warren Haynes e del compianto bassista Allen Woody, i Gov’t Mule sono divenuti i rappresentanti di spicco di quella categoria di gruppi tipicamente made in USA oggi definiti dai critici musicali con il termine di «jam bands». Del resto, il quartetto ha un pedigree di tutto rispetto, essendo stato concepito nel 1994 come costola della celeberrima The Allman Brothers Band (formazione che, insieme ai gloriosi Grateful Dead, ha a tutti gli effetti inventato il genere). E il complesso guidato da Haynes non delude neanche questa volta, giacché questa nuova raccolta, dal titolo di The Tel-Star Sessions (dal nome dello
studio di registrazione impiegato dal gruppo), si può definire un vero e proprio «scrigno del tesoro» per ogni fan che si rispetti: i brani contenuti nel CD provengono infatti da registrazioni inedite effettuate proprio nel lontano 1994, ovvero agli albori della fortunata carriera della formazione, e dimostrano come il gruppo (all’epoca un trio formato da Haynes, Woody e dal batterista Matt Abts) potesse già definirsi rodato e maturo perfino ai suoi esordi. Ma la natura retrospettiva di questo CD non deve trarre in inganno: infatti, benché ognuna delle tracce di The Tel-Star Sessions si presenti sotto forma di demo, ovvero di prima prova di incisione in studio, per una volta tanto non si assiste all’ennesima operazione commerciale improntata al recupero obbligato di tutto quanto sia anche solo lontanamente degno di essere pubblicato. Ciò si deve principalmente all’altissima qualità delle incisioni, che in effetti appaiono più simili a registrazioni definitive fatte e finite che non a semplici demo di prova: ne sono un esempio brani fortemente efficaci e taglienti come la già nota Blind Man In the Dark (poi pubblicata nel secondo album dei Gov’t Mule, Dose, del 1998), qui presentata come una travolgente cavalcata blues, combinata con l’esuberanza e il virtuosismo tecnico del miglior rock anni 70, nella quintessenza dello stile a cui la band ci ha da tempo abituati; e Just Got Paid (cover della versione dei ZZ Top), altrettanto epica
The Tel-Star Sessions dei Gov’t Mule.
epopea in cui a farla da padrone è una potentissima e suggestiva slide guitar, che accompagna alla perfezione i vocals roboanti e rabbiosi di Warren. Certo, data la natura dell’album, è inevitabile che la maggior parte dei brani qui presenti sia già nota ai fan: come Rockin’ Horse, altro brano proveniente dall’album d’esordio della band, pubblicato nel 1995 e intitolato sem-
plicemente Gov’t Mule; oppure il malinconico World of Difference (qui presente anche in una «alternate version» alquanto intrigante), il quale, da parte sua, è una piccola gemma – un perfetto blues ruvido e strascicato, ma allo stesso tempo delicato e soffuso, che, impreziosito da rigorosi quanto imponenti riff di chitarra, si dilunga per oltre sette minuti con andamento ellit-
tico e decisamente ipnotico. La stessa sensazione travolgente la si prova con la potente versione di Left Coast Groovies offerta dal CD, che, se possibile, porta il brano a un livello di espressività ancora maggiore del solito. Si nota così come, in queste prime incisioni, la bilancia della volontà stilistica dei Gov’t Mule pendesse decisamente a favore delle jam sessions di genere puramente blues, più ancora che di quel southern rock per il quale la band è forse più celebre; e in questo senso, è interessante notare come Haynes non avesse mai considerato la possibilità che queste «early recordings» uscissero dagli archivi. Invece, a distanza di anni, la decisione di missare queste tracce per farne un album a tutti gli effetti si è rivelata vincente, come dimostrato dal fatto che l’intera tracklist di The Tel-Star Sessions è pervasa da una contagiosa, esuberante energia creativa, oltreché da una sicurezza e disinvoltura magistrali da parte di una formazione che aveva, già allora, assorbito a fondo la lezione anni ’60 dei «maestri» Grateful Dead, al punto da divenire presto la loro più importante erede all’interno dell’universo delle jam bands. In questo senso, The Tel-Star Sessions si può definire come un album che molti giovani performer della scena blues-rock statunitense dovrebbero prendere a esempio quale vero e proprio manuale d’istruzioni – e non solo per quel che riguarda la tecnica della jam session. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
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È ancora tempo di zucchine della nostra regione Attualità Uno degli ortaggi più popolari della cucina mediterranea lo trovate di produzione
locale a poche ore dalla raccolta sugli scaffali Migros La coltura delle zucchine in Ticino per importanza è seconda solo ai pomodori. Sono oltre una trentina gli orticoltori che producono questo apprezzato ortaggio. La stagione delle zucchine inizia a maggio e si protrae fino al mese di ottobre. La coltivazione avviene in pieno campo e necessita relativamente di poche cure. La pianta di zucchina è particolarmente fruttifera: raccolte frequenti favoriscono la crescita di nuovi frutti. Ritenuto una vera delicatezza culinaria, è anche il fiore di zucchina, che spicca per il suo intenso colore giallo. Le zucchine sviluppano il loro miglior aroma a metà maturazione – al raggiungimento di una lunghezza di 20 cm – quando la polpa è tenera ma ancora soda e la buccia rimane ben tesa.
Oltre alla tipologia da noi più diffusa a forma allungata con buccia di colore verde scuro, esistono anche delle varietà gialle, verde chiaro, bianche e tonde. Una volta acquistate, le zucchine si mantengono bene per diversi giorni nel cassetto delle verdure del frigorifero, ma vanno tenute lontane dalla frutta per evitare l’accelerazione della maturazione. Tagliate, possono essere anche congelate. Sono apprezzate non solo per la loro valenza gastronomica – grigliate, ripiene al forno, fritte, arrostite, crude in insalata – ma pure per ragioni dietetiche e salutari: povere di calorie e facilmente digeribili, sono ideali per coloro che tengono alla linea e al benessere; inoltre sono ricche di sali minerali, diverse vitamine e fibre alimentari.
Risotto alle zucchine Per 4 porzioni 1 cipolla 1 spicchio d’aglio 350 g di zucchine 3 cucchiai d’olio d’oliva 300 g di riso per risotto 1 dl di vino bianco 8 dl di brodo di verdura 3 cucchiai di pinoli 50 g di parmigiano in un pezzo 2 cucchiai di burro sale, pepe Preparazione 1. Tritate la cipolla finemente. Schiacciate l’aglio. Tagliate la metà delle zucchine con un pelapatate in lingue sottili, le restanti zucchine dividetele per il lungo in sei pezzi e poi tagliatele a fettine sottili. Scaldate un po’ d’olio in padella. Fate appassire brevemente la cipolla
e l’aglio. Aggiungete il riso e tostatelo brevemente. Sfumate con il vino, poi aggiungete poco a poco il brodo. Fate cuocere il riso per ca. 20 minuti, finché risulta bello cremoso ma ancora al dente. A metà cottura aggiungete le zucchine tagliate a fettine. 2. Tostate i pinoli in una padella senza grassi finché si dorano. Con il pelapatate riducete il parmigiano in scaglie. Incorporate al risotto la metà del parmigiano e il burro. Regolate di sale e pepe. Scaldate l’olio rimasto e fate rosolare le lingue di zucchina. Conditele con sale e pepe. Servite il risotto e guarnitelo con le lingue di zucchina e i pinoli. Cospargete con il resto del parmigiano. Preparazione: ca. 30 minuti.
Ricette di
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Una bibita tradizionale Non c’è niente di meglio di una gazosa ghiacciata per rinfrescarsi dopo una bella escursione di fine estate. Per farlo con gusto e a «km zero» la gazosa dei Nostrani del Ticino Migros è proprio quel che ci vuole. La tradizionale bevanda da tavola, fatta con ingredienti naturali e accuratamente selezionati, è disponibile tutto l’anno alla Migros nei cinque aromi classici – limone, mirtillo, lampone, sambuco e mandarino – a cui si aggiungono, durante il periodo invernale, anche le varianti all’uva americana e alle castagne. La produzione è affidata alla Sicas SA di Chiasso, azienda famigliare attiva da oltre 50 anni sul mercato delle bevande.
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Idee e acquisti per la settimana
Formaggio d’alpe ticinese DOP Illustrazioni di Sergio Simona
Attualità Numerosi formaggi prodotti questa estate sui nostri
alpeggi sono ora disponibili a Migros Ticino. Lasciatevi sedurre dagli aromi alpestri di queste vere e proprie chicche gastronomiche. In queste pagine vi proponiamo un viaggio «virtuale» su alcuni alpi del nostro territorio
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino ¶ 12 settembre 2016 ¶ N. 37
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2003 metri/ Bedretto.
1600 metri/ Bedretto.
1760 metri/ Leventina. 1743 metri/ Bedretto.
2305 metri/ Leventina. 1814 metri/ Leventina.
1659 metri/ Blenio.
1746 metri/ Blenio.
1912 metri/ Blenio. 2000 metri/ Vallemaggia.
«La stagione è stata ottima»
Valerio Faretti, presidente della Società ticinese di economia alpestre (STEA).
Una stagione ottima, un po’ corta ma di eccelsa qualità. Così si può riassumere, in generale, l’annata alpestre 2016, come racconta Valerio Faretti, presidente della Società ticinese di economia alpestre (STEA): «Sì, la stagione è partita con un po’ di ritardo ma poi si è stabilizzata bene. A inizio agosto è subentrato un freddo insolito che in alta quota ha portato pure della neve e bloccato la crescita dell’erba già pascolata. Queste condizioni hanno obbligato alcuni alpigiani a scendere un po’ prima del solito, ma globalmente l’annata si può ritenere ottima». E non solo a livello gestionale. Anche se i giorni di freddo hanno causato un leggero calo nella produzione di latte, la qualità dei formaggi prodotti sui circa 120 alpeggi ticinesi è rimasta su livelli notevoli, come conferma Faretti: «Con piacere riscontriamo un alto livello qualitativo
dei formaggi, in molti casi addirittura migliore degli ultimi anni». Se per il formaggio è giunto il tempo di arrivare sulle tavole, agli inizi di settembre per gli alpigiani è il momento di prepararsi a scaricare l’alpe e scendere al piano. Circa 5mila capre e 4mila mucche da latte hanno garantito la produzione del prezioso formaggio. Una parte di questo bestiame, soprattutto bovini, proviene d’Oltralpe, dato che in Ticino il numero di bovine da latte non soddisfa la richiesta degli alpeggi. Una tendenza che si riscontra ormai da diverse stagioni, ma che non pregiudica affatto la produzione di un formaggio d’alpe di qualità. Le circa 370 tonnellate di formaggio d’alpe (di capra, di mucca o misto) sono quindi pronte per essere degustate dopo essere maturate per almeno 60 giorni, come richiesto pure dalle direttive della
DOP, la denominazione di origine protetta che la STEA ha fortemente voluto. Il riconoscimento DOP, che interessa il 75% della produzione d’alpe ticinese, garantisce un formaggio prodotto sull’alpe con latte crudo munto in loco. Per ottenere la certificazione, ogni anno gli alpeggi sono pure sottoposti all’attribuzione di punti al proprio prodotto: «Da quest’anno abbiamo adeguato il metodo di valutazione al resto della Svizzera e, per ottenere la DOP, bisognerà raggiungere i 18 punti su un massimo di 20» (finora erano 16,5 i punti minimi richiesti, ndA). Anche con il nuovo sistema i formaggi d’alpe non dovrebbero avere particolari problemi a soddisfare i criteri di valutazione che riguardano la forma e la crosta, la pasta (valutando occhiatura, consistenza e colore), oltre chiaramente a gusto e aroma. / Elia Stampanoni, ingegnere agronomo ETH
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Idee e acquisti per la settimana
L’alta qualità del latte fresco ticinese
Attualità Un prodotto genuino controllato secondo i più rigidi standard
di qualità in ogni fase della lavorazione
Quest’anno ricorre il centesimo anniversario della fondazione della Federazione Ticinese Produttori di Latte (FTPL). Un traguardo storico che ci offre l’occasione di parlare del buon latte ticinese, preziosa materia prima prodotta oggi da un centinaio di allevatori della nostra regione e lavorato con tutte le cure e le attenzioni del caso dalla Latteria del Ticino (LATI) di S. Antonino. Tutte le fasi della filiera del latte ticinese sono rigorosamente monitorate affinché il consumatore possa esser certo di acquistare un prodotto nutriente, di elevata qualità, ricco dal profilo organolettico e igienicamente sicuro. Il processo produttivo inizia con la raccolta del latte nelle aziende agricole dove i contadini allevano le proprie mucche nel rispetto delle loro esigenze naturali. Una volta giunta alla LATI la materia prima è controllata da un team di specialisti che ne verifica la qualità e salubrità. Dopo i severi controlli si procede quindi con il delicato processo di pastorizzazione che permette una conservazione prolungata del prodotto eliminando i batteri. Questo processo mantiene praticamente inalterate le proprietà organolettiche del latte e le sue importanti caratteristiche nutritive. A questo punto il latte viene immediatamente raffreddato, a una temperatura inferiore ai 5°C, e subito confezionato nel pratico cartone con
tappo a vite recante l’inconfondibile coccarda dei Nostrani di Migros Ticino. Prima di prendere la via dei supermercati Migros, nel laboratorio microbiologico di LATI alcuni campioni di latte vengono ancora esaminati per garantire la massima sicurezza al consumatore. È bene ricordare che il latte fresco ticinese deve essere conservato in frigorifero ad una temperatura inferiore ai 5°C e consumato rapidamente una volta aperto. Essendo particolarmente sensibile agli sbalzi di temperatura, si consiglia di riporlo in una borsa termica nel tragitto negozio-casa. Infine, ricordiamo che l’assortimento Migros annovera pure il latte ticinese senza lattosio, disponibile fuori frigo nelle varianti intero e drink.
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Giuseppina Cocciolo, responsabile Reparto Laboratorio, verifica la qualità del latte fresco nostrano. (Flavia Leuenberger)
Le mucche da latte della razza «Red Holstein» dell’azienda «Agri BI & BE» di Andrea Bizzozero e Alessio Benzoni situata a S. Antonino.
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Idee e acquisti per la settimana
Giornate di sensibilizzazione per la prevenzione degli infortuni da caduta in piano La SUVA ospite del Centro S. Antonino da mercoledì 14 a sabato 17 settembre La sicurezza in montagna
Il rischio di subire un infortunio da caduta è generalmente sottostimato e banalizzato dalla maggior parte di noi. La nostra percezione dei rischi è influenzata da numerosi fattori soggettivi. Quindi non sorprende affatto che si ritenga molto più probabile avere un incidente stradale con gravi conseguenze per la nostra salute rispetto al rischio di subire un infortunio da caduta e perlopiù grave. Tuttavia, i dati statistici non lasciano adito a dubbi. Le cadute in piano sono la causa d’infortunio più frequente in Svizzera. Ogni anno in Svizzera cadono infortunandosi ben 280’000 persone; oltre 175’000 lavoratori in Svizzera assicurati LAINF inciampano o scivolano: circa 62’000 sul lavoro e 113’000 durante il tempo libero. (Contro 100’000 infortuni dovuti a incidenti stradali). Dalla statistica delle dinamiche delle cadute si evidenzia inoltre che la maggior parte degli infortuni si verifica durante le banali
La Colonna di Soccorso del Club Alpino Svizzero (Sezione Bellinzona e Valli) si presenta sabato 17 settembre
attività quotidiane in particolare nello svolgimento di lavori casalinghi oppure durante semplici spostamenti a piedi. Conseguenze della perdita di equilibrio o dell’inciampare sono sofferenze personali e costi elevati (circa 1 miliardo di CHF all’anno). Tutti gli ospiti interessati, avranno la possibilità di effettuare gratuitamente un test che misura la capacità di equilibrio,
di verificare le proprie conoscenze in merito alle situazioni potenzialmente pericolose e di provare alcune postazioni dello speciale percorso ad ostacoli ideato dagli specialisti dalla SUVA. Invitiamo quindi tutti a mettersi alla prova per meglio conoscere le proprie caratteristiche riguardo la coordinazione motoria e in particolare l’equilibrio, l’orientamento, le capa-
Abbinata alla campagna di SUVA descritta accanto, nel parco verde del Centro S. Antonino si presenterà questa importante realtà che interviene anche proprio per soccorrere persone vittime di cadute non in piano ma bensì in montagna. Questa Sezione che è competente proprio della regione collinare e montagnosa del bellinzonese, fa parte dell’associazione regionale Soccorso Alpino Ticino (SATi) che si rapporta al Soccorso Alpino Svizzero (SAS) e che copre tutto il territorio cantonale. Sono membri di questa associazione le sezioni CAS: Bellinzona e Valli, Locarno e Ticino nonché le due associazioni FAT: SAT Lucomagno e UTOE Biasca. I re-
sponsabili e i membri della Colonna di Soccorso della Sezione CAS Bellinzona e Valli, presenteranno la propria organizzazione, il modo di operare, le varie tecniche d’intervento. Momenti informativi sono previsti alle ore 10.00-11.30-14.00 e 16.00. L’operato dei soccorritori e soccorritrici del Soccorso Alpino Svizzero, ca. 2800 a livello nazionale, è basato sul volontariato e sul serio e costante impegno per farsi trovare sempre preparati in caso di necessità. Non mancheranno momenti ludici soprattutto pensati per i più piccoli che a pochi metri dalle animazioni del Soccorso Alpino potranno dalle 10 alle 17 divertirsi gratuitamente sui mitici trampolini elastici. Queste due animazioni previste all’esterno, potranno svolgersi solo con tempo asciutto, eventuale rinvio sabato 24 settembre.
cità di reazione e di differenziazione. Chi non potesse approfittare di questa occasione, si annoti l’appuntamento per la settimana successiva, da merco-
ledì 21 a sabato 24 presso il Centro Migros di Agno dove la SUVA sarà presente con questo roadshow ma in una forma un pochino più ridotta.
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino Âś 12 settembre 2016 Âś N. 37
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Foto Heiko Hoffmann
Idee e acquisti per la settimana
Farmmania
Buone foto e bei film I bambini collezionano con piacere gli elementi dell’azione Farmmania. L’avventura in fattoria prosegue ora col concorso Farmmania per foto e video. Seguendo un paio di consigli, sarà facile scattare buone foto, girare personalmente piccoli video e condividerli con altri
Collezionare, giocare e scambiare: l’azione Farmmania della Migros sta andando alla grande. La scoperta delle avventure che si possono vivere in fattoria è una cosa, ma ancora più bello è poter condividere queste avventure. Il concorso per foto e video diventerà qundi una variopinta collezione di immagini e film di scene personalissime ambientate in fattoria. Su www.farmmania.ch gli utenti registrati possono caricare le loro esperienze vissute in fattoria sottoforma di forografie e filmini. Tutti i contributi possono essere visti e valutati nella galleria. Effettuando un login Migros, tutti possono
attribuire un cuoricino al giorno. È possibile attribuire un ulteriore cuoricino al giorno inserendo il codice stampato sul retro degli autocollanti Farmmania. Un codice corrisponde a un cuore, però i cuoricini non possono essere attribuiti illimitatamente. Le foto e i film possono essere valutati per sette giorni dopo che sono stati caricati. Fra i cinquanta film e foto più apprezzati di quel periodo, una giuria sceglierà dieci vincitori. Si possono vincere buoni acquisto Migros per un valore di più di 40’000 franchi. Tutte le info e le condizioni di partecipazione su: www.farmmania.ch
Consigli per un video
Girare personalmente piccoli video Molti smartphone e macchine fotografiche compattte dispongono di una funzione video, ci sono app che permettono di tagliare i film. Ma la cosa importante è: che cosa filmo? Come filmo? Il concorso Farmmania è alla ricerca di filmini creativi e umoristici, ad esempio con gli elementi collezionati. In generale si può dire: corto è bello. Per salvaguardare la qualità sarebbe meglio filmare con la luce del giorno. Per evitare scene tremolanti, meglio appoggiarsi a qualcosa durante le riprese, oppure utilizzare un treppiedi. Il formato – orizzontale o verticale – è questione di gusti.
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Farmmania
Per ottenere profondità gli oggetti in primo piano – qui i cavalli – devono essere abbastanza lontani dallo sfondo, che risulta così un po’ sfocato.
Fotografare gli animali richiede una certa sensibilità. È importante non avvicinarsi eccessivamente all’animale, che potrebbe sentirsi minacciato.
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Ancora più soprese Anche nelle prossime settimane, sempre al mercoledì, seguiranno ulteriori azioni con sorprese sottoforma di jolly. In quei giorni ci sono i jolly settimanali. Quali sono, è un segreto ben custodito.
Farmmania online: www. farmmania.ch In internet c’è molta roba cui ispirarsi a proposito del mondo della fattoria e anche video che danno consigli su come crearsene uno proprio. Per i docenti, inoltre, c’è un settore con materiale didattico.
Il controluce crea difficoltà a una fotocamera. All’esterno è meglio non fotografare controsole.
I ritratti risultano spesso involontariamente buffi, se sullo sfondo si vede «crescere» una pianta dalla testa. Si dovrebbe cercare di evitare effetti del genere.
Mettere in scena le figure collezionate non è difficile se la fotocamera dispone di una macrofunzione e ci si può avvicinare molto alle figure, che in quel caso sembreranno molto più grandi.
Le figure collezionate situate nel loro ambiente naturale sembrano quasi animali veri. Qui i porcellini sono stati messi nel fango; è noto che i maiali vi si rotolano volentieri.
Bisognerebbe chiedere il permesso alle persone che si vorrebbero fotografare. Questa regola vale specialmente se si intende spedire la foto per il concorso.
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Pane Nostrano, 300 g, 1.85 invece di 2.20 15%
Altri alimenti
Olio vegetale universale M-Classic, 3 l, 11.– invece di 13.80 20% Tutto l’assortimento Alexis, per es. olio d’oliva greco, 75 cl, 7.60 invece di 9.50 20% Tutta la pasta Delverde, per es. fettuccine nido, 250 g, 1.20 invece di 1.50 20%
Baby Kisss al latte e fondente, in conf. da 2, UTZ, per es. cioccolato al latte, 2 x 120 g, 4.60 invece di 5.80 20%
Cremisso e Cerealino Tradition in conf. da 3, per es. Cremisso, 3 x 175 g, 8.40 invece di 10.50 20%
PUNTI
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Novità
Tutte le salse in busta Bon Chef in conf. da 3, per es. salsa al curry, 3 x 30 g, 2.80 invece di 4.20 33% Tutto l’assortimento di condimenti liquidi e in polvere Mirador, per es. condimento in polvere, 90 g, 1.35 invece di 1.95 30%
Tutti i prodotti per lo styling dei capelli Taft in conf. da 2, per es. lacca Ultra HG 4, 2 x 250 ml, 7.20 invece di 9.– 20% **
Pollo alla paprica in vaschetta per la cottura al forno, cosce inferiori di pollo e polpette di pollo Optigal, Svizzera, per es. pollo alla paprica in vaschetta per la cottura al forno Optigal, per 100 g, 1.40 Novità *,** Caramelle Rescue Plus ai fiori di Bach, 10 caramelle, 5.90 Novità ** Tutto l’assortimento di prodotti per la doccia Fanjo, per es. shower gel Coconut, 300 ml, 2.60 Novità ** Supercurler Mascara Intense Black Manhattan, 12 ml, 11.90 Novità **
Tutto l’assortimento da donna Sloggi, per es. slip Tai, bianchi, tg. 38, il pezzo, 10.70 invece di 17.90 40%
Burro con olio di colza Migros Bio, 200 g, 4.05 Novità **
Tutta la biancheria intima da uomo Sloggi, per es. slip a vita bassa Evernew in conf. da 2, neri, tg. M, 17.90 invece di 29.90 40%
Piatti pronti Subito, aha!, pasta alla carbonara e pasta ai funghi, per es. pasta alla carbonara, 100 g, 3.50 Novità **
Cartucce Cucina & Tavola, BWT e Brita in conf. da 3, per es. Duomax Cucina & Tavola, 3 x 3 pezzi, 29.60 invece di 44.40 3 per 2 **
Sgombri grigliati Rio Mare, 120 g, 3.50 Novità **
Tutta la biancheria intima da uomo DIM, per es. boxer Coton 3D Flex in conf. da 2, neri, tg. M, 19.50 invece di 27.90 30% **
Piselli svizzeri con carote Migros Bio, surgelati, 240 g, 2.10 Novità *,** Gallette di riso integrale con cioccolato Migros Bio, 3 x 45 g, 3.30 Novità **
Tutta la biancheria intima da donna DIM, per es. reggiseno con ferretto, nero, tg. 75B, il pezzo, 34.90 invece di 49.90 30% **
*In vendita nelle maggiori filiali Migros. **Offerta valida fino al 26.9 Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 13.9 AL 19.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK Sconto
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cm
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Galaxy A5 (2016) nero
Televisore LED 4K – UHD UE-43KU6640
Quadribanda, LTE (4G), Android 5.1.1 (Lollipop), schermo Super AMOLED da 5,2", fotocamera da 13 megapixel, memoria interna da 16 GB, ampliamento della memoria con scheda microSD fino a 128 GB – 7946.078
Sintonizzatore DVB-T2/C/S2 CI+, upscaling UHD, processore Quad Core, registrazione USB, Picture Quality Index (PQI) da 1600, 3 prese HDMI, 3 prese USB – 7703.287
Le offerte sono valide dal 12.9 al 19.9.2016 e fino a esaurimento dello stock. Trovi questi e molti altri prodotti nelle filiali melectronics e nelle maggiori filiali Migros. Con riserva di errori di stampa e di altro tipo.
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Ideale da rosolare e grigliare.
5.80 Bistecca di coscia Optigal* surgelata, 380 g
Fresco profumo che dura a lungo.
3.20 Detergente universale Potz Fresh Ocean* 1l
Schiuma trattante con aloe vera.
3.50 Schiuma detergente al pompelmo Manella* 250 ml
Fa risplendere il metallo opaco.
4.80 Potz Metal Clean* 150 ml
Salviette umide per stoviglie.
3.60 Salviette per stoviglie Handy* 30 pezzi
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4.20 Deodorante Supreme Ultra Handymatic* lemon e fruit cocktail, per es. lemon, il pezzo
Elimina gli odori dalla pattumiera.
48 ore di protezione contro il sudore. Deodorante Talc & Protection I am aerosol e roll-on, per es. aerosol, 150 ml, 2.45
Deodorante per ente ambienti e deterg per WC in uno.
3.80 Maximum Power Pearls Hygo WC* apple e lavender, per es. apple, 35 g
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2.80 Deodorante per pattumiera Migros Fresh* il pezzo
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Idee e acquisti per la settimana
Anna’s Best
Per quel languorino... Dal 1900 B hcer Müesli s ir ignifi ca. ..
Con tre nuovi müesli e un classico riso al latte, Anna’s Best va incontro per molti aspetti alle nuove tendenze alimentari. Con i Bircher Müesli alla fragola su base di soia e «Fruits ’n’ Oats» con lamponi, fiocchi d’avena e semi di chia, l’offerta si arricchisce di due varianti vegane. La gamma è completata da un müesli estivo senza lattosio con lamponi, pesche, mele, ribes e purea di banane. Anche la coppa da 180 grammi che contiene le quattro novità va incontro alla crescente richiesta di avere porzioni più piccole
... il pasto Il Bircher Müesli fu inventato dal medico svizzero, direttore di un sanatorio e dietologo, Maximilian Bircher-Benner (1867-1939). La sua dieta a base di mele, chiamata semplicemente «il pasto», era piuttosto spartana: fiocchi d’avena e zucchero erano di contorno, mentre il ruolo da protagonista era recitato dalle mele con buccia e torsolo. Il Dottor Bircher-Benner fu il pioniere dei cibi integrali e un critico della società industriale
Confezioni pratiche da portarsi dietro. Il cucchiaio è integrato nel coperchio. La coppa si può richiudere.
Anna’s Best Bircher Müesli Estate (stagionale)*, senza lattosio 180 g Fr. 2.90
Anna’s Best Latte di riso*, lattosio 180 g Fr. 3.20
Anna’s Best Vegi Fruits «n» Oats Lamponi con chia*, vegano 180 g Fr. 2.90
Anna’s Best Vegi Bircher Müesli Fragola*, vegano 180 g Fr. 3.40
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Idee e acquisti per la settimana
Cucina & Tavola Ciotola floreale Fr. 5.90
Cucina & Tavola
Una casa colorata d’autunno L’autunno è un’ottima stagione per invitare ogni tanto qualche ospite a casa. Con le decorazioni appropriate, si possono far entrare in salotto i bei colori autunnali della natura. Il vasto assortimento di Cucina & Tavola garantisce un’atmosfera calda ed accogliente, grazie a una tavola imbandita con i motivi questa stagione. Alla Migros sono disponibili tovaglie, centrotavola, tovaglioli, stoviglie e articoli decorativi d’ogni forma, grandezza e colore
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Cucina & Tavola Piatto da dessert floreale Fr. 5.90
Cucina & Tavola Composizione decorativa di rose Fr. 6.90
Cucina & Tavola Composizione decorativa di rose Fr. 5.90
Cucina & Tavola Composizione decorativa di rose Fr. 5.90
Cucina & Tavola Tazza, diversi motivi Fr. 5.90
Cucina & Tavola Bowl a forma di cuore «Made with Love» Fr. 7.90 Un mazzo di fiori di stagione fa risaltare la tavola decorata con i colori autunnali.
Cucina & Tavola Tovaglia Karo 140x260 cm Fr. 24.80
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3.50 Subito aha! Pasta Carbonara 100 g
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Idee e acquisti per la settimana
M-Classic
A ognuno il suo bastoncino
Azione 50% sulle patate fritte al forno e patate fritte di M-Classic nel sacchetto da 2 kg fino al 19.9
Ecco un’idea diversa dal solito per un party o un aperitivo: patatine in tutte le varianti.
Escono belle dorate e croccanti dal forno, ecco a voi le irresistibili patatine fritte. Che si tratti delle sottilissime Pommes Allumettes, delle più spesse Fun Frites a forma ondulata oppure delle classiche patate fritte da cuocere al forno – da M-Classic c’è qualcosa per ogni gusto. Le classiche patatine fritte sono disponibili anche nella variante da cuocere in friggitrice, mentre le Fun Frites sono indicate per entrambe le preparazioni. Le patate per tutte le patatine fritte M-Classic sono di provenienza svizzera.
M-Classic Pommes Allumettes surgelate 750 g Fr. 4.20
M-Classic Fun Frites surgelate 750 g Fr. 3.55 Nelle maggiori fialiali
M-Classic Patate Fritte al forno surgelate 500 g Fr. 2.60
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le patatine fritte M-Classic.
È tempo di selvaggina.
conf. da 3
30% Salmì di capriolo, cotto, 350 g e 600 g Austria, per es. 600 g, 15.– invece di 21.50
33% Tutte le salse in busta Bon Chef in conf. da 3 per es. salsa alla cacciatora, 3 x 46 g, 3.20 invece di 4.80
conf. da 2
20% Tutti i funghi secchi in bustina per es. funghi porcini secchi, 30 g, 2.85 invece di 3.60
35% 9.80 Menu e pasta con selvaggina per es. salmì di capriolo con knöpfli e cavolo rosso, 430 g
3.60 invece di 5.90 Champignons bianchi Svizzera, vaschetta da 500 g
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 13.9 AL 19.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
40% 2.85 invece di 4.80 Mezza panna UHT Valflora in conf. da 2 2 x 500 ml
2.40 Cavolo rosso cotto 500 g
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Idee e acquisti per la settimana
DIM
Barare si può! Chi non desidera un fisico perfetto? I nuovi collant della marca francese DIM non sono soltanto comodi da indossare, ma modellano il corpo femminile in alcuni punti precisi. E così, le gambe appaiono snelle, il ventre piatto e i glutei sodi. Infatti, alcune applicazioni posizionate al punto giusto modellano il profilo del corpo, fanno sparire l’adipe in eccesso e sollevano il fondo schiena. Con il nuovo modello Diam’s Silhouette Contour 360°, DIM combina ancora una volta una tecnologia sofisticata con l’eleganza francese. Oltre ai collant, la marca propone una vasta gamma di biancheria intima femminile e maschile
DIM Collant Diam’s Silhouette d’eté taglie 1-4* Fr. 14.90
DIM Collant Diam’s Jambes Fuselées taglie 1-4* Fr. 13.50
Sconto del 30% su tutto l’assortimento DIM dal 13 al 26 settembre DIM Collant Diam’s Contour 360° taglie 1-4* Fr. 19.90
Dalla sua fondazione, nel 1958, DIM sviluppa costantemente nuovi prodotti per soddisfare i desideri delle sue clienti.
DIM Reggiseno Beauty Lift, diverse taglie diverse taglie* Fr. 49.90 *nelle maggiori filiali
Novità
PUNTI
20x
L’originale miscela di Fiori di Bach RESCUE® con vitamine B5 e B12 per la prima volta in caramella.
Vitamina
B5
Vitamina
B12
Più forza mentale La vitamina B5 contribuisce alla normale prestazione mentale.
Più serenità
Novità
La vitamina B12 contribuisce alla normale funzione del sistema nervoso.
5.90 90
OFFERTA VALIDA SOLO DAL 13.9 AL 26.9.2016, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
RESCUE ® PLUS 10 caramelle, più con vitamine B5 & B12, 42 g
PANORAMICA DELL’ASSORTIMENTO STANDARD MIGROS
6.90
RESCUE ® Pastiglie Arancia-sambuco, senza alcol 50 g
14.50
RESCUE ® Gocce Contiene alcol 27 % (vol) 10 ml
14.90
22.50 ®
RESCUE Gocce Contiene alcol 27 % (vol) 20 ml
22.50
RESCUE ® Crema Fiori di Bach per la pelle, inodore e priva di parabeni, 30 g
RESCUE ® Spray Contiene alcol: 27 % (vol) 20 ml
RESCUE® è in vendita alla tua Migros
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Idee e acquisti per la settimana
I am
Per una doccia cremosa Le docce creme di I am puliscono delicatamente la pelle, le forniscono elasticità e la proteggono dalla disidratazione
1
4
3
Foto Lucas Peters; Styling Mirjam Vieli-Goll
2
1 Gli estratti dell’olio di noce di cocco nutrono la pelle durante la doccia.
I am Doccia crema Cocos & Vanilla 250 ml* Fr. 2.30 *Nelle maggiori filiali
2 La doccia crema arricchita di oli d’oliva e di soia preserva l’umidità della pelle. I am Doccia crema Olive 250 ml* Fr. 2.30
3 L’estratto di fiori di mandorlo pulisce la pelle rendendola vellutata.
I am Doccia crema Almond Blossom 250 ml* Fr. 1.95
4 La doccia crema con le proteine del latte pulisce delicatamente, rendendo elastica la pelle. I am Doccia crema Soft Cream 250 ml Fr. 1.95 M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui le docce creme di I am
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Prodotti a km zero genuini e ticinesi. I Nostrani del Ticino sono la riscoperta dei sapori locali e provengono esclusivamente da aziende ticinesi che ne garantiscono la qualitĂ , la freschezza e la genuinitĂ . Oltre 300 tipicitĂ della nostra regione che rappresentano il nostro impegno concreto nel sostenere agricoltori, allevatori e produttori alimentari ticinesi.