Azione 35 del 27 agosto 2018

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio I comportamenti giovanili a rischio e il lavoro di prevenzione del Gruppo Visione Giovani

Ambiente e Benessere Inquinamento luminoso: in Svizzera e in particolar modo in Ticino, è un problema che si aggrava di anno in anno; il vero nuovo nemico mangiabuio sono i nuovi lampioni con luce LED fredda

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 27 agosto 2018

Azione 35 Politica e Economia I primi cento giorni del governo Conte o meglio del «team of rivals» Salvini e Di Maio

Cultura e Spettacoli L’amore che l’artista libanese Etel Adnan nutriva per Paul Klee ora è in mostra a Berna

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di Roberto Porta pagina 5

CdT - Maffi

La biblioteca va in Filanda

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L’economia, un argine contro gli autocrati di Peter Schiesser Con tutte le critiche che si possono rivolgere al libero mercato, le sue leggi si rivelano però anche un’insuperabile barriera per capi di Stato megalomani, che si credono più potenti delle leggi dell’economia. Il presidente turco Erdogan ne è l’ultimo esempio, per la sofferenza degli 80 milioni di turchi, che vedono scricchiolare quella crescita economica che avrebbe dovuto traghettarli da un passato di sottosviluppo e povertà ad una nuova era gloriosa. Legge economica numero 1: in una finanza globalizzata, i capitali si muovono dove i tassi aumentano, in particolare verso paesi con economie forti e garanzie di stabilità. Da quando la Federal reserve americana ha rialzato i tassi, molti capitali e investimenti vengono dirottati dai Paesi emergenti verso gli Stati Uniti. Di conseguenza, in Turchia la mancanza di capitali in dollari sta provocando una perdita di valore della valuta nazionale e alzando sensibilmente i prezzi e l’inflazione al 15 per cento (prodotti e servizi importati e pagabili in dollari, fra carburanti ed energia, costano molto più di prima). La lira turca ha perso dal 40 al 50 per cento del suo valore, quest’anno, e

ha subito un crollo in agosto quando è apparso chiaro che il governo non aveva una strategia economico-finanziaria per disinnescare la crisi. Erdogan ha costruito il suo successo politico sulla crescita economica degli ultimi 15 anni ma l’ha ottenuta al prezzo di un forte indebitamento delle industrie private all’estero (per 220 miliardi di dollari), ora che il dollaro è quotato 6 lire queste imprese e banche si trovano a dover ripagare interessi sui debiti molto più onerosi, per alcuni insopportabili fino all’insolvenza. Lezione economica numero 2: per ristabilire la fiducia di investitori e creditori esteri e attirare nuovi capitali, la banca centrale deve alzare i tassi d’interesse. Erdogan sostiene però che un aumento dei tassi accrescerebbe l’inflazione e vi si oppone decisamente (la banca centrale gli obbedisce e così suo genero Berat Albayrak, ministro del tesoro e delle finanze). In effetti, un aumento dei tassi frenerebbe ulteriormente la crescita, ossia minerebbe la base del consenso per il presidente turco. Ma anche un lento peggioramento della crisi in corso porta allo stesso risultato. Ossia alla lezione – economico-politica – numero 3: quando Stato, banche e imprese giungono sull’orlo dell’insolvenza, diventa inevitabile il ricorso ai crediti del Fondo

monetario internazionale. Che però sono sempre legati a riforme economiche dolorose. Anche a questo Erdogan si oppone. Visto che la recente crisi della lira turca ha coinciso con delle ritorsioni da parte di Donald Trump per la mancata liberazione di un pastore statunitense imprigionato in Turchia (raddoppiati i dazi su acciaio e alluminio turchi), dando a Erdogan il pretesto per incolpare altri della crisi economica, il presidente turco ha fatto sapere che cercherà nuovi amici. Ha alluso alla Russia, ciò che comporterebbe una fuoriuscita dalla Nato, ma Putin non ha soldi da regalare, ha ottenuto dal Qatar promesse per 15 miliardi di dollari di investimenti, comunque insufficienti per invertire la tendenza congiunturale. Avevamo già scritto che la Turchia era un candidato al disastro economico. In realtà, molto dipenderà dal suo presidente: se resta preda del suo senso di onnipotenza, il conto diventerà salato, se invece Erdogan recupererà il senso della realtà ci sono possibilità che la Turchia possa riguadagnarsi la fiducia internazionale e limitare i danni. Per quanto possibile, Stati Uniti e Europa dovrebbero spingere in questa direzione, non come ha fatto Trump rallegrandosi del tracollo della lira, insensibile ai patimenti della popolazione turca.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Attualità Migros

M Tanti eroi da coccolare

«MickeyMania» Fino all’8 ottobre nei negozi Migros una nuova serie di simpatici personaggi da collezionare Topolino compie 90 anni. Per festeggiare questa importante data da Migros arriva la «MickeyMania», che permette di collezionare i peluche di Topolino e dei suoi amici Minni, Paperino, Paperina e Pluto. Vi sveliamo alcune i curiosità riguardo ai protagonisti Disney. Cominciamo da Topolino. Il topo dai pantaloncini rossi e i guanti bianchi non perde mai il buon umore. È molto modesto anche se è in realtà una vera star. Da quando Walt Disney l’ha creato, Topolino ha avuto innumerevoli ruoli sia in televisione che al cinema e nel 1978 è stato il primo personaggio di un cartone animato ad ottenere una stella nella Hollywood Walk of Fame. Topolino è follemente innamorato della dolce e affettuosa Minni. I due non sono ancora sposati ma farebbero di tutto l’uno per l’altra. Nei primi film Minni fa infatti spesso finta di trovarsi in pericolo così che Topolino possa correre a salvarla. Sia Minni che Topolino mettono in luce l’abilità di Disney nel gestire la prospettiva: da qualsiasi angolazione si presentino le loro orecchie si trovano una vicino all’altra senza mai coprirsi a vicenda. Pluto, il simpatico cane dalle orec-

chie a penzoloni, è il fedele amico di Topolino. Al contrario degli altri personaggi Pluto ha pochi tratti umani: non parla e non cammina su due zampe. Una cosa che forse molti non sanno è che l’amico a quattro zampe di Topolino deve il suo nome alla scoperta del pianeta Plutone nel 1930, anno della creazione del personaggio. Molto diverso dal tranquillo Topolino, è il suo amico Paperino. L’anatra dal costume da marinaio blu ha un grande cuore, ma è perseguitato dalla sfortuna anche se non si lascia mai scoraggiare. A volte è molto impulsivo e quando si trova nei guai si sfoga starnazzando con rabbia. Paperino è un personaggio molto importante e addirittura durante la seconda guerra mondiale è stato utilizzato come mezzo di propaganda: nel film di animazione Der Fuehrer’s Face (1942) l’anatra si prende infatti gioco del Terzo Reich. Paperino è follemente innamorato della sua fidanzata Paperina. Paperina ha ciglia lunghissime, è scaltra e un po’ egocentrica. A volte sembra giocare con i sentimenti di Paperino e si diverte a farsi viziare. Nel cortometraggio Donald’s Crime (1945), per esempio, Paperina riesce a convincere

il suo più fedele pretendente a rubare i risparmi di suo nipote per portare la sua amata in un ristorante di lusso. Informazioni

migros.ch/mickeymania

È arrivata la «MickeyMania»!

I nuovi gerenti delle filiali Migros Ticino

desivi (massimo 15 sticker per acquisto, fino a esaurimento delle scorte, esclusi i buoni e le carte regalo). Una volta completato l’album con 20 autoadesivi potrete scambiarlo con il peluche di uno dei protagonisti Disney (offerta valida solo fino a esaurimento scorta, prodotto non acquistabile).

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Sul Monte Generoso, la musica delle Alpi

Eventi I corni protagonisti di un fine settimana su una delle più belle montagne ticinesi

Dario Cellura

Luogo di lavoro: filiale di Mendrisio Data di nascita: 07.11.1979 Stato civile: celibe Hobby: pittura, giardinaggio, viaggi culturali, cucina Cosa voglio offrire alla clientela: accoglienza, disponibilità, cordialità

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Il corno delle Alpi, o corno svizzero, è uno strumento antico, che in ogni sua ottava esprime tradizione e bisogno di comunicare su lunghe distanze tra un alpeggio e l’altro. Oggi ha perso la sua funzione di strumento di richiamo e segnalazione, ma non il fascino musicale delle sue vibrazioni. La costruzione di un corno alpino richiede grande sapienza sin dalla scelta del legno naturale di cui è interamente composto, e non avendo né fori né chiavi, la tonalità dello strumento dipende dalla sua lunghezza. Di certo è un oggetto del tutto particolare, che soprattutto a nord delle alpi è considerato un emblema e con il quale si è creato un legame radicato. Nella Svizzera italiana, invece, non si ha una lunga tradizione di ascolto di questo strumento: ma qualcosa sta cambiando. Forse per il calore che il legno trasmette, forse per il senso di appartenenza che trascina con sé, o magari per i suoi toni armonici, il corno alpino attrae un numero sempre maggiore di musicisti e appassionati anche nella nostra regione sud-alpina. A unificare la passione per questo strumento sui due versanti delle Alpi, è Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Il gruppo di cornisti sul Monte Generoso.

il gruppo Corni dal Generus, composto da una ventina di cornisti, formatosi tra il 2014 e il 2015 grazie ai corsi per adulti. In un paio d’anni il gruppo ha affinato la tecnica, imparato nuovi brani e si è esibito per il 500° anniversario della Battaglia di Marignano in Piazza Duomo a Milano. In quell’occasione suonavano ben 420 cornisti di cui 50 Ticinesi e oggi

il gruppo si esibisce proprio come un’orchestra in eventi privati e manifestazioni regionali. La calda partecipazione ha permesso lo scorso anno di organizzare il 1° Festival dei Corni della Svizzera Italiana che ha attirato circa 100 musicisti provenienti dal Ticino: un successo da record inatteso, motivo per cui la seconda edi-

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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zione del festival sarà estesa a suonatori provenienti da tutta la Svizzera per un grande ritrovo. Il 2° Festival dei Corni della Svizzera Italiana si svolgerà sabato 8 settembre con una cena di gala al Mercato coperto di Mendrisio che si aprirà con l’aperitivo in musica dei Quatuor di Nendez. Durante la serata si esibiranno Kevin Blaser, Arkady Shilkloper, Alexander Jous, e Olivier Brisville, con la partecipazione del gruppo Passport Jazz Quartet. Domenica 9 settembre, invece, il festival si terrà sul Monte Generoso, nella suggestiva ambientazione della Bellavista con un programma ricco e armonioso tanto quanto le note del corni: a partire dalle 10.00 sono previsti un concerto d’insieme, il pranzo e le esibizioni dei gruppi di cornisti partecipanti all’evento. Informazioni e programma

www.cornidalgenerus.ch In collaborazione con

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Società e Territorio È giusto aiutare i figli a fare i compiti? La scuola sta per iniziare e al Caffè delle mamme ci si interroga sul perché i ragazzi oggi non sanno studiare da soli e se sia giusto aiutarli pagina 7

Giovani e prevenzione Da 12 anni in Ticino il Gruppo Visione Giovani della Polizia cantonale fornisce informazioni, suggerimenti e consulenze nelle scuole e a privati sui comportamenti a rischio dei ragazzi pagina 8

L’edificio, costruito nel 1873, è stato acquistato dal Comune di Mendrisio nel 2010. (CdT - Maffi)

L’industria fa spazio alla cultura

Mendrisio La nuova Filanda sarà inaugurata il prossimo 15 settembre: sede della Biblioteca cantonale, il centro

sarà anche uno spazio polivalente dove storie, idee e saperi si intrecceranno sotto gli occhi dei Filanderi

Roberto Porta Ma che intreccio singolare. Una biblioteca e un centro culturale in una via che porta il nome di «Industria». Dal 15 settembre a Mendrisio sarà proprio così. Al numero 5 di quella via, situata nel centro storico del Borgo, verrà inaugurata la nuova Filanda, sede della nuova Biblioteca cantonale e di un centro culturale multifunzionale. Libri e cultura laddove nell’Ottocento lavoravano duramente «le filandere», donne e bambine che con le loro fatiche hanno forgiato il passato tessile della regione. I tanti intrecci della storia vogliono ora che quell’imponente edificio si trasformi, perlomeno nei suoi primi tre piani, in un centro culturale su cui la città conta molto. «Il progetto della Filanda è nato una decina di anni fa per salvare la Biblioteca cantonale dalla chiusura decisa allora dal Governo – ricorda Paolo Danielli, vice-sindaco e responsabile del dicastero Museo e Cultura – Nel frattempo il progetto è evoluto e oggi, grazie alla Città di Mendrisio, possiamo mantenere la biblioteca in una struttura completamente rinnovata, che saprà offrire anche molti altri servizi e opportunità. Ci aspettiamo che la Filanda, oltre a inserirsi nel tessuto culturale

della regione, sappia ridare slancio al nucleo del Borgo e un ulteriore impulso alle associazioni affinché promuovano attività culturali, ludiche, formative e aggregative». A Mendrisio vengono riposte molte speranze in questa nuova struttura, costruita nel 1873, dismessa nella sua veste di industria tessile nel 1931 e gradualmente abbondonata nei decenni successivi, a tal punto che il municipio ne ordinò lo sgombero per motivi di sicurezza. Negli anni 80 del secolo scorso l’intervento di una società privata portò poi alla sua completa ristrutturazione. Sede di un centro commerciale fino al 2008, l’edificio venne poi acquistato dal comune di Mendrisio nel 2010. Il Municipio non ebbe però vita facile nel convincere il consiglio comunale della bontà di un nuovo centro culturale. Vi fu anche il lancio di un referendum che però naufragò, visto che non si riuscì a raccogliere il numero necessario di firme. Segno in fondo che la popolazione aveva capito il senso e l’importanza di questa sfida. La nuova Filanda è ora pronta ad aprire i battenti. Una struttura in cui vi saranno anche una videoteca, una ludoteca e una audioteca. E in cui verranno organizzati corsi, mostre e conferenze. In questo senso, vien da domandare, non si sta chiedendo troppo alla

Filanda? Non c’è il rischio che il nuovo centro non abbia un’identità chiara? «Assolutamente no – ci risponde il vicesindaco Paolo Danielli – La Filanda è innanzitutto un centro culturale, in cui la spina dorsale è data dalla Biblioteca cantonale. Ma è un centro culturale, in un senso molto ampio e con modalità innovative, che vuole offrire molte opportunità di incontro e di scambio, che vuole essere accogliente, intergenerazionale, con spazi diversi e modulabili, che possa dare spazio alle diverse esigenze delle associazioni ma anche al desiderio d’incontro e, perché no, ai sogni nascosti nel cassetto dei cittadini. Un luogo diverso dagli altri, direi unico nel panorama cantonale anche perché gestito in parte dai Filanderi, che sono cittadini volontari che si occuperanno di accogliere i visitatori e avranno alcuni compiti utili e necessari alla funzionalità del centro». Proprio i Filanderi rappresentano una delle grandi novità della nuova struttura. «Volevamo un progetto partecipativo, non imposto da un ente pubblico. Per questo abbiamo bisogno di un forte contatto con la popolazione. E i Filanderi ci permettono di avere un ancoraggio nel territorio» – ci dice Agnès Pierret, responsabile dell’Ufficio sviluppo economico della città e coordi-

natrice del gruppo dei Filanderi. «Queste persone mettono a disposizione parte del loro tempo libero per aiutarci nella gestione del nuovo centro. Nel loro bagaglio ci sono competenze professionali, sociali e umane». Si tratta di un gruppo di una settantina di persone, non solo di Mendrisio, pronte a lanciarsi in questa avventura. «C’è chi aiuterà i bibliotecari, chi si occuperà dei bambini piccoli, chi gestirà un corso di lingua o di pittura o altro ancora. C’è un mosaico da comporre ed entrambe le parti, la città e i Filanderi, dovranno riuscire a trarne la dovuta soddisfazione», ci dice ancora Agnès Pierret. Grazie ai Filanderi il nuovo centro potrà rimanere aperto ben al di là dei tradizionali orari di ufficio e sette giorni su sette, mantenendo i costi di gestione attorno al mezzo milione di franchi all’anno, soglia che il municipio considera sopportabile. Quella della Filanda è una biblioteca di nuova generazione, con la città di Mendrisio chiamata a fare da pioniere a livello ticinese, seguendo l’esempio di strutture simili già presenti in altri cantoni svizzeri. Un nuovo capitolo anche per il Sistema bibliotecario ticinese, piattaforma che coordina le biblioteche cantonali e che è diretta da Stefano Vassere. «Dal nostro punto di vista il nuovo centro di Mendrisio offre sicuramente

diverse opportunità, in particolare per quanto riguarda l’introduzione di un sistema di auto-prestito, con il ritiro in modo autonomo dei volumi desiderati. Non è una misura di risparmio sul personale, ma uno strumento per permettere al personale di dedicarsi in parte ad altri compiti e per accrescere la prossimità della biblioteca con l’utenza». Un modello, chiediamo a Stefano Vassere, che potrà fare scuola in altre biblioteche del cantone? «La nuova Filanda avrà una funzione socio-culturale molto marcata. Si tratta di un modello diffuso tra l’altro nel nord d’Europa, una sorta di centro di idee. Altre biblioteche hanno anche altri compiti per esempio quello della conservazione. Il carattere della Filanda non sarà quindi riprodotto dappertutto». L’inaugurazione è prevista per il 15 settembre. Il 6 settembre invece vi sarà un trasloco dalle modalità decisamente inedite. Una catena umana sposterà alla Filanda una parte dei 60mila volumi della Biblioteca cantonale di Mendrisio, ancora per pochi giorni inserita nell’edificio del liceo, che si trova a più di un chilometro di distanza. Di mano in mano i libri arriveranno nella loro nuova casa. Un gesto simbolico per dire, anche così, che il nuovo centro vuole essere di tutti.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Società e Territorio

Facciamo i compiti

Il caffè delle mamme Perché i nostri figli non studiano più da soli?

Come fare ad aumentare la loro autostima scolastica?

Simona Ravizza Con il ritorno a scuola, si ripropone l’incubo di sempre: i compiti a casa. Al di là dell’eterno dibattito sulla loro utilità, al Caffè delle mamme si affronta una questione pratica: perché i nostri figli non studiano più da soli? L’argomento ci divide in due categorie: chi è già pronta a improvvisarsi prof per almeno un’ora al giorno; e chi è già in cerca di un giovane universitario da ingaggiare per le lezioni private (per chi può permetterselo). Sempre più spesso fin dalle elementari. In entrambi i casi l’errore è clamoroso: il nostro ruolo non è fare calcoli di matematica e esercizi di tedesco insieme con il proprio bambino, ma aiutarlo ad acquisire il metodo per sbrigarsela da solo. Non siamo le sole a sbagliare.

In Ticino il 18 per cento dei ragazzi tra la terza e la quarta media ricorre regolarmente a un insegnante privato Le statistiche confermano il fenomeno. Secondo la recente indagine Global Parents’ Survey-Italy Findings 2018 della Varkey Foundation – organizzazione internazionale no profit convinta che con l’educazione si possa cambiare il mondo – in Germania, Francia, Italia e Spagna tra il 20 e il 40 per cento dei genitori spende dalle quattro alle sette ore a settimana per dedicarsi all’attività scolastica dei figli (la peggiore in Europa è l’Italia, dove il 18 per cento dedica

tra le 4 e le 7 ore e il 25 per cento più di 7). Diffuso anche il ricorso alle lezioni private: in canton Ticino, il 18 per cento dei giovani già tra la terza e la quarta media ricorre regolarmente a un insegnante a casa; e la percentuale sale al 42 se si considera chi lo fa occasionalmente, come emerge dallo studio del giugno 2017 del Dipartimento di formazione e apprendimento della Supsi. La perdita di capacità dei nostri figli di fare i compiti da soli è strettamente legata al fatto che noi siamo sempre di più dei «genitori spazzaneve». Così Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’Età evolutiva, ricercatore al dipartimento di Scienze biomediche dell’Università Statale di Milano, definisce le mamme e i papà che vogliono spianare la strada al proprio figlio, evitargli di sbagliare, farlo essere sempre all’altezza anche per brillare loro stessi di luce riflessa. «Stare seduti di fianco al bambino quando fa i compiti è sbagliato» spiega Pellai ad «Azione». «La mamma e il papà devono essere degli allenatori, non dei giocatori in campo». Il nostro obiettivo dev’essere potenziare l’autostima scolastica dei nostri figli, imprescindibile per fare crescere giovani uomini e donne che si sentano all’altezza delle sfide della vita. «Una buona autostima scolastica si ottiene anche attraverso la conquista di una crescente autonomia nella gestione dei compiti e dello studio» avverte Pellai, autore con la collega Barbara Tamborini del saggio Il metodo famiglia felice. Come allenare i figli alla vita (De Agostini, dicembre 2017). «Troppo spesso i genitori organizzano in modo puntuale e costante le sessioni di stu-

I genitori dovrebbero aiutare i figli a essere autonomi nello studio. (Marka)

dio del figlio: a volte si ha l’impressione che certe mamme e papà non siano lì ad aiutare il ragazzo a studiare, bensì stiano studiando con lui, se non addirittura al suo posto. Avere una buona autostima scolastica significa sentirsi capaci di tenere sotto controllo i propri impegni, compiti e lezioni compresi». Come mamme e papà dobbiamo aiutare nostro figlio a imparare il metodo migliore per studiare: spiegargli l’utilità della concentrazione, fargli capire l’importanza di ritagliarsi del tempo per fare i compiti, dichiararci orgogliosi quando risolve da solo un problema di matematica, ascoltarlo ripetere a voce alta storia e geografia per insegnargli a mettersi alla prova, confortarlo dopo una sconfitta e incentivarlo a imparare dai propri errori. «All’inizio della scuola elementare è importante aiutare un figlio a impostare un metodo di gestione dei compiti (primi due anni di scuola) e delle lezioni (dal terzo anno in poi)» insistono Pellai e Tamborini. «Ma lo scopo deve essere renderlo autonomo, e non dipendente dal nostro intervento di accompagnamento o addirittura di sostegno, monitoraggio e controllo. Avere una buona autostima scolastica significa studiare e fare i compiti assegnati perché è importante essere preparati, sentire di aver fatto il proprio dovere, essere apprezzati dai compagni e dagli insegnanti». Il problema che i nostri bambini non sanno più studiare da soli è talmente diffuso che adesso si muove anche Pro Juventute della Svizzera italiana: da settembre a dicembre l’associazione promuove dei corsi dal titolo Impariamo a studiare: alla scoperta dei metodi di studio, rivolti agli alunni delle scuole medie (200 franchi per 15 ore di lezione, suddivise in dieci momenti da 1 ora e 30). Lo scopo: «Fare scoprire allo studente le strategie da utilizzare per rendere più efficace il suo studio, come l’uso dei colori, la sottolineatura, le parole chiave per schematizzare, la presa degli appunti, le tecniche di memorizzazione e le esercitazioni sul proprio materiale – spiega Pro Juventute –. Perché uno studio adeguato e curato porta a essere maggiormente consapevoli delle proprie capacità». Dopotutto il messaggio che dobbiamo trasmettere ai nostri bambini, forse, è quello che lancia ai suoi studenti Robin Williams nei panni del prof. John Keating nell’indimenticabile discorso sulla cattedra de L’attimo fuggente: «Non affogate nella pigrizia mentale». Perché i compiti non possono fare una paura del diavolo.

Affacciati sull’immaginario

lanostraStoria.ch Gli unici documenti video

sulla storia di Locarno Festival Lorenzo De Carli Il 23 agosto 1946 fu inaugurata la prima edizione della manifestazione oggi denominata «Locarno Festival» e che, allora, era chiamata «Festival Internazionale del Film». La cornice locarnese del festival fu un po’ un caso, perché l’antesignana «Rassegna internazionale del film» si svolse a Lugano nel biennio 1944-1945 grazie all’iniziativa di Raimondo Rezzonico. Tuttavia, siccome i cittadini di Lugano rifiutarono il credito per la costruzione di un anfiteatro in grado di ospitare le proiezioni, il Festival prese avvio a Locarno, diventando l’evento culturale di gran lunga più importante della Svizzera italiana. Con Venezia e Cannes, quello di Locarno è uno dei più longevi festival cinematografici europei, e nel corso della sua lunga storia ha presentato e premiato numerosi film e cortometraggi di registi conosciuti in tutto il mondo. A fronte di tanta importanza, comincia a diventare imbarazzante l’assenza online di una storia del festival. Ce ne fu un accenno, negli anni passati, sul sito ufficiale del Festival, ma le pagine ebbero vita breve. Il fatto è che come molti altri eventi che si svolgono o si svolsero in Ticino (come per esempio il Progetto Martha Argerich), offerta dal web la possibilità di documentarne la storia, non si è mai sentita la necessità di mettervi mano, un po’ per non sottrarre risorse all’organizzazione dell’evento stesso, un po’ ritenendo che altri (per esempio gli «storici») dovessero assumersene il compito, un po’ perché neppure esempi istituzionali come l’Archivio di Stato sembrano ancora aver maturato la responsabilità di rendere condivisibili sul web i documenti storici conservati. Nelle pagine del portale di storia partecipativa «lanostraStoria.ch», la RSI ha cominciato a pubblicare una generosa selezione di documenti video, allo scopo di fornire elementi per una storia di Locarno Festival. Siccome la digitalizzazione dei supporti usati negli anni Sessanta è tutt’ora in corso, è probabile che nei prossimi mesi altri documenti saranno resi disponibili. Il primo servizio video della RSI dedicato al Festival Internazionale del Film di Locarno andò in onda il 14 luglio 1963. Lo realizzò Marco Blaser, il quale, negli anni precedenti, già era stato a Locarno come cronista di «Panorama Tagesschau». Siccome fino al 1965 il premio del Festival non era il «Pardo d’oro» bensì la «Vela d’oro», nel corso

della rassegna locarnese l’allora TSI aveva in palinsesto un programma intitolato «Vele d’oro». Questa raccolta di servizi televisivi è l’unica fonte di documenti video che ci consentono di avere testimonianze di prima mano di un’ampia varietà di fatti: le opinioni degli attori e dei registi presenti, le intenzioni dei direttori artistici, i ritratti del pubblico, nonché gli strumenti e i luoghi di proiezione che, assieme con le riprese di Locarno e dintorni, ci permettono di comprendere come era vissuto il Festival tra la fine degli anni 50 e la metà degli anni 60. I primi documenti video disponibili nelle pagine di «lanostraStoria.ch», realizzati per «Panorama Tagesschau», mettono soprattutto in risalto l’aspetto mondano del Festival. È Marco Blaser che, per lo stesso programma della SRG, sembra affrontare per la prima volta questioni più strettamente legate alla programmazione dei festival, e lo fa in una intervista del 24 luglio 1960 a Vinicio Beretta. Segretario del Festival dal 1953 al 1959, Beretta ne assunse la direzione artistica nel 1960, conservandola fino al 1966. Nel 1967, in occasione della ventesima edizione del Festival, «Prisma» ne mandò in onda la prima storia. Interviste a Pier Paolo Pasolini, Raf Vallone, Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Freddy Buache, Milos Forman e molti altri permettono di seguire l’evoluzione della manifestazione. L’anno successivo fu quello della contestazione. Il 6 ottobre il «Telegiornale» mandò in onda le immagini degli studenti che occuparono una delle sale di proiezione in occasione della premiazione. Il Festival tornò all’aperto nell’estate del 1971, quando per la prima volta venne installato uno schermo in Piazza Grande. Nel fu inventore l’architetto locarnese Livio Vacchini, il quale tuttavia vide realizzarsi solo nel 1994 la sua visione: uno schermo tanto grande, da trasformare «Locarno in sala cinema», chiudendo Piazza Grande con una parete affacciata sull’immaginario.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Tove Jansson, Mumin al mare, Iperborea. Da 7 anni I Mumin sembrano dei piccoli ippopotami e sono creature nate dalla fantasia della scrittrice e pittrice finlandese Tove Jansson (1914-2001). Dal 1945 vivono le loro storie, per la gioia dei lettori di tutto il mondo (sono stati tradotti in una cinquantina di lingue!), sia come romanzi, sia come strisce a fumetti. In italiano i romanzi vennero fatti conoscere dalla lungimiranza di Donatella Ziliotto per la collana gli Istrici di Salani, mentre i fumetti apparvero sulla rivista «Linus» alla fine degli anni 60. Ora, la casa editrice Iperborea, che da poco ha allargato la sua bella produzione anche alla letteratura per l’infanzia – anche se i Mumin sono dedicati a un pubblico di tutte le età – inaugura la collana «Mumin», dove pubblica, nel formato rettangolare lungo, le loro

avventure a fumetti come singole storie. A dicembre 2017 era uscito Mumin e le follie invernali, questa primavera Mumin e la vita in famiglia e quest’estate Mumin al mare. Sono storie irriverenti e incantevoli, in cui la famiglia Mumin e tutti i bizzarri amici che le ruotano attorno affrontano con animo aperto, paziente e ottimistico la vita: una vita nella loro Valle, tra la natura e il calore domestico, ma anche tra le intemperie, l’incertezza e le bufere, o nell’inospitalità di certi luoghi e di certi incontri. Le bufere possono essere anche interiori: queste pacifiche creature spesso conoscono la rabbia, la frustrazione, la paura, e le affrontano senza negarle, con coraggio e con l’aiuto degli altri, riuscendo alla fine a prenderle per il verso giusto. Nel recente Mumin al mare, ad esempio, tutta la famiglia si trasferisce a vivere in un faro perché papà Mumin

vuole testardamente diventarne il guardiano e scrivere un romanzo sul mare: in realtà la sua vena creativa è tutt’altro che feconda, le premure degli altri finiscono per innervosirlo e l’atteggiamento che esprime non è certo gentile. Per fortuna emerge in tutta la sua forza il personaggio di mamma Mumin (il più luminoso dell’intera saga), che pur non rappresentando per nulla lo stereotipo della mogliettina sottomessa, riuscirà, con amore e saggezza, a riportare le cose in equilibrio. Stephanie Graegin, Piccola Volpe nel bosco magico, Terre di Mezzo. Da 4 anni È un bellissimo albo, bisognerebbe vederlo per capire. Anzi, bisognerebbe entrarci, raccontandolo, proprio come la bambina protagonista entra dentro l’Altrove che qui è un «bosco magico» (o semplicemente una «Fo-

rest» nel titolo originale). Un Altrove simboleggiato sin dal colore: monocromie blu-grigie per la vita «reale» della bambina e cromatismi variegati e vividi per il bosco. Il libro è un silent book, tutto è raccontato con le sole immagini, ma, a differenza di tanti silent books complicati da capire, proprio perché manca il testo, qui tutto è immediato, perfettamente a misura di «lettura» ad alta voce. C’è una bambina, che ha un peluche-volpina. Ce l’ha da quando è piccola, è stata con lei in tutti i momenti della vita, come testimoniano le varie foto che le ritraggono insieme. Così, quando la maestra chiederà agli alunni di portare a scuola una cosa vecchia e preziosa, e raccontarla, la bambina non avrà dubbi. Solo che nel tragitto verso casa, mentre la bambina si distrae su un’altalena, arriva un cucciolo di volpe «vero» (ancorché colorato, e quindi

appartenente al magico Altrove) che le ruba il peluche dallo zainetto. La bimba lo insegue, entra nel bosco magico, chiede aiuto agli animali che incontra e finirà nella tana del cucciolo di volpe, che sta leggendo un storia con la sua mamma, abbracciato alla volpe di peluche. Il volpacchiotto deve rendere il maltolto, ma che tristezza... Allora forse si può instaurare una relazione di amicizia, e proporre uno scambio, con un unicorno di peluche. Che meraviglia la poesia che ci regalano i risguardi di questo libro: in quello di apertura vediamo la mensola della cameretta della bimba, con libri e pupazzi tutti blu e grigi (il colore della «realtà»); in quello di chiusura, il posto del pupazzo-volpe è stato preso dal pupazzo – unicorno, che invece è colorato. È sempre così: alla fine della storia, e di tutte le storie, ci resta un regalo dal magico Altrove.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Società e Territorio

Mediare per non denunciare

Prevenzione Il Gruppo Visione Giovani della Polizia cantonale è sempre aggiornato sui comportamenti a rischio

dei ragazzi e fornisce informazioni, suggerimenti e consulenze nelle scuole e ai privati

Stefania Hubmann Un percorso di conoscenza e prevenzione in grado di accompagnare allievi e genitori dalle scuole elementari alle superiori per evitare che comportamenti giovanili a rischio sfocino in reati e denunce. È quanto propone il Gruppo Visione Giovani (G.V.G.) della Polizia cantonale in collaborazione con le polizie comunali. L’attività, nata dodici anni fa, è in continuo crescendo. Negli ultimi anni le presenze nelle classi, in particolare a livello di Scuola media, sono aumentate in modo massiccio. Le richieste sono giunte anche da parte di scuole speciali, istituti per disabili e dal settore della formazione, mentre i temi affrontati con gli allievi e in serate con le famiglie si sono estesi a nuovi settori, primo fra tutti quello dell’uso di internet. Anche i privati possono far capo al G.V.G., sempre aggiornato sull’evolversi del comportamento dei minorenni e quindi in grado di fornire ai genitori in difficoltà preziose informazioni e suggerimenti sui servizi competenti a disposizione.

Il Gruppo Visione Giovani conta oggi sulla collaborazione di una quarantina di agenti delle polizie comunali Il lavoro in rete è una delle chiavi del successo del Gruppo, di cui è responsabile il sergente maggiore Giancarlo Piffero. A lui si deve questa iniziativa, avviata con il collega Marco Lehner quali coordinatori rispettivamente del Sopraceneri e del Sottoceneri. Oggi le figure di riferimento sono quattro: lo stesso Giancarlo Piffero nel Locarnese e gli appuntati Christian Gianotti nel Bellinzonese, David Negri nel Luganese e Marco Giovanati nel Mendrisiotto. Sono coadiuvati da una quarantina di agenti delle polizie comunali che fungono da antenne sul territorio mantenendo contatti diretti con le direzioni

degli istituti scolastici. «All’inizio era il Gruppo che si proponeva alle scuole per promuovere l’attività di prevenzione, mentre oggi interveniamo su richiesta grazie al passaparola», spiega il responsabile cantonale. «L’attività è diventata più vasta, specialistica e importante. Oltre all’aver messo a punto un percorso scolastico uniforme per l’intero Cantone, offriamo il nostro contributo pure nel settore della formazione dei docenti nei diversi tipi di scuola, in collaborazione con il Dipartimento formazione e apprendimento (DFA) della SUPSI. Un’altra estensione dei nostri compiti riguarda le scuole speciali e le strutture per persone disabili. In queste ultime svolgiamo sia formazione degli operatori, sia sensibilizzazione degli utenti attraverso attività in piccoli gruppi adattate alle rispettive necessità e capacità cognitive. Si tratta in via principale di richiamare l’attenzione sui rischi di alcuni comportamenti come pure di suggerire in quali modi è possibile proteggersi». L’età scelta per iniziare il percorso di prevenzione è quella di 10 anni, che segna la possibilità per un minore di essere perseguito penalmente. Il motto del G.V.G. è d’altronde «Informare, prevenire e mediare per evitare di denunciare». In quinta elementare si punta su tre temi: il rispetto, la violenza e l’uso corretto dello smartphone. Un altro aspetto essenziale, rileva il nostro interlocutore, è presentare ai bambini l’agente di polizia come persona di riferimento, al quale ci si può rivolgere per chiedere informazioni o aiuto. Il G.V.G. si occupa infatti anche di ascoltare e consigliare chi le minacce, i soprusi e le violenze li subisce. La prevenzione legata all’uso dello smartphone è stata anticipata alla scuola elementare perché si è constatato che circa il 70 per cento degli allievi di quinta elementare ne è già in possesso. La maggior parte lo utilizza senza l’accompagnamento di un adulto o una formazione adeguata. È pertanto importante mostrare loro il ruolo di controllo degli adulti quale forma di protezione e non come segno di sfiducia.

Dalla quinta elementare si affronta il tema dell’uso dello smartphone. (Keystone)

Man mano che l’età degli allievi avanza, gli argomenti affrontati diventano più articolati fino a includere i risvolti giuridici dei medesimi. In seconda media (la prima è considerata coperta da quanto proposto in quinta elementare) i coordinatori del G.V.G. si focalizzano sul bullismo, dagli autori alle vittime, con riferimento alle sue nuove forme legate soprattutto ai social network. L’informatica in tutti i suoi usi e supporti – dallo smartphone al tablet, al computer – è affrontata con gli allievi di terza media collaborando con l’esperto di nuove tecnologie Paolo Attivissimo per quanto riguarda l’aspetto tecnico. Prima di lasciare la scuola dell’obbligo, nell’età in cui si esce maggiormente per conto proprio la sera, al centro dell’attenzione vi sono, oltre ad internet, alcool e sostanze psicoattive. Giancarlo Piffero ricorda, dati alla mano, che fra i procedimenti aperti nei confronti dei minorenni «la maggior parte riguarda proprio queste sostanze (475 nel 2017) con la canapa a farla da padrone complici il costo limitato,

la facile reperibilità e la banalizzazione fatta da alcuni». Seguono con oltre 200 casi i reati contro il patrimonio, mentre si situano al di sotto del centinaio le altre tipologie. Nelle Scuole medie superiori e nelle SPAI (Scuola professionale artigianale industriale) si approfondiscono le tematiche trattate in precedenza completandole con il relativo quadro giuridico. D’attualità con il raggiungimento della maggiore età anche le questioni legate alla circolazione. Da precisare che le sedi scolastiche non sono obbligate a compiere l’intero percorso di prevenzione. Alcune richiedono l’intervento del Gruppo Visione Giovani perché confrontate con problemi specifici, altre decidono di proporre ogni anno un singolo argomento, coinvolgendo quindi classi diverse. «La collaborazione è ottima con l’intero settore scolastico cantonale – rileva il responsabile del G.V.G. – ma la nostra attività si è intensificata soprattutto nella Scuola media. È un momento cruciale e la nostra visione riguardo all’importanza della prevenzione è

condivisa dalla Sezione dell’insegnamento medio con a capo Tiziana Zaninelli». Anche numerose associazioni di genitori fanno appello regolarmente al G.V.G. proponendo incontri pubblici che affrontano le problematiche legate ai comportamenti a rischio. I dati raccolti dal Gruppo confermano l’esponenziale crescita della sua attività, reimpostata tre anni or sono in concomitanza con la riorganizzazione della Polizia cantonale. Se nell’anno scolastico 2014/15 le classi coinvolte erano complessivamente 227 nel 2016/17 si è passati a 556, quindi oltre il doppio, con un ulteriore incremento nel 2017/18. Nello stesso periodo gli allievi sono aumentati da 4353 a 12191. Grande balzo avanti tra il 2014 e il 2017 anche per le conferenze pubbliche, passate da poche unità a una quarantina, e le richieste private delle famiglie per risolvere i conflitti con i figli, da 73 a 150. Coinvolgere i docenti, fornire loro spunti e documentazione per poter ritornare sull’argomento, proporre immagini, informazioni e ragionamenti che tocchino direttamente i giovani, essere sempre aggiornati sui loro comportamenti, sono i principi che guidano gli interventi di prevenzione del Gruppo Visione Giovani. A questo scopo il servizio partecipa con regolarità a incontri nazionali di formazione che affrontano i temi di interesse generale emergenti. «È il caso del reclutamento di minori da parte dei movimenti jihadisti, delle nuove chat o ancora dell’abuso di sostanze e medicamenti nello sport», precisa il nostro interlocutore. Questo tipo di prevenzione è sempre più diffuso nell’intera Svizzera, ma non ogni Cantone dispone di un servizio specialistico come il G.V.G. Tutti mirano però, con riferimento alla Legge federale sul diritto penale minorile, a porre l’attenzione sulla protezione e il recupero del giovane. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Fake news, american style La controversia sulle fake news è ormai talmente parte del pacchetto di informazioni quotidiane da far venire il sospetto che si tratti – appunto – di notizia falsa: chi si salva più? Si è detto, certo con una misura di verità, che la diffusione esponenziale dei cosiddetti social abbia messo in mano a chiunque la possibilità di diffondere notizie false con le inevitabili conseguenze. Certo, l’allarme c’è ed è reale. Ma, per paradossale fortuna, la cosa fa poi di fatto molto meno paura in quanto è altrettanto risaputo che non tutti, non sempre e non solo agiscono sulla sola base di informazioni. Più spesso che no il grande pubblico lavora – per così dire – a partire da un cocktail cognitivo inestricabile a base di informazioni vere, informazioni parziali, informazioni false, sentito dire, radicati pregiudizi, opinioni formatesi nel corso del tempo e mai più rivisitate – il tutto peraltro non sempre supportato da quella piena

avvertenza e deliberato consenso che sono – alcuni ricorderanno – ingredienti fondamentali per fare di una certa linea d’azione un peccato mortale. E così si continuerà ad impaccare i social con prove e controprove sulla veridicità dello sbarco sulla Luna da parte della NASA o su quale amena località si nasconda Elvis – e ora, mi dicono, anche Michael Jackson. Ma le fake news non sono né tutta colpa dei social né prerogativa dell’epoca digitale: solo sono diventate più noiose rispetto al passato. Volete mettere il titolo col quale «The Sun», un quotidiano newyorkese (e di dove altro poteva essere?) sull’orlo della chiusura, annunciava, il 21 agosto 1835, che a breve sarebbe cominciata la pubblicazione di una serie di estratti da un’autorevole rivista scientifica scozzese relativi alle sensazionali scoperte relative alla vita sulla Luna che Sir John Herschel, un famoso astronomo realmente esistente, aveva

effettuato con l’ausilio di un nuovo, sensazionale e potentissimo telescopio. E fu così che il 25 agosto, martedì, le copie del giornale andarono a ruba. Il primo estratto, che occupava due terzi della prima pagina, si limitava a descrivere le meraviglie tecnologiche del gigantesco telescopio, così potente da rendere possibile effettuare financo osservazioni «di natura entomologica» – posto, s’intendesse, che sulla Luna ci fossero l’equivalente delle nostre formiche. Il 26 agosto, mercoledì, si entrava in medias res: si descriveva prima la fantastica geologia dei cristalli lunari coperti da fiori rossi per poi passare a descriverne le mandrie di quadrupedi simili a bisonti, certe capre di colore blu ed una creatura anfibia a forma sferica che rotolava a grande velocità sulla spiaggia. 27 agosto, giovedì: la lista di piante ed animali si allungava ma, soprattutto, si dava notizia della scoperta della prima forma di vita intelligente: un

castoro bipede che abitava in sofisticate capanne di legno e conosceva l’uso del fuoco. 28 agosto, venerdì: si annunciava la scoperta-clue dell’intera serie. L’Homo Vespertilio, l’Uomo Pipistrello (il nonno di Batman?) era descritto come creatura dalla pelle giallastra e dal volto simile ad un Orango munita di membrane che lo facevano volare come un pipistrello. Che si trattasse di un essere razionale era testimonianza il fatto che sembrava impegnarsi in dispute verbali senza fine, razionalità peraltro mitigata dal fatto che il Vespertilio si accoppiava coram populo senza alcuna vergogna. Ormai a corto di inventiva, il sabato 29 agosto si ricorreva alla tattica poi consacrata dalle fake news di ogni tempo della archeologia fantascientifica alla Indiana Jones: la scoperta di un tempio di puro zaffiro dall’architettura complessa (e confusa) preludeva alla puntata finale, pubblicata il 31 agosto, lunedì, dopo la dovuta

pausa domenicale. Stavolta si trattava della scoperta di una «razza superiore» di Homo Vespertilio dotata di ali simili agli angeli dal comportamento pacifico e gentile, tanto da far ipotizzare che sulla Luna nulla vi fosse delle miserie che invece pertengono alla vita sulla terra. Il paradosso – morale dell’appuntamento odierno con l’Altropologo – è che l’intera serie era stata concepita dal suo autore, tale Richard Adams Locke, giornalista del «Sun», come satira per ridicolizzare le fake news che circolavano allora nei circoli accademici più accreditati circa le prove di vita intelligente sulla Luna. Dunque, allora: fake news intese come dimostrazione dell’assurdità di fake news accreditate che diventano notizia «vera» che accredita a sua volta le inattendibili fake news originali. Ce n’è abbastanza da far venire il mal di testa: nihil sub Luna novi. Esco pertanto a contemplare una Luna che stanotte è bellissima.

Col risultato che la ragione calcolante emargina prospettive che appaiono nebulose e rischiose nella misura in cui coinvolgono altri: il partner e il figlio che nascerà. E che non sono reversibili: si può cambiare lavoro ma si è genitori per sempre. Non conosco ex figli. A questo punto, come ha fatto lei, cara lettrice, mi viene fatto notare che in Francia le cose funzionano bene perché lo Stato sostiene in mille modi la filiazione e la famiglia. Come a voler dire che la maternità è una questione sociale più che psicologica. È vero che la Francia conserva un buon indice di natalità, ma perché venissero approvati provvedimenti positivi è stato necessario che l’opinione pubblica si dimostrasse favorevole, disposta a sostenere una spesa sociale sottratta ad altre priorità. In termini psicologici, che fossero condivise motivazioni a favore della natalità. Cosa che attualmente non sta avvenendo in altri Stati dove, non a caso, emergono deficit clamorosi nelle statistiche dei nuovi nati. Anni fa la grande psicoanalista francese Françoise Dolto aveva promosso una vera e propria mobilitazione a favore dei bambini, coinvolgendo madri e padri.

Anch’io penso che si debba rivolgere un appello alle giovani generazioni perché non dimentichino né sottovalutino questo lato dell’esistenza. Non si tratta di consacrare la maternità, come spesso ci viene imputato, ma di evocarla perché non scivoli via, nella corrente della «società liquida». Ma che cosa si può fare quando le priorità sono altre? Non penso certo a una campagna pubblicitaria ma a qualche cosa al tempo stesso personale e collettivo, come il racconto della vita vissuta. Nelle vicende di ciascuno temi unici e irripetibili si intrecciano con sentimenti, desideri ed emozioni universali. Come scrivevo in una lettera precedente, contrariamente agli uomini le donne nascono, come le bambole matrioske, l’una dentro l’altra. La figlia è stata contenuta nel grembo della madre e questa in quello della nonna e così via. Una implicazione che i maschi non conoscono. Per questo il racconto dell’esperienza materna di generazione in generazione può essere particolarmente coinvolgente. Gli uomini hanno sempre guardato con sospetto al parlar tra donne: si sentono esclusi da conversazioni che non condividono

perché è diverso il loro corpo, differente la loro identità, maschile il loro sguardo. Una diffidenza che si è tramutata, sin dall’antica Grecia, in un ordine perentorio: «Alle donne si addice il silenzio» scrive Aristotele. Un silenzio che osiamo rompere quando parliamo come loro, quando li imitiamo smarrendo però la nostra specificità. Così facendo ci sentiamo emancipate ma tradiamo il nostro sesso diventando estranee a noi stesse. Per questo è bene che risuonino con forza i versi del grande poeta José Saramago: «È la lunga interminabile conversazione delle donne, sembra una cosa da niente, questo pensano gli uomini; neanche loro immaginano che è questa conversazione che trattiene il mondo nella sua orbita. Se non ci fossero le donne che parlano tra di loro gli uomini avrebbero già perso il senso della casa e del pianeta».

giusta causa, di cui il femminismo si è giovato nei decenni successivi, lungo un cammino che, dai diritti fondamentali, voto, parità salariale, si è poi spostato sul piano del costume, dei rapporti di coppia e di famiglia e sulla tutela anche fisica della donna, in un contesto sociale e professionale sempre più diversificato e dinamico. Dove, con l’indipendenza, cresceva il pericolo di essere vittime di abusi e soprusi sessuali. Proprio qui si apre una persistente zona d’ombra. Vi fece luce, il 15 ottobre 2017, il «New York Times» che accusò il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein, di aver abusato, in forma ricattatoria, di otto donne. Un numero che doveva, poi, moltiplicarsi incessantemente, dando avvio al movimento «#Me Too» che, più si allargava, più si prestava a fraintendimenti. Le cronache continuano a riportare casi di molestie

persino sospette: da parte di mancate dive in cerca di un rilancio o, addirittura, di mitomani che le violenze se le inventano di sana pianta. In questo clima giustizialista, nasce il movimento «Men are trash»: i maschi gentaglia, con cui si riesuma un fondamentalismo femminista, dagli effetti controproducenti, non da ultimo ridicoli. Ricompare la figura caricaturale del maschio nemico, sopraffattore, persino se ti apre la portiera dell’auto o ti offre un caffè. Ora, qui sta il guaio: questi aspetti, marginali di uno zelo femminista ossessivo, finiscono per intaccare la credibilità di una causa, che rimane sempre attuale nella nostra quotidianità. È la cronaca a confermarlo. La settimana scorsa, a Ginevra, cinque ragazze, all’uscita da un ritrovo notturno, venivano aggredite, proprio perché donne sole. L’episodio ha ridato fuoco alla miccia

di una protesta che, sotto l’egida di Gioventù socialista, ha affollato le piazze di molte città svizzere rilanciando il tema di una particolare categoria di reati: quelli, appunto, che appartengono a una zona d’ombra. «Das grosse Schweigen», titolava la «NZZ» un servizio dedicato al fenomeno, ormai di portata nazionale, in un paese sempre più multietnico, di cui le statistiche riescono a dare un quadro approssimativo. Stando alle cifre, Lugano ha registrato, nel 2017, 6,6 casi di molestie o violenze, per 1000 abitanti, Bellinzona 4,3, mentre Basilea detiene il primato con il 13,7. Difficile dire se siano pochi o tanti. Di sicuro, non rivelano una realtà spesso sommersa. Si tratta, comunque, di una notizia di segno opposto, rispetto alle precedenti. Riscatta il femminismo, per certi versi démodé. Ma, in pratica, insostituibile, al servizio di quella che rimane una giusta causa.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La conversazione delle donne Cara Silvia Vegetti Finzi, ho letto con molto interesse il problema posto da una lettrice. Sì, sono tante le ansie che assalgono le donne prima di poter decidersi di diventare mamme, quanto le capisco! E aumentano sempre di più a forza che gli anni passano... Lei ha oltretutto la mia simpatia per aver evocato la poca stima, quasi disprezzo (come se niente fosse) dello stato di gravidanza che vige fra certe donne e per aver messo in evidenza la mancanza dell’amorevole coscienza sul misterioso sviluppo della creatura in divenire nel grembo che sembra spesso quantité négligeable per 9 mesi... È senz’altro anche vero e utile mettere in rilievo l’evoluzione sociologica che ha visto una forte spinta in avanti delle donne nel mondo lavorativo con formazioni professionali sempre più specializzate (...). Ma guardando alla Francia i figli non sembrano mancare per niente! Lo Stato provvidenziale c’entra molto! Forse varrebbe la pena di ridisegnare il modello sociale per promuovere gravidanze felici, con meno fattori stressanti e un ventaglio di possibilità di aiuti in seguito. Mi è soprattutto piaciuta la Sua conclusione («Se vogliamo essere in grado

di scegliere dobbiamo confrontare per tempo le due eventualità, il sì e il no, senza lasciarci condizionare da esigenze sociali indifferenti ai desideri profondi delle persone»). Eh sì quanto ha ragione! / Margaretha Jud Carissima Margaretha, grazie del suo intervento che mi permette di riprendere un tema a me molto caro, la maternità. Non intendo l’ideale astratto che, come tutti gli ideali, suscita un generale quanto superficiale consenso. Ma il vissuto concreto delle madri, fatto del peso del pancione, delle fatiche del parto, delle difficoltà di allattamento, delle notti insonni, delle corse per portare la creatura al Nido con l’ansia di non arrivare in tempo al lavoro, della problematica condivisione dell’accudimento… ma anche di tante gioie, a cominciare dal riconoscersi capaci di generare, dal sentire la vita sorgere dentro di sé, dal condividere col compagno le fantasie dell’attesa, la sorpresa del primo incontro e così via. Una complessità che fa paura a chi, come le ragazze di oggi, è abituato a progetti lineari: la scuola, l’università, il lavoro, la carriera.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Quando le notizie si scontrano All’università di Manchester, da un murale sono stati rimossi i versi di Rudyard Kipling, scrittore inglese nato a Bombay nel 1865, Nobel nel 1907, autore di romanzi di successo, fra cui Il libro della giungla, Capitani coraggiosi, Kim. In pagine, oltretutto piacevoli, affrontava il rapporto fra dominatori e indigeni, definendolo il «fardello dell’uomo bianco». Qualcosa che aveva vissuto, in prima persona, in quell’India, ancora colonia fedele dell’impero di «Sua Maestà». Era una visione di stampo ottocentesco, ovviamente distante da quella attuale. E inaccettabile per gli studenti inglesi che, per protestare, non hanno perso tempo in discussioni. Più sbrigativamente, sono ricorsi all’iconoclastia, reazione ormai contagiosa: basta una pennellata o una picconata. Paradossalmente, proprio in ambienti evoluti, i campus universitari americani e inglesi, al

dibattito sulle idee si preferiscono le vie di fatto. Così, si abbattono statue, comprese quelle di Colombo e di Jefferson, si strappano lapidi, si sfregiano dipinti, si censurano opere letterarie, non risparmiando neppure Shakespeare. Dietro a queste bravate c’è, però, un progetto culturale ambizioso quanto assurdo: riscrivere la storia non più come una successione di avvenimenti e ideologie bensì alla luce dei diritti umani, valutando le epoche da un profilo morale. Insomma, con una bella faccia tosta, da questo tribunale si giudicano personaggi e situazioni, che risalgono a secoli o millenni fa, applicando i principi del politically correct, nato agli inizi dei nostri anni 30, per rispondere alle esigenze del XX secolo. Quando era il momento di mobilitarsi a favore dei cittadini di colore e delle donne, ancora categorie discriminate. Una


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Ambiente e Benessere Reportage da Sumatra Un viaggio tra oranghi e fiumi impetuosi; la grande isola asiatica mantiene il suo fascino

Thomas Jefferson e il vino Il futuro presidente degli Stati Uniti d’America in giovane età si appassionò all’uva francese pagina 16

È buono come il pollo Quella del tacchino è una carne nutrizionalmente ottima ma della quale si parla poco

Un’empatia guaritrice È provato dall’esperienza che un animale da compagnia può avere effetti molto benefici

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Tramontata è la notte

Inquinamento luminoso Fino a quando

potremo ancora vedere le stelle?

Jonas Marti Una notte di gennaio del 1994 le luci di Los Angeles si spensero improvvisamente. Un terremoto aveva provocato un gigantesco blackout. La conseguenza fu una raffica di telefonate allarmate alla polizia, con i cittadini preoccupati che riferivano di vedere «uno strano cielo dopo il terremoto». Gli abitanti di Los Angeles avevano visto la Via Lattea, per la prima volta. Addio notte, addio stelle. «Ubriacarsi a grandi sorsate del cielo notturno», come dicevano i poeti francesi, oggi è sempre più difficile. In alcuni luoghi addirittura impossibile. Le luci artificiali ci hanno rubato l’ancestrale oscurità. E negli ultimi anni la superficie illuminata del nostro pianeta è cresciuta di quasi il dieci per cento. Mai come oggi ogni cosa è illuminata: sul nostro comodino, nei nostri salotti, fuori per le strade, con i lampioni, le vetrine e le pubblicità. Forse abbiamo esagerato, dice qualcuno. E la nera notte rischia di sparire per sempre. In diversi non sono riusciti a vedere bene la recente eclissi lunare, nemmeno con il cannocchiale. E alzi la mano chi, la notte di San Lorenzo, è riuscito a osservare le stelle dal proprio balcone o dal proprio giardino, senza fuggire dai centri abitati, in montagna, o almeno in collina. Ma anche lì, il nero del cielo non era poi così nero. In Svizzera - dice la International Dark-Sky Association, la principale organizzazione internazionale di lotta contro l’inquinamento luminoso – è rimasto solo un luogo considerato «incontaminato»: un piccolo quadratino nella zona della Greina. In tutto il resto del territorio nazionale le tenebre sono state definitivamente sconfitte. Da oltre venti anni sull’Altipiano non c’è più nemmeno un chilometro quadrato nell’oscurità totale, lamentava qualche tempo fa Danièle Hofmann dell’Ufficio federale dell’ambiente. Mentre l’ultimo paese che aveva resistito senza illuminazione pubblica, Surrein nel Canton Grigioni, ha infine ceduto alle lusinghe della luce e ha installato recentemente una cinquantina di lampioni. Le onde prodotte dai centri urbani non conoscono ostacoli e si propagano molto lontano, spiega Stefano Klett, instancabile protettore del cielo notturno, vice presidente di Dark-Sky Switzer-

land e fondatore della sezione in lingua italiana: «L’inquinamento luminoso che provochiamo è visibile oltre i cento chilometri di distanza. Un esempio: se vado al Lucomagno e guardo verso sud vedo l’alone della Lombardia». Per rendersene conto basta osservare il bordo sinistro di una banconota da venti franchi. Se la piegate leggermente, ci vedrete riflessa la cartina della Svizzera. È la mappa dell’inquinamento luminoso. Se però non volete strizzare gli occhi, ci sono altre mappe, più grandi e leggibili. Come quella elaborata sempre da Dark-Sky Switzerland, dove la Svizzera appare quasi interamente gialla e verde, con le zone critiche, gli agglomerati urbani, colorate in rosso. «Facendo i dovuti conti, possiamo dire che nella maggior parte del territorio le stelle sono più che dimezzate in rapporto al cielo naturale. Scendendo invece dalle valli verso le zone urbane si vedono invece unicamente i pianeti e le stelle più brillanti», dice Klett. E nella Svizzera italiana? In Ticino ci sono sono tredici stazioni di misurazione distribuite sul territorio, uno dei primi network automatizzati in Europa per l’analisi dell’inquinamento luminoso. Il picco di luce – non sorprende – è nel Mendrisiotto, incuneato in una delle zone più luminose al mondo, la Pianura Padana. Al secondo posto in classifica c’è invece Lugano (con 9191 punti luce, di vario tipo e potenza), seguito da Locarno e Bellinzona. E infine ci sono le valli. Ovunque lampioni, facciate illuminate, insegne luminose. Eppure qualcosa si comincia a fare. Il primo comune a dotarsi di una regolamentazione per ridurre l’inquinamento luminoso è stato Coldrerio, nel 2007, con un’ordinanza municipale che fece molto parlare perché fu la prima in tutta la Svizzera. Dalle 24 alle 6 dovevano essere spente tutte le illuminazioni, comprese le vetrine dei negozi. Oggi diversi comuni si sono dotati di una legge, più o meno severa. Ma secondo alcuni si può e si deve fare di più. In una interrogazione dell’anno scorso rivolta dai Verdi al Municipio di Lugano si legge che «l’inquinamento luminoso prodotto dall’agglomerazione di Lugano, con i suoi 151mila abitanti è maggiore di quello dell’agglomerazione di Berna, con 410mila abitanti.» La spiegazione di Klett: «In Ti-

Il LED freddo emette un picco di luce blu che, per ragioni fisiche, si diffonde più facilmente nel cielo. (Lamiot)

cino si vuole illuminare tutto. È una tendenza che si ritrova nei cantoni latini, anche in questo caso meno attenti all’ambiente rispetto a quelli tedeschi. Prendiamo Bellinzona e San Gallo. Dalle immagini satellitari notturne San Gallo, che è più popolosa di Bellinzona, in pratica non si vede. Bellinzona è invece ben visibile. Certo: ci sono i castelli. Ma è davvero necessario illuminarli tutta la notte? A quella potenza?» Monumenti a parte, dicono gli esperti, il vero nemico mangiabuio sono i nuovi lampioni con luce LED fredda, che sempre più spesso stanno sostituendo quelli tradizionali. Gli elogi sulle qualità rivoluzionarie di questi diodi elettroluminescenti non si contano: consumano 20 volte meno energia e hanno una durata 100 volte superiore alla lampadina a incandescenza. Un

sogno ecologista, senza dubbio, che però sta aggravando l’inquinamento luminoso. Il LED freddo emette un picco di luce blu che, per ragioni fisiche, si diffonde più facilmente nel cielo rispetto alle luci calde che tendono verso il rosso. Molte autorità comunali in Svizzera si dicono consapevoli delle sue controindicazioni, ma intanto se ne continuano a installare. Anche qui, secondo Stefano Klett, basterebbe poco. «In Arizona ci sono città come Phoenix e Tucson, abitate da centinaia di migliaia di abitanti. Hanno installato i LED a luce calda, e da vedere dall’alto non sembrano così popolate. L’inquinamento luminoso è basso e infatti nella regione ci sono osservatori astronomici molto rinomati. Lì si è trasferito anche il telescopio del Vaticano, fuggito dai cieli inquinati d’Europa». Senza contare che la luce blu è quella

che ha più impatto sulla salute di uomini e animali. Inibisce la produzione di melatonina, un ormone cruciale per il nostro ciclo biologico. Ed è disastrosa per molti insetti notturni, che dipendono dall’oscurità e dalla luce naturale per orientarsi, nutrirsi e riprodursi. Forse è un sogno. Un’utopia. Ma Stefano Klett continua con la sua battaglia. «Basterebbe spegnere le luci. E l’inquinamento luminoso sparirebbe all’istante. Se, per altri inquinamenti come quello dell’aria, elimino le energie fossili ci vuole ancora tempo per risanare l’ambiente. Se elimino le fonti di luce artificiale, il risanamento è invece istantaneo». Spegnere la luce, e riaccendere le stelle. Per guardare in alto e capire che lassù c’è un intero universo, e noi non siamo altro che un piccolo pezzetto di terra sospeso nel mezzo.


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Ambiente e Benessere

Da cannibali a surfisti

Viaggiatori D’Occidente Sud-est asiatico: in viaggio lungo la Trans-Sumatran Highway

della sesta isola più estesa del pianeta Marco Moretti A Sumatra, la sesta isola più estesa del pianeta, arrivano sì e no un migliaio di viaggiatori al mese. Eppure è grande come la Francia e si trova in una regione – il Sud-est asiatico – battuta da diverse decine di milioni di turisti l’anno, con etnie singolari e una sontuosa natura selvaggia… Hanno influito le restrittive politiche indonesiane sui visti, pene pesanti per le droghe leggere e il fondamentalismo islamico di Aceh, regione provata anche dallo tsunami del 2004. Sumatra è tagliata dalla catena dei monti Bukit Barisan: corre lungo la costa ovest con un centinaio di vulcani (trentacinque attivi) fino ai 3805 metri del Kerinci. Un paesaggio corrugato servito dalla Trans-Sumatran Highway, strada ripida e stretta che in 2508 chilometri collega Banda Aceh alla punta sud, tra monti foderati di foreste pluviali e felci arboree. Si viaggia in media a trenta o quaranta chilometri l’ora. Al largo di Banda Aceh c’è Pulau Weh, un’isoletta circondata da fondali corallini, meta di pochi appassionati di snorkeling e immersioni. Dimenticate lo stereotipo dell’integralismo musulmano: a Pulau Weh servono birra e le ragazze fanno il bagno in bikini. E, come in gran parte di Sumatra, i prezzi delle guesthouse sono tra i più bassi del mondo, a partire da quattro franchi a notte per una camera doppia. Via Trans-Sumatran Highway arrivo al Gunung Leuser National Park, dove cinquemila oranghi vivono in libertà. Il villaggio di Bukit Lawang, all’estremità sud del parco, è il luogo dov’è più facile vederli durante i trekking nella giungla. Un fiume impetuoso divide il villaggio dalla selva, sul sentiero che lo costeggia si vedono varani d’acqua, serpenti, scimmie di Thomas e orchidee. In una spartana guesthouse incontro Francine Neago, vulcanica quanto controversa primatologa francese che studia questi animali da cinquant’anni anni. Francine ha contribuito a fondare questo santuario e nel 1977 è rimasta per sei mesi chiusa in una gabbia con diciotto oranghi per studiarne il comportamento e il linguaggio. Francine è una pasionaria con una vena di fol-

Sumatra, Bukit Lawang. Sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica. (Marco Moretti)

lia, racconta a tutti quelli che incontra i suoi esperimenti, a volte contestati a livello scientifico. A ottantotto anni cammina con grande fatica eppure fa progetti di lungo termine. Da Bukit Lawang in poche ore raggiungo Berestagi, la base per salire sui vulcani: sul facile Sibayak (2094 m) e sul più impegnativo Sinabung (2450 m). Da qui in quattro o cinque ore arrivo al Donau Toba, un supervulcano spento a Novecento metri di quota, con un cratere lungo cento chilometri per trenta, il maggiore lago vulcanico del pianeta. Negli anni Settanta e Ottanta Tuk Tuk, il villaggio sull’isola al centro del

lago, era frequentato dai viaggiatori quanto Bali. Gli hippy prima e i backpacker dopo si fermavano per mesi, attratti da acque blu, clima mite e la musica dei Batak, virtuosi suonatori di chitarra, abbinata a gong, violino a due corde e una sorta di xilofono. Oggi ci sono più guesthouse che turisti. I Batak sono originari del nord della Thailandia e hanno vissuto per secoli in isolamento, praticando il cannibalismo rituale. Animisti e guerrieri, stretti tra i musulmani di Aceh e quelli di Bukittinggi, resistettero per secoli all’Islam, per poi convertirsi nell’Ottocento al Cristianesimo in forme sincretiche, protestanti o cattoliche: sovrappongono il nostro

Dio a Ompung, la loro divinità creatrice e (come indù e buddisti) considerano sacro il ficus baniano. Socievoli e ospitali, costruiscono monumentali tombe con sculture, ossari e tetti arcuati, come le loro tradizionali case in legno. Il viaggio di cinquecento chilometri dal lago Toba a Bukittinggi è il più duro. La Trans-Sumatran Highway attraversa un’area d’alta montagna coperta di giungla e poco abitata. Compro un biglietto del mezzo migliore, il bus Executive a/c Toilet. I sedili sono comodi, il bagno impraticabile. Viaggiamo per sedici ore con la musica a tutto volume, giorno e notte, perché l’autista non s’addormenti. Gli indonesiani fu-

mano una sigaretta dopo l’altra, non ho mai visto accendere tante sigarette e kretek (tabacco mescolato a chiodi di garofano) come a Sumatra. Qui non ci sono divieti, si fuma ovunque, in ristoranti e mezzi di trasporto; il fumo è un collante sociale, l’omaggio offerto anche sulle tombe degli antenati, un mezzo di pagamento. Passiamo l’equatore tra le risaie terrazzate di Bonjol prima d’arrivare a Bukittinggi, il principale centro dell’etnia Minangkabau. È una città ricca e moderna: qui sono nati molti leader indonesiani e s’è costituito il primo governo indipendente. I Minangkabau sono eredi di un’antica società matriarcale convertita alla fede più maschilista: l’Islam. Pretendono di essere discendenti dai Macedoni di Alessandro Magno ma, secondo gli antropologi, sono solo un’altra etnia Malay approdata qui nel 2000 a.C. Minangkabau significa «fiume e bufalo». E forma di corna di bufalo hanno i tetti delle loro spettacolari case in legno intarsiato. Tra piantagioni di caffè, cacao, riso, avocado, betel e cannella, visito Silinduang Bulan e Belimbing, dove ci sono i migliori esempi d’architettura Minangkabau: il palazzo del re, quello della regina, le lunghe case collettive e alcuni magnifici esempi di dimore private. A est c’è invece la Harau Valley, chiusa tra le pareti d’un canyon pieno di cascate. Da Bukittinggi s’arriva in fretta a Padang, la capitale gastronomica del Paese, dove per tradizione il pasto è servito con tutte le portate sul tavolo. Padang è la base per visitare le isole Mentawai, dove vive una delle popolazioni più primitive di Sumatra: animisti che adoravano gli spiriti, convivevano coi fantasmi dei lori avi, non si tagliavano i capelli, si tatuavano il corpo e limavano i denti in forme aguzze. Tutti costumi repressi dal governo di Giacarta, ma ancora perpetuati dalle tribù più isolate, mentre la maggioranza dei Mentawaian s’è modernizzata e convertita al Cristianesimo. Da qualche tempo Siberut, la principale delle isole Mentawai, grazie alle sue gigantesche onde è diventata una meta per i surfer: è l’ultima immagine di un viaggio ricco di contrasti.

Un’automobile storica guarda al futuro Motori Presentata nella cittadina austriaca di Spielberg la nuova Jeep Wrangler Mario Alberto Cucchi Ci sono mezzi che hanno fatto la storia dell’auto e tra questi c’è la Jeep. Basti pensare che con la parola Jeep molte persone indicano in modo generale i veicoli fuoristrada. Un esempio? «Ma che bella Jeep che hai comprato» detto al neo proprietario di una Land Rover. Capita, quando la forza del nome va ol-

tre il prodotto. Quest’estate in Austria si è tenuto un raduno del Jeep Owners Group, il club che riunisce i proprietari di auto della Casa americana. Oltre 1200 persone accompagnate da 600 autovetture provenienti da 20 Paesi si sono date appuntamento per un’edizione da record. A Spielberg si sono ritrovati equipaggi provenienti da Italia, Germania, Francia, Spagna, Regno Unito,

Una panoramica del raduno di Jeep Owners Group a Spielberg.

Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Svizzera, Olanda, Polonia, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Lituania e Romania che si sono divertiti a mettere le ruote fuori dall’asfalto. Il Jeep Camp è stata l’occasione per testare su strada la nuova Jeep Wrangler (battezzata JL), di cui sono in circolazione già 5 milioni di esemplari delle versioni precedenti. Presentata al Salone di Ginevra 2018, la Jeep Wrangler discende direttamente dalla mitica Willys usata dagli americani durante la seconda guerra mondiale e mantiene le caratteristiche che hanno reso quest’ultima celebre: dalle sette feritoie della calandra anteriore ai classici fari tondi. Ma siamo nel 2018, gli uomini Jeep lo sanno bene. Ecco quindi arrivare con la nuova Wrangler una corposa iniezione di tecnologia. Dai led applicati ai fanali sino ai dispositivi di assistenza alla guida. Sono disponibili 65 sistemi elettronici tra dotazione di serie e optional. Tra questi spiccano il Blind Spot Monitoring per monitorare l’angolo cieco e il Rear Cross Traffic Alert che avvisa durante le manovre del traffico sopraggiungente. Una pecca? Manca la frenata automati-

ca d’emergenza. In dotazione invece un inedito sistema multimediale UConnect con nuove funzioni, schermi da 5, 7 o 8,4 pollici e display a sfioramento ad alta definizione. Ascoltare la musica e utilizzare il navigatore è diventato ancora più facile. Una chicca? L’inedito tettuccio che prevede tre opzioni: soft top, hard top tripartito e in tela apribile elettricamente fino a 88 km/h. Tornando al raduno va detto che in Austria sono stati messi a disposizione percorsi con diversi livelli di difficoltà che hanno consentito di mettere totalmente alla prova le capacità 4x4 della nuova Wrangler.

Oltre 1200 persone accompagnate da 600 jeep provenienti da 20 Paesi si sono date appuntamento per un raduno da record Due i sistemi di trazione integrale full time active on demand: CommandTrack e Rock-Trac, con tecnologia «shift

on the fly» che consente di passare dalle due alle quattro ruote motrici in marcia fino a 72 km/h, bloccaggi elettrici dei differenziali Tru-Lock, differenziale a slittamento limitato Track-Lok e barra stabilizzatrice anteriore a scollegamento elettronico. La Wrangler, che arriverà nelle concessionarie svizzere entro la fine del 2018, si arrampica davvero ovunque sia con la variante due porte sia con la Unlimited a quattro porte. Le novità sono anche sotto il cofano: la nuova Jeep ha infatti un nuovo propulsore turbodiesel MultiJet II di 2,2 litri da 200 cavalli e un motore turbo benzina 2.0 da 272 cavalli entrambi abbinati di serie al nuovo cambio automatico a otto rapporti, e dotati del sistema Stop-Start. Ne deriva una diminuzione del 15% del consumo e dell’emissione di CO2. Insomma, una Jeep che traghetta il mito in un nuovo concetto di mobilità che non guarda più solo alle capacità da fuoristrada. A prova di questo ecco l’annuncio che a partire dal 2020 la nuova Wrangler riceverà in dote una variante ibrida plugin, a conferma della graduale elettrificazione di tutto il Gruppo FCA.


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I s’impegnano per il benessere degli animali. Per questo quando preparano le grigliate fanno attenzione ai marchi di qua lità come TerraSuisse. Così hanno la cer tezza che oltre 11’000 contadini lavorano con direttive rigide, che gli animali vengono trat tati in modo adatto alla loro specie e che dispongono di amp ie aree per le uscite all’aper to. Il risultato: carne di qualità con la coscienza pulita.


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Ambiente e Benessere

Un americano a Parigi

Scelto per voi

Il vino nella storia Thomas Jefferson soggiornò in Francia dal 1784 al 1789 appassionandosi

all’intero mondo della viticoltura prima di tornare in America Davide Comoli Niente paura! Abbiamo solo preso in prestito la nota composizione dello statunitense George Gershwin per introdurre un personaggio a cui va il merito di aver fatto conoscere i grandi cru francesi (e non solo) alla allora giovane Nazione americana. Sofisticato rivoluzionario, più pensatore che brillante, più riservato che timido, più studioso che pedante, più esteta che gaudente, Thomas Jefferson (1743-1826) fu una persona fuori dal comune e il suo soggiorno in Francia fece epoca per il raffinato savoir-vivre tanto in voga in quel tempo. Fu un autentico figlio del secolo dei Lumi, erudito avvocato dell’aristocrazia virginiana, discepolo positivistico di Bacon e Newton ed illuminato contemporaneo degli Enciclopedisti francesi, con i quali amava molto disquisire. Terza generazione dei coloni del Nuovo Mondo, Jefferson possedeva un certo fervore ereditato dai suoi avi per la terra e per tutto quello inerente all’agricoltura, aveva infatti ottime conoscenze in agronomia, in geologia e in botanica. A Parigi, dove giunse come ministro plenipotenziario in rappresentanza dei giovani Stati Uniti d’America, venne ricevuto nei più famosi salotti letterari, scientifici e mondani dell’epoca. Per il suo ruolo, talvolta fu persino ricevuto alla corte di Luigi XVI del quale poco apprezzava gli intrighi e gli artifizi. In compenso ritrova un grande amico, Gilbert du Motier de La Fayette (1757-1834) con il quale aveva combattuto durante la guerra d’indipendenza americana (1777). La missione in Francia di Jefferson durò dal 1784 al 1789. Alla sua tavola, presso l’hotel Langeac dove prese alloggio, egli ebbe molti ospiti e sorvegliò personalmente la qualità della cucina e il servizio dei migliori vini. In Francia, Jefferson scoprì di avere un grande interesse per l’enogastronomia, sia per una sua personale inclinazione, sia per

far brillare il più possibile l’immagine americana. Contadino nell’anima, ma epicureo gourmet egli s’interessò all’agricoltura durante i suoi viaggi in territorio francese e italiano, ma fu soprattutto la viticoltura e l’intero mondo del vino ad appassionarlo molto. Lo studio dei vitigni non portò Jefferson a desiderare l’importazione della viticoltura negli Stati Uniti, ma al contrario: egli diffidava di un’economia basata sulla monocultura della vigna, secondo quanto scrisse nelle let-

tere inviate all’amico William Henry Drayton. Furono invece osservati con interesse da Jefferson la produzione di piselli, delle fragole e del granoturco, mentre in Italia, nel vercellese, scoprì una varietà di riso che egli propose d’acclimatare nel sud Carolina. Dalle sue lettere emerge che per Jefferson il buon vino era legato intimamente al relazionarsi civile, alle buone maniere, all’arte del vivere, che prevedevano l’uso di questa bevanda in modo misurato. Era anche convinto che il consumo del vino fosse un antidoto all’alcolismo dilagante nel suo Paese d’origine, dove s’abusava di distillato di mais e frumento. Quando divenne Presidente degli Stati Uniti (1807) fece quindi modificare, diminuendole, le tariffe d’importazione dei vini. Da studioso d’agronomia, Jefferson restò affascinato dalle molte discipline legate alla viticoltura, così come fu impressionato dalla portata degli sforzi umani richiesti per ottenere una qualità ottimale nei vini. A Bordeaux, Jefferson andò alla ricerca dell’eccellenza, uomo d’ordine e metodico, seguì la sua inclinazione enciclopedica, stilando una lista gerarchica delle principali proprietà viticole della Gironda, 70 anni prima della classificazione dei crus bordolesi (1855). L’interesse per la viticoltura è dimostrato anche dal suo impegno volto a crearsi una cantina personale: trascorse molto tempo a degustare prima di comprare, non s’accontentò mai della sola reputazione di un Château o di un vino. Non fu dunque un «bevitore d’etichette» come lo definiremmo ai giorni nostri. Fu così che egli forgiò la propria reputazione di connaisseur diventando anche punto di riferimento e consigliere agli acquisti di molti suoi connazionali. È evidente come Jefferson fu uno dei più grandi esperti di vini nella sua epoca. Di ogni regione attraversata, Thomas Jefferson osservò prima di tutto la composizione e il colore dei terreni,

In aggiunta alle oltre 400 etichette In aggiunta alle oltre 400 etichette In aggiunta alle oltre 400 etichette La statua di Thomas Jefferson a Parigi. (Guilhem Vellut)

cercando di stabilire delle correlazioni tra i biotopi visitati con quelli della sua Virginia, esempi che avrebbero potuto servire in seguito… Nel suo peregrinare incontrò casualmente il celebre agronomo inglese Arthur Young, ma né i loro obiettivi né i loro metodi d’osservazione collimarono. A Bordeaux, Jefferson non solo volle conoscere la gerarchia dei crus, ma desiderò imparare le pratiche di coltivazione e vinificazione (i suoi commenti sulle tecniche d’innesto ci stupiscono ancora oggi). Noi che viviamo in questo secolo siamo legati a una conoscenza post-filossera, infatti nel XVIII sec. la Philossera vastatrix ancora non minacciava i vigneti europei. Gli innesti di cui parla Jefferson non servivano per combattere parassiti della vigna, ma a riprodurre vitigni più forti secondo una tecnica descritta dall’agronomo Nicolas Bidet nel suo trattato Traité sur la nature et sur la culture de la vigne nel 1759. Jefferson fece anche riferimento alla qualità del vino rapportandolo all’età delle vigne (le quali necessitano di almeno tre o quatto interventi all’anno) e menzionò l’uso del letame, scrivendo che il pieno rendimento di una vigna sia per qualità sia per quantità viene raggiunta al 25° anno d’età del ceppo. Dopo quasi cinque anni di diplomazia politico-economica, Jefferson dovette rientrare, con la speranza però di poter presto ritornare a Parigi, ma già spirava il vento della Rivoluzione e per cui non riuscirà più ad assaporare in Francia i vini che amava divenuti «repubblicani». Le cronache narrano che tra i suoi bagagli ci fossero delle barbatelle di vite; gli amici della Borgogna giurarono che fossero di Pinot Nero e Chardonnay, noi con sicurezza sappiamo che a bordo c’erano 41 barbatelle di Cabernet, destinate a rappresentare la viticoltura di Bordeaux a Monticello in Virginia dove aveva casa Jefferson e sappiamo pure che quelle barbatelle non si acclimatarono mai.

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Le calde giornate e le tiepide serate invogliano a un’alimentazione semplice e leggera. I freschi ingredienti di questa stagione permettono di preparare con facilità piatti appetitosi senza passare troppo tempo al caldo in cucina, creando combinazioni sfiziose. Con il suo colore paglierino luminoso il «Clos Floridene», vino bianco delle Graves che trovate nelle nostre Enoteche, è un ottimo compagno per i tartare di pesce o i carpacci di spada e tonno affumicati, ma anche per le varie salades composées, fra tutte la famosa Niçoise. I deliziosi sentori di vitigni Sauvignon Blanc e Semillon elevati in barriques nuove evocano, infatti, aromi di fiori bianchi, fiori d’acacia, frutti a polpa bianca come la mela cotogna e note d’albicocca. In bocca troviamo la freschezza di un sorbetto alla frutta e una discreta sapidità, con un leggero retrogusto di vaniglia che ricorda il legno tostato. L’enologo Denis Dubourdieu, grande esperto della vinificazione in bianco, nel suo vigneto ha prodotto questo vino, che abbiamo voluto provare con la nuova linea di Sushi creata dalla Migros, non vi resta che provarlo (buon appetito). / DC

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Ambiente e Benessere

Non solo per il «ringraziamento» Parliamo un po’ di tacchino: una carne nutrizionalmente ottima ma della quale si parla poco, per motivi che non riesco a capire. È un uccello galliforme di notevoli dimensioni originario del Nordamerica. Negli Stati Uniti è considerato quasi un emblema nazionale e il giorno del Ringraziamento, ovvero il quarto giovedì di Novembre, grande festa condivisa, viene celebrato mangiando il tacchino; è quasi un dovere sociale. Detto anche pollo gallo d’India o dindo, fu introdotto in Spagna nel Cinquecento, e si diffuse poi in tutta Europa, soprattutto in Gran Bretagna, Paesi Bassi e Francia. Le razze principali sono una decina, che però vengono oggi selezionate e incrociate, con l’obiettivo di sviluppare ibridi carnosi, più interessanti per la produzione e il mercato.

Il tacchino intero può essere farcito in vari modi, per esempio con marroni o carne tritata, o solo cotto arrosto Dal punto di vista merceologico, si distinguono tre tipi di tacchino: leggero e medio, destinati ai consumatori che desiderano volatili interi, e pesante, che viene venduto a porzioni. Pur rappresentando tradizionalmente un piatto festivo, il tacchino viene oggi consumato durante tutto l’anno: la sua carne, infatti, ricca di proteine, ferro e sali minerali, ha un’alta qualità nutrizionale, è tenera e facilmente digeribile. Dal punto di vista gastronomico, i volatili di razza piccola, allevati soprattutto in vista del periodo natalizio, sono molto più saporiti rispetto a quelli allevati intensivamente, a crescita rapida, allo scopo di ottenere animali precoci e re-

sistenti, con poche ossa e tanta carne. Potendo scegliere, sono comunque da preferire gli esemplari allevati all’aperto, che presentano il petto meno sviluppato, a vantaggio della muscolatura restante. Le carni del maschio e della femmina si equivalgono quanto a valore alimentare; tuttavia migliore in assoluto è la tacchina di 80-90 giorni, di peso sui 4 kg lordi, che presenta una carne tenera e grassa, mentre i maschi, in genere, arrivano facilmente ai 6 kg, ma hanno una carne molto più consistente, che richiede cotture più lunghe. Come tutti gli altri volatili, per poter essere cucinato il tacchino deve essere spiumato, svuotato delle interiora, decapitato, privato delle estremità delle ali e delle zampe; inoltre è bene che sia anche fiammeggiato. Se si vogliono cuocere animali interi è utile tener presente che la coscia, dalla carne più scura e grassa – così come il collo e i fianchi – resta tenera più a lungo, mentre il petto, più magro e chiaro, asciuga rapidamente: è quindi opportuno bardarlo con lardo, che andrà poi eliminato 20-30 minuti prima che la cottura sia completata in modo da rendere croccante la pelle. Se disossato (ma non cercate di farlo a casa, è arduo), il tacchino può essere farcito in vari modi, per esempio con marroni o carne tritata, oppure semplicemente cotto arrosto. Il tacchino a pezzi, invece, può essere lessato, stufato, cotto a vapore o fritto, esattamente come si fa con il pollo (le cui ricette si adattano perfettamente al tacchino, con l’unica accortezza che vanno adeguati i tempi di cottura). In commercio si trovano vari tagli: oltre a cosce, sovracosce, ali e collo, si possono acquistare il petto, lo spezzatino o l’ossobuco (ricavato dalla coscia). Quali ricette lo esaltano al meglio? Io amo la tacchina, disossata e bollita, servita fredda nella sua gelatina. Ma anche farcito con un ripieno a base di salsiccia grassa e arrostito in forno.

CSF (come si fa)

Pxhere.com

Allan Bay

Pxhere.com

Gastronomia Ottima scelta da portare in tavola per le festività, la carne di tacchino è molto nutriente e versatile

Il tajine è uno stufato a base di carne, pesce o verdura tipico della cucina nordafricana, in particolare berbera. Prende il nome dall’omonimo, caratteristico recipiente di terracotta nel quale il cibo viene cotto in umido e servito: spesso smaltato o decorato, è dotato di un coperchio di forma conica, appositamente studiato per trattenere il vapore all’interno e agevolare il

deposito della condensa. In origine la cottura avveniva appoggiando il recipiente sulla brace; in seguito ne sono stati realizzati con base metallica, in grado di sopportare le alte temperature e la fiamma dei moderni fornelli a gas. Questo detto, i tajine si possono fare in una normale casseruola con coperchio pesante. Numerose le varianti di tajine; tra le più conosciute, il mqualli (pollo con limone e olive), il kefta (polpette di manzo al pomodoro) e il mrouzia (agnello con prugne e mandorle). Agli ingredienti principali vengono poi aggiunti vari aromi e spezie, tra cui cannella, curcuma, zafferano, coriandolo, zenzero, paprika, aglio e pepe. In alternativa lo stufato può essere preparato con tonno, sardine, mele cotogne caramellate e verdure varie.

Vediamo come si fa una versione classica: tajine di agnello, datteri e frutta. Per 4. Tagliate a grossi dadi 1 kg di spalla di agnello. Dopo aver pelato e tritato 2 cipolle, sbucciate e spezzettate 500 g di frutta a piacere e fatela rosolare in una padellina con poco burro per 5’. Mettete l’agnello e le cipolle in una casseruola e coprite a filo con brodo (di agnello o vegetale) o acqua. Una volta portato a ebollizione, fate sobbollire all’incirca per un’ora, finché la carne risulta tenera (i tempi tuttavia variano a seconda dell’animale). A 5 minuti dalla fine, aggiungete 16 datteri denocciolati e divisi a metà. A fine cottura unite alla carne la frutta, paprika, coriandolo tritato e zenzero e una bustina di zafferano, quindi mescolate, regolate di sale e di pepe e servite ben caldo.

Ballando coi gusti Oggi due ghiotti piatti a base di pesci nobili: cernia e pesce spada. Peraltro ben facili da preparare.

Cernia al pomodoro

Spezzatino di pesce spada

Ingredienti per 4 persone: 4 tranci di cernia da 250 g l’una · 8 pomodorini a buccia sottile · 1 spicchio di aglio · prezzemolo · 1 limone · olio d’oliva · sale e pepe.

Ingredienti per 4 persone: 800 g di pesce spada · 12 olive verdi denocciolate · 8 carciofini sott’olio · 1 manciata di capperi sotto sale · prezzemolo · aglio · mezzo limone · olio di oliva · sale e peperoncino.

Lavate i tranci di cernia e asciugateli tamponandoli con carta assorbente da cucina. Tagliate i pomodorini in 4 parti. Pennellate di olio una pirofila da forno, mettete sopra i tranci di pesce, aggiungete i pomodorini e il limone tagliato a fettine e cospargete con un trito di aglio e prezzemolo. Irrorate con poco olio e mezzo bicchiere di acqua e fate cuocere in forno a 180° per 15 minuti. Regolate di sale e di pepe e servite.

Tagliate a bocconi il pesce spada. Dividete a metà le olive e i carciofini ben scolati. Tritate il prezzemolo. Spezzettate l’aglio. Dissalate i capperi. Tagliate a fette il mezzo limone e poi ogni fetta in 4 parti. Scaldate in una padella poco olio con l’aglio, unite il pesce spada e rosolatelo per 1 minuto. Aggiungete le olive, i carciofini, i capperi, il prezzemolo e il limone e cuocete per pochi minuti, mescolando delicatamente. Regolate di sale e di peperoncino e servite.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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E T R E 19 T O O D e Benessere T R O S Ambiente I O T A O

Il potere terapeutico di amici speciali 31

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Mondoanimale Ci aiutano anche senza il dono della parola, perché sono in grado di adeguarsi ai nostri stati d’animo

(N. 30 - ... lo spagnolo a causa della carnagione scura)

Maria Grazia Buletti «Gli animali sono lo specchio delle nostre emozioni», questa è la somma sintesi del pensiero di Alberto Dal Negro. Laureato in economia e commercio, Dal Negro si impegna per circa un ventennio nella progettazione e nella realizzazione di percorsi formativi per le persone con problemi di inclusione sociale. Nel perseguire i propri obiettivi in aiuto dei disadattati, perché possano ritrovare un senso emotivo al proprio vivere, egli fonda nel 2003 una cooperativa sociale (GliamicidiSari) nell’ambito degli interventi assistiti con gli animali. Lì si concilia la forte tensione al benessere della sua comunità e al bisogno dei suoi assistiti di dare un senso profondo alla quotidianità. Chi vive con un animale domestico conosce alla perfezione quel rapporto profondo che si instaura tra essere umano e animale. Ma spesso non ci si sofferma a riflettere su quanto i nostri compagni a quattro zampe siano indissolubilmente legati a noi. A suffragio di ciò, nel suo libro Il potere terapeutico degli animali (Macro edizioni) Alberto Dal Negro racconta della femmina di labrador di famiglia, Sari, che aveva accusato un crollo fisico improvviso, malgrado fosse sempre stato un cane pieno di energia e mai aveva mostrato sintomi di sorta: «Improvvisamente, all’età di 9 anni, è arrivato un cedimento: artrosi, displasia all’ultimo stadio alla zampa anteriore, perdita diffusa di energia. Questo subito dopo che il suo amico Tobia, il meticcio labrador che viveva con noi e condivideva con lei cuccia e giochi, è venuto a mancare. Con mia moglie (anche lei molto abbattuta dalla morte di Tobia)

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È sempre più confermata la grande intesa che può esserci tra persone e animali. (Pexels)

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della nostra anima, i nostri R A Sspecchio P SUDOKU A G diOintelligenza: PER AZ animali dispongono «Alcuni hanno anche consapevolezza O L O di sé, Ae lo osserviamo C E quando R dimoN. 29 FACILE strano di sapersi riconoscere allo specN A S Schema Achio». La pubblicazione E N dei Ddue veterinari si completa, grazie alle numerose B E Losservazioni L sugli animali I Iin cura dalla 9 8 dottoressa 4 Baumgartner, 7 3 con le spiega5 zioni dei motivi per i quali gli animali I A Tdomestici I R N 7 6 1 possono soffrire8di alcune 9 malattie. Questo legame speciale e forte S A che unisce G l’animale I Na noi,Aci permette 9 2 4 dunque di relazionarci ai nostri comT O N I viaggio conEla consapevolezza R pagni di 9 che questo rapporto 1 8 speciale costituR I Sisca la migliore C opportunità O I per la nostra evoluzione 4 6 3personale. 1 Tale consapevolezza O U di partenza R A N Aè il punto di Alberto Dal Negro nel

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ci siamo rivolti al nostro veterinario di fiducia, Stefano Cattinelli, che sa vedere oltre la semplice apparenza e che os1 2 3 4 servando la nostra Sari mentre si muoveva davanti e intorno a lui, ha iniziato 7 a fare parallelismi “strani”8fra la situa- 9 zione fisica del cane e quella emotiva di mia moglie». 10 11 Dal Negro e la moglie si sono onestamente resi 13 conto che il veterinario 14 aveva visto giusto: «Non potevamo negare l’evidenza e il messaggio era per 15 per chi, all’in- 16 noi: più specificatamente terno del nostro nucleo famigliare, era più legato e affine 21 a Sari, cioè 22 mia23moglie». A quel punto viene da chiedersi come una disarmonia 26 27 interiore dell’es- 28 sere umano a cui l’animale è emotivamente attaccato possa davvero incidere 31 così significativamente sulla ripresa fisica del cane: «Quando ci sei dentro, il 35 forte e chiaro e “senmessaggio arriva

ti” che è proprio così. Lo provi sulla

(N. 31 - Nel millenovecento a Parigi) tua pelle, con la “forza dell’amore” per

il tuo animale che ti offre uno stimolo 5 6 unico, tanto gli vuoi bene». A sostegno della tesi del veterinario e di Dal Negro, quel particolare filo esistente fra uomo e animale è ben approfondito in un’altra pubblicazione: 12 Animali Specchio dell’Anima (Macro edizioni) scritto a quattro mani dal veterinario omeopata Ruediger Dahlke e dalla dottoressa Irmgard Baumgartner. 17 20 L’attenta pratica18 clinica della 19 dottoressa Baumgartner le ha permesso di evidenziare 24 parecchi esempi che dimostrano 25 come gli animali, in modo del tutto naturale, rispecchiano e 30 sono in sintonia 29 con la nostra anima «nel tentativo di alleggerirla quando ne abbiamo biso32 33 34 gno». Il profondo legame che li rende inseparabili dalle persone con cui vi36 vono fa sì che essi provino le loro stes-

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se emozioni, riuscendo a condividerne gioie e malesseri. Come Sari ha fatto 6animali poscon la sua proprietaria, gli sono allora arrivare addirittura ad ammalarsi con noi, evidenziando i nostri 5 stati d’animo, perché sono in grado di sentire le nostre emozioni. La dottoressa racconta: «Cani e gatti reagiscono in modo chiaro e semplice quando ai loro amici umani accadono eventi trauma9 tici come separazioni, lutti, cambio di casa e quant’altro». 1 Il suo collega, pure grande esperto e amante di animali, completa queste 2 osservazioni attraverso le sue personali esperienze. Egli dimostra, ad esempio, come gli animali domestici possano anche ammalarsi delle stesse malattie delle persone con cui vivono, proprio perché in grado di riconoscere i loro stati d’animo. I due autori si spingono oltre affermando che, oltre ad essere lo

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coinvolgimento degli animali per i percorsi formativi delle persone con pro7 3 4 6 blemi di inclusione sociale: «Gli animali sono in grado di provare sentimenti e 8 Addirittura, 1 3 gli persino avere pensieri. animali divengono talmente un tutt’uno 1con i loro umani, 6 da rendere sfumati i confini tra le parti, fino ad assumersi (in caso di necessità) i problemi e le tematiche umane, vivendole in luogo dell’altro o con l’altro». Un’affermazione confermata 3 dal veterinario Cattinelli che racconta come si sia sentito dire infinite 6 volte dai proprietari dei8suoi piccoli pazienti: «Il mio cane (o il mio gatto) è la mia ombra». Un’ombra che 8 Dal Negro interpreta come un 5 dono offertoci da quelli che definisce «questi splendidi esseri viventi». Il 7 comune denominatore fra Dal Negro e i veterinari2citati7 sta in 1 una consapevolezza così 9 riassunta: «Vivere assieme agli animali, per noi tutti, significa aprire gli occhi 4 2 3 verso i bisogni della nostra anima».

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S U R A A P T R A R A G L I I M O 6

Vinci una delle 3 con il cruciverba 5 6 4 e(N.una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 29 - Duemila trecento trentotto) (N. 32 - ... scoprire che il prigioniero eri tu) 7 8 1 D U E M I R O L A 1 2 3 4 5 6 7 8 Sudoku IS N CT O A P R N. EAN31 A DIFFICILE AC R D I R E 2

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VERTICALI 1. Bulbo commestibile 2. Giacimento marmifero 3. Provocante, scandaloso 4. Misura l’acidità o la basicità di una soluzione 5. Vive nei fondali marini 6. Quinto satellite di Saturno 7. Il sì russo 8. Liti con percosse 10. La showgirl Yespica 12. Spennano i polli con le carte 13. Un punto del ricamo 14. Lo è il mulo per antonomasia 16. Poggiano sullo scalmo 17. Soccorso poetico 18. Oggetti tondeggianti 19. Tribunale della Santa Sede 21. Regola, precetto

32 22. Dà vita a uno spettacolo coi fiocchi 24. Segno matematico 33 34 25. Niente a Parigi 35 36 27. Monete rumene 28. Dopo il «bi» 29. Quarantanove romani (N. 31 - Nel millenovecento a Parigi) 30. C’era una volta...

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

Partecipazione inserire laeri tu) luzione, corredata da nome, 4cognome, 1 9 3 (N. 32 - ... scoprireonline: che il prigioniero

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F. Sartore, C. Simoni, S. Sbrancia 27 28 29 30

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Vincitori del concorso Sudoku 33 su «Azione 33», del 3213.08.2018

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C. Pellegrini, A. Frigerio

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soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so2

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N. 32 GENI

I1 L A N E R2 O V V E I T C E R1 O S5 A L6 E S A

6 L O I E 2 C7 O4 S A O N L7 A8

E S L8 1 T A E1 N9 E T2 E I4 4 R E

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S U R A A 3 P T R A6 R A G2 L I 1 1 I M O

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8 5 Sessere C Ospedita P A a «Redazione A R D I Azione, R E CConcorsi, A S H C.P. A6315, L 3E6901 A Lugano». I7 Non si intratterrà corrispondenza A V 9E B I G 5A 6 E S Tsui concorsi. Le vie escluse. Non L A R A legali D A sono 7A R S E

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N. 31 DIFFICILE

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I 4 CC I Ai 3 SS M H S H A O O L1 D E9A Scoprire 13 14 numeri corretti I S O U T O N N O Ainserire V E B I8 G A E S T da R E nelleT R E 17 caselle colorate. RO DA D A A R S E NL A AT O 3 19 A R T R O S I O P E R A R I B E S M I O T A O 22 9 5 6 G N O M I PER N O - TAGOSTO A 2018 T SUDOKU AZIONE 24 25 7 (N. 30 - ... lo spagnolo a causa della carnagione scura) N. 29O FACILE N M I M E T A R A Soluzione 28 F L O Schema R A S P A G O 3 2 8 O R I L E V A T I R 7 13 1 9 8 2 4 9 8 4 7 3 5 R N O L O A C E R 30 1 5 4 A7 U M N6 A1 IS AE 8N E 9 NE D F7 2R 3 E6 D 5 4 6 3 9 8 2 32 N E4 O B9 E L 2 L I I T A G L I O S U N4 O 2 35I 96 7 1 6 1 T8 I 4 A S C9 I A R8 N 26

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ORIZZONTALI 1. Un gioco con le carte 5. Osare 9. Denaro in contanti 10. Rischio, azzardo 11. Le nonne di una volta 12. Antico veicolo greco-romano 13. Si distingue all’alba 15. Nota musicale 16. Insenatura costiera 17. Bruciate 18. Un anagramma di arpe 19. Un frutto 20. Piccoli barbuti 22. Una come il 15 orizzontale 23. I propri... sono propri 24. Si tenta di raggiungerla 25. Viene in camera dopo me... 26. Nell’1 orizzontale sono anche chiamati denari 27. Macchina semplice 28. Un gigante per strada... 29. Hanno la criniera sulla schiena 30. Il famoso Astaire 31. Lo esegue il parrucchiere 32. Animale con il grugno

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Cruciverba Perdonare è liberare un prigioniero per poi… Completa la frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate (Frase: 8, 3, 2, 11, 3, 2)

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è possibile 6 7 un1 pagamento 9 5 8 in2 contanti 4 3 dei premi. I vincitori saranno avvertiti 3 8 9 2 4 7 1 6 5 per iscritto. Il nome dei vincitori sarà 4 2su 5 1 6 Partecipazione 3 9 8 7 pubblicato «Azione». riservata esclusivamente 1 9 4 8 7 5a lettori 6 3 che 2 risiedono in Svizzera.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Politica e Economia Benvenuto in Irlanda È lo spirito con cui Papa Francesco è stato accolto nell’Isola verde dopo anni di difficili rapporti fra Vaticano e Dublino a causa dell’immenso scandalo della pedofilia esploso tra gli anni Novanta e Duemila

Criminalità finanziaria in agguato Oltre a casi di reati come quelli avvenuti alla Raiffeisen, oggi preoccupano le possibilità di delinquere fornite dalle moderne tecnologie

Trump nei guai

Casa Bianca L a condanna dell’ex capo del comitato elettorale Paul

pagina 23

Manafort e l’autoaccusa dell’ex avvocato personale e amico di Trump, Michael Cohen, hanno messo il presidente in grandissima difficoltà

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Federico Rampini pagina 21

Da sinistra, Di Maio, Conte, Salvini rappresentano forze politiche in concorrenza fra loro. (AFP)

Italia sorvegliata speciale Bilancio Il governo Conte resta sotto l’occhio di partner che non lo considerano affatto affidabile e sanno bene

che un’eventuale catastrofe ricadrebbe anche su di loro Lucio Caracciolo Il nuovo governo italiano presieduto da Giuseppe Conte ha quasi cento giorni di vita. «Presieduto» è termine improprio. Si tratta di fatto di un ministero copresieduto dai leader dei due partner del contratto di governo, Luigi Di Maio (vicepresidente e ministro del Lavoro) per il Movimento 5 Stelle e Matteo Salvini (vicepresidente e ministro dell’Interno) per la Lega. Quasi l’idealtipo di quello che gli americani chiamerebbero un «team of rivals», ovvero una squadra formata da partiti assai diversi e soprattutto concorrenti. Ulteriore precisazione: anche se il risultato elettorale del 4 marzo dava i 5 Stelle in netto vantaggio, come primo partito, sulla Lega, quest’ultima è ormai indicata dai sondaggi allo stesso livello di intenzioni di voto dei soci/rivali. Grazie soprattutto alla personalità e all’incisività non solo mediatica di Salvini, che ha subito messo in ombra l’altro console, assai giovane e inesperto. Ma grazie anche al fatto che la Lega è un partito vero, strutturato e ancorato

al territorio ormai non più solo settentrionale, mentre il Movimento dei grillini è tuttora allo stato gassoso e potrebbe evaporare rapidamente o spaccarsi. Ciò porta alcuni analisti a prevedere che il governo Conte durerà fino a maggio, quando la Lega cercherà un pretesto per andare alle urne non solo per il voto relativo al Parlamento europeo, ma per rinnovare contestualmente il Parlamento italiano. Le forze politiche che fanno parte di questa strana coalizione amano parlare di «governo del cambiamento». Ma lo spazio per cambiamenti davvero profondi manca – e mancherà probabilmente anche il tempo. Il governo italiano è stretto fra i vincoli europei – che cerca disperatamente di allentare malgrado il 130% di rapporto debito/ pil non lasci grandi spazi di manovra – e la pressione dei mercati finanziari, pronti ad avventarsi sull’Italia nel caso dovessero avvertire qualche scricchiolio sinistro. Ciò che per ora salva Roma – oltre al quantitative easing perseguito dalla Bce di Mario Draghi, ormai in via di scadenza – è la consa-

pevolezza generale che una bancarotta italiana segnerebbe probabilmente la fine dell’euro e con essa di ciò che resta dell’Unione Europea, almeno come l’abbiamo finora conosciuta. Per questo sia la Germania che gli stessi Stati Uniti hanno fatto del loro meglio, in questi ultimi anni, per impedire che l’Italia finisse a gambe all’aria, in stile Grecia moltiplicata per dieci. Un evento che avrebbe ripercussioni non solo in Europa, ma nel sistema finanziario e nell’economia globale. Resta che finora dei ventilati progetti di flat tax (Lega) e di reddito di cittadinanza (Movimento 5 Stelle) non si è visto nulla. E molto probabilmente nulla – o quasi – si vedrà, considerati i vincoli citati. A meno che il dilettantismo e l’incoscienza di qualche ministro non provochi un effetto valanga involontario. Ipotesi da non escludere, considerata l’inesperienza di quasi tutti i membri del governo e la difficoltà per i poteri profondi dello Stato, a cominciare dal Quirinale, di vegliare sul gabinetto Conte per impedire che sbandi. L’unico terreno dove il cambia-

mento c’è stato, e assai visibile, è quello del contenimento dei flussi migratori. I quali si erano peraltro ridotti dei quattro quinti nell’ultimo anno, grazie anche all’iniziativa del predecessore di Salvini al Viminale, Marco Minniti. Il neo ministro e capo della Lega ha subito stabilito una linea durissima, di fatto respingendo i migranti in arrivo dalla Libia anche quando venivano imbarcati e salvati da una nave della Capitaneria di Porto italiana – come nel famigerato frangente della «Diciotti». Caso finora unico di uno Stato che respinge una propria nave. Obiettivo: costringere i soci europei a farsi carico di una quota rilevante degli immigrati in arrivo dall’Africa. E, sullo sfondo ma decisivo, guadagnare consensi e voti in vista delle prossime elezioni. Dalle quali Salvini conta di uscire come leader del partito di maggioranza relativa, primo ministro in pectore. Altra caratteristica di questo governo è l’ostilità reciproca, appena mascherata, nei confronti dei classici paesi guida dell’Unione Europea, Francia e Germania. Specie con Parigi

sembra che Roma abbia ingaggiato un torneo a 360 gradi, dagli investimenti francesi in Italia alla questione migratoria e alla Libia. Mentre molte affinità si riscontrano con i governi dell’ex Est e della Mitteleuropa, di tono neonazionalista e soprattutto ostili ai migranti. Di più: sia Salvini che di Maio (ma soprattutto il primo) coltivano relazioni privilegiate con la Russia, specificamente con il partito di Putin. Rapporti che hanno ovviamente anche un lato finanziario. Conte ha intanto trovato una notevole consonanza, almeno verbale, con Trump – guarda caso sui migranti e sulla Russia. Ma visti i guai in cui si trova oggi il presidente degli Stati Uniti, e considerata la guerra nemmeno troppo sotterranea che gli muovono gli apparati americani, i buoni rapporti personali non significano affatto una maggiore prossimità fra Roma e Washington. L’Italia naviga a vista. Sorvegliata da partner che non la considerano affatto affidabile. E che sanno bene come un’eventuale catastrofe italiana ricadrebbe, in parte, su di loro.

L’attenzione di mezza America la settimana scorsa non era sui problemi giudiziari di Trump: la tv di destra Fox News apriva i suoi telegiornali sul feroce assassinio di una studentessa da parte di un giovane clandestino immigrato dal Messico in Iowa. Questo serve a ricordarci gli effetti della «bolla mediatica» in cui viviamo: ciascuno assorbe notizie dal proprio mondo di riferimento, universi paralleli coesistono senza conoscere l’esistenza l’uno dell’altro. Per l’altra metà dell’America il personaggio della settimana non era l’immigrato assassino bensì Michael Cohen. Dal cerchio magico degli intimi, al girone infernale dei nemici: è stata rapida la parabola dell’uomo che potrebbe trascinare il presidente degli Stati Uniti verso l’impeachment. 52enne, l’avvocato Cohen è stato per 12 anni il «fixer» (letteralmente «l’aggiustatore», il risolvi-grane) dell’immobiliarista newyorchese. Oltre che affarista in proprio, evasore fiscale, ecc. ecc. Con incarichi svariati ma vicinissimi al tycoon: non solo legale personale di Trump ma vicepresidente di due società familiari e della fondazione filantropica intitolata al figlio. È in questo ruolo di trafficante tuttofare con l’incarico di affrontare i pasticci più intricati, che Cohen ha pagato la pornostar Stormy Daniels perché tacesse sulla «notte di sesso» con Trump. Ha anche pagato in modo tortuoso un tabloid perché bloccasse le rivelazioni di un’altra pornostar. Questi pagamenti costituiscono un reato federale e dopo la confessione Cohen rischia (salvo sconti) dai quattro ai cinque anni di carcere. Ha coinvolto la responsabilità del presidente: non solo quei soldi venivano da Trump, ma lui stesso ordinò il reato e quindi è a sua volta colpevole. Questa è una vicenda in cui si è imbattuto per caso il super-inquirente Robert Mueller, che l’ha stralciata e affidata ai giudici federali di New York, visto che esula dal suo mandato sul Russiagate. Trump continua a smentire di aver ordinato i pagamenti alle porno-star. Ma se arriverà il momento in cui la sua parola e quella di Cohen verranno messe a confronto, c’è il rischio che l’ex-avvocato abbia dalla sua un bel po’ di prove: a cominciare dalle date dei trasferimenti di fondi con cui la società di Trump gli fornì l’occorrente per tacitare Stormy Daniels. Trump ha già

disseminato menzogne via Twitter, ha dato versioni contraddittorie di cui alcune palesemente false. Finché le bugie viaggiano sui social media non hanno rilevanza da impeachment. Ma «perjury under oath», cioè la menzogna in una deposizione sotto giuramento, è reato da impeachment. È la buccia di banana su cui scivolò Bill Clinton. Fare sesso con una giovane adulta consenziente (Monica Lewinski) non è reato, ma lo incastrarono in modo quasi fatale – la Camera votò l’impeachment – sulle bugie con cui cercò di occultare l’episodio. Dopo questi sviluppi l’impeachment di Donald Trump è diventato possibile (non ancora probabile). Gli sviluppi drammatici dei processi ai suoi ex-collaboratori, offrono per la prima volta l’appiglio concreto per avviare la messa in stato d’accusa e poi la destituzione del presidente degli Stati Uniti. Un evento mai portato a termine nella storia, e con due soli precedenti di impeachment iniziati, non conclusi. Giuridicamente il presidente è passibile d’incriminazione per associazione a delinquere (e altro). La giurisprudenza prevalente – ancorché non unanime, e la Corte suprema non si è mai pronunciata in merito – sostiene che un presidente in carica non può essere incriminato, potrà essere processato solo alla fine del suo mandato; donde il neologismo coniato ai tempi di Richard Nixon quando per lo scandalo Watergate il presidente repubblicano fu definito un-indicted co-cospirator cioè «reo di associazione a delinquere ma non incriminato». Nixon si cacciò nei guai in altri modi e nel 1974 diede le dimissioni prima che lo destituissero. Il presidente in carica può essere solo soggetto al procedimento di impeachment. Che è un processo politico, vista la sede dove si svolge e l’importanza dei rapporti di forze. La Camera a maggioranza semplice può metterlo sotto accusa e formulare l’istruttoria; se decide d’incriminarlo, al Senato spetterà il ruolo di tribunale giudicante ma qui occorre una supermaggioranza dei due terzi. È poco probabile che i democratici nell’elezione di mid-term (6 novembre) conquistino i due terzi del Senato. L’ala sinistra è tentata d’impostare la campagna sul tema «votateci e vi libereremo da Trump prima della fine del mandato». La vecchia guardia centrista rimarrà titubante a usare la parola che comincia con la «I». Non

Keystone

Trump nei guai Doppio «colpo» per Trump: due suoi fedelissimi lo stanno mettendo in grande difficoltà

solo teme che l’impeachment sia destinato ad arenarsi per mancanza di voti (il che si ritorcerà contro una neomaggioranza democratica inconcludente). Temono anche che il lungo processo spettacolare possa consentire a Trump di atteggiarsi a martire fra la sua base, ponendo le premesse per una rielezione nel 2020. Anche se i paragoni sono impropri, la popolarità di Bill Clinton aumentò durante la sua procedura d’impeachment (venne votata alla Camera la messa in stato di accusa; poi fu assolto al Senato). Tutto può ancora cambiare – soprattutto in peggio per Trump – a seconda di quel che deciderà Mueller. Infatti finora non stiamo minimamente parlando del Russiagate. Le vicende Manafort e Cohen sono state stralciate, sono filoni d’indagine paralleli che nulla hanno a che vedere con la Russia. Clinton/Lewinski insegna: spesso i guai per il presidente arrivano perché l’inquirente chiamato a indagare su una pista, s’imbatte accidentalmente in tutt’altra fattispecie di reato. Per non parlare del rischio che un presidente sotto pressione menta in una deposizione giurata. È la ragione per cui i legali di Trump hanno il terrore di un suo interrogatorio a tu per tu con Mueller. «Se arriva l’impeachment crollerà il mercato, e tutti saranno più poveri». Questo monito di Trump attira l’attenzione sul fatto che il rialzo di Wall Street ha ormai battutto tutti i record storici per la sua durata, è il SuperToro che polverizza ogni precedente. E questo rimane un punto di forza per lui: si avvia verso le elezioni legislative del 6 novembre con un’economia solidissima, la crescita al 4%, la disoccupazione ai minimi. È prematuro darlo per spacciato, anche se ha subito due colpi giudiziari che avrebbero messo k.o. molti altri presidenti. Il presidente e il suo partito sono partiti alla controffensiva. Trump ha giocato in casa facendosi intervistare dalla Fox News di Rupert Murdoch, rete televisiva che più amica non si può. Trump ha questa linea difensiva: io non c’entro, è tutto un complotto giudiziario. Su Manafort ha ragione, l’ex direttore della sua campagna elettorale è stato condannato per grossi reati fiscali e finanziari compiuti nella sua carriera di affarista, non per azioni legate a Trump. Su Cohen l’argomento del presidente è questo: i pubblici ministeri lo ricattano facendo leva sui suoi reati, per estorcergli qualcosa contro di me. È una tattica negoziale antica e arcinota, non certo una sorpresa per Trump che da immobiliarista e bancarottiere seriale fu un assiduo frequentatore della giustizia americana. Il partito repubblicano fa quadrato attorno al suo presidente. Il Grand Old Party si è convinto addirittura che conviene impostare proprio sull’impeachment la campagna in questi ultimi due mesi e mezzo prima delle legislative. Cioè: gli strateghi repubblicani hanno sentore che la minaccia di un impeachment può essere la motivazione più forte per mobilitare la base e ottenere un’alta affluenza alle urne, in modo da limitare le dimensioni della rimonta democratica al Congresso. Il paradosso di Trump è che una maggioranza di americani lo detesta, ma la minoranza che lo ha votato sembra essergli ancora molto fedele.

La verità non è la verità, fake news a parte Social media U na frase di Rudy Giuliani,

avvocato di Trump, introduce il concetto che le società libere e democratiche non hanno difese

Christian Rocca Non era facile, ma ci siamo superati: «Truth isn’t truth», «la verità non è la verità», ha detto in diretta televisiva l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani (foto), ora avvocato di Donald Trump, in difesa del presidente americano accusato tra le altre cose di aver elevato ad arte la menzogna. Meno di due anni fa, nelle settimane intorno alla vittoria di Trump alle presidenziali, elezione oggi sotto inchiesta per l’aiutino fornito dai servizi segreti russi, nel dibattito pubblico globale era comparso lo spauracchio della «post truth politics», la politica che non tiene conto dei dati di fatto. Quella dirompente novità del 2016 è stata presto superata dalla diffusione sistematica via social media di «fake news», la nuova arma di rimbambimento di massa adoperata da forze e potenze ostili al mondo libero. Le notizie false, a furia di essere ripetute da pulpiti autorevoli come quello della Casa Bianca, sono state etichettate e promosse ad «alternative facts», a fatti alternativi, non sono più balle disseminate per corrompere l’opinione pubblica, ma «verità alternative» da prendere in considerazione allo stesso modo dei fatti reali. Una svolta epocale, questa, che ribalta una delle storiche massime della politica americana, attribuita all’ex senatore di New York Daniel Patrick Moynhan, secondo cui «tutti hanno diritto alle proprie opinioni, ma non ai propri fatti». Ora vale l’opposto: tutti hanno diritto alla propria verità. Le conseguenze per la società sono sotto gli occhi di tutti e l’antidoto non è stato ancora isolato. C’è voluto un italiano, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Vito Crimi, esponente dei populisti a Cinque stelle, a far compiere di recente un ulteriore salto di qualità alla propaganda basata sull’algoritmo delle frottole: Crimi ha difeso il diritto di diffondere «fake news», in quanto espressione purissima dell’intangibile libertà di parola dei singoli cittadini. Questa spirale al ribasso appare surreale e grottesca – dalla «post truth» alle «fake news» e dagli «alternative facts» alla tutela del diritto di diffondere false notizie – ma non rappresenta ancora il punto più basso del nostro discorso civile perché la dichiarazione di Rudy Giuliani introduce un principio ancora più elaborato: «Truth isn’t truth» ovvero la fine dell’opinione pubblica, l’evoluzione contemporanea dei tre slogan del Ministro della Verità del Grande Fratello di George Orwell: «War is Peace, Freedom is slavery, Ignorance is strenght». La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza e, ora, la verità non è la verità. Il nuovo brocardo rende superflue le tante notizie sul fronte della guerra di propaganda, intrecciate peraltro alle inchieste federali sui rapporti tra i russi e il mondo Trump, perché in fondo a che cosa serve fermare gli attacchi informatici ai processi democratici occidentali se poi il discorso pubblico è dominato dall’idea che la verità non è la verità? Se la verità diventa fake news

e, viceversa, le fake news sono verità e, infine, la verità non è verità, vuol dire che le società libere e democratiche non hanno una difesa possibile. La guerra di propaganda continua, però. L’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump, Paul Manafort, è stato condannato da una giuria popolare per i suoi rapporti con i russi; uno degli avvocati di Trump ha ammesso di aver compiuto reati per coprire il presidente e, come lui, due importanti advisor di politica estera e il Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump hanno ammesso le loro responsabilità penali, sempre collegate a soldi e rapporti russi, e stanno collaborando con l’inchiesta federale di Robert Mueller per evitare guai peggiori. In tutto questo non passa giorno senza che le grandi aziende della Silicon Valley scoprano tentativi stranieri di diffondere «fake news», rubare dati e hackerare i server di istituzioni politiche americane e non solo. Microsoft ha appena sventato un progetto russo che mirava a danneggiare i centri studi conservatori vicini al Partito repubblicano americano, ma dell’ala contraria alle politiche del presidente Trump. Facebook ha fatto saltare un piano russo e iraniano, descritto orwellianamente «comportamento non autentico coordinato», dopo aver chiuso nei giorni precedenti una serie di pagine finte che avevano come obiettivo far diventare virali notizie false in vista delle elezioni di metà mandato di novembre. Il punto è che, nonostante gli sforzi della Silicon Valley e dei servizi di intelligence, comunque restii a scambiarsi le informazioni, i creatori su scala industriale di «fake news» si adattano facilmente alle contromisure. Adesso, al contrario di quanto successo nel 2016, c’è perlomeno la consapevolezza di un attacco coordinato, da qui la rimozione di migliaia di account e una timida reazione politica, ma le tecniche ora sono più sofisticate. Se nel 2016 gli hacker si concentravano semplicemente sulla diffusione di «fake news», attraverso siti e account falsi, oltre ai famigerati bot, oggi l’obiettivo è non farsi scoprire, rubare identità reali e umanizzare il processo di diffusione delle notizie false. Al resto ci pensa «la verità non è la verità».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Politica e Economia Benvenuto in Irlanda È lo spirito con cui Papa Francesco è stato accolto nell’Isola verde dopo anni di difficili rapporti fra Vaticano e Dublino a causa dell’immenso scandalo della pedofilia esploso tra gli anni Novanta e Duemila

Criminalità finanziaria in agguato Oltre a casi di reati come quelli avvenuti alla Raiffeisen, oggi preoccupano le possibilità di delinquere fornite dalle moderne tecnologie

Trump nei guai

Casa Bianca L a condanna dell’ex capo del comitato elettorale Paul

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Manafort e l’autoaccusa dell’ex avvocato personale e amico di Trump, Michael Cohen, hanno messo il presidente in grandissima difficoltà

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Federico Rampini pagina 21

Da sinistra, Di Maio, Conte, Salvini rappresentano forze politiche in concorrenza fra loro. (AFP)

Italia sorvegliata speciale Bilancio Il governo Conte resta sotto l’occhio di partner che non lo considerano affatto affidabile e sanno bene

che un’eventuale catastrofe ricadrebbe anche su di loro Lucio Caracciolo Il nuovo governo italiano presieduto da Giuseppe Conte ha quasi cento giorni di vita. «Presieduto» è termine improprio. Si tratta di fatto di un ministero copresieduto dai leader dei due partner del contratto di governo, Luigi Di Maio (vicepresidente e ministro del Lavoro) per il Movimento 5 Stelle e Matteo Salvini (vicepresidente e ministro dell’Interno) per la Lega. Quasi l’idealtipo di quello che gli americani chiamerebbero un «team of rivals», ovvero una squadra formata da partiti assai diversi e soprattutto concorrenti. Ulteriore precisazione: anche se il risultato elettorale del 4 marzo dava i 5 Stelle in netto vantaggio, come primo partito, sulla Lega, quest’ultima è ormai indicata dai sondaggi allo stesso livello di intenzioni di voto dei soci/rivali. Grazie soprattutto alla personalità e all’incisività non solo mediatica di Salvini, che ha subito messo in ombra l’altro console, assai giovane e inesperto. Ma grazie anche al fatto che la Lega è un partito vero, strutturato e ancorato

al territorio ormai non più solo settentrionale, mentre il Movimento dei grillini è tuttora allo stato gassoso e potrebbe evaporare rapidamente o spaccarsi. Ciò porta alcuni analisti a prevedere che il governo Conte durerà fino a maggio, quando la Lega cercherà un pretesto per andare alle urne non solo per il voto relativo al Parlamento europeo, ma per rinnovare contestualmente il Parlamento italiano. Le forze politiche che fanno parte di questa strana coalizione amano parlare di «governo del cambiamento». Ma lo spazio per cambiamenti davvero profondi manca – e mancherà probabilmente anche il tempo. Il governo italiano è stretto fra i vincoli europei – che cerca disperatamente di allentare malgrado il 130% di rapporto debito/ pil non lasci grandi spazi di manovra – e la pressione dei mercati finanziari, pronti ad avventarsi sull’Italia nel caso dovessero avvertire qualche scricchiolio sinistro. Ciò che per ora salva Roma – oltre al quantitative easing perseguito dalla Bce di Mario Draghi, ormai in via di scadenza – è la consa-

pevolezza generale che una bancarotta italiana segnerebbe probabilmente la fine dell’euro e con essa di ciò che resta dell’Unione Europea, almeno come l’abbiamo finora conosciuta. Per questo sia la Germania che gli stessi Stati Uniti hanno fatto del loro meglio, in questi ultimi anni, per impedire che l’Italia finisse a gambe all’aria, in stile Grecia moltiplicata per dieci. Un evento che avrebbe ripercussioni non solo in Europa, ma nel sistema finanziario e nell’economia globale. Resta che finora dei ventilati progetti di flat tax (Lega) e di reddito di cittadinanza (Movimento 5 Stelle) non si è visto nulla. E molto probabilmente nulla – o quasi – si vedrà, considerati i vincoli citati. A meno che il dilettantismo e l’incoscienza di qualche ministro non provochi un effetto valanga involontario. Ipotesi da non escludere, considerata l’inesperienza di quasi tutti i membri del governo e la difficoltà per i poteri profondi dello Stato, a cominciare dal Quirinale, di vegliare sul gabinetto Conte per impedire che sbandi. L’unico terreno dove il cambia-

mento c’è stato, e assai visibile, è quello del contenimento dei flussi migratori. I quali si erano peraltro ridotti dei quattro quinti nell’ultimo anno, grazie anche all’iniziativa del predecessore di Salvini al Viminale, Marco Minniti. Il neo ministro e capo della Lega ha subito stabilito una linea durissima, di fatto respingendo i migranti in arrivo dalla Libia anche quando venivano imbarcati e salvati da una nave della Capitaneria di Porto italiana – come nel famigerato frangente della «Diciotti». Caso finora unico di uno Stato che respinge una propria nave. Obiettivo: costringere i soci europei a farsi carico di una quota rilevante degli immigrati in arrivo dall’Africa. E, sullo sfondo ma decisivo, guadagnare consensi e voti in vista delle prossime elezioni. Dalle quali Salvini conta di uscire come leader del partito di maggioranza relativa, primo ministro in pectore. Altra caratteristica di questo governo è l’ostilità reciproca, appena mascherata, nei confronti dei classici paesi guida dell’Unione Europea, Francia e Germania. Specie con Parigi

sembra che Roma abbia ingaggiato un torneo a 360 gradi, dagli investimenti francesi in Italia alla questione migratoria e alla Libia. Mentre molte affinità si riscontrano con i governi dell’ex Est e della Mitteleuropa, di tono neonazionalista e soprattutto ostili ai migranti. Di più: sia Salvini che di Maio (ma soprattutto il primo) coltivano relazioni privilegiate con la Russia, specificamente con il partito di Putin. Rapporti che hanno ovviamente anche un lato finanziario. Conte ha intanto trovato una notevole consonanza, almeno verbale, con Trump – guarda caso sui migranti e sulla Russia. Ma visti i guai in cui si trova oggi il presidente degli Stati Uniti, e considerata la guerra nemmeno troppo sotterranea che gli muovono gli apparati americani, i buoni rapporti personali non significano affatto una maggiore prossimità fra Roma e Washington. L’Italia naviga a vista. Sorvegliata da partner che non la considerano affatto affidabile. E che sanno bene come un’eventuale catastrofe italiana ricadrebbe, in parte, su di loro.

L’attenzione di mezza America la settimana scorsa non era sui problemi giudiziari di Trump: la tv di destra Fox News apriva i suoi telegiornali sul feroce assassinio di una studentessa da parte di un giovane clandestino immigrato dal Messico in Iowa. Questo serve a ricordarci gli effetti della «bolla mediatica» in cui viviamo: ciascuno assorbe notizie dal proprio mondo di riferimento, universi paralleli coesistono senza conoscere l’esistenza l’uno dell’altro. Per l’altra metà dell’America il personaggio della settimana non era l’immigrato assassino bensì Michael Cohen. Dal cerchio magico degli intimi, al girone infernale dei nemici: è stata rapida la parabola dell’uomo che potrebbe trascinare il presidente degli Stati Uniti verso l’impeachment. 52enne, l’avvocato Cohen è stato per 12 anni il «fixer» (letteralmente «l’aggiustatore», il risolvi-grane) dell’immobiliarista newyorchese. Oltre che affarista in proprio, evasore fiscale, ecc. ecc. Con incarichi svariati ma vicinissimi al tycoon: non solo legale personale di Trump ma vicepresidente di due società familiari e della fondazione filantropica intitolata al figlio. È in questo ruolo di trafficante tuttofare con l’incarico di affrontare i pasticci più intricati, che Cohen ha pagato la pornostar Stormy Daniels perché tacesse sulla «notte di sesso» con Trump. Ha anche pagato in modo tortuoso un tabloid perché bloccasse le rivelazioni di un’altra pornostar. Questi pagamenti costituiscono un reato federale e dopo la confessione Cohen rischia (salvo sconti) dai quattro ai cinque anni di carcere. Ha coinvolto la responsabilità del presidente: non solo quei soldi venivano da Trump, ma lui stesso ordinò il reato e quindi è a sua volta colpevole. Questa è una vicenda in cui si è imbattuto per caso il super-inquirente Robert Mueller, che l’ha stralciata e affidata ai giudici federali di New York, visto che esula dal suo mandato sul Russiagate. Trump continua a smentire di aver ordinato i pagamenti alle porno-star. Ma se arriverà il momento in cui la sua parola e quella di Cohen verranno messe a confronto, c’è il rischio che l’ex-avvocato abbia dalla sua un bel po’ di prove: a cominciare dalle date dei trasferimenti di fondi con cui la società di Trump gli fornì l’occorrente per tacitare Stormy Daniels. Trump ha già

disseminato menzogne via Twitter, ha dato versioni contraddittorie di cui alcune palesemente false. Finché le bugie viaggiano sui social media non hanno rilevanza da impeachment. Ma «perjury under oath», cioè la menzogna in una deposizione sotto giuramento, è reato da impeachment. È la buccia di banana su cui scivolò Bill Clinton. Fare sesso con una giovane adulta consenziente (Monica Lewinski) non è reato, ma lo incastrarono in modo quasi fatale – la Camera votò l’impeachment – sulle bugie con cui cercò di occultare l’episodio. Dopo questi sviluppi l’impeachment di Donald Trump è diventato possibile (non ancora probabile). Gli sviluppi drammatici dei processi ai suoi ex-collaboratori, offrono per la prima volta l’appiglio concreto per avviare la messa in stato d’accusa e poi la destituzione del presidente degli Stati Uniti. Un evento mai portato a termine nella storia, e con due soli precedenti di impeachment iniziati, non conclusi. Giuridicamente il presidente è passibile d’incriminazione per associazione a delinquere (e altro). La giurisprudenza prevalente – ancorché non unanime, e la Corte suprema non si è mai pronunciata in merito – sostiene che un presidente in carica non può essere incriminato, potrà essere processato solo alla fine del suo mandato; donde il neologismo coniato ai tempi di Richard Nixon quando per lo scandalo Watergate il presidente repubblicano fu definito un-indicted co-cospirator cioè «reo di associazione a delinquere ma non incriminato». Nixon si cacciò nei guai in altri modi e nel 1974 diede le dimissioni prima che lo destituissero. Il presidente in carica può essere solo soggetto al procedimento di impeachment. Che è un processo politico, vista la sede dove si svolge e l’importanza dei rapporti di forze. La Camera a maggioranza semplice può metterlo sotto accusa e formulare l’istruttoria; se decide d’incriminarlo, al Senato spetterà il ruolo di tribunale giudicante ma qui occorre una supermaggioranza dei due terzi. È poco probabile che i democratici nell’elezione di mid-term (6 novembre) conquistino i due terzi del Senato. L’ala sinistra è tentata d’impostare la campagna sul tema «votateci e vi libereremo da Trump prima della fine del mandato». La vecchia guardia centrista rimarrà titubante a usare la parola che comincia con la «I». Non

Keystone

Trump nei guai Doppio «colpo» per Trump: due suoi fedelissimi lo stanno mettendo in grande difficoltà

solo teme che l’impeachment sia destinato ad arenarsi per mancanza di voti (il che si ritorcerà contro una neomaggioranza democratica inconcludente). Temono anche che il lungo processo spettacolare possa consentire a Trump di atteggiarsi a martire fra la sua base, ponendo le premesse per una rielezione nel 2020. Anche se i paragoni sono impropri, la popolarità di Bill Clinton aumentò durante la sua procedura d’impeachment (venne votata alla Camera la messa in stato di accusa; poi fu assolto al Senato). Tutto può ancora cambiare – soprattutto in peggio per Trump – a seconda di quel che deciderà Mueller. Infatti finora non stiamo minimamente parlando del Russiagate. Le vicende Manafort e Cohen sono state stralciate, sono filoni d’indagine paralleli che nulla hanno a che vedere con la Russia. Clinton/Lewinski insegna: spesso i guai per il presidente arrivano perché l’inquirente chiamato a indagare su una pista, s’imbatte accidentalmente in tutt’altra fattispecie di reato. Per non parlare del rischio che un presidente sotto pressione menta in una deposizione giurata. È la ragione per cui i legali di Trump hanno il terrore di un suo interrogatorio a tu per tu con Mueller. «Se arriva l’impeachment crollerà il mercato, e tutti saranno più poveri». Questo monito di Trump attira l’attenzione sul fatto che il rialzo di Wall Street ha ormai battutto tutti i record storici per la sua durata, è il SuperToro che polverizza ogni precedente. E questo rimane un punto di forza per lui: si avvia verso le elezioni legislative del 6 novembre con un’economia solidissima, la crescita al 4%, la disoccupazione ai minimi. È prematuro darlo per spacciato, anche se ha subito due colpi giudiziari che avrebbero messo k.o. molti altri presidenti. Il presidente e il suo partito sono partiti alla controffensiva. Trump ha giocato in casa facendosi intervistare dalla Fox News di Rupert Murdoch, rete televisiva che più amica non si può. Trump ha questa linea difensiva: io non c’entro, è tutto un complotto giudiziario. Su Manafort ha ragione, l’ex direttore della sua campagna elettorale è stato condannato per grossi reati fiscali e finanziari compiuti nella sua carriera di affarista, non per azioni legate a Trump. Su Cohen l’argomento del presidente è questo: i pubblici ministeri lo ricattano facendo leva sui suoi reati, per estorcergli qualcosa contro di me. È una tattica negoziale antica e arcinota, non certo una sorpresa per Trump che da immobiliarista e bancarottiere seriale fu un assiduo frequentatore della giustizia americana. Il partito repubblicano fa quadrato attorno al suo presidente. Il Grand Old Party si è convinto addirittura che conviene impostare proprio sull’impeachment la campagna in questi ultimi due mesi e mezzo prima delle legislative. Cioè: gli strateghi repubblicani hanno sentore che la minaccia di un impeachment può essere la motivazione più forte per mobilitare la base e ottenere un’alta affluenza alle urne, in modo da limitare le dimensioni della rimonta democratica al Congresso. Il paradosso di Trump è che una maggioranza di americani lo detesta, ma la minoranza che lo ha votato sembra essergli ancora molto fedele.

La verità non è la verità, fake news a parte Social media U na frase di Rudy Giuliani,

avvocato di Trump, introduce il concetto che le società libere e democratiche non hanno difese

Christian Rocca Non era facile, ma ci siamo superati: «Truth isn’t truth», «la verità non è la verità», ha detto in diretta televisiva l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani (foto), ora avvocato di Donald Trump, in difesa del presidente americano accusato tra le altre cose di aver elevato ad arte la menzogna. Meno di due anni fa, nelle settimane intorno alla vittoria di Trump alle presidenziali, elezione oggi sotto inchiesta per l’aiutino fornito dai servizi segreti russi, nel dibattito pubblico globale era comparso lo spauracchio della «post truth politics», la politica che non tiene conto dei dati di fatto. Quella dirompente novità del 2016 è stata presto superata dalla diffusione sistematica via social media di «fake news», la nuova arma di rimbambimento di massa adoperata da forze e potenze ostili al mondo libero. Le notizie false, a furia di essere ripetute da pulpiti autorevoli come quello della Casa Bianca, sono state etichettate e promosse ad «alternative facts», a fatti alternativi, non sono più balle disseminate per corrompere l’opinione pubblica, ma «verità alternative» da prendere in considerazione allo stesso modo dei fatti reali. Una svolta epocale, questa, che ribalta una delle storiche massime della politica americana, attribuita all’ex senatore di New York Daniel Patrick Moynhan, secondo cui «tutti hanno diritto alle proprie opinioni, ma non ai propri fatti». Ora vale l’opposto: tutti hanno diritto alla propria verità. Le conseguenze per la società sono sotto gli occhi di tutti e l’antidoto non è stato ancora isolato. C’è voluto un italiano, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Vito Crimi, esponente dei populisti a Cinque stelle, a far compiere di recente un ulteriore salto di qualità alla propaganda basata sull’algoritmo delle frottole: Crimi ha difeso il diritto di diffondere «fake news», in quanto espressione purissima dell’intangibile libertà di parola dei singoli cittadini. Questa spirale al ribasso appare surreale e grottesca – dalla «post truth» alle «fake news» e dagli «alternative facts» alla tutela del diritto di diffondere false notizie – ma non rappresenta ancora il punto più basso del nostro discorso civile perché la dichiarazione di Rudy Giuliani introduce un principio ancora più elaborato: «Truth isn’t truth» ovvero la fine dell’opinione pubblica, l’evoluzione contemporanea dei tre slogan del Ministro della Verità del Grande Fratello di George Orwell: «War is Peace, Freedom is slavery, Ignorance is strenght». La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza e, ora, la verità non è la verità. Il nuovo brocardo rende superflue le tante notizie sul fronte della guerra di propaganda, intrecciate peraltro alle inchieste federali sui rapporti tra i russi e il mondo Trump, perché in fondo a che cosa serve fermare gli attacchi informatici ai processi democratici occidentali se poi il discorso pubblico è dominato dall’idea che la verità non è la verità? Se la verità diventa fake news

e, viceversa, le fake news sono verità e, infine, la verità non è verità, vuol dire che le società libere e democratiche non hanno una difesa possibile. La guerra di propaganda continua, però. L’ex capo della campagna elettorale di Donald Trump, Paul Manafort, è stato condannato da una giuria popolare per i suoi rapporti con i russi; uno degli avvocati di Trump ha ammesso di aver compiuto reati per coprire il presidente e, come lui, due importanti advisor di politica estera e il Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump hanno ammesso le loro responsabilità penali, sempre collegate a soldi e rapporti russi, e stanno collaborando con l’inchiesta federale di Robert Mueller per evitare guai peggiori. In tutto questo non passa giorno senza che le grandi aziende della Silicon Valley scoprano tentativi stranieri di diffondere «fake news», rubare dati e hackerare i server di istituzioni politiche americane e non solo. Microsoft ha appena sventato un progetto russo che mirava a danneggiare i centri studi conservatori vicini al Partito repubblicano americano, ma dell’ala contraria alle politiche del presidente Trump. Facebook ha fatto saltare un piano russo e iraniano, descritto orwellianamente «comportamento non autentico coordinato», dopo aver chiuso nei giorni precedenti una serie di pagine finte che avevano come obiettivo far diventare virali notizie false in vista delle elezioni di metà mandato di novembre. Il punto è che, nonostante gli sforzi della Silicon Valley e dei servizi di intelligence, comunque restii a scambiarsi le informazioni, i creatori su scala industriale di «fake news» si adattano facilmente alle contromisure. Adesso, al contrario di quanto successo nel 2016, c’è perlomeno la consapevolezza di un attacco coordinato, da qui la rimozione di migliaia di account e una timida reazione politica, ma le tecniche ora sono più sofisticate. Se nel 2016 gli hacker si concentravano semplicemente sulla diffusione di «fake news», attraverso siti e account falsi, oltre ai famigerati bot, oggi l’obiettivo è non farsi scoprire, rubare identità reali e umanizzare il processo di diffusione delle notizie false. Al resto ci pensa «la verità non è la verità».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Politica e Economia

Il cielo buio d’Irlanda

Chiesa cattolica N ell’Isola verde il Papa ha incontrato le vittime di abusi sessuali da parte di membri del clero.

La visita, la prima nel Paese negli ultimi 40 anni, dovrebbe segnare la fine dei difficili rapporti fra Vaticano e Dublino Giorgio Bernardelli C’era una volta la cattolicissima Irlanda. Quella dove il legame con Santa Romana Chiesa, le sue parrocchie, i suoi riti erano un elemento forte dell’identità (e della contrapposizione con gli Unionisti). Pur con tutti i limiti degli stereotipi, quest’Irlanda forse c’era ancora 39 anni fa, quando Giovanni Paolo II compì quella che fino a quest’agosto 2018 era stata l’unica visita di un Papa a Dublino. Le cronache di allora parlarono di due milioni e mezzo di persone accorse nei tre giorni di incontri, praticamente un abitante su due dell’isola. Il problema è che negli ultimi due decenni è stato quanto mai oscuro per la Chiesa cattolica il cielo d’Irlanda. A maggio ha fatto notizia la schiacciante vittoria del sì nel referendum sull’aborto, praticamente l’ultima ridotta nella difesa dell’eccezione cattolica irlandese rispetto al resto dell’Europa. Ma è stata una sconfitta ampiamente annunciata; la sconfitta di una Chiesa che – come ha detto l’arcivescovo di Dublino Diarmuid Martin, parafrasando una delle espressioni più note di papa Francesco – è essa stessa «un ospedale da campo». Nella capitale oggi ci sono quartieri dove la frequenza alla Messa domenicale non arriva al 2 per cento della popolazione; i seminari del Paese da cui un tempo partivano missionari per tutto il mondo sono vuoti; gli stessi politici cattolici locali sono i primi a mostrare

insofferenza nei confronti di Roma e delle sue lentezze. Che cosa c’è dietro a tutto questo? L’inesorabile avanzata della secolarizzazione da sola non basta a spiegare un cambiamento tanto radicale. E infatti la risposta sta altrove: a travolgere la cattolicissima Irlanda è stato soprattutto lo scandalo pedofilia. Sono state le accuse durissime sugli abusi commessi da sacerdoti e da istituti religiosi (compresi quelli femminili, come nel 2002 denunciò il film Magdalene di Peter Mullen) a far crollare la fiducia nella Chiesa cattolica dal Donegal fino a Dublino. Del resto l’Irlanda è stata l’epicentro dello scandalo in Europa: nel 2009 il rapporto shock della Child Abuse Commission – voluta dall’allora premier Bertie Ahern, nonostante forti resistenze degli ambienti clericali – portò alla luce ben 2500 casi di violenze compiute tra il 1940 e il 1980 da persone o realtà legate alla Chiesa cattolica. «Le vittime – raccontò quel rapporto – erano spesso giovani difficili, orfani, disabili, abbandonati, che speravano di ricevere dalla Chiesa il conforto che non avevano mai conosciuto e si ritrovavano invece inghiottiti in un feroce cuore di tenebra. La pedofilia e l’abuso sessuale nei confronti dei bambini erano un fatto endemico». Quello scandalo ha costretto la Chiesa irlandese a fare i conti in maniera seria con il problema. Nel 2010 Benedetto XVI in persona scrisse ai fe-

Croce cattolica al Phoenix Park di Dublino. (Keystone)

deli del Paese riconoscendo «la risposta spesso inadeguata da parte delle autorità ecclesiastiche». Così una delle vittime – Marie Collins, abusata sessualmente da un sacerdote quando aveva tredici anni – è stata coinvolta dal Vaticano nell’elaborazione delle proprie

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politiche di «tolleranza zero» nei confronti della pedofilia. E papa Francesco l’aveva anche voluta nella sua commissione anti-abusi; ma alla fine – l’anno scorso – Marie Collins se n’è andata denunciando «le troppe resistenze della Curia romana». A dimostrazione di quanto la ferita resti aperta. La scelta di organizzare proprio a Dublino l’incontro mondiale delle famiglie cattoliche da parte della Chiesa cattolica – l’occasione per il viaggio che papa Francesco compie in questi giorni – voleva essere probabilmente un modo per provare a guardare comunque avanti. E anche lo stile impresso da Bergoglio all’appuntamento si preannunciava molto meno muscolare rispetto al passato: non una parata identitaria, ma un’occasione di dialogo con tutte le famiglie, nello stile di Amoris Laetitia, la sua esortazione apostolica che ha segnato l’apertura sul tema dell’accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati. Alla vigilia non era mancata nemmeno la polemica da parte dei movimenti cattolici integralisti per la presenza tra i relatori scelti dal Vaticano per l’appuntamento di padre James Martin, gesuita statunitense spesso ospite dei grandi network televisivi, sostenitore dell’urgenza di un atteggiamento più aperto della Chiesa cattolica nei confronti del mondo LGBT. Ma nell’Irlanda di oggi non basta tutto questo per voltare pagina davvero. E il momento più atteso anche a Dublino è stato l’incontro tra papa Francesco e le vittime degli abusi commessi dai sacerdoti. Perché – al netto dell’empatia che il personaggio Bergoglio non ha mancato di suscitare anche tra gli irlandesi – quella resta la ferita da risanare. Ed è una ferita di fronte alla quale non bastano le parole anche sincere di vergogna e di dolore pronunciate da un Pontefice per il comportamento di alcuni preti. Proprio il caso irlandese dice che il problema è ben più profondo: chiama in causa la struttura stessa della Chiesa, la distanza tra ciò che predica sulla sessualità e certi suoi comportamenti e pure quel vizio insidioso del clericalismo così facilmente pronto a coprire persone e comportamenti per il buon nome dell’istituzione. Del resto proprio mentre papa Francesco stava per arrivare a Dublino lo scandalo pedofilia riesplodeva in tutta la sua gravità in quel cattolicesimo americano che ha uno dei suoi pilastri proprio in tante comunità di emigrati dall’Irlanda. Due vicende in particolare hanno scosso in queste set-

timane i vertici della Chiesa cattolica negli Stati Uniti: prima ci sono state le accuse che hanno travolto l’arcivescovo emerito di Washington, il cardinale Theodore McCarrick. Su un pezzo da novanta dell’establishment episcopale sono emerse non solo accuse credibili su abusi commessi nei confronti di giovani e seminaristi, ma anche sconcertanti silenzi da parte di chi sapeva e non ha fatto nulla per fermare la sua carriera ecclesiastica. A completare il quadro sono poi arrivate le conclusioni del Gran Giurì della Pennsylvania sull’operato di sei diocesi locali in tema di abusi sui minori. Novecento pagine di atti che parlano di violenze commesse nell’arco di settant’anni da oltre 300 sacerdoti con più di mille vittime; e – anche in questo caso – emergono risposte del tutto inadeguate da parte delle autorità ecclesiastiche che avrebbero dovuto vigilare e invece si sono preoccupate solo di mettere a tacere lo scandalo. Un quadro che la stessa Conferenza episcopale degli Stati Uniti ora non esita a definire una «catastrofe morale». Dopo il viaggio apostolico di inizio anno in Cile – con lo scivolone sul caso Karadima, altro influente sacerdote locale coperto dai vescovi e la cui vicenda papa Francesco solo a posteriori ha compreso in tutta la sua portata, prendendo provvedimenti nei confronti dei presuli – anche la tappa in Irlanda rilancia dunque in tutta la sua drammaticità il tema degli scandali. È il grande paradosso di Bergoglio: alla grande popolarità della sua persona e del suo messaggio sui grandi temi globali – ben poco scalfita da cinque anni di Pontificato, se si eccettua l’avversione da parte dei circoli cattolici più tradizionalisti – fa da contraltare l’immagine di una Chiesa che pare proprio non cambiare, prigioniera di abitudini, vizi, persino comportamenti criminali nascosti sotto il tappeto. Nei suoi discorsi papa Francesco prende spesso di mira il clericalismo; lo indica come il male più insidioso. E non è difficile vedere un filo rosso tra quest’idea di uno status religioso come potere e gli abusi sessuali commessi dai sacerdoti nei confronti di minori. Ma la domanda vera è: che profilo ha una Chiesa cattolica non clericale? Ed è disposta l’attuale Chiesa cattolica a lasciarsi mettere in discussione davvero per assumere questo nuovo volto? L’esperienza dell’Irlanda dice che è sulla risposta a questa domanda che si gioca molto del suo futuro in Occidente.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Politica e Economia

Un referendum comunale a livello di Confederazione?

Poteri politici Lo propone l’Associazione dei comuni per rivalutarne il ruolo di base nel sistema federalistico,

frenare la perdita di potere politico e rifiutare il ruolo di meri esecutori di decisioni prese dall’altro Ignazio Bonoli Dopo l’ondata di «fusionite» che ha colpito pressoché tutti i comuni della Svizzera, da qualche tempo è in atto un certo ripensamento. Alcuni comuni sono delusi dei miglioramenti che un’unità più grande avrebbe dovuto portare e che invece non si vedono. Ma anche a livello più alto, cioè a livello di Associazione dei comuni svizzeri, si constata che anche comuni più grandi hanno poco potere decisionale e soprattutto non riescono a influire su decisioni che

vengono prese dall’alto, cioè da Cantoni e Confederazione. Lo ribadisce in un’intervista il nuovo direttore dell’Associazione, Christoph Niederberger, che evoca anche la possibilità di chiedere un referendum comunale, simile a quello oggi riservato ai cantoni. L’Associazione svizzera dei comuni è il rappresentante dei comuni a Berna. Dei 2222 comuni che conta oggi la Svizzera ben 1600 fanno parte dell’Associazione, il cui scopo principale è quello di rafforzare il ruolo delle comunità locali, in quanto base del si-

stema federalistico svizzero. Accanto all’impegno politico, l’Associazione offre ai suoi membri parecchi servizi nel campo della formazione, della gestione e dell’amministrazione dei comuni. Dal 1. agosto di quest’anno ha un nuovo direttore che dispone di una vasta esperienza nel campo della gestione degli enti pubblici. Ingegnere forestale, 47 anni, Niederberger è stato segretario del Dipartimento delle finanze del canton Obwalden fino al 2010, per poi assumere il segretariato generale della Conferenza dei direttori dei di-

Una riunione dell’Associazione dei comuni svizzeri nel palazzo del governo cantonale a Berna. (Keystone)

partimenti cantonali dell’economia. Insieme con l’attuale presidente dell’Associazione, il consigliere agli Stati UDC sciaffusano Hannes Germann, ha lanciato l’idea di un referendum comunale a livello di Confederazione. Idea non del tutto nuova, poiché pochi anni fa le città svizzere avevano chiesto di ampliare i loro diritti politici. Un’iniziativa parlamentare chiedeva che le città con più di 100’000 abitanti potessero disporre ognuna di un seggio al Consiglio degli Stati con diritto di voto limitato. L’iniziativa è stata respinta a grande maggioranza dal Consiglio Nazionale. Ora si spera che la stessa sorte non debba toccare anche alla proposta di referendum comunale. Secondo i proponenti, la sola possibilità di indire un referendum potrebbe aumentare il peso dei comuni nel dibattito politico. Sarebbe un mezzo di pressione di un certo peso, precisa il nuovo direttore dell’Associazione dei comuni. Anch’egli è però cosciente che le possibilità concrete di riuscita sono poche. La Commissione dei diritti politici del Consiglio Nazionale si è già occupata del tema e ha deciso di respingere la proposta con 12 voti contro 8 e tre astensioni. Ma, secondo i sostenitori, il risultato significa che il referendum comunale gode di parecchie simpatie. Tuttavia, questa non è l’unica difficoltà da superare. La stessa associazione delle città svizzere che, pur essendo d’accordo che si sollevi ancora una volta il tema del ruolo dei comuni, teme che il referendum vada unicamente a favore

dei piccoli comuni, a cui dovrebbe contrapporre il peso e l’importanza politica dei grandi agglomerati. I rispettivi interessi possono infatti essere molto divergenti, per esempio sui problemi del traffico o della suddivisione di compiti e competenze. Tuttavia, il nuovo strumento, anche secondo le città, potrebbe servire laddove si voglia contrastare la crescente tendenza, presso Confederazione e cantoni, di scaricare oneri sui comuni, con conseguente perdita di competenze. Un esempio probante è quello recente in campo sociale, in particolare per i costi delle cure, dell’assistenza agli anziani e agli invalidi. Sul piano cantonale, già sette cantoni, compreso il Ticino, conoscono l’istituto del referendum comunale. A livello federale, qualcuno ricorda anche l’azione dei cantoni di 25 anni fa, quando venne costituita la Conferenza dei governi cantonali, in vista delle trattative bilaterali con l’Unione Europea, diventando una delle voci importanti nella Confederazione. Solo nel 2003 si decise però il lancio di un referendum cantonale. Per i comuni l’operazione sarebbe molto più difficile, ma potrebbe essere un passo, magari solo teorico, ma importante, per sottolineare il ruolo dei comuni nella Confederazione, porre un limite alla perdita costante di potere politico e disporre di un mezzo in più per esercitare una certa pressione a Berna. Si potrebbero così contrastare decisioni prese dall’alto e imposte all’organo esecutivo che di regola non viene nemmeno consultato.

In Svizzera, resta ancora molto da fare Criminalità finanziaria Le nuove frontiere della finanza, così come quelle della criminalità internazionale

e della tecnologia devono essere uno stimolo a migliorare la prevenzione, grazie ad una maggiore formazione del personale e all’utilizzo di macchine intelligenti Marzio Minoli La criminalità finanziaria, per un paese a forte vocazione bancaria come la Svizzera, è un problema che non si potrà risolvere in modo definitivo. Quello che invece si deve fare è continuamente a migliorare quei sistemi di controllo, anche, se non soprattutto, informatici, che permettano di arginare il più possibile questo fenomeno. Ad occuparsi di questo tema è stata KPMG, la società multinazionale di consulenza aziendale con sede in Olanda, che negli scorsi mesi ha pubblicato due rapporti. Uno nel mese di maggio sulla sicurezza informatica e uno nel mese di giugno, sulla criminalità finanziaria. Due temi, come detto, che spesso vanno a braccetto. Ma procediamo con ordine. Nelle pubblicazioni di KPMG si legge che «Lo Stato cerca di imporre agli istituti finanziari regole sempre più severe in materia di controllo della provenienza dei fondi depositati, ma anche le banche devono fare la loro parte, anche alla luce delle innovazioni tecnologiche che rendono sempre più complessa la tracciabilità del denaro. Alcune banche presentano ancora delle carenze nell’approccio ai rischi e nelle loro infrastrutture informatiche». Da una parte gli istituti di credito in questi ultimi anni hanno fatto degli sforzi notevoli nell’ambito della prevenzione ai crimini finanziari, ma questo non basta ancora. Secondo KPMG bisogna migliorare ancora, ad esempio l’aspetto della formazione del perso-

nale, sempre più chiamato a valutare e identificare le operazioni non chiare. Ma sono soprattutto coloro deputati ai controlli che sono chiamati ad un maggiore impegno. L’ultimo esempio svizzero è stato il caso di Raiffeisen. La banca elvetica è stata al centro di un grave caso di amministrazione infedele al suo interno, che ha portato alla luce grossi problemi, come ad esempio quello dei controlli. E infatti la FINMA, l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari, ha già redarguito Raiffeisen, sostenendo come vi siano state «gravi lacune» nei sistemi di controllo. Perché citare Raiffeisen? Perché è sintomatico. Pur essendo la terza banca svizzera per dimensioni, dopo UBS e Credit Suisse, è sempre stata una banca considerata al riparo da determinate situazioni, anche per il suo modello d’affari, molto centrato sulla vicinanza al territorio, una banca, se così possiamo dire, «rassicurante», eppure anche lei è stata vittima di reati finanziari. E non per niente la FINMA ha fortemente raccomandato a Raiffeisen di dotarsi di una struttura societaria più consona alle esigenze odierne (ricordiamo che attualmente è una cooperativa di banche) e di avvalersi, nei ruoli dirigenziali, di persone con maggiore esperienza bancaria. Ora, si può facilmente immaginare quanto possano essere maggiormente vulnerabili istituti votati ad attività a largo spettro, sia per tipologia, sia per ampiezza del mercato. E gli sforzi devono essere intensificati per evitare che

la Svizzera sia un centro di riferimento per chi vuole delinquere. E qui si arriva all’altro tema sollevato dai rapporti KPMG, ovvero l’importanza di dotarsi di strumenti informatici adeguati. «La sicurezza informatica, per la NATO, ha la stessa importanza che la difesa di terra, aria e acqua». Queste parole sono il titolo di un articolo del «Financial Times» di qualche settimana fa e ben sintetizzano l’importanza di questo tema nel mondo odierno. A questa regola non sfuggono di certo le istituzioni finanziarie svizzere. Anzi, per loro, forse più che per altri, è di vitale importanza mantenere alta l’allerta contro gli attacchi dei pirati informatici, i cosiddetti hackers, sempre pronti ad approfittare delle debolezze dei sistemi informatici delle banche per sottrarre preziose informazioni confidenziali. Ma non esistono solo i pirati informatici, anche chi ha intenzione di effettuare operazioni illegali può approfittare di questi sistemi. Purtroppo, secondo il rapporto KPMG, sono ancora troppi gli istituti finanziari che sottovalutano il problema della sicurezza informatica. E lo studio KPMG sottolinea come sia di particolare importanza l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, la quale può essere estremamente utile nell’analizzare le transazioni effettuate, tramite macchine in grado di individuare tutte quelle anomalie legate ad un’operazione. L’evoluzione tecnologica viaggia di pari passo con la capacità di chi vuole

Accanto a moderne forme di reati finanziari, ci sono ancora quelli di vecchio stampo, di cui è rimasta vittima anche Raiffeisen. (Keystone)

delinquere di approfittare dei progressi. In un orizzonte non troppo lontano si sta profilando quella che probabilmente sarà la nuova frontiera delle transazioni finanziarie, la blockchain, con i suoi derivati, come le monete virtuali, il Bitcoin su tutti. Una tecnologia che se usata in modo giusto porterà innumerevoli vantaggi, ma, siccome alla base di tutto vi è l’automazione dei processi di controllo, e la drastica riduzione del fattore umano nelle transazioni, sarà

importante tenere sotto controllo e rispondere adeguatamente a tutte le minacce che proverranno da questo campo. Se da una parte quindi si chiede una maggior attenzione alla formazione del personale nel prevenire i crimini finanziari, dall’altra l’interazione uomomacchina sarà sempre più fondamentale per svolgere al meglio questo compito e preservare il ruolo della Svizzera come centro finanziario d’eccellenza internazionale, ma soprattutto senza ombre.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Le città ringiovaniscono, ma non Lugano Dalla fine della seconda guerra mondiale, con il diffondersi della motorizzazione privata, abbiamo assistito nei paesi dell’Europa occidentale all’estendersi degli agglomerati, in seguito alla suburbanizzazione di popolazione e posti di lavoro. Detto in parole spicce: gli agglomerati urbani continuavano a crescere, per lo sviluppo delle località suburbane. Le città e, in particolare, le città di grande taglia segnavano invece il passo e, non di rado, perdevano popolazione. Prendiamo per esempio la città di Zurigo, che è, da più di 150 anni, la più grande città della Svizzera. Dopo aver raggiunto un valore massimo di 440’000 abitanti nel 1962, la sua popolazione cominciò a diminuire. Nel 1990, Zurigo contava solo 356’000 abitanti. In meno di 30 anni aveva così perso quasi un quinto della sua popolazione. Da allora, però la popolazione di

Zurigo ha ricominciato ad aumentare e oggi (metà 2018) la città sulla Limmat conta di nuovo 425’000 abitanti. Se la crescita demografica continua di questo passo, Zurigo avrà ritrovato i suoi 440mila abitanti tra sei anni. Tuttavia la ripresa demografica dei centri urbani non è una realtà solo zurighese. Praticamente tutte le città di grande taglia in Svizzera conoscono attualmente una dinamica demografica positiva. Aggiungiamo ora, per avvicinarci al tema del nostro articolo, che una città che perde popolazione è anche una città che invecchia perché, di solito, sono le famiglie giovani con figli che lasciano il nucleo urbano per trasferirsi in località suburbane dove c’è maggior spazio e, per le famiglie quindi, anche, maggiore qualità di vita. In città restano invece le economie domestiche formate da una persona. Si tratta di persone anziane

o di giovani. Tuttavia, al tempo della diminuzione di popolazione, per la ragione già evocata, la quota degli anziani continuava ad aumentare, mentre quella dei giovani diminuiva. Io mi ricordo di aver seguito, allora, più di una ricerca di giovani diplomandi dell’università e del politecnico di Zurigo sulle condizioni di alloggio delle persone che continuavano ad abitare in città. Vi erano zone, tra il vecchio nucleo medievale e i nuovi quartieri della periferia cittadina che erano abitate solo da vedovi, anzi, per la maggioranza, solo da vedove che occupavano appartamenti anche di alto standing di 4 o 5 locali da soli. E, con il passare del tempo, il fenomeno si estendeva a macchia d’olio. La situazione oggi si è quasi rovesciata: la popolazione di Zurigo non solo è in continuo aumento, ma sta ringiovanendo. Perché non solo i giovani affluiscono di nuovo

a Zurigo, ma le giovani famiglie vi restano? Due sono i motivi dominanti. Il primo è dato dall’abbondante offerta di lavoro e di interessanti possibilità di carriera. Ancora più di Ginevra e di Basilea, Zurigo è diventato un vero magnete economico internazionale. Non solo per la presenza del settore bancario, ma anche, e forse soprattutto, per gli sviluppi che si sono manifestati nel campo della digitalizzazione, nei campus universitari e nella ricerca. Né dimentichiamo il settore ospedaliero e delle cliniche private che pure attrae un numero importante di medici specializzati, provenienti anche dai paesi confinanti con la Svizzera. L’altro motivo è rappresentato dal grosso sforzo che città e operatori dell’immobiliare hanno fatto per mettere a disposizione appartamenti di grande taglia, adatti alle famiglie, e con affitti sopporta-

bili. Dal 1998 al 2008 la città voleva costruirne almeno 10’000. Questo traguardo è stato addirittura superato. Ma lo sforzo dovrà continuare perché oggi in città di appartamenti sfitti ce ne sono veramente pochi. È vero anche che l’immagine di Zurigo è di molto migliorata non da ultimo grazie a un’intelligente campagna di marketing urbano condotta dai servizi cittadini. Così l’età media della popolazione di Zurigo è scesa, nel corso degli ultimi 6 anni, da 42 a 38 anni. All’altro estremo del ventaglio delle città troviamo Lugano, una città in perdita di attrattiva, che continua ad invecchiare e che detiene, tra le maggiori città svizzere, il primato di longevità media della sua popolazione: 46 anni nel 2016. Zurigo può guardare al suo futuro demografico con occhiali a lenti rosa. Lugano, purtroppo, invece no.

per il «Corriere» dopo lo schianto di Superga (4 maggio 1949), scrisse che «il dolore dei torinesi non è fatto di grida, di pubbliche lacrimazioni, di folle in lutto. Si rifugia negli angoli, preferisce non farsi vedere». Al funerale, però, i piemontesi persero le consuete inibizioni: a migliaia piansero disperati, seguendo le carrozze con i cavalli, ognuna con la sua bara, sotto la pioggia che continuava a cadere, provocando inondazioni in tutta la provincia. Da allora la città ha subìto una mutazione genetica, e non solo per l’arrivo prima dei contadini divenuti operai, poi dei meridionali. Torino, che l’Avvocato descriveva come «una città di guarnigione», fredda, calvinista, antifascista, oggi è davvero una città italiana, nel bene e nel male. A maggior ragione non deve stupire l’accoglienza maradoniana riservata a Ronaldo, il divo più contemporaneo che ci sia. Una persona di cui all’apparenza sappiamo tutto, dieta famiglia allenamenti, visto che condivide la propria vita sui social; e di cui in realtà non sappiamo nulla,

chi sia, cosa pensi, chi ami, anche solo che storia abbiano i suoi figli. Un divo costruito in palestra, in rete, dallo staff. I tifosi della Juve l’avevano beccato nella finale di Cardiff – per poi beccarsi due gol –, ma l’hanno applaudito dopo il leggendario gol allo Stadium: un gesto in cui i meno giovani hanno ritrovato la rovesciata di Carletto Parola, a lungo simbolo delle figurine Panini. È scattata allora la scintilla: Ronaldo si è inchinato al pubblico portando la mano sul cuore; all’evidenza anche i divi ce l’hanno; e poi questo trasferimento è un affare, per lui e per il clan, a cominciare dal capo, Jorge Mendes. Per gli juventini l’arrivo di Ronaldo rappresenta la conferma di una centralità anche internazionale della propria squadra che sembrava perduta, e pure del rapporto con la famiglia proprietaria. Tifano Toro la piccola e la media borghesia torinese, che non hanno mai amato la Fiat, proprio per gli arrivi di massa e le tensioni politiche che la più grande fabbrica d’Europa provocava. La Juve pesca tradizionalmente in alto

e in basso, tra gli operai venuti da fuori alla ricerca di integrazione e l’alta borghesia che gravitava attorno agli Agnelli: Mirafiori e la collina, dove non a caso andrà ad abitare CR7. Un mondo che ha sempre vissuto come una maledizione il fatto che il club più rappresentativo del calcio italiano, oltre a patire maledettamente il derby, faticasse tanto in Coppa dei Campioni, a differenza dell’Inter e soprattutto del Milan. Se Ronaldo, giunto a Torino in età matura per un calciatore, sarà visto come l’estrema occasione, l’«adesso o mai più», allora rischia di vedersi caricare sulle spalle una pressione insostenibile anche per i suoi deltoidi. Se invece rappresenterà la leva per portare il fatturato della Juve più vicino a quello delle sue avversarie europee, allora farà da volano per il resto del movimento, e gioverà a tutto il calcio italiano; che trent’anni fa era la superpotenza mondiale, e oggi esce dall’era Tavecchio. In ogni caso, il romanzo popolare del calcio italiano ed europeo si arricchisce di un nuovo capitolo. Tutto da scrivere.

ci ma non meno importanti. Parlano soprattutto di danni in campo sociale. Nell’enclave agli oltre 500 disoccupati della casa da gioco si sono aggiunti anche 86 dipendenti dell’amministrazione che il comune ha dovuto mettere in mobilità, affidando i suoi servizi a soli 16 impiegati scelti in base ad anzianità, figli a carico ecc. Da questo quadro, purtroppo liquidato dai media italiani con brevi fototesti e cronache che tradivano disinteresse, sono emerse anche due curiose iniziative: una cordata di imprenditori con miracolistiche proposte (ovviamente solo immobiliari) e una indiretta richiesta di annessione di Campione alla Svizzera. Parlando con i media ticinesi di questa ipotesi secessionista il sindaco Salmoiraghi l’ha subito definita «folcloristica» e ha ricordato che prima bisognerebbe chiedere agli svizzeri cosa ne pensano. Forse anche lui pensava alla necessità di ricucire e di evitare strappi con una Roma già tormentata di suo. Comunque non era una «fake news»: la proposta era

giunta da una sindacalista campionese che, visto il disinteresse dei media e dei politici italiani, ha ipotizzato la richiesta di annessione come segno di riconoscenza verso chi invece continua a garantire servizi essenziali alla popolazione e a procrastinare pendenze finanziarie di non poco conto. Negli ultimi decenni Campione ha infatti concluso importanti e vitali accordi (riguardanti formazione, sanità, trasporti, servizi urbani ecc.) con il nostro Cantone e i maggiori comuni confinanti. Solo così ha potuto garantire continuità a una gestione del comune in continua lotta con le sempre più ridotte entrate derivanti dai giochi del Casinò, oltre che con il mantenimento dell’equiparazione alla moneta elvetica per salari, servizi, costi e prestazioni sociali. Sul tema dell’annessione una visita in Wikipedia basta per scoprire che duecento anni fa erano i cantoni svizzeri a rivendicare l’enclave italiana, con richieste di annessione prima rivolte a Napoleone e poi al Congresso di Vien-

na. Addirittura alcuni anni prima, quando il nostro Cantone ancora non esisteva, la Confederazione aveva proposto «sic et simpliciter» uno scambio del territorio di Campione con il villaggio di Indemini, ma «la questione non ebbe seguito». Solo nel 1848 i campionesi, allarmati da quanto stava accadendo in Italia (cinque giornate di Milano), fecero richiesta ufficiale di annessione alla Svizzera che il governo elvetico respinse «per opportunità politica al fine di conservare la dichiarata neutralità». Ultimo atto nel 1861: il governo del Regno d’Italia accettò la cessione al Ticino dei terreni campionesi della Costa di S. Martino e della Casaccia che, situati sulla riva opposta del lago, consentivano a Lugano di migliorare la rete stradale con Melide dove era già stato costruito il ponte diga verso Bissone. 150 anni dopo a Campione torna a spirare qualche refolo secessionista, ma, come dice il sindaco, è solo «roba folcloristica». Meglio impegnare le forze a salvare il «sistema», a ricucire.

In&outlet di Aldo Cazzullo Ronaldo e il romanzo del calcio Il secondo motivo è che i torinesi sono falsi freddi. Dietro la scorza dell’understatement, o meglio dell’«esageroma nen» caro anche a Bobbio, nascondono un’emotività che spunta nei momenti storici; e per i tifosi juventini l’arrivo di Ronaldo, definitivo segno di riscatto a 12 anni dal disastro di Moggi e dalla retrocessione, è un momento storico. Sia pure non paragonabile a un’altra circostanza, epica e solenne, in cui i torinesi mostrarono senza pudore i loro sentimenti. Quando Dino Buzzati arrivò in città

Wikipedia

Ero di passaggio a Torino, nel giorno in cui è arrivato Cristiano Ronaldo, ma devo dire che le scene di entusiasmo non mi hanno colpito più di tanto. Ricordavo un altro giorno in cui Torino impazzì, lo stadio fu preso d’assalto, si cantò, si pianse. E non era CR7; era Pietro Paolo Virdis. Anche il 25 luglio 1977 la città si fermò per un calciatore. Per due motivi. Il primo: Virdis a Torino non voleva venire. Legatissimo alla sua Sardegna, alla madre e alle tre sorelle, intendeva restare al Cagliari e riportarlo in serie A; per convincerlo dovettero muoversi Boniperti e uno zio sottosegretario alla Pubblica Istruzione. Migliaia di uomini e donne del Sud, immigrati per necessità, videro in quella storia la propria; e accolsero Virdis in un abbraccio furioso. Era ancora il tempo in cui i calciatori si potevano avvicinare e non arrivavano con l’aereo privato, come CR7. Che alla Juve farà senz’altro più gol di Virdis, destinato a dare il meglio di sé anni dopo nell’Udinese di Zico e nel Milan di Berlusconi.

Zig-Zag di Ovidio Biffi Fallimenti e sistemi da ricucire C’era un bell’editoriale del direttore Mario Calabresi su «Repubblica» lunedì scorso, esaustivo già nel titolo: Genova ferita si cura ricucendo non strappando. Mi convince a tracciare un paragone fra il crollo del ponte di Genova e il fallimento del Casinò di Campione, pur temendo che possa sembrare irriverente. Avevo notato prima una equivalenza fra i due eventi: a Genova 600 cittadini privati della casa; a Campione quasi 600 cittadini privati del lavoro. Poi un parallelismo anche nella ricostruzione: a Genova un ponte che possa tornare a collegare Ponente e Levante, garantendo uno snodo a trasporti, logistica e commerci; a Campione un Casinò che torni a garantire entrate alle casse comunali. Infine, un’altra analogia: i due comuni, di colpo, si ritrovano praticamente a dover vivere come negli anni Cinquanta visto che a Genova il dissesto urbanistico sconvolge tutto il «sistema Liguria» e nella vicina enclave il fallimento della casa da gioco disgrega il «sistema Campione».

Certo, a Genova c’è il lutto: la tragedia è aggravata dai morti. Inoltre un ponte è opera dell’uomo e se cede è fallimento di una ingegneria bolsa, o dell’incuria e di sovraccarichi prolungati, o di una somma di tutto questo. In più il collasso di un ponte autostradale a quattro corsie non riguarda solo una città o una regione, ma estende il danno alle infrastrutture di tutta l’Italia, alla politica che con dichiarazioni e rimpalli su cause, colpe e danni ancora tutti da accertare riesce solo a confermare l’assurdità della situazione, a dimenticare che il livello di precarietà di 45 mila infrastrutture (ponti, viadotti e gallerie) della rete stradale italiana, di cui una decina sono crollate negli ultimi tempi, è segnato da almeno 300 ad alto rischio! Dati drammatici, davanti ai quali il direttore dell’Istituto italiano di tecnologia Roberto Cingolani ha espresso un lapidario giudizio: «Da disorganizzati e vetusti siamo diventati pericolosi». I numeri di Campione, non dovendo conteggiare vittime, sono meno tragi-


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Cultura e Spettacoli Un percorso a Morcote L’arte esce dal museo e arriva dove non te l’aspetti, riuscendo a stupire e a suscitare emozioni

Andiamo al circo? Un tempo era politically correct parlare di fenomeni da baraccone; in un nuovo libro di Sellerio si ripercorre la storia di Barnum

Un omaggio al Re Cremisi Un quartetto di jazzisti italiani dedica un album alla musica dei King Crimson

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The National live La band statunitense regala ai suoi fan Boxer, imperdibile live registrato a Bruxelles pagina 29

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Rihla ila Jabal Tamalpaïs, (Viaggio al Monte Tamapaïs), 2008. (Collection Claude & France Lemand, Paris, copyright Etel Adnan. Courtesy Galerie Claude Lemand, Paris)

La magnifica ossessione di Etel Adnan Mostre Il Zentrum Paul Klee rende omaggio alla pittrice e poeta franco-libanese «innamorata» di Klee Emanuela Burgazzoli L’incontro più importante della sua vita – ha dichiarato la stessa Etel Adnan – è stato quello con una montagna; il monte Tamalpais, nei pressi di Sausalito, una piccola città a Nord di San Francisco, dove la pittrice libanese si era trasferita alla fine degli anni Cinquanta per insegnare al locale collegio domenicano e dove soggiornerà per lunghi periodi. Quella montagna diventa un soggetto pittorico trattato in centinaia di acquarelli e decine di dipinti, e come era accaduto per Cézanne e la «sua» Saint-Victoire, la ricerca quasi mistica della pittura e dell’assoluto, che dura tutta una vita. Negli anni Ottanta questa ricerca prende la forma di un libro di riflessioni sul rapporto fra arte e natura (Viaggio al Monte Tamalpais), nel 2008 invece Adnan realizza un leporello in cui si intrecciano scrittura e pittura e la montagna si è semplificata in un triangolo nero appoggiato sul testo. Scrittura e pittura, figurazione e astrazione, dipinto e libro, natura e creazione artistica; sono già tutte lì le coordinate entro le quali si dipana e si svolge la vita di questa artista, nata a Beirut nel

1925, da padre siriano musulmano e da una madre greca cristiana originaria di Smirne. Etel Adnan, che fin da bambina parla il greco, il turco e il francese, è nata in un mondo molto diverso da quello che avevano conosciuto i suoi genitori, come ricorda lei stessa, «gli alleati avevano occupato l’Arabia orientale e si erano spartiti la regione, i francesi rivendicavano un territorio che avevano diviso in due, la Siria e il Libano». Comincia a scrivere le sue prime poesie in francese a vent’anni; a 25 anni è a Parigi alla Sorbona per studiare filosofia, qualche anno più tardi è in California, a Berkeley dove prepara la sua tesi di dottorato in estetica: «era come atterrare su un altro pianeta», dichiara più tardi. Alla fine degli anni Cinquanta gli Stati Uniti sono un paese che sta vivendo un importante fermento culturale, ma anche sociale e politico: dai movimenti studenteschi alla Beat Generation alla lotta per i diritti civili, al rinnovamento della poesia. Nel 1964 un altro fondamentale incontro: la lettura dei diari di Paul Klee nella prima edizione inglese folgorano Etel Adnan: «Penso che Paul Klee sia stato il primo pittore di cui mi innamorai». Una rivelazione che si riflette nel

percorso espositivo sotto forma di dialogo serrato fra i dipinti di Klee e le opere di Adnan, che sono una vera esplosione di colore e forme. Nei primi anni si tratta per lo più di quadrati, realizzati accostando colori primari e secondari, spalmati direttamente sulla tela. In questo periodo appare spesso anche un quadrato rosso, un omaggio a Malevic. E Adnan molto deve anche ai maestri dell’Avanguardia russa, incluso Kandinsky; lo si percepisce nei suoi arazzi colorati che mutano il reticolo della tessitura tradizionale in una composizione astratta, dinamica e plastica. Un’arte – quella della tessitura – che aveva scoperto nell’atelier di un architetto egiziano alla fine degli anni Sessanta. Con il tempo la composizione passa dal reticolo di forme geometriche costruito su verticalità e orizzontalità a mosaici di forme più irregolari che sembrano disegnare profili di paesaggi, orizzonti di montagne e mari lontani; in questi piccoli formati Etel Adnan ha compiuto in un suo personale stile la riconciliazione fra linguaggio astratto e figurativo. Le potenzialità della linea e del segno sono quelle che insegue anche nella scrittura che ricopre i suoi leporelli: lunghi fogli di carta giapponese sui

quali le immagini e le parole scorrono come su lunghi schermi, dapprima copiando poesie di poeti arabi, poi traducendo dall’inglese i propri testi. Adnan è annoverata infatti fra le fondatrici di un movimento letterario che cercava nuova ispirazione attingendo alla tradizione calligrafica araba. Come accade anche per Klee, la pittrice libanese sembra ben presto attratta dalla potenzialità grafica della linea delle lettere dell’alfabeto, dal legame profondo fra scrittura e disegno. C’è anche una ragione ideologica se Adnan abbandona il francese: è una reazione a quanto sta accadendo in Algeria: la guerra sarà una sorta di epifania per l’artista-poeta: «Non avevo più bisogno di scrivere in francese, avrei dipinto in arabo» racconta in seguito. La ritroviamo anni dopo in un momento cruciale in Libano, quando scoppia la guerra a metà degli anni Settanta, lavora come giornalista; nel 1977 a Parigi scrive il romanzo Sitt Marie Rose, che diventa un classico della letteratura di guerra. La sua fama di scrittrice pacifista, femminista e ambientalista è ormai consolidata. La sua fama di artista a livello internazionale invece arriva con la par-

tecipazione a Documenta (13) nel 2012: il pubblico scopre quel suo astrattismo luminoso, ma con un linguaggio che non è legato alla sua appartenenza alla cultura araba eppure ne è profondamente pervaso, anche ispirato a quel mare Mediterraneo che la madre le ha fatto conoscere da bambina sulle coste libanesi. Un linguaggio che perfeziona continuamente l’esplorazione dell’insondabile confine fra ordine e caos, fra impetuosa irruenza e calma, fra profonda malinconia e assoluta gioia (ne sono un esempio la serie della «quattro stagioni» del 2017). All’identità di Adnan ha certo contribuito anche la sua storia di famiglia – travolta dalla fine dell’Impero ottomano – che con le sue lacune e i suoi capitoli vuoti, i distacchi, ha proiettato nel suo presente la necessità di recuperare la memoria, di rendere omaggio all’assenza, come si intuisce guardando il bel film-documentario proiettato in mostra. Dove e quando

Etel Adnan. Zentrum Paul Klee, Berna. Orari: ma-do 10.00-17.00; lunedì chiuso. Fino al 7 ottobre 2018. Info: www.zpk.org


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Cultura e Spettacoli Gysin-Vanetti Ostacoli, 2018 Legno verniciato. (© Daniela & Tonatiuh)

Come si pesava nella Roma antica? Mostre Una mostra al Musée romain

di Vallon ci riporta indietro nel tempo Marco Horat

Morcote museo a cielo aperto

Mostre Il borgo lacustre ospita la seconda edizione della rassegna

di arte pubblica Alessia Brughera

Da tempo l’arte non vive più soltanto nelle sedi convenzionalmente deputate all’esposizione ma si espande nel tessuto urbano, intrecciando una rete di relazioni culturali con la società attraverso azioni e forme legate alle urgenze del contemporaneo. Molti artisti sentono forte l’esigenza di portare il proprio lavoro in un luogo che per definizione è un’area di scambio e di dialogo. Abbattendo le inibizioni e i limiti che contenitori chiusi quali musei e gallerie creano nel rapporto tra opera e spettatore, l’arte pubblica invade l’esistenza comune delle persone mutando la loro abituale visione degli spazi quotidiani. È un’arte che la gente spesso fruisce in maniera casuale e inattesa, e che proprio per questo può innescare reazioni e riflessioni più spontanee rispetto al confronto consapevole che si instaura con le opere nelle sale museali. L’elemento inconsueto si insinua così nei contesti della vita di tutti i giorni e si fa incentivo per l’occhio e per la mente: il non-familiare si trasforma in familiare diventando parte di un immaginario condiviso e metafora di come la collettività riesca ad assorbire uno stimolo facendolo confluire nella propria storia. Strumento privilegiato per sviluppare connessioni tra opera, persone e tessuto cittadino, l’arte pubblica carica di nuovi significati i paesaggi sociali e genera meccanismi inediti di partecipazione. Lo spettatore diviene attore, l’opera d’arte smette di essere considerata come qualcosa di lontano e avulso dalla comunità, l’artista scende dal suo piedistallo per mischiarsi tra la gente e penetrare la realtà del mondo esterno. Non è quindi un caso che la rassegna di arte pubblica di Morcote, giunta alla sua seconda edizione, abbia come titolo Lo spazio ritrovato, a sottolineare come l’arte possa valorizzare la città e condurre i visitatori a una sua riscoperta attraverso la forza motrice della creatività. La mostra si dispiega per tutto il villaggio, costellando di segni artistici della contemporaneità il lungolago, le

viuzze del paese, i monumenti storici e le bellezze naturalistiche. L’itinerario, che ha come punto di partenza ideale l’autosilo comunale Garavello (dove ci si può munire di un’utile mappa) e come punto di arrivo il Parco Scherrer, è costituito da quindici opere di artisti provenienti dal nostro cantone, dalla Svizzera e dall’estero. Nella maggior parte dei casi i lavori sono site-specific, concepiti dagli autori per colloquiare con le peculiarità di Morcote. Tra gli interventi che incontriamo a inizio percorso, di particolare interesse è l’installazione che la giovane ticinese Elisa Storelli ha realizzato in collaborazione con l’artista tedesco Constantin Engelmann, un lavoro intitolato Reality Glitch in cui due anemoscopi per la misurazione del vento segnano direzioni opposte del flusso dell’aria: ciò che si crea è un inganno visivo, testimonianza della capacità dei due autori di manipolare in maniera ludica le leggi fisiche. Un’altra coppia di artisti, Sabina Lang e Daniel Baumann, ha giocato con lo spettatore e con il contesto urbano di Morcote collocando nelle finestre di un edificio dei cilindri in poliuretano che, gonfiandosi, diventano grandi sfere trasparenti. Significativi rappresentanti della scena artistica bernese, i due amano sollecitare l’immaginazione attraverso opere effimere fatte con materiali modesti, sfidando le regole della percezione in stretto dialogo con lo spazio. Di una semplicità solo apparente è il lavoro di Adriana Beretta, artista nata a Brissago la cui produzione si muove tra pittura, fotografia, disegno e installazione. A Morcote la Beretta è intervenuta all’interno di un’edicola con un’opera in marmo bianco che ridefinisce l’ambiente delineando nuove traiettorie visive. Nella sua essenzialità, essa risulta emblematica di una ricerca volta a svelare la complessità dei processi percettivi. Agli antipodi per l’effetto spettacolare che ha sul fruitore è l’installazione dell’italiano Alberto Biasi, figura vicina all’arte cinetica fin dagli anni Cinquanta, momento di massima notorietà di questa corrente legata allo

studio dei meccanismi della visione e dei fenomeni ottici e della luce. L’opera che l’artista ha portato a Morcote è un lavoro storico riadattato per l’occasione: inserito nell’Oratorio di Sant’Antonio da Padova, Light Prism coinvolge lo spettatore con giochi luminosi e illusioni di movimento che generano uno scenografico arcobaleno cangiante. Nella poliedrica cornice del Parco Scherrer, bella è l’opera del duo ticinese Gysin-Vanetti, espressione dello spirito ludico che anima la coppia e della sua abilità nel dar vita a lavori che sanno sorprendere rivoluzionando la conoscenza che abbiamo degli oggetti quotidiani. È così che alcuni ostacoli per cavalli, sottratti alla loro abituale funzione, vengono adagiati sul prato, uno accanto all’altro, a creare colorati schemi geometrici che li rendono imprevisti veicoli d’arte. Altro artista presente nel lussureggiante contesto del parco è Arthur Duff, nato in Germania da genitori americani e vicentino d’adozione, interessato all’utilizzo di neon, LED e diodi laser per produrre complesse strutture esperienziali che esortano la percezione. Nella limonaia, Duff ha inserito una delle sue tipiche opere in cui luce e parola sono gli strumenti per plasmare l’ambiente e caricarlo di nuove accezioni: le scritte al neon appese a lunghe corde in poliestere non hanno solo un valore narrativo ma divengono vere e proprie presenze scultoree che modulano lo spazio in maniera sottile e penetrante. Ciò che emerge dalla rassegna di Morcote è come tutti gli artisti coinvolti siano riusciti, cosa non facile, a bilanciare la dimensione collettiva dell’arte pubblica con la ricerca di un contatto intimo con il singolo fruitore, attivando così un dialogo aperto e stimolante con la comunità e l’individuo.

Ci sono musei, come è il caso del Musée romain di Vallon, che seguono con coerenza una strada imboccata qualche anno fa mettendo in gioco i numerosi reperti provenienti dalla regione dei Tre laghi, di proprietà del museo stesso come pure di altre istituzioni nazionali, con lo scopo di raccontare come si svolgeva da noi la vita quotidiana ai tempi di Roma antica. Si è così parlato della cucina e dello stare a tavola, dell’igiene e della salute pubblica mentre quest’anno tocca a concetti quali contare, calcolare e misurare. Già dal titolo della mostra si intuisce come il discorso sia intrigante e complesso: ci sono lettere che sembrano cifre e ci sono cifre che sono invece lettere. Le iscrizioni romane che spesso riportano date e cifre incise su lapidi e monumenti vari le sappiamo ancora leggere correttamente? Cosa ci raccontano? E a che scopo imparare a farlo? Forse non solo perché re e papi lo esigono: infatti si deve ancora scrivere Elisabetta II, Luigi XIV, Giovanni XXIII. «L’argomento è molto importante e viene trattato in quattro postazioni contrassegnate da colori diversi, più un’appendice didattica e ludica alla fine del percorso espositivo – spiega la direttrice Clara Agustoni. Una prima parte serve da introduzione generale al tema, la seconda tratta di pesi e misure lineari, la terza della misurazione del tempo e dei calendari, mentre nell’ultima si parla di soldi. Per ognuna si parte da un oggetto-guida per poi declinare il discorso mettendo in valore il ricco patrimonio scoperto negli anni venuto alla luce nella nostra regione, che era allora un centro vitale per l’impero romano». Per la coesione di un impero che abbracciava il Mediterraneo e oltre, era di fondamentale importanza che vi fossero elementi omogenei: un ordinamento giuridico armonioso, una lingua ufficiale di comunicazione, il riconoscimento dell’autorità imperiale, ma anche un’uniformità di pesi e misure a vantaggio del mondo dei commerci, nella vita quotidiana e negli scambi tra popoli. Come fa un costruttore a dare disposizioni ai vari artigiani circa la lunghezza, l’altezza di un manufatto se ognuno misura a modo suo in pollici, braccia, palmi, cubiti o piedi (tutte misure dedotte dal corpo umano)? Poi c’era piede e piede: quello romano misurava cm 29,56, il piede pompeiano un po’ di meno e quello di Vindonissa un po’ di più. Giulio Cesare e compagni dovevano trovare un comune denominatore, anche per gli altri settori della vita sociale. Come avrebbe fatto un commerciante a stabilire il valore del suo olio di oliva se non aveva a disposizione un’unità di base da tutti riconosciuta? Ecco le anfore di circa 75 litri universalmen-

te diffuse nell’impero. Pagabili con quale moneta? Nascono la cosiddetta «mensa ponderaria» e i relativi funzionari imperiali che devono verificare che non ci siano imbrogli sui pesi e le quantità (in mostra un esemplare da Nyon). Curioso un bilancino utilizzato fino al I secolo per la misura delle monete in argento e una serie di stadere, dette appunto in francese «bilance romane», trovate proprio a Vallon. Sembra che per contare l’uomo abbia iniziato dalle conchiglie e dai sassolini per poi passare alle tacche su un osso o su un bastone: quanti animali possiedo, quanti ne ho cacciati ieri, quanti figli ho fatto, quanti giorni sono trascorsi, quanti nemici devo affrontare in battaglia, eccetera. Ma se fino a quattro lineette è facile contare a prima vista, il discorso si complica quando i numeri diventano più grandi. I romani passano così alle lettere: la «V» per indicare 5, la «X» per il 10, «C» per 100, «M» è 1000 e via dicendo, con un sistema di scrittura abbastanza macchinoso, dal momento che non conoscono il valore dello 0 che usiamo nel sistema decimale odierno, importato dal mondo arabo, ma nato probabilmente in India. Le cose si complicano ulteriormente per numeri altissimi per cui è necessario pensare ad altri stratagemmi, come sembra sia successo a partire dal II secolo a.C., stando a quanto scrive Plinio il Vecchio; nasce la linea orizzontale sopra la letteracifra: ad esempio una «V» sovrastata da una linea orizzontale che vale 5000. Ma nelle epigrafi trovate in tutto il mondo romano si sono purtroppo riscontrate molte anomalie delle quali gli studiosi devono tener conto per non cadere in equivoci: un esempio semplice è il 5 scritto incidendo 5 lineette verticali. Ancora più complesso è il capitolo relativo alla misurazione del tempo e di conseguenza alla stesura dei vari calendari che si sono susseguiti, basati su conoscenze astronomiche e astrologiche vieppiù precise. In mostra una rarissima iscrizione da Avanches che riporta la data di un preciso martedì 2 aprile; in un’altra si legge di un tale morto all’età di 92 anni (sicuramente l’Elvezio più longevo della storia), mentre una terza iscrizione ci dice di una bambina deceduta all’età di un anno e cinquanta giorni. Il tempo veniva misurato in ore, giorni, settimane, mesi e anni... seppure con nomi e valori quasi sempre diversi da quelli attuali. Una storia intrigante tutta da scoprire lungo il percorso della mostra di Vallon. Dove e quando

Des chiffres et des lettres. Compter, calculer, mesurer à l’èpoque romaine, Musée romain de Vallon (Carignan 6). Fino al 24 febbraio 2019. Orari: me-do 13.00-17.00. www.museevallon.ch

Dove e quando

Lo spazio ritrovato. Rassegna di arte pubblica. Morcote. Fino al 23 settembre 2018. Nel borgo le opere sono fruibili gratuitamente e senza limiti di accesso. Orari Parco Scherrer: 10.0017.00, luglio e agosto 10.00-18.00.

Copia di lapide romana in piazza del Campidoglio, Roma. (wikimedia)


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Cultura e Spettacoli

Distrarsi con un freak

Pubblicazioni Esce per Sellerio un libro

che cerca di ripercorrere la figura dell’impresario circense P.T. Barnum

Mariarosa Mancuso Nel 1995 Alessandro Baricco pubblicò in volume gli articoli scritti per «La Stampa» sotto la testatina Barnum. Impresa sempre rischiosa, con materiali fabbricati per durare un giorno: basta rileggersi anche solo qualche mese dopo per accorgersi di quanto risentono del tempo che passa. Barnum 2 – sempre con il sottotitolo Cronache dal grande show era il titolo di una raccolta successiva (dopo il passaggio dello scrittore a «Repubblica»). Presi insieme, a riguardarli oggi, sono un documento della cultura popolare nell’epoca che non conosceva gli smartphone e i social. Non è nostalgia, semplice constatazione di cose che allora sembravano nuovissime e ora sono considerate quasi classiche: valga per tutti l’esempio di Jovanotti, che era partito dal grido di guerra «Uno due tre casino…» e ora viene considerato un pensatore di riferimento. Bastava la parola, «Barnum». Nessuno si prese la briga di curiosare sul personaggio che era diventato sinonimo di circo a tre piste (del resto, era stato lui a inventare la formula, durata con il suo nome in ditta fino all’anno scorso). Sull’uomo che era diventato

ricco mostrando a un pubblico pagante e curioso una vecchietta ultracentenaria che sosteneva di aver tenuto a balia il piccolo George Washington. In mostra c’erano anche la Donna Barbuta, il minuscolo Generale Tom Thumb, i gemelli siamesi Chan e Eng, lo scheletro umano, l’elefante Jumbo portato via con gran clamore (e un cospicuo assegno) dallo zoo di Londra, rischiando una crisi diplomatica tra i due paesi. Il pachiderma ai suoi tempi era una celebrità, da lì viene il nome del Jumbo Jet. E da lì viene l’elefantino disneyano Dumbo: Tim Burton sta rigirando il cartone animato in live action, con qualche aiutino tecnico perché nella realtà i pachidermi svolazzanti non li ha mai visti nessuno (uscirà a marzo 2019). Phineas Taylor Barnum, classe 1810, era il perfetto americano che con i soldi comprava ogni cosa. E riusciva a fare un sacco di soldi con qualsiasi spettacolo gli venisse in mente. «Prudente, solerte e perseverante come uno scozzese, frugale e lindo come un olandese, interessato ai soldi come un ebreo», scrive senza ritegno Frances Trollope nel 1832, in un libro intitolato Domestic Manners of The American. Ancora si avverte il rancore britannico

Una cartolina pubblicitaria (1890 ca.) annuncia l’arrivo del circo Barnum & Bailey. (Keystone)

per gli ex coloni che avevano buttato a mare le casse di tè nel porto di Boston, al grido di «no taxation without representation». E aveva dichiarato l’indipendenza (se il cognome vi ricorda qualcosa, ebbene sì: Frances Trollope – detta Fanny – era la madre del romanziere Anthony Trollope). Agli occhi di sé medesimo, lo ribadisce in tutte e tre le sue autobiografie, Barnum era un benefattore dell’umanità. In missione per conto di Dio. «Uomini donne e bambini, non potendo vivere di sole occupazioni serie, hanno bisogno di qualcosa che assecondi il loro umore e i loro momenti più gai e leggeri, e chi appaga tale bisogno adempie a una funzione selezionata dall’Autore della nostra natura». Questo leggiamo in Battaglie e trionfi – qua-

rant’anni di ricordi, appena uscito da Sellerio e curato da Andrea Asioli, che ha messo insieme tre memoir scritti in periodi diversi con intenti diversi – nell’ultimo ammette che certe attrazioni non erano proprio genuine – e ha scovato due scritti dimenticati di Mark Twain sull’amico-rivale. The Greatest Showman è un musical di Hugh Jackman uscito l’anno scorso, dedicato appunto a P. T. Barnum. C’era già stato, diretto da Cecil B. De Mille nel 1952, Il più grande spettacolo del mondo, con i veri trapezisti, e acrobati, e domatori, e clown del circo Barnum, che dopo una serie di avventure, personali e societarie, aveva una ragion sociale più complicata, Cherchez la femme, ovvero una cantante d’opera che si chiamava Jenny Lind, l’usignolo

svedese: a 29 anni si era ritirata dalle scene e fu scritturata per un tour americano dall’impresario, in cerca di entrature nel salotto buono. Siccome oggi si parla solo e sempre di inclusione & diversità, Hugh Jackman regala al suo Barnum una sensibilità moderna del tutto anacronistica. Le sue bizzarre creature non si sarebbero mai messe a cantare con fierezza «Bizzarro è bello». Erano altri tempi, magnificamente spiegati dal critico letterario americano Leslie Fiedler nel suo saggio intitolato Freaks (appena ristampato da Il Saggiatore, in libreria mancava da tantissimo). Freaks come «scherzo di natura» (da lì prendono nome i «fricchettoni») e come «mostro»: una lunga – e molto affettuosa – storia delle creature fuori misura.

Ciao a tutti! Linguistica Nella bella serie del Mulino dedicata alle parole che fanno la storia dell’italiano, un volumetto,

simpatico e approfondito, sul saluto più diffuso al mondo Stefano Vassere «Bisogna propriamente dover dire in mezzo a questa Babilonia di ladri e asini, che tale è divenuta la terra del sì, a cui è subentrata la terra del ciao e della buzzurreria, per essere spettatori e vittime di queste non meno furfantesche che ridicole contraddizioni. L’Italia, la terra del sì o terra del ciao, è feconda e feracissima di bestie». È noto che nel lessico dell’italiano (e di tutte le altre lingue) alcune parole non sono semplici parole, ma spesso sono mondi interi, amplissimi nelle coordinate spaziali e temporali: esse portano non un significato ma un’enciclopedia di significati, raggiungono geografie lontane e non di rado fuori dal nostro e dal loro territorio; ripiombano tutti indietro nel tempo, in epoche lontane, su su fino alla loro origine etimologica che non di rado ci sorprende e ci svela ulteriori strade linguistiche e culturali. Succede così, con le parole della collana della casa

editrice il Mulino che si chiama «Parole nostre», la quale, dopo Bravo, Pizza e Parola (la parola parola) giunge ora a Ciao curato da Nicola De Blasi, che insegna Storia della lingua italiana nell’Università di Napoli «Federico II». Ciao è anche una specie di parolasimbolo di un intero cammino sociolinguistico: perché viene dal dialetto (veneziano o lombardo), poi migra nell’italiano regionale settentrionale escluso il Piemonte, trova qualche resistenza al Centro-Sud, finalmente approda nemmeno troppo tempo fa in pieno Novecento all’italiano tout court, quello senza condizionamenti regionali, e parlato e scritto tutti i giorni. Ma non è tutto, perché ciao infine parte alla conquista del mondo insieme a pizza, mamma mia, cappuccino, spaghetti e tutte le sue amiche del made in Italy più tradizionale. Appurato e dimostrato fonti alla mano (lo sanno quasi tutti, del resto) che l’origine del nome trae spunto dall’uso del termine schiavo come formula di

saluto («Vostro schiavo!» come «Servo vostro!»), compito del lettore di questo libro è seguire De Blasi lungo le non facili strade che portano a datare i pri-

mi usi dei derivati di schiavo in questo significato. La storia della parola è decisamente divertente. Scopriremo ad esempio che ciao si diffonde forse non a caso mentre si estende il potere del confidenziale tu; che fu combattuto nelle regioni dove era percepito come settentrionale, teatrale e snob (a Napoli e a Roma, dove fu spesso preso in giro e associato a valori ritenuti estranei e volgari); che già nella sua forma originale e nelle commedie di Carlo Goldoni non era inusuale una reduplicazione schiavo schiavo come l’odierno ciao ciao; che l’opacità etimologica doveva già essere piuttosto diffusa un secolo e mezzo fa se l’illustre storico Cesare Cantù ne identificava un’origine celtica; che già in Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro lo usano con il significato di «andiamo avanti» (ma non con quello di «ci è andata bene» che è di s-ciáo nel dialetto ticinese); che ciaone non è termine recente e televisivo come potrebbe sembrare, forse.

Parlare di ciao significa infine accostare una disciplina ponte e a suo modo regina della linguistica moderna, la pragmatica. Che studia come si fanno letteralmente delle cose con le parole e come le parole riflettono quello che si sta facendo. Così, immagine coraggiosa ma piena di fascino affidata alle ultime pagine di questo sapiente libro (poco prima di congedare il lettore con i versi di «Ciao ciao ciao, morettina bella ciao» che tutti conosciamo) ci dice che fior di linguisti e un po’ anche l’autore si fidano dell’ipotesi che avvicina la gestualità associata al saluto, quella della mano alzata che apre e chiude il palmo più e più volte, all’unico gesto consentito alle mani di chi, come uno schiavo, «avendo i polsi legati, può solo aprire la mano o muovere le dita». Bibliografia

Nicola De Blasi, Ciao, Bologna, il Mulino, 2018. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Il prog che diventa jazz CD Album tributo (ma non solo) a una delle band storiche

britanniche, grazie a un eccellente quartetto italiano Le etichette applicate ai generi musicali sono sempre pericolose. Appassionati e critici musicali però finiscono per usarle molto spesso, se non altro perché rendono più facili i discorsi. Sono punti di riferimento, da cui muovere per spiegare meglio il proprio pensiero. Inevitabile ricorrere alle etichette di genere, ad esempio, per parlare di un album come Frames of Crimson, proposto dall’esuberante trio composto da Bebo Ferra alla chitarra, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria, coadiuvati dal formidabile trombonista pugliese Gianluca Petrella. L’album, pubblicato dall’etichetta Via Veneto Jazz qualche mese fa, è molto interessante proprio perché cerca di creare un corto circuito di genere, andando alla radice di alcuni tra i più famosi brani proposti nella loro quarantennale carriera dai King Crimson, e cercando di estrarne la magica essenza. Un’impresa realmente difficile: la band inglese di Robert Fripp è, come

i suoi appassionati sanno, un nucleo proteiforme, tanto evanescente e inafferrabile, quanto solido e roccioso nella sua personalità. Una band fatta di sperimentazione e di lirismo che nel giro di pochi anni, tra il 1969 e il 1976, ha prodotto dischi memorabili, raffinatissimi, ruvidi e godibili. E che fino al 2013 ha continuato a sorprendere la comunità musicale con opere sempre diverse e profondamente inventive. Avevano cominciato nel 1969 con lo stupendo In the Court of the Crimson King, per passare a opere di ostinata perfezione formale e iconoclastica come (tra gli altri) Lizard (1970), Island (1971), Lark Tongues in Aspic (1973) e poi i più elettrici Discipline (1981) e Three of a perfect pair (1984). Ma tutti i dischi della formazione britannica meritano un posto nella memoria collettiva e proprio l’album di Bebo Ferra e soci può fornire un pretesto per un riascolto storico-cronologico. Da cui possono venire a galla alcune considerazioni: riascoltati oggi, i King Crimson «originali» mostrano una vena jazzistica che va assolutamente rivalutata, e si inserisce in quella corrente musicale britannica che all’esperienza improvvisativa «free» ha così tanto contribuito. Certo, l’impianto lirico di brani come I talk to the wind, Cadence and cascade, Lady of the dancing waters (influenzati dalla vena poetica del paroliere Pete Sinfield) è una delle caratteristiche più romantiche e riconoscibili nel

suono della band londinese. E inevitabilmente anche il repertorio di Frames of Crimson sembra tener conto di questa componente melodica, riproponendo appunto alcune «dolcezze» crimsoniane. Lo fa però con un gusto aperto e sincero, con l’intenzione di espandere non tanto l’afflato lirico (forse un po’ demodé) dei brani, ma con il proposito di renderli moderni standard, da rivitalizzare e reinterpretare attraverso la solida personalità strumentale di ognuno dei musicisti in gioco. Inutile dire che la forte personalità dei pezzi di Robert Fripp è talmente imponente da obbligare il quartetto a seguire le indicazioni originarie (si veda il caso di «monumenti» come Frame by Frame o Cat Food, resi in modo perfettamente riconoscibile e ortodosso). Nel complesso la sfida di «risuonare i Crimson» è mantenuta con lucidità e coraggio e risolta anche con l’inserimento nella scaletta di alcuni brani originali di Ferra e della band: sono pezzi di ispirazione libera ma focalizzata, tanto che pare vi facciano capolino frammenti di melodie frippiane. E qui sta il punto interessante di questa produzione: ci predispone ad osservare lo sforzo di differenziazione compiuto dal gruppo, nel profondo rispetto che comunque traspare per il materiale di partenza. Nella godibilità di quello scarto sta la chiave di lettura di un album, che è anche un invito a riconoscere la grandezza di uno dei maggiori gruppi rock di tutti i tempi. /AZ

L’OSI alle Settimane Musicali di Ascona Concorso In palio i biglietti per il concerto

di lunedì 10 settembre La 73esima edizione della rassegna Settimane musicali di Ascona, riprende i suoi appuntamenti con la musica classica giovedì 6 settembre con la Tonhalle Orchester di Zurigo. Questa stagione celebrerà il genio di Bach e lunedì 10 settembre, alla Chiesa del Collegio Papio di Ascona, il protagonista sarà il violino di Agustin Haderlich, diretto da Jérémie Rhorer e accompagnato dal talento magistrale dell’Orchestra della Svizzera Italiana nel Concerto per violino e orchestra di Ligeti. Una performance di altissimo livello: Augustin Hadelich, nato nel 1984 in Italia, ma di origine tedesca, è ritenuto uno dei più grandi violinisti della sua generazione. Ha studiato a New York, alla Julliard School, e il suo strumento, è uno Stradivari «ExKiesewetter» del 1723 e lo accompagna nelle sue esibizioni in Europa e nel resto del mondo. Suona con tutte le maggiori orchestre statunitensi e si esibirà come solista con la S. Francisco Symphony e con le orchestre di Atlanta, Detroit, Fort Worth, Houston, Indianapolis, Pittsburgh, Seattle e S. Louis. Nel 2016 è stato premiato con un Grammy Award per la registrazione del Concerto per violino L’Arbre des songes di Dutilleux, solo uno fra i tanti premi ottenuti da Augustin Hadelich grazie alle sue capacità lodate dalla critica. La sua strepitosa tecnica, la poesia e sensibilità delle sue esecuzioni, il tono trascinante, lo rendono uno

Augustin Hadelich. (gennarocannavacciuolo.com)

dei più apprezzati violinisti dei nostri tempi. Questo atteso concerto dell’Orchestra della Svizzera Italiana, in cui verranno eseguite le 3 Corali di Johann Sebastian Bach (1685-1750) arrangiate da Ottorino Respighi, il Concerto per violino e orchestra di György Ligeti (1923-2006) e la Sinfonia n.3, op. 56 «Scozzese» di Felix Mendelssohn-Bartholdy (1809-1847), sarà trasmesso in diretta radiofonica su Rete Due. Settimane Musicali Ascona

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Cultura e Spettacoli

The National, il lavoro migliore

Musica Dieci anni di irrefrenabili malinconie: un inaspettato album dal vivo celebra l’anniversario

di uno dei lavori più riusciti (e nichilisti) dei The National

Benedicta Froelich Fin dalla sua istituzione, nel 2007, il Record Store Day – celebrato in tutto il mondo ogni terzo sabato di aprile – ha rappresentato una valida occasione per festeggiare e supportare il sempre più minacciato settore dei negozi di dischi indipendenti: una roccaforte composta da miriadi di «porti sicuri» ancora sparpagliati attraverso il globo, ormai letteralmente attanagliati dallo strapotere delle catene di megastore internazionali. Tanto che, come a voler sottolineare la propria solidarietà nei confronti di questi «ultimi avamposti», negli anni più recenti svariati artisti si sono prodotti in esibizioni speciali o nella registrazione di dischi in onore della ricorrenza; proprio come, il 21 aprile scorso, ha fatto l’ormai apprezzatissima rock band statunitense dei The National, dando alle stampe un progetto succoso quanto inaspettato – un live album intitolato semplicemente Boxer – Live in Brussels: nientemeno che la riproposizione dal vivo, registrata nel novembre 2017 sul palco del celebre auditorium belga Forest National, di un lavoro seminale quale l’eccellente Boxer, pubblicato dalla band nel lontano 2007. E poiché il decennale dell’opera coincide con quello del Record Store Day, il gruppo capitanato da Matt Berninger ha deciso di celebrarlo tramite l’esecuzione integrale (traccia per traccia, seguendo l’ordine imposto dalla

tracklist originale) del disco che, per la formazione di Cincinnati, ha rappresentato il quarto sforzo creativo dopo l’esordio del 2001. Per la gioia dei fan, da pochi giorni questa registrazione è, infine, disponibile online e su supporto CD – del resto, la maggior parte degli estimatori dei The National ha sempre considerato Boxer uno dei lavori migliori della band: un disco che racchiude in sé tutte le tematiche da sempre care al songwriting amaro e disincantato di Matt e compagni, a partire dalla costante riflessione sull’ineluttabile futilità dell’umana esistenza, fino alla predilezione per gli struggenti affreschi sull’intrinseca inadeguatezza di ogni relazione sentimentale. Certo, il fatto che questo live set presenti una versione dell’opera scevra da grandi alterazioni o sorprese potrebbe suonare come un limite per gli ascoltatori più esigenti, considerando come i potenziali riarrangiamenti e ritocchi effettuati dalla band si riducano, in realtà, a poca cosa; eppure, per molti tra gli estimatori dei The National (e chi scrive si colloca tra questi ultimi), tale apparente mancanza costituisce piuttosto un pregio, dal momento che permette di concentrarsi sulle sfumature e i dettagli dell’interpretazione dal vivo, e su come essi tingano le canzoni di rinnovati, diversi significati e suggestioni – intessendo atmosfere in alcuni casi ancor più rivelatrici che nelle ver-

sioni originali. È il caso, ad esempio, di un piccolo capolavoro come lo struggente Slow Show, il quale nulla ha perso della propria dolorosa (eppure irresistibile) vena di romantico fatalismo, e che qui beneficia di una coda strumentale ben più vigorosa che nell’incisione in studio; oppure, ancora, dell’amaro e satirico Squalor Victoria, il cui spirito sarcastico finisce per assumere accenti hard rock e quasi punk. Soprattutto, si riscontrano, in queste versioni dal vivo, una maggiore chiarezza e trasparenza nel modo in cui Matt pronuncia e scandisce le liriche dei brani, e non solo: l’intera esibizione è come ammantata da una sorta di calma trattenuta, che infonde ogni pezzo di maggiore concentrazione e solennità – probabilmente anche in virtù del fatto che la maturità acquisita dalla formazione nei dieci anni trascorsi dall’incisione di Boxer è ora riflessa appieno in questa odierna rilettura; si vedano, in tal senso, le versioni intense (e ancor più dolenti) del già malinconico Racing Like a Pro e dello straziante Green Gloves, o, ancora, la lacerante ballata Gospel, che chiude con efficacia il disco. Dopotutto, come lo stesso Berninger confessa nei brevi intermezzi parlati tra un brano e l’altro dello show, Boxer è senz’altro definibile come «un album triste»; eppure, si tratta di una tristezza luminosa e appagante, in grado di offrire proprio la rilettura del mondo e delle umane esperienze in cui

La copertina di Boxer, il nuovo CD dei The National.

la formazione è maestra – disillusa e dolente, eppure, allo stesso tempo, lucida e ricca di un sano, e malgrado tutto irrefrenabile, impulso vitale. Così, in ultima analisi non si può che essere d’accordo con l’opinione già espressa da molti fan nei vari dibattiti online: sebbene questo Live in Brussels non regali grandi sorprese, costituisce comunque un altro centro perfetto per i The National – i quali ne emergono

come un gruppo in forma smagliante, contraddistinto dalla disinvolta professionalità e abilità di sempre, rivestite inoltre di una sicurezza priva di qualsiasi sforzo o esitazione; e dato che oggigiorno non capita spesso di incontrare rock band dotate della medesima raffinatezza e maturità di Matt e colleghi, un album come questo, per quanto forse un poco prevedibile, rimane un dono quantomeno prezioso. Annuncio pubblicitario

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Idee e acquisti per la settimana

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Pane e formaggio

Attualità Il piacere gastronomico è garantito

grazie a un piatto misto di prelibati formaggi della nostra regione accompagnati da croccante pane nostrano Deborah Zimmermann, responsabile dell’azienda Best Gourmet di Gravesano, produttrice dei Brie al tartufo e al pepe della Vallemaggia

«Con i nostri Brie farciti vogliamo valorizzare alcune prelibatezze del Ticino: il formaggio fresco vaccino prodotto a Sonvico, il tartufo del Generoso e il pepe della Vallemaggia. Il nostro team composto da tre persone si occupa della lavorazione artigianale dei vari ingredienti per creare un prodotto dal carattere saporito che arricchisce con originalità qualsiasi tagliere di formaggi o un ricco aperitivo. Per apprezzare al meglio i raffinati aromi che i Brie sanno sprigionare, consiglio di accompagnarli semplicemente con una fettina di pane rustico o anche da soli. Inoltre andrebbero tolti dal frigorifero almeno 10 minuti prima del consumo, in modo da gustarli a temperatura ambiente».

Furmagèla

Formaggio grasso a pasta molle, cremoso e dal tipico sentore di latte fresco, la Formaggella della Leventina è prodotta dalla Agroval di Airolo con latte ticinese di montagna proveniente da mucche nutrite senza foraggi insilati. Ha una stagionatura minima di 20 giorni e spicca per il suo sapore dolce e gradevole.

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Sole del Ticino

Il Sole del Ticino della LATI di S. Antonino è un formaggio a pasta semi-dura, compatta, dal colore giallo paglierino e crosta naturale. È prodotto con latte pastorizzato, e la maturazione di almeno due mesi, permette di ottenere un formaggio dal caratteristico sapore marcato.

Degustazioni

Pan Nostran Foto Flavia Leuenberger Ceppi

I supermercati Migros di Serfontana, Grancia, Lugano, Agno, S. Antonino e Locarno da giovedì a sabato di questa settimana ospitano una degustazione di Brie e altri formaggi ticinesi. Sabato 1° settembre l’azienda Best Gourmet presenterà i suoi prodotti al punto vendita di Serfontana.

Il «Pan Nostran» è prodotto con estro e sapienza artigianale dai panettieri della Jowa di S. Antonino. Il grano impiegato proviene da alcuni coltivatori del Piano di Magadino e del Mendrisiotto, mentre la macinatura dei cereali è affidata al Mulino di Maroggia. Ha un sapore pronunciato e si presenta nella classica forma del pane alla ticinese con le micche facilmente separabili con le mani.


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Idee e acquisti per la settimana

Come preparare una gustosa pizza «Nostrana»

Attualità Con un po’ di fortuna potrai partecipare al corso per imparare a cucinare la pizza

Vuoi imparare a preparare da zero una pizza perfetta, utilizzando principalmente ingredienti a km zero? Allora, non lasciarti sfuggire l’occasione di partecipare ad un esclusivo corso di cucina impartito da un esperto pizzaiolo. L’incontro avrà luogo nel laboratorio sperimentale dell’azienda Mulino Maroggia ed è riservato a dodici lettori di «Azione». Per la preparazione della pizza verranno utilizzati alcuni ingredienti di prima scelta della linea dei Nostrani del Ticino: per l’impasto sarà utilizzata l’apprezzata farina per pizza a base di cereali coltivati nel nostro cantone e lavorati dal Mulino Maroggia (nella foto), mentre il gustoso prosciutto cotto della Salumi del Pin di Mendrisio sarà protagonista di un’appetitosa farcitura. Al termine del corso tutti i partecipanti potranno cenare con la pizza che avranno preparato e riceveranno un piccolo omaggio.

Iscrizioni

Flavia Leuenberger Ceppi

Migros Ticino e il Mulino Maroggia offrono a 12 lettori di «Azione» la possibilità di partecipare ad un corso di cucina sulla pizza, martedì 11 settembre 2018 dalle ore 18.30 alle 21.30 circa. Per partecipare al concorso occorre telefonare mercoledì 29 agosto dalle ore 10.30 al numero 091 850 82 76. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in altri concorsi promossi da «Azione» negli scorsi mesi. Buona Fortuna!

Azione 40% sulle Trote bianche al kg Fr. 9.50 invece di 16.– dal 30.08 al 01.09

Trota iridea: delicata prelibatezza

ASC-C-00066

Aus einer ASC-zertifizierten, Arriva una succulenta novità nei banverantwortungsvollen Zucht. chi del pesce con servizio di Migros www.asc-aqua.org

Ticino: da subito potrete trovare trote intere bianche e salmonate. Allevati in acque sorgive, questi pesci della varietà iridea, si caratterizzano per il loro sapore molto delicato e aromatico. Oltre ad essere buone e sane, le trote provengono da una piscicoltura italiana sostenibile, certificata con il marchio ASC (Aquaculture Stewardship Council) che garantisce l’allevamento responsabile e rispettoso della biodiversità della regione di provenienza. In questa stagione le trote si prestano

bene per essere cucinate intere sulla griglia. Una ricetta semplice e saporita che conquisti tutti i palati? Sciacquare bene il pesce sotto l’acqua fredda, sia fuori, sia dentro. Spruzzare le trote intere con del succo di limone. Inserire all’interno qualche fettina di limone ed erbette fresche a piacere come timo, rosmarino, origano o aglio. Condire con sale, pepe e bagnare con un filo d’olio d’oliva. Grigliare la trota intera a fuoco basso circa 10 minuti per lato. Per evitare che il pesce si spezzi, non bisogna girarlo troppo spesso. Per semplificare il compito si può utilizzare una speciale graticola per pesce. Il pesce è cotto quando la carne si stacca facilmente dalle lische. Una volta pronta, la trota, può essere consumata anche fredda. Servire con un’insalata di stagione o delle patate al cartoccio.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Idee e acquisti per la settimana

Imperdibile offerta sulla petunia!

Lucchetti Lock Stars

Rullo acquatico Per la bellezza e l’intensità cromatica dei sui fiori la petunia è sicuramente una delle piante ornamentali più amate dagli appassionati di giardinaggio. Questa pianta di origini sudamericane è molto resistente al caldo e quindi è perfetta per ornare tutti gli spazi esterni delle nostre case come terrazze, balconi e giardini. Un’altra particolarità della petunia è che fiorisce per tutto il periodo estivo e quello autunnale, senza interruzione, fino all’ar-

rivo delle prime gelate. Insomma, un piacere che dura davvero a lungo. Questo finesettimana i reparti fiori e i Do it + Garden Migros vi offrono un bellissimo mix di petunie nel vaso da 12 cm ad un prezzo assolutamente da non perdere. Azione 40% Petunia mix Fr. 2.90 invece di 4.90 dal 30.08 al 03.09

Il Centro S. Antonino, tutti i giorni da oggi fino a sabato 1° settembre, propone un’attrazione di grande effetto, per bambini e adulti, tutta da scoprire! Il piazzale esterno ospita infatti il fantastico mega rullo acquatico gonfiabile, un gioco che spopola ovunque e che sarà un emozionante e indimenticabi-

le momento di svago per i visitatori del centro commerciale. Non esiste un passatempo estivo più entusiasmante del lasciarsi rotolare sull’acqua all’interno di questa ruota gigante che può ospitare due persone alla volta. Si potrà accedere al gioco dalle ore 9.30 alle 12.00 e dalle 13.00 alle 18.30. L’entrata è libera.

Non lasciarti sfuggire gli incredibili personaggi Lock Stars, i lucchetti-accessorio trendy da collezionare e pieni di sorprese! Ogni personaggio contiene 2 chiavi, 2 amuleti e 1 mini lucchetto misterioso da compagnia. Prendi la chiave, apri il personaggio e potrai scoprire la sorpresa che nasconde nel suo pancino. Inoltre l’attesa diventa ancora più emozionante visto che i mini lucchetti sono assortiti in maniera casuale. La collezione completa comprende ben 24 personaggi diversi. Inoltre, farai un figurone con i tuoi amici applicando questi straordinari accessori sullo zaino, all’astuccio, ai lacci delle scarpe o dove preferisci tu. Lock Stars diversi soggetti, al pezzo Fr. 5.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Idee e acquisti per la settimana

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Naturalmente buono Il marchio «You» è sinonimo di alimenti genuini, gustosi e realizzati con ingredienti semplici. Nell’omonimo assortimento della Migros ognuno troverà ciò che fa al caso suo Cosa ne direste di iniziare la giornata con un porridge al mango e goji? Come tutti gli altri prodotti «You», anche il porridge si caratterizza per la sua ricetta semplice e la lista degli ingredienti chiara. Altrettanto semplice è la composizione delle miscele di Smoothie surgelate: contengono esclusivamente frutta e verdura biologiche. Grazie alla pratica confezione monoporzione il corroborante Smoothie si prepara in un baleno. Come aromatico dissetante consigliamo di provare la rinfrescante bevanda Ginger Water, prodotta al 100% con ingredienti naturali e senza zuccheri aggiunti. Per un piccolo spuntino fuori casa «You» offre pure il nuovo yogurt da «spremere» ai mirtilli, una bontà che si conserva fino a sei ore fuori frigo e non contiene assolutamente conservanti.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Idee e acquisti per la settimana

M-Check

Frutta proveniente dal commercio equo

I frutti selezionati per i succhi della linea Anna’s Best provengono da commercio equo e il loro percorso è rintracciabile fino alla cooperativa agricola. Il sigillo M-Check richiama l’attenzione su questi valori aggiunti

Prodotto proveniente da commercio equo Migros si procura le arance direttamente dalla cooperativa Fairtrade Coarcipar nel sud del Brasile, i cui contadini conseguono un miglior reddito. Grazie al premio Fairtrade i loro figli possono per esempio portare a termine un programma di formazione.

Andreas Jiménez, direttore di Fairtrade Max Havelaar.

Andreas Jiménez

«Per il consumatore la sostenibilità diventa ancor più visibile» Con M-Check Migros riassume le prestazioni a favore della sostenibilità dei suoi prodotti. Cosa ne pensa? Andreas Jiménez: è uno sviluppo positivo, se la sostenibilità diventa ancora più visibile per i consumatori. E sono lieto del fatto che Migros punta sulla notorietà e sui risultati di Fairtrade Max Havelaar. Poiché tramite l’acquisto di prodotti provenienti dal commercio equo i clienti Migros possono migliorare concretamente le condizioni di vita degli individui nei paesi in via di sviluppo.

Chi beve un succo di pompelmo rosa o di arance Anna’s Best si gusta un prodotto proveniente dal commercio equo e contribuisce in tal modo a far conseguire un miglior reddito e buone condizioni di lavoro alle piccole famiglie di coltivatori e ai collaboratori nei paesi in via di sviluppo. M-Check illustra questo e altri valori aggiunti al primo colpo d’occhio. Così Migros uniforma progressivamente il modo di contrassegnare i prodotti sostenibili e facilita la scelta durante gli acquisti.

Di quali vantaggi concreti usufruiscono i contadini tramite la certificazione Fairtrade? Grazie al commercio equo le piccole famiglie di agricoltori e i collaboratori hanno un reddito più alto, migliori condizioni di lavoro e maggiore sicurezza. Con i premi Fairtrade queste persone possono realizzare progetti di cui beneficia la comunità, come per esempio la realizzazione di scuole.

Tracciabilità fino all’agricoltore Ogni passaggio della lavorazione può essere rintracciato fino all’origine del prodotto. Bischofszell prodotti alimentari SA (Bina), industria di produzione Migros, si procura le arance direttamente dalla cooperativa agricola Coacipar, per esempio da Hércules Edemir (nella foto a sinistra), presidente della cooperativa, alla quale sono associati circa 50 agricoltori.

Da dove provengono per esempio i frutti del succo di arance Anna’s Best? Dalla cooperativa brasiliana Coacipar. Grazie alla collaborazione con l’organizzazione Fairtrade e Migros i suoi cooperatori non devono per esempio più provvedere a pagare di tasca propria l’assistenza medica per sé stessi e per i loro figli.


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Idee e acquisti per la settimana

M-Check

Frutta proveniente dal commercio equo

I frutti selezionati per i succhi della linea Anna’s Best provengono da commercio equo e il loro percorso è rintracciabile fino alla cooperativa agricola. Il sigillo M-Check richiama l’attenzione su questi valori aggiunti

Prodotto proveniente da commercio equo Migros si procura le arance direttamente dalla cooperativa Fairtrade Coarcipar nel sud del Brasile, i cui contadini conseguono un miglior reddito. Grazie al premio Fairtrade i loro figli possono per esempio portare a termine un programma di formazione.

Andreas Jiménez, direttore di Fairtrade Max Havelaar.

Andreas Jiménez

«Per il consumatore la sostenibilità diventa ancor più visibile» Con M-Check Migros riassume le prestazioni a favore della sostenibilità dei suoi prodotti. Cosa ne pensa? Andreas Jiménez: è uno sviluppo positivo, se la sostenibilità diventa ancora più visibile per i consumatori. E sono lieto del fatto che Migros punta sulla notorietà e sui risultati di Fairtrade Max Havelaar. Poiché tramite l’acquisto di prodotti provenienti dal commercio equo i clienti Migros possono migliorare concretamente le condizioni di vita degli individui nei paesi in via di sviluppo.

Chi beve un succo di pompelmo rosa o di arance Anna’s Best si gusta un prodotto proveniente dal commercio equo e contribuisce in tal modo a far conseguire un miglior reddito e buone condizioni di lavoro alle piccole famiglie di coltivatori e ai collaboratori nei paesi in via di sviluppo. M-Check illustra questo e altri valori aggiunti al primo colpo d’occhio. Così Migros uniforma progressivamente il modo di contrassegnare i prodotti sostenibili e facilita la scelta durante gli acquisti.

Di quali vantaggi concreti usufruiscono i contadini tramite la certificazione Fairtrade? Grazie al commercio equo le piccole famiglie di agricoltori e i collaboratori hanno un reddito più alto, migliori condizioni di lavoro e maggiore sicurezza. Con i premi Fairtrade queste persone possono realizzare progetti di cui beneficia la comunità, come per esempio la realizzazione di scuole.

Tracciabilità fino all’agricoltore Ogni passaggio della lavorazione può essere rintracciato fino all’origine del prodotto. Bischofszell prodotti alimentari SA (Bina), industria di produzione Migros, si procura le arance direttamente dalla cooperativa agricola Coacipar, per esempio da Hércules Edemir (nella foto a sinistra), presidente della cooperativa, alla quale sono associati circa 50 agricoltori.

Da dove provengono per esempio i frutti del succo di arance Anna’s Best? Dalla cooperativa brasiliana Coacipar. Grazie alla collaborazione con l’organizzazione Fairtrade e Migros i suoi cooperatori non devono per esempio più provvedere a pagare di tasca propria l’assistenza medica per sé stessi e per i loro figli.


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HIT DELLA SETTIMANA PER IL GRILL.

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CONSIGLIO

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2.95 invece di 4.95 Pomodorini datterini bio Svizzera, vaschetta da 250 g

45%

1.30 invece di 2.50 Carote Svizzera, sacchetto, 1 kg

13.90

Bouquet di rose Fairtrade, mazzo da 30 disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. bianco-rosa-rosso, il mazzo

3.60 invece di 4.80 Patate Amandine Svizzera, imballate, 1.5 kg

45%

1.90 invece di 3.60 Uva bianca, senza semi Italia, vaschetta da 500 g

30% Tutto l’assortimento di Tomme à la crème Jean-Louis per es. Tomme à la crème, in conf. da 100 g, 1.25 invece di 1.80

conf. da 2

25%

2.90 invece di 3.90 Mele Gala Ticino, sciolte, al kg

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25%

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3.90 invece di 4.90 Fichi bio Spagna, in conf. da 250 g

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Emmentaler e Le Gruyère grattugiati in conf. da 2 2 x 120 g

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5.70 invece di 7.20 Fettine di verdure e patate bio in conf. da 2 x 180 g

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25% La Pizza in conf. da 2 per es. 4 stagioni, 2 x 420 g, 11.40 invece di 15.20


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. io rm a p s ri i d à it il ib s s o p iù Ancora p 20% Tutti i drink e budini Chiefs per es. Choco Mountain Drink, 330 ml, 2.60 invece di 3.25

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Tutti i tipi di pane alle noci (panini esclusi), per es. Happy Bread con noci TerraSuisse, 350 g, 2.40 invece di 2.90

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Idee e acquisti per la settimana

Ellen Amber

Stile sicuro, stoffe soffici

Azione 20%

Con il marchio Ellen Amber Migros propone una vasta gamma di biancheria per la notte. I pigiami e le camicie da notte in cotone biologico sono quasi troppo eleganti e comodi per essere indossati soltanto per dormire

sull’intero assortimento di reggiseni e di biancheria intima e per la notte da donna dal 28.08 al 10.09

Un pigiama dallo stile avvolgente è assolutamente adatto per una piacevole giornata casalinga.

I pigiami e le camicie da notte di Ellen Amber sono così comodi e piacevoli da indossare che rincresce il pensiero di toglierseli. Sono fatti di Bio Cotton al 100 percento e sono certificati «eco». Entrambi i label garantiscono una produzione di cotone ecologica e socialmente sostenibile, dalla coltivazione alla lavorazione. Una collezione attrattiva grazie all’allegria delle fantasie e delle stampe.

*Nelle maggiori filiali

Pigiama Ellen Amber Bio Cotton Taglie S–XL Fr. 29.80

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Pigiama Ellen Amber Bio Cotton Taglie S–XL* Fr. 34.80

Pigiama Ellen Amber Bio Cotton Taglie S–XXL* Fr. 34.80

I tessuti Migros Bio Cotton sono realizzati in cotone proveniente da coltivazioni biologiche controllate e sono lavorati secondo le direttive eco.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 27 agosto 2018 • N. 35

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Idee e acquisti per la settimana

Ellen Amber

Stile sicuro, stoffe soffici

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Idee e acquisti per la settimana

Mitico Ice Tea

Un mito dissetante Il tè freddo al gusto di limone della Migros risveglia i ricordi: da oltre 30 anni offre infatti un dolce rinfresco e non solamente durante le passeggiate scolastiche. Così come in passato, la bevanda è preparata con un infuso fresco, ciò che gli conferisce il suo tipico gusto. Sull’esempio della versione classica, nel corso degli anni sono state sviluppate nuove varietà. Così l’Ice Tea è oggi disponibile anche senza zucchero o ancora gassato nella lattina. Quale ulteriore alternativa è ora disponibile il nuovo gusto rosa canina e ibisco.

Mitico Ice Tea rosa canina-ibisco 50 cl* Fr. 1.10

Mitico Ice Tea al limone 50 cl Fr. –.90

Mitico Ice Tea al limone senza zucchero 50 cl* Fr. 1.– Mitico Ice Tea gassato al limone 33 cl* Fr. –.75

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