Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 29 ottobre 2018
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Società e Territorio Che cosa sono le soft skills e come aiutano nel mondo del lavoro odierno
Ambiente e Benessere Il dottor Paolo Rossi, neurologo e viceprimario alla Clinica Hildebrand di Brissago, spiega nel dettaglio la presa a carico di pazienti per la medicina riabilitativa neurologica
Politica e Economia Donald Trump in rotta con la Russia per il trattato Inf sui missili a medio raggio
Cultura e Spettacoli La lezione dell’intellettuale afroamericano James Baldwin in una nuova ristampa
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di Roberto Porta pagina 2
Keystone
Una passerella per le isole
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Una manovra verso il baratro di Peter Schiesser La manovra economica presentata dal governo italiano può aver senso soltanto se la considera un attacco frontale all’Unione europea e all’euro, in vista delle elezioni europee del prossimo maggio, nella speranza di rovesciare l’Europa dei burocrati. Dal punto di vista economico, infatti, non regge, e la lettera della Commissione europea con cui respinge la bozza di bilancio per il 2019 lo evidenza: prima di tutto, le previsioni di crescita sono troppo ottimistiche e non verificate da alcun ente indipendente (anzi, la italiana Ref Ricerche le contesta), inoltre con un disavanzo al 2,4 per cento si contravviene alle regole di bilancio dell’Unione monetaria, che sono la base della stabilità dell’euro, tanto più che in maggio l’Ue aveva varato all’unanimità, quindi anche con la firma del presidente del consiglio italiano Conte, la raccomandazione di una riduzione del disavanzo statale (per l’Italia dello 0,6 per cento). In sostanza, l’Italia si indebita ulteriormente per finanziare promesse elettorali come il reddito di cittadinanza (voluto dai 5Stelle) e la riduzione dell’imposte con annessa amnistia (Lega), ma così facendo
rende più oneroso il pagamento degli interessi del debito pubblico, oggi al 131 per cento del PIL. In interessi sul debito, oggi l’Italia paga l’equivalente delle spese per l’istruzione pubblica. Ma soprattutto il Belpaese perde altra fiducia sui mercati, ciò che fa schizzare il differenziale di interesse fra i titoli statali tedeschi e quelli italiani sopra i 300 punti (se la Germania si finanzia il debito pagando lo 0,5 per cento di interessi, l’Italia sborsa oltre il 3 per cento). Ma lo spread non è un’invenzione dei nemici dell’Italia: è il prezzo che paghi se chi deve prestarti denaro corre un rischio superiore. Investire nei titoli di Stato italiani è considerato ormai un rischio palese, siccome il denaro però serve, lo si paga con interessi più alti. Sia il ministro Tria, sia lo stesso Conte ammettono che uno spread sopra i 320 punti non è sopportabile per l’economia nazionale, in particolare per le banche italiane, ma manifestano un ottimismo figlio più di un «pensiero magico» che della realtà dei fatti: da quando è al governo il triumvirato Conte-Salvini-Di Maio, i titoli bancari hanno perso in borsa un terzo del loro valore (attorno ai 30-40 miliardi di euro), portando la Banca Carige e il Monte dei Paschi di Siena vicini all’insolvenza. Siccome le banche italiane detengono molti titoli
di Stato, se questi perdono di valore (in conseguenza di uno spread più alto) automaticamente si riduce la capitalizzazione della banca, che contemporaneamente faticherà a trovare sufficiente liquidità sui mercati per le sue attività. Uno spread a 400 punti – scenario plausibile se dovesse approfondirsi il conflitto fra Roma e Bruxelles – rappresenterebbe una rovina per il settore bancario e di conseguenza per le aziende, che non troverebbero più chi fornisce liquidità. Le banche più deboli potrebbero anche venire acquisite da istituti esteri. In ultima analisi, sarebbe la popolazione a pagare il conto, in termini di rallentamento dell’economia e di minori risorse dello Stato a disposizione della collettività. Eppure il grado di apprezzamento per questo governo è ampio, sorretto da almeno il 60 per cento della popolazione – anche se non si vorrebbe credere che tutti questi italiani abbiano inneggiato all’eurodeputato leghista Angelo Ciocca, che con gli appunti del commissario europeo Moscovici ci si è pulito le scarpe, martedì scorso a Strasburgo (salvo poi cercare di stringergli la mano, senza riuscirci). La drammatica impressione è che attualmente in Italia gli sproloqui populisti abbiano infinitamente più presa dei più elementari ragionamenti economici.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Società e Territorio Pianificazione Nei prossimi anni i Comuni sono chiamati a progettare lo sviluppo dei loro insediamenti, delle aree verdi e degli spazi pubblici
Cancellare un profilo In caso di decesso o malattia grave rimuovere la pagina Facebook di un parente o un amico è macchinoso ma fattibile, ecco alcuni consigli pagina 5
Il caffè delle mamme I nostri figli appartengono alla Generazione Like: abituati a confrontarsi con un’immagine di sé manipolata sui social, sapranno riconoscersi e accettarsi nella realtà?
CdT
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Cammineremo sul Verbano?
Isole di Brissago Una passerella lunga più di 3 chilometri le vorrebbe collegare ad Ascona: il progetto fa discutere
Non sembra esserci pace tra chi cerca di immaginare il futuro turistico e anche territoriale del Locarnese. Dapprima, fino allo scorso settembre, la regione si è divisa per capire se dare il proprio nullaosta alla creazione di un Parco Nazionale. Bocciato quel progetto, pensato per la montagna, ora lo scontro si è trasferito sulle acque del lago Verbano. A far discutere di questi tempi è infatti la «passerella», l’idea di collegare Ascona alle isole di Brissago con una lunga pedana galleggiante. «Sono diversi gli obiettivi che vogliamo raggiungere attraverso questo progetto – ci dice Benjamin Frizzi, portavoce dei promotori del progetto e vicedirettore dell’Organizzazione turistica Lago Maggiore e Valli – Tra i nostri scopi principali c’è senza dubbio il rilancio turistico del parco botanico dell’isola, che sta attraversando un periodo di difficoltà, con un sensibile calo del numero di visitatori e quindi anche delle entrate finanziarie. Con
la passerella vogliamo in particolare prolungare la stagione turistica per poter attirare villeggianti su tutto l’arco dell’anno». I promotori del progetto denominato «Wow – Walk on Water» mirano a camminare sull’acqua grazie ad una passerella lunga 3,2 chilometri e larga 14 metri, con partenza dal vecchio porto di Ascona. Lungo quel percorso ogni mezzo chilometro vi saranno delle piazzole, con posti di ristoro, servizi igienici e attracchi per le imbarcazioni di servizio. Si stima che questo investimento da 25 milioni potrebbe generare un indotto per la regione pari a mezzo miliardo di franchi, per i cinque anni di apertura previsti, a partire probabilmente dal 2020. Ben 220mila i cubi di polietilene che daranno forma a questa pedana, su cui dovrebbero transitare tra le mille e le duemila persone al giorno. Questa in breve sintesi la «scheda tecnica» della struttura che nelle scorse settimane è stata posta in consultazione e che gode del sostegno politico
dei comuni della regione e del governo ticinese. Diverse comunque le critiche che hanno alzato onde di polemiche attorno al progetto. Tra le voci più pungenti quella della Società ticinese per l’arte e la natura (STAN) e delle associazioni «sorelle» a livello nazionale: Heimatschutz Svizzera e la Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio. «Si tratta di un progetto unicamente commerciale, mercificato nel peggiore dei modi – afferma Benedetto Antonini, vice-presidente della STAN – Questa passerella è contraria all’idea stessa di isola. Si va sulle isole di Brissago per apprezzare la natura e non lo si può fare nella massa dei turisti che si prevede di far transitare sulla passerella. Anche per questo motivo ritengo che questa iniziativa sia diseducativa». Una struttura che dal punto di vista legislativo si vuole inserire nel piano cantonale dei percorsi pedonali e dei sentieri escursionistici. «Anche questa è un’idea sbagliata – fa notare ancora Antonini – costruire in mezzo al lago è vietato. Faccio notare che non si tratta
di un sentiero, la passerella sarà larga ben 14 metri, sarà una sorta di autostrada. E poi chi ci garantisce che rimarrà soltanto per cinque anni». L’idea di una pedana verso le isole, a partire però da Brissago, era già stata lanciata dai Verdi ticinesi nel 2016. Ecologisti che oggi si dicono pronti a sostenere la passerella di Ascona, a condizione però che vi sia un progetto dettagliato per la gestione del traffico e una pianificazione precisa dei parcheggi e dei mezzi pubblici a disposizione dei turisti. «Non ci eravamo di certo illusi, sapevamo che la nostra iniziativa avrebbe sollevato anche delle critiche – ci dice Benjamin Frizzi, portavoce dei promotori della passerella – Siamo soddisfatti del sostegno avuto tra i comuni della regione e dal governo. Noi siamo sempre pronti al dialogo per trovare insieme le soluzioni necessarie alla realizzazione di questo progetto. Sottolineo comunque che in questa fase non possiamo di certo ancora entrare nei singoli dettagli dei tanti ambiti che verranno toccati da questa iniziativa».
Torna Spider Man
lavoro: ce ne parla la consulente Simona Mazzucchelli
dell’Uomo Ragno firmate Insomniac Games
Soft skills Il ruolo delle competenze sociali nell’attuale mercato del
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Roberto Porta
Lavoro e abilità sociali
Protezione dell’ambiente, organizzazione dei trasporti, navigazione e gestione di venti e temporali: queste alcune delle problematiche che la passerella porta con sé. Per non parlare della questione centrale, quella dei finanziamenti, visto che c’è da coprire una fattura di 25 milioni di franchi. «Da questo punto di vista noi siamo tranquilli – sottolinea ancora Benjamin Rizzi – abbiamo il sostegno di buona parte delle banche ticinesi, che si sono dette pronte ad appoggiare questa iniziativa. Ci sono poi diversi investitori privati, anche in questo caso ticinesi, che hanno già sottoscritto delle lettere di intenti a garanzia del loro sostegno finanziario». La palla al momento si trova comunque a Bellinzona, dove le autorità cantonali stanno analizzando i risultati della consultazione che si è conclusa negli scorsi giorni, per fare un primo bilancio, tecnico ma anche politico, di questa iniziativa. E per capire se sul Verbano – in una sua versione decisamente biblica – si potrà davvero camminare sull’acqua.
Videogiochi Le nuove avvincenti avventure
Alessandra Ostini Sutto
Davide Canavesi
Continuiamo a chiamarle soft, aggettivo che ci fa pensare a qualcosa di leggero, di accessorio, mentre in realtà le cosiddette soft skills giocano un ruolo sempre più centrale nel mondo del lavoro. Intelligenza emotiva, pensiero critico, come pure creatività e velocità nel prendere decisioni – per non citarne che alcune – sono di fatto competenze che è bene poter mettere sul tavolo per trovare un nuovo impiego o fare carriera. Una conferma di quanto affermato viene da un’indagine condotta da Linkedin, da cui risulta che il 60% dei leader aziendali considera le competenze sociali più importanti delle abilità tecniche. «Ho visto spesso impiegati abili nel loro lavoro a cui è stata preclusa la possibilità di ricoprire ruoli di rilievo a causa di competenze sociali poco sviluppate. Analogamente, in ambito della selezione, ci sono candidati che seppur non rispecchiano l’esatto profilo richiesto, riescono ad ottenere il posto grazie a personalità, carisma ed empatia», afferma Simona Mazzucchelli, Consulente Senior presso Luisoni Consulenze, a Lugano, che continua: «a mio avviso negli ultimi anni il ruolo delle competenze sociali è evoluto in quanto diverse strutture hanno attuato dei cambiamenti organizzativi e culturali per rimanere competitive sul mercato. Sono stati introdotti modelli di competenze innovativi e le soft skills delle risorse umane andavano quindi implementate, aggiornate e curate». In un mercato veloce e complesso – come quello attuale – serve che le persone siano capaci non più solo di svolgere mansioni ma di adattarsi e reagire. «Inoltre, nei recenti tempi di crisi, sono diminuite le offerte di lavoro e si è diventati più esigenti nella sfera delle abilità sociali», continua la consulente. Anche nell’ambito del World Economic Forum ci si è chinati sulla questione ed è emerso che man mano che le mansioni di base sono svolte dalle macchine a noi spettano le più estrose: saper pensare, coordinare, programmare. Oggi soft skills e hard skills si completano a vicenda. Se è evidente la necessità di possedere delle competenze tecniche in linea con la posizione da ricoprire, è d’altro canto importante comprendere che esse da sole non bastano: «Un Project Manager in ambito informatico, per esempio, deve avere specifiche conoscenze in materia IT, ma se ha delle carenze nelle capacità relazionali, nel pianificare, nel saper reagire in caso di imprevisti o problemi, nel riuscire ad avere una corretta visione d’insieme, probabilmente avrà difficoltà a fornire una prestazione soddisfacente», spiega la specialista. Ovviamente, a seconda dell’attività svolta, determinate competenze sociali hanno più importanza rispetto ad altre. «A titolo d’esempio, in ruoli legati alla vendita le soft skills preponderanti potrebbero essere l’empatia, la comunicazione, l’abilità di negoziazione e la tenacia. D’altro canto, per un ruolo di conduzione cercherò piuttosto la capacità di
Non le contiamo nemmeno più le avventure di Spider-Man (oggi non va più di moda chiamarlo Uomo Ragno) adattate dai fumetti a cinema, televisione e videogiochi. Il personaggio creato dalle menti di Stan Lee e Steve Ditko gode di una popolarità oramai quasi universale. Tuttavia la storia di questo personaggio è stata decisamente travagliata, specialmente per quanto riguarda gli adattamenti videoludici. A volte è stata la tecnologia troppo acerba, a volte la volontà di guadagnare facilmente con un personaggio famoso e altre volte ancora semplicemente la mancanza di talento di chi si è occupato di trasporre le storie di Peter Parker e del suo alter ego aracnide su console e computer. Questa volta ci prova lo studio americano Insomniac Games il quale ha al suo attivo un impressionante numero di giochi di qualità: Spyro the Dragon, Ratchet & Clank e Sunset Overdrive solo per citarne alcuni tra i più famosi. Questo gioco, esclusivo per PlayStation 4, si intitola semplicemente Marvel’s Spider-Man e ci mette nei panni di un Peter Parker già maturo. Da anni infatti Spidey combatte il crimine nella città di New York, sventando piani criminosi, impedendo rapimenti, rapine, incidenti e mettendo sotto chiave diversi super cattivi. Iniziamo l’avventura con una resa dei conti tanto attesa: la cattura e l’arresto di Kingpin, il boss malavitoso più influente in circolazione. Prevedibilmente il nostro supereroe riuscirà, dopo un combattimento senza esclusione di colpi, ad assicurare alla giustizia il cattivo e tutti i suoi scagnozzi. Spider-Man, soddisfatto, osserva la polizia mentre carica Kingpin su un blindato. Prima di essere portato via però l’uomo fa una profezia: con lui fuori dai giochi, la città piomberà nel caos a causa del vuoto di potere. Cosa che succederà. Marvel’s Spider-Man è un gioco d’azione in cui potremo liberamente gironzolare per Manhattan, esplorare strade e grattacieli, combattere il crimine, impegnarci per l’ambiente o semplicemente passeggiare per strada dando il cinque ai passanti e facendoci selfie. Non che vada tutto bene nella vita di Peter Parker: costantemente in ritardo sul lavoro a causa della sua attività da amichevole Spider-Man di quartiere
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Capacità relazionali, organizzative ed empatiche sono abilità apprezzate. (Marka)
motivare il gruppo di lavoro, di mediare e saper prendere decisioni e la resistenza allo stress», afferma Simona Mazzucchelli. Non bisogna fare l’errore di circoscrivere questo tipo di competenze a dei tratti della personalità: essere estroversi e relazionarsi con gli altri non sono la stessa cosa. Ciò che caratterizza le competenze di cui stiamo parlando – dette anche trasversali – è il fatto che esse possono essere acquisite, anche se – va detto – restano comunque difficili da interiorizzare in quanto legate a dei comportamenti. «I candidati oggi sono più consapevoli dell’importanza che le soft skills ricoprono in ambito professionale, anche perché, ad esempio, le aziende ne parlano nei loro annunci, e si rendono quindi conto di doverle evidenziare in fase di assunzione – commenta la consulente – in genere bisogna convincere il selezionatore di avere un valido curriculum vitae per arrivare ad un colloquio ed è evidentemente difficile far trasparire le proprie competenze sociali su un documento. Superato però questo primo ostacolo, tocca poi a chi conduce la selezione cercare di far emergere e testare le competenze sociali, i punti forti e quelli di ulteriore sviluppo del candidato». L’instabilità del mercato del lavoro e la forte concorrenza, spingono talvolta le persone in cerca di un impiego a cedere alla tentazione di voler affermare delle competenze che non hanno. «Qualche volta può funzionare, ma un selezionatore esperto, in genere, se ne accorge. Il rischio è quello di trasmettere un messaggio negativo mettendo in discussione la propria affidabilità», aggiunge. Per fortuna esistono diversi strumenti che consentono di testare le soft skills in fase di selezione. «Ne citerei tre che ritengo i principali – continua Simona Mazzucchelli – l’intervista, dove, attraverso una serie di domande mirate e preparate, si ottengono informazioni ed elementi di prova in relazione ai criteri da valutare; i test, che possono fornire delle indicazioni sulle attitudini o caratteristiche personali di un candidato; l’Assessment, che utilizza molteplici strumenti di va-
lutazione permettendo un’analisi approfondita delle competenze e assicurando un alto grado di affidabilità, anche se nessuna metodologia ha un’attendibilità del 100%; la sovrapposizione di più strumenti può però diminuire il rischio di sbagliare nella valutazione». E se un candidato, o comunque una persona attiva professionalmente, volesse intraprendere qualcosa per incrementare le proprie competenze sociali, il primo step – di accesso immediato – consiste nel trovare delle modalità per allenarle nella vita di tutti i giorni. Prendiamo come esempio la capacità di trovare soluzioni alternative ed efficaci (il cosiddetto Problem solving). Esso si può esercitare applicandolo ai piccoli inconvenienti della quotidianità, così come la creatività può essere allenata non limitandosi alla prima opzione quando si è davanti ad una scelta, ma sforzandosi a valutare almeno tre alternative. Naturalmente non mancano neppure i manuali per avvicinarsi al tema. Tra i molti che si trovano in commercio, citiamo Soft skills. Con-vincere con le competenze trasversali e raggiungere i propri obiettivi di Gaetano Carlotto (Franco Angeli, 2015). Numerosi sono pure i corsi dedicati alle soft skills. Il Politecnico di Milano, per esempio, offre dei MOOC per imparare a gestire il cambiamento, lavorare in gruppi multidisciplinari, affrontare le difficoltà, e altro ancora. I MOOC (Massive Open Online Courses; in italiano, Corsi online aperti su larga scala) sono dei corsi pensati per una formazione a distanza che coinvolga un numero elevato di utenti, i quali accedono, gratuitamente, ai contenuti unicamente via rete. Nel nostro cantone e anche alla Scuola Club Migros esistono diversi corsi per lo sviluppo di determinate competenze, come ad esempio formazioni dedicate alla leadership, al team working, alla gestione del tempo e al problem solving. Le forme proposte sono molteplici: da giornate formative e workshop a percorsi di studio più lunghi e approfonditi, fino a soluzioni personalizzate attraverso il supporto di un professional coach.
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
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e nemmeno la sua vita amorosa è un gran successo, con una storia d’amore finita male alle spalle con la reporter Mary-Jane. È grazie a questo amalgama della doppia vita del protagonista che finiremo catturati dal fascino di questo gioco. A mano a mano che seguiremo lo svolgersi della storia principale conosceremo nuove persone, acquisiremo sempre maggiori poteri, combatteremo i cattivi e saremo chiamati a fare del nostro meglio per tenere la città al sicuro. Per farlo dovremo avvalerci di un sistema di combattimento piuttosto complesso ma ben congegnato. Una miscela di agilità e pugni che rendono gli scontri tecnici e divertenti allo stesso tempo. La possibilità data al giocatore di interagire col mondo attorno a lui, raccogliendo con le ragnatele oggetti contundenti come sacchi di cemento, tombini, mattoni e scaffali, rende il tutto ancora più dinamico. Il gioco offre anche diversi gadget e poteri che possiamo sviluppare grazie alle conoscenze scientifiche di Peter Parker: ragnatele elettriche, bombe ragnatela, trappole ragnatela e via dicendo diversificano le nostre abilità offensive. Un approccio tecnico è altresì necessario per muoversi tra i palazzi della metropoli: ci sarà richiesto di ragionare come farebbe l’Uomo Ragno, scegliendo con cura dove sparare le sue ragnatele. Per quanto riguarda il lato tecnico, la produzione di Insomniac Games è davvero riuscita. La città di New York è splendidamente riprodotta, anche se non in scala né in modo fedele all’originale. Troviamo tuttavia tutti i monumenti più importanti, sia reali che tratti dal mondo Marvel (come la Avengers Tower o il Santuario di New York). Le strade sono animate di passanti e automobili e in generale abbiamo davvero la sensazione che la città sia viva e pulsante attorno a noi. L’attenzione al dettaglio è generalmente molto alta e troveremo spesso qualche segreto, qualche luogo particolare o addirittura ci imbatteremo in qualche aperitivo mondano in cima ad un palazzo. Marvel’s Spider-Man è un gioco d’avventura divertente, sufficientemente profondo e variegato. Un titolo che finalmente rende giustizia al personaggio e che offre tante ore di gioco. I fan di Spider-Man hanno finalmente ottenuto il gioco che stavano aspettando oramai da tanti anni.
Scorrazzare tra i grattacieli al tramonto è un’esplosione di colori, riflessi e vita. Tiratura 102’022 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Isole di Brissago Una passerella lunga più di 3 chilometri le vorrebbe collegare ad Ascona: il progetto fa discutere
Non sembra esserci pace tra chi cerca di immaginare il futuro turistico e anche territoriale del Locarnese. Dapprima, fino allo scorso settembre, la regione si è divisa per capire se dare il proprio nullaosta alla creazione di un Parco Nazionale. Bocciato quel progetto, pensato per la montagna, ora lo scontro si è trasferito sulle acque del lago Verbano. A far discutere di questi tempi è infatti la «passerella», l’idea di collegare Ascona alle isole di Brissago con una lunga pedana galleggiante. «Sono diversi gli obiettivi che vogliamo raggiungere attraverso questo progetto – ci dice Benjamin Frizzi, portavoce dei promotori del progetto e vicedirettore dell’Organizzazione turistica Lago Maggiore e Valli – Tra i nostri scopi principali c’è senza dubbio il rilancio turistico del parco botanico dell’isola, che sta attraversando un periodo di difficoltà, con un sensibile calo del numero di visitatori e quindi anche delle entrate finanziarie. Con
la passerella vogliamo in particolare prolungare la stagione turistica per poter attirare villeggianti su tutto l’arco dell’anno». I promotori del progetto denominato «Wow – Walk on Water» mirano a camminare sull’acqua grazie ad una passerella lunga 3,2 chilometri e larga 14 metri, con partenza dal vecchio porto di Ascona. Lungo quel percorso ogni mezzo chilometro vi saranno delle piazzole, con posti di ristoro, servizi igienici e attracchi per le imbarcazioni di servizio. Si stima che questo investimento da 25 milioni potrebbe generare un indotto per la regione pari a mezzo miliardo di franchi, per i cinque anni di apertura previsti, a partire probabilmente dal 2020. Ben 220mila i cubi di polietilene che daranno forma a questa pedana, su cui dovrebbero transitare tra le mille e le duemila persone al giorno. Questa in breve sintesi la «scheda tecnica» della struttura che nelle scorse settimane è stata posta in consultazione e che gode del sostegno politico
dei comuni della regione e del governo ticinese. Diverse comunque le critiche che hanno alzato onde di polemiche attorno al progetto. Tra le voci più pungenti quella della Società ticinese per l’arte e la natura (STAN) e delle associazioni «sorelle» a livello nazionale: Heimatschutz Svizzera e la Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio. «Si tratta di un progetto unicamente commerciale, mercificato nel peggiore dei modi – afferma Benedetto Antonini, vice-presidente della STAN – Questa passerella è contraria all’idea stessa di isola. Si va sulle isole di Brissago per apprezzare la natura e non lo si può fare nella massa dei turisti che si prevede di far transitare sulla passerella. Anche per questo motivo ritengo che questa iniziativa sia diseducativa». Una struttura che dal punto di vista legislativo si vuole inserire nel piano cantonale dei percorsi pedonali e dei sentieri escursionistici. «Anche questa è un’idea sbagliata – fa notare ancora Antonini – costruire in mezzo al lago è vietato. Faccio notare che non si tratta
di un sentiero, la passerella sarà larga ben 14 metri, sarà una sorta di autostrada. E poi chi ci garantisce che rimarrà soltanto per cinque anni». L’idea di una pedana verso le isole, a partire però da Brissago, era già stata lanciata dai Verdi ticinesi nel 2016. Ecologisti che oggi si dicono pronti a sostenere la passerella di Ascona, a condizione però che vi sia un progetto dettagliato per la gestione del traffico e una pianificazione precisa dei parcheggi e dei mezzi pubblici a disposizione dei turisti. «Non ci eravamo di certo illusi, sapevamo che la nostra iniziativa avrebbe sollevato anche delle critiche – ci dice Benjamin Frizzi, portavoce dei promotori della passerella – Siamo soddisfatti del sostegno avuto tra i comuni della regione e dal governo. Noi siamo sempre pronti al dialogo per trovare insieme le soluzioni necessarie alla realizzazione di questo progetto. Sottolineo comunque che in questa fase non possiamo di certo ancora entrare nei singoli dettagli dei tanti ambiti che verranno toccati da questa iniziativa».
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dell’Uomo Ragno firmate Insomniac Games
Soft skills Il ruolo delle competenze sociali nell’attuale mercato del
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Roberto Porta
Lavoro e abilità sociali
Protezione dell’ambiente, organizzazione dei trasporti, navigazione e gestione di venti e temporali: queste alcune delle problematiche che la passerella porta con sé. Per non parlare della questione centrale, quella dei finanziamenti, visto che c’è da coprire una fattura di 25 milioni di franchi. «Da questo punto di vista noi siamo tranquilli – sottolinea ancora Benjamin Rizzi – abbiamo il sostegno di buona parte delle banche ticinesi, che si sono dette pronte ad appoggiare questa iniziativa. Ci sono poi diversi investitori privati, anche in questo caso ticinesi, che hanno già sottoscritto delle lettere di intenti a garanzia del loro sostegno finanziario». La palla al momento si trova comunque a Bellinzona, dove le autorità cantonali stanno analizzando i risultati della consultazione che si è conclusa negli scorsi giorni, per fare un primo bilancio, tecnico ma anche politico, di questa iniziativa. E per capire se sul Verbano – in una sua versione decisamente biblica – si potrà davvero camminare sull’acqua.
Videogiochi Le nuove avvincenti avventure
Alessandra Ostini Sutto
Davide Canavesi
Continuiamo a chiamarle soft, aggettivo che ci fa pensare a qualcosa di leggero, di accessorio, mentre in realtà le cosiddette soft skills giocano un ruolo sempre più centrale nel mondo del lavoro. Intelligenza emotiva, pensiero critico, come pure creatività e velocità nel prendere decisioni – per non citarne che alcune – sono di fatto competenze che è bene poter mettere sul tavolo per trovare un nuovo impiego o fare carriera. Una conferma di quanto affermato viene da un’indagine condotta da Linkedin, da cui risulta che il 60% dei leader aziendali considera le competenze sociali più importanti delle abilità tecniche. «Ho visto spesso impiegati abili nel loro lavoro a cui è stata preclusa la possibilità di ricoprire ruoli di rilievo a causa di competenze sociali poco sviluppate. Analogamente, in ambito della selezione, ci sono candidati che seppur non rispecchiano l’esatto profilo richiesto, riescono ad ottenere il posto grazie a personalità, carisma ed empatia», afferma Simona Mazzucchelli, Consulente Senior presso Luisoni Consulenze, a Lugano, che continua: «a mio avviso negli ultimi anni il ruolo delle competenze sociali è evoluto in quanto diverse strutture hanno attuato dei cambiamenti organizzativi e culturali per rimanere competitive sul mercato. Sono stati introdotti modelli di competenze innovativi e le soft skills delle risorse umane andavano quindi implementate, aggiornate e curate». In un mercato veloce e complesso – come quello attuale – serve che le persone siano capaci non più solo di svolgere mansioni ma di adattarsi e reagire. «Inoltre, nei recenti tempi di crisi, sono diminuite le offerte di lavoro e si è diventati più esigenti nella sfera delle abilità sociali», continua la consulente. Anche nell’ambito del World Economic Forum ci si è chinati sulla questione ed è emerso che man mano che le mansioni di base sono svolte dalle macchine a noi spettano le più estrose: saper pensare, coordinare, programmare. Oggi soft skills e hard skills si completano a vicenda. Se è evidente la necessità di possedere delle competenze tecniche in linea con la posizione da ricoprire, è d’altro canto importante comprendere che esse da sole non bastano: «Un Project Manager in ambito informatico, per esempio, deve avere specifiche conoscenze in materia IT, ma se ha delle carenze nelle capacità relazionali, nel pianificare, nel saper reagire in caso di imprevisti o problemi, nel riuscire ad avere una corretta visione d’insieme, probabilmente avrà difficoltà a fornire una prestazione soddisfacente», spiega la specialista. Ovviamente, a seconda dell’attività svolta, determinate competenze sociali hanno più importanza rispetto ad altre. «A titolo d’esempio, in ruoli legati alla vendita le soft skills preponderanti potrebbero essere l’empatia, la comunicazione, l’abilità di negoziazione e la tenacia. D’altro canto, per un ruolo di conduzione cercherò piuttosto la capacità di
Non le contiamo nemmeno più le avventure di Spider-Man (oggi non va più di moda chiamarlo Uomo Ragno) adattate dai fumetti a cinema, televisione e videogiochi. Il personaggio creato dalle menti di Stan Lee e Steve Ditko gode di una popolarità oramai quasi universale. Tuttavia la storia di questo personaggio è stata decisamente travagliata, specialmente per quanto riguarda gli adattamenti videoludici. A volte è stata la tecnologia troppo acerba, a volte la volontà di guadagnare facilmente con un personaggio famoso e altre volte ancora semplicemente la mancanza di talento di chi si è occupato di trasporre le storie di Peter Parker e del suo alter ego aracnide su console e computer. Questa volta ci prova lo studio americano Insomniac Games il quale ha al suo attivo un impressionante numero di giochi di qualità: Spyro the Dragon, Ratchet & Clank e Sunset Overdrive solo per citarne alcuni tra i più famosi. Questo gioco, esclusivo per PlayStation 4, si intitola semplicemente Marvel’s Spider-Man e ci mette nei panni di un Peter Parker già maturo. Da anni infatti Spidey combatte il crimine nella città di New York, sventando piani criminosi, impedendo rapimenti, rapine, incidenti e mettendo sotto chiave diversi super cattivi. Iniziamo l’avventura con una resa dei conti tanto attesa: la cattura e l’arresto di Kingpin, il boss malavitoso più influente in circolazione. Prevedibilmente il nostro supereroe riuscirà, dopo un combattimento senza esclusione di colpi, ad assicurare alla giustizia il cattivo e tutti i suoi scagnozzi. Spider-Man, soddisfatto, osserva la polizia mentre carica Kingpin su un blindato. Prima di essere portato via però l’uomo fa una profezia: con lui fuori dai giochi, la città piomberà nel caos a causa del vuoto di potere. Cosa che succederà. Marvel’s Spider-Man è un gioco d’azione in cui potremo liberamente gironzolare per Manhattan, esplorare strade e grattacieli, combattere il crimine, impegnarci per l’ambiente o semplicemente passeggiare per strada dando il cinque ai passanti e facendoci selfie. Non che vada tutto bene nella vita di Peter Parker: costantemente in ritardo sul lavoro a causa della sua attività da amichevole Spider-Man di quartiere
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Capacità relazionali, organizzative ed empatiche sono abilità apprezzate. (Marka)
motivare il gruppo di lavoro, di mediare e saper prendere decisioni e la resistenza allo stress», afferma Simona Mazzucchelli. Non bisogna fare l’errore di circoscrivere questo tipo di competenze a dei tratti della personalità: essere estroversi e relazionarsi con gli altri non sono la stessa cosa. Ciò che caratterizza le competenze di cui stiamo parlando – dette anche trasversali – è il fatto che esse possono essere acquisite, anche se – va detto – restano comunque difficili da interiorizzare in quanto legate a dei comportamenti. «I candidati oggi sono più consapevoli dell’importanza che le soft skills ricoprono in ambito professionale, anche perché, ad esempio, le aziende ne parlano nei loro annunci, e si rendono quindi conto di doverle evidenziare in fase di assunzione – commenta la consulente – in genere bisogna convincere il selezionatore di avere un valido curriculum vitae per arrivare ad un colloquio ed è evidentemente difficile far trasparire le proprie competenze sociali su un documento. Superato però questo primo ostacolo, tocca poi a chi conduce la selezione cercare di far emergere e testare le competenze sociali, i punti forti e quelli di ulteriore sviluppo del candidato». L’instabilità del mercato del lavoro e la forte concorrenza, spingono talvolta le persone in cerca di un impiego a cedere alla tentazione di voler affermare delle competenze che non hanno. «Qualche volta può funzionare, ma un selezionatore esperto, in genere, se ne accorge. Il rischio è quello di trasmettere un messaggio negativo mettendo in discussione la propria affidabilità», aggiunge. Per fortuna esistono diversi strumenti che consentono di testare le soft skills in fase di selezione. «Ne citerei tre che ritengo i principali – continua Simona Mazzucchelli – l’intervista, dove, attraverso una serie di domande mirate e preparate, si ottengono informazioni ed elementi di prova in relazione ai criteri da valutare; i test, che possono fornire delle indicazioni sulle attitudini o caratteristiche personali di un candidato; l’Assessment, che utilizza molteplici strumenti di va-
lutazione permettendo un’analisi approfondita delle competenze e assicurando un alto grado di affidabilità, anche se nessuna metodologia ha un’attendibilità del 100%; la sovrapposizione di più strumenti può però diminuire il rischio di sbagliare nella valutazione». E se un candidato, o comunque una persona attiva professionalmente, volesse intraprendere qualcosa per incrementare le proprie competenze sociali, il primo step – di accesso immediato – consiste nel trovare delle modalità per allenarle nella vita di tutti i giorni. Prendiamo come esempio la capacità di trovare soluzioni alternative ed efficaci (il cosiddetto Problem solving). Esso si può esercitare applicandolo ai piccoli inconvenienti della quotidianità, così come la creatività può essere allenata non limitandosi alla prima opzione quando si è davanti ad una scelta, ma sforzandosi a valutare almeno tre alternative. Naturalmente non mancano neppure i manuali per avvicinarsi al tema. Tra i molti che si trovano in commercio, citiamo Soft skills. Con-vincere con le competenze trasversali e raggiungere i propri obiettivi di Gaetano Carlotto (Franco Angeli, 2015). Numerosi sono pure i corsi dedicati alle soft skills. Il Politecnico di Milano, per esempio, offre dei MOOC per imparare a gestire il cambiamento, lavorare in gruppi multidisciplinari, affrontare le difficoltà, e altro ancora. I MOOC (Massive Open Online Courses; in italiano, Corsi online aperti su larga scala) sono dei corsi pensati per una formazione a distanza che coinvolga un numero elevato di utenti, i quali accedono, gratuitamente, ai contenuti unicamente via rete. Nel nostro cantone e anche alla Scuola Club Migros esistono diversi corsi per lo sviluppo di determinate competenze, come ad esempio formazioni dedicate alla leadership, al team working, alla gestione del tempo e al problem solving. Le forme proposte sono molteplici: da giornate formative e workshop a percorsi di studio più lunghi e approfonditi, fino a soluzioni personalizzate attraverso il supporto di un professional coach.
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e nemmeno la sua vita amorosa è un gran successo, con una storia d’amore finita male alle spalle con la reporter Mary-Jane. È grazie a questo amalgama della doppia vita del protagonista che finiremo catturati dal fascino di questo gioco. A mano a mano che seguiremo lo svolgersi della storia principale conosceremo nuove persone, acquisiremo sempre maggiori poteri, combatteremo i cattivi e saremo chiamati a fare del nostro meglio per tenere la città al sicuro. Per farlo dovremo avvalerci di un sistema di combattimento piuttosto complesso ma ben congegnato. Una miscela di agilità e pugni che rendono gli scontri tecnici e divertenti allo stesso tempo. La possibilità data al giocatore di interagire col mondo attorno a lui, raccogliendo con le ragnatele oggetti contundenti come sacchi di cemento, tombini, mattoni e scaffali, rende il tutto ancora più dinamico. Il gioco offre anche diversi gadget e poteri che possiamo sviluppare grazie alle conoscenze scientifiche di Peter Parker: ragnatele elettriche, bombe ragnatela, trappole ragnatela e via dicendo diversificano le nostre abilità offensive. Un approccio tecnico è altresì necessario per muoversi tra i palazzi della metropoli: ci sarà richiesto di ragionare come farebbe l’Uomo Ragno, scegliendo con cura dove sparare le sue ragnatele. Per quanto riguarda il lato tecnico, la produzione di Insomniac Games è davvero riuscita. La città di New York è splendidamente riprodotta, anche se non in scala né in modo fedele all’originale. Troviamo tuttavia tutti i monumenti più importanti, sia reali che tratti dal mondo Marvel (come la Avengers Tower o il Santuario di New York). Le strade sono animate di passanti e automobili e in generale abbiamo davvero la sensazione che la città sia viva e pulsante attorno a noi. L’attenzione al dettaglio è generalmente molto alta e troveremo spesso qualche segreto, qualche luogo particolare o addirittura ci imbatteremo in qualche aperitivo mondano in cima ad un palazzo. Marvel’s Spider-Man è un gioco d’avventura divertente, sufficientemente profondo e variegato. Un titolo che finalmente rende giustizia al personaggio e che offre tante ore di gioco. I fan di Spider-Man hanno finalmente ottenuto il gioco che stavano aspettando oramai da tanti anni.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Società e Territorio
Ripensare gli spazi verdi
Pianificazione Nei prossimi anni i Comuni sono chiamati a progettare il loro futuro sviluppo focalizzandosi
sulla qualità degli insediamenti e sulle aree verdi pubbliche. L’esempio di Massagno
Stefania Hubmann Stretta collaborazione con i promotori immobiliari e «aggregazione» degli spazi verdi. Sono queste due strategie efficaci che i Comuni possono mettere in atto per migliorare la qualità di vita nelle zone urbane densamente edificate. Massagno è tra i Comuni all’avanguardia in questa visione come dimostrano il Piano di Quartiere dell’ex proprietà Nessi e la variante di Piano Regolatore (PR) del Messaggio Municipale n. 2468. Il primo è in fase di realizzazione ed è stato preso quale spunto per la riflessione proposta la settimana scorsa a Lugano da i2a istituto internazionale di architettura sulle «Convergenze tra pubblico e privato nella costruzione del territorio». Il secondo, licenziato lo scorso luglio, è tornato al vaglio del Municipio per meglio completare il dossier in vista di ripresentarlo al Consiglio Comunale nel corso del prossimo anno. La nuova variante di PR permetterebbe di riunire le quote di terreno allo stato naturale che ogni fondo edificabile deve preservare in aree più significative a livello di percezione, microclima e godibilità. L’obiettivo corrisponde a un indirizzo perseguito da tempo dal Cantone e in via di concretizzazione con l’adeguamento del Piano Direttore alla revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio votata nel 2013. Tutti i Comuni ticinesi saranno quindi chiamati a breve a chinarsi sulla questione degli spazi verdi pubblici e privati presenti sul loro territorio. Il caso di Massagno, pur essendo legato ad un contesto territoriale e pianificatorio specifico, secondo il Dipartimento del Territorio può fungere da esempio per altri comuni urbani. Su una superficie inferiore al chilometro quadrato vivono quasi 7mila persone con una densità fra le maggiori in Europa. Il Piano di Quartiere dell’ex proprietà Nessi rappresenta una grande opportunità. L’accordo trovato con il promotore immobiliare permetterà infatti di ricavare un parco ad uso pubblico su circa 10mila metri quadrati di proprietà privata. L’edificazione delle palazzine è in fase di realizzazione. La
nuova variante di PR individua invece nove isolati in cui l’ubicazione e l’estensione degli spazi verdi di ogni mappale saranno vincolate in modo da formare un’area unitaria, sempre però di proprietà e gestione dei rispettivi proprietari. Spiega il sindaco Giovanni Bruschetti: «Accanto ai grandi progetti che permettono di recuperare importanti aree verdi ad uso pubblico, occasioni in realtà sempre più rare, è necessario trovare accorgimenti meno incisivi ma altrettanto importanti applicabili in più punti del territorio, misure che nel loro insieme possono fare la differenza in un tessuto fortemente urbanizzato. Il Comune intende adottare anche altre misure per riqualificare dal punto di vista ambientale ed urbanistico il proprio territorio, come l’estensione delle alberature degne di protezione e la tutela di edifici e complessi culturali locali». Riguardo alla variante «Spazi verdi di riqualifica dei comparti residenziali intensivi» Giovanni Bruschetti precisa che «l’operazione di concepire in modo più ordinato le quote obbligatorie di area verde (o in alcuni casi solo parte di esse) è pure nell’interesse dei privati. Se questi ultimi si accordano, possono destinare la nuova superficie a zona di svago comune, posando ad esempio alberature, panchine, giochi o ancora riservando uno spazio per gli orti. Tutti possono fare di necessità virtù. Per il Comune, consapevole dell’importanza del territorio a maggior ragione se limitato, ciò significa cercare di utilizzarlo senza sprechi». La visione di Massagno è promossa da quasi due decenni in stretta collaborazione con l’ingegnere Stefano Wagner, pianificatore del Comune. «I tempi della pianificazione sono lunghi con risultati visibili nel loro insieme solo a distanza di anni», rileva al riguardo l’ing. Wagner, contitolare e direttore degli Studi Associati SA a Lugano. «Un’intesa di intenti sviluppata sul lungo periodo è quindi un enorme vantaggio per poter svolgere un lavoro coerente e di qualità, garantendo continuità al progetto. La popolazione ticinese in generale ha grandi aspettative su due punti cruciali: la mobilità e il paesag-
In zone urbanizzate va curata l’organizzazione degli spazi naturali confinanti.
gio. Risolvere i problemi legati a queste sfide è un processo al quale a Massagno lavoriamo con il preciso obiettivo di riqualificare la sua vocazione residenziale di qualità. Lo strumento per realizzarla rimane come per tutti i Comuni il PR, composto dai Piani delle zone, del traffico e del paesaggio». A Massagno, ricorda il pianificatore, l’occasione è stata colta nel 2008 con l’analisi del comparto industriale IBSA e relativo azzonamento che ha permesso il recupero della qualità insediativa del quartiere. Stefano Wagner: «Il caso IBSA ha funto da laboratorio per due nuovi tipi di spazi verdi a statuto privato, da un lato le aree ad uso pubblico e dall’altro gli spazi comuni di riqualifica della zona insediativa. Il primo è stato applicato nel Piano di quartiere dell’ex proprietà Nessi, il secondo per la variante oggetto del Messaggio Municipale licenziato lo scorso luglio. Il secondo incontra maggiori favori presso i privati, perché non va ad intaccare l’uso esclusivo della proprietà. La quota minima di verde che ogni fondo edificabile deve mantenere dipende dalle zone, situandosi in media attorno al 30%. Il suo scopo è di abbattere i picchi di pioggia garantendo la percolazione naturale. Ordinare queste quote riunendole nella parte centrale dell’isolato permette di
ricavare una specie di cortile interno un po’ sul modello delle case a blocco zurighesi risalenti già a un secolo fa». «Entrambe le soluzioni proposte dal Comune di Massagno riflettono la direzione nella quale il Cantone suggerisce ai Comuni di muoversi», commenta Nicola Klainguti, a capo dell’Ufficio della Pianificazione locale. Il documento principale di riferimento è il Piano Direttore con le schede R6 e R10 riguardanti lo Sviluppo e contenibilità del PR e la qualità degli insediamenti. Le modifiche delle stesse sono state adottate dal Consiglio di Stato e sono state pubblicate lo scorso mese di settembre. Come emerso dai media alcuni punti delle modifiche hanno suscitato dei ricorsi da parte dei Comuni che dovranno essere decisi dal Parlamento cantonale. «La concentrazione degli insediamenti è il principio base su cui si dovrà fondare l’uso futuro del territorio per far fronte alle esigenze di spazi per abitare e lavorare», prosegue il funzionario cantonale. «Secondo gli indirizzi e le misure previste dalla scheda adottata dal governo, ogni Comune deve valutare il proprio fabbisogno per i prossimi 15 anni, se necessario densificando (quindi sfruttando le riserve disponibili, ridistribuendo le potenzialità edificatorie degli spazi già desti-
nati a questo scopo o incrementando dette potenzialità dove è giustificato) in modo appropriato e nel rispetto della qualità urbanistica. Quest’ultima è determinata da più fattori fra i quali le aree verdi occupano un posto centrale, così come la loro messa in rete affinché siano riconoscibili e utilizzabili». La visione del Dipartimento del Territorio per le aree verdi nelle realtà densamente popolate è quindi a favore di soluzioni di continuità che spingono nella direzione di un uso pubblico. Nell’ambito di un’edificazione (o riedificazione) il verde non deve più essere considerato lo scorporo imposto finora da un PR meno restrittivo, ma un elemento determinante della qualità del progetto inserito in un contesto più ampio. Quanto alla rete e alla sua fruibilità, Nicola Klainguti ricorda che «il Comune dispone di diversi metodi per realizzarla, metodi che possono giungere fino all’espropriazione, in modo da acquisire i fondi necessari per realizzarla. La scelta si basa sulla ponderazione degli interessi in gioco di spettanza dell’autorità comunale che sarà comunque obbligata a confrontarsi con le esigenze dei cittadini, sempre più sensibili a queste tematiche. Il Cantone da parte sua promuove e sostiene le diverse forme di trasformazione a tutti i livelli. Va inoltre ricordato che il Dipartimento del Territorio lo scorso anno ha pure messo in consultazione il progetto di revisione della Legge edilizia dove figura anche una proposta di azione complementare nell’ambito di una maggiore qualità del costruito e dei relativi spazi verdi (l’indice del verde)». Se in passato la responsabilità di preservare tali spazi all’interno delle proprietà private era demandata quasi esclusivamente alla sensibilità del singolo, oggi l’accresciuto bisogno insediativo abbinato all’uso parsimonioso del suolo affida la garanzia del mantenimento della qualità di vita in questo ambito all’autorità comunale chiamata quindi ad aggiornare i propri Piani Regolatori. Massagno, attraverso un percorso innovativo, sta già cercando di concretizzare i primi cambiamenti in questa direzione.
Uscire da Facebook, per sempre Tecnologia Una procedura complessa permette di rimuovere un profilo dal social network, in caso di necessità Ugo Wolf Chi pratica il mondo dei social network sembra portato a pensare che tutto funzionerà per l’eternità e che la nostra presenza nel web sia garantita da un’immanenza tecnologica. Nei fatti, la realtà delle vicende umane fa sì che la presenza
Tutto inizia nel «Centro assistenza».
degli utenti non sia di così lunga scadenza. E può succedere, anzi, che qualcuno di noi debba occuparsi del destino delle vestigia digitali di qualche amico o congiunto. Il discorso non è allegro, ammettiamolo pure, ma d’altro canto è assolutamente concreto. Ognuno di coloro che oggi vive la sua doppia vita digitale dovrà preoccuparsi anche della permanenza sulla rete di tutto ciò che nel corso dei suoi anni vi ha depositato: documenti su Google Drive, su iCloud o su OneDrive, foto su Instagram o su Flickr, ecc. E che dire del nostro profilo su Facebook, in cui per anni abbiamo accumulato immagini, collegamenti a video e riflessioni personali? Proprio per ciò che riguarda la nostra permanenza su Facebook occorre dire che la piattaforma azzurra offre ai suoi utenti un servizio in cui è concretamente possibile interagire in situazioni come questa. La condizione fondamentale è di possedere una documentazione ufficiale (certificati medici, decisioni legali, procure delle autorità di protezione) in formato pdf che sostenga la nostra richiesta. Situazione concreta che può servire da esempio: l’anziano signor Lu-
igi negli ultimi anni della sua vita aveva trovato in Facebook un piacevole passatempo: ora però, vari mesi dopo il suo decesso, la sua pagina è ancora lì, provocando pensieri e reazioni di vario tipo nei suoi congiunti e amici. Dopo una breve discussione i famigliari decidono di rimuovere il profilo del signor Luigi da Facebook. Per farlo occorre accedere a Facebook e individuare il link del «Centro di assistenza». Si trova in un luogo non molto visibile ma facile da trovare: portando il mouse sull’iconetta con il punto interrogativo, nella barra azzurra in alto, si apre un menu a tendina in cui la prima voce è proprio «centro assistenza». Una volta entrati in questa pagina sono possibili due opzioni, offerte da un menu orizzontale: se il signor Luigi ha lasciato un appunto in cui sono annotate le sue password, è possibile entrare nella sezione «gestione dell’account» e poi scegliere l’opzione «Disattivazione o eliminazione dell’account». Se invece le credenziali di proprietà sono andate perdute è possibile inoltrare al servizio di assistenza una richiesta per terze persone: cliccando sull’ultima
voce del menu orizzontale «Normative e segnalazioni» sono offerte varie opzioni, tra cui «Gestione dell’account di persona deceduta». L’opzione serve (non molto intuitivamente) anche nel caso in cui una persona abbia perso la facoltà di intendere. In questa sezione ci troveremo confrontati con un formulario online in cui dovremo descrivere la situazione e poi allegare i pdf ufficiali che attestino lo stato di incapacità o l’avvenuto decesso del proprietario del profilo. Una volta inviata la richiesta nella pagina del servizio di assistenza si aprirà un «Caso», con un numero d’ordine progressivo. La corrispondenza con i responsabili di Facebook avverrà o tramite l’email di contatto che sarà richiesto a chi inoltra la richiesta, o tramite la pagina «Messaggi di assistenza» di chi l’ha inoltrata attraverso il proprio profilo attivo. Tramite questi due canali ci verranno inviati la conferma della ricezione della richiesta, le successive eventuali domande di precisazioni e, se tutto sarà valutato come adempiente alle normative di Facebook, riceveremo in breve la conferma dell’avvenuta cancellazione: «Salve. In seguito alla tua richiesta, abbiamo ri-
mosso questo account da Facebook. Ciò significa che nessuno potrà accedere a questo account o vedere le informazioni associate (ad esempio profilo, immagini, commenti, ecc.). Se hai altre domande, non esitare a contattarci». Missione compiuta. Due raccomandazioni: 1) prima di procedere all’invio della richiesta di cancellazione sarebbe bene predisporre eventualmente un backup di tutti i contenuti del profilo, da tenere per ricordo (l’opzione è possibile solo se si è in possesso della password originale e si può accedere al profilo stesso); 2) ricordarsi che per procedere alla cancellazione del profilo di un congiunto o amico non bisogna per forza possedere un account Facebook: il «Centro Assistenza» in cui richiederla è accessibile anche dalla pagina iniziale di Facebook (ultima voce del menu a fine pagina). In conclusione: per rendere più semplice il compito ai nostri eredi occorrerebbe predisporre un testamento digitale in cui registrare tutte le password per i servizi informatici. È un’accortezza non trascurabile, nella nostra epoca tecnologica.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Società e Territorio
Generazione Like
Il caffè delle mamme Come aiutare i nostri figli a riconoscere e accettare la propria immagine reale
in un’epoca in cui l’immagine manipolata sui social sembra avere il sopravvento
Simona Ravizza I nostri figli fanno parte della Generazione Like, per la quale il numero di cuori su un post e di follower su Instagram può fare la differenza tra chi si sente importante e chi si sente uno «sfigato». Tra chi conta e chi no. Al Caffè delle mamme allora la scommessa diventa di insegnare ad adolescenti inchiodati allo smartphone a sviluppare un vero Io che tenga conto della differenza tra finzione e realtà. I social permettono di raccontarsi con un’immagine che i giovanissimi possono manipolare per dare il meglio di sé alla ricerca di consenso virtuale. Il numero di like e follower diventa l’indice della loro grandezza. È la finzione dentro la quale i nostri figli stanno. Con un feedback in tempo reale sul grado di popolarità che li illude di avere saturato un vuoto interno. Eternamente connessi. «I genitori non devono scandalizzarsi del fatto che il consenso social per loro sia importante – spiega ad «Azione» Giovanni Boccia Altieri, docente di Sociologia dei media digitali all’Università Carlo Bo di Urbino. «Gli strumenti sono nuovi, ma il bisogno a cui viene data una risposta è lo stesso di sempre, ossia la ricerca della validazione degli altri (termine scientifico che indica il riconoscimento sociale, ndr)». È il meccanismo dello specchio che ben spiegano il giornalista Simone Cosimi e lo psicoterapeuta Alberto Rossetti in Nasci,
cresci e posta (ed. Città Nuova, 2017): «L’identità del bambino si forma a partire dall’immagine che il grande Altro (familiare, sociale, culturale, storico) gli restituisce attraverso lo specchio: questo legame con l’Altro è al centro della formazione della sua identità. A nessun essere umano è data la possibilità di osservarsi dall’esterno, se non, per l’appunto, attraverso lo specchio, l’Altro; e nel nostro tempo, i social network». Noi genitori dobbiamo, allora, aiutare i nostri figli a non preferire la propria immagine virtuale a se stessi: a furia di manipolare l’apparenza sui social rischiano altrimenti di non sapere più chi sono nella realtà. Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno Nessuno e Centomila di Luigi Pirandello, quando scopre dalla moglie di avere il naso storto, un dettaglio di se stesso che egli non aveva mai notato, realizza di non essere per gli altri come egli è per se stesso e si dispera: «Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano». Oggi il pericolo è l’esatto opposto, cioè che gli adolescenti non si preoccupino più di come sono davvero e non perseguano il desiderio di essere fino in fon-
do quel che sono, ma che l’immagine diventi la loro ossessione. «Imparerai a tue spese – è la convinzione di Pirandello – che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti». Il rischio è che i nostri figli vogliano la maschera, imparino ad indossarla e non cerchino il volto, né il loro né quello degli altri. «Le persone possono agire attivamente nella costruzione dell’immagine pubblica, decidendo ad esempio quale foto pubblicare e quale no, cosa omettere del proprio carattere (tendenzialmente gli aspetti negativi) e che cosa far vedere della propria vita (soprattutto le cose positive) – sottolinea Rossetti –. Questo genere di controllo, impossibile prima dell’avvento dei social media, consente di eliminare i difetti, di mettere in mostra solo la parte che si preferisce, di nascondere ciò che non si vuole far vedere. La manipolazione dell’immagine può portare anche a non riconoscere la persona reale che sta dietro al profilo social». Fino a sentirsi perduti e non sapere più chi si è. L’altro pericolo che corrono gli adolescenti è di avere un’ammirazione distorta verso gli altri, considerandoli in base al successo virtuale, senza vederli nella realtà. «A tal proposito è importante che i genitori aiutino i ragazzi a sviluppare un distacco critico» insiste Giovanni Boccia Altieri. «Una strategia può essere quella di guardare insieme ai figli i post dei personaggi che più li attraggono e di discuterne insieme per
L’identità può essere nascosta o modificata nel profilo social. (Max Pixel)
ridimensionare il fenomeno. Senza, però, mai criticare». La consapevolezza da trasmettere è che nessuno può fuggire all’infinito: i conti con se stessi prima o poi vanno fatti. Sierra Burgess è una sfigata è il nuovo teen-movie distribuito sulla piattaforma streaming Netflix, una rivisitazione moderna e per adolescenti di Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand. Sierra, un po’ nerd e molto in sovrappeso, inizia una relazione sentimental-virtuale via whatsApp
con il bel Jamey che però – per un errore nel numero di cellulare – la crede la bellissima cheerleader Veronica. I due alla fine si metteranno insieme, ma solo dopo che lei avrà imparato ad accettarsi per quel che è. Ci può essere un lieto fine? Purché non si finisca come il Narciso di Ovidio che si autodistrugge non perché ama la sua immagine, ma perché preferisce la sua immagine a se stesso. E questo, forse, è l’insegnamento che dobbiamo cercare di trasmettere ai nostri figli. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Dalla cellula al cellulare Non molto tempo fa la segretaria di un ufficio al quale mi ero rivolto mi ha chiesto di fornirle il mio numero di telefono; mentre lo inseriva nel suo computer ha aggiunto la richiesta di fornirle anche il numero del cellulare; quando le ho risposto che non l’avevo ha sgranato gli occhi per un attimo, poi, con discrezione, ha concluso la digitazione. Piccoli episodi come questo mi confermano che sono arretrato: dovrei aggiornarmi, ma preferisco rimanere ancorato a quel passato nel quale sono cresciuto e che appare ormai desueto. Da bambino, ricordo, c’era in casa un unico telefono – una voluminosa scatola nera appesa alla parete: squillava raramente perché serviva solo per le comunicazioni necessarie o per rari contatti con parenti lontani. Oggi, con il cellulare in tasca e sempre acceso, la comunicazione è costante e – anche se non ci sono informazioni rilevanti da
trasmettere – lo scambio di chiacchiere è sempre possibile e gradito. E, naturalmente, in un mondo nuovo arrivano problemi nuovi. Ci pensavo di recente, leggendo che è stato presentato un atto parlamentare che chiede di vietare, in via sperimentale, l’uso di smartphone e tablet nelle scuole dell’obbligo, allo scopo di contrastare il fenomeno del cyberbullismo. E l’iniziativa ha già cominciato a far discutere. Per la verità, non credo che la proposta, qualora venisse approvata, varrebbe a eliminare il cyberbullismo; ritengo però che il divieto di utilizzare un cellulare a scuola si possa ragionevolmente fondare su altri motivi. Ad esempio, renderebbe più difficile barare durante un esperimento in aula: se c’è un problema da risolvere e un allievo scatta la foto della pagina e la invia a un amico compiacente, può ricevere rapidamente la soluzione e riportare un successo im-
meritato. Ma, soprattutto, io credo che la scuola dovrebbe rimanere un luogo diverso dalla strada, dal bar e dal campo di calcio; varcare la soglia dell’edificio scolastico dovrebbe costituire un atto di transizione dal mondo di fuori a un ambiente particolare, dove vigono regole conformi all’istituzione. E, se la scuola vuole ancora assumersi un compito educativo, dovrebbe appunto avere regole che la caratterizzino: vogliamo che i ragazzi imparino? Bene, allora è necessario che si concentrino sulle spiegazioni dell’insegnante, sul testo da leggere: la dispersione dell’attenzione come conseguenza del multitasking e dell’essere sempre connessi è un fenomeno segnalato e deprecato ormai da anni da psicologi e pedagogisti; non sarebbe male se la scuola costituisse un luogo di raccoglimento dove l’attenzione viene ancora coltivata. Già: ma poi mi sorgono dubbi sul fatto che il divieto dello smartphone in aula
possa davvero concretizzarsi. Quando si introduce un divieto se ne chiede anche l’osservanza. Ma ogni norma, per essere rispettata, richiede che si prevedano sanzioni in caso di trasgressione; ora mi pare che, nella scuola dell’obbligo, le sanzioni siano di fatto abolite. Ricordo un caso, accaduto a Lecco, in Italia, nel 2005: in aula un’allieva stava telefonando e disturbava la lezione; il docente ha tentato di toglierle il cellulare e subito è scattata una denuncia, conclusasi con la condanna del docente, giudicato colpevole di «tentata violenza privata». No, forse è inutile rimpiangere una scuola che ancora richiedeva disciplina e prevedeva sanzioni; quel suo tempo è ormai tramontato. Perciò anche il cyberbullismo è un fenomeno che si tende a qualificare come una patologia comportamentale, piuttosto che come una trasgressione e una violenza da castigare; e anche l’attaccamento al cel-
lulare come compagno di vita è ormai definito una «dipendenza», una patologia della quale si parla, sin dall’inizio del secolo, come della «sindrome del telefonino». In ogni caso, dunque, anziché introdurre divieti e sanzioni, si preferisce ricorrere al sostegno psicologico e a campagne di prevenzione (spesso ho l’impressione che quando non si sa bene cosa fare, quando una decisione politica accontenterebbe solo una parte della popolazione e ne scontenterebbe un’altra, si adotti questa soluzione di comodo: «si fa prevenzione»). Del resto, questo è il progresso, la nuova evoluzione. Due miliardi di anni fa apparve la prima cellula dotata di nucleo; a due milioni d’anni or sono risale l’apparizione della prima vera specie ominide. Dalla cellula primitiva siamo ora giunti al cellulare: l’umanità intera si avvia a diventare un unico gigantesco organismo pluricellulare – non in senso biologico, ma tecnologico.
al 1698 è stata restaurata non da molto. Blu capri e rosso mattone il vestito della Madonna, nuvole vinaccia in cielo e tra i due angioletti, un tocco di giallo senape. In grembo alla cappella c’è una fontana sorgiva. Lì sul muro è appesa un’immagine sacra sbiadita. A fianco sfiorite ortensie. Mi concentro sulle lacrime di sangue. Due putti tengono il cartiglio con l’iscrizione che spinge Kerényi a indagare un po’. Paez, così a naso lo indirizza a Pécs, nell’Ungheria meridionale, ma la pista da seguire per rintracciare il paese distorto in questa scritta sgrammaticata porta piuttosto a Pòcs: località oggi nota come Mariapòcs, nell’Ungheria nord-orientale, quasi al confine con la Romania. Dove il quattro novembre 1696 un dipinto di poco conto di un contadino incomincia a lacrimare. La Maria di Pòcs già l’anno dopo emigra nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna ed è nota oggi come Madonna di Pötsch. Se guardiamo la postura delle mani di quella Madonna ungherese di Vienna e la compariamo con questa qui davanti, è
la stessa. Il resto è molto diverso. Se lì si va verso le icone bizantine, qui siamo nell’iconologia più lieta e barocca delle Madonne dipinte dai pittori ambulanti. Il sangue locale delle lacrime è invece un ricamo insubrico della storia derivato senz’altro da Re o Buda. Ricapitolando, in breve, l’andirivieni: l’immagine della Madonna di Buda proviene, per mano di uno spazzacamino, da Re. Questa, per desiderio di un emigrante di Verdasio, è ispirata dalla Madonna di Pòcs poi storpiata in Pötsch che qui diventa infine Paez. E si trova a poco meno di tre ore di cammino da Re: sulla strada più breve che portava, a piedi, nella vecchia Europa. A pensarci, la fatica per salire su a Verdasio, da dove si apre paradisiaca una risolutoria vista da Palagnedra a Rasa – che spiega forse il toponimo iperbolico al plurale di questa valle per la quale trovo ora un legame –non è niente. Tra un orto e la chiesetta, mi strega un buffo mascherone di un palazzo con baffi da tricheco. Uno identico adorna l’entrata di una antica birreria nel porto di Rotterdam.
A due passi di Oliver Scharpf La Madonna ungherese di Verdasio Bighellonando nei boschi ripidi delle Centovalli, il grande mitologo ungherese Karl Kerényi (1897-1973), è colpito da un’iscrizione di una cappella. Chi non era passato di lì, poteva ritrovarla trascritta il ventisei luglio 1958 tra le pagine della «Neue Zürcher Zeitung» o qualche anno dopo, leggendo Tessiner Schreibtisch (1963). Tre anni fa, una notte sul divano con La Madonna ungherese di Verdasio (1996) – raccolta di quattro saggi di Kerényi tradotti dal tedesco da Anna Ruchat e dissepolta in una incasinata libreria locarnese di seconda mano scomparsa – la incontro. Accompagnato da queste parole: «Tra le case di pietra mezzo cadenti e le stalle che appartengono al villaggio di Verdasio situato su un’altura, di punto in bianco mi trovai di fronte una Madonna col bambino sotto la quale potei leggere le belle vecchie lettere: vero ritrato del imagine miracolosa di paez del regno di vngaria la qvale lanno 1696 nel mese di novembre lacrimo piv volte sangue edt aqva». Di colpo, nello spirito di Kerényi, attraverso il paesaggio, le
Centovalli si collegano all’Ungheria. Madonna d’Ungheria, così, del resto, gli abitanti di Verdasio conoscono da sempre quella Madonna che lacrima sangue. Salgo sulla centovallina a Locarno. In una chiesetta buia di Buda, illuminata solo dai cerini, il sangue esce invece dalla fronte di un’immagine sacra che tutti nel quartiere chiamano Madonna dello Spazzacamino. Si tratta di una Madonna del Sangue portata nel 1694 da uno spazzacamino della Val Vigezzo. La continuazione italiana delle Centovalli dove a Re, a fine aprile 1494, un giovinastro scaglia un sasso contro la Madonna dipinta nel porticato della chiesa. Una Madonna del Latte, in poche ore, diventa la Madonna del Sangue all’origine dell’ultranoto santuario mariano di Re dove arrivano credenti da mezzo mondo. La fermata Verdasio ci sarebbe, eppure dopo aver studiato il percorso decido di scendere dopo e farmi un bel po’ di chilometri in più, a ritroso, nel bosco. Lungo l’antica mulatteria nota come Via del Mercato che collegava Domodossola a Locarno
e viceversa. Perdipiù un pellegrinaggio implica sempre un po’ di sport. Scendo dunque a Camedo. Dove fuori dal ristorante Vittoria scovo le sedie-spaghetti, comodissime e ormai introvabili. Sul cammino, passando da Borgnone e gettando uno sguardo a Lionza, in un’ora abbondante di cammino a passo per niente distratto, incontro sette cappelle, due zucche monumentali, non so quanti ricci e castagne. Resti di mulini, diversi riali, commoventi muretti a secco, una pergola superstite di vite isabella abbandonata che ingiallisce noncurante nel sole di un caldo pomeriggio di quasi fine ottobre. E poi d’un tratto, sul sentiero che si è impennato di petto, lassù in curva, la Madonna ungherese di Verdasio (632 m). Qui a fianco, le case di pietra e le stalle cadono ancora a pezzi come all’epoca di Kerényi, verso la metà degli anni quaranta. Una era di un bandito assassino, dicono, da un’altra si sente un contadino fischiettare Sul bel Danubio blu. Volta a botte, tetto a capanna in piode, colori vivi. Si vede che la cappelletta risalente
La società connessa di Natascha Fioretti Il gioco del futuro tra digitale, ambiente ed editoria mutante Nei nostri due ultimi appuntamenti, per leggere il presente connesso, abbiamo scomodato il filosofo tedesco Richard David Precht. Intanto alle nostre latitudini si è tenuto il Premio Möbius Multimedia 2018 che in questa edizione, dopo Big Data e Smart City,
In futuro la gestione dei Big Data dovrà essere più attenta e consapevole.
si è chinato su un altro tema cruciale del nostro tempo «Digitale e ambiente» parlandone con personalità di primo piano come Alessandro Curioni, direttore del Centro di ricerca IBM di Rüschlikon, e Bruno Oberle, professore di economia verde al Politecnico federale di Losanna (potete recuperare i loro interventi integrali sul sito del Premio Möbius: www.moebiuslugano.ch). Nel frattempo, per capire come è andata questa edizione, ho fatto una chiacchierata con Alessio Petralli, direttore della Fondazione Möbius Lugano. E siamo partiti dalla stessa domanda in programma per il simposio: riusciranno le tecnologie a salvare l’ambiente o saremo, invece, fagocitati dalle tecnologie che sfuggono al nostro controllo? «Sono un inguaribile ottimista. Con mio figlio, ecologista duro e puro, e piuttosto pessimista, ci confrontiamo e ci scontriamo spesso su questi temi. Dagli incontri del Möbius è emerso che abbiamo delle occasioni straordinarie ma abbiamo
delle partite, delle sfide importanti da affrontare. Ad esempio quella dei Big Data, che rappresentano una risorsa preziosa perché sulla base di nuove conoscenze ci permettono di prendere decisioni più mirate e più ponderate. Dobbiamo però preoccuparci della loro gestione che deve essere più attenta e consapevole e, in particolare, su questo c’è stata unanimità negli interventi, i dati devono tornare in mano nostra, devono tornare ad essere dei cittadini, della comunità e di chi li produce». Dunque le tecnologie per fare bene ci sono e sono potentissime e su questo è stato chiaro Curioni: «con le nuove tecnologie saremo in grado di affrontare tutte le sfide del prossimo futuro, saremo in grado di comprendere e risolvere problemi cruciali come quello della sovrappopolazione, della sovrapproduzione e dello spreco e grazie alla raccolta e rielaborazione dati di decidere e reagire in tempo reale». Ma c’è un problema: bisogna vedere chi le gestisce
e con quali scopi e interessi. Sempre Curioni ha sottolineato l’importanza che etica e responsabilità sociale hanno sempre avuto per un’azienda innovatrice dell’ IT come IBM. Su questo aspetto, e torniamo a Richard David Precht, Zuckerberg & Co, non hanno nessuna idea. «Qui parliamo di un gioco forza – mi dice Petralli – queste grandi aziende sono fortissime mentre gli Stati sono in una posizione debole. A questo proposito mi ha sorpreso vedere che a livello politico c’è chi inizia a fare delle serie marce indietro come ad esempio la Germania. Sembra quasi che il governo sia preoccupato di irretire questi grandi player visti come fonte di conoscenza, novità e via dicendo. Dobbiamo invece fare molta attenzione a ridisegnare argini e confini di un potere eccessivo che andrebbe ridefinito e controllato». Considerazioni che ci portano dritte ad un altro tema che sta a cuore al Möbius e cioè quello dell’editoria mutante tra l’altro in un momento in cui l’Annuario
2018 sulla qualità dei media ci dice che in Svizzera la qualità delle informazioni è in fase discendente ed è entrata in una spirale negativa a causa dell’influenza di Google & Co. E ci conferma che a causa della digitalizzazione gli utenti sono meno propensi a pagare per le informazioni e preferiscono informarsi tramite i social media. Mi trovo allora d’accordo con Massimo Bray, direttore della Treccani e già ministro italiano della cultura, quando dice che «siamo di fronte ad una società che ci pone di fronte ad un tema di transizione antropologica. Questo vale per tutti i campi, per il campo sociale, per la politica, per la cultura, non è un problema dell’editoria ma di tutta la filiera della conoscenza». Su questo torneremo, così come il Möbius che dall’anno prossimo intende aprire alle nuove forme di editoria per mostrare con esempi tangibili quali sono i nuovi orizzonti dell’editoria mutante.
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Ambiente e Benessere Drogati di rete in ferie Anche in vacanza si controlla il telefonino dalle ottanta alle trecento volte al giorno
La rivoluzione alimentare Prima della scoperta dell’America, in Europa si cucinava e si mangiava in modo ben diverso
Mont Miné e Ferpècle Un’escursione lungo la mulattiera che risale la vallata oltre il nucleo montano, Salay, fino ai due ghiacciai
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Big o local? La pressione psicologica dei Mister e il compenso milionario che aiuta a sopportarla
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«Più vita ai giorni»
Riabilitazione neurologica Dopo un
evento cerebro-vascolare si affronta un percorso mirato a eliminare o ridurre disabilità residuate per il recupero di migliori condizioni di vita possibile
Maria Grazia Buletti Un ictus o un’emorragia cerebrale: sono i cosiddetti eventi cerebro-vascolari che nella vita possono cogliere di sorpresa e comportano un ricovero ospedaliero urgente della persona colpita. «A pochi giorni dall’evento acuto, il paziente viene inviato alle nostre competenze», esordisce il dottor Paolo Rossi, neurologo e vice primario alla Clinica Hildebrand di Brissago (Centro di riabilitazione, disciplina medica di cui abbiamo parlato nel complesso delle sue specialità su «Azione» no 42 del 15 ottobre 2018). Nel corso dei mesi ne approfondiremo gli aspetti puntuali, a cominciare dalla riabilitazione neurologica. In medicina il termine «riabilitazione» si riferisce all’insieme delle misure che aiutano a recuperare la capacità di svolgere le attività di tutti i giorni in modo autonomo, tenendo conto dei possibili deficit di movimento e cognizione che derivano dalla malattia. «Più vita ai giorni», ha affermato il primario della Clinica dottor Graziano Ruggieri a proposito degli obiettivi della medicina riabilitativa, sottolineando l’impegno interdisciplinare (che coinvolge paziente e famigliari) volto a restituire la persona a una qualità di vita migliore possibile dopo il trauma subito e le sue conseguenze. Il dottor Rossi spiega come nella riabilitazione neurologica ciò si manifesta a partire dalla conoscenza precoce del paziente. Un primo contatto del neurologo riabilitatore avviene già durante la degenza in reparto acuto (per esempio una Stroke Unit, Neurochirurgia o reparto di Cure intensive dell’ORL): «Prima si individua il quadro di disabilità, e in che misura questa sia legata ai deficit neurologici, e migliore sarà la prognosi nel percorso riabilitativo». Questo, spiega il nostro interlocutore: «in ragione delle evidenze cliniche della letteratura scientifica internazionale che ne provano l’efficacia sull’outcoming (esito) del paziente stesso in relazione alla precocità della presa in carico riabilitativa». Così si contestualizza la collaborazione con il Neurocentro dell’EOC,
dove a tempo parziale è presente un medico dell’équipe di riabilitazione neurologica della Clinica di riabilitazione stazionaria: «Egli si affianca ai neurologi che seguono il paziente nella fase acuta dell’evento cerebro-vascolare, con il compito di iniziare a valutare le indicazioni circa la sua presa in carico riabilitativa già nello stesso reparto di degenza all’ORL e che proseguirà in Clinica subito dopo le dimissioni dal reparto acuto». Vale la pena approfondire il concetto di valutazione funzionale oggettiva del paziente, i cui risultati determineranno una sua presa in carico individualizzata ai suoi deficit e ai suoi bisogni. Un procedere precorso nel 1980 dall’epidemiologo e reumatologo inglese Phillip Wood, autore di un primo rapporto sul tema per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): a lui si deve l’originario tentativo di identificare in modo organico le conseguenze invalidanti attese per ogni determinata patologia. Dal canto suo, il dottor Rossi sottolinea l’importanza di definire a fondo quali siano i deficit neurologici o neuro-psicologici determinanti il quadro di disabilità: «Una cosa sono i deficit, altra cosa è poi la disabilità che ne consegue e che va letta con un occhio generale di valutazione del paziente in relazione alle singole competenze terapeutiche che agiscono in rete». Chiediamo qualche esempio: «Un ictus determina problematiche diverse da persona a persona; per questo dobbiamo valutare contesti che possono esulare dalla patologia, ma che contestualizzano ad esempio l’ambiente di vita della persona. Un paziente in giovane età e attivo professionalmente o uno in età geriatrica presentano peculiarità ed esigenze diverse, che sono curate in modo differente secondo la condizione individuale di ciascuno». Va puntualizzato che le patologie cerebro-vascolari di cui abbiamo riferito rappresentano una fascia tendenzialmente alta del target dei pazienti presi in carico in medicina riabilitativa neurologica, ma questa si occupa anche di altre patologie croniche come ad esempio la sclerosi multipla: «È una patologia cronica che inizia a manifestarsi
Il dottor Paolo Rossi, neurologo e viceprimario alla Clinica Hildebrand Brissago. (Vincenzo Cammarata)
tra i 20 e i 30 anni, e che solitamente ha un decorso caratterizzato da cosiddette relapse (ricadute) dove compaiono nuovi deficit neurologici che, appunto, acutizzano nel decorso della malattia». Malattie come la sclerosi multipla, ci spiega il neurologo, non portano unicamente a disturbi motori: «Talvolta si presentano disturbi della sfera cognitiva come difficoltà di concentrazione o di memorizzazione, ad esempio. Questi ostacoli, di cui dobbiamo tener conto tempestivamente, hanno un impatto molto diverso in queste persone relativamente giovani rispetto alla persona in età già avanzata e bisogna tenerne conto adeguatamente». Il neurologo evidenzia l’importanza di considerare in modo individuale anche gli aspetti sociali e professionali del paziente: «Conoscere il contesto della sua vita ci è utile proprio per gli obiettivi stessi della medicina riabilitativa neurologica fissati per reinserirlo nella sua realtà famigliare, sociale e professionale, lad-
dove ciò sarà possibile e quanto più lo sarà, aiutandolo a sviluppare nuove risorse per far fronte alla sua condizione presente». Un percorso di cui è ben chiaro l’obiettivo, ma lungo il quale bisogna fare i conti con molte barriere: «È nostro compito cercare soluzioni ad ogni problematica e perciò la figura dell’assistente sociale è parte integrante dell’équipe interdisciplinare: alla luce del quadro finale della disabilità, e secondo il quadro clinico e sociale, valutiamo il procedere e i bisogni presenti e futuri, immaginando cosa potrà essere del paziente alla dimissione dalla clinica». La riabilitazione neurologica è una disciplina relativamente giovane, caratterizzata da una grande evoluzione nell’ultimo decennio: «Abbiamo rafforzato il concetto di interdisciplinarietà e di presa in carico trasversale di ogni paziente, il cui punto focale rimane il colloquio fra medici, operatori
sanitari, paziente e famigliari». Secondo il dottor Paolo Rossi, nei colleghi che accolgono i pazienti in fase acuta è inoltre maturata la consapevolezza che dopo questa prima emergenza si potrà fare «qualcosa in più» per questi pazienti, restituendoli a una nuova vita la cui qualità è il fulcro del percorso riabilitativo.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista con il dottor Paolo Rossi.
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Ambiente e Benessere
È tempo di Digital detox
Pagine da sfogliare in autunno
Viaggiatori d’Occidente Ma come fare per tagliare il cordone ombelicale
che ci lega al mondo digitale?
I primi segnali d’allarme vennero dagli addetti alla piscina della catena di hotel Wyndham Grand: servivano più sdraio perché nove ospiti su dieci, invece di fare il bagno, trascorrevano tutto il tempo navigando in rete. Una recente ricerca americana, basata su interviste a duemila adulti, ha confermato queste impressioni: più della metà degli intervistati usa lo smartphone in vacanza come se fosse a casa: in media lo controlla ogni dodici minuti, ottanta volte al giorno (ma c’è chi arriva a trecento…). Quasi nessuno riesce a resistere più di quattro ore senza dare almeno un’occhiata. E qualcuno racconta di aver scalato un albero, di essere salito in cima a una collina o di aver pagaiato sino al centro di un lago solo per trovare campo. Troviamo sempre qualche scusa per giustificarci: ci ripetiamo che a volte proprio la possibilità di restare in contatto con il lavoro e la famiglia è la condizione per poter partire, oppure vogliamo condividere le nostre imprese attraverso i Social network. E lo smartphone non ci aiuta forse a viaggiare meglio, offrendoci più informazioni? Ma la verità è che stiamo sperimentando una dipendenza di nuovo tipo. Come guarire? Per cominciare, la stessa tecnologia può venirci in aiuto. Per esempio in alcuni orari possiamo attivare la funzione «non disturbare» nelle impostazioni. Ed è utile sapere che possiamo comunque ricevere chiamate da numeri selezionati veramente importanti o possiamo sapere se qualcuno sta tentando ripetutamente di contattarci. In alternativa esistono apposite applicazioni, anche piuttosto divertenti. «The Forest» per esempio pianta un seme digitale sullo schermo del nostro smartphone e ci mostra la lenta crescita di un albero per tutto il tempo nel quale non ci colleghiamo; la pianta però appassisce rapidamente se tentiamo di usare l’apparecchio. «Flipd», invece, più brutalmente blocca lo smartphone quando gli chiediamo di farlo e resta poi impassibile dinanzi alle nostre richieste se cambiamo idea. Tanto non casca il mondo e la sera possiamo comunque collegarci per un quarto
letture per viaggiare
d’ora e sbrigare rapidamente mail, telefonate, messaggi e aggiornamenti dei Social network. In alternativa, per chi proprio non ce la fa da solo, si moltiplicano le proposte di Digital detox, cioè soggiorni volutamente sconnessi dall’uso delle tecnologie (il termine è entrato nell’Oxford Dictionary of English nel 2013). Alcune di queste esperienze sono di alto profilo. Dopo tutto, si sostiene, solo persone di un certo livello possono permettersi di ignorare le sollecitazioni altrui e non rispondere a messaggi e telefonate… Una ricerca Nielsen conferma che in effetti le persone con minor reddito passano più tempo con lo smartphone: per cominciare spesso è il solo accesso a Internet disponibile; inoltre disconnettersi può significare perdere un’opportunità per chi fa diversi lavori su chiamata. Dopo aver ascoltato i loro bagnini, gli hotel Wyndham Grand offrono ora aree phone-free nella piscina o nel ristorante, con speciali sconti e piccoli privilegi per chi accetta di chiudere il suo smartphone in una custodia con serratura. Anche l’Hotel Mandarin di New York – almeno 500 dollari al giorno per le stanze in lussuoso stile orientale – offre costosi programmi di benessere legati al Digital detox; mentre voi siete massaggiati con olii essenziali, anche il vostro smartphone è pulito e lucidato dal personale… Sono poi perfetti i luoghi più remoti, dove magari manca del tutto la corrente elettrica, oltre alla connessione, così il problema si risolve alla radice. Da questo punto di vista la «Via dei silenzi» nelle Dolomiti, dalle sorgenti del fiume Piave a Vittorio Veneto, ha un nome che è tutto un programma. Anche le Alpi svizzere sono spesso promosse in questa prospettiva così come, dalle nostre parti, le Valli Bavona e Onsernone. E recentemente la BBC ha descritto Corippo, in Val Verzasca, come il regno del Digital detox, raccontando anche i tentativi di mantenerlo in vita attraverso la formula dell’albergo diffuso. Ma infine cosa faremo quando ci saremo liberati dalla tirannia dello smartphone? Di certo saremo più presenti nei luoghi e nelle esperienze del nostro viaggio, dopo aver tagliato il
«Sfogliare: esiste forse un’immagine più appropriata per un libro dedicato all’autunno? Pagine come foglie: da leggere una dopo l’altra, con attenzione, o da abbandonare presto alla loro sorte. Da lasciare, se più fortunate, su una panchina: anzi, meglio ancora, ai piedi di un albero…».
davitydave
Claudio Visentin
Bussole I nviti a
cordone ombelicale digitale. Vedremo di più, capiremo di più, sentiremo di più e sarà più facile stabilire relazioni con i locali. Senza distrazioni continue, potremmo anche fare curiose scoperte, a cominciare magari dal nostro stesso albergo. Per esempio l’hotel Kimpton Everly di Hollywood, Los Angeles, ha proposto ai suoi clienti un curioso esperimento social della durata di tre mesi. Dopo tutto una stanza d’albergo è simile a Facebook, è un grande contenitore di storie legate alle diverse persone che vi abitano di passaggio. Certo, gli alberghi non insistono spesso su questo aspetto: anche se non è un segreto, perché ricordare che poche ore prima un altro ha dormito nel vostro letto e usato la stessa doccia? C’è però anche un lato positivo, una ricchezza di relazioni. E così nella stanza 301 dell’hotel Kimpton Everly il libro degli ospiti pone domande esistenziali: «Qual è la tua più grande paura?»; «Quando hai pianto l’ultima volta?». Oppure: «Qual è stato il tuo risultato più importante?». E puoi
leggere cos’hanno risposto gli altri. Sul tavolo c’è un iPad con una playlist di Spotify creata con il contributo dei diversi ospiti, caricando i loro brani preferiti. Una grande lavagna alla parete raccoglie confessioni anonime, mentre sulla bacheca si possono lasciare messaggi in bottiglia per chi verrà dopo di noi. In questo modo la storia di ciascun ospite si connette a quelle di quanti lo hanno preceduto e seguito. Il trenta novembre l’esperimento si concluderà e la prossima primavera tutti gli ospiti di quella stanza saranno invitati per un pranzo dove conoscersi di persona e scambiarsi impressioni. Con questo stesso spirito lo scorso anno la regista casertana Barbara Rossi Prudente ha girato un documentario, Camera 431, raccontando di cinquanta sconosciuti che s’incontrano per alcune ore in una stanza d’albergo, raccontando la loro vita a una persona mai vista prima. «Quante volte vi siete soffermati a immaginare cosa accade al di là di una mia porta?», chiede in apertura la voce narrante…
L’autunno non è una stagione di lento, malinconico, irreversibile declino. È anzi un tempo di pienezza, di maturazione, il tempo del raccolto dopo la fatica del lavoro agricolo. È anche un momento perfetto per viaggiare soprattutto a piedi, lungo i cammini storici oppure esplorando i dintorni un poco per giorno, senza spingersi troppo lontano. Il raffinato viaggio autunnale discende da una nuova capacità di vedere la bellezza vicina. Per esempio solo da qualche anno abbiamo scoperto il piacere del foliage, ovvero ammirare i mutevoli colori delle foglie degli alberi. È un nuovo stile di viaggio importato dalla costa orientale degli Stati Uniti ma perfettamente praticabile anche alle nostre latitudini. Perché, come ha scritto Marguerite Yourcenar, se in primavera ed estate domina il verde, sia pure con diverse sfumature, in autunno ogni albero si riveste del suo vero colore: «la betulla bionda e dorata; l’acero gialloarancio-rosso, il rovere colore del bronzo e del ferro». Il filosofo Duccio Demetrio ha esplorato l’autunno nel suo significato più ampio, ricollegandolo alla vita dell’uomo, anch’essa divisa in stagioni; una scelta naturale per chi ha fondato (ad Anghiari) la Libera università dell’autobiografia e l’Accademia del silenzio. E dunque questo libro è un invito al viaggio, ma anche un breviario laico da leggere un capitolo per volta, sostando in una radura: perché l’autunno è un tempo di bilanci e di riconciliazione. Bibliografia
Duccio Demetrio, Foliage. Vagabondare in autunno, Raffaello Cortina Editore, 2018, pp.256, € 18,–. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
M Una risaia a Taverne
Fa bene o male il caffè? La nutrizionista
M-Industria La più grande centrale svizzera per il confezionamento
Dalla primavera 2018 La Riseria di Migros a Taverne gestisce in proprio una piccola risaia, ricavata sul terreno dell’azienda. Il progetto è nato dall’intenzione di mostrare ai clienti e agli ospiti in visita allo stabilimento come cresce e si coltiva il riso, ma anche dal desiderio di acquisire, a pochi passi da casa, un’esperienza concreta sui processi di produzione. In questo senso è stato ad esempio approntato con successo un sistema di irrigazione completamente automatizzato, munito di sensori che controllano l’umidità del terreno.
All’inizio di ottobre il grado di maturazione era tale che i collaboratori della Riseria hanno potuto approfittare delle condizioni di bel tempo e procedere con il primo vero raccolto. Le qualità che sono state raccolte sono due tipi di chicchi adatti alla preparazione del risotto e un tipo dal colore viola, denominato «Gioiello». Armati di falcetto un gruppo di collaboratori ha affrontato il lavoro, tagliando spiga dopo spiga, e in seguito, sempre a mano, ha proceduto alla trebbiatura e alla creazione dei covoni.
«Nonostante il lavoro con il riso sia per noi un’ abitudine quotidiana, questa esperienza ha rappresentato una novità per tutti i partecipanti» ha dichiarato il responsabile dell’azienda Daniel Feldmann con soddisfazione. Per questo motivo è già stato previsto di ripetere l’esperimento anche nella prossima primavera. La Riseria è la più grande azienda del suo genere in Svizzera; elabora ogni anno 15’000 tonnellate di riso grezzo, trasformandole in 100 prodotti diversi.
Collaboratori della Riseria durante il raccolto sul proprio campo. (MM)
Pixino
del riso ha concluso nei giorni scorsi un interessante esperimento
Laura Botticelli Gentile Laura, sono una vera amante del caffè, ne bevo almeno cinque al giorno, di cui quattro espressi. Ammetto anche che in vacanza, soprattutto in Italia, ne bevo ancora di più perché sono molto buoni. In molti mi dicono di ridurli, perché non fanno bene alla salute, ma io sinceramente non ho alcun problema di salute e quindi fatico molto ad accettare questa cosa. Mi rivolgo quindi a lei, essendo una professionista del settore, per sapere se veramente il caffè fa male alla salute e quanto sarebbe eventualmente la quantità giusta da bere. La ringrazio e saluto cordialmente. / Nora Gentile Nora, il caffè lo si beve da moltissimo tempo e nella sua storia è stato osannato, poi messo all’indice e, recentemente, di nuovo apprezzato. Se un tempo era incolpato di tanti mali, come l’arresto della crescita delle persone oppure l’aumento dell’incidenza delle malattie cardiache o del cancro, oggi le nuove ricerche non hanno confermato connessioni in merito. Uno degli errori del passato è stato quello di non aver considerato che i noti comportamenti ad alto rischio per queste patologie, come il fumo e l’inattività fisica, per esempio, tendevano ad essere più comuni tra i grandi bevitori di caffè. Oggi, decisamente in controtendenza, è emerso che il caffè ha più benefici per la salute rispetto ai rischi. Tra i benefici, il caffè sembra migliorare la funzione cognitiva e ridurre il rischio di depressione, protegge contro il Morbo di Parkinson, il diabete di tipo 2 e le malattie del fegato, compreso il cancro al fegato. Ultimo, ma non per importanza, esiste un’associazione inversa tra consumo di caffè e la mortalità complessiva e la mortalità cardiovascolare. Tra i rischi, l’elevato consumo di caffè non filtrato (bollito o espresso) è stato
associato a lievi aumenti dei livelli di colesterolo. Inoltre, alcuni studi hanno rilevato che due o più tazze di caffè al giorno possono aumentare il rischio di malattie cardiache nei giovani e nelle persone con una mutazione genetica specifica – e abbastanza comune – che rallenta la disgregazione della caffeina nel corpo. Quindi, quanto velocemente metabolizzi il caffè può influire sul tuo rischio per la salute. Se si soffre di disturbi del tratto gastrointestinale, il caffè potrebbe peggiorare la sintomatologia, aumentando il bruciore allo stomaco, il reflusso e il bisogno di andare di corpo. Si deve fare attenzione però a tre elementi di questi studi. Il primo è che lo studio prende in considerazione solo il caffè. Se si aggiungere panna e zucchero oppure pasticcini vari, oltre ad aggiunge grassi e calorie, fino a centinaia, in alcuni casi, il quadro cambia radicalmente. Il secondo: la giusta quantità sono 3-4 tazze al giorno. Oltre, diventa dannoso. Il terzo: il caffè preso in esame è quello americano, lungo e meno concentrato. Assai diverso, insomma, dall’espresso che nessuno sognerebbe mai di consumare a tazze. Penso che i miei fedeli lettori ormai un po’ conoscano il mio stile, e qui come altrove – si sarà notato – quello che mi sento di dirle è che la verità (esclusi ovviamente i fattori di cui sopra) è dettata da un semplice paradigma: laddove si ecceda, sussiste un rischio, sia esso legato all’alimentazione, o a qualsiasi altra cosa. Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate della rubrica e altri interessanti quesiti su temi nutrizionali si trovano sul sito: www. azione.ch Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Ambiente e Benessere
Insalata di zucca piccante
Migusto La ricetta della settimana
Piatto unico Ingredienti per 4 persone: 400 g di zucca Hokkaido (Oranger Knirps), pesata
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
mondata · 1 peperoncino · 6 c d’olio d’oliva · sale · 1 c di miele · 1,5 dl di succo d’arancia · 2 c d’aceto di vino bianco · 1 cc di senape granulosa · 1 arancia · 2 c di mandorle a scaglie · 100 g di formaggio erborinato, ad es. Roquefort · 300 g d’insalata da taglio mista, ad es. con cicorino rosso.
1. Tagliate la zucca a fette di circa 1 cm di spessore, il peperoncino ad anelli sottili. Scaldate l’olio in una padella dotata di coperchio. Rosolatevi la zucca per circa 2 minuti. Salate e unite il miele, il peperoncino e fate caramellare brevemente la zucca. 2. Aggiungete il succo d’arancia, mettete il coperchio e stufate la zucca per circa 3 minuti. Estraetela dal liquido e tenetela in caldo coperta. Fate ridurre il liquido della metà, poi mescolatelo con l’olio, l’aceto, la senape e il sale per ottenere il condimento. 3. Pelate l’arancia al vivo, tagliatela a fettine sottili e dividete queste ultime in quattro. Tostate le mandorle a scaglie finché si dorano. Spezzettate il formaggio. 4. Distribuite l’insalata in un piatto e accomodate sulle foglie verdi la zucca calda, l’arancia a pezzettini, le mandorle e il formaggio. Irrorate con il condimento. Preparazione: circa 25 minuti. Per persona: circa 9 g di proteine, 25 g di grassi, 18 g di carboidrati, 350
kcal/1450 kJ.
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Ambiente e Benessere
Niente pizza durante l’epoca romana
Alimentazione E neppure polenta con brasato. Quali vegetali hanno cambiato la vita degli europei
Alessandro Focarile «Salve, oh Colombo ligure ardito, che il Nuovo Mondo festi palese. A questo nostro convito noi ti invitiamo, gran Genovese». È l’inizio di una ben nota e conviviale canzone triestina, da intonare con qualche bottiglia di Pinot. Il Colombo Cristoforo, oltreché aver scoperto un Nuovo Continente, che supponeva fossero le Indie occidentali, con modalità del tutto accidentali e fortuite, con il favore di una regina, e grazie a tre caravelle, ha fatto conoscere all’Europa tutta una serie di vegetali (prima sconosciuti), che doveva sconvolgere e arricchire l’alimentazione nel Vecchio Continente. Dopo millenni di monotono e spesso miserando mangiare. E chi lo direbbe: pomodori e granoturco, patate e fagioli, peperoni, sono tutti giunti in Europa dopo il fatidico 1492. E per gli estimatori del tabacco, anche la Nicotiana, la sua pianta, è giunta dall’America. Per ragioni anagrafiche ho avuto la ventura di poter ancora mangiare un’arcaica sorta di pane preparato con la farina ottenuta dalla castagna d’acqua (Trapa natans), un vistoso vegetale galleggiante con le sue artistiche foglie, e i suoi tricuspidati porta-semi, un tempo comune e persino infestante in tutti gli specchi lacustri del Varesotto, del Lago di Muzzano e di Origlio. E, molto più lontano nel profondo Sud italico, nei borghi della selvosa Lucania ricca di querce, potevo gustare una collosa «sbobba»: la primitiva «laganella», zuppa di farro insaporita con qualche pezzo di cotenna. Un cibo base dei popoli italioti montanari: Frentani, Apuli, Dauni, Irpini, Sanniti, Lucani e Bruzii. Stirpi che dovevano essere assoggettate con la conquista romana, e ingentilite grazie alla presenza greca. Tutta gente la quale, tra l’altro, contendeva le ghiande a maiali e cinghiali per completare la dieta con qualche farinaceo anche se amarognolo.
In Europa, all’inizio le patate furono comunque sconsigliate in quanto si trattava di un tubero esotico proveniente da terre non cristianizzate Provate a immaginare la pregiata e decantata cucina mediterranea senza pomodori, senza peperoni più o meno piccanti, senza patate, tutti giunti dalle Americhe, melanzane dall’India, baccalà presente sulle mense soltanto dopo il 1500. Tutti cibi che avrebbero apportato una rivoluzione alimentare in Europa, con la sequela di iniziali ignoranze e diffidenze. Era vivamente sconsigliato mangiare le patate in quanto il tubero esotico proveniva da terre non cristianizzate. Il pomodoro era ritenuto velenoso: era un frutto oppure una verdura? E, in quanto ai fagioli e al baccalà, erano considerati cibi dozzinali da essere lasciati alla fame della povera gente. In qualche parte è stato scritto che ogni essere umano è anche il risultato genetico di cosa e quanto hanno mangiato i suoi antenati più o meno prossimi. E quali profonde conseguenze ha avuto il cibo nel corso del tempo sulle condizioni sanitarie, sulle vicende sociali, economiche e politiche di queste stirpi che ci hanno preceduto. «Franza o Spagna basta che se magna», dicevano con arguzia gli abitanti della Città
Piantatori di patate, di Jean-François Millet, 1861, olio su tela.
Eterna in occasione delle frequenti visite dei Francesi e degli Spagnoli. La scienza dell’alimentazione, una tappa del cammino conoscitivo, si arricchisce recentemente con la narrazione della storia dell’alimentazione: la storia del mangiare. Essa si basa sulla ricostruzione delle avventure culinarie dei popoli europei e mediterranei, quando il pensiero dominante era la quantità del cibo disponibile, e non tanto la qualità dei suoi componenti. Farinacei e proteine, zuccheri e vitamine, sali minerali: tutto quanto compone oggi giorno un mangiare sano, in passato era fortemente sbilanciato fin dall’avvento dell’agricoltura, in un panorama di eccessi, carenze, assenze (quando era possibile mangiare…). Attraverso i secoli, e quale conseguenza di concrete motivazioni climatiche, si erano venute a creare vere e proprie «civiltà culinarie», tributarie
della dominanza di un alimento rispetto agli altri. Popoli mediterranei (la civiltà dell’ulivo e del frumento), popoli padani (la civiltà del riso sconosciuto prima del 1450), popoli prealpini (la civiltà del castagno) e i popoli montanari (la civiltà delle pecore, delle capre e dei maiali). Pure la «civiltà della birra» si è imposta presso i popoli anglosassoni, quando questi si sono accorti che il clima era cambiato vistosamente, e la coltura della vite non era più possibile dalle loro parti. In molte circostanze, la coltura della patata in Europa costituì una radicale soluzione al permanente problema della fame. Soprattutto a certe latitudini (Irlanda, Scandinavia) la coltura dei cereali era stentata e aleatoria per ragioni climatiche. Ma la monocoltura incentrata su un solo vegetale può avere drammatiche conseguenze umane ed economiche qualora vengano a crearsi
Natura morta, Noci e formaggi, di Floris van Dyck, circa 1575, olio su tela.
i presupposti climatici per massicci attacchi di funghi patogeni (lo oidio) e di insetti fitofagi. Alla fine dell’800 una catastrofica e virulenta proliferazione congiunta del fungo e del coleottero dorifora, ebbe come risultato la distruzione di interi raccolti di patate in Irlanda. La conseguente carestia costrinse un buon numero di irlandesi (si calcola oltre un milione) a emigrare negli Stati atlantici del nord America, sotto cieli più benigni. È durante tale periodo che data il loro massiccio insediamento negli USA orientali, con tutta una sequela di mutamenti sociali, ed economici (si ricordi il caso della famiglia Kennedy). Cosa può fare un fungo e un insetto nel decidere le sorti umane! A seguito delle scoperte dei navigatori spagnoli e portoghesi si sviluppò un notevole e proficuo traffico marittimo verso mete sempre più lontane e impervie: in Asia, in Africa e nelle Americhe, non più spezie e sete. I viaggi di Vasco De Gama, di Pigafetta, di Magellano, e di tanti altri ardimentosi, contribuirono vistosamente all’introduzione in Europa di numerosi vegetali, che dovevano arricchire e modificare la dieta degli europei. Giunsero così in epoca relativamente recente: le melanzane dall’India, i fagiolini dall’Africa tropicale, le lattughe e le carote dall’Asia temperata. Nel contempo vegetali medio-orientali, asiatici e africani variavano le mense dei novelli nord-americani di origine europea: cipolle, aglio, soia dal Giappone e dalla Cina fino in California, i broccoli dal Mediterraneo, i fagiolini grazie agli schiavi africani, prima nella Giamaica, successivamente negli Stati meridionali degli USA dove, con la coltura del coto-
ne, era massicciamente presente la povera manovalanza africana. Ormai in tutto il Mondo si affermava un vero «turismo vegetale», che doveva modificare commerci e abitudini alimentari. Attualmente è vivamente percepita dall’opinione pubblica la volontà di conoscere l’origine e la qualità di quanto viene ingerito per alimentarsi. Molti sono i motivi di preoccupazione, poiché da parte di autorevoli e disinteressate fonti manca una informazione corretta e obiettiva. Fino a un recente passato operavano sul mercato mondiale migliaia di produttori di sementi. Scopo della loro attività era di proporre prodotti sempre più selezionati (ibridi e cultivar). Qual è la situazione attuale? Questo immenso mercato di consumatori è dominato attualmente soltanto da cinque multinazionali a livello mondiale, che operano in regime di monopolio, imponendo (fra l’altro) l’acquisto degli Ogm (Organismi geneticamente modificati). Sugli effetti possibili di varia natura, nel campo dell’alimentazione umana e animale, conosciamo ben poco, questo in mancanza di una informazione onesta. E dopo aver gustato una pizza Margherita, è doveroso rivolgere un pensierino di gratitudine anche al Ligure ardito, a lui e ai suoi pomodori. Bibliografia
Tom Standage, Una storia commestibile dell’umanità, Codice edizioni (Torino), 2009, 241 pp. Evelyne Bloch-Dano, La favolosa storia delle verdure, add editori (Torino), 2017, 189 pp.
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Ambiente e Benessere
La scoperta del bosco millenario Itinerari Un’escursione nella valle di
Ferpècle, in Vallese, sulle tracce dei fenomeni all’origine del suo paesaggio
L’incontro delle due valli, con il ghiacciaio del Mont Miné e il segno lasciato dalla morena storica. (Romano Venziani)
Romano Venziani Con un ampio gesto del braccio, Cherubino scopre la tela, lasciando scivolare a terra il panno biancosporco che la ricopriva. Rimane per un momento pensoso a osservare il dipinto e poi inizia a spremere i colori sulla tavolozza. Ne bastano pochi per gli ultimi ritocchi, il giallo di cromo, il blu oltremare, la terra di Siena, il bianco di zinco, che è solito miscelare con la biacca per dargli maggiore elasticità. Il quadro può dirsi completato, ma lui vuole ancora aggiungere qualche pennellata per attenuarne le ombre e far vibrare i riverberi di luce. È un’opera di enormi dimensioni, la più grande che abbia mai realizzato, alta un metro e settanta per due metri e mezzo di lunghezza, cinquanta centimetri in più del già considerevole Hiver jurassien, dipinto due anni prima, nel 1885. In quell’anno, Cherubino Patà, pittore paesaggista verzaschese (suoi gli affreschi della chiesa di Santa Maria Lauretana di Sonogno, edificata tra il 1852 e il 1854) amico e collaboratore di Gustave Courbet, da Parigi è tornato a vivere in Svizzera, a La-Chaux-de-Fonds, da dove parte per le sue peregrinazioni pittoriche in Romandia, a cui si rifanno numerose sue tele, che ritraggono soprattutto paesaggi giurassiani e vallesani. Come questa, una delle ultime realizzate prima del suo definitivo rientro in Ticino. Sa già come chiamarlo, il grande dipinto, Cherubino, La Dent Blanche, dal nome della vetta che spicca sullo sfondo, sovrapposta a un cielo color pervinca e attorniata da altre cime ricoperte di neve, uno dei suoi elementi preferiti. È una veduta della magica e selvaggia valle di Ferpècle, una propaggine della Val d’Hérens, che qui si esaurisce penetrando profondamente tra le montagne, per poi scontrarsi contro un muro di rocce e di ghiaccio. In primo piano, un nucleo di cascinali (Sépey?) appoggiati sul verde già autunnale dei prati. Una mulattiera risale la vallata, affiancata da altre costruzioni alpestri, che lassù in cima si raggrumano in un ultimo e lontano nucleo montano, Salay, sovrastato da un immane ammasso di ghiaccio: i ghiacciai del Mont Miné e di Ferpècle fusi in un’unica e imponente colata, che incombe come una solida minaccia sulle vecchie costruzioni. Per tutto l’Ottocento, i contadini si
chiedevano se l’estate seguente avrebbero potuto condurre ancora le mucche fin quassù, tanto che si è pensato addirittura di spostare a valle le cascine dell’alpeggio – mi racconta Jean-Claude Praz, che mi accompagna nella mia prima escursione in questo splendido lembo di Vallese. Jean-Claude è stato direttore del museo di storia naturale di Sion, è un appassionato di botanica e un acuto osservatore dei fenomeni di una natura in perenne trasformazione e dei processi con cui l’uomo ne condiziona l’evoluzione. Tra il XIV secolo e la metà del XIX, a causa dell’abbassamento della temperatura media del nostro pianeta, i giganti delle Alpi si rimettono in cammino, spingendo la loro mole giù verso i fondovalle. Quella manciata di secoli è stata denominata Piccola età glaciale e il fenomeno alla sua origine non risparmia i ghiacciai di Ferpècle e del Mont Miné. Originati da una zona di alimentazione comune, che si estende dalla Dent Blanche fino alla Tête Blanche, i due ghiacciai, separati da un nero massiccio roccioso simile a una piramide, il Mont Miné, scivolano verso la pianura sottostante, sommergendola con una sola e grande colata di ghiaccio. La sua massima estensione, che arriva a incombere sui cascinali di Salay, viene registrata attorno al 1835. In quegli anni, lo testimonia un’incisione dell’epoca, la vallata di Ferpècle è sepolta da una coltre bianca spessa oltre 200 metri. Quando Cherubino dipinge il grande quadro della Dent Blanche, la Piccola età glaciale può però dirsi conclusa e i ghiacciai hanno iniziato a ritirarsi. Il loro fronte si è già allontanato dall’agglomerato montano, appollaiandosi su un gradino roccioso, e i contadini locali possono tirare un respiro di sollievo. L’arretramento continuerà nei due secoli seguenti e oggi, i ghiacciai, ormai separatisi, si sono rifugiati lassù, in alto, nelle due rispettive valli. Quello del Mont Miné, meglio protetto dalla fusione, perché incassato in un solco rivolto a nord, fa capolino dall’alto delle rocce, con un fronte graffiato da una schiera di seracchi, da cui si staccano di tanto in tanto enormi blocchi di ghiaccio, che precipitano con fragore di tuoni. Quello di Ferpècle, ridotto a ben poca cosa, dal basso non si vede più, fatta eccezione della parte più elevata, che ammanta il Wandfluehorn. Tornato di recente nella valle, mi
sono inerpicato su un ripido sentiero bruciato dal sole, fino a raggiungere, in un mare di sudore, la Bricola, a 2415 metri di quota, una vecchia capanna/ albergo costruita a fine 1800 dagli alpinisti inglesi, i quali vi salivano camminando sul ghiacciaio, che all’epoca ingombrava ancora la valle sottostante. Anche i pastori, che portavano le greggi di pecore sui pascoli alti, passavano di lì. D’altronde, già in epoca romana esisteva quassù una via, molto frequentata dai mulattieri, che collegava la Valle di Hérens con l’italiana Valpelline attraverso il Col des Bouquetins. Dal pianoro dove sorge la Bricola riesco a vedere quel che resta del ghiacciaio di Ferpècle, incastonato nel solco profondo tra le montagne. Nel corso degli anni, il torrente, che scorre sotto la coltre di ghiaccio, aveva scavato una cavità, il cui sprofondamento, nell’estate del 2015, era stato all’origine di un curioso ed enorme cratere al centro della lingua glaciale. Cratere che oggi non c’è più. Il ghiacciaio è arretrato intaccandone i margini, che sono collassati, formando un nuovo fronte, squarciato da profonde ferite nell’azzurro del ghiaccio. Lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi risalendo la valle di Ferpècle è veramente straordinario. Boschi di conifere hanno colonizzato i pendii delle montagne, mentre i cascinali galleggiano su ampi pascoli punteggiati di fiori. Dopo il nucleo di Salay, con l’Hotel du Col d’Hérens costruito a fine Ottocento, ecco lo scalino roccioso ritratto dal Patà quando era ancora oberato dal ghiaccio. Poco più su, un bacino artificiale cattura l’acqua della Borgne, che viene pompata fino alla Grande Dixence. Da lì in poi, ci s’inoltra nella cosiddetta zona periglaciale. Liberata dal ghiaccio, la piana, modellata dall’azione discontinua del gelo e dell’acqua di fusione, si sta ricoprendo di vegetazione, essenzialmente larici, ontani e qualche betulla, e il torrente, non ancora risucchiato dal bacino di pompaggio, rumoreggia scorrendo impetuoso tra i sassi. Mi rendo conto che spesso lo si guarda con un occhio distratto, il paesaggio, e non si pensa a quali e a quanti fenomeni hanno contribuito alla sua formazione. Suggestionato dalla straordinaria capacità evocativa del racconto di Jean-Claude, mi ritrovo a immaginare questo posto 200 anni fa, quando sopra le nostre teste ci sarebbe
stata una coltre di ghiaccio spessa centinaia di metri. Ad aiutarmi in questo esercizio d’immaginazione, i resti della morena storica, una linea tormentata di ghiaia e di sassi in precario equilibrio, che traccia sui pendii della montagna l’altezza massima raggiunta dalla lingua di ghiaccio. Attorno a noi i larici, che crescono sul materiale alluvionale, svettano già alti sopra robusti cespugli di ontano. «La vegetazione prende piede rapidamente – spiega Jean-Claude – e circa trent’anni dopo la scomparsa del ghiaccio cominciano ad apparire le prime piante. Rimangono estremamente piccole durante uno o due decenni e poi, improvvisamente, crescono più in fretta». Dopo poche centinaia di metri, il paesaggio è sensibilmente cambiato e ci ritroviamo a camminare in un territorio selvaggio e primordiale. La vegetazione si è fatta più rada e non supera il metro d’altezza. Sembrerebbero pianticelle giovani, ma ripensando alle spiegazioni di Jean-Claude, valuto che dovrebbero già avere venti o trent’anni. Siamo a poco meno di un chilometro dall’attuale fronte del ghiacciaio del Mont Miné, che, ritirandosi, ha lasciato dietro di sé una congerie di sassi e lo specchio opalino di un lago, che si allarga pacifico nella piana sabbiosa inondata di sole e di quiete. Il terreno, all’apparenza arido e infecondo, si sta trasformando ricoprendosi di minuscoli cespugli e macchie colorate di fiori: cuscinetti rosa di silene, il giallo della Sassifraga cigliata, il violetto macchiato d’arancio della Linaria alpina o quello tremulo dell’Astro alpino. «Siamo in presenza di circa 40-50 specie di piante e c’è un rapido aumento della diversità» continua l’appassionato Jean-Claude Praz. «La “vegetazione pioniera” colonizza i terreni nudi e sterili e, a poco a poco, li arricchisce depositandovi materia organica e intessendovi una fitta rete di radici. È l’inizio della formazione del suolo, che può impiegare anche diversi secoli prima di accogliere una vegetazione stabile e solida». Abbiamo quasi raggiunto il fronte del ghiacciaio. Dall’alto, una cascata precipita nella cosiddetta «zona di ablazione», una lingua di ghiaccio nera di terriccio e di sassi, che libera l’acqua di fusione, formando un torrente via via più impetuoso, che scorre assordante tra le rocce lisciate da una secolare azione di erosione. Sul suo letto, conficcati nel pie-
trame, scopro grossi tronchi levigati dall’irruenza del fiume. Alberi! Che ci fanno quassù, nel mezzo di questo deserto alpino? «Qui ci sono stati periodi durante i quali il clima era nettamente più caldo di adesso e la valle, circa 6-7mila anni fa, era ricoperta da una foresta di grandi alberi millenari» mi spiega Jean-Claude. Con il successivo raffreddamento, il ghiacciaio si è allungato e gonfiato, seppellendo gli alberi, e ora, con l’aumento della temperatura, li sputa fuori dalla sua pancia, lasciandoli lì al sole, come ossa spolpate da un gigantesco animale. Qualche tronco mostra le tracce dei tagli praticati dagli studiosi di dendrocronologia, per determinarne l’età e il succedersi dei cicli climatici avvenuti migliaia di anni fa, prima che il ghiaccio sommergesse la valle. Quel ghiaccio che tra pochi decenni, probabilmente, non ci sarà più. È impressionante pensare che, durante alcuni periodi, qui c’erano rigogliose foreste di alberi giganti e millenari, di cui rimangono solo questi sorprendenti e muti testimoni di ere lontane. «Oggi i cambiamenti climatici sono veloci – continua Praz – e i ghiacciai, sotto l’azione del surriscaldamento, si stanno sciogliendo rapidamente. Per l’essere umano ci possono essere anche degli aspetti positivi, quali l’aumento della produttività dei terreni e del benessere, a condizione che ci sia un buon equilibrio tra le precipitazioni e la temperatura. È chiaro che l’umanità dovrà affrontare problemi via via più gravi, ma gli uomini sono sempre stati colpiti da queste mutate condizioni climatiche, a volte in modo estremamente violento. Oggi l’umanità è consapevole che il clima si riscalda in parte a causa delle nostre attività industriali e che le conseguenze toccheranno soprattutto i grandi agglomerati in riva ai mari, con la virulenza dei fenomeni meteorologici, delle tempeste e dei temporali. Relativizzo un po’– conclude, pragmatico, Jean-Claude – perché, in ogni caso, nei tempi storici, a parte qualche eccezione, la sofferenza degli uomini è dovuta essenzialmente alle guerre e alla violenza tra le società umane, molto più gravi finora dei fenomeni naturali». Informazioni
Su www.azione.ch, la galleria fotografica, l’itinerario e precedenti itinerari.
N C A 6 P I 9 1K I E V 15 17 18 19 5E 7 3 T R A M 8 A 1 Ambiente C 2O 9R eTBenessere 20 21 4 9 8 O A S I F 3O 22 23 2R A T 8 3 4 N O I 24 25 I U C loEdirige T 8N dalla 5 9 2 7 Sport Ovvero: come non rilanciare le sorti di un club calcistico cambiando colui che panchina 26 L I P A 7S I 3 1 6 15
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
Allenatori sull’orlo di una crisi di nervi Giancarlo Dionisio Se ti chiami José Mourinho e guadagni 26 milioni di euro a stagione per occupare, malaccio, la panchina del Manchester United, oppure sei Marcello Lippi, e a 70 anni suonati, di milioni ne intaschi 23, per guidare l’arrembante Cina-compra-tutto, be’, allora lo stress dell’allenatore è giusto che tu te lo tenga tutto, fino a farti martoriare la più recondita delle cellule nervose.
I francesi, per definire il licenziamento di un allenatore, utilizzano il termine limoger, che è sinonimo di «umiliante» Zinedine Zidane, all’apice della sua straordinaria parabola di Mister, forse per evitare di cadere pesantemente dallo zenit, dopo aver alzato per tre volte al cielo la Coppa dalle grandi orecchie (Champions League), primo tecnico nella storia, e dopo aver messo in cassaforte, euro più, euro meno, una ventina di milioni all’anno, ha deciso di prendersi un anno sabbatico. Pronto tuttavia a tornare in panchina nelle vesti del salvatore, qualora qualche illustre collega (attento Mou) dovesse fallire. Se però sei un tecnico in formato local, come Pierluigi Tami, Davide Morandi, o Livio Bordoli, oppure sei un giovane poco più che debuttante, come Guillermo Abascal, lo stress da prestazione ti può far provare momenti di angoscia profonda. Guadagni, nella migliore delle ipotesi, la centesi-
Giochi Cruciverba Trova il proverbio che si nasconde all’interno del cruciverba risolvendolo e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 3, 9, 3, 2, 5, 5, 9)
(N. 39 - ... raggiungere meno sessanta gradi)4
R A G UN. 38GMEDIO I U N A G E 7L M N G I 3R L A T E 6N E O 5 M E N O 1G E E S S I A 3I R S T O 8O S C A T A G I T A4 A N G E L A6 D
(N. 40 - “Ho dimenticato la torta in forno!”)
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E R O D E N. H 39 DIFFICILE 8 I3 D E M 6 E N L O O9 S T E5 4 L I R A T4 A 7 C A T S I D O L I 5 3 A V E P R O S A T 9 7 3 S I C O A N E R O 2 9 1 T C A R N E L O T 6 A F O N O E R A N O Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba
(N. 41 - Non
4 7 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 6 1 giudicare mai il libro dalla copertina) Sudoku 7G C 4I 1G 5L40 GENI OA N 2PDN. A T 7 O4 1 8 G6 O O IN P O 10 4R 5E S E 6 U L 3 2 8 9 4 Soluzione: U N 8O A U A D I R C A Scoprire i 3 4 6A O 9 1R A R E 6 15 95 1 3 A G I 13 14 numeri corretti 8da 2A R 9P I D5 7 N inserire K 3I E M V L1 COnelle E A 8 T1 4I 2 T9 5 9 3 16 caselle colorate. 8 R T E 5 6 3 7 1 T R 3A M A 4 9C O E S S I L I T 2 R9 O 2O A S I 8 3F O 4 7 5 8 19 NN I 8O O 5R 9A 2T L 7 I E E T 1 E8 6 4 B5 I 7U 3C E N 1T 6 8 9 27 5 3 2 22 R U O L O D L 4 L 2I P 7A S 8I 4 3 D 2 6 A7 6 9 7 24 (N. 39 - ... raggiungere meno sessanta gradi) L A G N E N. 38 AMEDIO Z U L 45 R A 7G U G I 27 6 1 9 7 2 8 R E G A L E C 2 O3 5P 6 I4 7 U 3N A G E L 29 85 9 6M N I M5G 9EI R L1 I I G 6 O8 4R A 1T E 7N E O 9 5 1 3 7 4 2 56 3E 9 T2 T E 4M M O 3E I N 2O 8 MG O E S NS O I N 8E S S I 5A I 4R 8 7 2 1 6 8 1
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VERTICALI 1. La «tabella» del tempo... 2. Bambinaia 3. Li inventò Palamede 4. Alato carme 5. Lettera dell’alfabeto greco 6. Il dado... per Giulio Cesare 7. Oasi del Fezzan 8. Persona non all’altezza del suo ruolo 10. Quanto detto 12. Uno strato del nucleo terrestre 13. Si estrae dal favo 14. Un numero 16. Una delle città più grandi della Francia 18. Un mese 19. Meta turistica indonesiana 21. Atollo delle Maldive e nella rata...
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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gano. Non solo!, per incrociarli più rapidamente varrebbe la pena di percor1 2 3 4 5 rere le classifiche partendo dal basso. E allora l’uomo della strada, o meglio, 6 7 il tifoso curvaiolo si chiede: a che pro? Se poi esaminiamo più attentamente il gran ballo degli allenatori, soprattutto 8 9 a Sion e a Palermo, scopriamo dei clamorosi ritorni. 10 11 Francesco Guidolin, ad esempio, è giunto alla corte di Zamparini per 4 12 13 14 15 16 17 volte; Delio Rossi, Colantuono e Ballardini 3, molti altri per 2. Come dire: va 18 19 20 21 dove ti porta il cuore? No, piuttosto va dove ti portano l’amore per la tua professione e il senso di responsabilità nei 22 23 24 confronti della tua famiglia. Disposto quindi a inginocchiarti al cospetto del 25 26 27 28 Presidente-Principe-Padrone. Sì, perché di sindacati sufficientemente forti 29 30 per salvaguardare i tuoi interessi non ce ne sono. Se gli allenatori tornano sul luogo del misfatto, non è perché sono dei deboli, non lo voglio neppure immaginare. Lo fanno perché sperano di trovare finalmente i giusti equilibri e 1 2 3 4 5 6 le giuste alchimie nello spogliatoio e in Zinedine Zidane: nelle vesti di «Mister» è un disoccupato di lusso . (Power Axle) campo. E questo subito. 7 8 9 Sanno, infatti, che il grande Capo ma parte di quanto intascano i Big; sei una spirale negativa che determinerà la è un pivello fermo a quota 13 in circa 8 non attenderà oltre le 4-5 partite prima 10 11 12 consapevole del fatto che se la squadra tua condanna. anni. Poca roba, certamente, ma il pre- di iniziare di nuovo l’opera di delegitnon gira sarai sempre tu a pagare, mai I francesi, per definire il licenzia- sidente bianconero è sulla buona strada. timazione e di sfiducia. Come vorrei i giocatori. Soprattutto sai che, anche mento13di un allenatore, utilizzano il L’aspetto che dovrebbe far riflet- avere una bacchetta magica per portare Giochi per “Azione” - Ottobre 2018 se il magnanimo presidente ti verserà termine limoger, dalla città di Limoges tere è che, se prendiamo in conside- Pep Guardiola, José Mourinho e Max Stefania Sargentini Allegri sulle panchine di Lugano, Sion il salario 14 fino alla scadenza del contrat- 17 dove nel 1914 il generale Joseph Jacques razione il centinaio di licenziamenti 15 16 to, sul mercato del lavoro i tuoi servigi (N. Césaire Joffre confinò un centinaio di menzionati e i relativi avvicendamenti, e Palermo, e affidare il City, lo United e 37 - Duecentottantaquattro) potrebbero essere recepiti come meno suoi ufficiali ritenuti incapaci. Umilian- scopriamo che la tanto agognata scossa la Juve a Pier Tami, Davide Morandi e 1 2 3 4 5 6 19 20 allettanti18rispetto a quelli del disocte! Il presidente del Palermo, Maurizio non si è quasi mai D verificata. U N E Se escluS C Livio Bordoli. Non mi stupirei se questi cupato di lusso Zizou. Insomma, se Zamparini, in7 16 stagioni ha8 proposto diamo alcune perle del Sion in Coppa ultimi riuscissero a barcamenarsi più E N O T E C A 21 di un sistema nervoso 22 non disponi da un valzer di 47 tecnici. A23Sion, Chri- Svizzera, figlie della cultura barricadie- che dignitosamente sulle tre panche 9 10 T O C dorate, a fronte delle imbarazzanti insiT E Ironman, rischi di trasmettere alla stian Constantin, ne ha avvicendati 50 ra tipica del clubI vallesano, scorrendo 11 12 squadra i tuoi dubbi, le24tue inquietudi- in 24 anni. Nei loro25confronti il leader l’albo d’oro non troveremo, negli T O A T ultimi T A curezze dei tre santoni su quelle roventi 14 15 16 ni e le tue fragilità, entrando quindi in 13maximo del Lugano, 17Angelo Renzetti, decenni, il nome del Palermo e del S A N T A A Z O TLu-O di provincia. 18 19 26 27 E Q U I A V A R I 20 21 22 23 N A C I V I L E T 24 25 26 27 A B C L I S E T U SUDOKU PER AZIONE - OTTOBRE 2018 28 29 T A V O L O A R C O N. 37 FACILE (N. 38 - 6... giapponese,7 la rana porta fortuna) Schema Soluzione 1 2 3 4 5 8
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ORIZZONTALI 1. Lo è il debito non più richiesto 7. È dura in guerra 9. Corsi d’acqua nei deserti africani 10. Può a Londra... 11. Sporche, sudicie 13. Ha una zona temperata... 15. Pronome personale 16. Uno in bottiglia... 17. Il primo navigatore 18. Gioiose 19. Sono divise da C e D ... 20. Le iniziali dell’attore Liotti 21. Ogni giocatore in una squadra ha il suo 22. Simbolo del decagrammo 23. Cantilene noiose 24. Gruppo etnico del Sudafrica 25. Del re... 27. Una come un’altra 28. Tutt’altro che somme 29. Il nome di Stravinskij 30. Due di voi 31. Tra le maggiori cime dell’Appennino abruzzese
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22. Un Giovanni scultore italiano S T O 4 O S 8C A R C 3 1 9 4 5 2 8 26 27 28 23. Legge senza pari!... T A 6 G I T 5A 2 O R I 7 4 6 8 3 9 5 Soluzione della settimana precedente 2924. Obbiettivo speciale... 30 A 2NAMICHE G E 1–L«Ho A appena I T 3000 A calorie!» 9D bruciato 5 –2«Come 8 7hai 1 6 4 26. Mezzo greco... TRA fatto?» 27. Le hanno dispari le cagne Risposta risultante: «HO DIMENTICATO LA TORTA NEL FORNO!». (N. 40 - “Ho dimenticato la torta inN.forno!”) 39 DIFFICILE 29. Il settentrione d’Italia 1 2 3 4 5 6 8 3 8 3 5 1 4 6 2 H6 E R O D E 22
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N. 40 GENI (N. 41 - Non giudicare mai il libro copertina) Partecipazione online: inserire la dalla luzione, corredata da nome, cognome, 2 3 5 6 7 8 soluzione del4 cruciverba o del sudoku 9 10 nell’apposito formulario pubblicato 11sulla 12 pagina del sito.13 14 Partecipazione16postale: la lettera o 15 la cartolina postale che riporti la so1
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indirizzo, C O Nemail D OdelNpartecipante A T O deve G 5 9 3 a «Redazione Azione, essere spedita A U A D I R C A Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». L O R D E M A T I sui T Non8 si intratterrà 2 corrispondenza 7 E S S I L I T R O concorsi. Le vie legali sono escluse. Non N6 O E
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I dei premi. I vincitori saranno avvertiti 5 4 Il9nome 3 8dei 2vincitori 7 1 sarà 6 per iscritto. N pubblicato su «Azione». Partecipazione 2 1 8 7 6 9 4 3 5 A riservata esclusivamente a lettori che 9 8 1 5 2 3 6 4 7 D risiedono in Svizzera. 3 6 4 8 9 7 2 5 1 B E
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Politica e Economia Omicidio pianificato La monarchia saudita dietro l’uccisione del giornalista dissidente Khashoggi avvenuta in consolato a Istanbul pagina 20
Trump verso il 6 novembre Alla vigilia delle elezioni di mid-term, il presidente americano è preso fra due fuochi: da una parte il clima velenoso in politica interna e dall’altra il tentativo di salvaguardare l’alleanza con Riad dopo l’assassinio di Khashoggi
Svizzera meno competitiva Nella classifica del World economic forum, il nostro paese è scivolato in quarta posizione
Oro in ribasso Tradizionalmente un bene rifugio, attualmente risente la pressione del dollaro e dei tassi 2000
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Oncia troy d’oro in dollari USA
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Base missilistica di Luga, vicino a San Pietroburgo. (Keystone)
Ultimo tentativo a Parigi
Usa-Russia Vertice riparatore nella capitale francese dopo la decisione di Trump di abbandonare il trattato Inf Anna Zafesova Donald Trump e Vladimir Putin si vedranno l’11 novembre a Parigi, in un summit deciso all’ultimo momento dopo che le relazioni strategiche tra Russia e Usa sembravano essere giunte a un nuovo minimo dopo l’annuncio del leader americano di voler rompere il Trattato sul bando dei missili a corto e medio raggio (Inf). Putin aveva reagito con una battuta inquietante: «Se la Russia verrà attaccata con armi atomiche, replicherà lanciando i suoi missili, e allora noi, in quanto martiri, andremo in paradiso, gli americani creperanno e basta». Ma già il giorno dopo il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca John Bolton è volato a Mosca e, pur avendo premesso a Putin che «non portava il ramoscello di ulivo», ha discusso con il presidente russo gli aspetti più strategici dell’architettura della sicurezza globale: l’Inf e il trattato Start, che limitano gli arsenali delle due potenze nucleari. Firmato nel 1987 da Mikhail Gorbachev e Ronald Reagan, fu il primo grande accordo sul disarmo che concluse la Guerra fredda e liberò l’Europa dall’incubo di diventare teatro di un’a-
pocalisse atomica. Il Trattato proibisce a Russia e Usa di produrre, possedere e utilizzare missili con una gittata compresa tra i 500 e i 5000 km: in altre parole, di utilizzare per un eventuale conflitto atomico tra i due Paesi il territorio di nazioni terze. Quello di Parigi sarà probabilmente un tentativo di Mosca e Washington di non tornare definitivamente nemici, dopo che nei tre mesi trascorsi dall’incontro precedente di Trump e Putin le accuse e le sanzioni reciproche sono solo cresciute di numero. Secondo il capo della Casa Bianca, infatti, gli Usa devono abbandonare l’Inf perché sarebbe proprio la Russia ad averlo già violato ripetutamente. Immediata la risposta del Cremlino: la Russia ha sempre rispettato i termini del trattato e ha intenzione di farlo. Ma il presidente americano già a maggio aveva dato incarico alla sua amministrazione di verificare le sospette violazioni del trattato da parte della Russia, soprattutto per il missile 9M729, una variazione dell’Iskander già puntato sulla Polonia dall’enclave baltica di Kaliningrad. Mosca a sua volta accusa Washington di violar-
lo di fatto con i droni e i componenti della difesa antimissile americana in Europa, facilmente riconvertibili in armi d’attacco nucleare. Cancellando l’Inf nella campagna per le elezioni del Midterm, il presidente americano dimostrerebbe di non farsi condizionare né dai russi, né dagli alleati. Solo che questa volta non si tratta di una guerra commerciale, ma una guerra vera e propria, ed è significativo che sia il Cremlino a fare la parte del moderato, avvertendo che senza l’Inf «il mondo sarà meno sicuro», come ha ricordato il portavoce di Putin Dmitry Peskov. Il presidente russo dal canto suo aveva fatto sapere già tempo fa che la Russia sarebbe rimasta fedele al trattato solo fintanto che l’avrebbero fatto anche gli americani, e molti altolocati militari russi sono d’accordo con i colleghi del Pentagono che il trattato ormai ha fatto il suo tempo. In effetti, l’Inf venne firmato in un’altra epoca, in cui la partita principale veniva giocata dalle due grandi superpotenze. I tempi sono cambiati, e non solo perché la partnership strategica russo-americana è naufragata ancora prima della Crimea e del Russiagate, né perché al Cremlino invece
dell’idealista Gorby c’è un uomo che dice che, in caso di attacco nucleare, schiaccerebbe senza esitazione il bottone rosso perché «un mondo senza la Russia non deve esistere». Il trattato Inf vincola soltanto russi e americani, ma in 30 anni gli equilibri globali sono cambiati, il mondo non è più bipolare: gli arsenali missilistici dell’Iran e della Corea del Nord sono composti proprio dai missili di corto e medio raggio, e nei piani del Pentagono in caso di un’ -escalation con Pyongyang l’utilizzo di missili da 500-5000 km ha un ruolo chiave. I teatri di guerra sono oggi regionali, e altri Paesi, non vincolati dall’Inf, vi stanno facendo ricorso. La Cina punta soprattutto sui missili a corto e medio raggio, e infatti Pechino ha reagito subito negativamente alle parole di Trump. Che peraltro, come è nel suo stile, ha lanciato la minaccia di uscire dall’Inf non solo per irritare i russi, ma anche per mandare un messaggio ai cinesi: gli Usa, ha detto il presidente americano, potrebbero anche rimanere nel trattato, ma solo a condizione di rinegoziarlo con Mosca e ora anche con Pechino: da un lato questa proposta riconosce un mondo ormai non più bipolare, ma tripartito,
dall’altro vincolerebbe enormemente il dominio militare cinese nell’Asia. In altre parole, sembra che la sopravvivenza dell’Inf non convenga più a nessuno, tranne ai Paesi europei. A differenza dei russi, il Pentagono ha tecnologie e risorse navali e aeree per colpire comunque dove e quando vuole (l’Inf bandisce solo missili basati a terra), quindi i generali di Putin non vedono il vantaggio di avere le mani legate. I russi, a loro volta, potrebbero tornare ad armarsi di missili di corto e medio raggio – i famigerati «euromissili» degli anni Ottanta – da puntare verso ovest, e non è un caso che il primo Paese europeo a condannare subito l’iniziativa di Trump sia stata la Germania. Per l’Europa si tratterebbe del ritorno di un incubo nucleare che sembrava sparito per sempre, mentre i tre big Russia, Usa e Cina avrebbero le mani slegate su tutta una serie di teatri, insieme ad attori minori come India, Pakistan, Iran e Corea. L’abolizione dell’Inf potrebbe servire anche a un altro obiettivo di Trump, quello di ricompattare la Nato, con gli alleati europei costretti di nuovo a nascondersi sotto l’ombrello nucleare offerto dagli Usa.
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Politica e Economia
Lupo travestito da agnello
Omicidio Khashoggi Dietro l’immagine riformista e modernizzatrice che sta cercando di darsi Riad si cela invece
un regime autoritario che non tollera e sopprime le voci dissidenti
Marcella Emiliani Dopo 22 giorni dall’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi avvenuto il 2 ottobre all’interno del consolato del suo Paese a Istanbul, Mohammed bin Salman, l’erede al trono degli al-Saud, mercoledì 24 si è finalmente deciso ad aprire bocca per definire l’omicidio «un crimine odioso» e promettere che i colpevoli saranno catturati e consegnati alla giustizia. Tanto per preparare il terreno a tanta eloquenza, la sera prima aveva fatto diffondere urbi et orbi le foto in cui lui e suo padre, re Salman, ricevevano a corte il giovane Salah, figlio del defunto. Il tutto doveva convincere l’opinione pubblica saudita e quella internazionale che la famiglia Khashoggi non nutriva alcun sospetto e/o risentimento nei confronti dei reali, ma l’espressione non certo rilassata del povero Salah aveva finito per trasformare quell’incontro in un autogol per i Saud. Mentre infatti MbS – come viene chiamato confidenzialmente Mohammed bin Salman – rideva a 64 denti come se invece di porger condoglianze stesse rallegrandosi per la nascita di un figlio maschio, Salah aveva dipinto in faccia uno stupore tra l’incredulo e il terrorizzato. A lui nessuno ha ancora torto un capello, ma da quando suo padre nel 2017 si era auto-esiliato negli Stati Uniti e aveva cominciato a scrivere sul «Washington Post», non gli è stato più permesso di uscire dal Paese. In tutti i casi l’intera vicenda delle pubbliche condoglianze sapeva tanto di «teatro» alla siciliana quando cioè si mette in scena una rappresentazione di facciata per mascherare la realtà. E sapeva di teatrino improvvisato anche la prima versione che i sauditi avevano dato dell’omicidio al consolato che parlava di una missione punitiva ai danni di Khashoggi non autorizzata né dall’erede al trono né dai servizi di intelligence sauditi che ne sarebbero stati completamente all’oscuro. Fatto sta che Mbs ha parlato solo dopo che il 23 ottobre il miglior alleato della monarchia saudita, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, aveva usato appunto un linguaggio teatrale per definire «un totale fiasco» la ricostruzione dell’assassinio resa da Riad e – sempre il 23 ottobre – era già sceso in campo anche il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan per puntare il dito proprio contro chi aveva ordinato a un commando di 15 uomini, arrivati in tre gruppi a Istanbul, di uccidere Khashoggi con l’aiuto di tre impiegati del consolato per poi farlo sparire. Lì, infatti, il giornalista sarebbe andato a ritirare i documenti per sposarsi con la fidanzata turca. Si era trattato dunque di un atto criminale non solo di selvaggia violenza – aveva accusato Erdoğan
La stretta di mano fra Salah Khashoggi (a sinistra) e il principe MbS, mandante dell’assassinio di suo padre. (Keystone)
– ma anche pianificato fin nel minimo dettaglio, altro che missione sconosciuta alla monarchia e alle sue spie. Il presidente turco aveva poi lanciato un’altra provocazione, «Che fine ha fatto il corpo del giornalista?» ben sapendo che da giorni si vociferava che fosse stato fatto a pezzi, riportato in Arabia Saudita con grosse valige, o addirittura sciolto nell’acido a casa del console. Non aveva chiamato in causa – nome e patronimico – l’erede al trono saudita, ma era implicito che l’ordine fosse arrivato da molto, molto in alto.
I giochi di potere nella regiona fra Arabia Saudita e Turchia si sono fatti ancora più duri dopo l’affaire Khashoggi Muovere uno squadrone della morte del genere non è alla portata di tutti e, dal canto loro, re Salman e il figlio si erano già decisi in precedenza – il 19 ottobre – ad ammettere che, sì, Khashoggi era effettivamente morto al consolato ma perché implicato in una rissa scoppiata « accidentalmente». Le spie
Erdoǧan in parlamento ha detto che l’omicidio è stato premeditato. (Keystone)
in qualche maniera dovevano comunque essere intervenute se la monarchia aveva provveduto a licenziare su due piedi 18 presunti membri dei servizi segreti definiti «deviati» nonché il vice capo dell’intelligence, il generale Ahmed al-Asiri e il direttore del comitato per il controllo dei media , Saud al Qahtami. Inchieste giornalistiche hanno poi rivelato che Mohammed bin Salman si avvarrebbe di un corpo speciale, la Tiger Squad, incaricata appunto dei «lavori sporchi» tipo eliminare dissidenti e oppositori come ormai era stato etichettato Khashoggi. Se ad opporsi a MbS fosse stato un saudita qualsiasi, per tacitarlo sarebbe bastato un bel rapimento seguito da almeno un decennio di carcere duro con periodica flagellazione. Ma che bisogno c’era di farlo fuori? Il perché è antico come la Bibbia. Khashoggi non era un giornalista qualsiasi, era un membro dell’élite più dorata del regno, aveva diretto giornali sauditi come «Arab News», «al-Watan», ma soprattutto era stato consigliere mediatico prima a Londra, poi a Washington di un ambasciatore di rango, il principe Turki bin-Faisal ex capo dei servizi segreti del regno. Khashoggi, dunque, era stato percepito dalla famiglia Saud come un Giuda, e il suo allontanarsi dall’Arabia Saudita per poter esprimersi liberamente come un tradimento vero e proprio. Di qui l’insana decisione di farlo fuori e lavare l’onta col sangue. Ma chiunque abbia dato quell’ordine ha reso un pessimo servizio a Mohammed bin Salman e ha fatto invece un grande favore al presidente turco Erdoğan. MbS da due anni sta cercando di accreditarsi come il modernizzatore del regno e per farlo ha bisogno che vada in porto il suo mega-progetto politico-economico Saudi Arabia’s Vision 2030 destinato ad attrarre investimenti esteri per sganciare l’economia dell’Arabia Saudita dalla «schiavitù» delle entrate petrolifere che prima o poi si esauriranno come le riserve di greggio. Il futuro della monarchia dovrebbe essere affidato all’high tech, al
bio, ai servizi e alle rendite finanziarie. Dopo l’orrenda fine di Khashoggi è successo invece che il principe ha cominciato ad essere considerato come un qualsiasi dittatore sanguinario del Medio Oriente e, sul fronte economico, il più importante, sembrano averlo abbandonato alcuni dei big internazionali su cui contava. Quando si è deciso a parlare il 24 ottobre lo ha fatto, non a caso, davanti ai paperoni di mezzo mondo convenuti a Riad per la Future Investment Initiative organizzata dal 23 al 25 e ribattezzata dai media «Davos nel deserto», non solo perché il deserto è appena fuori dalla porta della capitale saudita, ma anche per l’alto numero di diserzioni registrato in segno di protesta per l’assassinio di Khashoggi. Su 150 ospiti in rappresentanza di 140 grandi industrie o realtà bancarie, ben 40 hanno disertato l’appuntamento. Erano persone come la presidente del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde (assente), il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin (assente), banchieri o mega-industriali che MbS voleva rassicurare, non gli attivisti delle associazioni per il rispetto dei diritti umani e civili di cui riempie regolarmente le sue galere e che naturalmente non erano stati invitati. Che fine farà Vision 2030 è presto per dirlo, ma già prima dell’assassinio di Khashoggi non prometteva granché. Molto dipenderà dai risultati delle indagini sull’omicidio, anche se – non illudiamoci – il business avrà sempre la meglio su tutto. Ma il pilone portante di Vision 2030, la quotazione in borsa del 5% della Saudi Aramco, l’azienda petrolifera statale, nel 2017 cioè solo un anno dopo il suo lancio era sparita dall’orizzonte e oggi non se ne parla quasi più, come non si parla più dei 100 miliardi di dollari che avrebbe dovuto portare nelle casse dello Stato. MbS, in altre parole, con Vision 2030 finora ha collezionato solo mezzi fallimenti. Se a questi aggiungiamo gravi errori come la sanguinosissima guerra contro lo Yemen, il bando inflitto al Qatar, accusato di trescare con l’odiato Iran,
e il delitto Khashoggi – se si riuscirà ad imputarglielo, ma già ora ne viene ritenuto comunque responsabile – la credibilità del giovane delfino andrà veramente a picco e con lui anche la credibilità delle sue riforme che finora hanno solo «ritoccato» con qualche lifting estetico gli aspetti più anacronistici del Paese. Chi invece scalpita per andare all’incasso del leso prestigio dei sauditi è un altro leader che quanto a persecuzione di giornalisti non scherza: il presidentissimo Erdoğan. Con l’affaire Khashoggi l’Arabia Saudita è arrivata a un centimetro dalla rottura con la Turchia. L’unica altra affermazione che è uscita dalla bocca del laconico erede al trono alla Davos nel deserto infatti è stata una rassicurazione sullo stato delle relazioni tra Ankara e Riad, che a suo dire godrebbero di buona salute. Balle. Tra i due Stati è in atto un braccio di ferro direi astioso per l’egemonia sul Medio Oriente sunnita, aggravato dal fatto che la Turchia è rimasta alleata del Qatar e si ostina a sostenere la Fratellanza musulmana (cui apparteneva anche Khashoggi), messa invece fuorilegge da Riad e dagli Emirati arabi uniti come «terrorista» già all’indomani del golpe con cui in Egitto il generale al-Sisi ha bandito e incarcerato il presidente Morsi con tutti i Fratelli. Ai tempi della Primavera egiziana di piazza Tahrir, Erdoğan aveva investito una montagna di denaro sulla Fratellanza medesima, ma dopo il 2013 aveva perso tutto mentre a guadagnarne era stato MbS che da allora è schierato al fianco del nuovo uomo forte del Cairo. Per non parlare infine del rapporto più che fraterno che la Turchia ha stretto con l’Iran e la Russia sulla Siria praticamente in mano alla trimurti Ankara-Teheran-Mosca, mentre Riad che sosteneva gli oppositori di Bashar al-Assad ha perso su tutta la linea. In altre parole, il gioco tra Arabia Saudita e Turchia dopo l’omicidio Khashoggi si è fatto molto più duro, in balia com’è anche della politica saturnina del vecchio alleato di entrambe: gli Stati Uniti di Trump.
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Politica e Economia
Vigilia tesa per Trump
Verso il voto di mid-term Mentre la politica interna domina l’attenzione con i pacchi-bomba,
è dall’estero che arriva lo shock. Il presidente deve salvare l’alleanza con Riad dopo aver preso le distanze dalle bugie sull’assassinio di Khashoggi
Federico Rampini «I pacchi-bomba se li spediscono i democratici da soli, per potersi atteggiare a vittime». È stato il leitmotiv dei talkshow di destra, da Rush Limbaugh ad Ann Coulter. Peraltro la portavoce di Trump ha dato la linea accusando la Cnn (destinataria di uno degli ordigni) di «seminare odio». Questo dà la misura del clima velenoso negli ultimi giorni della campagna elettorale per le legislative di mid-term che si tengono il 6 novembre. I pacchi-bomba (tutti inesplosi e intercettati dalla polizia mentre sto scrivendo) sono solo un ingrediente aggiuntivo. È a senso unico la strategia della micro-tensione, tutti democratici i destinatari. E di preferenza «nemici designati» di Donald Trump, bersagli dei suoi attacchi via Twitter. I Clinton e gli Obama. L’ex ministro della Giustizia obamiano Eric Holder. Una deputata afroamericana della California più volte svillaneggiata dal presidente. L’ex capo della Cia a cui la Casa Bianca ha voluto infliggere un oltraggio speciale (a John Brennan fu revocato il lasciapassare di sicurezza). Il «miliardario liberal» George Soros, quello che appare in quasi tutte le teorie del complotto dell’estrema destra, il tessitore di trame giudeo-plutocratico-globaliste. L’attore Robert De Niro, icona liberal che unisce le sinistre di New York e Hollywood. Il profilo dei destinatari ovviamente non vuol dire che ci sia una regia politica, tantomeno si possono invocare responsabilità dirette della Casa Bianca: farlo sarebbe il comportamento speculare alla paranoia che agita l’estrema destra. Il presidente ha condannato senza ambiguità lo stillicidio dei pacchibomba. Dall’Fbi al sindaco di New York Bill de Blasio, la diagnosi è chiara: «terrorismo domestico». Non particolarmente sofisticato. Di ben altra pericolosità furono gli attacchi all’antrace iniziati subito dopo l’11 settembre 2001, che fecero 5 morti e 17 feriti, e dei quali l’Fbi non trovò mai un colpevole certo. Stavolta l’impressione è che la sequenza di attacchi possa fare capo a qualche esagitato di estrema destra, più assetato di clamore che di sangue. A chi giova? È sempre difficile psicoanalizzare le reazioni dell’elettorato, può anche darsi che non ce ne siano affatto e che il voto alle legislative del 6 novembre si giochi su tutt’altri temi. Hillary Clinton è chiara sulla lezione da trarre: «Dobbiamo fare tutto il possibile per riportare unità dentro la nostra nazione. Dobbiamo eleggere chi lavorerà per questo obiettivo». Ancora più esplicito è il filantropo Alexander Soros, figlio di George: «La responsabilità è di chi ha spedito questi ordigni a casa della mia famiglia e negli uffici di Obama e Clinton, ma non possiamo scindere questi atti dalla demonizzazione politica che è la nuova
Donald Trump durante un rally politico nel Montana. (AFP)
normalità, la piaga del nostro tempo. Le cose sono peggiorate dalla campagna elettorale di Trump. Ha liberato il genio dalla bottiglia, ci vorranno generazioni per rimetterlo dentro, e tutto ciò non rimane confinato dentro gli Stati Uniti».
Di ben altra pericolosità furono gli attacchi all’antrace dopo l’11 settembre del 2001, rimasti senza colpevole La prospettiva storica in realtà ci ricorda che la violenza politica è americana quanto il jazz e i jeans. Gli Stati Uniti hanno il record di presidenti assassinati nell’esercizio delle loro funzioni. Dall’Ottocento di Abraham Lincoln al Novecento dei fratelli Kennedy c’è una scia di sangue che include tra gli altri Malcom X e Martin Luther King; più tutte le vittime del terrorismo politico razzista del Ku Klux Klan che non sono delle celebrità, ma semplici cittadini linciati o impiccati per il colore della loro pelle in un regolamento di conti infinito che risale alla guerra di secessione. In confronto a quei precedenti storici, gli ultimi anni sono relativamente «pacifici», nel senso che la violenza endogena si è spostata altrove: nelle sparatorie di massa che colpiscono alla cieca. Di certo l’atmosfera è contaminata, stavolta non dall’antrace ma dalle parole. L’insulto urlato, la diffamazione oscena, l’offesa personale, la menzogna
ignobile sono le armi di distruzione di massa che molti praticano con godimento, convinti di essere giustizieri investiti da una missione. Poi qualcuno più folle o più determinato, più malvagio o più incattivito, all’arma dell’odio paroliero aggiunge l’esplosivo. Di certo chi occupa oggi la Casa Bianca non fa nulla per rasserenare, placare, esortare a seguire «gli angeli migliori della nostra natura». Questa, non a caso, è una citazione di Lincoln. Mentre la politica interna domina l’attenzione, è dall’estero che arriva lo shock più grave. Donald Trump deve salvare l’alleanza con l’Arabia Saudita, dopo aver preso le distanze dalle menzogne sul feroce assassinio di Stato del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, torturato e massacrato dentro un consolato saudita in Turchia. In gioco c’è molto più del petrolio, c’è tutta la politica mediorientale degli Stati Uniti, già in crisi per l’avanzata di altri attori in quell’area: Russia, Cina, più le potenze regionali che sono la Turchia e l’Iran. La posta è enorme. Un anno e mezzo fa, quando seguii Trump nel suo primo viaggio presidenziale all’estero, quell’itinerario la diceva lunga. Con una scelta senza precedenti, Trump decise che la sua prima tappa straniera sarebbe stata proprio Riad, seguita da Gerusalemme. Con la monarchia saudita firmò accordi che prevedevano forniture a lungo termine di armamenti per 110 miliardi di dollari: il che fa dell’Arabia il più grosso cliente estero dell’industria bellica Usa, da Lockheed Martin in giù. C’è anche un risvolto privato, il
filo degli affari finanziari che legano i capitali sauditi alla famiglia Trump e a quella del genero Jared Kushner. Questo presidente ha dato «in appalto» la sua strategia mediorientale alla monarchia saudita e a Benjamin Netanyahu. Ha fatto proprio il disegno israelosaudita di isolare, rovinare economicamente, e possibilmente rovesciare il regime degli ayatollah a Teheran. Il petrolio è quasi marginale visto che l’America ha raggiunto una sostanziale autosufficienza energetica, mentre i grandi flussi del greggio dal Golfo Persico vanno verso la Cina e l’India. Armi e finanza sono il collante di un disegno che è prima di tutto geopolitico. Tanto più ora che la Turchia si allontana dall’Europa e allenta la sua lealtà alla Nato, per avvicinarsi a Vladimir Putin, guai se dovesse destabilizzarsi la monarchia saudita. Nell’asse con Riad, l’ossessione anti-iraniana che risale ai neoconservatori dell’èra Bush, ha trovato qualche sponda insperata anche a sinistra. Dopo che Trump lasciò Riad nel maggio 2017, e lì avvenne l’ascesa al potere del principe MbS, un’apertura di credito verso il «modernizzatore» fu concessa da una delle firme più prestigiose del giornalismo liberal. Thomas Friedman, il maggiore esperto del «New York Times» per il Medio Oriente, incassò un’intervista esclusiva col principe MbS e manifestò speranze sui suoi progetti riformatori. Poteva finalmente chiudersi – scrisse allora Friedman – un’èra funesta iniziata nel 1979 con due eventi gemelli: l’avvento della teocrazia in Iran, e la svolta oscurantista della
monarchia wahabita, dal quel momento impegnate a farsi concorrenza nel sostegno ai fondamentalismi anti-occidentali. Il successivo viaggio di MbS in America fu un percorso dosato per corteggiare anche l’opinione liberal, a cominciare dai potentati digitali della Silicon Valley. Gran parte dell’establishment americano volle credere alla favola del despota illuminato. Sorvolando sui massacri in Yemen, per dare più visibilità alla patente di guida concessa alle donne. Da tempo la monarchia dei Saud è diventata il sostituto dello Scià di Persia: il gendarme degli interessi americani nel Golfo. Solo se regge il pilastro saudita insieme con quello israeliano, Trump può evitare una ritirata disastrosa dell’influenza Usa in quell’area, dopo aver confermato a Putin il protettorato siriano, e dopo che l’influenza cinese avanza in Pakistan e Iran. Il disastro d’immagine di MbS, con l’orrenda mattanza del giornalista dissidente che gli viene attribuita, ha già dissuaso Wall Street, che boicotta la sua «Davos nel deserto». Trump nelle ultime dichiarazioni sull’affare Khashoggi ha preso le distanze dal principe MbS, pur appoggiando il re: un segnale che all’America non dispiacerebbe un nuovo «golpe di palazzo» che metta in disparte l’uomo forte responsabile di troppi disastri? Sembra che la Casa Bianca si prepari a varare delle sanzioni diplomatiche, molto limitate però (tipo revoca di visti ai dirigenti sauditi coinvolti nella barbara eliminazione del giornalista), e che certamente non toccherebbero le maxi-forniture militari. Si ripete – ancorché in una situazione molto meno drammatica – la sindrome dell’11 settembre e cioè l’incapacità dei leader americani di staccare il cordone ombelicale con la monarchia saudita. L’antefatto più importante è questo: l’11 settembre una cospicua parte dei terroristi erano sauditi, così come il loro regista Osama Bin Laden. Non solo George W. Bush non fece nulla per indagare eventuali appoggi dall’alto ma organizzò un’evacuazione di tutte le potenti famiglie saudite che si trovavano a Washington per il meeting degli investitori Carlyle. L’unico jet civile autorizzato a decollare quando venne chiuso lo spazio aereo, fu quello che riportava a casa i magnati sauditi. L’altro tema che continua ad aleggiare su tutta la vicenda: a che gioco gioca Erdogan? Una delle cose che più preoccupano gli americani è che questa vicenda rafforza un leader islamico legato a doppio filo ai Fratelli Musulmani. È proprio quel legame una delle ragioni profonde del dissidio AnkaraRiad. Erdogan è una sovranista-populista in stile ottomano, tant’è che vide con favore le primavere arabe, divergendo radicalmente dai sauditi nel giudizio su quella stagione. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Economia: quali i ÂŤdiritti dovutiÂť? Analisi Gli ambiti economici in cui i cittadini tendono ad esigere particolari prestazioni pubbliche
alla ricerca di consenso a tutti i costi con il ritorno al punto di partenza di tale ciclo. Ma, allora, come procedere? Si deve, forse, tagliare il welfare (dove una spesa maggiore non deve essere sinonimo di efficienza), nutrendo i focolai di scontento popolare? Nossignore, si tratterebbe di ricalibrarlo sul principio di chi sceglie paga. Alcuni esempi: eliminazione di sconti (o similari) per beni/servizi pubblici non di necessità ‒ indipendentemente da età , condizione familiare ed economica etc. ‒ secondo il principio per cui nessun negozio (il fatto che sia privato non è rilevante) faccia pagare meno di quanto venga liberamente portato alla cassa. In cambio, però, gli Stati dovrebbero difendere gli ambiti specifici, per cui essi sono storicamente sorti. Integrando l’esempio di cui sopra, essi dovrebbero ‒ a mero titolo illustratin tassazione vo ‒ esentare le pensioni reda FL-RÜhnon xkl.l’erogato fintanto(eche corrisponda t h c und Leu l) al tasso d’inflaal versato (indicizzato mitteil pensionamento zione), permettere volontario a qualsiasi età con rimborso del versato (indicizzato al tasso d’inflazione), garantire legalmente per le famiglie la conciliabilità delle stesse con il lavoro, fare sÏ che si sviluppi una cultura della gestione oculata dei propri risparmi, ecc. In altri termini, gli Stati devono tornare ad essere garanti di diritti senza sovrainterpretare il loro ruolo, ma incentivando lo sviluptubesdi responsassenso le po continuo di quel Ê t p e (exc et dell’affezioentsbase bilità individuale fluorescalla s le ou ) ne per la Nazione les ampstessa.
Edoardo Beretta Vi sono fondamentalmente due modi per descrivere il dibattito ‒ attuale, ovunque ‒ sui diritti (economici): da un lato vi è chi reputa che siano insufficienti (o mal distribuiti), dall’altro chi li ritiene persino troppi (se paragonati ai doveri come una volta). In altre parole, o sono considerati a ragione eccessivi o insufficienti. La realtà dei fatti è, però, difficilmente o bianca o nera quanto piuttosto complessa e variegata. Inutile menzionare che molti movimenti politici (fra cui quelli nazionalisti) facciano proprio leva su due timori da sempre diffusi nelle società , cioè che 1) la popolazione goda di diritti o opportunità insufficienti ‒ preferibilmente ancora, a beneficio di qualcun altro ‒ e 2) la situazione si lasci suddividere fra due attori (di cui, necessariamente, solo uno nel giusto). Tale chiave di lettura non è molto diversa da come si sono sviluppate svariate vicende storiche ‒ o le migliori produzioni cinematografiche dove piÚ è netta la divisione fra buoni e cattivi piÚ elevato è il successo. Purtroppo, a tale stato di cose ha anche contribuito l’oscillazione degli Stati fra iperinterventismo e laisser faire economico e ciò non necessariamente in epoche diverse, bensÏ anche a seconda dell’ambito di riferimento (o delle lobby di volta in volta dominanti). Intendiamoci: le ineguaglianze sociali (sempre maggiori nelle Nazioni evolute) si sono sviluppate nonostante lo Stato sociale ben radica-
1. Elaborazione di E. Beretta: http://stats. oecd.org/Index. aspx?Data SetCode= SOCX_AGG e http://data. oecd.org/gga/ generalgovernmentdebt.htm.
to in molti Paesi europei e ciò in forza del fatto che il solo trasferimento statale a vantaggio dei piÚ deboli mai abbia contribuito a renderli agiati. Semmai un simile agire ha contribuito ad impoverire i ceti medi, creando (al crescere della redistribuzione) le premesse per conflitti sociali quando è solo la diffusa creazione di ricchezza a consentire un’uscita vera e stabile dalla spirale di povertà . Nel contempo, gli Stati hanno ingenerato meccanismi di diritto dovuto (o dirittismo) dove la popolazione ‒ oltre che il decisore pubblico ‒ ha perso di vista cosa le spetti davvero (o meno). Il principio ‒ indipendentemente
dalla condizione economica, familiare o altro ‒ dovrebbe essere sempre quello, per cui laddove il soggetto economico abbia compiuto una ÂŤlibera sceltaÂť, essa non debba essere presa in capo dallo Stato ad eccezion fatta per settori strategici (quali educazione, infrastrutture, sanitĂ etc.) o situazioni di emergenza. Ecco, invece, esservi amministrazioni locali e societĂ semipubbliche che offrono servizi sempre piĂš complessi (e che esulano dal loro core business dove sarebbero forse piĂš efficienti) a prezzi di assoluto vantaggio, esponendole da un lato all’inevitabile giudizio dei cittadini aderenti a tali iniziative e dall’altro alla necessitĂ
di spalmare l’introito ridotto su altre voci e persone. Il riferimento è a esenzioni o riduzioni ingiustificate, prezzi esageratamente politici e penalizzazione di ogni altro individuo non rientrante in certe categorie, con l’effetto che i primi giudichino e i secondi si lamentino. Gli esempi si sprecano e gli effetti economici sono palesi: 1) aumento strutturale del debito pubblico a fronte di miglioramenti sociali spesso non percepiti come tali, 2) conseguente riduzione delle prestazioni pubbliche (o innalzamento del prezzo di esse) con relativo malcontento generalizzato e 3) avvento di fazioni politiche sempre piÚ
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Politica e Economia
La Svizzera perde competitività
Rapporto WEF Nella classifica annuale scende al quarto posto. In parte ciò è dovuto al cambiamento di metodo
e in parte a fattori particolari. Rimane però fra i migliori ed è pronta ad affrontare la «quarta rivoluzione industriale» Ignazio Bonoli Per la prima volta dal 2009, la Svizzera non figura più in testa alla speciale classifica dei paesi più competitivi. L’annuale rapporto del Forum economico mondiale (WEF) la situa, infatti, dietro Stati Uniti, Singapore e Germania. La notizia è stata data con un certo rilievo dalla stampa svizzera, anche se i risultati di quest’anno del «Global Competitive Report» devono tener conto in una certa misura del cambiamento del metodo di valutazione dei vari paesi. Secondo gli estensori del rapporto, però, il nuovo metodo «coglie perfettamente le dinamiche dell’economia globale nella quarta rivoluzione industriale». Lo scopo dell’indagine resta comunque sempre quello di chiarire il grado di competitività internazionale di ogni paese analizzato. Negli ultimi nove anni la Svizzera è sempre risultata in testa alla graduatoria, mentre quest’anno viene classificata al quarto posto. In testa alla graduatoria figurano invece gli Stati Uniti (grazie alla politica economica di Trump?). Il fatto non costituisce però una novità assoluta: infatti, la scorsa estate la Svizzera non figurava già più al primo posto nel rapporto allestito dall’IHD. Un esame più ravvicinato del rapporto WEF mette in evidenza che la nuova posizione in classifica della Svizzera non è dovuta a fattori economici veri e propri, ma – per esempio – all’incertezza che caratterizza i futuri rap-
porti con l’Unione Europea, nonché all’avvicinarsi di votazioni importanti come quella sulla revisione dell’AVS, accompagnata dal nuovo progetto sulla fiscalità delle imprese, su cui grava la minaccia di un nuovo referendum. Come già accennato, anche il cambiamento di metodo d’indagine ha una certa importanza sulle classifiche di quest’anno. La scelta e la ponderazione dei parametri principali (oltre un centinaio), che vengono poi raggruppati in 12 indicatori, sono state completamente rivedute. Il che non modifica però sostanzialmente il risultato globale. Infatti, se si fosse usato lo stesso metodo per l’indagine dello scorso anno, la Svizzera sarebbe comunque stata classificata al quarto posto. Il risultato di quest’anno è dovuto anche a fattori particolari, come ad esempio il nuovo piano scolastico, che non permette più una graduatoria significativa degli allievi migliori. Ma, al di là di questi singoli aspetti, nella valutazione dei parametri riassuntivi la Svizzera conserva sempre un posto di preminenza nella salute e nella stabilità macro-economica del paese, vicine al 100%. Sotto il 95% troviamo l’infrastruttura, mentre tra l’85 e il 90% vi sono il sistema finanziario, l’educazione e la formazione. Che cosa influisce perciò negativamente sulla valutazione globale della competitività della Svizzera? Già lo scorso anno notavamo che taluni parametri non sono confrontabili. Per esempio, si rimprovera alla Svizzera una scarsa in-
Thierry Geiger, del WEF: si aprirà un fossato fra i paesi che coglieranno le sfide della quarta rivoluzione industriale e gli altri. (Keystone)
frastruttura portuale. Ma si tratta di un paese che ha un solo porto commerciale internazionale e, per di più, fluviale! Analogamente la classifica attorno al 65% dell’ampiezza del mercato interno è dovuta alle dimensioni del paese stesso, nonché alla scarsità di materie prime che obbligano a ricorrere a molte importazioni. Ma, tra i punti deboli, figurano il mercato dei prodotti, molto regolamentato e che soffre della complessità delle tariffe doganali, nonché le difficoltà e i costi per creare un’azienda. Tra i punti di forza vengono considerate (sotto il 75%) la dinamica degli affari e (sotto l’80%) l’introduzione dell’informatizzazione e le istituzioni.
Appena sopra, invece, il mercato del lavoro e la capacità di innovare. Nella valutazione dei nuovi indicatori, inoltre, riveste un ruolo molto importante la capacità di adeguarsi rapidamente a quella che il WEF definisce la quarta rivoluzione industriale. Per la crescita economica di lungo periodo sono indispensabili la forza dell’innovazione, il capitale umano, la capacità di adeguarsi rapidamente e una certa agilità. Alcune critiche al rapporto possono essere mosse per la valutazione dell’inflazione (vicina a zero in Svizzera e ottimale al 5% secondo il WEF), oppure nella preferenza per un periodo scolastico più lungo, invece dell’ottimo sistema
duale di formazione. Nel commentare il rapporto, l’economista del WEF Thierry Geiger ha fatto notare che un buon indicatore globale va generalmente di pari passo con un elevato reddito pro-capite della popolazione. Sotto questo aspetto la Svizzera non ha nulla da temere. Questa può anche essere una spiegazione del divario di ricchezza fra i paesi. Anche sulla base degli indicatori di competitività, il presidente esecutivo del WEF ha detto, non a caso, di prevedere un allargarsi del fossato globale fra chi coglierà le esigenze del momento e chi non le capirà. In ogni caso saranno le aperture dei mercati che favoriranno il progresso e non il contrario. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Politica e Economia
Perché quest’anno il prezzo dell’oro è stato deludente La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy
L’oro non è (ancora) tra i favoriti degli investitori 2000
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Oncia troy d’oro in dollari USA
risultano i proventi ai quali si rinuncia. Lo stesso accade in caso di rialzo delle quotazioni azionarie, poiché investendo in oro non si beneficia dei dividendi e degli utili di corso. Dal canto suo, la forza della moneta statunitense rende più caro l’oro per gli investitori al di
fuori dell’area del dollaro e ne riduce dunque la domanda. A breve termine questa situazione dovrebbe rimanere pressoché invariata. La Banca Migros prevede però che il prossimo anno il dollaro tenderà a indebolirsi, imprimendo così slancio
2018
Fonte: Bloomberg (al 4 ottobre 2018)
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
L’oro è tradizionalmente considerato un porto sicuro e gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da un netto aumento dei rischi politici. Tuttavia, quest’anno il metallo prezioso non ha confermato il suo ruolo d’investimento rifugio in tempi di crisi. Nonostante le difficoltà politiche in Europa e le controversie commerciali tra USA e Cina, l’oro negli ultimi tempi ha nettamente perso terreno. Addirittura ha beneficiato ben poco anche dei timori inflazionistici che di tanto in tanto tornano di attualità. Quali sono i motivi di questa tendenza al ribasso? Per spiegare questo fenomeno si deve guardare al robusto stato di salute dell’economia mondiale, trainata dallo sviluppo congiunturale statunitense: quest’anno l’economia USA cresce più del previsto, mentre l’inflazione rimane moderata. Questi fattori non solo sostengono il rialzo di Wall Street, ma contribuiscono anche all’aumento dei tassi USA a breve termine. L’incremento dei tassi d’interesse reali e dei corsi azionari riduce l’attrattività dell’oro rispetto ad altri investimenti, in quanto il metallo prezioso non frutta alcun rendimento. Si tratta infatti di un semplice investimento di valore e quindi chi lo detiene non percepisce gli interessi che potrebbero essere generati dalle obbligazioni. Quanto più salgono i tassi di interesse, tanto maggiori
al prezzo dell’oro. Inoltre, l’aumento del livello dei tassi reali negli Stati Uniti non dovrebbe proseguire allo stesso ritmo finora registrato. Ci aspettiamo che entro fine 2018 il prezzo del metallo giallo si collochi in una fascia compresa tra i 1200 e i 1250 dollari USA. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Congiuntura 2019: forse ce la caviamo ancora Le previsioni delle ultime settimane non lasciano dubbi: a livello congiunturale stiamo vivendo un momento di inversione delle tendenze. Il Fondo monetario internazionale avverte che l’economia mondiale sta arrivando alla fine della sua lunga fase di crescita, iniziata più di 4 anni fa. Non solo, ma l’evoluzione futura potrebbe risentire anche del conflitto commerciale che si è aperto tra gli Stati Uniti e il resto del mondo per le misure protezionistiche adottate dall’amministrazione Trump. Per il momento l’FMI mantiene le sue previsioni per l’economia mondiale per il 2018 e per il 2019 al 3,9%. Anche Cina e Stati Uniti continueranno a godere di una congiuntura espansiva. In economie importanti come quella tedesca, quella francese, quella britannica, nonché nei due colossi economici
che sono India e Giappone potrebbero invece manifestarsi tendenze alla recessione in seguito alla riduzione del volume degli scambi internazionali. Attualmente si pensa che le perdite che il commercio internazionale subirà in seguito all’introduzione di nuovi dazi potrebbero far diminuire il tasso di crescita dell’economia mondiale, nel corso dei prossimi due anni, di un mezzo per cento. Come si è detto le ripercussioni non saranno lineari. Stando agli esperti del Fondo monetario esse saranno risentite maggiormente in Europa che, per esempio, in Cina. Per la Svizzera il quadro previsionale risulta alquanto contraddittorio. Da una parte i nostri istituti di previsione continuano, anche nelle previsioni di settembre e di ottobre, a rivedere verso l’alto il tasso di crescita del prodotto in-
terno lordo. Le ultime revisioni hanno portato il tasso di crescita di questo aggregato per il 2018 dal 2,3 al 2,9%. Come si può rilevare dalle stime del WIF, l’istituto di ricerche economiche del Politecnico federale di Zurigo, questo miglioramento è dovuto da un lato a un aumento del saldo degli scambi con l’estero e, dall’altro, a un aumento degli investimenti nelle costruzioni superiore al previsto. Dall’altra parte, le previsioni congiunturali per il 2019 anticipano in generale una riduzione del tasso di crescita a un valore oscillante tra l’1,7 e il 2%, di poco superiore a quelli realizzati dall’economia svizzera nel corso degli ultimi due anni. Se si va alla ricerca delle cause di questo colpo di freno si resta però insoddisfatti. Per non fare un discorso troppo lungo consideriamo un solo caso: le previsioni di
inizio ottobre del WIF del Politecnico di Zurigo. Questo istituto prevede che, nel 2019, il Pil svizzero aumenterà solo dell’1,7%. Quando si considerano però i singoli aggregati che formano il Pil ci si accorge che gli investimenti aumenteranno del 2,4%,le esportazioni addirittura del 3,6% e i consumi privati dell’1,7%. Solo i consumi degli enti pubblici cresceranno, il prossimo anno, a un tasso dell’1,3%, inferiore a quello che sarà realizzato dal Pil, però comunque superiore al tasso di crescita dei consumi pubblici del 2018. Da dove verrà allora il colpo di freno congiunturale? Stando al WIF dovrebbe venire dalla riduzione delle scorte, ossia della parte di produzione che non viene venduta. Nel 2019 non vi saranno aumenti delle scorte. Questo significa che gli imprenditori svizzeri
nel 2019 cominceranno a giudicare il futuro in modo meno ottimistico di quanto non l’abbiano fatto nel 2018. Tuttavia bisogna stare attenti a non dare all’aggregato delle scorte troppo significato. Di fatto nelle stime della contabilità nazionale questo aggregato non corrisponde a una realtà rilevata, ma rappresenta un resto quando non addirittura un fattore di correzione di difficile interpretazione. Per avere un’idea più precisa del ruolo che potrebbe svolgere nelle previsioni congiunturali per il 2019 occorrerà quindi aspettare almeno la revisione delle previsioni di metà anno. Per il momento, tutto quello che si può dire, è che gli esperti delle previsioni avvertono che, per l’economia svizzera, l’orizzonte del 2019 non è più così limpido come quello di quest’anno.
premier inglese, ha chiesto al suo partito di restare unito, di abbandonare le sue solite manie golpiste, e di lasciarla trattare con l’Europa: mancano poche settimane, e il verdetto di questo negoziato sarà dato. Gli europei, che non hanno risparmiato critiche anche pesanti, dicono che vogliono provare davvero a trovare un accordo: l’ipotesi del «no deal» spaventa tutti. Ma è necessario un compromesso molto grande: Londra deve rinunciare alla completa sovranità su una parte del suo regno – l’Irlanda del nord – e Bruxelles deve concedere all’Inghilterra il fatto che la situazione nordirlandese è eccezionale e quindi deve avere un trattamento eccezionale. In entrambi i casi, ci vuole un enorme sforzo diplomatico, e soprattutto a Londra ci vuole un’unità e un consenso che finora non ci sono mai stati. E soprattutto da parte dei Tory ci vuole pazienza, e una linea di credito aperta nei confronti della May: un inedito in questo romanzo straziante che è diventato la Brexit. Poi c’è il popolo. Né i conservatori né i laburisti sono a favore di un secondo
referendum, anche se i secondi sono stati come al solito sufficientemente ambigui, dicendo che sono aperti a ogni opzione. In realtà la loro opzione è una, e non è il referendum: il Labour vorrebbe bocciare in Parlamento qualsivoglia accordo la May riesca a trovare con Bruxelles e poi indire nuove elezioni. Lo slogan di Jeremy Corbyn e dei suoi è: noi siamo capaci di negoziare, a differenza della May; votiamo, vinciamo e poi ci vediamo a Bruxelles. Sulle capacità negoziali del Labour ci sarebbe da discutere a lungo: le alternative della Brexit sono invero poche, e l’unico modo per accordarsi è quello di garantire la permanenza nel mercato unico e nell’unione doganale che come si sa è una Brexit talmente soft che per molti non è nemmeno una Brexit. Per di più, il Labour è da sempre contrario alla libertà di circolazione delle persone, che invece sarebbe garantita dalla permanenza nel mercato unico: la posizione negoziale del Labour insomma non è molto stabile. Ma in questo momento la variabile più
importante è il tempo. Si deve aspettare che la May finisca il negoziato con l’Europa e che torni in Parlamento – sempre ammesso che nel frattempo i Tory non decidano di sfiduciarla. Si deve poi votare in Parlamento, e se l’accordo dovesse essere buono alcuni laburisti potrebbero decidere di votarlo, e alcuni conservatori invece di bocciarlo: insomma, ci si deve contare ancora. Poi nel caso di una bocciatura del piano May, bisognerebbe organizzare un voto, che sia un referendum o un’elezione, e nel frattempo si avvicinerebbe la data del 29 marzo 2019, che è l’inizio formale della Brexit. Si potrebbe fare slittare la scadenza, ma ci vuole sia la richiesta da Londra sia il consenso europeo, e anche per questo ci vuole tempo. Nel frattempo, la May e l’Ue stanno cercando di dilatare i tempi della transizione post Brexit. E mentre si contano i giorni sul calendario, il People’s Vote gioisce: forse non ci sarà un referendum, forse non ci sarà un’elezione, ma qualcosa è accaduto. La Brexit sembra più lontana, qualsiasi forma riuscirà ad avere.
poi transitato in Francia prima di annidarsi nel lessico politico italiano. Sulle prime si potrebbe pensare ad una variante aggiornata dell’antico nazionalismo imperniato sull’esaltazione della patria e la difesa dei confini. È così, ma solo in parte. Come spesso succede, i neologismi non si limitano a versare vino vecchio in otri nuovi, ma s’incaricano di registrare lo spirito del tempo, in questo specifico caso quanto sta avvenendo nel campo della politica. Il sovranismo glorifica la democrazia diretta a spese dei canali rappresentativi, la rete a spese dei giornali, i movimenti a spese dei partiti e dei sindacati, la personalità del leader a spese dei congressi. Siamo insomma di fronte al progressivo svuotamento dei luoghi tradizionali di mediazione a beneficio di una relazione diretta leaderbase, resa possibile dalle tecnologie dell’informazione. Quindi niente più assemblee in cui misurarsi su obiettivi e strategie, niente più confronto tra candidati e programmi, ma la proclamazione del capo attraverso apposite
piattaforme informatiche: un potere, come l’esperienza sta rivelando, non meno occulto delle tanto biasimate nomenklature partitiche. È curioso questo paradosso, una delle cifre della nostra epoca guidata dall’immediatezza: celebrare la democrazia nel momento stesso in cui la si cala nella fossa. I meccanismi che la storia ci ha consegnato (voto, delega, elezioni, rendiconto ecc.) non sono mai stati perfetti; i partiti – e noi ticinesi ne sappiamo qualcosa – non sono mai stati quei campioni di democrazia che pretendevano di essere. Spesso, anzi, funzionavano come piccole oligarchie inamovibili, e questo accadeva in tutti i campi dello schieramento (si pensi alla figura di Guglielmo Canevascini, soprannominato non a caso «padreterno»). Ma ora con il dominio della rete si sta scivolando dalla padella alla brace, con investiture di leader, o presunti tali, nominati da forze oscure e non da persone in carne ed ossa che si guardano negli occhi. Torniamo all’Unione e alle sue con-
vulsioni. I sovranisti, in occasione del prossimo rinnovo del parlamento europeo (maggio 2019), promettono sfracelli. Finalmente «i popoli d’Europa» manderanno a casa la decrepita classe dirigente finora espressa dall’alleanza tra democristiani e socialisti. Anche la destra elvetica si augura una svolta del genere (e già il prossimo 25 novembre, con l’iniziativa per l’autodeterminazione, spera di indicarne la direzione di marcia). Che però l’auspicato indebolimento delle istituzioni europee torni a vantaggio della Confederazione, alleggerendo le pressioni, non è per nulla certo. Il politologo René Schwok ritiene che i sovranismi siano ben lontani dal rappresentare un fronte comune omogeneo; anzi, è molto probabile – come già succede nella gestione dei migranti – che i singoli partiti finiranno per urtarsi a vicenda, destabilizzando l’intero edificio, così com’era già successo, alla fine dell’Ottocento, con il morbo nazionalistico. I prossimi mesi saranno cruciali sia per la Svizzera che per l’Unione.
Affari Esteri di Paola Peduzzi In marcia contro la Brexit La piazza anti Brexit è tornata piena, pienissima, con le sue bandiere europee e quel monito, «stop», che scandisce rumoroso un dibattito complicato e spesso feroce. L’ultima manifestazione contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea è stata organizzata il 20 ottobre a Londra dal movimento People’s Vote. Quando è nato, questo
La marcia del People’s Vote a Londra.
gruppo assomigliava a molti altri che si sono costituiti dopo il referendum del 2016, figli di un rimpianto che mai si è sopito: come tutti gli altri, People’s Vote era molto attivo, ma senza un leader e senza un seguito politico forte e, per questo, considerato inefficace. Per di più promuoveva una cosa quasi indicibile: ricontiamoci, vediamo se è vero che abbiamo cambiato idea. Un altro voto in un Paese spaccato a metà, tormentato e indeciso, incastrato in una decisione popolare? Pareva una proposta quasi sadica, certamente rischiosa. Ma mentre le alternative scivolavano via, e tutti, governo, opposizione, terzisti, si indebolivano, il People’s Vote si ingrossava, si insinuava anche nelle certezze granitiche di chi era pro o contro la Brexit, diventava popolo. Quel popolo che in un sabato di cielo azzurro si è riunito enorme a Londra, e ha fatto capire che laddove tutti avevano fallito, con quelle sigle disparate e confuse, lui invece ce l’aveva fatta. Ora che la piazza ha fatto sentire la sua voce, forte ed entusiasta, si ritorna alla politica del palazzo. Theresa May,
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Tuoni e fulmini nel cielo d’Europa Ottobre europeo (non necessariamente europeista) quest’anno a Lugano. Ha aperto la via il prof. Markus Krienke, docente alla Facoltà di Teologia, proponendo una mostra sui padri fondatori della linea democristiana: l’italiano Alcide De Gasperi, il francese Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauer. Gli ha fatto eco, qualche giorno dopo, Coscienza Svizzera (CS), che attraverso un seminario di studio ha concluso, almeno provvisoriamente, il ciclo sui rapporti Svizzera-UE avviato al principio dell’anno. Tutti sappiamo quanto sia delicata la questione, specie nel nostro cantone, ormai sordo a qualsiasi segnale d’apertura, fosse solo di natura intellettuale. Come ha ricordato il presidente di CS Remigio Ratti c’è stata una fase, intorno agli anni Sessanta, in cui le discussioni sul progetto europeo erano vive, le vedute ampie, la curiosità diffusa, soprattutto tra i giovani universitari. Anche allora la Svizzera non aveva aderito al mercato comune, preferendo imboccare la via alternativa, quella che
faceva capo all’Associazione di libero scambio (AELS). Scelta legittima, ma che lasciava fuori dall’orizzonte il fattore culturale e le aspirazioni ideali, per restringere il cerchio alle relazioni commerciali. Agli occhi di quella generazione la Comunità pensava in grande, l’AELS in piccolo. Oggi l’Unione europea è sotto tiro. I partiti e i movimenti del fronte sovranista l’accusano di ogni nefandezza: incompetenza, sprechi, burocrazia asfissiante; di curarsi delle grandi banche anziché dei disoccupati; di difendere le élites e di ignorare i bisogni del popolo. Siamo, si sa, in campagna elettorale e Bruxelles rappresenta il bersaglio perfetto, il potere lontano e malvagio su cui scaricare tutte le colpe e tutte le inadempienze possibili (che invece sono in buona parte riconducibili ai singoli Stati membri). «Sovranismo»: ecco la formula magica, da usare come un apriscatole per finalmente scardinare l’odiata UE dei funzionari. Termine recentissimo, nato oltre Atlantico, nel Canada, e
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Cultura e Spettacoli A Clichy con Henry Miller Adelphi ripropone il controverso libro dello scrittore americano in una versione rivisitata pagina 28
Sulle tracce della grafica Continua il nostro viaggio alla scoperta della storia delle arti grafiche pagina 29
Dopo lunga attesa, i Muse Una riflessione, oltre che grande musica nel nuovo lavoro della formazione di Matthew Bellamy
Sesso, potere, morte Teatro La tragedia del vendicatore con attori italiani e regia
di Donnellan sarà al LAC di Lugano il 29 e il 30 novembre 2018 Giovanni Fattorini
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Lo scrittore James Baldwin in un’immagine del 1974. (Keystone)
Considerazioni di un Native Son Saggistica L’editore Bompiani propone una raccolta di saggi dell’afroamericano James Baldwin Daniele Bernardi La prima a parlarmene è una studentessa di filosofia a Friburgo. I capelli raccolti sulla sommità del capo, lo sguardo incorniciato nel castello degli occhiali: «James Baldwin», mi risponde, quando le chiedo chi, per lei, sia stato l’autore più determinante. A questa immagine, dopo la recente lettura dell’antologia di saggi Questo mondo non è più bianco proposta ora da Bompiani, se ne sovrappone un’altra, risalente ad alcuni anni fa: mi trovavo per la prima volta negli Stati Uniti e, in un’occasione, ebbi modo di confrontarmi con una giovane del Mississippi. Durante la conversazione, con tutta la mia ingenuità le chiesi cosa rimanesse, allo stato attuale, del Ku Klux Klan. Ricordo che utilizzai un’espressione del tipo: «Ci sono ancora tracce dell’organizzazione?». La ragazza, allora, mi squadrò con aria stupefatta: «Tracce?», rispose, «Il KKK esiste ed è sempre attivo». «Cioè? Che significa?», replicai. «Beh, che ogni tanto, quando vogliono, vanno ad ammazzare qualche negro». Chi, come me, è cresciuto negli
opulenti e narcotizzanti anni 80 europei, è stato forse abituato a pensare alla Storia, a una certa Storia, come a qualcosa di lontano e, di conseguenza, di rassicurante: le reclute delle SS germaniche somigliavano più agli spietati antagonisti di Harrison Ford in Indiana Jones e l’ultima crociata che al proprio vicino di casa, così come gli incappucciati che, da metà ’800, linciano e perseguitano la popolazione afroamericana (e non solo) avevano più le fattezze di un «cattivo» di Zagor o Tex Willer che non quelle di un vero essere umano. E pure se i segnali della realtà – il nostro tempo e quanto ci circonda lo confermano – vengono presto a contraddire la «speranzosa superficialità» con cui si è soliti affrontare la visione del presente e del futuro, spesso né la cultura, né l’intelligenza, né la coscienza sembrano essere sufficienti a renderci consapevoli del fatto che la «normalità» (o la banalità, per dirla con Hanna Arendt) dell’uomo che ha commesso delitti oggi unanimemente condannati è simile alla nostra. Ciò detto, leggere o rileggere James Baldwin (New York, 1924 – SaintPaul-de-Vence, 1987) significa, anche,
affrontare tutto questo; e non è un caso che il film-documentario a lui dedicato da Raoul Peck e interpretato dalla voce di Samuel L. Jackson abbia riscosso, oggi, tanto interesse riportando l’attenzione su un autore che ha molto da spartire con le drammatiche problematiche di questi anni. Figlio di un predicatore, nato e cresciuto ad Harlem in una numerosa e più che umile famiglia, romanziere-saggista amico e compagno di lotta di personalità quali Medgar Evers, Martin Luther King e Malcolm X, James Baldwin, che in una nota autobiografica liquida la sua infanzia «con la sobria osservazione che sicuramente non vorrebbe riviverla», ha trascorso la sua vita fra Stati Uniti, Svizzera e Francia, dove, attraverso la sua opera, ha cercato di sviscerare le dolorose condizioni identitario-sociali dei cittadini americani di colore. Infatti, il titolo originale della raccolta Questo mondo non è più bianco è, in realtà, Notes of a Native Son, Considerazioni di uno del posto. Scritte da un autore pressoché trentenne, queste riflessioni sulla letteratura di protesta, sulla musica, sul cinema, sull’esistenza e il contesto della cultura nera vogliono
essere, in primo luogo, un’indagine attorno alle radici peculiari della società statunitense; perciò Baldwin si presenta come un autoctono, uno del posto, qualcuno che incarna emblematicamente – e perfettamente – le tensioni sottese di una collettività in perenne conflitto con se stessa. «So che il momento più cruciale del mio sviluppo», scrive, «venne quando fui costretto a riconoscere che ero una specie di figlio bastardo dell’Occidente; quando, seguendo le tracce del mio passato, non mi ritrovai in Europa, ma in Africa». Educato in un mondo in cui tutto – arte, legge, pensiero – è stato istituzionalizzato dalla supremazia bianca, Baldwin si trova a fronteggiare il destino di chi, da un lato, è stato privato delle proprie radici profonde, dall’altro si riconosce in un sistema nel quale risulta essere una specie di intruso. Da ciò, la necessità di elaborare una strategia per appropriarsi di tanti «secoli bianchi» e di scegliere il proprio posto in uno schema di cui si è parte: «Io sono ciò che il tempo, le circostanze, la Storia hanno fatto di me, senza dubbio, ma sono anche assai più di questo. Lo siamo tutti».
E dopo aver affrontato, in queste pagine, oltre che la critica e la meditazione culturale, i ricordi di un padre col quale, in fondo, è come se non avesse scambiato parola e quelli delle proprie disavventure di esule parigino, col brano conclusivo Uno straniero in paese è in un villaggio in cui mai un nero ha messo piede, nella nostra Svizzera di allora, che Baldwin chiude le sue Notes of a Native Son. Qui scopre l’«abisso» che separa le strade della sua città natale da quelle in cui, anche se senza scortesia, paesani sospettosi e increduli lo osservano come un inumano «prodigio vivente»: nello sperduto borgo a tre ore da Losanna le grida dei bambini al suo passaggio manifestano, soprattutto, stupore; lungo i marciapiedi di New York le voci infantili che là lo chiamavano Nigger! esprimevano il conflitto sul quale è stata edificata l’identità patologica di una nazione incapace di fare i conti col peso della propria esperienza. Bibliografia
James Baldwin, Questo mondo non è più bianco, Milano, Bompiani, 2018.
Oggi attribuita a Thomas Middleton e non più a Cyril Tourneur, La tragedia del vendicatore (The Revenger’s Tragedy) – rappresentata per la prima volta a Londra nel 1606 e ambientata in un’immaginaria città italiana – prende le mosse dalla ferma determinazione del giovane Vindice di vendicare la morte della promessa sposa Gloriana, che l’anziano e lussurioso duca ha ucciso col veleno perché non ha ceduto alle sue voglie. La lussuria è il vizio capitale che accomuna altri componenti della famiglia del duca. Lussurioso è Junior, figlio minore della duchessa, il quale è sotto processo perché ha stuprato la moglie del nobile Antonio. Lussuriosa è la duchessa, che concupisce e riesce a portarsi a letto il figlio illegittimo del duca, Spurio. Lussurioso (occorre dirlo?) è Lussurioso, figlio legittimo del duca, che ha messo gli occhi su Castizia, figlia di Graziana e sorella di Vindice e di Ippolito. Il tema della lussuria s’intreccia con quello della conquista e dell’esercizio del potere. Ambizioso e Supervacuo, figli maggiori della duchessa, tentano di far uccidere Lussurioso, che dopo l’assassinio del padre, caduto in una trappola tesa da Vindice e da Ippolito, s’impadronisce prontamente dello scettro ducale, accrescendo in tal modo l’odio della duchessa e dei fratellastri. Ma il tema principale, come suggerisce il titolo della tragedia, è la vendetta. Vindice vuole vendicare l’uccisione di Gloriana; la duchessa, l’incarcerazione di Junior, che il duca non ha sottratto d’autorità al potere giudiziario; Antonio, la moglie stuprata che si è tolta la vita per la vergogna; Spurio, la sua esclusione dall’asse ereditario; Lussurioso, l’informazione involontariamente erronea datagli da Piato (cioè da Vindice travestito) che gli è quasi costata la vita. Scritto quando il filone della tragedia di imitazione senecana non era più di gran moda, il truculento dramma di Middleton appartiene (come l’Amleto shakespeariano!) al genere revenge tragedy, e a giudizio quasi concorde degli studiosi presenta pregi e difetti evidenti. Principale difetto: i suoi personaggi
Il fascino di visioni e parole In scena Appuntamenti contemporanei
sui palchi della nostra regione, tra danza e teatro Giorgio Thoeni
Un momento della pièce in scena a Milano, poi a Lugano. (piccoloteatro.org)
sono privi di sfumature, di complessità. Sono figure monodimensionali, come sembra preannunciare il fatto che al posto dei nomi propri alcuni di loro hanno dei qualificativi che richiamano le morality plays. (Il mutamento di Graziana, che da madre ruffiana si riconverte in madre onesta, avviene con tale rapidità da risultare estremamente improbabile, per non dire inverosimile). In un saggio pubblicato nel 1934, quando la tragedia era attribuita a Tourneur, T.S. Eliot afferma (la traduzione è di Alfredo Obertello) che i personaggi di un’opera teatrale «sono reali nel loro rapporto vicendevole, e la compattezza del modello emotivo è […] parte importante del merito drammatico». I personaggi di The Revenger’s Tragedy «recano questa concordanza. Possono essere deformazioni, grotteschi, quasi puerili caricature umane, ma sono tutti quanti deformati in scala. Onde l’intera azione […] ha la sua propria realtà autonoma». Osservazioni acutissime. Resta però il fatto che lo spessore dei personaggi è minimo, e la visione radicalmente pessimistica della vita espressa da Middleton è priva di sfumature. Da tale mancanza (e dalla «compattezza di struttura» di cui parla Eliot), deriva tuttavia un effetto positivo: la rapidità dell’azione. C’è poi un pregio che Eliot rimarca più volte: «la bellezza del verso», «la piena maestria del verso sciolto», «uno sviluppo altamente originale di vocabolario e di metrica». Sono qualità che van-
no inevitabilmente perdute nella traduzione approntata da Stefano Massini per lo spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro di Milano e firmato da Declan Donnellan, che per la prima volta ha lavorato con attori italiani, quasi tutti giovani o giovanissimi. L’immagine iniziale è di grande sobrietà: uno steccato di colore sanguigno (lo scenografo è Nick Ormerod), che più avanti si rivela formato di elementi modulari, alcuni dei quali à coulisse, che scorrendo mostrano le riproduzioni ingigantite di famosi dipinti italiani di età rinascimentale (per le scene di corte) o un angolo di giardino (della casa di Graziana). All’improvviso fanno il loro ingresso tutti i personaggi, in abiti moderni e in fila danzante: un po’ passerella rivistaiola e un po’ discoteca. È un’immagine che rende subito manifesta la modalità espressiva scelta da Donnellan: il grottesco. Un grottesco esasperato, fatto di gestualità sovreccitata, frenesia ambulatoria, atteggiamenti sguaiati, sottintesi erotici arbitrari, recitazione spesso gridata (i migliori interpreti sono Ivan Alovisio, Fausto Cabra, Raffaele Esposito, Pia Lanciotti, Massimiliano Speziani), e con una scenetta horror (l’uccisione e la mutilazione del duca) ripresa con videocamera a mano pensando a Cannibal Holocaust più che a The Blair Witch Project. Uno spettacolo veloce ma inefficace. Non stimola intellettualmente e non coinvolge emotivamente. Ogni tanto fa ridere.
Sull’arco di una settimana il contemporaneo ha nuovamente fatto capolino nella nostra regione con la danza di Susanne Linke e le visioni performative di Dimitris Papaioannou: due grandi protagonisti che, seppur con approcci diversi, rappresentano l’evoluzione della coreografia moderna. Ospite con il danzatore e coreografo vallesano Urs Dietrich per una residenza al Teatro San Materno (con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino), Susanne Linke ha proposto in prima mondiale Ecoute… Chopin, creazione elaborata per l’occasione con cui la maestra tedesca ha confermato la sensibilità e indipendenza solistica che l’ha distinta dalla scuola di Mary Wigmann e di Pina Bausch senza però rinnegarne gli insegnamenti. Già a partire dal suo fondamentale solo Im Bade wannen del 1980 si era imposta con un perfetto equilibrio per movimenti calibrati dove la musica – nel caso specifico Satie – sottolineava la poetica del corpo femminile danzato in scena con... una vasca da bagno: oggetto dalla quotidianità disarmante con cui liberare sensi di libertà e di in-
Ottavia Piccolo in un momento di Occident Express.
tima riflessione. Con Ecoute… Chopin i preludi al pianoforte accompagnano sequenze e sensazioni nella semplicità di movimenti accennati che parlano con grazia, eleganza e leggiadro trasporto. Le ha fatto poi eco Thalamus 2 di Urs Dietrich. Una coreografia meno eterea, improntata sullo sgomento sociale, un’opera aperta dal taglio espressionista, ironico e astratto. Per entrambi il tutto esaurito e calorosi applausi. Di ben altro tenore la coreografia performativa di Dimitris Papaioannou per un’unica affollata serata al LAC di The Great Tamer con cui l’artista greco ha affermato la sua fascinazione per l’impatto visivo di taglio plastico-pittorico. Da citazioni di El Greco, Goya e Rembrandt, i suoi sogni si nutrono di mitologia classica in simbiosi con la modernità; giochi di illusione, corpi che si smembrano, musica che si snatura: i tempi si dilatano, la nudità diventa necessaria per un’arte povera che, come ha affermato, è anche «un funerale della bellezza pieno di speranza». Pubblico rinnovato, giovane e osannante per una teatralità priva di etichette. Locarno riparte da Ottavia Piccolo
Sono passati 27 anni dall’inaugurazione del rinnovata sala locarnese. Lo ha ricordato il direttore artistico Paolo Crivellaro aprendo la prima serata della stagione teatrale con Ottavia Piccolo, allora madrina dell’evento, oggi protagonista di Occident Express, un testo di Stefano Massini messo in scena dall’attrice con Enrico Fink, autore delle musiche eseguite in scena con l’Orchestra Multietnica di Arezzo. È il racconto in prima persona del viaggio epico e drammatico di Haifa, donna in fuga con i figli dall’Iraq: 5000 chilometri fino in Svezia lungo la via balcanica. Un monologo sobrio, parole durissime immerse nel candore letterario per una storia di migrazione in cui siamo tutti analfabeti di fronte alla tragedia della guerra e alla barbara crudeltà della Storia. Pubblico grato per uno spettacolo intenso.
In memoria di Stefano Cucchi Netflix Sulla mia pelle, storia di una vita scompigliata e di una morte indegna Alessandro Panelli Il film scritto da Lisa Nur Sultan e Alessio Cremonini, diretto da quest’ultimo e distribuito da Netflix, ha aperto la categoria «Orizzonti» alla 75esima edizione della mostra internazionale cinematografica di Venezia e narra la reale vicenda degli ultimi agghiaccianti sette giorni della vita di Stefano Cucchi, tra il 15 e il 22 ottobre 2009. Un giovane trentenne condannato per possesso e spaccio di hashish e cocaina, aggredito e malmenato violentemente dai carabinieri fino a provocarne la morte. La svolta del processo è proprio di queste ultime settimane con l’ammissione del carabiniere Francesco Tedesco che accusa due suoi colleghi dell’aggressione nei confronti di Stefano. Il film è un’opera dura, cruda, violenta e drastica. Dalle prime scene veniamo a conoscenza del personaggio di Stefano, un ragazzo che vuole redi-
mersi dai precedenti reati, che cerca di diventare una brava persona e di essere un membro migliore all’interno della sua famiglia. Da subito appare chiaro che ha un passato problematico che si
La locandina del film, visibile su Netflix e in alcune sale cinematografiche.
riflette in casa, con la conseguente diffidenza dei genitori e della sorella, che sembra però gli stiano offrendo un’altra possibilità. Le cose cambiano quando la sera del 15 ottobre Stefano e un suo amico si incontrano in macchina, apparentemente per fumarsi una sigaretta in pace. È perfetto come Cremonini abbia deciso di realizzare la scena come se si trattasse di una chiacchierata normalissima, senza evidenziare il fatto che Stefano gli stesse in realtà vendendo della droga. Dal momento in cui arriva la polizia a bussare al finestrino, la vita del protagonista cambia per sempre. I dialoghi del film sono gestiti in maniera egregia: sono naturali, spontanei, veri, non eccedono mai e delineano perfettamente la natura dei personaggi. Le inquadrature, che passano da lunghe riprese statiche a piani sequenza formidabili, riescono a creare una tensione di primo livello nello spettato-
re, che per tutta la durata del film vive un’esperienza dalla grande impronta emotiva. Non è la violenza esplicita che il film vuole mostrarci, bensì la ripercussione psicologica degli eventi sui protagonisti. Stefano si è trovato in gabbia, e anche quando poteva far valere la sua opinione non ha esercitato il suo potere di parola. In tribunale sosteneva che non spettasse a lui raccontare gli eventi, probabilmente perché minacciato dagli stessi carabinieri, o per paura dell’accusa pesante che avrebbe rivolto nei loro confronti; fatto sta che in sala nessuno ha voluto parlare dei tremendi ematomi che gli sfiguravano il volto e questo crea frustrazione e odio nei confronti della polizia, come lo crea nei confronti di Stefano che poteva osare di più per la sua difesa e in quelli del padre, che assiste muto al processo. Il film è un continuo susseguirsi di emozioni forti che mettono in difficoltà lo spettatore portandolo a riflettere su
cosa si sarebbe potuto fare per evitare la tragedia. Al protagonista ci si affeziona sempre di più, piano piano emerge il suo lato più dolce e sensibile, esasperato dalla solitudine e dall’ingiustizia subìta. L’opera di Cremonini è spietata ma necessaria, perché mette in luce la reazione di una famiglia a una tragedia che poteva essere evitata. Allo stesso tempo evidenzia l’importanza dei diritti fondamentali come quello alla vita e alla libertà, provocando nello spettatore un senso di ribrezzo nei confronti della giustizia e dello Stato. Un appello, un avvertimento, una realtà che ci viene mostrata in modo psicologicamente brutale permettendoci di riflettere sulla responsabilità delle nostre azioni, senza lanciare accuse esplicite agli organi dello Stato, ma piuttosto lasciandoci giudicare liberamente la tragica storia dopo un’ora e quaranta di profondo coinvolgimento.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Cultura e Spettacoli A Clichy con Henry Miller Adelphi ripropone il controverso libro dello scrittore americano in una versione rivisitata pagina 28
Sulle tracce della grafica Continua il nostro viaggio alla scoperta della storia delle arti grafiche pagina 29
Dopo lunga attesa, i Muse Una riflessione, oltre che grande musica nel nuovo lavoro della formazione di Matthew Bellamy
Sesso, potere, morte Teatro La tragedia del vendicatore con attori italiani e regia
di Donnellan sarà al LAC di Lugano il 29 e il 30 novembre 2018 Giovanni Fattorini
pagina 30
Lo scrittore James Baldwin in un’immagine del 1974. (Keystone)
Considerazioni di un Native Son Saggistica L’editore Bompiani propone una raccolta di saggi dell’afroamericano James Baldwin Daniele Bernardi La prima a parlarmene è una studentessa di filosofia a Friburgo. I capelli raccolti sulla sommità del capo, lo sguardo incorniciato nel castello degli occhiali: «James Baldwin», mi risponde, quando le chiedo chi, per lei, sia stato l’autore più determinante. A questa immagine, dopo la recente lettura dell’antologia di saggi Questo mondo non è più bianco proposta ora da Bompiani, se ne sovrappone un’altra, risalente ad alcuni anni fa: mi trovavo per la prima volta negli Stati Uniti e, in un’occasione, ebbi modo di confrontarmi con una giovane del Mississippi. Durante la conversazione, con tutta la mia ingenuità le chiesi cosa rimanesse, allo stato attuale, del Ku Klux Klan. Ricordo che utilizzai un’espressione del tipo: «Ci sono ancora tracce dell’organizzazione?». La ragazza, allora, mi squadrò con aria stupefatta: «Tracce?», rispose, «Il KKK esiste ed è sempre attivo». «Cioè? Che significa?», replicai. «Beh, che ogni tanto, quando vogliono, vanno ad ammazzare qualche negro». Chi, come me, è cresciuto negli
opulenti e narcotizzanti anni 80 europei, è stato forse abituato a pensare alla Storia, a una certa Storia, come a qualcosa di lontano e, di conseguenza, di rassicurante: le reclute delle SS germaniche somigliavano più agli spietati antagonisti di Harrison Ford in Indiana Jones e l’ultima crociata che al proprio vicino di casa, così come gli incappucciati che, da metà ’800, linciano e perseguitano la popolazione afroamericana (e non solo) avevano più le fattezze di un «cattivo» di Zagor o Tex Willer che non quelle di un vero essere umano. E pure se i segnali della realtà – il nostro tempo e quanto ci circonda lo confermano – vengono presto a contraddire la «speranzosa superficialità» con cui si è soliti affrontare la visione del presente e del futuro, spesso né la cultura, né l’intelligenza, né la coscienza sembrano essere sufficienti a renderci consapevoli del fatto che la «normalità» (o la banalità, per dirla con Hanna Arendt) dell’uomo che ha commesso delitti oggi unanimemente condannati è simile alla nostra. Ciò detto, leggere o rileggere James Baldwin (New York, 1924 – SaintPaul-de-Vence, 1987) significa, anche,
affrontare tutto questo; e non è un caso che il film-documentario a lui dedicato da Raoul Peck e interpretato dalla voce di Samuel L. Jackson abbia riscosso, oggi, tanto interesse riportando l’attenzione su un autore che ha molto da spartire con le drammatiche problematiche di questi anni. Figlio di un predicatore, nato e cresciuto ad Harlem in una numerosa e più che umile famiglia, romanziere-saggista amico e compagno di lotta di personalità quali Medgar Evers, Martin Luther King e Malcolm X, James Baldwin, che in una nota autobiografica liquida la sua infanzia «con la sobria osservazione che sicuramente non vorrebbe riviverla», ha trascorso la sua vita fra Stati Uniti, Svizzera e Francia, dove, attraverso la sua opera, ha cercato di sviscerare le dolorose condizioni identitario-sociali dei cittadini americani di colore. Infatti, il titolo originale della raccolta Questo mondo non è più bianco è, in realtà, Notes of a Native Son, Considerazioni di uno del posto. Scritte da un autore pressoché trentenne, queste riflessioni sulla letteratura di protesta, sulla musica, sul cinema, sull’esistenza e il contesto della cultura nera vogliono
essere, in primo luogo, un’indagine attorno alle radici peculiari della società statunitense; perciò Baldwin si presenta come un autoctono, uno del posto, qualcuno che incarna emblematicamente – e perfettamente – le tensioni sottese di una collettività in perenne conflitto con se stessa. «So che il momento più cruciale del mio sviluppo», scrive, «venne quando fui costretto a riconoscere che ero una specie di figlio bastardo dell’Occidente; quando, seguendo le tracce del mio passato, non mi ritrovai in Europa, ma in Africa». Educato in un mondo in cui tutto – arte, legge, pensiero – è stato istituzionalizzato dalla supremazia bianca, Baldwin si trova a fronteggiare il destino di chi, da un lato, è stato privato delle proprie radici profonde, dall’altro si riconosce in un sistema nel quale risulta essere una specie di intruso. Da ciò, la necessità di elaborare una strategia per appropriarsi di tanti «secoli bianchi» e di scegliere il proprio posto in uno schema di cui si è parte: «Io sono ciò che il tempo, le circostanze, la Storia hanno fatto di me, senza dubbio, ma sono anche assai più di questo. Lo siamo tutti».
E dopo aver affrontato, in queste pagine, oltre che la critica e la meditazione culturale, i ricordi di un padre col quale, in fondo, è come se non avesse scambiato parola e quelli delle proprie disavventure di esule parigino, col brano conclusivo Uno straniero in paese è in un villaggio in cui mai un nero ha messo piede, nella nostra Svizzera di allora, che Baldwin chiude le sue Notes of a Native Son. Qui scopre l’«abisso» che separa le strade della sua città natale da quelle in cui, anche se senza scortesia, paesani sospettosi e increduli lo osservano come un inumano «prodigio vivente»: nello sperduto borgo a tre ore da Losanna le grida dei bambini al suo passaggio manifestano, soprattutto, stupore; lungo i marciapiedi di New York le voci infantili che là lo chiamavano Nigger! esprimevano il conflitto sul quale è stata edificata l’identità patologica di una nazione incapace di fare i conti col peso della propria esperienza. Bibliografia
James Baldwin, Questo mondo non è più bianco, Milano, Bompiani, 2018.
Oggi attribuita a Thomas Middleton e non più a Cyril Tourneur, La tragedia del vendicatore (The Revenger’s Tragedy) – rappresentata per la prima volta a Londra nel 1606 e ambientata in un’immaginaria città italiana – prende le mosse dalla ferma determinazione del giovane Vindice di vendicare la morte della promessa sposa Gloriana, che l’anziano e lussurioso duca ha ucciso col veleno perché non ha ceduto alle sue voglie. La lussuria è il vizio capitale che accomuna altri componenti della famiglia del duca. Lussurioso è Junior, figlio minore della duchessa, il quale è sotto processo perché ha stuprato la moglie del nobile Antonio. Lussuriosa è la duchessa, che concupisce e riesce a portarsi a letto il figlio illegittimo del duca, Spurio. Lussurioso (occorre dirlo?) è Lussurioso, figlio legittimo del duca, che ha messo gli occhi su Castizia, figlia di Graziana e sorella di Vindice e di Ippolito. Il tema della lussuria s’intreccia con quello della conquista e dell’esercizio del potere. Ambizioso e Supervacuo, figli maggiori della duchessa, tentano di far uccidere Lussurioso, che dopo l’assassinio del padre, caduto in una trappola tesa da Vindice e da Ippolito, s’impadronisce prontamente dello scettro ducale, accrescendo in tal modo l’odio della duchessa e dei fratellastri. Ma il tema principale, come suggerisce il titolo della tragedia, è la vendetta. Vindice vuole vendicare l’uccisione di Gloriana; la duchessa, l’incarcerazione di Junior, che il duca non ha sottratto d’autorità al potere giudiziario; Antonio, la moglie stuprata che si è tolta la vita per la vergogna; Spurio, la sua esclusione dall’asse ereditario; Lussurioso, l’informazione involontariamente erronea datagli da Piato (cioè da Vindice travestito) che gli è quasi costata la vita. Scritto quando il filone della tragedia di imitazione senecana non era più di gran moda, il truculento dramma di Middleton appartiene (come l’Amleto shakespeariano!) al genere revenge tragedy, e a giudizio quasi concorde degli studiosi presenta pregi e difetti evidenti. Principale difetto: i suoi personaggi
Il fascino di visioni e parole In scena Appuntamenti contemporanei
sui palchi della nostra regione, tra danza e teatro Giorgio Thoeni
Un momento della pièce in scena a Milano, poi a Lugano. (piccoloteatro.org)
sono privi di sfumature, di complessità. Sono figure monodimensionali, come sembra preannunciare il fatto che al posto dei nomi propri alcuni di loro hanno dei qualificativi che richiamano le morality plays. (Il mutamento di Graziana, che da madre ruffiana si riconverte in madre onesta, avviene con tale rapidità da risultare estremamente improbabile, per non dire inverosimile). In un saggio pubblicato nel 1934, quando la tragedia era attribuita a Tourneur, T.S. Eliot afferma (la traduzione è di Alfredo Obertello) che i personaggi di un’opera teatrale «sono reali nel loro rapporto vicendevole, e la compattezza del modello emotivo è […] parte importante del merito drammatico». I personaggi di The Revenger’s Tragedy «recano questa concordanza. Possono essere deformazioni, grotteschi, quasi puerili caricature umane, ma sono tutti quanti deformati in scala. Onde l’intera azione […] ha la sua propria realtà autonoma». Osservazioni acutissime. Resta però il fatto che lo spessore dei personaggi è minimo, e la visione radicalmente pessimistica della vita espressa da Middleton è priva di sfumature. Da tale mancanza (e dalla «compattezza di struttura» di cui parla Eliot), deriva tuttavia un effetto positivo: la rapidità dell’azione. C’è poi un pregio che Eliot rimarca più volte: «la bellezza del verso», «la piena maestria del verso sciolto», «uno sviluppo altamente originale di vocabolario e di metrica». Sono qualità che van-
no inevitabilmente perdute nella traduzione approntata da Stefano Massini per lo spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro di Milano e firmato da Declan Donnellan, che per la prima volta ha lavorato con attori italiani, quasi tutti giovani o giovanissimi. L’immagine iniziale è di grande sobrietà: uno steccato di colore sanguigno (lo scenografo è Nick Ormerod), che più avanti si rivela formato di elementi modulari, alcuni dei quali à coulisse, che scorrendo mostrano le riproduzioni ingigantite di famosi dipinti italiani di età rinascimentale (per le scene di corte) o un angolo di giardino (della casa di Graziana). All’improvviso fanno il loro ingresso tutti i personaggi, in abiti moderni e in fila danzante: un po’ passerella rivistaiola e un po’ discoteca. È un’immagine che rende subito manifesta la modalità espressiva scelta da Donnellan: il grottesco. Un grottesco esasperato, fatto di gestualità sovreccitata, frenesia ambulatoria, atteggiamenti sguaiati, sottintesi erotici arbitrari, recitazione spesso gridata (i migliori interpreti sono Ivan Alovisio, Fausto Cabra, Raffaele Esposito, Pia Lanciotti, Massimiliano Speziani), e con una scenetta horror (l’uccisione e la mutilazione del duca) ripresa con videocamera a mano pensando a Cannibal Holocaust più che a The Blair Witch Project. Uno spettacolo veloce ma inefficace. Non stimola intellettualmente e non coinvolge emotivamente. Ogni tanto fa ridere.
Sull’arco di una settimana il contemporaneo ha nuovamente fatto capolino nella nostra regione con la danza di Susanne Linke e le visioni performative di Dimitris Papaioannou: due grandi protagonisti che, seppur con approcci diversi, rappresentano l’evoluzione della coreografia moderna. Ospite con il danzatore e coreografo vallesano Urs Dietrich per una residenza al Teatro San Materno (con il sostegno del Percento culturale di Migros Ticino), Susanne Linke ha proposto in prima mondiale Ecoute… Chopin, creazione elaborata per l’occasione con cui la maestra tedesca ha confermato la sensibilità e indipendenza solistica che l’ha distinta dalla scuola di Mary Wigmann e di Pina Bausch senza però rinnegarne gli insegnamenti. Già a partire dal suo fondamentale solo Im Bade wannen del 1980 si era imposta con un perfetto equilibrio per movimenti calibrati dove la musica – nel caso specifico Satie – sottolineava la poetica del corpo femminile danzato in scena con... una vasca da bagno: oggetto dalla quotidianità disarmante con cui liberare sensi di libertà e di in-
Ottavia Piccolo in un momento di Occident Express.
tima riflessione. Con Ecoute… Chopin i preludi al pianoforte accompagnano sequenze e sensazioni nella semplicità di movimenti accennati che parlano con grazia, eleganza e leggiadro trasporto. Le ha fatto poi eco Thalamus 2 di Urs Dietrich. Una coreografia meno eterea, improntata sullo sgomento sociale, un’opera aperta dal taglio espressionista, ironico e astratto. Per entrambi il tutto esaurito e calorosi applausi. Di ben altro tenore la coreografia performativa di Dimitris Papaioannou per un’unica affollata serata al LAC di The Great Tamer con cui l’artista greco ha affermato la sua fascinazione per l’impatto visivo di taglio plastico-pittorico. Da citazioni di El Greco, Goya e Rembrandt, i suoi sogni si nutrono di mitologia classica in simbiosi con la modernità; giochi di illusione, corpi che si smembrano, musica che si snatura: i tempi si dilatano, la nudità diventa necessaria per un’arte povera che, come ha affermato, è anche «un funerale della bellezza pieno di speranza». Pubblico rinnovato, giovane e osannante per una teatralità priva di etichette. Locarno riparte da Ottavia Piccolo
Sono passati 27 anni dall’inaugurazione del rinnovata sala locarnese. Lo ha ricordato il direttore artistico Paolo Crivellaro aprendo la prima serata della stagione teatrale con Ottavia Piccolo, allora madrina dell’evento, oggi protagonista di Occident Express, un testo di Stefano Massini messo in scena dall’attrice con Enrico Fink, autore delle musiche eseguite in scena con l’Orchestra Multietnica di Arezzo. È il racconto in prima persona del viaggio epico e drammatico di Haifa, donna in fuga con i figli dall’Iraq: 5000 chilometri fino in Svezia lungo la via balcanica. Un monologo sobrio, parole durissime immerse nel candore letterario per una storia di migrazione in cui siamo tutti analfabeti di fronte alla tragedia della guerra e alla barbara crudeltà della Storia. Pubblico grato per uno spettacolo intenso.
In memoria di Stefano Cucchi Netflix Sulla mia pelle, storia di una vita scompigliata e di una morte indegna Alessandro Panelli Il film scritto da Lisa Nur Sultan e Alessio Cremonini, diretto da quest’ultimo e distribuito da Netflix, ha aperto la categoria «Orizzonti» alla 75esima edizione della mostra internazionale cinematografica di Venezia e narra la reale vicenda degli ultimi agghiaccianti sette giorni della vita di Stefano Cucchi, tra il 15 e il 22 ottobre 2009. Un giovane trentenne condannato per possesso e spaccio di hashish e cocaina, aggredito e malmenato violentemente dai carabinieri fino a provocarne la morte. La svolta del processo è proprio di queste ultime settimane con l’ammissione del carabiniere Francesco Tedesco che accusa due suoi colleghi dell’aggressione nei confronti di Stefano. Il film è un’opera dura, cruda, violenta e drastica. Dalle prime scene veniamo a conoscenza del personaggio di Stefano, un ragazzo che vuole redi-
mersi dai precedenti reati, che cerca di diventare una brava persona e di essere un membro migliore all’interno della sua famiglia. Da subito appare chiaro che ha un passato problematico che si
La locandina del film, visibile su Netflix e in alcune sale cinematografiche.
riflette in casa, con la conseguente diffidenza dei genitori e della sorella, che sembra però gli stiano offrendo un’altra possibilità. Le cose cambiano quando la sera del 15 ottobre Stefano e un suo amico si incontrano in macchina, apparentemente per fumarsi una sigaretta in pace. È perfetto come Cremonini abbia deciso di realizzare la scena come se si trattasse di una chiacchierata normalissima, senza evidenziare il fatto che Stefano gli stesse in realtà vendendo della droga. Dal momento in cui arriva la polizia a bussare al finestrino, la vita del protagonista cambia per sempre. I dialoghi del film sono gestiti in maniera egregia: sono naturali, spontanei, veri, non eccedono mai e delineano perfettamente la natura dei personaggi. Le inquadrature, che passano da lunghe riprese statiche a piani sequenza formidabili, riescono a creare una tensione di primo livello nello spettato-
re, che per tutta la durata del film vive un’esperienza dalla grande impronta emotiva. Non è la violenza esplicita che il film vuole mostrarci, bensì la ripercussione psicologica degli eventi sui protagonisti. Stefano si è trovato in gabbia, e anche quando poteva far valere la sua opinione non ha esercitato il suo potere di parola. In tribunale sosteneva che non spettasse a lui raccontare gli eventi, probabilmente perché minacciato dagli stessi carabinieri, o per paura dell’accusa pesante che avrebbe rivolto nei loro confronti; fatto sta che in sala nessuno ha voluto parlare dei tremendi ematomi che gli sfiguravano il volto e questo crea frustrazione e odio nei confronti della polizia, come lo crea nei confronti di Stefano che poteva osare di più per la sua difesa e in quelli del padre, che assiste muto al processo. Il film è un continuo susseguirsi di emozioni forti che mettono in difficoltà lo spettatore portandolo a riflettere su
cosa si sarebbe potuto fare per evitare la tragedia. Al protagonista ci si affeziona sempre di più, piano piano emerge il suo lato più dolce e sensibile, esasperato dalla solitudine e dall’ingiustizia subìta. L’opera di Cremonini è spietata ma necessaria, perché mette in luce la reazione di una famiglia a una tragedia che poteva essere evitata. Allo stesso tempo evidenzia l’importanza dei diritti fondamentali come quello alla vita e alla libertà, provocando nello spettatore un senso di ribrezzo nei confronti della giustizia e dello Stato. Un appello, un avvertimento, una realtà che ci viene mostrata in modo psicologicamente brutale permettendoci di riflettere sulla responsabilità delle nostre azioni, senza lanciare accuse esplicite agli organi dello Stato, ma piuttosto lasciandoci giudicare liberamente la tragica storia dopo un’ora e quaranta di profondo coinvolgimento.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Cultura e Spettacoli
Giorni non così tranquilli a Clichy
Narrativa Nel libro di Henry Miller, ora riproposto da Adelphi, la scrittura si spinge in territori insidiosi
e non sempre facili, ma che proprio per questo la rendono ancora più avvincente
Matteo Campagnoli «Quando ci penso, il periodo della nostra convivenza a Clichy mi sembra un’epoca paradisiaca. C’era un solo vero problema: mangiare. Tutte le altre sventure erano immaginarie». A parlare è Henry Miller, o Joey, il suo alter-ego, e la convivenza è con l’amico Carl, nella vita l’eclettico e inafferrabile Alfred Perles, anche lui scrittore. Il periodo, gli anni Trenta. A Parigi, Joey e Carl conducono una vie de bohème spogliata di romanticismo e ridotta all’osso: si arrabattano con lavori di poco conto e dedicano tutte le energie ai libri che leggono o che cercano di scrivere e alle donne, non per forza in quest’ordine. I pochi soldi lasciano le tasche molto più in fretta di quanto entrino. Joey in particolare è capace di svuotarsele per una prostituta appena incontrata in un caffè, senza nemmeno accorgersi che subito dopo non avrà di che sfamarsi. Diversamente dal cibo, il sesso non è un problema procurarselo, persino senza quattrini; bastano un po’ di inventiva e faccia tosta, e i nostri ne hanno da vendere. Le conseguenze sono perlopiù disastrose, eppure nulla sembra fermarli. Quando, esausti, fanno una breve gita in Lussemburgo, Joey non vede l’ora di tornare: «Meglio una bella malattia venerea che una pace e una tranquillità da moribondi. Ora so cosa rende civile il mondo: il vizio, la malattia, il furto, la menzogna, la lussuria. […] Ero così furibondo che avrei potuto violen-
tare una monaca». L’iperbole non è casuale. Poco prima di partire, girando per la collina di Montmartre alle prime luci dell’alba, i due si erano imbattuti in un gruppo di giovani suore «dall’aspetto così puro e verginale, così totalmente riposato, così calmo e dignitoso» da farli vergognare di loro stessi. Vizio e santità, come poesia e fogna, nella loro opposizione polare non sono mai disgiunti. A disgustare è tutto ciò che sta nel mezzo: il perbenismo, la doppia morale, l’esistenza asservita al tornaconto. Sono questi i mali che Joey, abbandonandosi al vizio, cerca di scrollarsi di dosso per diventare un grande scrittore, o un santo. Il suo rifiuto e la sua ribellione, con una certa inclinazione per il sudicio, fanno parte di un percorso di purificazione inversa che oscilla tra Spirito Santo e osso sacro. Come scrisse Mario Praz: «Non riesco a vedere una grande diversità, nei motivi e nel fine, tra libri come quelli di Miller e, per esempio, Le confessioni di Sant’Agostino». Non tutti la pensavano allo stesso modo. Sebbene avesse già quarant’anni al suo arrivo, il decennio che Miller passò a Parigi fu il periodo della sua vera formazione. Lì trovò la voce capace di trasfigurare la biografia in arte e scrisse i suoi primi capolavori, Tropico del Cancro, Tropico del Capricorno e Primavera Nera, tutti usciti in Francia e censurati in patria. Ma se in questi la scrittura si fa lirica e a tratti surrealista, nelle due novelle che compongono Giorni tranquilli a Clichy, scritte una prima volta a New York nel 1940 e riscritte intera-
Henry Miller (1891-1980) in una foto scattata negli Anni Sessanta. (Keystone)
mente quindici anni dopo a Big Sur, la prosa è consequenziale, quasi diaristica: leggerle è come entrare nel retroscena del grande spettacolo visionario dei romanzi. Le scene di sesso che all’uscita in America fecero scattare puntuali la denuncia per oscenità non sono mai lascive e oggi risultano quasi comiche. Miller vinse la battaglia contro la Corte Suprema degli Stati Uniti ma perse la guerra: la sua fama letteraria, sostenuta fin dagli esordi da scrittori come T.S. Eliot e Lawrence Durrell, cominciò presto a vacillare sotto i colpi della critica
femminista. Forse più di allora, possono oggi disturbare le scene in cui i due amici prendono in casa una ragazzina di quindici anni, o il modo in cui spesso trattano le donne. Miller si è sempre difeso dalle accuse di misoginia, a volte peggiorando la situazione e sempre stupito che da quello che scriveva non si capisse che lui le donne le amava davvero. La vera letteratura esplora le contraddizioni del cuore umano senza badare alla convenienza o sconvenienza di ciò che scopre e riporta: risponde solo alla verità, che non è mai comoda o unanime. Per quanto controversi, o
forse per questo, i personaggi di Miller non sono incalliti o amareggiati, e finiscono per essere amabili e persino teneri, come d’altronde lo era l’uomo che li ha creati. Le quindici pagine che raccontano l’incontro con Mara-Marignan, la donna che dà il titolo alla seconda novella, sono così intrise di empatia nella descrizione di come la vita possa ridurre una persona, che da sole basterebbero ad assolvere l’intero libro. E poco importa se poi Joey/Miller, incapace di far fronte alla situazione, abbandona Mara in lacrime in un vicolo. Ha fatto quel che poteva: è tornato e ritornato a quella notte finché non è riuscito a salvare la sua storia. La nuova edizione adelphiana è pregevole sia perché reintroduce le splendide fotografie notturne di Brassaï che corredavano l’edizione originale, della quale è ripresa anche la copertina, sia per la traduzione di Katia Bagnoli, che a confronto con quella delle edizioni ES fa l’effetto di una fotografia nitida accanto a una sfocata. A questo va aggiunto il fatto stesso di aver riproposto un libro che, come conclude la quarta di copertina, «forse oggi nessuno oserebbe più scrivere ma che, per fortuna, possiamo ancora leggere». Bibliografia
Henry Miller, Giorni tranquilli a Clichy. Fotografie di Brassaï. Traduzione di Katia Bagnoli. Piccola Biblioteca Adelphi, 2018, pp. 173, 23 ill., € 18.–, eBook: € 9.99. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Il bisogno di lasciare un segno Storia della grafica – 2. Alle nostre latitudini le arti grafiche sono una disciplina recente
Lara Gut e la luce Cinema Il nuovo doc
di Niccolò Castelli
Orio Galli Quando tra gli anni 40-50 del secolo scorso frequentavo le scuole a Mendrisio ho scoperto la grafica attraverso i manifesti (cartelloni) affissi nelle strade: sulle facciate delle case e sulle palizzate dei cantieri. Quando li ho visti mi sono detto che avrei voluto un giorno farli anch’io quei disegni, tanto mi affascinavano le loro forme e i loro colori. Nessuno sapeva però dirmi chi stesse dietro quelle opere, quali fossero gli artefici di quelle intriganti immagini; o era capace di indicarmi dove si potesse imparare quel mestiere per realizzarle. Più tardi negli anni ho avuto la fortuna di conoscere, anche personalmente, qualcuno degli «artisti» che hanno resa mondialmente famosa la grafica svizzera nella metà del secolo scorso. Qualche nome: Herbert Leupin, Celestino Piatti, Donald Brun, Alois Carigiet, Josef Müller–Brockmann, Hans Falk, Hans Erni, Armin Hofmann…
Durante i primi anni del dopoguerra anche nel nostro cantone crebbe l’attenzione verso le arti grafiche A quei tempi chi nel nostro cantone aveva bisogno di uno stampato andava direttamente in una tipografia, dove c’era sempre un compositore che avrebbe composto dei testi a mano con i caratteri in piombo «più alla moda», aggiungendovi pure un cliché in zinco con una «vignetta» del più tradizionale repertorio ottocentesco. Un po’ come chi per farsi costruire la casa dei propri sogni, non si rivolgeva a un architetto (i Botta erano ancora ragazzini), ma andava direttamente da un capomastro che alle sue dipendenze aveva magari un volonteroso geometra. Poi, però, nel giro di non molti anni, anche nel Ticino tutto o quasi è mutato. Nella Svizzera interna esistevano già da alcuni decenni le Kunstgewerbeschule (scuo-
Nicola Mazzi
Incisione rupestre della Val Camonica risalente a un periodo situato tra il VII e il I secolo a.C. (Keystone)
le d’arti applicate) nate sulla scia degli insegnamenti della famosa germanica Bauhaus. A Lugano, a inizio anni Sessanta, soprattutto per iniziativa di Pietro Salati, Nag Arnoldi ed Emilio Rissone, dalla Scuola dei Pittori fino a quel momento diretta da Taddeo Carloni (padre dell’architetto Tita), nacque lo CSIA (Centro Scolastico per le Industrie Artistiche). Così, come tutte le cose, anche la grafica intesa come insieme di segni visivi, ha avuto un’origine. Con un inizio che risale addirittura alla preistoria: alcune decine di millenni or sono. I primi esempi più famosi sono le pitture rupestri delle grotte di Lascaux e di Altamira. Più vicino a noi le incisioni sui massi «cupellari», come se ne trovano nella bresciana Val Camonica e pure nel Canton Ticino. Si tratta in sostanza delle prime forme di comunicazione visiva, dei primi «alfabeti» di cui si conosca l’esistenza. Segni che richiamano, anche se in forme simboliche stilizzate, oggetti, animali, vegetali….
Segni «pittorici», per questo definiti anche pittogrammi. Forme essenziali, in alcune delle quali si possono già intravvedere in nuce alcuni elementi dei futuri nostri alfabeti (Alfred Kallir, Segno e disegno, Psicogenesi dell’alfabeto, Spirali/Vel, 1994). Cosa, e con chi volessero esattamente comunicare questi nostri lontanissimi antenati risulta a volte difficile da capire, da interpretare. Il fatto stesso di lasciar questi segni vuole comunque dire che l’homo sapiens s’era reso conto della precaria, effimera esistenza della sua vita. E i segni che ci ha lasciato erano forse stati fatti anche per esorcizzare il tempo che passa. Se questo è ciò che ci ha consegnato l’uomo «primitivo» della preistoria vedremo prossimamente cosa ci avrebbe trasmesso – in fatto di immagini visive – quella che oggi noi chiamiamo storia. Comunque, in quei primi anni del secondo dopoguerra, quand’ero piccolo, i servizi, i commerci e le industrie cominciavano a sentire il bisogno pure da noi dell’apporto della creatività dei
grafici per dare migliore visibilità ai loro prodotti e alle loro attività. Ricordo l’apertura a Mendrisio, nella seconda metà degli anni 40, del primo spaccio della Migros: gerente un certo Patocchi. Tutto razionalizzato al massimo con profondi scaffali in acciaio inossidabile. Pasta, riso, sale zucchero, caffè, farina… erano però contenuti ancora in semplici sacchetti di carta con sovrastampato il solo nome del prodotto e il suo peso. Tutte le massaie accorrevano. Alla Cooperativa del piccolo villaggio di Besazio, dove accompagnavo la nonna a far la spesa, i vari prodotti erano invece ancora sfusi e la commessa li prendeva da certi cassettoni con grandi mestoli di legno per poi pesarli, prima di incartarli, su di una vecchia bilancia. Era da poco finito il secondo conflitto mondiale. Stava però nascendo anche da noi la «società dei consumi» che sarebbe poi diventata quella che oggi chiamiamo «civiltà dell’immagine».
Libri che non ci sono Pubblicazioni Gli elenchi, gli inventari e le biblioteche di libri che non esistono,
nell’ultimo sognante e fantastico libro di Paolo Albani Stefano Vassere «Perché non fare dei libri che si aprono come organetti macchine fotografiche ombrellini ventagli? Sarebbero oltremodo adatti per le parole in libertà. Io sono oltremodo entusiasta di quest’idea e tu mi dovresti accontentare perché anche tu sei arcistufo e nauseato delle forme bestiali dei libri comuni». Dovendo definire Paolo Albani, si potrebbe dire che è uno studioso e divulgatore di libri; non uno che esercita nell’ambito della prosa, della narrativa e della lirica. Forse un saggista, ma un saggista particolare e non solo saggista; nel senso che i suoi saggi sembrano delle opere di narrativa, e, infine, narrano di quel particolare mondo che è il mondo dei libri. Nel risvolto di questo Bibliografia curiosa. Libri immaginari, bizzarri, mai scritti e falsi è descritto anche come «performer e poeta visivo»; e forse nelle performances in tema di libri, a vari livelli e secondo varie forme, può essere ricercato un possibile punto fermo delle sue varie attività. Si aggiungerà che Paolo Albani è anche curatore di repertori, di rassegne curiose e un po’ matte, nella cui vertigine entrano dizionari di lingue immaginarie e letterarie, un catalogo ragionato di libri introvabi-
li, uno di scienze anomale, un’enciclopedia degli istituti anomali nel mondo, una rassegna di mattoidi italiani. Anche qui, anche al centro di questa sua ultima opera, ci sono categorie di libri, o meglio di non-libri, di libri che, per vari motivi, non esistono, non sono mai esistiti o non esistono più; le categorie sono almeno sette: libri stampati e non pubblicati, libri inesistenti ma citati in bibliografie, libri cancella-
ti dai cataloghi delle case editrici, libri annunciati ma non pubblicati, libri che risultano stampati ma che nessuno ha mai visto, libri inventati, «libri che l’autore non si rende conto di avere scritto». Insieme ai libri annunciati o scomparsi, trovano spazio (la nozione di non-libro è declinabile in numerosi modi) i libri che stanno per scomparire, per esempio quelli condannati dalla bibliolitia, la distruzione di opere, e dalla bibliofagia, l’abitudine di mangiarle. In un testo del 1912, Nel mondo dei libri, Matteo Cuomo racconta di un editore tedesco che promette di produrre entro breve un giornale mangiabile, dove «invece della carta, egli userebbe una pasta nutritiva e gradevole che si presta assai all’impressione, e l’inchiostro sarebbe surrogato da uno sciroppo deliziosamente profumato». Tra i non-libri, al confine della forma libro, quando un libro sta per finire di essere tale e tende a diventare qualcos’altro, ci sono i libri d’artista (dei quali tra l’altro Paolo Albani è conoscitore e produttore), qui chiamati «libro oggetto». Sono tante le definizioni di questa espressione artistica; una di queste fa riferimento ai sensi coinvolti: un libro oggetto è diverso dagli altri, perché oltre alla vista chiama molti altri
sensi, il tatto, l’olfatto, il gusto, l’udito. Ma, viste da un’altra prospettiva, queste opere possono anche scegliere di prescindere dal testo: il libro con le pagine tutte di uno stesso colore e senza caratteri o le «invisibilissime pagine» del poeta maudit Ernesto Ragazzoni: «ognuno lavora come crede. Uno dei lavori più graditi, per me, dei più appassionanti, il lavoro dei lavori, è… non scrivere. Che gioia non annegare nel calamaio». Il libro sui libri, l’iper-libro, seduce perché dichiara e tenta di descrivere il mistero antichissimo della lettura e ne percorre gli infiniti secoli, dove ha avuto i propri cantori tra gli autori più classici. È decisamente un genere, quello abitato da Paolo Albani in questo Bibliografia curiosa. Tenuto conto del fatto che Albani gode, con operazioni come queste, della buona compagnia di Borges, Rabelais, Cervantes, Calvino (Italo), Eco e molti altri nomi gloriosi, forse si potrebbe dire che, anzi, è questo di tutti i generi il più essenziale e supremo.
«Un film su Lara Gut». Questo c’è scritto sul trailer di lancio del film Looking For Sunshine. Il documentario di Niccolò Castelli, è una nuova versione del filmato passato alla RSI lo scorso febbraio. Un docufilm diverso da quello televisivo, come ci ha detto Castelli, e che punta molto di più sulla psicologia e sull’emotività della sciatrice di Comano. In sostanza cerca di far capire che cosa significhi essere una persona eccellente nella propria professione e che cosa comporti ambire a raggiungere obiettivi altissimi. Con Looking For Sunshine siamo immersi – grazie alla camera a spalla del regista – in una sorta di fuori campo metaforico delle gare viste in tv. Ma come fa Castelli? Semplice, seguendo la campionessa da vicino durante gli allenamenti e il recupero. Con qualche incursione nella vita familiare. Il tutto è stato girato in un momento particolare come il periodo prima del famoso infortunio ai Mondiali di St. Moritz un paio di anni or sono. Nella versione tv questo drammatico fatto è molto più presente, in quella cinematografica Castelli percorre, dopo avere scelto tra 200 ore di girato, un’altra strada. Ci mostra soprattutto come la Gut riesca a gestire la pressione e le aspettative che tutti (tifosi, sponsor e team) hanno su di lei. Castelli sta effettuando un percorso particolare con Lara Gut. Questo è, infatti, il suo secondo lungometraggio che la vede protagonista. Il primo fu Tutti giù, uscito nei cinema nel 2012. Ma quella era una fiction, un film di formazione: per lui e per lei. Qui invece siamo nella vita vera. Immersi – tra scarponi, occhiali e caschi – nel famoso circo bianco. Non siamo sicuri che Castelli sia riuscito nell’intento. Sicuramente la sua è un’operazione di umanizzazione di una sportiva internazionale. Una ragazza diventata grande velocemente e una donna che deve gestire da sola un’incredibile pressione. E tra gli scopi, forse, c’è anche quello di rendere più simpatica Lara Gut, la quale a volte (soprattutto dopo una sconfitta), è apparsa un po’ indisponente verso i giornalisti e quindi verso i suoi fan. Anche la recente decisione di eliminare alcuni profili social, ci permettiamo di dirlo, non l’avvicina di certo al pubblico. A livello cinematografico il documentario di Niccolò Castelli è girato con professionalità e in modo corretto, seppure forse un po’ scolastico. Infatti l’impressione che lascia è quella di fermarsi alla superficie. Sia nei rapporti con chi circonda Gut sia nelle sensazioni che prova. Da questo punto di vista è un’occasione persa. Per questo crediamo che Looking For Sunhine sia sì un film su Lara Gut, ma dal quale emerge molto la sciatrice e poco la donna. E alla fine della visione non cambia molto l’opinione che si ha di lei. Il docufilm ha comunque un pregio importante: quello di lasciare negli archivi la testimonianza di una campionessa ticinese che passerà alla storia.
Bibliografia
Paolo Albani, Bibliofilia curiosa. Libri immaginari, bizzarri, mai scritti e falsi, Sesto Fiorentino, apice libri, 2018.
La locandina del film di Castelli.
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Cultura e Spettacoli
LSD non è ciò che pensate
Qualcosa di umano Musica/2 Fan in attesa di Simulation Theory,
Musica/1 Un colpo da maestro: l’inaspettata quanto azzeccata
unione fra tre nomi della scena pop-rock dà vita a un progetto intrigante (e dal successo assicurato)
Benedicta Froelich In tempi singolari come quelli che l’ambito artistico in generale sta attualmente vivendo – e in cui anche la scena pop-rock internazionale tenta continuamente di reinventarsi nell’eterna ricerca di nuove, diverse e originali forme d’espressione – è inevitabile rimanere piacevolmente colpiti dall’emergere di una qualsiasi formazione o progetto che possa definirsi come una boccata d’aria fresca all’interno degli stilemi e cliché stilistici a cui classifiche e stazioni radiofoniche ci hanno abituati; e forse proprio a ciò si deve l’entusiasmo con cui il pubblico ha accolto l’arrivo di una nuova, inaspettata firma, ufficialmente presentatasi sulla scena appena prima dell’estate.
La formazione LSD si compone della brava australiana Sia, del britannico Labrinth e dell’americano Diplo Dietro alla forse poco originale denominazione di LSD si nasconde infatti quello che un tempo i critici avrebbero definito come «supergruppo»: ovvero, l’inusuale formazione nata dall’ispirata unione di tre artisti dai background apparentemente molto differenti tra loro, in un interessante esperimento di contaminazione stilistica così ben riuscito da potersi definire come uno dei migliori prodotti discografici di questa
stagione 2018. La formazione unisce infatti l’inconfondibile timbro vocale della celebre cantante australiana Sia al talento di due giovanissimi arrangiatori e produttori: il DJ statunitense Diplo, qui responsabile del missaggio, e il rapper e compositore inglese Labrinth (il quale, tra le altre cose, fornisce anche i backing vocals in puro stile R’n’B). Soprattutto, ad apparire particolarmente interessante è la natura di collaborazione a trecentosessanta gradi del progetto LSD, esemplificata dal fatto che le canzoni finora realizzate portano la firma congiunta dei tre artisti – i quali sono riusciti nella non facile impresa di coniugare e amalgamare perfettamente le rispettive competenze e connotazioni stilistiche. A partire dalla scorsa primavera, la formazione ha così firmato e diffuso sul web, a intervalli piuttosto regolari, già tre brani – ognuno dei quali accompagnato da un videoclip elaboratissimo, la cui attenzione al dettaglio lascia intendere come il progetto LSD non badi a spese quando si tratta di promozione; tanto che, a seguito di questi apprezzatissimi exploit, è stata a più riprese annunciata l’apparizione di un album vero e proprio, purtroppo non ancora materializzatosi (ma, a giudicare dalla crescente impazienza dei fan, destinato a essere pubblicato a fine anno). Del resto, l’interesse del pubblico per questo progetto è più che giustificato: uno dei maggiori punti di forza del supergruppo risiede, infatti, proprio nella sua capacità di costituire una perfetta fotografia non solo musicale, ma, più in generale, stilistica, del nostro presente – nonché del particolare
Un video suggestivo ed esilarante accompagna Thunderclouds. (youtube)
momento che la cultura e la musica popolari stanno attraversando, e in cui la dittatura della cosiddetta «rivoluzione digitale» finisce paradossalmente per convivere con una grande nostalgia per il passato e le suggestioni musicali di mezzo secolo fa. Nel difficile connubio tra vecchio e nuovo che caratterizza la loro arte, Labrinth, Sia e Diplo hanno colto nel segno, dando vita a una combinazione particolare quanto intrigante; basti pensare al recente revival della grafica «da cartone animato», coloratissima e naif, collaudata dai Beatles nei lontani anni 60 con l’irresistibile film Yellow Submarine e sapientemente citata dagli LSD nell’ultra-psichedelico videoclip di Genius, primo sforzo discografico della neonata formazione e singolo apripista dell’album a venire – una riuscitissima combinazione tra R’n’B, elettronica e sfumature hip hop dal sapore assai trendy. Una sicura hit, che ha, peraltro, parecchi punti in comune con Audio, il pezzo prescelto dagli LSD come seconda uscita – il quale, nella sua sapiente fedeltà ai più recenti gusti sonori del pubblico (si vedano gli accenti dance) ha permesso al gruppo di accaparrarsi un’ampia fetta di giovanissimi ascoltatori. Senza dimenticare, naturalmente, l’altro elemento fondamentale nel successo dell’esperimento: ovvero, la presenza di Sia, senza dubbio una delle voci femminili più intriganti degli ultimi anni. A dimostrare una volta di più le sue capacità basta una canzone pressoché perfetta come Thunderclouds, terzo e ultimo brano pubblicato dagli LSD come anticipo dell’album a venire: un singolo da manuale, orecchiabile e godibilissimo, e in più accompagnato da un video delirante quanto irresistibile, il quale non potrà che estasiare i giovani adepti di YouTube grazie agli eccellenti e coloratissimi effetti speciali concessi dall’alta definizione digitale. In fondo, proprio l’attenzione maniacale a particolari come questi si può definire uno degli elementi che hanno permesso agli LSD di ottenere un riscontro commerciale pressoché immediato, anche presso il pubblico più giovane e smaliziato; ed è quindi con grandi aspettative che ora attendiamo nuove avventure digitali firmate dall’eclettica formazione, senz’altro destinata a scuotere alle radici l’universo delle hit parade mondiali.
l’ottavo disco dei Muse realizzato in studio che uscirà il 9 novembre Enza Di Santo I fan dei Muse, già dallo scorso anno e dai primi mesi del 2018, stanno pregustando l’uscita del nuovo album in studio della band britannica, che sarà disponibile in diversi formati, tra cui le versioni Standard con 11 brani, Deluxe e Super Deluxe per i veri appassionati. I primi cinque singoli di Simulation Theory, sono stati tutti lanciati su varie piattaforme musicali con i loro video ufficiali dalle ambientazioni futuristiche squisitamente anni 80 e con rimandi in grande stile, al film Ritorno al Futuro di Robert Zemeckis, spesso riproposto in questo periodo di revival. I testi, scritti dal frontman del gruppo Matthew Bellamy, ispirati anche alla serie televisiva fantascientifica Black Mirror, compongono una scaletta di brani che suona come l’inevitabile seguito dell’album Drones (miglior album rock ai Grammy Awards 2016), ma con elementi elettronici, orchestrali e gospel in opposizione a quanto prodotto in precedenza. Simulation Theory, la cui tematica principale è l’idea che la realtà virtuale e la simulazione siano ormai parte integrante della vita quotidiana vera, scava alla ricerca di qualcosa di umano, qualcosa che sia riconducibile a un pensiero non contaminato dalla virtualità, ma nel contempo fa sua la possibilità che la fantasia possa diventare realtà. La firma dei Muse è musicalmente evidente ma rinnovata con l’innesto di nuove sonorità e di qualcosa di mai provato nel loro rock elettronico alternativo, come le disseminazioni di tratti tipici della dubstep uniti al rinforzo della presenza della chitarra di Bellamy. Il gruppo è tornato a lavorare come faceva agli esordi, ma senza rimanere ancorato al rock del passato. In Simulation Theory la musica è inscindibile dalla componente visiva: la copertina del formato standard è stata creata da «uno che ne sa», tale Kyle Lambert realizzatore della locandina della celebre serie di Netflix Stranger Things, mentre per la versione Deluxe i Muse si sono affidati a Paul Shipper, che ne sa ancora di più, avendo prodotto, tra gli altri, i poster di diversi Star Wars, di Avengers: Infinity War e Batman. Inoltre, anche i videoclip che accompagneranno tutti i brani dell’album hanno un notevole rilievo. Ogni video contiene dettagli che lo collegano alle clip degli altri brani e, posti in sequenza, compongono un
La copertina realizzata da Lambert. (www.kylelambert.com)
film-racconto in cui si cerca di fuggire dalla trappola dell’inumanità pur convivendo con essa. A febbraio, un po’ in sordina, su Youtube è apparso il video di Thought Contagion, che inizia con il primo piano su un ragazzo alle prese con un videogioco di quelli che si trovavano nelle sale e nei bar quando ancora le console non erano disponibili a casa. A maggio 2017 era già uscito Dig Down, brano dalle sonorità simili a Madness e che non era contemplato nella scaletta dell’album, ma eseguito nei concerti di quel periodo. Il video, diretto da Lance Drake, ricorda immediatamente il videogioco survival horror Resident Evil, e rappresenta proprio ciò che avviene nel videogioco di Thought Contagion. Dig Down è tra quelli già presentati, forse il brano più interessante. Durante il programma, Later... di BBC Two, la canzone è stata infatti riproposta in chiave gospel, con la partecipazione del pianista Jools Holland, e ha riscosso successo e approvazione tra il pubblico di Youtube che ne ha chiesta la versione su Spotify. Something Human, uscito a luglio, ha tutte le caratteristiche di un buon prodotto radiofonico e rappresenta l’evasione dall’oscurità di Drones. The Dark Side uscito il mese successivo è un brano tipicamente elettropop il cui video è ispirato al film Tron del 1982, di stampo ovviamente fantascientifico. Pressure è una canzone nello stile rock tipico della band con un riff diverso ogni 10 secondi. Uscita a sorpresa con l’annuncio del tour e della pubblicazione dell’album ha un video-icona che ricalca la scena del ballo scolastico di Ritorno al Futuro e i Muse vestiti come Mc Fly, vengono presentati come Rocket Baby Dolls, primo nome scelto dalla band. Una grande attesa per un grande album?
Viaggio verso nord con tappa ucraina Concorso In palio biglietti per il concerto che l’OSI terrà l’8 novembre al LAC Enrico Parola La storia musicale è quasi sempre storia di musicisti, talvolta un intrecciarsi, armonico o conflittuale di storie di compositori ed esecutori. Sibelius compose un unico Concerto solistico, dedicandolo al violino. Era lo strumento studiato fino ai vent’anni, età in cui non aveva ancora rinunciato alla carriera di esecutore; continuò ad amarlo anche quando si dedicò totalmente alla composizione e così nel 1903 terminò il Concerto op. 47 che apre il programma proposto dall’Orchestra della Svizzera italiana l’8 novembre. Solista sarà Sergey Khachatryan, virtuoso armeno che proprio nel concorso di Helsinki intitolato a Sibelius rivelò appena quindicenne (era il 2000) il suo talento. L’opera
permetterà di mostrarlo ampiamente, richiedendo al violinista una tecnica mirabolante. Sibelius inizialmente aveva pensato come esecutore a Willy Burmester, ma era impegnato in una tournée europea e la scelta cadde su un insegnante di conservatorio, Victor Novàcek. La «prima» (8 febbraio 1904) fu un fiasco clamoroso: Novàcek non era assolutamente all’altezza delle immense difficoltà di cui il Concerto era disseminato e la sua prova causò anche il giudizio negativo sulla musica in sé. Sibelius rimise mano alla partitura, semplificando la parte solistica (che pur rimase di una difficoltà tecnica assai elevata) e rivedendo la struttura del primo movimento; in questa forma il Concerto venne presentato a Berlino nell’ottobre
1905, con Karel Halir al violino e sul podio niente meno che Richard Strauss, sommo autore di poemi sinfonici e gigante della direzione. Fu un successo, anche se Burmester, offeso per non essere stato scelto, si rifiutò sempre di eseguirlo. Poco male, perché poi tutti i più grandi virtuosi si sono cimentati in questa pagina dalla forma abbastanza tradizionale, ma nella sostanza musicale ricca di atmosfere e fragranze nordiche. Lo si ascolta fin dall’incipit, un nebuloso mormorio di violini con sordina sul quale il solista intona una melodia malinconica ed estrosamente rapsodica; ugualmente l’Adagio centrale si apre con un sospiro dell’orchestra che introduce il canto del violino, mesto e intensamente lirico. Il finale è una danza martellante e selvaggia dove il solista
è chiamato ad esibire focosamente tutto il proprio repertorio tecnico. Nella seconda parte Valentin Uryupin dirigerà la seconda sinfonia di Ciajkovskij, detta Piccola Russia in quanto impregnata di folklore russo, con la continua citazione di canzoni popolari ucraine da cui il compositore ricava quei colori tipici che ne resero popolare e amato lo stile. Nel primo movimento il corno intona in quel modo solenne e triste tanto caro ai russi Lungo la Madre Volga, che poi sfocia in un Allegro caratterizzato dai passaggi, anche qui tipicamente ciajkovskiani, degli archi all’unisono; nell’Andantino echeggia la marcia nuziale Fila, o mia filatrice, mentre dopo i ritmi spumeggianti dello Scherzo è La gru a dare il tema, ampio e appassionato, al Finale.
Il solista armeno Sergey Khachatryan. Come partecipare
«Azione» offre alcuni biglietti per il concerto dell’8 novembre al LAC di Lugano (ore 20.30). Dirigerà il concerto Vealntin Uryupin; al violino si esibirà Sergey Khachatryan. Per partecipare all’estrazione vogliate seguire le istruzioni indicate sulla pagina web www.azione.ch/concorsi
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Mi sono innamorato di un’Allegoria Nella meritoria lotta per la parità di genere fra uomo e donna c’è un campo di battaglia ancora inesplorato: i monumenti che addobbano le piazze e i giardini delle nostre città. Per citare casi concreti mi riferirò alla città dove abito da tanti anni, l’unica che conosco a fondo, ma credo che il discorso valga anche per il resto d’Italia. A Torino c’è un solo monumento dedicato a una donna. È in piedi su un basamento che porta incastonato un medaglione con il profilo di Edmondo De Amicis. Si trova in piazza Carlo Felice, nei giardini di fronte alla stazione di Porta Nuova. Mentre dell’autore di Cuore a cui è dedicato il cippo, conosciamo nome e cognome, lei è conosciuta come «la Seminatrice». È una robusta contadina: il fiero sguardo proteso in avanti, non guarda dove vanno a finire i chicchi di grano lanciati con la mano destra dopo averli pescati con la sinistra nella sacca delle sementi appesa alla spalla. Tutti gli altri piedistalli sparsi
in città sono per gli uomini. È vero, in passato le donne non avevano un ruolo politico, anche se è difficile immaginare Gioberti o Mazzini che si rifanno il letto e si stirano le camicie. Cavour non si è mai fatto cuocere due uova al tegamino e l’unico che riusciamo a immaginare con un grembiule da cucina è Garibaldi. Pazienza, il passato non si può mutare. Ma il punto dolente è un altro: le donne, se ci sono, sono collocate ai piedi degli uomini nel ruolo di Allegorie. Gli uomini hanno nome e cognome e titoli, loro no. Piazza Cavour, monumento a Carlo di Robilant «soldato, ambasciatore e ministro» e in basso, seduta, una bella signora in carne, velata. Tenendo in mano un ramo e un libro chiuso da un lucchetto, recita il ruolo della Diplomazia. Non sapremo mai il suo nome. Monumento a Carlo Alberto, nella piazza omonima: ai piedi del basamento, quattro Allegorie: l’Indipendenza (con i ceppi spezzati nella sinistra e la spada sguainata nella destra), l’Uguaglianza civile, lo Statuto
e il Martirio, due che dal punto di vista grammaticale dovrebbero essere interpretate da maschi. In piazza Crimea c’è l’Allegoria del Piemonte, ai piedi dell’obelisco, fra un marinaio e un bersagliere: ha la parrucca e una sfera nella mano destra. Qualcuno è in grado di spiegarmi perché il fiero Piemonte è rappresentato da una donna? Nel 1903 fu inaugurato nella piazza Castello che con il Palazzo Madama e la Reggia è il centro focale della città, il monumento a Galileo Ferraris, il genio a cui si deve l’invenzione del motore elettrico rotante, una scoperta in grado di rivoluzionare la vita dell’umanità, alla pari del transistor e del laser, che lui non volle brevettare per metterlo a disposizione di tutti. La statua raffigura lo scienziato in atto di camminare, il capo piegato all’indietro, gli occhi socchiusi, persi in un sogno. Ai suoi piedi una figura femminile esce nuda dai veli, nelle intenzioni dello scultore dovrebbe simboleggiare l’enigma della natura, essere l’Allegoria della
Verità, ma è molle, paffuta, languida. Quel nudo, esposto agli occhi dei bambini delle scuole municipali allineati in prima fila, fece scandalo e a furore di popolo l’opera fu spostata nel 1927 in un giardino frequentato solo da chi porta a spasso i cani. La città di Torino può vantare ben tre Allegorie dell’Italia, per Daniele Manin, per Giuseppe Garibaldi e, al vertice dell’ignominia, per Cavour: il grande statista, avvolto in un lenzuolo, palpeggia una matrona discinta inginocchiata ai suoi piedi. Facesse oggi quel gesto non la passerebbe liscia, Italia o non Italia. Oggi i monumenti non li guarda più nessuno, tutti camminano con lo sguardo incollato agli schermi delle tavolette. Ma all’epoca in cui furono inaugurati, quelle signorine in carne, pettorute, con due salsicciotti come braccia, lo sguardo fiero, accucciate ai piedi dei monumenti, riuscivano a fare innamorare qualche giovanotto di buona famiglia? Immaginiamolo al termine del pranzo quando, allontanatasi la ca-
meriera dopo aver sgomberato la tavola, il giovane prende fiato e spara: «Debbo darvi una bella notizia. Mi sono fidanzato». La madre, che già temeva che quel bietolone rimanesse scapolo: «Bene! Chi è la fortunata?». «Un’Allegoria». Dalla felicità allo sgomento: «Con tante brave ragazze del nostro ambiente, proprio di un’Allegoria ti dovevi innamorare?» Il papà è più accomodante: «Guarda che le Allegorie sono ragazze serie». La madre finge di credergli e torna al figlio: «In questa città ci sono Allegorie di tutti i generi, la Fede, l’Onestà, il Risparmio, la Politica, la Sapienza, la Musica... Cosa rappresenta quella che ti avrebbe fatto perdere la testa?». Il giovanotto con voce sognante: «È il Martirio». Il padre si tradisce: «Quella seduta ai piedi di Carlo Alberto, quella che tiene in grembo una corona di spine?» «Sì, è lei, mi ha promesso che una volta sposati la metterà via per sempre». La madre rassegnata pensa: sposa pure mio figlio, sarò io la tua corona di spine.
chiere. Perché mi sembrava di averlo visto di recente, e invece da un po’ non lo incontravo? Ma certo, «Matrimonio a prima vista», lui è uno dei selezionatori e tutor della trasmissione che fa incontrare un ragazzo e una ragazza solo al momento del loro matrimonio, poi li segue per un mese e poi chiede loro se vogliono continuare a essere sposati o si vogliono lasciare. Una follia, solo principi e imperatori, a volte, vedevano la sposa per la prima volta al momento del matrimonio, ma da sempre, nella società occidentale, i due almeno si incontravano e vedevano un po’ prima! A metà Ottocento, Francesco Giuseppe d’Asburgo Lorena addirittura scelse la sorella di quella che le famiglie avevano deciso che sarebbe stata la sposa, Sissi invece di Nené. I protagonisti della trasmissione, tre coppie, sembrano sinceri, ma il dubbio che sia tutta una recita viene e rimane. Chiedo dunque al collega, memore anche della discussione estiva. Mi racconta che si sono presentati in
tremila. Tremila? Sì, tremila ragazzi e ragazze desiderosi di sposare uno sconosciuto o sconosciuta, scelti per loro dal team di cui fa parte il collega sociologo, insieme a psicologi, sessuologi e altri specialisti. Il loro compito è selezionare attraverso test e colloqui tre ragazzi che si possano trovare con tre ragazze. Poi la trasmissione organizza il matrimonio, i prescelti fanno pure gli assurdi addii a nubilato e celibato, e in bellissime location i parenti e lo sposo attendono trepidanti l’arrivo della sposa di bianco vestita. Un primo, incuriosito, sguardo, e subito si intuisce come procederà la storia. Non sono proprio giovanissimi, uno dei mariti è quasi quarantenne. E sperano proprio che sia la volta buona, anche se, mi racconta il sociologo, di solito due delle coppie su tre non resistono al mese «di prova», e l’altra chissà, non si deve dire se funzionano ancora oppure no. Quest’anno si sono presentati in tremila: tolti i perditempo, quelli che pur di andare in televisione sono
disposti a sposarsi come a camminare sui carboni ardenti, quelli che magari si presentano per scommessa… diciamo che duemila giovani uomini e donne speravano di trovare il compagno della loro vita grazie alla selezione del team, sposandosi alla cieca. Dei disgraziati? Ma no, tra i selezionati molti sono belli e istruiti. «Mamma mia pensaci tu», forse avrebbero voluto dire, ma la mamma non osa, non sa, forse viene da un matrimonio disastrato. Molti dicono di non avere né tempo né occasione per fare nuove conoscenze. Passata l’epoca d’oro degli anni di studio, delle feste, delle vacanze randagie, la vita lavorativa incasella, come è normale, i ragazzi, chi non ha trovato la sua metà rimane solo, e tramonta lo spirito di avventura della gioventù. Potrebbero incontrare migliaia di coetanei, ma ormai trentenni non se la sentono di conoscere ambienti nuovi, accolgono la trasmissione come una possibilità, forse l’ultima. Tele mia pensaci tu.
ferisce, la parola convince, la parola placa». Elogio della parola, d’accordo, ma quale parola? Il compito della scuola è quello di preparare cittadini non solo informati ma soprattutto critici: «consapevoli del proprio diritto a prendere la parola per esprimere il proprio pensiero in un confronto civile». Dunque, una scuola degna di questo nome dovrebbe interrogarsi sulla sua capacità di stimolare l’uso della parola, la discussione, l’espressione del pensiero e delle opinioni. «Già Aristotele, e prima di lui Socrate, vedevano nella dialettica e nel dialogo l’origine della conoscenza». Se Maffei ha ragione, quale scuola può onestamente dichiarare di avere centrato l’obiettivo? «La scuola della parola è la scuola dell’emisfero cerebrale del linguaggio, quello della razionalità, è la scuola della riflessione, quella del pensiero lento, direi, quella che insegna che occorre riflettere prima di decidere, e pensare prima di credere». Voto d’aria? 6. No, direi 6+, anzi 6+++.
Perché tutto ciò somiglia tanto a quella che chiamiamo una sana democrazia: riflessione, confronto, pensiero lento… Il tempo della globalizzazione, del mercato e del consumismo favorisce questo esercizio essenziale per la democrazia? Il medico-scienziato Maffei, che ha studiato i sistemi biologici, ricorda che «il buon funzionamento di un organismo è assicurato dalla capacità di mantenere relazioni “ordinate” tra le diverse componenti e quindi un’organizzazione interna». Per evitare patologie, ogni organismo realizza strategie di bilanciamento tra eccitazione e inibizione, autoproduce difese immunitarie, eventualmente ricorre a correttivi esterni come gli antibiotici per ripristinare la buona salute. Se ciò non accade il processo patologico diventa irreversibile. Anche una società umana è un sistema che deve mantenere un sufficiente livello di organizzazione e di equilibrio tra le parti: se saltano i meccanismi di autolimitazione e di controllo, salta
il sistema. «Ad esempio, quando la forbice tra ricchi e poveri si allarga fino a generare proteste che potrebbero sfociare in vere rivoluzioni, i buoni governanti promuovono oculate politiche redistributive». Nel famoso affresco di Ambrogio Lorenzetti, dipinto tra il 1338 e il 1339 a Palazzo pubblico di Siena, vengono raffigurati gli elementi indispensabili al sovrano o al signore per realizzare Il buon governo (titolo dell’opera): Giustizia, Temperanza, Magnanimità, Prudenza, Fortezza, Pace. Oggi? Quante di queste virtù vengono perseguite? La crescita selvaggia del mercato e del consumo, con le conseguenze catastrofiche sulla salute, sull’ambiente e sulle relazioni sociali e internazionali non conoscono correttivi che riportino il sistema entro limiti sostenibili. Ecco perché Maffei parla di «bulimia dei consumi» e di «anoressia dei valori». Un’«epidemia pestilenziale», la chiamerebbe Calvino: quella che arriva ad ammorbare anche la parola.
Postille filosofiche di Maria Bettetini Matrimoni a prima vista «Mamma mia pensaci tu!». Così finisce una canzone popolare siciliana, che comincia con la figlia che guardando la luna sul mare dice alla madre che si vuole «maritari», sposare. La madre passa in rassegna diverse alternative, ma ogni possibile sposo risulta poco affidabile, uno potrebbe picchiarla, un altro tradirla o abbandonarla, insomma, figlia mia a chi ti darò, e la ragazza risponde, appunto, «pensaci tu». Questa estate, chissà perché, un gruppo di ragazze diversamente giovani l’ha cantata in allegria, e da lì è partito un dibattito infinito sulla scelta dei compagni di vita, con strenua difesa della libertà di scelta, che bello innamorarsi e decidere chi vorremo al nostro fianco, fino a citare l’abusata metafora delle «farfalle nello stomaco». Qualcuno però ha osato sollevare obiezioni: da decenni nella nostra società ognuno sceglie liberamente il o la partner, ma i matrimoni che durano sono davvero pochi. Un altro dei presenti ha detto che
comunque esistono coercizioni anche oggi, perché quando i genitori scelgono le scuole, i luoghi di vacanza, le famiglie da frequentare, in verità costruiscono per i figli dei precisi itinerari sociali, che li portano a conoscere preferibilmente persone del ceto della famiglia. Però, si diceva, molti sfuggono tranquillamente a queste maglie, per fortuna sempre più larghe e allentate. Insomma, il dibattito ferveva, sotto le stelle del cielo di Sicilia, in riva al mare. E un dubbio aleggiava sempre più evidente: si era più felici quando non si doveva scegliere e ci si impegnava a costruire una famiglia serena e duratura, oppure adesso, che per immaturità spesso si fanno scelte sbagliate? Tutti dicevamo meglio la libertà, ma molti pensavamo chissà. L’estate è finita, le vacanze sono ormai un ricordo, nessuno discute più di libero amore. Due giorni fa incontro un collega, un noto sociologo, ci siamo scambiati l’aula e mentre i miei studenti uscivano e i suoi entravano abbiamo fatto due chiac-
Voti d’aria di Paolo Di Stefano In fuga dalla parola «A volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola». Così scriveva Italo Calvino nel capitolo delle Lezioni americane dedicato all’«Esattezza». Chissà che cosa direbbe oggi lo scrittore del Barone rampante se accendesse il televisore anche solo per una mezz’ora. E chissà come reagirebbe se andasse, per esempio, in una scuola aguzzando l’udito. In un lucido (e allarmante) saggio pubblicato di recente dal Mulino e intitolato Elogio della parola, il neurobiologo Lamberto Maffei, uno dei massimi scienziati italiani, analizza come l’era digitale induca una fuga dalla parola e dalla conversazione, che sono i tratti distintivi degli esseri umani rispetto agli altri animali. Scrive Maffei: «Mi raccontava un’insegnante delle scuole elementari che il suo problema era di far parlare i bambini, perché essi erano per lo più taciturni, come se avessero perso l’esercizio della parola». Causa
di questa «afasia del bambino» è il prolungato uso dello smartphone da parte di genitori e figli. Anche per questo, l’ipotesi di far utilizzare il cellulare a scopo didattico nella scuola non piace allo scienziato: «Io penso che il risultato sarebbe quello di far concentrare perennemente la mente del ragazzo sullo schermo, diminuendo l’attenzione verso scienza e cultura» (6+). Il libro di Maffei è diviso in otto capitoli che cominciano, tutti, con frasi di grandi menti del passato sul valore del linguaggio e sull’importanza della formazione e della cultura. Ascoltiamole. Se, come diceva Voltaire, «il segreto della noia è dir tutto», niente di meglio, per far addormentare il cervello, che esporlo a una marea incessante di informazioni simultanee. Del resto, osservava il filosofo Michel de Montaigne quasi cinquecento anni fa, il giovane non è un vaso da riempire di nozioni ma un fuoco da accendere di entusiasmo. Diceva Ennio Flaiano: «Io credo soltanto nella parola. La parola
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Idee e acquisti per la settimana
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shopping
La tradizione è anche bio
Attualità Fondue e raclette: i due piatti nazionali per eccellenza preparati solo con ingredienti
da agricoltura biologica rispettosa dell’ambiente e degli animali
Raclette
Ecco, il formaggio da raclette per chi cerca il buongusto e, al contempo, vuole fare acquisti sostenibili. Il Raccard Surchoix bio è prodotto con latte di mucche allevate in fattorie certificate Bio Suisse nel rispetto delle loro esigenze: gli animali possono uscire con regolarità all’aperto e sono nutriti con foraggi bio provenienti principalmente dall’azienda stessa. Questo formaggio dal sapore marcato subisce una stagionatura di 4-5 mesi prima di essere immesso sul mercato. Raccard Surchoix bio a fette 300 g Fr. 7.50
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Come il formaggio da raclette Raccard bio, anche la Fondue Moitié-Moitié bio fresca è preparata con formaggio ottenuto da latte rigorosamente biologico. La Moitié-Moitié è la fondue che mette tutti d’accordo grazie alla sua composizione per metà vacherin friburghese e per metà gruyère, entrambi certificati DOP (Denominazione di Origine Protetta). Naturalmente esente da lattosio, si caratterizza per il suo gusto aromatico e pronunciato. Fondue Moitié-Moitié bio 400 g Fr. 10.90
Patate
Pane Pancetta
Paprica
Una fettina di pancetta cotta nel tegamino insieme alla raclette e vi scioglierete dalla bontà.
La paprica bio è la spezia ideale per esaltare il raffinato aroma del formaggio fuso.
Un pane profumato e aromatico con note di frumento e lievito che si sposa a meraviglia con le fondue di formaggio.
Pancetta da arrostire bio Svizzera, 100 g Fr. 3.35
Paprica dolce macinata bio 40 g Fr. 1.75
Pane Twister dal forno di pietra bio 360 g Fr. 3.30
Cetriolini
I cetriolini sott’aceto sono l’accompagnamento irrinunciabile per raclette e fondue di formaggio.
Gustate da sole, oppure intinte nella fondue come alternativa al pane, le patate svizzere da raclette bio sono ottime cotte con la buccia.
Cetriolini bio 380 g Fr. 3.10
Patate raclette bio 1 kg Fr. 2.80
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Idee e acquisti per la settimana
Incontro con l’autore
Attualità Lo scrittore Federico Iannaccone, autore del romanzo Come radice nella pietra,
ospite del reparto libri Migros
Federico Iannacone «Come radice nella pietra» Fr. 13.80
Concorso
Lo scrittore Federico Iannacone con la sua Frida.
I sabati 3 e 24 novembre, dalle ore 14.00 alle 16.00, prima al Serfontana e poi a S. Antonino, l’autore Federico Iannaccone sarà a disposizione del pubblico per una sessione di autografi a margine del suo romanzo d’esordio «Come radice nella
pietra». Il libro narra la storia vera e appassionante che coinvolge l’autore stesso e Frida, un cane trovatello diventato il suo compagno di vita. Nel 2010 Federico parte alla volta del Messico per qualche mese di vacanza all’insegna della natura
e della spensieratezza. Durante un’escursione nella giungla trova qualcosa che gli cambierà la vita: un cane abbandonato, ferito e condannato a morte certa. Federico lo adotta e lo chiama Frida. Insieme dovranno affrontare e superare molte
Lana cardata della Valle Verzasca
difficoltà che consolideranno il legame tra l’animale e l’uomo, dando un nuovo significato alla vita di entrambi. Parte dei ricavi del libro sono devoluti ad associazioni attive nel campo della salvaguardia dei cani maltrattati.
5 libri in palio Migros Ticino offre ai lettori di «Azione» 5 copie del libro «Come radice nella pietra» di Federico Iannaccone. Per partecipare al concorso occorre telefonare mercoledì 31 ottobre dalle ore 10.30 al numero 091 850 82 76. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in altri concorsi promossi da «Azione» negli scorsi mesi. Buona Fortuna!
Ma che bel tepore
Novità In alcuni punti vendita Migros è stata introdotta la lana
lavorata artigianalmente alla Casa della Lana a Sonogno
Lana cardata ticinese 100% naturale colori rosso, verde, giallo, blu, nero 15 g Fr. 5.90 50 g Fr. 16.90 100 g Fr. 28.90 In vendita presso i Do it + Garden di Losone, Taverne, Agno, Serfontana, Grancia e filiali di S. Antonino e Lugano
Ideale per lavoretti di bricolage, creazioni con il feltro o semplicemente da filare, la lana cardata ticinese è un prodotto al 100% naturale lavorato con premura e passione dai membri della Pro Verzasca, associazione nata
nel 1933 è attiva nella promozione delle tradizioni artigianali e culturali dell’incantevole valle del Locarnese. Tra le principali attività della Pro Verzasca, vi è quella della lavorazione artigianale della lana. La pregiata materia prima, proveniente da pecore allevate in Ticino, viene anzitutto lavata al centro al lavaggio di Gordola. In primavera e in autunno la lavorazione si sposta
a Sonogno, dove nella Casa della Lana subisce il delicato processo di tintura con l’ausilio di una vasta gamma di colori naturali. Infine, dopo essere stata asciugata all’aria, si effettua la cardatura, procedimento che permette di liberare la lana dai nodi, così da ottenere il prodotto finito pronto per essere filato o utilizzato per fare feltro, lavori creativi e molto altro ancora.
Riscaldare la casa con una stufa a pellet non permette soltanto di ricreare una piacevole e coinvolgente atmosfera, ma è anche particolarmente efficace e sostenibile. Il pellet, infatti, è un combustibile neutro in termini di emissioni di CO2, dal momento che è interamente costituito da legno, materia prima naturale e rinnovabile. Il centro OBI di S. Antonino attualmente propone una vasta scelta di stufe, termostufe e caldaie a pellet di qualità
«Made in Italy». Tutti i prodotti si caratterizzano per il loro design moderno che ben si adatta a qualsiasi abitazione. Inoltre sono facili da utilizzare, posseggono un’altissima efficienza e sono coperti da una garanzia di due anni. Per qualsiasi domanda riguardo i modelli, la consegna e il montaggio professionale, il personale specializzato del negozio OBI è a vostra disposizione per aiutarvi nella scelta più confacente alle vostre esigenze.
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Idee e acquisti per la settimana
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Selenio e manganese sono inoltre importanti per la protezione delle cellule dallo stress ossidativo, mentre ferro e vitamina C aiutano a ridurre l’affaticamento e la stanchezza. Ricordiamo che gli integratori alimentari non devono essere utilizzati in sostituzione a un’alimentazione equilibrata e variata.
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Idee e acquisti per la settimana
Noi firmiamo. Noi garantiamo.
«Sono contento delle numerose idee creative dei clienti» Da 18 anni Markus Aeppli lavora con passione allo sviluppo di nuove bibite presso Bischofszell prodotti alimentari SA. Per il nuovo Ice Tea riceve ora il supporto dei clienti Migros, che decidono quali ingredienti ne fanno parte Intervista Melanie Michael, Foto Daniel Winkler
Crowdsourcing
I clienti Migros partecipano allo sviluppo
Markus Aeppli nel reparto sviluppo della Bischofszell prodotti alimentari SA.
Markus Aeppli, cosa fa esattamente una persona che sviluppa bevande?
Nel quotidiano il mio lavoro consiste nel testare diversi ingredienti in diversi abbinamenti e in differenti ricette. Individuo le tendenze mondiali a livello di bibite e realizzo quelle che hanno un potenziale, tenendo conto dei gusti svizzeri. Oltre a lei, chi decide cosa è buono e cosa non lo è?
Nella scelta delle migliori ricette ci affianca un panel preposto alle degustazioni. I prodotti più apprezzati vengono proposti a Migros. Alla fine sono però i clienti che decretano il successo di una bibita. Quali sono i gusti attualmente più apprezzati?
Tra gli Ice Tea è evidente, il limone seguito dalla pesca. Nello sviluppo di quali prodotti della Bischofszell prodotti alimentari SA è stato finora coinvolto?
Tutti i tè freddi che sono stati introdot-
ti alla Migros negli ultimi 18 anni. Per me il maggior successo rimane l’apprezzatissimo Ice Tea nella bottiglia in PET. Quale è stato finora il prodotto più insolito che ha sviluppato?
L’Ice Tea Cascara, con infuso di bacche di caffè, è sicuramente uno dei prodotti più particolari che io abbia mai sviluppato. Da dove si attinge l’ispirazione per nuove tendenze di gusto, nuovi prodotti?
Giro il mondo con gli occhi ben aperti e sono sempre disponibile nei confronti delle novità. Mi lascio ispirare anche dalle fiere indirizzate ai settori delle bibite e degli alimenti. Il collegamento in rete con diversi partner nel mondo intero contribuisce a far sì che io riceva continui spunti da ogni dove. Ora sono contenuto di ricevere dai clienti numerose idee creative. Ha accennato al Crowdsourcing che è in corso, con il quale vengo-
no raccolte proposte per il nuovo mitico Ice Tea. Conosce già questo modo di procedere nello sviluppo di bevande?
Sì, già il tè freddo «Fan Edition» con fragole e rabarbaro è stato sviluppato con i clienti Migros. Come avviene concretamente la ricerca della nuova varietà di tè freddo? Testate 1 a 1 tutte le proposte di abbinamento di gusti?
Non è possibile provare ogni singolo abbinamento delle oltre 10’000 proposte che ci aspettiamo di ricevere. Faremo quindi una prima selezione, con la quale raggrupperemo tutte le ricette affini. Tra l’altro, ci saranno probabilmente combinazioni di sapori particolari, che in quella forma non sono ancora conosciute. Anche di queste verificheremo la fattibilità e se necessario apporteremo ancora qualche ulteriore aggiustamento. Quando potranno provare i clienti la nuova varietà?
Verosimilmente a inizio estate 2019.
Con Soundmixer verso il nuovo mitico Ice Tea Con l’aiuto di un configuratore su IceTeaBeats.ch o su Migipedia i partecipanti possono decidere il loro abbinamento preferito per una nuova varietà di Ice Tea. Come base si può scegliere tra cinque varietà di tè, così come tra 30 ulteriori ingredienti, che possono essere miscelati tra loro. Tra questi figurano per esempio il frutto del diavolo, caffè e petali di rosa. Videoclip abbinato Sulla base della combinazione di sapori scelta, su IceTeaBeats. ch si genera un corrispondente videoclip.
M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche la nuova varietà di Ice Tea.
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Idee e acquisti per la settimana
Frey
Una scelta squisita in nuova veste
Confezione nuova, ma delizia di sempre. Con «Les Délices» e «Les Adorables» i fan del cioccolato hanno solo l’imbarazzo della scelta: grazie a ingredienti croccanti e ripieni cremosi ogni varietà è a modo suo «délicieux» oppure «adorable». La Chocolat Frey soddisfa la voglia di cioccolato con ben 88 tavolette differenti
Piccoli scrigni
Nelle creazioni della linea «Les Adorables» i raffinati ripieni delle tavolette sono avvolti da cioccolato croccante. Proprio come delle preziose perle in piccoli scrigni del tesoro – ma solo fino al primo morso…
Finissime combinazioni
Frey Les Délices Mandorle-Noci 100 g Fr. 2.20 Nelle maggiori filiali
Frey Les Délices Japonais 100 g Fr. 2.20
Frey Les Délices Blanc Croquant 100 g Fr. 2.20
Frey Les Délices Choc’o’Farm 100 g Fr. 2.20
Foto e Styling Claudia Linsi
«Les Délices» sono deliziose composizioni di finissimo cioccolato e ingredienti di prima qualità. Che si tratti di cremosi ripieni o croccanti componenti – le tavolette regalano al palato straordinari momenti di piacere sempre diversi.
Frey Les Adorables Pistacchio 100 g Fr. 2.20
Frey Les Adorables Caramello 100 g Fr. 2.20
Frey Les Adorables Cremetta 100 g Fr. 2.20
Frey Les Adorables Truffes au Lait 100 g Fr. 2.20
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Una scelta squisita in nuova veste
Confezione nuova, ma delizia di sempre. Con «Les Délices» e «Les Adorables» i fan del cioccolato hanno solo l’imbarazzo della scelta: grazie a ingredienti croccanti e ripieni cremosi ogni varietà è a modo suo «délicieux» oppure «adorable». La Chocolat Frey soddisfa la voglia di cioccolato con ben 88 tavolette differenti
Piccoli scrigni
Nelle creazioni della linea «Les Adorables» i raffinati ripieni delle tavolette sono avvolti da cioccolato croccante. Proprio come delle preziose perle in piccoli scrigni del tesoro – ma solo fino al primo morso…
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Idee e acquisti per la settimana
Favorit
Frutta vellutata da spalmare Preferite la confettura senza pezzetti di frutta? Ecco le vellutate confetture di Favorit Satin che non contengono né semi né pezzetti. Grazie a una delicata preparazione l’aroma e il colore della frutta vengono preservati al meglio. Accanto a combinazioni esotiche di gusti come Mango-Arancia-Maracuja, la linea Satin propone anche una confettura classica alle albicocche ottenuta a partire esclusivamente da frutta svizzera. Infine, l’edizione limitata al Mandarino sarà disponibile all’incirca per un anno.
Favorit Satin Mandarino Limited Edition 235 g* Fr. 3.10
Favorit Satin Mango-Arancia-Maracuja 235 g* Fr. 2.90
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Le confetture Satin non contengono né semi né pezzetti.
Favorit Satin Albicocche svizzere 235 g* Fr. 3.10
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Trovate la ricetta dell’insalata di cavolo rosso e zucca su migusto.ch/consigli
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5.35 invece di 6.70 Gamberetti Tail-on bio Ecuador, imballati, per 100 g
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Tagliuzzato di pollo Optigal Svizzera, in conf. da 2 x 350 g / 700 g
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Filetto di maiale Svizzera, imballato, per 100 g
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6.50 invece di 8.70 Entrecôte di manzo Black Angus Svizzera, al banco a servizio, per 100 g
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3.60 invece di 4.80 Patate Amandine Svizzera, imballate, 1,5 kg
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35% Tutto l’assortimento di zuppe Dimmidisì per es. minestrone di verdure, 620 g, 3.20 invece di 5.–
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25% Prodotti Cornatur in conf. da 2 per es. fettine di quorn con mozzarella e pesto, 2 x 240 g, 9.70 invece di 13.–
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4.90 invece di 6.15 Caprice des Dieux 330 g
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13.40 invece di 16.80 Fondue fresca moitié-moitié in conf. da 2 2 x 400 g
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Tutti i funghi secchi in bustina per es. porcini, 30 g, 2.85 invece di 3.60
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4.05 invece di 5.85 Rösti Original in conf. da 3 3 x 500 g
20% Tutti i tipi di aceto e condimenti Ponti per es. aceto balsamico di Modena, 500 ml, 3.60 invece di 4.50
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30% Tutte le marmellate Extra in conf. da 2 alle arance amare, ai lamponi o alle fragole, per es. alle arance amare, 2 x 500 g, 2.90 invece di 4.20
Pomodori tritati Longobardi in conf. da 6 6 x 280 g
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Tutto l’assortimento Mister Rice per es. Wild Rice Mix, 1 kg, 3.60 invece di 4.50
Tutto l’assortimento di müesli e fiocchi Farmer per es. müesli croccante ai frutti di bosco Croc, 500 g, 4.– invece di 5.–
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Tutte le capsule Café Royal in conf. da 10 o da 33, UTZ a partire da 3 confezioni, 33% di riduzione
50% Tutti i tipi di Pepsi e Schwip Schwap in conf. da 6 x 1,5 l per es. Pepsi Max, 5.50 invece di 11.–
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Idee e acquisti per la settimana
Bifidus
Piacere senza zucchero Migros lancia la nuova linea Bifidus «0%» composta da deliziosi joghurt senza zucchero aggiunto. Nuovo è anche il drink probiotico al gusto di pesca. Come tutti i prodotti Bifidus, anche queste novità sono prodotte a Estavayer-le-Lac con solo latte svizzero. Qui, 25 anni fa, nacque il primo joghurt probiotico del mercato elvetico. In combinazione con un’alimentazione equilibrata e uno stile di vita sano, i batteri bifidus contenuti negli joghurt e nei drink aiutano la digestione.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Idee e acquisti per la settimana
Famigros
Ogni giorno un piccolo regalo I calendari dell’avvento accrescono il piacere dell’attesa del Natale. Chi non ama scartare piccole sorprese, prima dello scambio dei regali natalizi? Particolare gioia la procurano i calendari fatti in casa. Che dire per esempio di questo bel calendario con i gufi?
Vanessa Glässel (44) è responsabile di progetto Famigros e tre volte mamma.
Altre idee creative di bricolage su www.famigros.ch
Vanessa Glässel
«Il contenuto del calendario deve essere adeguato all’età»
Materiale
Carta da bricolage, gialla e assortita; carta regalo e carta velina, entrambe bianche; paillette d’oro; gomma espansa con lustrini; pennarelli, per i numeri da 1 a 24; compasso, forbici, colla da bricolage; nastri regalo. 1° passo
Impacchettare i regali con carta bianca. 2° passo
Posizionare la carta velina in modo tale che nella parte alta una lunga estremità a punta possa essere piegata sul davanti; avvolgere il regalo; alla fine del 5° passo incollare l’estremità a punta. Per la forma del corpo ritagliare un cerchio da una carta colorata e incollare. 4° passo
Per gli occhi ritagliare delle forme circolari (bianco: 2 cm, giallo: 4 cm); incollare, aggiungendo una paillette. Ritagliare un rombo in gomma espansa e incollarla unitamente alla punta in carta velina.
Ogni bambino dovrebbe avere il proprio calendario dell’avvento? Dipende dall’età e dalla differenza di età tra i bambini. I miei due figli più piccoli, per esempio, hanno due anni di differenza e potrebbero quindi condividere amichevolmente il calendario. Quando ero bambina, io e le mie due sorelle ci spartivamo il cioccolato di un calendario. E ciò ha sempre funzionato alla perfezione. I bambini possono partecipare alla realizzazione del calendario? Tendo a considerare il calendario dell’avvento in modo tradizionale, quindi come una sorpresa per i bambini da scoprire solo al 1° di dicembre. Di conseguenza lo preparo da sola o con mio marito.
3° passo
5° passo
Quali piccoli regali si adattano particolarmente a un calendario dell’avvento? Il contenuto dei calendari dell’avvento deve essere adeguato all’età del destinatario. Per bambini in età scolastica vanno per esempio bene temperamatite, adesivi, gomme per cancellare, piccole matite e magari anche piccoli taccuini per gli appunti, pupazzi, sacchetti di Playmobil o Lego, prodotti per il bagno, balsami per le labbra. E di tanto in tanto nel calendario si può aggiungere anche un cioccolatino.
Risultato
Con questo calendario dell’avvento si può lasciare spazio libero alla creatività. Ogni gufo può essere unico, così come il regalo che contiene.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 29 ottobre 2018 • N. 44
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Idee e acquisti per la settimana
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