Azione 01 del 30 dicembre 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio I genitori e le nuove tecnologie: due riflessioni tra salute ed educazione

Ambiente e Benessere Nella Gironda, poco più a est di Bordeaux, spiccano due appellation di prestigio: Saint-Émilion e Pomerol

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 30 dicembre 2019

Azione 01 Politica e Economia La sinistra globale in cerca di una nuova identità

Cultura e Spettacoli Tarcisio Trenta, un ingegnere con la passione per l’arte

pagina 10

pagina 16

pagine 2 e 3

di Amanda Ronzoni pagina 9

Amanda Ronzoni

Il buon anno dal Sol Levante

pagina 21

Un 2020 spartiacque di Peter Schiesser L’anno che apre il nuovo decennio segnerà probabilmente la via di quelli a venire, negli Stati Uniti e quindi nel mondo, in Gran Bretagna e perciò in Europa, in Svizzera nel nostro rapporto con l’UE. Fra poco più di dieci mesi verrà eletto il prossimo presidente degli Stati Uniti e se Donald Trump dovesse vincere ancora i vecchi equilibri mondiali, politici ed economici, si troverebbero su un piano ancor più inclinato. Significherebbe che i dissidi con la Cina, la Nato, l’Unione europea, con le organizzazioni multilaterali in genere, con l’Iran, le collusioni ideologiche con leader autoritari e dittatori come Putin, Kim Jong-un, Duterte, persino con Xi Jinping, frutto del fascino di Trump per il potere assoluto che personalità simili possono esercitare, non sono figli di un esperimento mal riuscito della Storia, ma un suo elemento fondante. All’inizio di questo anno fatidico, l’orizzonte di queste elezioni è ancora avvolto dalle nebbie: non spicca ancora nessun candidato democratico; la richiesta di impeachment verrà bocciata dal Senato a maggioranza repubblicana, ma non è detto che a novembre nel contemporaneo rinnovo di un terzo dei

seggi in quel ramo del Congresso, i repubblicani non perdano i loro tre deputati di vantaggio, rendendo Trump un presidente azzoppato. Nulla è più di un’ipotesi, oggi. Ipotesi, invece, non se ne fanno più a Londra: Boris Johnson, l’epigone di Trump oltre Manica, ha tutto il potere che gli serve per concretizzare la Brexit, e come vuole lui. Le elezioni parlamentari gli hanno regalato una maggioranza chiara. Ora può trattare con Bruxelles senza temere agguati in parlamento. Capiremo presto, dai toni con cui verranno condotti i negoziati per la Brexit (entro fine gennaio 2020), come si delineeranno i nuovi rapporti e accordi bilaterali con l’Unione europea (attuale ipotesi: entro il 2021). Di fatto la Gran Bretagna e l’Unione europea entrano in una fase di destabilizzazione al cui termine dovranno nascere nuovi equilibri. Un forte rischio conclamato è il ridimensionamento territoriale della Gran Bretagna, da cui la Scozia vorrebbe già fuggire e l’Irlanda del nord, forse meno platealmente, scivolerebbe col tempo per osmosi nel resto dell’Irlanda. L’altra minaccia sono eventuali spinte centrifughe nell’Unione europea, se la via segnata dall’Inghilterra dovesse risultare un’alternativa positiva.

Anche in Svizzera c’è chi guarda con curiosità alla Brexit e già conia il termine «Swissexit» – dimenticando che l’obiettivo della Brexit è proprio di ottenere uno status simile a quello della Svizzera, ossia buoni rapporti e accordi bilaterali con l’Unione europea, ma non più un’appartenenza. Chi in Svizzera parla di Swissexit in realtà vuole porre il paese piuttosto nelle condizioni della Bielorussia o della Moldavia – ossia fuori da un contesto di rapporti privilegiati con Bruxelles. Ed è quello che succederebbe se il 17 maggio 2020 Popolo e Cantoni dovessero accettare l’iniziativa dell’UDC contro i Bilaterali, ossia l’iniziativa popolare che mira all’abolizione della libera circolazione. La clausola ghigliottina contenuta nel primo pacchetto di Accordi bilaterali rende automatico il decadimento di tutti gli accordi nel caso uno venisse a cadere, A livello nazionale c’è un diffuso ottimismo che l’iniziativa verrà bocciata, proprio perché i vantaggi dei 7 accordi sono considerati di molto superiori ai problemi che crea – regionalmente – la libera circolazione. Nella Svizzera tedesca e romanda si è capito che il prezzo da pagare sarebbe enorme. In Ticino, cantone in cui libera circolazione e frontalieri mettono in ombra ogni vantaggio, questa consapevolezza non sembra esserci.


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Società e Territorio Aste pubbliche La pagina online delle aste degli Uffici di esecuzione e fallimenti è la più visitata dell’amministrazione cantonale. Ne parliamo con l’avvocato Fernando Piccirilli pagina 6

Law clinic e vulnerabilità giuridica L’Università di Ginevra offre un percorso di studio che permette di riflettere sui diritti delle persone vulnerabili a rischio di discriminazione pagina 7

È buona abitudine non dormine con il cellulare acceso vicino al letto, inoltre di notte bisognerebbe spegnere il Wi-Fi. (Marka)

Genitori e nuove tecnologie – 1

Il caffè delle mamme I dati sui rischi per la salute di un uso senza regole di tablet e smartphone

dovrebbero far riflettere e portarci a prendere qualche semplice contromisura

Simona Ravizza «Toglitelo dalla testa!». Il riferimento ovviamente è al cellulare. Una visita per lavoro all’Istituto Ramazzini di Bologna, uno dei migliori centri di ricerca sul cancro a livello mondiale, mi ha fatto decidere di portare l’argomento a Il Caffè delle mamme come la sfida da affrontare per il 2020. Ora, che l’uso di smartphone e tablet non faccia bene, non è certo una novità. Ma sentirsi elencare a uno a uno tutti i rischi certificati da studi scientifici dalla scienziata Fiorella Belpoggi è roba da togliere il sonno soprattutto pensando ai nostri bambini. Perché i danni alla salute che l’uso smodato della tecnologia provoca li conosciamo, ma troppo spesso li sottovalutiamo. La proposta invece è di condividerli con i figli, per convincerli a un utilizzo migliore, che non vuole dire vietarli ma insegnare a usarli con cognizione di causa. È il motivo per cui il Ramazzini ha ideato campagne di sensibilizzazione proprio dedicate agli adolescenti. L’ambizione è di riuscire a catturare la loro attenzione e, perché no, convincerli a leggere quel che dico-

no gli esperti. Ecco, allora, pochi ma fondamentali concetti chiave. Prima di arrivare al perché smartphone e tablet possono creare seri problemi di salute bisogna innanzitutto sottolineare che quel che diciamo è accertato con analisi accurate svolte su 2448 topi messi in una sorta di condominio riprodotto in laboratorio: lì, in stanzette di legno, i ratti sono sottoposti per 19 ore al giorno dalla vita prenatale alla morte alle stesse radiazioni che ci arrivano dalle antenne per la telefonia mobile e, a maggior ragione, dai cellulari. Risultato: aumento statisticamente significativo di tumori al cervello e problemi alle cellule nervose del cuore. È quanto emerge dal «Resoconto dei risultati finali riguardanti i tumori del cervello e del cuore in ratti esposti dalla vita prenatale alla morte spontanea a campi elettromagnetici a radiofrequenza, equivalenti alle emissioni ambientali di un ripetitore da 1,8 GHz (il classico trasmettitore per la telefonia mobile)», il più grande studio mai realizzato al mondo: il paper è disponibile online dal 22 marzo 2018 sulla rivista internazionale «Environmental Research». Le esposizioni

alle radiofrequenze studiate dall’Istituto Ramazzini sono mille volte inferiori a quelle utilizzate nello studio sui telefoni cellulari dell’agenzia governativa Usa National Toxicologic Program: i tumori riscontrati, però, sono dello stesso tipo. Per spiegare il surriscaldamento dei tessuti corporei provocato dai cellulari, che è il più evidente degli effetti biologici dei campi elettromagnetici a radiofrequenza, possiamo dire che è lo stesso dei forni a microonde: nei bambini, per le dimensioni e la costituzione dei tessuti, tutto il cervello si surriscalda. Altri pericoli comprovati dalla scienza: deficit dell’attenzione, ritardo generalizzato dello sviluppo, difficoltà nell’esecuzione di semplici attività, irritabilità e incapacità nel gestire e regolare i propri impulsi e il proprio mondo emozionale; riduzione del tempo dedicato al movimento e aumento di conseguenza del rischio di andare incontro a sovrappeso e obesità, maggiori difficoltà nelle relazioni, disturbi del sonno e quelli dell’apprendimento; mal di testa, dolori al collo e alle spalle e cattiva postura poiché trascorrono più tempo davanti agli schermi.

I dati sui rischi di un uso senza regole di cellulari e tablet rafforzano l’importanza di prendere qualche semplice ma indispensabile contromisura. Impossibile tornare indietro nella diffusione della tecnologia, ma di certo possiamo fare meglio: «Siamo responsabili verso le nuove generazioni – ripete spesso Fiorella Belpoggi –. E dobbiamo fare in modo che i telefoni cellulari e la tecnologia wireless non diventino il prossimo tabacco o il prossimo amianto, cioè rischi conosciuti e ignorati per decenni». L’intensità del campo magnetico cala in base alla distanza del telefonino dal corpo (a 5 centimetri la sua potenza diminuisce di ben 25 volte): è importante parlare usando il vivavoce o gli auricolari; non quelli bluetooth, perché anche questi trasmettono attraverso onde elettromagnetiche. Tenere il cellulare lontano dalle zone più sensibili al fine di proteggere il proprio corpo. Non dormire con il cellulare acceso vicino. Spegnere il Wi-Fi di notte. Le onde elettromagnetiche sono meno pericolose quando il segnale è

pieno, cosa che non avviene per esempio, se si telefona in auto o in treno, con il cellulare che continua a cambiare il ripetitore a cui si «allaccia»; in più, gli abitacoli di questi mezzi fanno da schermo ai segnali e creano una specie di gabbia per le onde che si concentrano così maggiormente sul nostro corpo. Appello invece per noi genitori: non usiamo mai i dispositivi elettronici per calmarli, evitiamo l’uso di tablet e smartphone a tavola, niente pc e tablet in camera. Infine, i pediatri ricordano alle famiglie che i genitori dovrebbero essere un buon modello: i bambini sono grandi imitatori. «Per questo motivo, i genitori devono limitare il proprio uso. Si otterrà una maggiore connessione con i bambini interagendo, abbracciandoli e giocando con loro – vanno ripetendo –. Le famiglie non devono usare telefonini e tablet come un succhiotto emotivo perché limiteranno lo sviluppo della regolazione emotiva dei bambini». A Il Caffè delle mamme la sfida è lanciata. E l’impegno per il 2020 è di riuscire a vincerla.


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Genitori e nuove tecnologie – 2 Intervista Lo psicoterapeuta Matteo Lancini è stato ospite di una tavola rotonda

organizzata dal Decs e intitolata «Accompagnare il bambino digitale a casa e a scuola»

Matteo Lancini, innanzitutto quali sono le caratteristiche del bambino digitale rispetto a quello della generazione precedente?

Bisogna fare un passo indietro, per precisare che i bambini di oggi, prima che gli venga regalato qualsiasi strumento digitale, crescono con una mamma virtuale. Secondo i modelli educativi in vigore, i dispositivi elettronici vengono quindi utilizzati da subito. Di conseguenza i bambini crescono lontani con il corpo ma vicini con la mente. Cosa significa?

Se nella famiglia tradizionale c’era maggiore vicinanza fisica (per esempio per il fatto che le madri stavano a casa), è pur vero che il modello educativo non esitava a interrompere la relazione affettiva. Oggi invece la famiglia è organizzata intorno al mantenimento della relazione, che è quasi il fine ultimo dell’intervento educativo. Prendiamo la figura della madre. Essa delega più che in passato ed essendo distante con

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Minispettacoli A

Minusio la rassegna teatrale per bambini propone una fiaba

Alessandra Ostini Sutto Nei genitori di oggi, specie quelli con figli adolescenti o preadolescenti, le questioni relative al rapporto tra questi ultimi e le nuove tecnologie suscitano in genere un grande interesse. Quando parliamo di come accompagnare i nostri figli, nativi digitali, in questo ambito, dovremmo però innanzitutto avere una visione chiara del ruolo della società in relazione alla tematica in questione. Oggi, infatti, vita reale e vita virtuale sono così «intrecciate» tra di loro che definirne i confini diventa sempre più difficile. Ma, soprattutto, ha ancora senso farlo? Di questi temi si è dibattuto in occasione della tavola rotonda «Accompagnare il bambino digitale a casa e a scuola», organizzata dal Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, che si è tenuta alla fine di novembre a Lugano. Relatore della serata è stato Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, con studio a Milano. Lancini, che è presidente della Fondazione Minotauro e docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca, ha dedicato vari libri agli adolescenti e ai pre-adolescenti. Recentemente ha curato Il ritiro sociale negli adolescenti. La solitudine di una generazione iperconnessa. Sul tema di cui ci stiamo occupando citiamo invece Adolescenti navigati: come sostenere la crescita dei nativi digitali e Sempre in contatto. Relazioni virtuali in adolescenza (scritto con Laura Turuani). Nel corso della serata, Matteo Lancini ha voluto soffermarsi su come le trasformazioni dei modelli educativi, affettivi e sociali abbiano contribuito alla diffusione delle nuove tecnologie. Perché, a suo avviso, «dobbiamo smettere di vedere lo smartphone o i videogiochi come qualcosa che si è diffuso in modo avulso dal contesto». Lo abbiamo intervistato per approfondire il suo punto di vista.

Bartolomeo non ha più paura

Gli adolescenti hanno una vita online e i genitori devono interessarsene. (Marka)

il corpo, usa la relazione – che non è quindi più il mezzo – per far transitare i valori. Questo aspetto è importante perché fin da piccoli i bambini sono abituati che ciò che conta non è tanto la presenza del genitore ma il modello di fondo. Torniamo alla figura della madre….

Prenderò come esempio l’asilo di fronte a casa mia. All’orario di uscita, si osserva una popolazione composta per una metà da madri e per l’altra metà da nonne, tate, eccetera, che ritirano il bambino e lo portano a svolgere una serie di attività, le quali non vengono però scelte autonomamente. Dal suo luogo di lavoro la madre virtuale verifica tramite telefono che tutto funzioni secondo i piani. Lo dico sempre, ho visto qualcuno cambiare programma e venire immediatamente licenziato! Si cresce così in un sistema dove il modello educativo è molto diverso da quello della generazione degli attuali genitori e dove la digitalizzazione fa parte di un contesto che ha contribuito alla sua diffusione. Al suo interno, bisogna quindi capire cosa significa essere un bambino, in genere molto espressivo e creativo, con tanti amici e tante attività, a cui a un certo punto arriva il telefonino, e successivamente altri mezzi digitali, regalati in genere proprio dai genitori. Gli spazi di socializzazione online che si aprono così ai ragazzi, in che modo influenzano quelli offline?

Il problema non è suddividere le due vite, ma capire come si sono intrecciate in un unicum di cui si sta costruendo l’identità. Ciò detto, la domanda può essere rigirata: come influenzano la vita online le scelte dei genitori relative alle questioni scolastiche dei figli? Tutto avviene tramite i gruppi WhatsApp delle madri. Se i bambini crescono con adulti che invece di guardare la recita di classe la riprendono e che prendono decisioni che riguardano la vita «vera» tramite un’app di messaggistica, cosa potranno mai pensare a 12 anni? Che la Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

vita virtuale non conta? Non possiamo costituire dei modelli di un certo tipo e chiedere solo a loro di non utilizzarli. A ciò si aggiunge un altro elemento. Una volta si cresceva nei cortili e nei giardini. A 7-8 anni si poteva socializzare con il compagno di classe tornando a casa da soli. Oggi questo non è possibile, perché i figli sono iper protetti e si vive nel terrore di un mondo pericoloso. Con quali conseguenze?

La seconda infanzia è il momento in cui il corpo andrebbe consegnato all’autonomia dei ragazzi. Se noi non siamo pronti a farlo, se blocchiamo una certa corporeità, loro andranno a cercare quello di cui hanno bisogno nel mondo virtuale. E questa è un’altra manifestazione di come oggi si viva distanti col corpo ma vicini con la mente. Se quindi prima un ragazzino giocava con la fionda all’aperto, oggi riverserà quello stesso istinto nei videogiochi. Non si sbuccerà le ginocchia, ma ciò non significa che non sarà pericoloso. La comunità è composta da 7 miliardi di persone che possono potenzialmente essere contattate dalla propria stanza. Grandi risorse, quindi, ma anche grandi rischi. Data questa situazione, come possono genitori ed insegnanti sostenere adeguatamente la crescita dei bambini nell’era digitale?

Facendosi carico anche della loro vita virtuale, che, peraltro, sono stati gli adulti a consegnargli. Ovviamente poi il discorso varia a seconda dell’età. Se parliamo di bambini, bisogna accompagnarli e questo compito è dei genitori; non si può dargli un tablet in mano e lasciarli soli. Passando all’adolescenza mi convinco sempre più di quanto sia fondamentale che scuola e famiglia educhino al digitale. Penso infatti che stiamo pagando lo scotto di modelli che vietano l’accesso dei cellulari a scuola e mirano a limitare l’utilizzo di strumenti che in realtà non sono limitabili. Educare al digitale significa anche educare alla vita perché, come Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

dicono i principali ricercatori, internet e vita reale oggi sono la stessa cosa. Bisogna a mio avviso tenere conto di questi aspetti e quindi spiegare ed educare piuttosto che vietare e controllare, affinché i ragazzi possano usare la rete in modo consapevole. Anche se questa strada è più difficile.

Qual è il modo migliore per sconfiggere quello che ci spaventa? La fiaba Bù!, che l’autore ed attore Claudio Milani proporrà al pubblico dei Minispettacoli, racconta la storia di un bambino, il piccolo Bartolomeo, che, dopo essere stato abbandonato in un bosco verrà adottato da una vivace e simpatica famiglia. I suoi nuovi fratelli sono grandi e grossi e, per scherzare, si divertono a spaventare il nuovo arrivato. Il quale, dal canto suo, ha una gran paura del buio, dei cattivi e dei ragni. Nel corso della storia Bartolomeo si troverà di volta in volta confrontato con tutto ciò che teme. Nel Bosco Nero dovrà affrontare una strega, un lupo, l’uomo nero... e altre creature spaventose. Grazie alla sua copertina magica però Bartolomeo sarà in grado di difendersi: il minaccioso «Bù» che lo terrorizza non sarà più così terribile per lui.

Di solito quindi gli adulti quale tendono a percorrere?

La tendenza è quella di crescere dei bambini digitali e poi, per paura, chiedergli di non essere digitali proprio nell’età dell’autonomia. Se prima mi dispiaceva, adesso trovo folle che tutti usino internet in ogni dove e che gli unici che non dovrebbero farlo sono gli adolescenti! Inoltre, senza le tecnologie oggi si è tagliati fuori, dal mondo del lavoro, dalla politica, dalla società in generale. Basti pensare che il Papa ha aperto un profilo Twitter o a come le decisioni politiche vengano prese online e poi certificate dai governi in Parlamento. Come si dovrebbero quindi comportare i genitori di figli adolescenti, fase in cui l’uso di internet e delle nuove tecnologie si fa intensivo?

Claudio Milani è un attore che si rifà allo stile dei cantastorie. (claudiomilani.com)

Lo spettacolo, scritto da Francesca Marchegiano e Claudio Milani, è adatto ai bambini a partire dai 3 anni e vuole mostrare ai piccoli spettatori come le paure siano emozioni condivise da molti e, soprattutto, che con l’umorismo e il divertimento possano diventare meno paurose... Bù!

Bisogna chiedere non solo «com’è andata oggi a scuola?» ma anche «come va in Internet?». Bisogna avere il coraggio di dare il nome alle cose che un tempo avvenivano fuori casa e che oggi avvengono davanti allo schermo, dove i ragazzi fanno un sacco di esperienze. Bisogna superare la paura di affrontare queste tematiche, che è poi quella che porta a far prevalere un finto controllo il quale ci consente di dormire sonni tranquilli. Un adolescente non si controlla, perché è per sua natura destinato a fuoriuscire dal monito educativo. Per questo motivo vale la pena porgli delle domande e magari si otterranno davvero delle risposte. Se invece preferiamo far finta che l’unica vita che conti sia quella davanti ai libri di scuola, il rischio che corriamo è di perdere dei pezzi della vita che noi stessi abbiamo costruito.

Domenica 12 gennaio 2020, ore 16.00 Teatro Oratorio Don Bosco, Minusio

Tiratura 101’634 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

In collaborazione con

Biglietti in palio «Azione» offre ai propri lettori biglietti gratuiti per lo spettacolo Bù che si terrà domenica 12 gennaio 2020 al Teatro Oratorio Don Bosco di Minusio, inizio ore 16.00. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi.

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Idee e acquisti per la settimana

Busción caprini sott’olio

Novità Tre specialità del territorio ideali per arricchire di gusto i vostri aperitivi

o antipasti. Sono disponibili nei gusti naturale, con peperoncino e con tartufo estivo

Tresol Group/Däwis Pulga

Lasciatevi deliziare da una nuova specialità targata Nostrani del Ticino, che va ad arricchire e a variare ulteriormente il già ampio assortimento di prodotti locali disponibili nei nostri supermercati. Dall’azienda Fattoria del Faggio di Sonvico arrivano ai reparti formaggio Migros degli invitanti bocconcini di Busción in olio, in tre gustose varianti: al peperoncino piccante, al naturale con grani di pepe e rosmarino oppure nella varietà con delicate scaglie di tartufo nero estivo del Monte Generoso. Queste specialità artigianali, perfette per chi predilige tutta la genuinità dei prodotti locali a km zero o ama scoprire nuovi sapori all’insegna dell’originalità, sono assai gradite servite come aperitivo in occasione di momenti di festa, aggiunte ad una croccante insalata per un antipasto ancora più appetitoso oppure come aromatico spuntino accompagnate da pane casereccio. L’azienda agricola luganese, gestita dalla famiglia Rezzonico da oltre 25 anni, è specializzata nell’allevamento caprino e nella produzione di formaggi. A Sonvico essa possiede 120 capi di capre Saanen, robusta razza di origini svizzere dal caratteristico manto bianco. Questi animali sono particolarmente apprezzati per la loro predisposizione alla produzione di latte. Presso la Fattoria del Faggio, giornalmente esse producono mediamente all’incirca 500 litri di buon latte. Oltre ai nuovi bocconcini di formaggio fresco sott’olio, l’azienda rifornisce Migros

Busción de Cavra al naturale, al pepe o festivi 170 g Fr. 12.95 In vendita nelle filiali Migros con banco casaro

Ticino di altre prelibatezze nostrane, tra cui i caprini maturi, la ricotta e, in estate, le robiole e la formaggella di capra. I Busción sott’olio si possono conservare a temperatura ambiente e, una volta aperti, vanno tenuti in frigorifero e consumati entro pochi giorni.

Il Busción

Il Busción è un formaggino fresco ticinese, facilmente spalmabile, grasso, a base di latte di capra o mucca pastorizzato. Si caratterizza per la sua forma cilindrica allungata (il nome dialettale significa appunto «tappo, turacciolo»), il colore bianco avorio e la pasta morbida e cremosa. Possiede un sapore delicato, fragrante, leggermente acidulo. I Busción sono molto apprezzati soprattutto durante la stagione calda, accompagnati da un piatto di genuini salumi e altri formaggi del nostro territorio.

Un ortaggio buono e salutare Il dolce dell’Epifania Attualità Il sapore intenso del finocchio si sposa a meraviglia

con molte pietanze

Attualità Un’immancabile tradizione

per chiudere le feste in dolcezza

Azione 20%

sui finocchi Italia, sciolti, al kg Fr. 2.30 invece di 2.95 fino al 4.1

Agnello al miele con finocchi stufati Ingredienti per 4 persone 2 cucchiai di senape dolce 4 cucchiai di miele liquido 4 lombatine d’agnello di ca. 170 g 2 cipolle 600 g di finocchi 2 cucchiai d’olio di colza HOLL 2 dl di fondo d’agnello o brodo di manzo sale, pepe

Conosciuto nei paesi del Mediterraneo fin dall’epoca greco-romana come pure in Asia, il finocchio è una delle verdure invernali favorite, anche se oggigiorno è in vendita tutto l’anno. Di questo ortaggio dal sapore che ricorda l’anice si consuma soltanto il bulbo. All’acquisto quest’ultimi devono essere sodi, bianchi o verde pallido. È una verdura delicata, sensibile alle pressioni, che causano delle macchie brunastre che vanno eliminate. Il finocchio è un

portento di proprietà salutari e culinarie ed è poco calorico. Inoltre è un ortaggio estremamente digeribile. In cucina lo si consuma gratinato, bollito, grigliato, crudo in insalata con una vinaigrette, ma anche in combinazione con carne (vedi ricetta), pesce o formaggio. Un curioso aneddoto: un tempo i cantinieri usavano offrire ai clienti del finocchio crudo per far sembrare buono del vino scadente. Da qui il termine «infinocchiare».

Preparazione Mescolate la senape e il miele e spalmate le lombatine. Lasciate marinare per almeno 30 minuti. Tritate finemente le cipolle. A seconda della grandezza, tagliate in quattro o in sei i finocchi. Fate sgocciolare le lombatine e mettete da parte la marinata. In una casseruola rosolate bene le lombatine nell’olio. Unite le cipolle e i finocchi e rosolate brevemente. Bagnate con il fondo d’agnello. Unite la marinata messa da parte. Coprite e stufate per ca. 1 ora. Dopo 30 minuti togliete il coperchio. Fate ridurre il liquido di ca. la metà. Condite con sale e pepe. Accompagnate con pane o cuscus.

Prima che «tutte le feste si porti via», l’Epifania ha ancora qualcosa di veramente goloso da offrire: la morbidissima torta dei re magi. Come vuole la tradizione, colui che trova la statuetta di un magio al suo interno avrà il diritto di «regnare» per un giorno, indossando la corona contenuta all’interno della confezione. Il dolce è prodotto fresco dai pasticceri della Jowa solo nei giorni che precedono il 6 gennaio, utilizzando pochi ma buoni ingredienti quali farina svizzera, burro, uova, zucchero

e uvetta. Una volta pronto, l’impasto viene fatto lievitare in modo naturale, decorato con granelli di zucchero e scaglie di mandorle e infine cotto per una mezzoretta. Oltre alla classica torta con uvetta, nelle maggiori filiali Migros sono disponibili anche varianti con pezzetti di cioccolato, senza uva sultanina e con ingredienti esclusivamente di provenienza biologica. Torta dei Re Magi classica 420 g Fr. 4.10


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Idee e acquisti per la settimana

Momenti di piacere

Foto: zVg

L’inizio dell’anno ci invita a fissare nuovi obiettivi. E i prodotti della You ne possono fare parte: che si tratti del müesli ricco di fibre «Beetroot Ginger Crunchy Granarola», del pane proteico, del «Super Smoothie con Chia» oppure degli yogurt con meno zucchero – con una colazione varia e saporita la giornata inizia a tutta energia. Gli innovativi prodotti You, principalmente a base di ingredienti naturali, regalano varietà e nuove esperienze gustative. Chi si alimenta in modo consapevole e si prende del tempo per se stesso, ha già fatto un passo avanti verso un buon benessere psicofisico.

Bio You Beetroot Ginger Crunchy 500 g* Fr. 6.20

You Pane proteico 400 g Fr. 3.10

You Smoothie, Red Dragon Fruit 250 ml* Fr. 2.70

You 100 Cal Yogurt, Tropical 150 g Fr. –.85

* nelle maggiori filiali


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Società e Territorio

Dietro le quinte delle aste pubbliche Ticino La pagina online delle aste degli Uffici di esecuzione e fallimenti, inaugurata nel 2010, è la più visitata

dell’amministrazione cantonale, ne parliamo con l’avvocato Fernando Piccirilli Guido Grilli

Benvenuti nel sito online più visitato dell’amministrazione cantonale: www. ti.ch/aste. Case, appartamenti, terreni, auto, biciclette elettriche, quadri, vestiti. Chi clicca trova le fotografie degli oggetti prossimi all’asta e le condizioni per aggiudicarseli. Dietro ogni oggetto un dolore non misurabile di chi si è ritrovato più povero. E, sull’altro fronte, un creditore che, ingiustamente privato della sua somma, cerca ora un nuovo e se possibile miglior offerente. Il denaro va e viene. Così va il mondo. Mors tua vita mea recita un’antica locuzione latina dal tono drammatico e un poco cinico. Già, perché nella talora frenetica realtà economica il fallimento di uno può costituire l’opportunità dell’altro. Rileva Fernando Piccirilli, 55 anni, responsabile del settore esecutivo del Cantone, formazione avvocato, da ventisei anni in forze al settore esecuzione e fallimenti su più fronti: «La pagina delle aste ha registrato un picco di 762’750 visualizzazioni dal 1° dicembre 2018 al 1° dicembre 2019. Si parla di oltre 2mila visite al giorno. È un grande successo».

Un’asta può essere interrotta fino a un minuto prima del suo inizio se creditore e debitore trovano un accordo Questo primato si riflette anche su una maggiore partecipazione di persone durante le aste? «La partecipazione è aumentata rispetto al passato, a quando cioè ancora non avevamo un sito online delle aste, inaugurato nel 2010, ormai dieci anni fa. Ma questo non significa ancora un aumento dei ricavi dell’incanto. Nel 2018 sono state organizzate complessivamente 198 aste, tra immobiliari e mobiliari. Si tratta di un aumento: nel 2017 erano infatti 144. Il vantaggio di un sito web è in primis per l’utente, al quale si offre una maggiore visibilità delle aste. Soprattutto per gli incanti immobiliari, nei quali figura una perizia svolta da un perito incaricato dall’ufficio esecuzione, immediatamente disponibile sul web. Prima, invece, occorreva recarsi all’ufficio esecuzione per visionarla. Questo generava un certo carico di lavoro e un’affluenza di persone per gli uffici,

soprattutto per vendite all’asta di oggetti particolarmente interessanti e oltretutto la visualizzazione comportava un costo per gli utenti nel caso di richiesta di una copia della perizia. Mentre su Internet tutto è più semplice, immediato, completo, gratuito e agevole». Non pone problemi la pubblicazione dei nomi dei debitori accanto a ogni oggetto che finisce all’asta? «Tutte le pubblicazioni delle aste sono conformi alle disposizioni di legge. In ogni caso, a prescindere dal sito online, le inserzioni delle aste vengono comunque pubblicate anche sul Foglio ufficiale. Ormai questa modalità di pubblicazione delle aste è in vigore in quasi tutti i cantoni della Svizzera». Ma partiamo brevemente dall’inizio: come si giunge all’asta? «Vi si arriva perché è stata avviata una procedura esecutiva, che può essere di pignoramento o in via di realizzazione del pegno, quando cioè la banca, ad esempio, non riceve i soldi dell’ipoteca e decide di mettere all’asta la casa. Però generalmente comincia con l’avvio di una procedura esecutiva, un pignoramento. E a questo punto l’oggetto bloccato a favore del creditore deve essere messo all’incanto. Qui abbiamo due diversi tempi tecnici previsti dalla legge: un bene mobile (un’auto, è il caso più classico) può essere venduto non prima di 1 mese, e al più tardi entro un anno dal pignoramento. Il debitore, pertanto, ha ancora un lasso di tempo a sua disposizione entro il quale saldare il debito o chiedere un pagamento rateale. Per i beni immobili (la casa, l’esempio più ricorrente) l’oggetto può invece essere venduto non prima di 6 mesi, e al più tardi entro 2 anni dal pignoramento. Se non si arriva a un accordo fra le parti l’asta, dunque, deve essere eseguita». La crisi economica incide sul termometro dei fallimenti? «Per quanto riguarda il pignoramento dei beni immobili si osserva una certa stabilità. Anche perché in questo periodo vigono tassi ipotecari relativamente bassi. Per i beni mobili – visto che il nostro è un cantone che primeggia per contratti di leasing – il bene è raramente di proprietà del debitore e pertanto non può essere pignorato. Si privilegia, dunque, il pignoramento del reddito: lo stipendio, l’indennità di disoccupazione, le prestazioni della cassa pensione, salvo chiaramente l’Avs. Questo spiega quanto di per sé non si assista a un significativo aumento del numero delle aste».

Fernando Piccirilli (a sin.) nel 2016 nel giorno della presentazione del nuovo Contact Center di Faido insieme a Frida Andreotti, direttrice della Divisione della Giustizia, Lallo Ruggeri, capoprogetto Contact Center e Norman Gobbi, direttore del DI. (Ti-Press)

Non tutto dunque è pignorabile? «Esatto. La legge prevede che siano pignorabili in primis gli oggetti più facilmente realizzabili, dapprima i beni mobili e in ultima analisi quelli immobili. Se, ad esempio, a un debitore l’auto (di sua proprietà) serve per andare a lavorare, non può essere pignorata, si andrà dunque a toccare il reddito. Chiaramente quando una persona è confrontata con i debiti è previsto dapprima un colloquio: il debitore viene convocato in ufficio o ci si reca noi al suo domicilio e in questa sede si stabilisce la sua posizione finanziaria personale, comprensiva di tutti i beni che possiede, poi verrà effettuato il calcolo del minimo necessario per vivere e si valuterà, in base al credito posto in esecuzione, quanto gli potrà o meno essere pignorato. Va inoltre detto che le parti sono tutelate, in quanto possono ricorrere contro ogni decisione dell’Ufficio esecuzione e dell’Ufficio fallimenti. Generalmente c’è una buona collaborazione. I casi ostici, naturalmente, non mancano. Occorre dire che gli strumenti a nostra disposizione sono ampi: lo Stato può verificare quante vetture

ognuno possiede o se ha immobili; dal canto suo deve produrre i documenti giustificativi per mostrare il proprio salario e le spese. La legge ci consente di informarci anche da terze persone per la valutazione del reddito e possiamo inoltre visionare le dichiarazioni delle imposte». Qual è il suo principale ruolo? «Fungo da coordinatore fra tutti gli uffici esecuzione del Cantone, presenti a Mendrisio, Lugano, Bellinzona, Locarno, Cevio, Biasca, Acquarossa e Faido. In quest’ultima località abbiamo creato il Centro di competenza cantonale per l’emissione dei precetti esecutivi e il Contact Center, si tratta di un punto di contatto a livello cantonale presso il quale si risponde alle diverse domande degli utenti. Il nostro sito Internet risponde già d’altro canto a molte informazioni utili, offrendo una sorta di procedura guidata. È inoltre possibile ricevere rapidamente gli estratti utili richiedendoli per e-mail, evitando così code agli sportelli». Ma quanti riescono a conciliarsi in tempo utile con chi batte loro cassa? «Occorre sapere che un’asta può essere

interrotta anche fino a un minuto prima del suo inizio. Basta che il creditore ci informi di aver trovato un accordo con il debitore ed ecco che la procedura si arresta. Il debitore, infatti, può estinguere il suo debito in ogni momento. Va detto che il numero di precetti esecutivi – nel 2018 se ne sono registrati 168mila in Ticino – eccede di gran lunga il numero effettivo di aste». E finita l’asta la procedura si conclude? «Se quanto abbiamo incassato basta per tacitare il creditore e pagare le spese d’esecuzione il caso è chiuso. Se rimane invece una parte scoperta, il creditore riceve un attestato di carenza beni, si tratta di un certificato di perdita della durata di 20 anni, un documento con il quale può avviare una nuova procedura esecutiva nei confronti del debitore». Nella sua esperienza quale posto trova la dimensione umana? «Questo lavoro è certamente arricchente anche dal punto di vista umano. Avere un debito non è una colpa. Può capitare a tutti, la perdita del posto di lavoro, un divorzio, una malattia. Poi ci sono – ma sono davvero pochi – coloro che invece sistematicamente non pagano».

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani David Almond, Il ragazzo che nuotava con i piranha, Salani. Da 10 anni Un romanzo che lo scrittore inglese David Almond aveva scritto nel 2012 e che ora vede la luce in italiano, dall’editore Salani, il quale ha pubblicato gran parte della sua produzione, a cominciare dal celebre Skellig (1998), vincitore della Carnegie Medal, fino al recente La canzone di Orfeo. Una produzione, quella di Almond, varia per età di destinazione e per i registri usati (più drammatico ad esempio nei libri appena citati, più umoristico in questo che stiamo ora presentando), ma sempre con una componente visionaria, leggermente surreale, un po’ oltre il confine con la realtà, e tuttavia in grado di far immedesimare il lettore, anche per la dimensione simbolica che pervade ogni sua storia. Qui il protagonista è Stan, un ragazzino che vive con gli zii, brava gente, almeno fino al momento in cui zio Ernie perde il lavoro e prova a inven-

tarsene un altro producendo pesce in scatola. Il povero Stan è costretto ad aiutarlo a ritmi serrati, fino al punto in cui, esasperato dal delirio dello zio, fugge, finendo per unirsi alla gente nomade del luna park, dove vivrà in mezzo a eccentrici personaggi. Folli e saggi come il tizio del banchetto «pesca-la-papera» e sua figlia Nitasha, e come il leggendario Pancho Pirelli, l’uomo che nuota nella vasca dei piranha e che diverrà un mentore per Stan. Perché Stan proprio questo farà:

riuscirà a nuotare, con una naturalezza inaspettata e sconfiggendo ogni paura, nella vasca dei temibili piranha. Un po’ come fosse questo il suo destino, la «sua leggenda personale», la sua strada dei sogni insomma, quella che ognuno di noi avrebbe il compito di seguire. E così il ragazzino mingherlino che viveva in una modesta villetta a Fish Quay Lane diventerà un eroe. Ma, avverte Almond, al contempo resterà anche quel ragazzino, e diventerà molte altre cose ancora: «Sarai lo Stan del pesca-la-papera, lo Stan dei giorni di Fish Quay Lane, e sarai anche lo Stan tutto nuovo che nuota con i piranha. Sii tutte queste cose contemporaneamente, e starà in questo tutta la tua grandezza». Un romanzo in cui la voce del narratore si rivolge esplicitamente al lettore e che ci parla dell’importanza di avere il coraggio di affrontare i propri «piranha» e che lo fa raccontandoci una storia surreale, ma non per questo meno «vera»: «Forse la verità e le storie [...] sono un’unica cosa».

Sonia Maria Luce Possentini, Fiori di neve, Interlinea. Da 7 anni «Il giorno prima di Natale iniziò a nevicare. La neve scendeva nel giardino di Nina come tanti petali bianchi. E lei s’immaginava che, in cielo, ci fossero dei giardinieri che coltivavano fiori speciali. Fiori di neve». Quest’anno il Premio «Storia di Natale», fondato dall’editore Interlinea, è stato vinto da Fiori di neve, dell’artista Sonia Maria Luce Possentini, le cui illustrazioni, così particolari nel loro stile realistico e onirico al contempo, si fanno notare in ogni suo libro per

l’intensità con cui si stagliano sulla pagina. Qui lei firma anche il testo della storia: una storia sognante e poetica, perfetta da leggere durante l’inverno. Tra l’altro il bianco della neve, elemento centrale in questa storia, è un colore prediletto da Sonia Maria Luce Possentini, che solitamente dosa pochi colori (il bianco e il rosso in particolare), per un effetto di grande maestria nella pulizia della pagina e nel gioco di luce. Nella luce e nei controluce, vola lo sguardo di Nina, perché Nina è una bambina che sa guardare, anzi «vedere». Nina vede la magia delle cose, la loro fugace delicatezza: i fiocchi di neve, la presenza nascosta degli animali tra gli alberi. Nina vede, e desidera: vorrebbe tenere in mano uno di quei fiori di neve che vengono giù dal cielo. E vorrebbe anche vedere gli animali del bosco, la notte di Natale, magari proprio vicino all’albero che risplende nel suo giardino. E forse, in questi giorni di festa, freddi fuori e caldi dentro il cuore, qualche piccolo miracolo potrà accadere.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 dicembre 2019 • N. 01

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Società e Territorio

La clinica legale per chi è vulnerabile Università A Ginevra un percorso di studio offre lo spazio

di riflessione per superare le discriminazioni

Laura Di Corcia Il 9 febbraio saremo chiamati alle urne a decidere come vogliamo agire in merito alla discriminazione degli omosessuali: se la popolazione elvetica dovesse approvare la modifica della legge, offendere una persona omosessuale diventerà un crimine perseguibile. Tempo di bilanci, quindi, tempo di capire se la società civile abbia fatto o no dei passi avanti in questo senso. A queste e altre domande abbiamo cercato di dare una risposta intervistando Nesa Zimmermann, co-responsabile del master offerto dalla Facoltà di Diritto dell’Università di Ginevra e chiamato Law clinic, in italiano «clinica legale»: un percorso di studio inaugurato nel 2013 e volto ad offrire agli studenti e alle studentesse uno spazio di analisi e riflessione sui diritti delle persone con vulnerabilità. Una casistica ampia, entro cui rientrano, fra le altre, anche le persone con diverso orientamento sessuale. Nesa Zimmermann, oltre a spiegarci gli intenti del programma, che vuole innanzitutto far circolare meglio l’informazione sui diritti esistenti e non rispettati, ha anche posto l’accento su quanto resti ancora da fare nel nostro Paese per superare le discriminazioni.

Signora Zimmermann, da dove è partita l’idea di questo corso di laurea? Che scopi si prefigge?

La Law clinic nasce circa dieci anni fa negli Stati Uniti e oggi oltreoceano è ampiamente diffusa: tutte le Facoltà di diritto americane propongono corsi di laurea volti a analizzare e delineare i diritti delle persone vulnerabili. L’idea è quella di fare qualcosa di pratico con gli studenti, andando a lavorare quindi sulle domande che la stessa società civile pone. La Law clinic non si pone solamente l’obiettivo formativo, ma ha lo scopo, forse utopico, di partecipare attivamente alla costruzione di una società più equa.

Qual è il significato profondo dell’espressione «vulnerabilità giuridica»? In che modo il vostro lavoro nelle sedi accademiche può avere un riscontro effettivo anche nella realtà?

Con l’espressione «persone con vulnerabilità» ci riferiamo a tutti quei gruppi di persone i cui diritti sono o non rispettati o non conosciuti. Lavorando sui diritti di queste persone, infatti, ci siamo accorti che, al di là delle lacune ancora esistenti, in tanti casi la legge c’è ma non è rispettata, spesso nemmeno conosciuta. Facciamo un esempio concreto: quando ci si mette alla ricerca di un appartamento, spesso bisogna com-

pilare alcuni formulari che i proprietari di casa consegnano ai futuri inquilini. Una domanda classica riguarda lo stato civile. Ecco, in questo caso esiste un diritto che spesso si ignora: la legge prevede che si possa mentire, affermando di essere sposati e nascondere il fatto di aver stipulato un partenariato civile. Questo ovviamente per proteggere le coppie di fatto dello stesso sesso, che spesso fanno molta più fatica a trovare un appartamento dove poter vivere serenamente la loro quotidianità e i loro affetti. Una cosa simile capita alle donne, quando affrontano un colloquio di lavoro e viene chiesto loro se hanno intenzione di fare un figlio...

Anche in questi casi è utile sapere che non dire la verità è un diritto che può tutelare rispetto ad eventuali discriminazioni. Spesso manca l’informazione ed è giusto e corretto che questa circoli; talvolta, invece, la legge è carente. Anche in questo caso il Master sta cercando di far compiere dei passi: per esempio abbiamo partecipato all’elaborazione di una legge cantonale a Ginevra volta a combattere le discriminazioni di genere e di orientamento sessuale. Per rimanere nell’ambito del canton Ginevra, ci siamo occupati del caso di un ragazzo divenuta ragazza che faticava a farsi riconoscere nella sua

La pubblicazione della Law clinic di Ginevra dedicata alle persone LGBT è stata tradotta anche in italiano.

nuova identità femminile all’interno della sua sede scolastica, prima che il cambiamento di sesso venisse registrato a livello giuridico. Anche questo è un diritto fondamentale che spesso viene negato; la scuola diceva di non poterlo fare perché i regolamenti non lo permettevano. Ma i regolamenti vanno aggiornati e i diritti delle persone vanno sicuramente messi al primo posto.

Secondo lei, quanto rimane da fare a livello di società affinché questi diritti fondamentali vengano riconosciuti?

Ogni gruppo ha una storia a sé stante, molto diversa da quella degli altri. Per esempio, la situazione delle persone transessuali è distante da quella dei migranti. La risposta non è univoca. Per quanto riguarda le persone LGBT, che è il tema di cui ci siamo occupati negli ultimi due anni di corso, mi sembra che in questo momento ci sia un bel progresso da parte della società. Su due livelli: da una parte i diritti degli omosessuali, dei bisessuali e dei trans sono riconosciuti maggiormente dalle

persone, dall’altra anche la legge supporta meglio di prima le loro istanze. Attualmente sono in discussione diversi progetti legislativi a livello federale: il matrimonio per tutti, la modifica del codice civile per facilitare il cambiamento del sesso legale, la criminalizzazione dell’omofobia (la modifica del codice penale, che sarà approvata nel febbraio 2020, art. 261 bis CP, ndr). I diritti delle persone LGBT vanno avanti, ma questi passi portano anche qualche ripercussione: per esempio, incidenti omofobici causati dalla discussione sulla criminalizzazione dell’omofobia, appunto. Quella che percepisco è una continua oscillazione tra progresso e istanze conservatrici. Bisogna anche prestare attenzione ai «falsi anticipi»: ad esempio, il matrimonio per tutti, ma «light», senza accesso alla procreazione medicalmente assistita e senza pensione di vedovanza, che è discriminatorio per le donne lesbiche. Si tratta quindi di un passo avanti che però non va fino in fondo. Meglio accontentarsi o lottare ancora? La risposta non è facile. Annuncio pubblicitario

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Ambiente e Benessere I vini della Gironda Vicino a Libourne troviamo le due appellation più prestigiose: Saint-Émilion e Pomerol

La cucina per eccellenza Primo di tre articoli dedicati alla cucina francese, tuttora considerata la migliore al mondo pagina 11

Animali in fotografia Sono sempre più frequenti le foto dei o con i nostri animali preferiti – e c’è chi si specializza in questo pagina 13

pagina 10 Su www.azione. ch una più ampia galleria fotografica. (Amanda Ronzoni)

108 rintocchi per purificare l’anima

Reportage Voliamo in Giappone per assistere ai festeggiamenti dello Oshōgatsu (正月), ovvero il passaggio

dal vecchio al nuovo anno Amanda Ronzoni Sarà una fine d’anno un po’ insolita. Niente cenone tradizionale. Lasciamo anzi il ristorante verso le 21, con una certa fretta, per arrivare in tempo al Chionin (知恩院), nel cuore di Kyoto. Il tempio è sede dello Jōdoshū (浄土 宗), la scuola della Terra Pura, filosofia buddhista che arrivò Giappone e si diffuse grazie all’opera del monaco Honen Shonin, fondatore, nel 1175, dell’omonima setta che ancor oggi, insieme a quella del Buddhismo Zen, vanta il maggior numero di seguaci nel paese. Qui, come in moltissimi templi, nella notte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio, ogni anno si celebra la cerimonia dei 108 rintocchi (Joya no kane, 除夜の 鐘), rito di purificazione che permette ai fedeli di prepararsi all’anno nuovo. Si ritiene infatti che il cuore dell’uomo sia afflitto da 108 desideri, o passioni, che vengono cancellati uno ad uno, come annullati, dai rintocchi della campana. Il Chioin è tradizionale meta di pellegrinaggio da parte dei giapponesi, che arrivano da ogni dove, per via della sua campana, così grande che per essere suonata a dovere richiede l’inter-

vento di una squadra di ben 17 corpulenti monaci. A turno, appesi alle corde, sfruttano il peso del proprio corpo per spingere con più forza possibile un pesante tronco contro l’enorme campana, che tra il XVII e il XIX secolo era ritenuta la più grande al mondo. L’ultimo rintocco deve cadere alla mezzanotte, in modo che sia anche il primo suono del nuovo anno. Ecco perché ogni anno, davanti a questo tempio in particolare, a partire dalle 8 di sera, si raccoglie una grande folla. Secondo la tradizionale compostezza giapponese, le persone di dispongono in una fila ordinata davanti all’ingresso e attendono pazientemente di poter entrare, con il freddo che morde gambe e piedi, con qualsiasi condizione meteo. Un lungo serpente umano si allunga lungo i recinti del Chioin fino a che gli appositi addetti, con tanto di cartelli che segnalano la fine della coda, non decretano che si è raggiunto il numero massimo di persone stabilito, quindi chiudono il corteo. Tutti quelli che arrivano dopo possono solo stare a guardare i fortunati entrare o decidere di recarsi altrove (a Kyoto ci sono ben 1600 templi buddhisti). La

fila non è limitata da corde o transenne, ma a nessuno verrebbe mai in mente di accodarsi «di sfroso»: chi resta fuori riproverà il prossimo anno. I monaci cominciano a suonare e l’eco delle loro grida, insieme ai rintocchi, comincia ad arrivare mentre ci spostiamo, pazienti, metro dopo metro, dall’entrata, lungo i viali che si snodano all’interno del tempio. Ci vogliono un paio di ore buone per arrivare fin nei pressi del padiglione che ospita la campana. La sua vibrazione si fa sempre più forte. La lentezza con cui si avanza, l’umidità e qualche goccia di pioggia non sembrano scoraggiare nessuno. I pellegrini arrivano, assistono ad un paio di rintocchi e poi vengono gentilmente fatti uscire. Il nostro timing è perfetto: raggiungiamo la meta proprio poco prima della mezzanotte, con un giovane monaco che scandisce i secondi che ci separano dal nuovo anno. La scena è solenne. L’illuminazione suggestiva. I monaci sono tutti raccolti intorno alla campana: 16 di loro, ognuno una corda in mano, fanno oscillare avanti e indietro il tronco che la colpirà. Il monaco di turno a suonare il rintocco grida «Ee hitotsu» (ancora una volta!),

gli altri gli fanno eco e poi rispondono in coro «Sōre» (Ora!), al che il primo si appenderà alla corda principale con tutto il suo peso vibrando il colpo sulla campana. La gente intorno sgomita per prendere foto e registrare video, con gli uscieri che pazienti, ma inflessibili fanno fluire il pubblico verso l’uscita. C’è molta partecipazione, è un momento molto sentito dai giapponesi. Ci sono persone di ogni età e anche diversi stranieri. Il ritmo dei rintocchi, le vibrazioni della campana, le voci ieratiche dei monaci creano una suggestione forte che fa dimenticare stanchezza e freddo. Usciamo un po’ frastornati e raggiungiamo la strada che porta allo Yasakajinja: il viale è completamente invaso da una marea umana che attende di entrare nel santuario shintoista (la religione autoctona del Giappone) per il rito del Hatsumōde (初詣) ovvero la prima visita dell’anno. Durante i tre giorni di festa dell’Oshōgatsu (正月) sono molto importanti tutte le «prime azioni» che si compiono: la prima visita al tempio o al santuario, il primo rintocco di campana, assistere alla prima alba, ma anche il primo giorno di lavoro, e così via. È

quindi importante arrivare con il cuore puro, depurati dalle scorie nefaste che hanno funestato l’anno passato. Per questo si pulisce accuratamente la casa, si adornano gli ingressi con kadomatsu (門松), decorazioni tradizionali fatte di pino, o in bambù, che secondo la tradizione servono ad accogliere gli ospiti, ma anche i kami (divinità) dell’abbondanza, si predispongono gli shimekazari (しめ飾り), composti da strisce di carta e fili di paglia o riso, che proteggono le abitazioni tenendo lontani gli spiriti maligni, attirando invece quelli benevoli. A dispetto del volto iper-tecnologico del Giappone contemporaneo, i riti di Capodanno ci parlano insomma di tradizioni antichissime che la modernità estrema non è riuscita a cancellare, ma che si mantengono vive e presenti in un paese che ha nei grandi contrasti uno dei suoi innegabili punti di fascino. Passato e futuro, tradizione e progresso, religione e tecnologia sono infatti solo alcune delle tante facce di un un’anima complessa e tutta da scoprire. Tanti auguri di Buon Anno! 明けましておめでとうございます (Akemashite omedetoo gozaimas)!


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Ambiente e Benessere

La capitale del Merlot

Scelto per voi

Bacco giramondo Nei dintorni di Libourne, nella Gironda, troviamo le due principali

appellation di prestigio: Saint-Émilion e Pomerol Davide Comoli Il Libournais è la regione della Gironda situata sulla riva destra della Dordogna, a est di Bordeaux, e si estende fino ai confini dell’Aquitania. Due sono le principali appellation di prestigio: Saint-Émilion e Pomerol, ma sarebbe un errore trascurare i «terroir» di Fronsac, Canon Fronsac, Côtes Francs e le Côtes-de-Castillon. Qui siamo lontani dai grandi Châteaux del Médoc, le proprietà sono molto più ridotte, inoltre i vini di questa zona sono stati confinati per lungo tempo solo al consumo locale. Solo agli inizi del ’900 gli appassionati di tutto il mondo hanno avuto modo di conoscere i vini prodotti da un vitigno a bacca rossa, il Merlot! In effetti grazie a suoli molto diversi, composti prevalentemente d’argilla mischiata a sabbia, ciottoli e calcare, il Merlot impera, avendo trovato l’habitat ideale. Insieme al Cabernet Franc, qui si producono dei vini che uniscono qualità, morbidezza e forza, con aromi fini e sottili, adatti all’invecchiamento. Oggi la complessità di questi magnifici crus come Cheval-Blanc, Ausone, Belair, Petrus, Angelus, Vieux Certan, tanto per citare i più noti, sono universalmente riconosciuti e ci stupisce il fatto che i mediatori bordolesi in-

caricati di stilare la famosa classifica di crus del 1855 non abbiano incluso questi nomi. Gelosia? Soldi? È bello perdersi nelle stradine che intersecano questa regione, da una cima all’altra si scoprono affascinanti piccoli borghi, boschi, ruscelli, vigneti e l’impetuosa e limacciosa Dordogna. Qui è più facile rispetto al Médoc trovare un buon ristorantino per gustarsi un’ottima Lamproie à la bordelaise, con il buon rosso in cui è stata cucinata, un Côtes-de-Castillon di 5 anni. Il territorio di Saint-Émilion (classificato dall’Unesco), è spesso considerato come «la Borgogna» del bordolese, e deve tale contraddizione non solo alle ridotte dimensioni delle proprietà, ma soprattutto alla gentilezza dei suoi abitanti, sempre propensi a stappare una bottiglia in compagnia, a differenza del Médoc. Qui la viticoltura era già praticata prima del III secolo dopo Cristo, non lontano dalla città il poeta latino Ausonio (300 d.C. ca.), coltivava la propria vigna e fu il primo a scrivere di viticoltura della regione. Il nome della città deriva dal monaco bretone Émilion, che si installò in una delle grotte dove oggi sorge la chiesa simbolo di Saint-Émilion, costruita con i blocchi di calcare usati anche per le case del villaggio. Città piena di storia,

St.-Émilion nel XII secolo, fu elevata al rango di «villa» e autorizzata ad eleggere il proprio Consiglio Comunale sotto il nome di «Jurade» da Giovanni senza Terra, fratello del più famoso Riccardo Cuor di Leone e figlio di Enrico II il Plantageneto e di Eleonora d’Aquitania. I vini della regione si distinguono per il loro terroir e per la percentuale molto contrastata dei tre principali vitigni usati per l’assemblaggio, vale a dire: Merlot, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon. Alcuni assemblano in proporzioni equilibrate Merlot e Cabernet, altri propongono vini dove predomina il Merlot, come nel Pomerol, mentre a Cheval-Blanc, la parte del Cabernet Franc è del 60% ed alcuni usano una percentuale dal 20-25% di Cabernet Sauvignon, inusuale per queste zone. L’appellation Pomerol confina con la città di Libourne (non perdete, se ne avete occasione, il mercato dei fiori che si tiene alla domenica mattina), era per lo più sconosciuta sino agli anni 50, è diventata ora una delle appellation più prestigiose francesi e non solo. Il suo terroir ricco d’argilla con scorie ferrose, dona al vitigno Merlot il massimo della sua espressione, qui troviamo, anche se a volte difficili da scovare, vigneti come Petrus, Le Pin, la Conseillante, Vieux Certan, Lafleur, tanto per citare i più conosciuti. Il cer-

Saint-Émilion, attorniata dai vigneti. (Keystone)

care questi produttori ci porta in un paesaggio quasi piatto, pochi boschi ma un oceano di vigne, Qui il vigneto è talmente fitto che quasi non ci sono villaggi ma solo case sparse e ci si riesce a raccapezzare solo seguendo con lo sguardo i campanili delle chiese. È difficile anche trovare qualche buon luogo dove pranzare e ancor più un’enoteca dove acquistare qualche bottiglia. Il vigneto del Pomerol fu creato nel XII sec. dall’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, che coltivavano la vite per la Chiesa e per i pellegrini diretti a Compostela. I vini del Pomerol non sono mai stati classificati, ma come abbiamo accennato sopra, includono crus eccezionali (vedi Petrus). Le varietà dei terreni (ricco di ossido di ferro) donano vini diversi, troviamo infatti sia note fresche, inebrianti e della liquirizia in alcuni, o complessi, dai tannini vellutati, robusti in altri, in generale hanno tutti comunque una buona materia colorante e ricchezza in profumi ed aromi. La regione di Fronsac e di CanonFronsac è ad ovest di Libourne, la città di Fronsac si trova tra due fiumi, la Dordogna e l’Isle, i vitigni sono sempre gli stessi, ma a volte si trova anche del Malbec e i vini prodotti sono di corpo, dagli aromi intensi ed opulenti, con sentori speziati e di tartufo, vini che già erano molto apprezzati alla corte di Luigi XIV. Il vino prodotto può già essere consumato 2 anni dopo la vendemmia, ma esprimono il loro carattere migliore dopo 8-10 anni. Siccome poi il rapporto qualità-prezzo di questi vini è molto interessante, se avete occasione mettete in cantina alcune di queste bottiglie: Ch. Fontenil, Ch. La Fleur-Cailleau, Ch. La Rivière, per citarne qualcuna. Un po’ più a sud, su terreni accidentati, troviamo Castillon-la-Bataille, borgo noto per essere stato teatro della vittoria francese sull’occupante inglese, che pose fine alla triste guerra dei 100 anni (1458). Il borgo conta circa 2800 ettari vitati: i vini prodotti necessitano almeno 3 anni d’invecchiamento per ammorbidirsi, anche qui troviamo ottimi prezzi d’acquisto.

Champagne De Sousa Tradition

Vino incomparabile da bersi in tutti i momenti e in tutte le circostanze, lo Champagne è la bevanda per eccellenza. Già all’apertura della bottiglia l’orecchio è stimolato dal leggero botto e in seguito dallo schioppettìo delle sue migliaia di bollicine, piacere per l’occhio che ne ammira le sue evoluzioni e la sua cristallina limpidezza. Celebriamo quindi l’arrivo del Nuovo Anno stappando una bottiglia di Champagne De Sousa Tradition, assemblaggio (chiamati vini di riserva) di diverse annate di Pinot Nero, Chardonnay e Pinot Meunier, vigne situate nel villaggio di Grand Crus di Avize e nella Côte de Blancs. La coltivazione delle uve è fatta in modo biodinamico, utilizzando lieviti locali, usando piccole botti di quercia si ottengono vini con una fermentazione malolattica. Al naso percepiamo aromi di agrumi e mandorle fresche, apprezziamo al palato la sua freschezza, l’effervescenza, l’intensità e la persistenza delle sensazioni gusto-olfattive. Cogliamo quindi il magico attimo che intercorre tra la fine e il principio dell’Anno Nuovo stappando una bottiglia di De Sousa dalla spuma elegante e dal profumo ipnotizzante. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 56.–. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 dicembre 2019 • N. 01

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La regina delle cucine

Ambiente e Benessere

Allan Bay Iniziamo l’anno parlando della importante ed amatissima cucina francese. È un argomento lungo, prenderà 3 uscite. Raffinata e sofisticata, la cucina nazionale francese è quella che oggi viene chiamata, anche, «internazionale» o haute cuisine. Affonda le sue origini nella corte di Versailles e nella ricchissima nobiltà settecentesca, i cui cuochi crearono non solo dei piatti divenuti famosi ma anche uno «stile», trasmesso poi alla borghesia nata dalla rivoluzione francese. Grandi nomi punteggiano la storia della gastronomia d’oltralpe: da La Varenne (XVII sec.) a Brillat-Savarin e Carême (secc. XVIII-XIX) a Escoffier (sec. XIX), per citare solo i nomi fulgidi che hanno fatto grande il nome della Francia nel mondo gastronomico, e non solo. Nonostante il successo e lo sviluppo internazionale delle cucine italiana e spagnola, cinese e giapponese, il vessillo della grande cucina è ancora sostanzialmente in mano alla Francia: certo, non tutti sono d’accordo con questa affermazione, ma chi scrive ne è convinto – non felice, non ha senso essere felici di una cosa del genere, solo convinto.

Lo stile affonda le radici nella corte di Versailles e nella ricca nobiltà settecentesca; venne poi trasmesso alla borghesia nata dalla rivoluzione del 1789 Alla costruzione del suo primato hanno contribuito anche le diverse tradizioni culinarie delle sue regioni, che senza mai perdere le proprie connotazioni – sempre ricercate e complesse – hanno influenzato gli artefici della haute cuisine. Ma la grandeur della gastronomia francese non dipende solo

dalla fantasia e dall’arte dei suoi cuochi: il vasto assortimento di materie prime di standard qualitativo elevato ha avuto la sua importanza. Dai vini ai polli di Bresse, ma anche dalle prugne alle patate, la nazione francese vanta una lunga serie di prodotti ottenuti seguendo i severi e rigidi disciplinari di produzione dei diversi marchi di qualità: AOC (Appellation d’Origine Contrôlée), Label Rouge, AOP (Appellation d’Origine Protégée), IGP (Indication Géographique Protégée), STG (Spécialité Traditionnelle Garantie), AB (Agriculture Biologique). È opinione abbastanza diffusa – forse dovuta all’identificazione che si è generata tra cucina internazionale e cucina francese – che la cucina francese sia piuttosto uniforme; in realtà presenta molte sfaccettature dovute principalmente al clima: non va infatti dimenticato che la Francia è un vasto territorio che si estende verso tutti i punti cardinali, perciò le differenze sono marcate: così il burro e le mele della Normandia, per esempio, si contrappongono all’olio di oliva e ai pomodori della Provenza, le ostriche della Bretagna ai crauti con würstel dell’Alsazia, per fare solo degli esempi. Certo, esistono anche i caratteri comuni, il più… legante dei quali è la passione per le salse e per i fondi. Alla cucina classica francese – anzi, parigina DOC – appartengono piatti entrati stabilmente nella gastronomia internazionale, come il potage Parmentier (cremosa zuppa preparata con porri e patate), il bisque di crostacei (nella foto), i diversi aspic, il consommé con i bignè al formaggio, la celeberrima soupe à l’oignon, le numerose terrine di carni diverse, la quiche lorraine (con pancetta, uova e panna, e la sua variante con salmone), le lumache alla borgognona, il coq au vin, l’anatra all’arancia e ancora preparazioni dolci e salate quali le crêpes, le mousse, i soufflé o la dolce charlotte (morbido dessert freddo, al cucchiaio, composto da strati alternati di biscotti e una mousse o una marmellata).

Keystone

Gastronomia Prima di tre puntate dedicate alla cucina francese, nota come Haute cuisine o «internazionale»

CSF (come si fa)

Parliamo di budini. Sono una preparazione che ogni tanto mi capita di rimuovere mentre altre volte preparo con grande piacere: non capisco questa mia ambivalenza, misteri della psiche. Vediamo come si fanno due classici, amati budini. Budino di ricotta. Per 4 persone. Setacciate 500 g di ricotta, amalgamate un uovo e 4 tuorli, una manciata di farina ben setacciata, 4 cucchiaiate di

zucchero e un pizzico di cannella; se volete anche di chiodi di garofano e noce moscata. Tagliate a dadini 40 g di canditi, grattugiate la scorza di un limone non trattato, mescolateli con 2 bicchierini di rum o di vino dolce e uniteli al composto di ricotta. Montate a neve ben soda i 4 albumi e amalgamate anch’essi, mescolando con delicatezza. Versate il composto in uno stampo liscio, spolverizzato di farina e senza superare la metà dell’altezza. Cuocete in forno a 160° per 30 minuti. Levatelo dal forno, fatelo raffreddare, sformatelo e spolverizzate con 4 cucchiaiate di zucchero profumato con ancora un pizzico di cannella o delle spezie che avete usato. Budino d’arancia. Per 4 persone. Lavate 2 arance grosse e non trattate e mettetele in una casseruola con acqua

fredda. Portate a bollore e fate cuocere finché risulteranno morbide. Scolatele, mettetele in una terrina, copritele con altra acqua e lasciatele a bagno per 24 ore, in modo che perdano il sapore amarognolo. Mettete 100 g di burro ad ammorbidire per circa un’ora fuori dal frigorifero. Tagliate le arance a fette, eliminate i semi e frullatele. Mettete il composto ottenuto in una terrina, unite 60 g di zucchero e il burro. Mescolate con un cucchiaio di legno e aggiungete 4 tuorli incorporandoli con cura. Montate a neve ferma 4 albumi e uniteli alla preparazione mescolando delicatamente dal basso verso l’alto. Imburrate uno stampo da budino, versatevi la preparazione, coprite il recipiente e fate cuocere a bagnomaria per un’ora. Lasciatelo raffreddare prima di servirlo.

Ballando coi gusti Oggi due buoni primi, anzi sono praticamente piatti unici, nel senso che sono ricchi sia di proteine sia di carboidrati.

Pasta al baccalà

Riso con salsiccia e peperoni

Ingredienti per 4 persone: pasta a piacere g 320 · baccalà ammollato g 240 · salsa di pomodoro · 20 olive nere denocciolate · soffritto di cipolle · prezzemolo · olio di oliva · sale e peperoncino.

Ingredienti per 4 persone: riso g 320 · salsiccia g 240 · 1 peperone rosso · 1 cuore di lattuga · piselli g 100 · soffritto di cipolle · brodo di carne · burro · sale.

Prendete il baccalà, tagliatelo a piacere e rosolatelo in una casseruola con poco olio per 2 minuti. Aggiungete 4 cucchiai di salsa di pomodoro, 2 cucchiai di soffritto di cipolle e le olive e cuocete per 5 minuti. A fine cottura regolate eventualmente di sale e profumate con peperoncino e prezzemolo tritato. In una pentola capiente portate a bollore abbondante acqua salata, gettate la pasta, fatela cuocere, scolatela al dente, calatela nella casseruola con il sugo e fate saltare per 1 minuto, unendo un poco dell’acqua di cottura.

Mondate il peperone, tagliatelo a dadini. Lavate la lattuga e tagliatela a listarelle sottili. In un tegame rosolate per 5 minuti la salsiccia privata del budello e tagliata a rondelle. Aggiungete il peperone, 2 cucchiai di soffritto, la lattuga e i piselli, regolate di sale e cuocete per 5 minuti, mescolando. Intanto cuocete il riso in una casseruola unendo il brodo bollente necessario, mestolo dopo mestolo. Alla fine conditelo con 40 g di burro. Servite il riso mescolato con il sugo.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 dicembre 2019 • N. 01

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Ambiente e Benessere

Una foto è per sempre

Mondoanimale Farsi fotografare con i propri animali: un’abitudine sempre più in voga

Maria Grazia Buletti I social ci hanno abituato a un bombardamento di immagini che ormai consideriamo come una consuetudine acquisita. La comunicazione «spicciola» va sempre più verso l’uso di meno parole e più fotogrammi. Nemmeno i nostri beneamati animali sfuggono a questa tendenza: abbiamo cominciato a fotografarli sempre di più, col risultato che i nostri social più comuni come Facebook e Instagram, per fare un paio di esempi, sono sempre più inflazionati da cani, gatti, serpenti, furetti e chi ne ha più ne metta. Ma non finisce qui, anzi: è tutto un «work in progress» direbbero i più «social-addict» (per utilizzare lo stesso loro gergo, ci perdonino i puristi della lingua italiana). Così abbiamo cominciato a sentire qua e là di offerte per immortalare i nostri animali domestici da parte di fotografi professionisti, alcuni dei quali si sono per così dire pian piano specializzati e organizzati di conseguenza con set fotografici includenti biscottini per cani e gatti, palline, giochini vari e altri aggeggi per attirare l’attenzione del modello animale. Cani e gatti vanno per la maggiore, naturalmente, e ne è un esempio il recentissimo ritrovo dei cagnolini di razza Chihuahua iscritti al Chihui Dog Club di Lugano. I proprietari si sono incontrati su un vero e proprio set, allestito per l’occasione dalla fotografa Nathalie Anselmini, per posare a tema dei 12 mesi dell’anno necessari alla produzione del calendario 2020. Uno «shooting fotografico» che umani e chihuahua hanno preso molto sul serio, e alle migliori 5 fotografie prometteva l’abbonamento annuo a una rivista dedicata agli animali. Un’esperienza alla quale, onestamente, un po’ per gioco e un po’ per curiosità verso il fenomeno che non possiamo ignorare, chi scrive ha partecipato vedendo assegnare al suo Chihuahua Schwarz il mese di gennaio 2020. «Niente di nuovo sul fronte occidentale», si può affermare tirando in ballo un classico della letteratura. Certo che no, finché non ci siamo imbattuti nella fotografa Maritza Polignone, una freelance che

«Voglio aiutare i contadini a fissare i ricordi, la loro vita e la loro famiglia». (Maritza Polignone)

vive in valle Leventina e fotografa… mucche e maiali! «Di preferenza, lavoro soprattutto fotografando gli animali perché, per il mio modo di approcciarmi, mi riesce più facile e soddisfacente: gli animali danno segnali inequivocabili, rimangono sinceri, che ti piaccia o meno, mentre le persone comunicano spesso con segnali ambivalenti», ci racconta Maritza che dice pure di non aver bisogno di un set fotografico in uno studio. Già, perché lei fotografa felicemente animali che deve andare a trovare nel proprio ambiente naturale: «Amo la naturalezza dell’ambiente, del momento e del contesto dell’animale che fotografo». Fin qui ci siamo, ma ancora ci chiediamo perché proprio le mucche, pensando agli aspetti tecnici come la posa, e tutte le esigenze di cui lo scatto fotografico abbisogna. «Studio a priori la natura degli animali che fotografo perché penso che bisogna conoscerli

prima di iniziare. Parlo con i proprietari che mi spiegano il temperamento e gli aneddoti che caratterizzano la propria mucca preferita, ad esempio, così mi faccio un’idea di cosa mi aspetta e provo a cogliere l’attimo dell’animale nel suo ambiente». Polignone dice di aver cominciato a fotografare le mucche come logica conseguenza del vivere in una valle: «Le ho sempre viste nelle stalle. Ho una cugina nel canton Turgovia che ha 60 mucche da latte e ho un grande rispetto per i contadini, per quello che fanno, e voglio contribuire ad aiutarli a fissare i loro ricordi, ciò che fa parte della loro vita e della loro famiglia». Il suo discorso non fa una piega: il cane o il gatto per molti, la mucca per i contadini. Fotografare una mucca non differisce poi molto dal fotografare un altro animale, anche se sotto certi aspetti richiede un approccio differente: «Le mucche sono buone, però hanno ciascuna un proprio

carattere di cui bisogna tenere conto. Ad esempio, durante un servizio una mi ha caricata». In casi come questo aiuta conoscere l’animale e saper cosa fare di conseguenza: «D’istinto viene voglia di fuggire, invece bisogna entrare nel suo campo visivo allargando le braccia e stando fermi. Noi umani siamo grandi e quando la mucca arriva si ferma senza venirci addosso. Questa mucca voleva solo farmi capire che ero nel suo territorio. Ho abbassato l’apparecchio che per lei rappresentava qualcosa di puntato contro, e tutto si è risolto». Per contro, le mucche sono molto affezionate ai loro proprietari: «Ho fotografato un amico fattore a Personico tra gattini e dietro le corna della sua mucca, sotto il suo mento: la mucca gradiva, era dolcissima e allungava il collo come i gatti. Altri contadini mi hanno chiesto di fotografarli con la loro mucca per la foto di Natale; a una fami-

glia giovane che aveva appena iniziato l’attività ho fatto un servizio fotografico con le loro mucche; a Novazzano mi ha chiamato una giovane coppia di contadini che voleva un servizio premaman dove fosse presente pure la loro unica mucca bruna». Raccontando tutti gli aneddoti e le storie di vita bucolica che ricorda, Maritza dice di aver capito quanto sia speciale per il contadino il rapporto con la propria mucca: «Un rapporto unico!». Alla fine, ciliegina sulla torta, ci confida di fotografare spesso anche i maiali: «Sono molto mansueti e intelligenti, non sono per niente territoriali e ho scoperto che guardare l’occhio di un maiale è sorprendente perché nasconde tante cose: non è un caso che assomigli a quello umano!». Anche gli animali della fattoria si sono dunque evoluti verso l’era social e i loro proprietari non sfuggono all’idea universale che una foto è per sempre.

Arriva l’erede della Peugeot 205 GTI

Motori La casa automobilistica presenta la nuova 208, nelle versioni benzina, diesel ed elettrica Mario Alberto Cucchi Una e trina. È la nuova Peugeot 208. Per la prima volta l’utilitaria del costruttore francese, l’erede della mitica 205, è disponibile con tre diverse motorizzazioni. Benzina, diesel ed elettrico.

Parliamo subito di prezzi. Per mettersi al volante di una 208 in versione «Like» alimentata a benzina ed equipaggiata con il cambio manuale servono 18’300 franchi svizzeri. Una cifra che quasi raddoppia per la e-208 elettrica in allestimento «Active» con cambio automa-

La vera erede della 205 GTI è la 208 versione elettrica. (Peugeot)

tico, dove servono 34’350 franchi. Una bella differenza. Fatta questa prima distinzione, va evidenziato che l’equipaggiamento dell’elettrica è sicuramente più completo. Dai fari dotati di tecnologia led, al cambio automatico all’accensione senza chiave. Ma ciò che fa la differenza sono soprattutto le prestazioni, dato che la e-208 è la vera erede della 205 GTI. Non tanto per la velocità massima limitata a 150 chilometri orari, quanto per la potenza di 136 cavalli, la coppia di 260 Nm e l’accelerazione da ferma a cento orari in soli 8,1 secondi. Sulla indimenticabile e sportiva Peugeot 205 GTI 1.9 il cronometro si fermava a 7,8 secondi. Le batterie? Sono posizionate all’interno del pianale, ecco allora che il baricentro molto più basso rispetto ad una vettura tradizionale si trasforma in un effetto kart. La e-208 resta attaccata alla strada e limita i trasferimenti di carico. L’autonomia? La Casa dichiara 340 chilometri secondo il nuovo ciclo di omologazione WLTP. Usando il piede leggero l’autonomia di 340 chilometri non è una chimera. Se si guida solo in ambito urbano con molti stop & go o premendo a fondo l’acceleratore, ovvia-

mente l’autonomia diminuisce di molto. In sostanza il risultato è davvero positivo e il merito va a un pacco batterie agli ioni di litio da 50 kWh. Il «pieno» sino all’80% della capacità si può fare in soli 30 minuti presso le colonnine di ricarica rapida ad alta potenza da 100 kw. Si può anche utilizzare una presa standard del garage di casa, però una notte intera potrebbe non bastare. L’ideale è utilizzare una wallbox magari da 7 kwh. Va detto che con 340 chilometri di autonomia, utilizzando l’auto solo in ambito urbano, si potrebbe ricaricare anche una volta a settimana o per poco tempo tutti i giorni. Le caratteristiche tecniche della 208 sono molto simili a quelle della 2008 ma cambia la sostanza. Questa è un’utilitaria mentre la 2008 è un SUV. Grandi novità per la 208 si trovano anche all’interno dell’abitacolo, dove debutta l’i-cockpit 3D di nuova generazione. La profondità è data da due schermi su piani differenti. Le informazioni più importanti sono visualizzate in primo piano mentre le altre in un secondo livello visivo. Proprio come in un film 3d si ha un effetto tridimensionale. Secondo gli ingegneri questa tecnologia permette una messa a fuoco

migliore sulla strada e una conseguente reattività del pilota aumentata. Da test effettuati risulta che in una frenata di emergenza effettuata a 100 orari l’auto si arresta 15 metri prima. D’altra parte si sa, Peugeot punta molto sulla sicurezza: sulla 208 sono disponibili i sistemi di guida autonoma ADAS di tipo 2. Non solo la tecnologia, innovativo è anche il design degli interni, come la tastiera effetto pianoforte messa sotto il display. Una chicca? Sulla e-208 la climatizzazione parte anche senza l’avvio dell’auto grazie alla tecnologia inverter simile a quella dei climatizzatori domestici. La vettura può essere preriscaldata d’inverno o preraffreddata d’estate anche a distanza tramite comandi impartiti da una «app» sul telefono cellulare. Una tradizione avanguardista quella di Peugeot, che utilizza oggi per la e-208 una nuova piattaforma modulare E-CMP (e-common modular platform) abbinata al propulsore elettrico. Una base che può essere utilizzata dagli altri marchi della galassia PSA ovvero Opel, Citroen e DS. Adesso che la fusione con il gruppo Fiat è ufficiale anche FCA, potrà presto attingere alle tecnologie PSA.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 dicembre 2019 • N. 01

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Politica e Economia Luigi Di Maio: il trionfo del nulla Che cosa dire sul suo conto? Per lui parlano i disastri che ha combinato. In un anno i Cinque stelle sono passati dal 33% al 15%, ma lui continua a comportarsi da uomo forte annunciando di voler far tornare la felicità nelle case degli italiani

La Francia, un vicino di peso Terza potenza economica europea, è un elemento portante dell’Unione europea e un partner commerciale e culturale importante per la Svizzera pagina 19

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Negli Stati Uniti il rischio è un’eccessiva radicalizzazione, come è successo in Gran Bratagna con Corbyn. (Keystone)

Di quale sinistra parliamo?

Dibattito Sarà comunque l’esito della sfida finale con Trump a decidere quale sarà la nuova direzione della sinistra

mondiale in piena crisi di identità, che si radicalizza e non vuole dare spazio a moderati e riformisti Christian Rocca La sinistra mondiale è in piena crisi d’identità, dall’Italia agli Stati Uniti, passando da tutti i paesi europei. Non è ancora riuscita a trovare un modo di contrastare i populisti e i nazionalisti, ma nemmeno a risolvere gli ormai rilevanti problemi di personalità. Che cos’è oggi la sinistra occidentale? Nessuno lo sa, nemmeno la sinistra occidentale. Dopo aver dominato la politica globale, cavalcando globalizzazione e innovazione, il progressismo degli anni Novanta, cioè Tony Blair, Bill Clinton e i loro epigoni neoliberisti, è passato di moda perché si è dimostrato incapace di governare le diseguaglianze causate dalla rivoluzione digitale. La ricetta, di fronte a interi settori della società rimasti indietro rispetto ad altri che invece hanno fatto enormi passi in avanti, è diventata ideologica: ancora più globalizzazione, ancora più innovazione. La prima reazione è stata di rigetto, con gli elettori in fuga e alla ricerca di qualcos’altro che di volta in volta è stato individuato nei movimenti demagogici e populisti non importa se di destra o di sinistra. La seconda reazione, più intel-

lettuale, è stata quella di tornare indietro ad abbracciare politiche socialiste e socialdemocratiche, abbandonate alla fine degli anni Ottanta. Oggi da una parte della sinistra ci sono i sempre più sparuti difensori del liberalismo sociale, e dall’altra i revanscisti del socialismo del Ventunesimo secolo. La scena al momento è dominata da questi ultimi, i quali hanno vinto il dibattito interno in Francia, in Italia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Ma al governo o pronti ad andarci in quanto favoriti dai sondaggi, con l’eccezione della Francia, ci sono però i populisti e i demagoghi. L’inglese Jeremy Corbyn ha perso due elezioni, tre se si considerano pure le Europee, in pochi mesi: la prima contro una premier conservatrice debolissima, la seconda contro un elitario membro dell’establishment londinese che ha avuto l’idea di interpretare il ruolo di uomo del popolo. Nonostante ciò il socialismo di Corbyn ha regalato alla sinistra inglese la più grande scoppola elettorale in 90 anni. Va anche ricordato, per un quadro più ampio, che i laburisti britannici hanno perso otto delle undici elezioni generali. Le tre eccezioni, va da sé, sono quelle del New Labour di Tony Blair.

Non è controintuitivo, dunque, dire che in Gran Bretagna la sinistra vince solo quando è meno socialista e più liberale, meno old style e più moderna, sia adesso sia nei quattro decenni precedenti. Negli Stati Uniti che si apprestano a scegliere lo sfidante di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali del novembre 2020, il dibattito è simile pur essendo diversi i punti di partenza. La svolta socialista impressa da Bernie Sanders prima, da Elizabeth Warren poi e adesso da Alexandria Ocasio Cortez (non candidata) sarebbe stata inconcepibile solo cinque anni fa, così come sarebbe stato inimmaginabile Donald Trump e molte altre cose. Ma da allora la curvatura progressista è diventata mainstream, tanto che anche la notoriamente centrista Hillary Clinton alle elezioni del 2016 si è presentata con il programma economico e sociale più di sinistra della storia del Partito democratico. La tendenza è la stessa che si nota in Europa, ma gli obiettivi dichiarati da Sanders, Warren, Ocasio-Cortez, e con più moderazione dagli altri pretendenti, sono di buon senso perché non può essere considerato altro che di buon senso vivere con una copertura sanitaria universale, con l’aspettativa

per la maternità e un’istruzione a prezzi accessibili. Anzi è proprio il fatto che queste cose non siano garantite nel paese più potente e ricco del mondo, negli anni Venti del ventunesimo secolo, a essere considerato estremo e radicale. Sanders è riuscito a imporre questi temi nel dibattito pubblico, Warren sta provando a far passare l’idea che si debbano tassare le grandi ricchezze, Ocasio-Cortez mobilita le generazioni più giovani collegando le politiche di giustizia sociale a quelle in difesa del pianeta. Il rischio che tutti vedono, però, è quello di un’eccessiva radicalizzazione, esattamente come è successo in Gran Bretagna con Corbyn, tanto che un recente sondaggio pubblicato dal «New York Times», a fronte di tanto parlare di sanità e istruzione per tutti, ha svelato che soltanto un elettore democratico su quattro vorrebbe eliminare il sistema di assicurazioni sanitarie private e sostituirlo con un sistema di copertura pubblica, ovvero quanto propongono Sanders, Warren e Ocasio-Cortez. E solo uno su tre, sempre tra gli elettori democratici, vorrebbe rendere gratuita la retta universitaria a tutti gli americani, a prescindere dal reddito, un’altra idea sponsorizzata da Sanders e Warren.

Ecco spiegato perché in testa nei sondaggi nazionali e nei primi due Stati dove si voterà a febbraio, l’Iowa e il New Hampshire, ci sono due candidati centristi, più riformisti che rivoluzionari, il vecchio Joe Biden e il giovane Pete Buttigieg. Quest’ultimo, in particolare, propone un sistema sanitario misto, pubblico per chi lo vuole e privato per chi si trova bene con le assicurazioni private, mentre vuole rendere gratuite le rette universitaria, con l’esclusione di chi se le può permettere. Proprio perché Biden sembra sentire il peso dei suoi anni e Buttigieg non riesce a proiettare sufficiente autorevolezza è sceso in campo l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg, il quale pare sia pronto a spendere un miliardo di dollari del suo patrimonio personale per provare a vincere le primarie democratiche e poi battere Trump a novembre. Il dibattito sulla sinistra, insomma, non si è ancora chiuso e probabilmente resterà aperto fino alle elezioni presidenziali americane perché chiunque vincerà le primarie, un rivoluzionario socialista o un riformista liberaldemocratico, sarà comunque l’esito della sfida finale con Trump a decidere quale sarà la nuova direzione della sinistra globale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 30 dicembre 2019 • N. 01

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La ruota della fortuna

Fra i libri di Paolo A. Dossena

Luigi Di Maio La sua stella cometa è il potere. Ci sta attaccato con tutte le forze consapevole

che è la sua unica possibilità per non scomparire nel nulla

Luigi Di Maio con Casaleggio jr. (AFP)

Alfio Caruso Che la situazione del Belpaese sia grave, ma non seria – leggendario aforisma di Ennio Flaiano – lo testimonia l’ultima esternazione del nostro ministro degli Esteri, a sua insaputa, Luigi Di Maio. Ha infatti annunciato di «voler far tornare la felicità nelle case degli italiani». Ci sarebbe da sbarrare le porte, da pronunciare ogni scongiuro. A Di Maio, infatti, i proclami vengono bene, molto meno la loro attuazione. Ancora si ricorda allorché all’inizio del governo con la Lega s’affacciò dal balcone di Palazzo Chigi per sancire in uno sventolio di bandiere «l’abolizione della povertà». Per favorirla lui e Salvini vararono il reddito di cittadinanza e quota 100, cioè il pensionamento anche a sessant’anni. Fior di economisti continuano a definirle due misure antitetiche allo scopo e capaci soltanto di dilapidare i già esigui fondi a disposizione dell’esecutivo. Soprattutto il reddito di cittadinanza: da un lato non costituisce un doveroso contrasto alla povertà, dall’altro lato ricorda le vergognose pensioni d’invalidità distribuite dalla Democrazia Cristiana in Meridione. Più ancora di Salvini, che facendo politica dalle elementari ha almeno appreso i rudimenti, Di Maio simboleggia il trionfo dell’incapacità, la presunzione dell’incompetenza. È il classico dilettante, che manda allo sbaraglio gli altri. Incarna il miracolato per eccellenza, abilissimo nell’azzeccare ogni volta la scia giusta: ha cominciato con il tricolorato Grillo (dalle tre tonalità dei capelli); ha proseguito con l’allegro cazzaro Di Battista, in quanto tale detentore di un considerevole seguito popolare; si è ora arroccato con il padrone del M5S, Davide Casaleggio, che ha ereditato il movimento dal genitore Gianroberto, il vero fondatore, alla faccia del merito e della presunta democrazia proveniente dal basso. Purtroppo per l’Italia il M5S si è rivelato la risposta sbagliata a una sacrosanta indignazione. Il fallimento dei partiti tradizionali e il talento attoriale

di Grillo l’hanno spinto in cima alla montagna. Pervasi dal falso convincimento che persino il più stupido possa essere un buon politico, purché onesto, hanno selezionato una rappresentanza totalmente inadeguata. Hanno mandato nei ministeri sprovveduti supponenti alla Toninelli o enigmatiche signore espressione di realtà ambigue come la Trenta. Ma su tutti ha primeggiato Di Maio. Non soltanto per il ruolo di capo politico e di privilegiato referente di Grillo e di Casaleggio, ma anche per la spregiudicata destrezza con cui ha difeso il proprio ambito a scapito delle pretese altrui. Al di là dei modi compìti, degli abiti scuri, che tuttavia conservano sempre l’aria di una svendita grandi magazzini, Di Maio non ha dimenticato la dura scuola di vita, nella quale si è formato. In dieci anni è passato da Pomigliano d’Arco, casualmente beneficiata da una sproporzionata quantità di percettori del reddito di cittadinanza, alle riunioni nei salotti riservati di Roma, ai vertici nelle capitali del pianeta. E chi se ne frega se lo relegano a far da tappezzeria. Privo di una laurea, di una qualsiasi specializzazione, di significative esperienze lavorative, a parte il vendere bibite allo stadio San Paolo di Napoli, l’ascesa di Di Maio non è una storia di successo, ma un giro pazzo della ruota della fortuna. Gli hanno regalato il biglietto vincente della lotteria e lui giustamente se lo tiene ben stretto, s’adopera di sfruttarlo al meglio, disposto a qualsiasi contorcimento come accaduto con alcuni trascorsi imprenditoriali del padre. Di conseguenza non ha avuto scrupoli nell’esigere con il Conte1 i fondamentali Ministeri dello Sviluppo economico e del Lavoro e con il Conte2 il Ministero degli Esteri. Gli servivano e gli servono per salvaguardare la posizione all’interno dei 5Stelle. È l’ultimo cultore, in attesa dei prossimi, della vecchia regola democristiana: le leggi s’interpretano con gli amici e si applicano con i nemici. Perciò Renzi e il suo governo sono stati svergognati per aver provato a rimettere in sesto quat-

tro banche di provincia; al contrario Di Maio ha esibito il petto in fuori e si è lanciato in una vanitosa autocelebrazione quando ha prima salvato la Cassa di risparmio di Genova e poi investito 900 milioni per evitare il fallimento della Popolare di Bari. La sua sola stella cometa è il potere. Ci sta abbarbicato con la determinazione di chi ha compreso che una volta disarcionato, se li sognerà passerelle e ricevimenti, interviste e privilegi. Va avanti alla giornata, pronto a ogni capriola, a ogni smentita, a ogni voltafaccia. La costante imprescindibile è la sua ignoranza, questa sì spaziante in diversi campi. Per lui Pinochet fu il dittatore del Venezuela; incolpò Israele di non volerlo fare entrare a Gaza, che è invece controllata da Hamas; definì la Russia una Nazione del Mediterraneo; stabilì che Matera stava in Puglia e non in Basilicata; chiamò il presidente cinese Ping anziché Xi Jinping. Il tutto condito da un’avversione al congiuntivo così naturale e spontanea da aver fatto sospettare che nel nuovo governo con il Pd abbia preteso il ministero degli Esteri per la mancanza del congiuntivo nella lingua inglese. Tranne poi scoprire che il suo inglese è quello delle barzellette. Eppure Di Maio si comporta da uomo forte dell’attuale alleanza grazie allo strepitoso successo elettorale del 2018 con il M5S quasi al 33%. Significa che i 220 deputati e gli oltre 100 senatori gli consentono di fare la voce grossa, finché dal Pd non ricordano che se proprio dissente, si torna al voto. E qui casca l’asino: in meno di due anni Di Maio ha infatti trascinato il partito sotto il 15% riuscendo lì dove avevano fallito tutti i suoi avversari. Ne discende che per lui le elezioni anticipate siano peggio della peste, da evitare a qualsiasi costo. Si tratta dell’unica sua determinazione condivisa dal Parlamento quasi al completo, con la sola eccezione della Lega. Fanno paura i sondaggi che la danno tra il 30 e il 34%, e pure la cospicua riduzione di deputati e senatori imposta dai pentastellati.

L’ennesimo provvedimento demagogico spacciato per emblema del virtuoso cambiamento. Sui rappresentanti del Movimento incombe il limite del doppio mandato. Una tagliola, che molti, con Di Maio in testa, si stanno industriando di scongiurare. Significherebbe, però, la smentita più cocente di quella che fu l’ideologia degli inizi quando gli altri erano definiti liquame e loro, invece, s’identificavano nella virtù; quando le istituzioni erano da aprire come una scatoletta di tonno, mentre oggi si trovano surclassati sulle piazze dalle «sardine»; quando si vantavano di agire e decidere sempre in streaming sotto l’occhio della base e non nelle segrete stanze come fanno attualmente. A contestare Di Maio sono adesso i beneficiati di un tempo, in prima linea gli ex ministri Toninelli, Trenta, Lezzi, Grillo: avevano davvero creduto di poter riscrivere la Storia, viceversa si sono accorti di esser fuori dalla cronaca. Davanti al loro tentativo di limitarlo, Di Maio ha risposto abbarbicandosi a Casaleggio jr, un signore titolare di una società privata, che in teoria niente avrebbe da spartire con il M5S. Sono stati inventati i «facilitatori», in pratica 24 ministri ombra incaricati di aiutare Di Maio a effettuare le scelte più adatte. I ruoli maggiormente delicati sono stati affidati a fedelissimi di Casaleggio. Un contentino è stato dato a Toninelli, dovrà occuparsi delle campagne elettorali. La Trenta, esclusa, ha chiamato in ballo gl’immancabili poteri forti. Quelli che magari l’avevano aiutata a conservare l’appartamento di rappresentanza, cui avrebbe dovuto rinunciare appena decaduta dal Ministero. Per farla sloggiare si è dovuta muovere la procura militare. Le disgrazie dell’Italia sono insomma servite per regalare il più impensabile dei divertimenti a un apprendista stregone. E che possa addirittura rappresentare l’Europa nella trattativa con le due forze che si disputano la Libia non è incoraggiante per il Vecchio Continente.

EDWARD SNOWDEN, Errore di sistema, Longanesi 2019 «E così sarebbe questo il Deep State», lo Stato profondo, esclama un uomo vedendo Edward Snowden e i suoi colleghi al quartier generale della CIA. Tutti si mettono a ridere: il gruppo di Snowden è una banda di giovani informatici descritti come «nerd» («giovani di modesta prestanza fisica che compensano la scarsa avvenenza con una passione ossessiva e una notevole inclinazione per le nuove tecnologie»). Come «nerd», il giovane Edward Snowden, autore di questa autobiografia, viene reclutato da CIA e NSA, cominciando la sua carriera nell’Intelligence Community (IC) nel 2006. Qui prende parte a una rivoluzione storica: «il passaggio dalla sorveglianza mirata di alcuni individui alla sorveglianza di massa di intere popolazioni». Questa rivoluzione avviene all’indomani del crollo delle torri gemelle (11 settembre 2001), quando i servizi, racconta Snowden, spalancano «le porte ai giovani tecnici informatici come me. E i nerd presero le redini del mondo». I «nerd» contribuiscono a istituire un sistema informatico che «permetteva di conservare traccia permanente della vita di ognuno di noi…di gestire e connettere il flusso di informazioni, poi di conservarle per sempre e infine di renderle universalmente accessibili». A un certo punto, Snowden si rende conto di essere l’ingranaggio «di una macchina gigantesca» che sta formando «un vero e proprio sistema di sorveglianza di massa» mondiale. Quel giorno si trova in un tunnel sotto le Hawaii, seduto di fronte a un terminale che gli dà accesso illimitato alle conversazioni di ogni uomo, donna o bambino che avesse mai fatto una telefonata o toccato un computer. Capisce che «il governo americano, nel più totale disprezzo dei principi della Carta costituzionale, è stato colto da una smania irrefrenabile. Ha assunto in segreto il controllo della sorveglianza di massa, un’autorità che, per definizione, affligge più gli innocenti dei colpevoli». La rivelazione più tenebrosa di Snowden riguarda «la creazione dell’irrealtà»: «i fatti reali vengono accostati di proposito a quelli inventati. La creazione dell’irrealtà è sempre stata una delle arti più oscure dell’Intelligence Community. Si tratta delle stesse agenzie che hanno manipolato le informazioni per scatenare guerre, e che hanno potuto compiere sequestri di persona chiamandoli “consegne straordinarie”, mentre le torture erano “interrogatori avanzati” e la sorveglianza di massa una semplice “raccolta di dati”». Un like su Facebook, un messaggio su WhatsApp, una fotografia su Instagram. Senza neanche accorgersene, la gente si mette a nudo sul Web, perché i tutti i nostri dati vengono raccolti in un gigantesco database, che non perderebbe alcun dato nemmeno in caso di attacco atomico. Tutto questo e altro ancora nel consigliatissimo libro di Edward Snowden, che, in Giappone, ha contribuito a progettare questo gigantesco sistema di backup. E che avverte: la rete, da positivo luogo di condivisione, è diventata tossica, malsana: un campo di battaglia e di spionaggio, che è «il risultato di una scelta consapevole e di sforzi sistematici da parte di un’élite».


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Politica e Economia

La nuova era economica

Analisi Dal primo decennio degli anni 2000 la globalizzazione è entrata in una nuova era

con importanti conseguenze per la Svizzera Stefano Castelanelli Washington D.C., venerdì 20 gennaio 2017. Una folla di americani in festa si è radunata sul fronte ovest della casa bianca per assistere all’ Inauguration Day, la cerimonia d’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump. «Per molti decenni, abbiamo arricchito altri paesi mentre la ricchezza, la forza e la fiducia del nostro paese sono scomparsi all’orizzonte» ammonisce Trump nel suo discorso d’insediamento. «Ma questo è il passato» continua il presidente americano «Da questo giorno in poi, una nuova visione governerà il nostro paese. Da questo momento in poi sarà America First: ogni decisione sul commercio, sulle tasse, sull’immigrazione, sugli affari esteri, sarà presa a beneficio dei lavoratori americani e delle famiglie americane». L’America prima di tutto quindi. Con la volontà di mettere gli interessi americani prima di ogni cosa, Trump lancia un messaggio forte alla comunità internazionale che reagisce in modo freddo e stizzito. Alle parole, Trump fa seguire i fatti. Poco dopo essere salito al potere il presidente statunitense introduce tariffe per il valore di diversi miliardi di dollari su vari prodotti importanti per proteggere l’industria americana. Con le sue tariffe Trump mina le fondamenta dell’ideologia economica corrente secondo cui la rimozione delle barriere commerciali rappresenta una misura necessaria per promuovere la crescita e il benessere di una nazione. Seguendo questa ideologia, sempre più paesi negli ultimi anni hanno concluso accordi di libero scambio per promuovere il commercio e favorire la crescita e il benessere. Spinta da questi accordi, la globalizzazione sembrava inarrestabile. Fino all’arrivo di Trump. Tuttavia, indipendentemente dalla guerra commerciale americana, diverse trasformazioni hanno già cambiato la natura della globalizzazione. Nel primo decennio del 2000 infatti la globalizzazione è entrata in una nuova era, come evidenziato da un rapporto del McKinsey Global Institute (MGI) pubblicato in gennaio.

Lo Stretto di Malacca, di fronte a Singapore, resta una via marittima molto trafficata, ma negli ultimi anni è aumentata la quantità di merci prodotta e consumata a livello regionale. (Keystone)

La globalizzazione economica si riferisce al processo di crescente integrazione delle economie locali e nazionali in un economia di mercato globale in cui merci, servizi e capitali possono circolare liberamente. Con la rivoluzione industriale del XIX secolo, i costi di spedizione calarono fortemente e favorirono la prima ondata di globalizzazione permettendo di trasportare le merci da una parte all’altra del pianeta. Negli anni 1990 e 2000 le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno dato vita ad una seconda rivoluzione. Il calo dei costi di comunicazione e nuovi tipi di software hanno permesso alle aziende di esternalizzare gran parte della produzione a fornitori terzi. Le imprese e i paesi si sono così specializzati in parti specifiche della produzione e sono emerse catene del valore globali e complesse che coinvolgono centinaia di prodotti intermedi trasportati in tutto il mondo. Due terzi del commercio mondiale oggi è composto da prodotti intermedi piuttosto che prodotti finiti. Secondo lo studio del MGI, per la maggior parte dei settori, gli scambi internazionali di merci si sono notevolmente intensificati dal 1995 al 2007.

Ma il mercato globale è una bestia in continua evoluzione e le catene del valore hanno subito un cambiamento fondamentale dopo la crisi finanziaria del 2008. La maggioranza dei settori ha infatti subito una contrazione dell’intensità degli scambi tra il 2007 e il 2017. Il commercio globale continua a crescere in termini assoluti, ma la quota di merci che viene esportata in percentuale al PIL mondiale è scesa. Non solo gli scambi globali di merci sono meno intensi, ma secondo lo studio un nuovo fenomeno è emerso negli ultimi anni: la regionalizzazione. La quota di scambi di merci avvenuta all’interno di una determinata regione, in calo tra il 2000 e il 2012, è infatti in aumento dal 2013. La regionalizzazione è stata più marcata all’interno dell’UE e della regione Asia-Pacifico ed è più pronunciata per le catene del valore più complesse come computer ed elettronica, automobili, prodotti chimici e farmaceutici. Questo è dovuto soprattutto alla crescente richiesta dei consumatori di prodotti personalizzati che richiedono una rete di produzione più vicina agli utenti finali. Se l’intensità degli scambi di merci è calata e gli scambi sono più regiona-

li, i servizi seguono un trend opposto. Negli ultimi 10 anni, lo studio sottolinea come gli scambi di servizi sono cresciuti molto velocemente. Secondo lo studio, tre fattori stanno trasformando la globalizzazione. Innanzitutto, la crescita della domanda interna in Cina e in altri paesi emergenti ha ridotto il commercio globale. L’aumento del consumo interno in questi paesi ha infatti spostato parte delle merci dall’esportazione verso il mercato interno riducendo così gli scambi internazionali. Secondariamente, il commercio globale è in calo, perché con la maturazione delle loro economie la Cina e gli altri paesi emergenti hanno superato il semplice lavoro di assemblaggio di prodotti intermedi importati per la produzione di prodotti finiti. Ora realizzano molti prodotti intermedi loro stessi, ciò che riduce gli scambi globali. Infine, la diffusione dell’automazione e della robotica nelle catene di produzione riduce l’incentivo di delocalizzare in paesi con costi della manodopera più bassi e permette così di produrre in regioni vicine ai consumatori permettendo di soddisfare la crescente domanda di prodotti personalizzati.

La Francia punta in alto

Economia e commercio L’Esagono è la terza potenza economica europea, e Parigi punta

a sostituire Londra dopo la Brexit. Anche per la Svizzera è un paese fondamentale Marzio Minoli Gli equilibri in Europa, nella percezione generale, si basano molto sulle relazioni tra Germania e Francia. Non a torto. La storia europea si sviluppa da secoli sull’asse a cavallo del Reno e la relazione franco-tedesca ai giorni nostri è uno dei capisaldi dell’Unione Europea, tanto che il 25 marzo del 2019 vi è stata la prima riunione del cosiddetto «parlamento franco-tedesco». 50 parlamentari francesi, 50 tedeschi che si riuniranno due volte l’anno per promuovere e sviluppare le relazioni tra i due paesi. La Francia è la terza potenza economica europea, come confermano i numeri. Il prodotto interno lordo è pari ad un controvalore di circa 2800 miliardi di franchi. Per fare un raffronto il PIL svizzero è di 705 miliardi, mentre quello tedesco, prima potenza, è di 3990 miliardi. A questo si può aggiungere che, elemento non da sottovalutare, la Francia, con 87 milioni di turisti, è il paese più visitato al mondo. La disoccupazione a fine settembre

era dell’8,6%, mentre il debito pubblico ammonta al 98,40% del PIL. Per quel che concerne i rapporti con la Svizzera, la Francia è il paese che «fornisce» il maggior numero di frontalieri. Nel terzo trimestre del 2019, dei 325’000 frontalieri in Svizzera, 177’000 provenivano dalla Francia. I rapporti con la Svizzera naturalmente non si fermano a questo. Per quel che concerne le esportazioni, a fine 2018, il valore delle merci che hanno preso la strada per l’Esagono è stato di poco meno di 15 miliardi di franchi. Mentre le importazioni sono state di 16 miliardi. Sommando le due voci, la Francia risulta essere il quarto partner commerciale per importanza per la Svizzera, dietro a Germania, Stati Uniti e Italia. E la Svizzera per la Francia? I numeri di fine 2018, pubblicati dal Ministero dell’Economia e della Finanze francesi, dicono che il nostro paese è il nono partner commerciale. Ma cosa si scambia tra Svizzera e Francia? Verso Parigi vanno principal-

mente prodotti del settore farmaceutico, orologiero e strumenti di precisione, mentre nella direzione contraria sono soprattutto due le voci che la fanno da padrone, ovvero aeromobili e, come facilmente immaginabile, automobili. Anche per quel che concerne gli investimenti le cifre sono importanti. Quelli svizzeri in Francia, a fine 2016, ammontavano a 51 miliardi di franchi, soprattutto nelle zone di frontiera e nell’Île-de-France, la regione parigina. Per contro i francesi in Svizzera hanno investito per 40 miliardi di franchi, creando circa 60’000 posti di lavoro. Tutto rose e fiori? Non proprio. In passato i rapporti tra la Romandia, e il «Grande Vicino» erano diversi da quelli che si potevano trovare in altre realtà elvetiche, come le relazioni tra ticinesi e l’Italia e tra svizzero-tedeschi e la Germania. Per i francofoni svizzeri la Francia rappresentava una sorta di rifugio culturale, visto che, secondo alcuni storici, i romandi soffrivano (e soffrono) la superiorità numerica degli svizzero-tedeschi.

Oggigiorno però le cose sono un po’ cambiate, anche in Romandia. A causa dei frontalieri in aumento, di un mondo del lavoro sempre più competitivo e del fatto che la Svizzera continui a rappresentare una meta professionale molto ambita, l’insofferenza verso i «cugini» francesi è aumentata. Certo, si tratta solo di una questione sociale, che si risolve spesso in «discussioni da bar» un po’ come quelle che si vivono in Ticino verso l’Italia o in Svizzera tedesca verso la Germania dove l’apice lo si raggiunge nel tifare per qualsiasi squadra di calcio che giochi contro la Francia, la Germania o l’Italia. Tutto il mondo è paese. Ma al di là della retorica e della dialettica politica, soprattutto da parte di alcune aree più votate agli ideali «nazionalisti», tutto sommato la convivenza è più che civile, con chi proviene da oltrefrontiera o chi decide di vivere in Svizzera. Ben più pesante e preoccupante l’atteggiamento francese nei confronti del mondo finanziario elvetico. Chi

La Svizzera è un’economia piccola e aperta, fortemente integrata nel commercio globale da cui trae importanti benefici. Da anni la Svizzera genera infatti un surplus commerciale. Nel 2018 l’eccedenza nel commercio di merci era di 31 miliardi di franchi, mentre quella negli scambi di servizi era di 20 miliardi di franchi. Le esportazioni ricoprono un ruolo centrale per il benessere e la prosperità svizzere. Il nostro paese è infatti uno dei paesi dove le esportazioni hanno un peso maggiore sul prodotto interno lordo. Nel 2017 esse rappresentavano circa il 10% del PIL nazionale. L’Unione Europea è il partner commerciale più importante. Nel 2018, il 47% delle merci esportate è finito nell’UE, mentre il 64% delle merci importate proveniva dall’UE. I trend evidenziati dal rapporto del MGI nascondono rischi per il nostro paese. Da un lato, la regionalizzazione della produzione di merci potrebbe rende la Svizzera sempre più dipendente dall’Unione Europea. Il nostro ingombrante vicino già adesso sfrutta regolarmente la sua importanza commerciale per fare pressione sulla Svizzera. Questa pressione potrebbe in futuro aumentare se il peso specifico dell’UE per il commercio svizzero dovesse aumentare. Dall’altro lato, il commercio di servizi a livello globale sta crescendo rapidamente. Sebbene la Svizzera abbia attualmente un surplus di oltre 21 miliardi di franchi negli scambi di servizi, è anche vero che nel periodo seguito alla crisi finanziaria le importazioni di servizi sono aumentate più delle esportazioni. Le prime sono infatti aumentate del 46% nel periodo 2009-2018, mentre le seconde sono cresciute solo del 20% nello stesso periodo. Se questo trend dovesse confermarsi, in futuro la Svizzera potrebbe arrivare ad avere un deficit negli scambi di servizi, con conseguenze negative per la ricchezza del nostro paese. La Svizzera deve quindi utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per adattarsi velocemente a questa nuova era della globalizzazione, caratterizzata da una regionalizzazione degli scambi ed una sempre maggiore importanza dei servizi a scapito delle merci. non ricorda la veemenza del Presidente francese Nicolas Sarkozy, nel 2009 durante il G20 di Londra, nel puntare il dito contro la Svizzera, decretando l’inizio della lotta serrata al segreto bancario. Senza dimenticare le richieste di assistenza in materia fiscale da Parigi verso Berna: il Tribunale Federale nel luglio 2019 ha decretato che UBS dovrà consegnare alle autorità francesi i nomi di 40’000 contribuenti, sospetti evasori. Che dire poi della maximulta sempre per UBS comminata da un tribunale parigino, per aver aiutato cittadini francesi ad evadere il fisco: 5 miliardi di franchi, sui quali pende ancora un ricorso. Insomma, i rapporti tra Francia e Svizzera si può dire che siano buoni, al netto delle vicende che abbiamo citato. Ed è bene continuare a coltivarli, questi rapporti. Con l’avvicinarsi della Brexit la Francia spinge affinché Parigi, diventi il primo hub finanziario, prendendo il posto di Londra, la quale perderà diverse attività che non possono essere gestite da un paese non appartenente all’UE. Il centro di gravità della finanza europea quindi potrebbe spostarsi all’interno dell’Unione Europea. Per la Svizzera il settore finanziario, nonostante le difficoltà di questi ultimi anni, rappresenta sempre un fiore all’occhiello e mantenere buoni rapporti con chi avrà in mano buona parte delle redini del gioco sarà fondamentale.


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Cultura e Spettacoli Cento anni di Bixio Candolfi Alla Biblioteca Cantonale di Lugano una mostra ripercorre la carriera dell’intellettuale ticinese

Il caso di Adrian Conan Doyle È stato figlio del creatore di Sherlock Holmes e ha vissuto per molti anni in Svizzera

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Tarcisio Trenta, Notte stellata, 2014.

Tarcisio Trenta, un artista insolito Personaggi Ingegnere di professione, coltiva da anni la passione per la pittura

rimanendo lontano da mode e correnti artistiche Luciana Caglio Fra tante cose che cambiano, il bar, per nostra fortuna, continua a essere quel che era: il luogo dove, spontaneamente, si fa una pausa e ci s’incontra. Ed è all’Apollo, trattoria a conduzione familiare in Corso Elvezia, a Lugano, che ho conosciuto Tarcisio Trenta. Apparteneva al gruppo degli scopisti che, nel tardo pomeriggio, si riuniva per una partita, contrassegnata da vivacissime discussioni. Con lui mi capitava di scambiare le quattro parole di rito fra assidui frequentatori di uno stesso locale. Niente di più. Finché, un giorno, Arturo, il gestore, e bravissimo cuoco, dell’Apollo, mi confidò: «Sapesse che bei quadri dipinge il signor Trenta…».

Proprio così, anni fa, scoprii la vera identità di quel giocatore di scopa: non un pensionato, in cerca di hobbies, ma un artista in piena attività, che ricava incessanti stimoli osservando la vita, e soprattutto la natura, attraverso viaggi vicini e lontani. Tutto ciò, a modo suo. Niente da spartire, a prima vista, con la figura dell’artista che coltiva un’ambiziosa diversità, che teorizza o sentenzia. E neppure con la figura del dilettante che ritrae «paesaggi da cartolina», come giustamente tiene a precisare. Per sua scelta, è rimasto uno fuori dal giro dell’ufficialità culturale. Non un isolato e neppure un seguace di mode e correnti. Bensì un professionista che, al lavoro d’ingegnere, ha affiancato quello dell’artista, coltivan-

do una vena creativa innata. Si sente, come racconta, «un poco figlio d’arte, mio padre, insegnante, era un bravissimo disegnatore, cugino, per via materna, di Mario Marioni, con cui ho sempre avuto contatti». A Claro, dov’è nato e cresciuto, comincia, negli anni 70, a dipingere con la tecnica dell’olio e sotto la guida di Max Laübli. Avverte, infatti, la necessità di sottoporre un talento naturale al controllo di maestri competenti: insomma, imparare. E d’imparare non si finisce mai. Da qui, corsi ed esperienze in diversi atelier che l’aiutano a perfezionare la manualità e soprattutto a chiarirsi le idee. L’obiettivo è raggiunto, quando da pensionato sempre sulla breccia, si dedica, definitivamente, all’acque-

rello. Di cui si appropria, facendone lo strumento per esplorare la natura negli aspetti più diversi: nelle predilette montagne engadinesi, in Marocco, in Norvegia, a New York e via enumerando luoghi, visti e poi trasfigurati, persino astratti. Tanto da comporre una sorta di nuova topografia. Dopo anni di un’intensa operosità Tarcisio, che è un tipo riservato, sente tuttavia, il bisogno di uscire allo scoperto per confrontarsi con il pubblico, in mostre personali: la prima a San Moritz e, poi in Ticino, la più recente a Giubiasco, si è appena chiusa, tutte ben frequentate. E, con ciò, Trenta, autocritico per natura, si trova ad affrontare anche il giudizio dei critici. A loro volta, spiazzati da un talento inatteso. Come dice

Maria Will, «è difficile ragionare in termini di critica d’arte sulle opere di Tarcisio Trenta». Un compito che, da incompetente, lascio volentieri agli specialisti. Mi limito, da semplice curiosa, a rilevare la singolarità di un personaggio che, con pudore, rifiuta la definizione di artista a pieno titolo. O forse non si riconosce nei tratti che ci si è abituati ad attribuire all’artista, oggi più che mai, impegnato a esibirsi spettacolarmente, a enunciare proclami, a sfidare il grottesco. Tarcisio Trenta, uomo di cultura, fra altro appassionato di musica classica, si trova a suo agio nella quotidianità, come avviene all’Apollo, dove molti ignorano la sua attività creativa. E a lui va bene così.


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Cultura e Spettacoli

Narrare la scrittura

Un problema problematico

e delle culture in un libro molto narrato di Silvia Ferrara

tracce di politichese nella lingua di oggi

Linguistica Le scritture come manifestazione esplicita delle lingue

La lingua batte Le

Stefano Vassere Dovendo cercare il centro tematico di questo libro, il nucleo narrativo da cui tutto il resto del testo sembra come esplodere per generare così l’insieme dell’opera, non è difficile rintracciarlo a pagina 241; lì si racconta la vicenda del semiologo Thomas Sebeok, che un trentennio fa fu ingaggiato da un’agenzia di sicurezza americana la quale, dovendo sotterrare un buon numero di scorie radioattive, che, si sa, non si smaltiscono in quattro e quattr’otto, aveva il problema di comunicare ai posteri che per circa diecimila anni non era il caso di coltivare patate da quelle parti. «Il semiologo andò in crisi, escludendo comunicazioni verbali, segnali elettrici, messaggi olfattori, ideogrammi basati su convenzioni tutte nostre. L’unica soluzione fu di creare una storia e tenerla in vita: tramandarne la narrativa del periodo radioattivo, costruendoci intorno miti e leggende». Certo è che le scritture di cui si parla in questo libro molto generoso e, nel titolo (La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose), molto ambizioso di Silvia Ferrara condividono con l’esperimento di Sebeok almeno lo slancio comunicativo consapevole, che si vorrebbe inesauribile su un arco temporale il più possibile ampio. Sono le scritture degli antichi, cui popolazioni per noi cronologicamente molto lontane hanno creduto di potere affidare messaggi e speranze e che, nei secoli e nei millenni, hanno perso per strada chiavi e codici, tanto da risultare non di rado incomprensibili non solo al lettore comune, ma anche all’antichista e all’esperto di decodificazione di scritture. Non comunichiamo più in quel modo e non riusciamo a capirci nulla nemmeno ricorrendo all’ar-

Laila Meroni Petrantoni

Il disco di Festo, un’iscrizione antica ancora non interpretata. (Wikipedia)

mamentario in sei punti che la Ferrara ci descrive qualche pagina prima della vicenda di Sebeok: di fronte a una scrittura incomprensibile dobbiamo mettere a punto l’inventario dei segni; vedere quante volte un segno ricorre in una certa posizione; cercare scomposizioni delle parole in morfemi; di fronte a un mare di segni a prima vista incomprensibili cercare di isolare parti (nomi propri, numerali ecc.) che possano ricondurci a contesti e contenuti; paragonare quella scrittura con scritture vicine. Per parlare dell’invenzione della scrittura ci sono ovviamente molti modi e si può partire da diversi osservatori. Qui è scelto un taglio decisamente universalistico, che proietta le a volte faticose operazioni di conquista delle scritture sull’ampio paesaggio della conquista delle culture, distribuite in paesi e continenti a volte talmente lontani da in-

durci a pensare che la scrittura faccia parte della serie di bisogni dell’uomo che prescindono dalle latitudini, quasi uno sbocco naturale, come il linguaggio stesso. Dai geroglifici, le lineari e le iscrizioni del disco di Festo a Creta, al sillabario delle Isole Caroline, alle iscrizioni dei berberi, alle espressioni dell’Isola di Pasqua, della Cina, dell’Egitto. Il respiro di questo libro è però più ampio e profondo: non è un testo di linguistica ma piuttosto un largo saggio di antropologia e di storia delle mentalità. Con qualche incursione fulminante in territori nuovi e sorprendenti: come quando l’autrice azzarda una spiegazione neurologica. E ci dice che la frequenza maggiore di determinate forme nei simboli nelle scritture universali in certi casi anche molto lontane tra di loro coincide con analoga frequenza nella distribuzione di talune forme del

mondo naturale. Le scritture inventate e selezionate su base quasi neurologica nelle varie epoche dell’umanità sono tratte dalle forme che l’uomo trova in natura, per una specie di «eugrafia» o armonia grafica che governerebbe gli alfabeti che ci sono noti. «La più grande invenzione del mondo. Senza, saremmo solo voce, sospesi in un presente continuo. La nostra essenza più solida e profonda è saldata nella memoria, nel desiderio di ancorarci a qualcosa di stabile e di rimanere, ben sapendo che il nostro tempo è limitato. Questo libro racconta l’urgenza di permanere, la tensione verso gli altri». Bibliografia

Silvia Ferrara, La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose, Milano, Feltrinelli, 2019.

La poliedrica figura di Bixio Candolfi Mostre La Biblioteca cantonale di Lugano propone una esposizione dedicata

all’uomo di cultura ticinese, in occasione del suo centenario dalla nascita Giovanni Medolago La sua biografia avrebbe certo potuto tradursi dapprima in una sceneggiatura e poi in un film, come quelli co-prodotti dalla RSI grazie a «Cinema 80», uno dei suoi tanti progetti condotti felicemente in porto da infaticabile promotore culturale qual è stato per quasi mezzo secolo. Il titolo del film lo suggerisce la Biblioteca Cantonale di Lugano, che gli dedica una mostra – curata dallo storico Danilo Baratti – in occasione del centenario dalla nascita: Da Comologno al mondo, Bixio Candolfi senza confini. La pellicola potrebbe aprirsi con l’attività agonistica del giovane Bixio, appassionato e valente calciatore del FC Locarno, attività svolta con la complicità della mamma e però all’insaputa del padre, preoccupato che allenamenti e partite potessero distrarre il suo figliolo dagli studi alla Magistrale e poi all’Università di Berna. «A 26 anni ero già pelato – ricordava sorridendo – a furia di segnare gol di testa!». Scena clou: la semifinale di Coppa svizzera, raggiunta dalle Bianche casacche nel 1943 battendo il già allora blasonato Young Boys. Nell’ipotetico film ci sarebbe spazio per molti cameo di altrettanti illustri personaggi: Giuseppe Ungaretti, Giansiro Ferrata, Riccardo Bacchelli, Pio Baldelli, Padre David Maria Turoldo («Uomo straordinario, una delle figure che più mi hanno impressionato»), e Vittorio Sereni, quest’ultimo divenuto poi caro amico

di Candolfi, col quale era solito trascorrere qualche settimana al mare di Bocca di Magra, scoglio ligure amato quasi quanto Comologno. Tra le personalità di casa nostra, ecco poi Giovanni Orelli, Adriano Soldini, Eros Bellinelli, Plinio Martini o Giovanni Bonalumi; infine Max Frisch e René Burri, che in Onsernone trovarono ben altro che un semplice buen retiro. La difficoltà maggiore, per realizzare il nostro film, sarebbe paradossalmente quella di far accettare al buon Bixio la parte del protagonista. Un esempio eclatante di tale signorile modestia lo troviamo nella sua performance forse più celebre – e celebrata quale trasmissione più longeva non

La mostra sarà aperta fino all’11 gennaio 2020. (Arch. Prezzolini)

solo della RSI, ma addirittura a livello internazionale –, quella Costa dei Barbari creata con Gabriele Fantuzzi, intellettuale lombardo col quale concepì per sé un curioso pseudonimo monetario: Franco Liri. Quante volte l’abbiamo sentito annunciare quale misterioso responsabile dai tre storici conduttori – Febo Conti, Flavia Soleri e Luigi Faloppa, che parlano, ridono, cantano e qualche volta pensano «in vero italiano!». Altrettanto importanti furono molte altre iniziative concepite e portate avanti con caparbietà da Candolfi, di cui sono preziosa testimonianza lettere autografe, foto e molti altri documenti proposti dalla mostra alla Biblioteca. Ben prima di Cinema 80 che vide la nostra TV aprire una strada di co-produzione in ambito cinematografico poi seguita dalle principali emittenti europee, il professore (come l’hanno sempre chiamato i suoi più stretti collaboratori) diede vita dapprima ai «Corsi serali» seguiti poi dai «Corsi di cultura». Creò i Cineclub di Chiasso e Lugano e nell’ambito del Festival di Locarno concepì quel «Cinema&gioventù» che è stata e resta raffinata fucina di tanti cinefili. Fu autore di riduzioni radiofoniche di tanti capolavori degli amati scrittori statunitensi (Faulkner e Hemingway, ma anche il meno conosciuto William Saroyan), cui si affianca – tra innumerevoli altre – una versione in sette puntate del Caso Dreyfus. Attraverso Radioscuola offrì un radicale cambio di paradigma nella lettura sto-

rico/antropologica degli Indiani d’America, ben diversi dai feroci pellerossa dei film di John Wayne. Diede fiducia al regista Bruno Soldini, i cui Racconti cinematografici divennero molto popolari. Negli anni in cui il Ticino viveva grandi cambiamenti socioeconomici, Bixio Candolfi fu tra i primi a cogliere l’enorme potenziale offerto da radio&tv e divenne instancabile promotore di iniziative culturali volte a «migliorare il cosiddetto linguaggio della tribù e più in generale a migliorare la convivenza civile nel Paese» (Giovanni Orelli, chiamato da Candolfi a condurre in TV Questo e altro, mirabile esempio di rubrica culturale accessibile anche ai non addetti ai lavori). Un intellettuale curioso e poco organico, liberale nel senso più alto del termine: «Il suo liberalismo – spiega Baratti – si richiamava a Piero Gobetti, al Socialismo liberale dei fratelli Rosselli e all’esperienza di Giustizia e libertà, a Norberto Bobbio o ancora alle riviste “Il Mondo” di Mario Pannunzio e in ambito locale “Ragioni critiche”, di cui apprezzava il colto pluralismo». Legatissimo al Ticino e sempre fiero delle sue origini, Bixio Candolfi – come dichiarò in un’intervista televisiva – fu altresì un operatore culturale «sempre vigile di fronte al pericolo di cadere in un banale e chiassoso provincialismo». Il Ticino, purtroppo, a tutt’oggi fatica a trovare qualcuno in grado di sostituirlo.

Il Ticino è un cantone problematico? Forse un po’ sì, il territorio più a sud della Confederazione ha certo qualche cruccio che gli tormenta il sonno, tuttavia non pare soffrire più di altri: diciamo che il Paradiso è lontano, l’Inferno viene scansato, più che altro si ha dimestichezza con il Purgatorio. Di nuovo. Il Ticino è un cantone problematico? Sì, se l’aggettivo viene posto in diretta relazione con il sostantivo che ne deriva: non «problema» (assai più antico!), bensì «problematica», ossia un insieme di problemi. Un’indigestione di problemi, stando a quanto sembra piacere la parola «problematica» anche ai cantonticinesi, specie quelli chiamati a esprimersi con cipiglio ufficiale. E qui la mente corre a quel minimondo che è la corsa verso una carica politica, con relativa esposizione del candidato sui giornali, in TV, in radio, e poi sui cartelloni, e ancora sui social, eccetera. Alzi la mano quel candidato, poi eletto o no, che non abbia mai brandito «la problematica». Anzi, assai spesso il termine (già di per sé piuttosto collettivo) viene promosso al grado plurale, quindi il politico (o politicante?) di turno si dichiara pronto a risolvere «tutte le problematiche». Almeno sul fronte linguistico, cerchiamo di essere un po’ indulgenti. Perdoniamo questo piccolo abuso. Anche alle latitudini nostrane gli esponenti politici non sono linguisticamente senza macchia, forse qualche birichina nuvola (dialettale) transita a volte nel cielo terso dell’eloquio cantonticinese. Ma l’agorà politica è da sempre specchio del paese reale, e il paese reale, in linea di massima, parla come mangia. Appunto. Tentato dal fast food, il cittadino a volte mangia di fretta e senza posate. Qualcosa di simile è successo anche nel parlar politico. Ecco che infatti gli esperti notano da qualche anno un cambiamento su questo fronte, un modo di esprimersi più diretto, senza troppi fronzoli; un parlare più simile al codice utilizzato nei «social», con spazio e numero di caratteri contenuto. E ben venga! Non se ne poteva più del politichese, il «linguaggio politico infarcito di tecnicismi, giri di parole, formulazioni ambigue e reticenti, espedienti retorici, che lo rendono poco comprensibile» (cit. dal Grande Dizionario Hoepli). Politichese nel quale tra l’altro «la problematica» ha vissuto il suo primo periodo d’oro. Sarebbe tuttavia sbagliato negare che a questo nuovo codice di espressione del politico non manchino i difetti: proseguendo sull’onda della metafora del fast food, oggi preoccupa parecchio infatti anche la sua deriva, ossia lo sconfinamento in certo «junk food» (letteralmente «cibo spazzatura»), infarcito di insulti, parolacce, sproloqui, minacce e magari maledizioni. Vero è che rispetto al passato si presenta oggi, grazie ai nuovi strumenti di comunicazione, la sacrosanta possibilità di dialogo diretto fra cittadino e politico: «con senso civico, però!», è la grande raccomandazione. (Ma sappiamo ancora, oggi, il vero significato del concetto di «senso civico»?) Va bene essere sinceri, va bene la libertà di espressione e di opinione, ma non si utilizzi la lingua alla stregua di pernacchie, torte in faccia, sberle o peggio. Certo si potrebbe dire che nel tempo un poco siamo migliorati: un secolo fa le dispute politiche in Ticino si risolvevano anche a schioppettate. Ma attenzione a non fare come i gamberi.


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Cultura e Spettacoli

Nel nome di Sherlock Holmes

Personaggi La vita e il lascito di Adrian Conan Doyle, figlio del creatore del celebre detective,

sono legati a doppio filo alla Svizzera e al suo spirito eternamente cosmopolita Benedicta Froelich Per quanto, a prima vista, ciò possa apparire come un controsenso, è stato proprio in tempi frenetici e tecnologizzati quali i nostri che un personaggio della cultura popolare nato a fine ’800 (e, in fondo, rappresentante di un ambito old-fashioned come quello della società inglese tardo-vittoriana) è inaspettatamente riuscito ad apparire al pubblico come ben più attuale e intrigante di molte effimere e superficiali icone moderne. È così, dopotutto, che il ventunesimo secolo ha potuto sperimentare un vero e proprio revival della figura di Sherlock Holmes, nata nel 1886 dalla penna del medico e scrittore scozzese Arthur Conan Doyle: nel giro di pochi anni, ciò ha portato ad assistere a svariate rivisitazioni cinematografiche e televisive e al ritorno dei cosiddetti apocrifi – ovvero, quei romanzi e racconti che vedono Holmes e il fido Dr. Watson affrontare avventure inedite, rigorosamente basate sul riverito «canone» stabilito dall’autore.

Lo stesso Adrian, uomo dalla vita avventurosa, è stato autore di alcuni racconti che continuano le vicende di Holmes Eppure, non molti sono a conoscenza del sodalizio che da sempre lega il grande investigatore alla Svizzera, terra apparentemente lontana dalle nebbiose atmosfere londinesi delle sue immortali imprese. Sir Arthur aveva infatti un debole per il nostro Paese: pioniere dell’allora neonato sci alpino, vi si recò spesso in villeggiatura, finendo addirittura per scegliere le cascate del villaggio di Meiringen, nel canton Berna, come scenario della «morte apparente» di Holmes, narrata nel racconto Il problema finale (1893). Soprattutto, però, la Svizzera avrebbe rappresentato un autentico luogo dell’anima per il figlio Adrian, ultimo discendente dei Conan Doyle,

il quale, deciso a coltivare la memoria del padre, avrebbe istituito proprio in territorio elvetico (per la precisione nel borgo di Lucens, a poca distanza da Losanna), la fondazione a lui dedicata. Classe 1910, Adrian Malcolm era il secondo dei tre figli nati dall’ultimo matrimonio dello scrittore, e lo avrebbe accompagnato in molte delle sue imprese – a partire dalla crociata in favore dello spiritismo, che questi difese nell’arco di lunghe tournée come conferenziere in tutto il mondo. Tuttavia, avrebbe saputo diventare molto più del semplice erede del creatore di Sherlock Holmes: dal padre aveva ereditato uno spirito curioso ed anticonformista – per dirla con le sue stesse parole, profondamente «internazionalista» – e, in quanto tale, scevro da quello snobismo di stampo britannico che all’epoca contraddistingueva il suo ceto sociale; del resto, lo stesso Holmes poteva ben definirsi un eccentrico, alieno alla più parte delle convenzioni borghesi del proprio tempo. Questa mentalità insolitamente aperta permise ad Adrian di interessarsi molto presto ad altre culture e stili di vita, cedendo spesso al richiamo dell’avventura: come quando, insieme alla moglie Anna, trascorse sei mesi attraversando l’Oceano Indiano a bordo di uno schooner (esperienza da cui, nel 1952, nacque il libro Heaven Has Claws). Fu proprio il desiderio di conferire uno spirito il più possibile internazionale al lascito artistico (ma anche morale e spirituale) del padre a far sì che, nel 1965, Adrian creasse la Sir Arthur Conan Doyle Foundation esattamente in Svizzera, da sempre il più cosmopolita dei paesi europei, situato nel cuore di quello che gli anglosassoni ancora chiamavano «il Continente»; si trasferì così con la moglie nell’antico castello medievale di Lucens, il quale, secondo uno stile reminiscente dei romanzi storici dell’illustre genitore, venne popolato dalla collezione di armature e cimeli holmesiani del nuovo inquilino. Non solo: Adrian non seppe resistere al richiamo della creatura paterna, arrivando a firmare un libro di racconti apocrifi (Le imprese di Sherlock Holmes,

Adrian Conan Doyle (a destra) e l’attore Robert Stephens, che ha impersonato a teatro il celebre detective inglese. (Keystone)

del 1954) insieme al famoso giallista John Dickson Carr, già autore di una biografia di Sir Arthur. Ma soprattutto, con devozione toccante eppure acuta e meditata, figlia della profonda intelligenza di cui era provvisto, Adrian avrebbe sempre difeso a spada tratta la reputazione del padre dagli attacchi maliziosi di critici e saggisti – i quali, in fondo, non avevano mai davvero compreso come Conan Doyle avesse fatto di Sherlock Holmes la parte migliore di sé: l’uomo che, nel proprio cuore, avrebbe voluto incarnare. Non è infatti un caso che lo stesso Sir Arthur si fosse calato nei panni dell’investigatore, applicando nella vita reale i metodi deduttivi (a tutti gli effetti precursori della moderna scienza forense) di cui aveva dotato Holmes, e salvando

così dalla forca più di un innocente – su tutti, George Edalji, vittima di un caso talmente ambiguo da aver poi condotto alla creazione della Corte d’Appello inglese. E sebbene, per sua stessa ammissione, Adrian non si considerasse del tutto all’altezza delle nobili azioni paterne, la lezione impartitagli dal genitore aveva attecchito, portandolo a consacrare la propria vita a Lucens non solo alla storia, ma anche agli ideali di Sherlock Holmes – forse l’unico personaggio di carta ad aver davvero varcato i confini della pagina scritta per farsi presenza viva e vibrante nell’immaginario collettivo: una figura mossa da un’etica e umanità profonde e tangibili, tuttora incredibilmente moderne. Così, quando un infarto si portò via Adrian ad appena 59 anni, le sue

ceneri vennero interrate proprio nei bastioni dell’amato castello svizzero, dove avrebbe sempre riposato all’ombra dell’eroe da lui servito con tanta abnegazione. E nonostante il panorama della cittadina fosse già stato alterato dalla presenza dell’effimero (e difettoso) reattore nucleare, testimone dell’impietoso scorrere del tempo, ancor oggi si ha ugualmente l’impressione che lo spirito di Sherlock Holmes viva e cammini perfino qui, nel cuore del canton Vaud – dove il Musée Sherlock Holmes, tuttora attivo a Lucens, è meta dei molti nostalgici desiderosi di catturare l’anima del loro idolo. E magari di ritrovarsi, come scrisse il celebre sherlockiano Vincent Starrett, «qui, dove solo le cose a cui il cuore crede sono vere, ed è sempre il 1895».

Quel Medioevo sconosciuto

Mostre Al Museo cantonale di Sion un’esposizione dedicata a un periodo storico

su cui gravano ancora alcuni pregiudizi

Marco Horat Nelle nostre conoscenze della storia del mondo esistono luoghi comuni che, malgrado siano stati ampiamente sconfessati sotto ogni punto di vista dagli studiosi, sopravvivono imperterriti. Uno di questi è senza dubbio l’idea

che il Medio Evo, con l’entrata in scena dei popoli che daranno poi origine ai Regni romano-barbarici, sia stato un periodo buio, di regressione e di crisi; un periodo sospeso tra la fine dell’Impero romano d’Occidente e il fiorire della civiltà luminosa del Rinascimento europeo. In effetti non è proprio così.

Scrigno merovingio dal Tesoro dell’Abbazia di Saint-Maurice. (J.Y. GlasseyM. Martinez)

Il Medio Evo è stato «semplicemente» un momento di grandi cambiamenti economici, sociali, religiosi e politici come quasi sempre capita nelle vicende storiche umane. Alcuni tratti culturali scompaiono a contatto con nuove realtà, altri ne nascono e si consolidano in tempi più o meno lunghi a seconda delle circostanze; è la legge dell’impermanenza. Non è quanto capitato anche in questi ultimi decenni? Nel dopoguerra il mondo era diviso in due blocchi, poi abbiamo assistito alla scomparsa dell’Unione sovietica e all’affermazione del capitalismo su scala universale, alla globalizzazione dei mercati e ora alla guerra dei dazi, alla crescita e all’ulteriore impoverimento della popolazione di quello che si chiamava una volta il Terzo mondo e quindi alle grandi migrazioni verso il ricco Occidente, alla nascita dell’informatica con le sue applicazioni, alle auto elettriche, ai cambiamenti climatici e via dicendo. Tutto scorre in continuazione e addio ai bei vecchi tempi; un ragionamento che vale per le varie fasi della nostra storia. A ben pensarci non ci sono forse mai stati immutabili «bei vecchi tem-

pi», ma solo momenti di relativa stasi di fronte ad altri nei quali i cambiamenti sono avvenuti più rapidamente, fino ad arrivare al parossismo dei nostri giorni. Questo per dire di una mostra archeologica e storica curata da Lucie Steiner aperta al Museo cantonale di Sion nelle sale del vecchio Pénitencier e intitolata Alle sorgenti del Medio Evo. Tempi oscuri? dove la domanda è naturalmente retorica. Un periodo durato circa cinque secoli, l’Alto Medio Evo. Ha visto l’espansione del Cristianesimo e la fondazione di nuove potenze quali il Sacro romano impero di Carlomagno che durerà quasi un millennio; per poi sfociare successivamente nella costruzione di grandi cattedrali, monasteri (quindi la trasmissione della cultura) e castelli, nonché nuovi rapporti sociali che hanno portato al sistema feudale compiuto con signori e vassalli, cavalieri e soldati, contadini, artigiani e servi: quello più frequentato dalla letteratura e dalla cinematografia popolari. Una vicenda storica che ha lasciato alle sue spalle testimonianze importanti sia a livello materiale sia intellettuale che la mostra vallesana ripercorre fissando lo sguardo sul territorio com-

preso tra le Alpi e il Giura e sulla vita delle classi privilegiate (come spesso capita per ovvie ragioni). Oltre agli antichi testi degli amanuensi su temi di diritto ecclesiastico, ci sono preziosi oggetti come un pastorale appartenuto a San Germano e un reliquiario di Teodorico, entrambi del VII secolo, come pure i reperti messi a disposizione dall’Ufficio vallesano di archeologia, frutto di ritrovamenti recenti, e quelli che provengono dal Museo archeologico di Losanna, con lo scopo di dare un quadro completo di questo periodo passando dalla vita religiosa a quella quotidiana: un pettine in avorio e altri oggetti per la cura della persona, suppellettili e dadi da gioco, fibule e gioielli vari, perfino una chiave in bronzo. Un panorama inedito con prestiti da tutti i musei romandi e dal Museo nazionale a riprova del fatto che unendo le forze si possono realizzare iniziative culturalmente originali. Il discorso viene completato da una pubblicazione scientifica e da una serie di manifestazioni dedicate al pubblico, alle famiglie e alle scuole. La mostra rimarrà aperta fino al 5 gennaio 2020.


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Idee e acquisti per la settimana

Un viaggio di scoperte culinarie Passate le festività, in cucina si ha voglia di maggiore tranquillità. I menu pronti di Anna’s Best sono un successo garantito e lasciano più tempo da dedicare ai buoni propositi per il nuovo anno. E grazie alla varietà di menu thailandesi, indiani, francesi o svedesi si mette in tavola una gran carrellata di piatti Testo Claudia Schmidt; Foto Fotostudio MGB; Styling Esther Egli

Suggerimento In Svezia quando si portano in tavola le köttbullar, non può mancare la «lingosylt», una conserva simile alla marmellata di mirtilli rossi. Le bacche crescono spontaneamente nei boschi del paese e la conserva in genere accompagna i piatti più sostanziosi, anche a base di pesce. Ed è particolarmente apprezzata in abbinamento alle köttbullar.

La Svezia è la terra di origine delle köttbullar, la cui pronuncia approssimativa è «sciòttbulla». La loro grande popolarità, che le ha portate a diventare il piatto tradizionale svedese, è da ricondurre a un negozio di arredamento.

Anna’s Best Köttbullar con purea 460 g Fr. 6.95


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Suggerimento Nei ristoranti thailandesi è usuale ordinare birra, succhi di frutta o tè verde. Le apprezzatissime chips di gamberi, chiamate krupuk o nuvole di drago, che vengono servite con il satay di pollo, non hanno nulla a che vedere con quelle da noi usate durante gli aperitivi. Sono più che altro da considerare analogamente al pane che noi serviamo con il cibo.

Anna’s Best Thai Chicken Satay 400 g Fr. 7.80

ll satay di pollo è un piatto originario dell’Indonesia. Si trova attualmente sui menu di numerosi ristoranti thailandesi ed è molto apprezzato anche in Svizzera.


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Idee e acquisti per la settimana

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Suggerimento Il pollo tikka masala viene servito con riso. Ad esso si abbina però altrettanto bene il pane indiano naan. La salsa raita, a base di yogurt, menta e cetriolo, è un delicato accompagnamento al curry indiano. Come bibita viene offerto il lassi, bibita indiana a base di yogurt, che esiste nella versione salata o dolce. In Svizzera è particolarmente apprezzato il fruttato lassi di mango.

Il pollo tikka masala ha origine… in Inghilterra. Narra la leggenda che, a seguito della richiesta da parte di un cliente di una salsa da abbinare alla carne di pollo grigliata, il cuoco di un ristorante asiatico abbia condito un sugo di pomodoro con spezie indiane.


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Rösti Original in conf. da 3 3 x 750 g

25%

6.30 invece di 8.40

Prosciutto crudo S. Daniele Italia, affettato in vaschetta da 100 g

20%

6.20 invece di 7.75

Fettine fesa di vitello fini TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

a par tire da 2 pe z zi

20%

Tutte le noci tostate Party, Zweifel, bio e You per es. pistacchi Party, 250 g, 3.60 invece di 4.50

30%

Tutto il caffè Boncampo e Exquisito, in chicchi e macinato, da 500 g e da 1 kg, UTZ per es. caffè in chicchi Boncampo Classico, 500 g, 3.25 invece di 4.70

Migros Ticino Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 27.12.2019 AL 6.1.2020, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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Tutti i detersivi Total a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione, offerta valida fino al 13.1.2020


t o , a z z e h c s e fr a im s s a M 30%

2.50 invece di 3.60

Prosciutto al forno M-Classic in conf. speciale Svizzera, per 100 g

20%

conf. da 2

30%

8.90 invece di 11.15

4.95 invece di 7.10

Carne secca dei Grigioni affettata ďŹ nemente in conf. speciale Svizzera, 116 g

15%

2.80 invece di 3.30

Fettine di pollo Optigal Svizzera, per 100 g

Pancetta a dadini TerraSuisse in conf. da 2 2 x 120 g

20%

3.90 invece di 4.90

Lombatina d’agnello M-Classic Provenienza vedi imballaggio, per 100 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 27.12.2019 AL 6.1.2020, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20%

3.65 invece di 4.60

Filetto dorsale di merluzzo MSC per es. M-Classic, Wildcatch dall'Atlantico nord-orientale, per 100 g


timo prezzo. 50%

conf. da 5

33%

9.50 invece di 19.–

8.35 invece di 12.50

Nuggets di pollo Don Pollo prodotti in Svizzera con carne di pollo dal Brasile/Argentina, in conf. da 900 g

Wienerli M-Classic in conf. da 5 Svizzera, 5 x 4 pezzi, 1 kg

20%

1.60 invece di 2.05

Arrosto spalla di maiale con rosmarino arrotolato TerraSuisse Svizzera, imballato, per 100 g

20%

7.90 invece di 9.95

Tutto l’assortimento di ostriche per es. Ostriche Marennes OlÊron, ASC, Francia, in conf. da 6 pezzi, disponibili nelle maggiori filiali dal 28.12 al 4.1.2020

25%

8.10 invece di 10.80

Carne macinata di manzo TerraSuisse Svizzera, in conf. da 2 x 300 g / 600 g

20%

3.60 invece di 4.55

Arrosto di vitello cotto Svizzera, affettato in vaschetta, per 100 g

Hit

1.60

Cotechini prodotti in Ticino, per 100 g, valido dal 28.12.2019


20%

Tutte le arance sfuse per es. arance bionde extra, Spagna/Portogallo, al kg, 2.20 invece di 2.80

33%

1.95 invece di 2.95

Peperoni bio Spagna, in busta da 400 g

Hit

12.90

Phalaenopsis in vaso di ceramica, decorata Ă˜ 6 cm, in diversi colori, il vaso, per es. fucsia

35%

2.50 invece di 3.95

Carote bio Svizzera, sacchetto, 1 kg

10%

4.95 invece di 5.50

Tulipani, mazzo da 15 disponibili in diversi colori, il mazzo, per es. rosso-gialli

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 27.12.2019 AL 6.1.2020, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

25%

5.85 invece di 7.80

Minestrone alla ticinese Svizzera, imballato, al kg

20%

2.30 invece di 2.95

Finocchi Italia, sciolti, al kg


20%

2.90 invece di 3.90

Uva bianca senza semi Brasile, in conf. da 500 g

20%

2.95 invece di 3.80

Noci Grenoble Francia, imballate, 500 g

20%

15%

1.35 invece di 1.70

1.85 invece di 2.20

Le Gruyère AOP dolce a libero servizio, per 100 g

20%

1.40 invece di 1.80

Appenzeller surchoix per 100 g

Grana Padano a libero servizio, per 100 g

20%

1.55 invece di 1.95

Latte senza lattosio aha! UHT in conf. da 1 l

30%

2.80 invece di 4.05

Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, per 100 g, al banco a servizio


Il bello della conven conf. da 2

20%

4.70 invece di 5.90

Formaggio fresco Cantadou in conf. da 2 Aglio ed erbe della Provenza, rafano o Le Marché d'Orient Bombay Curry, per es. aglio ed erbe aromatiche della Provenza, 2 x 140 g

conf. da 2

–.60

20%

di riduzione

3.30 invece di 3.90

13.40 invece di 16.80

Formentino Anna’s Best busta da 130 g

conf. da 2

25%

Prodotti Cornatur in conf. da 2 fettine di quorn con mozzarella e pesto o Vegetable Burger Viva, per es. fettine di quorn con mozzarella e pesto, 2 x 240 g, 9.70 invece di 13.–

Fondue Moitié-Moitié in conf. da 2 2 x 400 g

conf. da 3

conf. da 2

20%

25%

Pasta bio in confezioni multiple Fiori con zucca e salvia, fiori con ricotta e spinaci o spätzli alla zucca, per es. Fiori con zucca e salvia in confezione da 3 pezzi, 3 x 250 g, 12.90 invece di 16.20

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 27.12.2019 AL 6.1.2020, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

5.70 invece di 7.60

Panini per aperitivo in conf. da 2 2 x 240 g


nienza. conf. da 6

30%

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Tutto l’assortimento di müesli e fiocchi Farmer per es. müesli croccante alle bacche di bosco Croc, 500 g, 3.40 invece di 4.30

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Tutti gli yogurt bio (yogurt di latte di pecora e di bufala esclusi), per es. alla fragola, 180 g, –.60 invece di –.80

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Tutto l’assortimento di tisane Klostergarten a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

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20%

Tutto l'assortimento Chiefs per es. budino proteico Choco Mountain, 200 g, 2.10 invece di 2.65

Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in confezioni multiple, UTZ disponibili in diverse varietà, per es. Noxana in conf. da 6, 6 x 100 g, 9.– invece di 12.90

–.60

di riduzione Tutto l’assortimento di biscotti Créa d’Or a partire da 2 pezzi, –.60 di riduzione l'uno, per es. croccantini alle mandorle, 103 g, 3.20 invece di 3.80

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Tutta la frutta secca e le noci (prodotti Alnatura, Sélection, Sun Queen Premium Nuts e sfusi esclusi), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione


conf. da 2

40%

6.85 invece di 11.45

Sminuzzato di petto di pollo M-Classic al naturale in conf. da 2 surgelato, 2 x 350 g

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6.10 invece di 12.20

Filetti di pangasio Pelican in conf. speciale, ASC surgelati, 1 kg

50%

2.85 invece di 5.70

Vittel in conf. da 6 x 1,5 l

30%

14.– invece di 20.–

Mini pizze Casa Giuliana in confezione speciale alla mozzarella o al prosciutto, surgelate, 40 pezzi, 1200 g, per es. al prosciutto

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25.90 invece di 40.80

Red Bull in conf. da 24 Energy Drink o Sugarfree, 24 x 250 ml, per es. Energy Drink

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 27.12.2019 AL 6.1.2020, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

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– .5 0

di riduzione Tutti i tipi di pasta M-Classic a partire da 2 pezzi, –.50 di riduzione l'uno, per es. pipe grandi, 500 g, –.95 invece di 1.45

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Tutti gli antipasti Polli, Le conserve della nonna, La trattoria e Dittmann per es. pomodori secchi in olio di oliva Polli, 145 g, 2.20 invece di 2.80

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Tutto l’assortimento Mister Rice per es. Wild Rice Mix, bio, 1 kg, 4.20 invece di 5.30


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Tutto l'assortimento Glacetta prodotti surgelati, a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

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Patate fritte e patate fritte al forno M-Classic surgelate, 2 kg, per es. patate fritte al forno, 4.70 invece di 9.45

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Tutte le olive Migros e Polli non refrigerate per es. olive nere spagnole, 150 g, 1.90 invece di 2.40

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Tutti i ketchup e tutte le salse fredde Heinz e Bulls Eye a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

Tutti i tipi di aceto e i condimenti Ponti e Giacobazzi per es. Aceto Balsamico di Modena Ponti, 500 ml, 3.60 invece di 4.50

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Tutte le salse per insalata giĂ pronte non refrigerate e i crostini per insalata per es. French Dressing M-Classic, 700 ml, 2.05 invece di 2.60

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Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Exelcat per es. menÚ croccante al manzo, 1 kg, 3.50 invece di 5.–


conf. da 2

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Handymatic Supreme in conf. da 2 per es. All in 1, 2 x 44 pastiglie, 14.95 invece di 29.90, offerta valida fino al 13.1.2020

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Prodotti per la doccia o deodoranti Nivea in conf. multiple per es. docciacrema trattante Creme Soft in conf. da 3, 3 x 250 ml, 5.75 invece di 7.20, offerta valida fino al 6.1.2020

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Tutti gli assorbenti igienici Secure, Secure Discreet, Tena e Always Discreet (confezioni multiple escluse), per es. Secure Ultra Normal, FSC, 10 pezzi, 2.20 invece di 2.95, offerta valida fino al 6.1.2020

Carta igienica Hakle in conf. speciale per es. pulizia naturale, 30 rotoli, 16.95 invece di 28.30, offerta valida fino al 6.1.2020

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Detersivi Elan in confezione speciale Active Powder o Color Powder, per es. Active, 7,5 kg, offerta valida fino al 6.1.2020

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Tutti gli ammorbidenti e i profumi per il bucato Exelia a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione, offerta valida fino al 6.1.2020

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conf. da 3

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20%

6.20 invece di 9.30

Tutto l’assortimento Potz a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino al 6.1.2020

conf. da 2

conf. da 2

20%

18.40 invece di 23.–

Detersivo delicato in conf. di ricarica Yvette in conf. da 2 per es. Care, 2 x 2 l, offerta valida fino al 13.1.2020

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Box pieghevole disponibile in azzurro/grigio o bianco/viola, 32 litri, per es. azzurro/grigio, il pezzo

Manella in conf. da 3 per es. Original, 3 x 500 ml, offerta valida fino al 13.1.2020

conf. da 3

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Calze da sci da uomo Rohner antracite Cestelli o detergenti per WC Hygo in conf. da 3 in conf. da 2 per es. detergente Maximum Power Gel, 3 x 750 ml, disponibili nei numeri 39–42 o 43–46, 7.80 invece di 11.70, offerta valida fino al 13.1.2020 per es. numeri 43–46, offerta valida fino al 6.1.2020

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Trolley per la spesa Central Square disponibili in diversi motivi,, per es. con motivo a quadri, il pezzo, offerta valida fino al 6.1.2020

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Umidificatore a freddo 350 Orion Mio Star il pezzo, offerta valida fino al 13.1.2020


50% 40%

64.50 invece di 129.–

Giacca da snowboard da bambina Jetty

46.90 329.–

tg. 128–176

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Casco da sci e da snowboard da bambini Pact tg. 53–59 cm

invece di 549.–

Sci On Piste da donna Anthem 76 LTD con attacchi ER3 10 GW Lunghezze: 149–163 cm

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Giacca da sci da donna blu

invece di 129.–

Casco da sci e da snowboard Brigade+ tg. 53–62 cm

il paio

159.–

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Scarpone da sci da donna e da uomo Next Edge GTX

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n. da donna: 23.5–27.5 n. da uomo: 26.5–29.5

Giacca da sci da uomo Stormseason tg. S–XXL

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Sci On Piste Redster S7 con attacchi FT 12 GW Lunghezze: 156–170 cm

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84.50 invece di 169.–

il paio

Scarpe multifunzionali da donna e da uomo Campside Low GTX

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n. da donna: 37–42 n. da uomo: 41–46.5

Stivali invernali da bambini Polar Bear Texapore

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n. 30–37

Offerte valide dal 31.12.2019 al 13.1.2020, fino a esaurimento dello stock.

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