Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Come sviluppare buone relazioni con gli altri? Secondo Anne Böckler occorre dapprima conoscere meglio se stessi
Ambiente e Benessere Lo psichiatra Michele Mattia, presidente Asi-Adoc spiega come sia possibile affrontare e guarire dagli attacchi di panico
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 8 gennaio 2018
Azione 02 Politica e Economia Il regime degli ayatollah ha sedato le proteste, ma in ballo è la ragion d’essere dell’Iran
Cultura e Spettacoli La Bellinzona di Giorgio Orelli in una recente pubblicazione edita da Casagrande
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Simona Dalla Valle
Leggiadre fortezze nipponiche
di Simona Dalla Valle pagina 17
La stampa e la tempesta perfetta di Peter Schiesser Confesso di provare un certo disagio, oggi, a sedere al computer e scrivere l’editoriale settimanale, che poi sarà impaginato dai nostri tipografi (mi piace chiamarli ancora così, anche se è un termine datato), quindi stampato dai colleghi della rotativa, distribuito dai postini e ora in mano a voi, cari lettori. Disagio perché, pur non sentendo minacciato questo giornale, non posso non udire il fragore del crollo del circostante mondo dell’informazione come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi, stretto in una duplice morsa: il drastico calo della pubblicità dovuto (anche) alla lunga crisi economica e la sensibile diminuzione del numero di lettori della carta stampata seguita all’emergere dell’informazione su internet. La tempesta perfetta. Le conseguenze le abbiamo già viste, al di là del San Gottardo: in Romandia c’è stata un’ecatombe di testate, quel che resta è in mano a editori zurighesi; nella Svizzera tedesca si affermano colossi come Tamedia, si difendono a fatica blasonati editori come i proprietari della «Neue Zürcher Zeitung», si rafforzano nuovi editori con interessi più politici, come Blocher che dopo la «Basler Zeitung» ha
acquistato una serie di giornali regionali nella Svizzera orientale e centrale. In Ticino, invece, si fa finta che tutto prosegua come sempre, forse distratti dal fatto che le testate dei quotidiani e dei settimanali più rilevanti presenti da un ventennio ci sono ancora tutte, anche se più di una piuma l’hanno persa tutti. Il problema non è dato solo dal fatto che l’informazione online per un giornale è un’operazione in perdita (ma che va fatta), perché si raccolgono poca pubblicità e abbonati. Il problema vero è che i giovani si informano attraverso altri canali: i social. Che stanno ai media come Airbnb sta agli alberghi, Uber ai taxisti e Amazon ai supermercati: la piattaforma digitale vince. E siccome nei social media si afferma sempre più la «cultura dell’algoritmo», quell’invisibile compagno matematico che predice e asseconda i tuoi gusti, chi fra i giovani così avvinti dalla virtualità ha ancora bisogno di un quotidiano da sfogliare, di un confronto con altre idee? La tazza di tè o di caffè del mattino la bevono su facebook, non sfogliando un giornale. Non cercano i commenti di un quotidiano locale quando possono seguire le opinioni di influencer con migliaia di follower. Allo stesso tempo gli editori devono stare attenti a non scontentare i
lettori di sempre, per i quali sfogliare il giornale è un rituale appuntamento con il mondo. Ma fino a quando gli editori ticinesi potranno offrire l’attuale tradizionale modello di giornale quotidiano, considerato che si prevedono incassi ancora minori dalla pubblicità? Sarei molto sorpreso se fra dieci anni ci fossero ancora i tre quotidiani storici nella forma attuale. Non solo i giornali subiscono questo cambiamento di paradigma, anche radio e televisione faticano a reggere l’urto dell’informazione gratuita e della pretesa di un’informazione gratuita. L’iniziativa su cui voteremo il 4 marzo non si spiega certo solo in questo modo, ma per tanti giovani termini come federalismo, coesione nazionale, formazione dell’opinione pubblica, suonano sicuramente astratti e non sufficienti per invogliarli a pagare il canone radiotelevisivo – anche perché loro la televisione o non ce l’hanno, o si assemblano i programmi come vogliono. Non credo che avremo in questo modo un’informazione migliore, neppure equivalente. Ma il singolo parere su che cosa sia giusto o sbagliato risulta inutile quando l’onda della storia imbocca una direzione così chiara: occorre inventarsi nuovi modelli professionali.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Attualità Migros
M Migros Ticino apre il quarto Activ Fitness Inaugurazioni D a martedì 9 gennaio la catena di centri benessere sarà attiva anche a Mendrisio, in via Lavizzari 2,
sopra la filiale Migros di Piazzale alla Valle. Fino al 31 gennaio abbonamento annuale allo straordinario prezzo di lancio di 590 franchi invece di 740. Per apprendisti studenti, AVS e AI il prezzo sarà di 490 franchi invece di 640
Ubicato nel cuore del bel Borgo, a due passi dall’università e dal nuovo campus della SUPSI, il nuovissimo centro Activ Fitness di Migros Ticino occuperà una superficie di 1100 metri quadrati su due piani, offrendo un eccezionale rapporto tra prestazioni e prezzo. Come a Bellinzona, Losone e Lugano, anche a Mendrisio la palestra, frutto di un investimento di oltre 2,5 milioni di franchi, sarà equipaggiata con le più moderne attrezzature Technogym e il «programma fitness» si baserà su forza, resistenza e agilità, con l’utilizzo di apparecchi di ultima generazione per la muscolazione, la coordinazione e la mobilità, per allenare le articolazioni in modo mirato, promuovere la forma fisica e il coordinamento, così come l’esercizio cardiovascolare. Il ricco calendario settimanale di corsi di gruppo – una trentina di ore in tutto – proporrà le ultimissime tendenze nel campo del benessere fisico, come il Bodytoning e il Bodypump, il Power Yoga, il Vital-Fit e lo Zumba. L’abbonamento comprende la sauna, il bagno turco e il servizio di baby sitting con personale selezionato, così come l’accesso agli altri 41 centri Activ Fitness presenti in tutta la Svizzera. Per ogni iscritto viene elaborato un programma di allenamento personalizzato e vengono fissati gli obiettivi da perseguire, con garanzia di assistenza per l’intero
periodo di validità dell’abbonamento da parte di istruttori che ricevono una formazione altamente qualificata e aggiornamenti continui. Nel centro di Mendrisio sarà disponibile un servizio massaggi, non compreso nell’abbonamento. Il costo dell’iscrizione è molto competitivo e in occasione dell’apertura, fino al 31 gennaio, sarà possibile approfittare di una straordinaria offerta di lancio, con l’abbonamento an-
nuale a 590 franchi (anziché 740). Per studenti, apprendisti, beneficiari di AVS e AI il prezzo sarà invece di soli 490 franchi (anziché 640). Sotto la guida del gerente Daniele Grosso, presso il centro Activ Fitness Mendrisio saranno attivi 25 collaboratori: 5 istruttori fitness, altri 8 per i corsi di gruppo, 6 addetti alla cura dei bambini e 6 per le pulizie. Activ Fitness è presente in Ticino dall’ottobre del 2014, con l’apertura
del primo centro di Losone, e da allora ha riscontrato un notevole successo, sviluppandosi con altre 3 sedi su tutto il territorio cantonale. L’attività è svolta in franchising ed è frutto di un accordo tra Migros Ticino e Activ Fitness SA, società della Cooperativa Migros Zurigo, leader del settore, con 41 centri e quasi 90’000 iscritti in Svizzera. Nel corso dei prossimi anni Migros Ticino prevede di aprire ulteriori centri nel nostro Cantone.
Activ Fitness Ticino è aperto 365 giorni all’anno, domeniche e festivi compresi. Il servizio di baby sitting è disponibile dal lunedì al venerdì dalle 8.45 alle 11.30. Maggiori informazioni e orari delle singole sedi
info@activfitnessticino.ch – www.migrosticino.ch/activ-fitness – Tel. 091 850 86 00.
Le lingue del lavoro Intervista Quali competenze in un mondo del lavoro che cambia? L’analisi di Simona Galli di AITI Servizi La crescita dell’occupazione perdura. Per il terzo trimestre del 2017, l’Ufficio federale di statistica presenta un quadro nazionale tendenzialmente in rialzo. Secondo i dati raccolti, in Svizzera le aziende che prevedono di voler aumentare gli effettivi rappresentano il 9,3% degli addetti. Ma quali sono i profili e le competenze più richiesti? Ci aiuta a leggere lo scenario ticinese e le sue implicazioni sulla formazione Simona Galli, referente di AITI Servizi e attenta osservatrice della realtà imprenditoriale del territorio. «L’Associazione Industrie Ticinesi rappresenta circa 210 imprese, di cui i due terzi appartengono al manifatturiero. Racchiudiamo diverse tipologie produttive – dalla meccanica alla chimica farmaceutica, da quelle che operano nell’ambito delle materie plastiche alle arti grafiche della carta. Il discorso è dunque molto variegato. Se non mancano le imprese che fanno fatica, per le quali si pone l’interrogativo di una possibile delocalizzazione con impatti negativi sul locale, ci sono aziende che viaggiano veloci e che esportano il 90% di ciò che producono. Il nostro fiore all’occhiello è rappresentato dalla chimica farmaceutica. Si tratta di aziende in grado di offrire salari più alti e un trat-
tamento dei lavoratori all’avanguardia, con benefit legati al welfare aziendale e alla flessibilità oraria. Un’altra fetta importante di imprese particolarmente attive è legata al fashion. Alcune di esse hanno in Ticino, oltre alla logistica, anche il centro stile e il customer service».
Azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Uno dei fattori di attrazione per le imprese è la presenza di risorse umane di qualità. Quali sono oggi i profili più richiesti?
Non è facile fare una sintesi, poiché il ventaglio della domanda è sempre molto ampio, tuttavia direi i polimeccanici e gli ingegneri gestionali e di processo. Inoltre, poiché stiamo andando verso una crescente digitalizzazione, servono ingegneri informatici in grado di accompagnare le imprese in questa transizione. L’esplosione della domanda di profili «skillati» riguarda non solo il terziario ma anche l’industria d’avanguardia. Quali sono le competenze più interessanti per le aziende?
Sempre più importanti sono flessibilità e soft skills. Le competenze, in fondo, te le costruisci in azienda. Quello che invece non si può materializzare sono le competenze più soft e di questo c’è tremendamente bisogno.
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Quanto conta la formazione continua?
Molte delle nostre imprese danno grande rilevanza alla formazione continua e lo considerano anche un canale di fidelizzazione. Ma anche i collaboratori chiedono formazione. Oggi non si guarda più solo il mero dato salariale. La gente ricerca anche qualità della vita e opportunità di miglioramento professionale. La possibilità di partecipare regolarmente a corsi di qualificazione, ad esempio, è molto apprezzata,
anche considerato il fatto che le nostre competenze subiscono un’obsolescenza elevata...
Quali sono le aree formative più richieste?
Indubbiamente l’area legata alla digitalizzazione e alle nuove tecnologie digitali. Un vero punto dolente sono le lingue, in particolare il tedesco, lingua nazionale insegnata dalle scuole medie e che tutti dovrebbero sapere, ma che invece pochi conoscono bene. Dal nostro osservatorio è evidente che
nella ricerca del lavoro hanno molte più chances coloro che sanno il tedesco. Altra lingua particolarmente richiesta è l’inglese che in Svizzera viene introdotto molto avanti negli studi e non è obbligatorio. Invece, andrebbe considerato il fatto che molte delle imprese di cui stiamo parlando sono multinazionali e usano quotidianamente l’inglese per comunicare. Vediamo intranet in inglese, scambi di mail e riunioni in inglese. Nel fashion se non sai l’inglese non entri. Se hai una conference call, cosa fai?
La formazione può fare la differenza?
Testa il tuo livello Vuoi conoscere il tuo livello linguistico o sapere quale competenza in una lingua straniera hanno i tuoi collaboratori? Disponibile esclusivamente online, il Bright Language Test è oggi il sistema di valutazione linguistica di riferimento per molte imprese multinazionali e università internazionali, utilizzato per selezionare nuovi candidati e per organizzare la formazione linguistica. Sostieni il test presso la Scuola Club più vicina. Fissa la data per il tuo test Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
individuale! Il Bright Language Report confermerà la tua conoscenza di una lingua straniera in base ai livelli del Quadro Comune Europeo di Riferimento (QCER) ed è una preziosa aggiunta al tuo CV! Tassa d’iscrizione: CHF 60.–. Per informazioni rivolgiti a una delle nostre segreterie o consulta il nostro sito www.scuola-club.ch Bellinzona, 091 821 78 50 – Locarno, 091 821 77 10 – Lugano, 091 821 71 50 – Mendrisio, 091 646 46 33. Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Indubbiamente, e lo saprà sempre di più. Gli imprenditori ci dicono che lo Swiss Made è ancora attrattivo per la garanzia di standard elevati, nonostante il prezzo più alto rispetto alla concorrenza. Ciò significa che per restare sul mercato globale non possiamo derogare sulla qualità che deve rimanere impeccabile. E la qualità – lo sappiamo bene – la fanno anzitutto le persone e la loro formazione. In un mondo del lavoro che cambia, la Scuola Club di Migros Ticino è in prima fila per cogliere il mutamento in atto e rispondere sempre più prontamente ed efficacemente alle nuove sfide che la globalità porta con sé. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Società e Territorio Nasce la fisica sociale La teoria inventata da Alex Pentland studia in modo nuovo l’animale sociale che è in noi
Anche i margini contano Pollegio e Manno: due esempi di progetti sostenuti dal Fondo svizzero per il paesaggio a favore dei «margini insediativi» pagina 8
Un compito che spetta a tutti L’integrazione degli stranieri coinvolge l’intera società, il nuovo Programma cantonale per i prossimi quattro anni indica come riuscirci al meglio pagina 10
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Conoscere noi stessi per conoscere gli altri Psicologia Uno studio coordinato da Anne
Böckler, professoressa dell’università tedesca di Würzburg, dimostra che è possibile migliorare la capacità di conoscere gli altri attraverso esercizi che cambiano il modo di relazionarci con la nostra parte interiore
Stefania Prandi Viviamo in un mondo sempre più globalizzato e complesso. Essere in grado di adattarsi a questa realtà significa sviluppare gli strumenti per capire gli altri, mettersi nei loro panni, comprendere le scelte che fanno e le difficoltà che affrontano. Ma per riuscirci, dobbiamo prima di tutto conoscere noi stessi. Così sostiene un recente studio intitolato Know Thy Selves: Learning to Understand Oneself Increases the Ability to Understand Others (Conoscersi: imparare a capire se stessi aumenta l’abilità di capire gli altri) pubblicato sulla rivista Cognitive Enhancement, fondata nel 2016, che si occupa, con approccio interdisciplinare, di neuroscienze, psicologia, sociologia, con temi che vanno dalla meditazione, ai video giochi, passando per la musica e le smart drugs (sostanze psicoattive che migliorano l’apprendimento). La ricerca, coordinata da Anne Böckler, docente di Psicologia cognitiva all’università tedesca di Würzburg e ricercatrice al Max Planck Institut, in collaborazione con i colleghi Lukas Herrmann e Tania Singer, dimostra che è possibile migliorare la capacità di conoscere noi stessi e quindi gli altri attraverso esercizi che influenzano il modo in cui ci relazioniamo con la nostra parte interiore. Come spiega ad «Azione» la professoressa Anne Böckler, «distanziarci dal nostro punto di vista e adottare ipoteticamente la prospettiva di qualcuno diverso da noi, non è facile. Se ci impegniamo con regolarità a considerare quello che le
persone potrebbero pensare, volere o sapere, possiamo però affinare la nostra abilità. Allo stesso modo, se cerchiamo di capire quello che vogliamo, pensiamo o decidiamo nelle diverse situazioni, possiamo perfezionare la capacità di astrarre da una situazione momentanea, osservando i meccanismi della nostra mente nel loro complesso. Questo è quello su cui si è basato il nostro training». Per tre mesi i ricercatori hanno usato diversi metodi per insegnare a due gruppi, di ottanta e ottantuno partecipanti, tra i venti e i cinquantacinque anni, come sviluppare le capacità per comprendere pensieri, credenze, sentimenti e prospettive. Il training si è ispirato alla terapia dei Sistemi familiari interni, ideata negli anni Novanta da Richard Schwartz, che identifica e affronta molteplici schemi di riconoscimento di quello che avviene dentro di noi. Tra questi, ad esempio, «il giudice interiore», un insieme di pensieri di autocritica che causano ansia, senso di fallimento e comportamento perfezionista. Abituandosi a considerare la prospettiva delle diverse parti di sé, si diventa mentalmente più flessibili e ci si allena nell’esercizio dell’immedesimazione. Così è successo ai partecipanti dell’esperimento tedesco: hanno imparato a esplorare la propria complessità, soffermandosi sugli aspetti negativi. E proprio il riconoscimento delle parti non positive è risultato fondamentale nel processo. «Quando interagiamo con qualcuno, se ci troviamo a conversare con un collega, se parliamo di combattere il
Esplorare la propria complessità, soffermandosi sugli aspetti più difficili, aiuta ad immedesimarsi nell’altro. (Keystone)
cambiamento climatico, oppure se stiamo facendo qualcosa di pratico, come trasportare un divano, è rilevante non solo quello che pensiamo, sappiamo o preferiamo, ma dobbiamo anche considerare il punto di vista dell’altra persona» dice Böckler. «Questo processo di deduzione e ragionamento sugli stati mentali esterni è chiamato Teoria della mente ed è necessario per avere interazioni soddisfacenti. La conversazione diventerà imbarazzante se non ci ricordiamo che il nostro collega ignora che noi sappiamo che ha appena divorziato, la discussione sul clima non avrà successo se non consideriamo la prospettiva di chi subisce maggiormente gli effetti negativi del riscaldamento globale, il divano cadrà se non indoviniamo che chi ci sta aiutando a trasportarlo ha in mente di inclinarlo prima di passare da una scalinata stretta. Se non siamo capaci di immedesimazione, non possiamo prevedere le azioni di chi ci è vicino e di conseguenza pianificare le nostre».
Non c’è un solo modo per riuscire a «uscire» da noi stessi. Avere condiviso esperienze simili con qualcuno, sicuramente aiuta. Esiste poi l’empatia, una strada socioaffettiva, secondo la psicologia, che significa «sentire con» l’altra persona, provando le sue emozioni e sentimenti. Ma mentre l’empatia è spontanea, e non è sviluppata in tutti allo stesso modo, esistono delle tecniche che si possono imparare. Tra queste c’è, appunto, la Teoria della mente, un processo sociocognitivo che richiede sforzo ed esercizio. Il team di ricerca dell’università di Würzburg ha impiegato, per la ricerca, anche tecniche di neuroimmagine, come risonanza magnetica e Tac, che servono per studiare il cervello in modo non invasivo, evidenziandone anatomia e funzioni. Da questi esami si è visto che sia quando pensiamo a noi e ai nostri stati mentali, sia quando consideriamo quelli altrui, attiviamo aree simili del cervello. Secondo Böckler, il
risultato dimostra che processi simili vengono coinvolti nella comprensione di noi stessi e del mondo esterno. Mancano ancora dei tasselli nella dimostrazione scientifica della reciprocità dei due meccanismi, ma lo studio va in questa direzione. E non si ferma qui. Il passaggio successivo sarà capire come il training ideato per l’esperimento possa venire usato nelle scuole e negli ambienti di lavoro. «La nostra società è concentrata sul fatto che dobbiamo essere forti, avere successo, essere assertivi» conclude Böckler. «Magari, invece, potrebbe essere arrivato il momento di cambiare attitudine e impiegare più enfasi nel perfezionare la nostra abilità di metterci nei panni delle persone che ci circondano. Invece di essere concentrati su noi stessi, potremmo impegnarci a essere socialmente più competenti. Potremmo diventare, ad esempio, dei compagni di scuola e dei colleghi di lavoro migliori, capaci di buone interazioni».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Società e Territorio
Siamo prima di tutto creature sociali «Fisica sociale» Big data e matematica per studiare come si diffondono le buone idee:
è l’approccio introdotto dal ricercatore statunitense Alex Pentland Lorenzo Di Carli Negli ultimi anni, certamente anche grazie allo sviluppo dei social media, è cresciuto l’interesse per lo studio delle dinamiche con cui si diffondono le idee. Spesso studiate come fossero dei virus, applicando quindi paradigmi presi in prestito dalla biologia, c’è chi – come il linguista francese Daniel Sperber – ha provato a descrivere l’«epidemiologia delle idee», mettendo in luce le modalità con cui le idee «contagiano» le nostre menti. Altri invece – provenienti chi dall’ambito della psicologia, chi da quello dell’informatica – hanno preso l’iniziativa di creare ex novo un’altra disciplina, la memetica, che studia le dinamiche di selezione delle idee e la loro propagazione. Siccome idee o memi che dir si voglia si diffondono e si combinano secondo modalità che ricordano i geni, lo studio della propagazione delle idee è anche materia d’indagine di chi si occupa di evoluzione della cultura, applicando i principi con cui opera la selezione naturale. In quest’ultima prospettiva, le nostre menti sono veicoli per i memi nello stesso modo in cui i nostri corpi lo sono per i geni. A fronte di tante modalità di approccio che manifestano spesso i limiti di una contaminazione tra discipline fatta solo del prestito reciproco di paradigmi che, talvolta, sono assunti come poco più di metafore, l’approccio di Alex Pentland – definito «fisica sociale» – è molto più concreto: attraverso l’applicazione della matematica ai big data, «la fisica sociale studia il modo in cui il flusso delle idee e dell’informazione produce cambiamenti nei comportamenti».
I gruppi che funzionano meglio non sono quelli in cui un leader impone una direzione, ma dove c’è un flusso di idee sincronizzato e uniforme La citazione è presa dal volume – Fisica sociale. Come si propagano le buone idee – dove Pentland ha raccolto il frutto degli ultimi vent’anni di ricerca, sintetizzando e divulgando decine di articoli scritti per riviste scientifiche e frutto di un lavoro sul terreno caratterizzato da raccolte di dati che non hanno paragoni con le consuete ricerche sociologiche perché acquisiti con dispositivi sociometrici di sua concezione. Già a metà degli anni Settanta,
Una sessione di brainstorming: Alex Pentland sostiene che in un gruppo professionale debbano esserci tante donne quanti uomini, per cogliere meglio la comunicazione non verbale. (Keystone)
Pentland intuì che per descrivere le abitudini relazionali delle persone occorreva che esse indossassero dispositivi in grado di registrare costantemente la loro attività. Gettandosi a capofitto in questa ricerca, diventò di fatto il progenitore di tutti gli odierni wearable device, dai Google Glass agli smartwatch ai braccialetti fitness. Le ricerche condotte da Alex Pentland sono tutte basate su big data raccolti con due diversi sistemi: il badge sociometrico e il sensore per telefonia mobile. Il primo è un dispositivo indossabile della grandezza di una scheda magnetica, contenente un accelerometro, un microfono, un sensore Bluetooth per scovare altri sociometri nelle vicinanze e un sensore a infrarossi per capire se si sta interagendo con qualche altro possessore di sociometro. L’altro è un’applicazione che, installata in uno smartphone, intercetta e analizza qualunque informazione veicolata: dai messaggi SMS all’accelerometro, dalla posta elettronica ai rumori captati con il microfono, ecc. La massiccia raccolta di dati per mezzo di sociometri e smartphone costituisce l’aspetto precipuo della metodologia di Alex Pentland. Studiando i big data e tenendo conto della regolari-
tà dei nostri comportamenti quotidiani, secondo Pentland è possibile prevedere le nostre azioni. «La fisica sociale integra fra loro alcuni campi appartenenti all’economia, alla sociologia e alla psicologia, insieme agli studi che si occupano di rete, complessità, processi decisionali ed ecologia, per poi fonderli insieme tramite i big data». Con questo approccio, Pentland sostiene che quanto caratterizza le nostre interazioni sociali sono i flussi di idee, e ciò ch’egli studia è il modo in cui i nostri comportamenti mutano quando intercettiamo questi flussi. Uno degli scopi delle sue ricerche è proprio quello d’indurre il cambiamento nel comportamento di chi fa parte di un’organizzazione. Studiando i contesti aziendali dopo aver raccolto enormi moli di dati d’interazione, per esempio, Pentland ha osservato che, per operare in maniera più efficace e produttiva, è necessario che in un gruppo ci sia un numero di donne almeno equivalente a quello degli uomini perché, interagendo con gli altri, la comunicazione non verbale è molto più importante di quella verbale. Evolutivamente, la comunicazione non verbale ha preceduto quella verbale, sicché, così
come il nostro corpo comunica prima ancora che noi si apra bocca, un gruppo caratterizzato da un numero di donne elevato è più efficace perché può avvantaggiarsi di una più spiccata abilità nella lettura dei segni sociali. Alex Pentland ha sempre operato in contesti aziendali dove l’efficacia dei suoi interventi era definita dall’incremento di produttività. Partendo dal presupposto più volte verificato che la produttività è correlata con la capacità d’innovare e che questa non è l’azione di un singolo bensì il comportamento di una rete capace di far proprie le nuove idee perché disponibile al cambiamento, Pentland ha rilevato che i gruppi che funzionano meglio non sono quelli in cui ci sono dei leader che impongono ad altri una direzione bensì quelli nei quali l’interazione ha un livello sufficientemente alto di effervescenza da promuovere «un flusso di idee sincronizzato e uniforme facendo sentire tutti parte di un gruppo, cercando di arrivare a un consenso sufficiente per spingere ciascun membro ad abbracciare volontariamente le idee nuove». Secondo il fisico sociale, siamo giunti ad un momento storico in cui la tecnologia rende possibile esaminare
leggere di una nuova mostra in programmazione al museo Guggenheim di New York. A dirigerne e a curarne i lavori sarà l’archistar olandese Rem Koolhaas, tra i più influenti e discussi teorici dell’architettura contemporanea, considerato un maestro dell’urbanistica. Da sempre attento alle trasformazioni delle città ha ora deciso di dirigere lo sguardo sulla campagna, sul territorio extraurbano. E in diverse sue interviste, una in particolare pubblicata sulla «Neue Zürcher Zeitung», ha spiegato il perché di questo suo nuovo sguardo: «Dietro le quinte della città abitano tutte quelle cose di cui una città ha bisogno per sopravvivere. Ma in città non vi è più spazio per l’infrastruttura necessaria ad alimentare e sostenere la nostra economia digitale, nelle nostre città non c’è
più spazio per i giganteschi magazzini di Amazon o per i grandi data center». Dunque i grandi edifici di cui la nostra nuova economia digitale ha bisogno sono troppo grandi per essere messi nelle nostre città e se vogliamo continuare ad intrattenerle e alimentarle nella loro ricchezza la campagna deve essere ripensata, strutturata in un modo completamente nuovo rispetto al passato. Per rendere l’idea basta fare l’esempio della Gigafactory Tesla realizzata a Reno in Nevada, in mezzo al nulla. Costruito per soddisfare la richiesta di batterie al litio per i veicoli elettrici del prossimo futuro questo edificio lungo 2 km copre un’area, destinata a crescere, di 1200 ettari (tre volte il Central Park di New York). Vicino ai confini di questo edificio dalle dimensioni mostruose alimentato con
in tempo reale le interazioni all’interno delle organizzazioni, riconfigurandole affinché i flussi di idee siano più efficaci e meglio coltivata l’intelligenza sociale. Ciò non significa che non debba esserci una leadership, significa – secondo Pentland – che i leader, «anziché predominare nelle discussioni interne, debbono incoraggiare modelli positivi per il flusso di idee». Non solo: il loro ruolo deve anche essere quello di ampliare costantemente il ventaglio delle nuove opportunità, prestando sempre attenzione a chi è portatore di idee diverse e innovative. Facendo ricorso a dati raccolti con smartphone provvisti di opportune applicazioni, Alex Pentland ha studiato non solo la fisica sociale di piccoli gruppi o di organizzazioni, ma anche di quartieri e di città. Facendosi promotore di un New Deal dei dati – dove ogni cittadino abbia il diritto di proprietà dei propri dati, li possa controllare e decidere di cedere o no – egli sostiene che la fisica sociale è in grado di rendere più sane, sicure ed efficienti anche le città, aiutando gli urbanisti a connettere meglio i quartieri tra di loro perché «una città in buona salute ha quartieri completi di tutto e interconnessi».
La società connessa di Natascha Fioretti I territori extraurbani sono gli spazi del futuro Non so voi cari lettori ma io quest’anno, un po’ per le insolite circostanze, un po’ per comodità, i pochi regali che avevo in mente li ho scelti e acquistati online. Per una volta ho deciso di non ascoltare la mia vena romantica e sognatrice, quella che ogni anno mi portava a perdermi tra i mercatini di Natale e i negozi luccicosi addobbati a festa. In pochi minuti, dal pc di casa, con qualche idea chiara e la carta di credito a portata di mano, ho fatto i miei acquisti: un paio di Baabuk blu, una radio digitale vintage, dei libri e un umidificatore ad ultrasuoni di olii essenziali. Tutti ordinati online senza poesia, ma con la certezza del risultato e la convenienza di vedere tutto recapitato a casa prima di Natale. «Che
orrore!» avrei detto negli anni scorsi.... Ma il punto, in verità non è questo, non è quello di discutere dove e perché sia meglio acquistare ma di comprendere quali conseguenze, quale impatto i cambiamenti nei nostri consumi e nelle nostre abitudini avranno sul nostro stile di vita, sul nostro tessuto sociale e urbano e sull’ambiente nel quale viviamo. Siamo veloci infatti nell’abbracciare le nuove opportunità che la Rete e il mondo digitale ci offrono, d’altronde è così facile guardare uno schermo e decidere che cosa comprare ma che cosa c’è dietro, da dove vengono i prodotti che ordiniamo, in quale magazzino si trovano? È una riflessione che io per prima non avevo mai fatto con coscienza fino a quando, tutta soddisfatta dei miei acquisti online, mi sono ritrovata a
energie rinnovabili, ogni tanto viene a brucare l’erba qualche cavallo selvaggio e, se ci si sposta qualche chilometri più in là, ci si imbatte invece in The Citadel, il campus della Switch, uno dei data center più grandi e avanzati al mondo. Dunque non lasciamoci illudere dalla luminosità dello schermo, dalla velocità e ubiquità della connessione, dalla praticità delle nostre transazioni online, dall’invisibilità di tutto questo che pare leggero e inconsistente come una nuvola perché da qualche parte nel mondo prende forme e spazi non indifferenti partecipando di fatto a quella trasformazione delle campagne e del territorio extraurbano di cui parla l’architetto Rem Koolhaas e che sarà al centro della mostra a New York, dal titolo Countryside: future of the world.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
8
Società e Territorio
Il paesaggio di transizione tra insediamenti e campagna
Territorio A Manno e Pollegio due progetti pilota sostenuti dal Fondo svizzero per il paesaggio a favore
dei «margini insediativi», luogo di scambio tra paesaggi edificati e naturali Elia Stampanoni Il Fondo svizzero per il paesaggio ha presentato nel suo opuscolo informativo cinque progetti volti a migliorare la qualità dei «margini insediativi», ossia quelle zone di territorio che sono di transito tra gli abitati e gli ambienti naturali. Delle fasce in cui s’incontrano, e a volte si scontrano, differenti elementi che possono meglio interagire con interventi di riqualifica: progetti d’interconnessione e di sviluppo paesaggistico oppure nel quadro di pianificazioni più generali.
Pollegio ha recuperato un sedime prima occupato dal cantiere AlpTransit, Manno valorizza frutteti, vigne, selve castanili e collegamenti pedonali Dei cinque progetti sostenuti dal Fondo svizzero per il paesaggio, ma anche da altri differenti enti o associazioni, due si trovano a sud delle Alpi. Il primo, già concluso, ha riguardato un importante sedime liberatosi a Pollegio con lo spostamento della linea ferroviaria per la realizzazione del nuovo collegamento Alptransit. Un territorio pregiato che la popolazione del Comune leventinese ha voluto tutelare e valorizzare, progettando un corridoio ecologico d’indubbio valore naturale e paesaggistico. Lungo 1,2 chilometri e su una larghezza variabile tra i cinque e i venti metri si è potuto concretizzare un margine insediativo tra il paese e l’area agricola circostante. La zona è stata arricchita con una serie di elementi caratteristici: un viale alberato, una zona arbustiva con siepi e cespugli, un frutteto ad alto fusto, pietraie, una via pedonale destinata alla popolazione e una strada comunale di quartiere delimitata con vecchie lastre di pietra, piodoi, recuperate lungo il vecchio asse ferroviario.
Il paesaggio rurale tradizionale ha dunque prevalso su altre opzioni, come potevano esserlo una zona edificabile, artigianale o industriale. Una scelta che il Fondo svizzero per il paesaggio e altri sostenitori hanno apprezzato sin dall’inizio, appoggiando il progetto avviato nel 2013 a Pollegio (vedi anche «Azione» del 30 giugno 2014) e inaugurato con una festa nel mese di giugno del 2015. Un intervento di cui hanno beneficiato gli agricoltori, riacquisendo preziosi terreni da sfalcio, la popolazione con una zona ricreativa di valore naturale, ma anche i giovani che in ambito scolastico approfittano della vicinanza di questa fascia per approfondire e osservare l’interessante flora e fauna che essa propone. Un altro progetto ticinese in ambito di margini insediativi è invece in pieno svolgimento a Manno, sulla collina soprastante il vecchio nucleo, vicino a un gruppo di case che è diventato una piccola parte di un comune ormai cresciuto, con la vasta zona collinare a destinazione residenziale e un fondovalle occupato da un intenso insediamento industriale. Il territorio di Manno si estende oggi su 2,4 kmq, con il 40% di bosco (circa 100 ettari), 48 ettari tra prati, campi e pascoli e 4 ettari destinati a frutticoltura, viticoltura e orticultura. Il progetto esecutivo, sviluppato e seguito da EcoControl SA, ha voluto rivalorizzare il già eterogeneo paesaggio con una serie d’interventi in una fascia di territorio ricca di opportunità, al confine tra gli insediamenti abitativi e l’area boschiva. In un primo tempo è stato ripristinato il ripido terreno Ronco Do, da anni lasciato a pascolo e non più coltivato. Qui i terrazzamenti sono stati ricostituiti in modo d’agevolare il lavoro di gestione, pronti per accogliere oltre mille piante di vite, scelte tra alcune varietà caratteristiche e particolari del nostro clima, come Bondola, Nebbiolo, Seibel, Gamaret o Barbera. Accanto al vigneto, che si estende su una superficie di circa 5800 mq, a Manno sono già stati piantati 90 alberi
Lavori di terrazzamento al Ronco Dò, a Manno, primavera 2017. (Marco Delucchi – Fondo svizzero per il paesaggio)
ad alto fusto di 45 varietà rare del Ticino, in particolare della Capriasca, grazie alla collaborazione con ProFrutteti. Il progetto Parco di Manno prevede anche il restauro di alcuni muri a secco caduti in degrado, mentre altri già erano stati recuperati con il progetto «Strada Regina», nato nel 2016 nell’ambito della collaborazione tra i Comuni di Agno, Bioggio e Manno per concretizzare i piani di sviluppo sostenibile promossi da Agenda 21. Con esso si è potuto valorizzare un percorso storico, archeologico e culturale che oggi fornisce un valido appoggio per quest’ulteriore progetto del margine insediativo. Oltre al vigneto collocato nella parte a sud più esposta al sole e al frutteto nella parte a nord, è pure previsto un rinnovamento dei collegamenti pe-
donali, sfruttando e seguendo la morfologia del terreno esistente. Nella zona inferiore del ronco, quindi a ridosso del nucleo vecchio di Manno e di facile accessibilità, ci sarà invece un punto di ritrovo, porta d’entrata al Parco di Manno, mentre a ridosso del bosco verranno recuperati una selva castanile e il relativo margine boschivo per completare un intervento a favore dell’ambiente e della natura, ma di certo anche della popolazione. Un altro dei progetti sostenuti dal Fondo svizzero per il paesaggio presentato nel bollettino 49/2017 sta coinvolgendo la città di Berna, con l’iniziativa denominata Grünes Band (cintura verde). Qui i comuni di Köniz e Kehrsatz, attigui alla capitale, stanno attuando una serie d’interventi per valorizzare la zona cuscinetto tra l’area
urbana e quella di campagna. Sono per esempio già stati creati piccoli giardini, arnie per api selvatiche, strisce coltivate a girasole o piantati alberi da frutto. Altre idee sono in fase di studio o elaborazione per creare un margine insediativo con le condizioni ideali per cui la popolazione possa beneficiarne appieno. Concetti applicati anche nel comune di Val-de-Rouz (Neuchâtel), dove frutteti, siepi, viali alberati e muri a secco sono parti centrali del progetto, accanto a strutture per favorire per la mobilità lenta come piste ciclabili o pedonali. Con queste e altre misure, i comuni coinvolti dai progetti pilota stanno dimostrando come sia possibile limitare la confusa crescita insediativa frammentaria, valorizzando invece il paesaggio in modo mirato.
Paesaggi naturali e interiori di Anna Gnesa Editoria L’adorata Verzasca della scrittrice in un volume di Giuseppe Brenna Elena Robert Stavolta Giuseppe Brenna ci invita a scoprire la valle dove ha scelto di abitare, la Verzasca, da un’angolatura affascinante, diversa da quella alpinistica o della cultura alpina trattate in opere precedenti. L’esperienza, la ricerca personale e i recenti approfondimenti accademici all’USI, una laurea in filosofia prima e un master in lingua e civiltà italiana concluso l’anno scorso, lo hanno portato a percorrere strade alternative per tornare a scrivere sullo spirito dell’uomo, sulla civiltà rurale scomparsa dei padri. Dalla sua tesi Anna Gnesa e i suoi paesaggi. La montagna e i suoi contadini è nato a fine 2017 un volume dedicato alla scrittrice verzaschese (Gordola 1904-1986). Una donna a dir poco speciale, che merita di essere maggiormente conosciuta e compresa, un’accademica che ha lavorato come maestra in valle, sensibile, riservata, che ha rivolto la sua attenzione all’ambiente amato che la circondava e agli uomini che in passato hanno contribuito a qualificarlo con ingegnosa
operosità, interagendo con la natura. Nel grandioso spettacolo naturale della Verzasca Anna Gnesa sente e riconosce la bellezza della civiltà che ha generato, quella del contadino di montagna con i suoi valori e le sue competenze. «L’umanità pastorale – scrive – è la sola in cui io mi senta radicata». A rivelare in tutte le sfumature il filo conduttore delle sue prose (Questa valle, Lungo la strada, Acqua sempre viva!), ossia il «richiamo della stirpe», Giuseppe Brenna giunge scandagliando il linguaggio e il pensiero della scrittrice, seguendo i suoi paesaggi naturali e interiori, attingendo a documenti anche inediti fino ad accompagnare il lettore sui luoghi di sei percorsi escursionistico-letterari e fotografici di Anna Gnesa. Nella tesi e nel volume edito da Salvioni l’autore rivolge uno sguardo complice e affettuoso, sia pur marginale, anche al noto Carlo Levi (Torino 1902-Roma 1975), voce significativa del Novecento italiano e al suo Cristo si è fermato a Eboli, per l’amore e il rispetto rivolto al mondo contadino del Sud, nato in Lucania durante il confino tra il
1935 e il 1936. Brenna evidenzia similitudini e consonanze tra le visioni di Anna Gnesa e di Carlo Levi, presentando altrettanti itinerari escursionisticoletterari sui luoghi dello scrittore nella
Un’immagine di Anna Gnesa tratta dal libro di Giuseppe Brenna.
terra appenninica. Li accomunano, secondo l’autore, aver vissuto un’epoca di transizione, impegno civico, profondità di osservazione e di analisi, lungimiranza, coraggio nelle scelte di vita. Dai testi della scrittrice verzaschese, cui è prevalentemente dedicata quest’opera recente di Brenna, emerge la gioia legata all’amore per la natura e a ogni sua espressione vitale (come l’acqua libera delle sorgenti o della Verzasca) che le offriva l’opportunità di interrogarsi, incontrare se stessa, vivere esperienze spirituali, come pure la gioia di vivere e riconoscerla nelle manifestazioni quotidiane delle attività umane (ad esempio, il canto dei contadini e il ribattere delle campane). Anna Gnesa ha lottato contro la povertà. La vita le ha riservato non poche difficoltà e, tra l’altro, un «sogno di vita religiosa» che non è riuscita a nutrire. Nelle sue prose si percepisce con chiarezza anche sofferenza cosmica, malinconia, dolore, nel raccontare ad esempio i «drammi della montagna», amarezza, forte disagio nei confronti della modernità prepotente e del turismo. Fu tra le rarissime voci a
dichiararsi, con articoli sui media ticinesi, contro lo sfruttamento dell’acqua della Verzasca, un bene comune, la costruzione della diga all’entrata della valle (realizzata tra il 1961 e il 1965) e la conseguente distruzione del patrimonio naturale. Scrisse con profonda indignazione di «fiume assassinato» e, riferendosi alla diga, di «cemento carceriere dell’acqua». La ricostruzione della vita e del pensiero di Anna Gnesa è stata possibile grazie all’esistenza di un fondo documentario ricco e diversificato, oggi a disposizione dei ricercatori. Depositato a Massagno, all’Associazione Archivi riuniti delle Donne Ticino, da fine 2016 ha potuto essere ricomposto, alimentato da nuovi importanti materiali. Bibliografia
Giuseppe Brenna, La Valle Verzasca di Anna Gnesa e la Lucania di Carlo Levi, Salvioni Edizioni Bellinzona 2017, Collana Sui sentieri dei padri. www.archividonneticino.ch/bi ografie-del-locarnese/
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Società e Territorio Migranti minorenni non accompagnati, in un centro della Croce Rossa a Paradiso: un fenomeno nuovo, in Ticino, di cui dover tenere conto. (Ti-Press)
Imparare a fallire per essere più liberi Il caffè delle mamme Gli insuccessi
insegnano più dei successi, nella vita Simona Ravizza
Un compito per l’intera società Integrazione Presentato a fine novembre il Programma
cantonale per i prossimi quattro anni. Ne parliamo con il Delegato all’integrazione degli stranieri Attilio Cometta
Fabio Dozio Se avete un appartamento da affittare, lo date più volentieri a un uomo di colore (nero, giallo, rosso) o a un indigeno, posto che siano entrambi incensurati, solvibili e di condizione economica simile? Il colore della pelle è ancora un fattore discriminante. La polizia di Zurigo ha adottato l’autunno scorso un nuovo protocollo per impedire agli agenti di essere condizionati dal colore della pelle (racial profiling), o da altre caratteristiche estetiche, quando devono esercitare i loro controlli in strada. Insomma, è inutile far finta di nulla, il razzismo, o sottili e striscianti forme di discriminazione, è una costante di ogni società, anche se non sempre facile da definire. «Il Ticino non è razzista – afferma il delegato all’integrazione degli stranieri Attilio Cometta – è un cantone che sa essere generoso e accogliente, ma a volte si ha paura. Tendiamo a chiuderci quando non conosciamo, poi quando si conosce apriamo le porte. D’altra parte anche in Svizzera ci sono frizioni, il Röstigraben è una realtà, la storia non è tanto diversa». Il Ticino è stato un paese di emigrazione, dalla metà dell’Ottocento ai primi anni del Novecento, ma anche d’immigrazione, da sempre. In questi ultimi anni la geografia della popolazione è cambiata radicalmente. Fino agli anni Cinquanta erano soprattutto gli italiani che arrivavano da noi per lavorare, poi si sono aggiunti gli spagnoli, i portoghesi, gli jugoslavi, i turchi. Da qualche anno siamo confrontati con un’immigrazione da paesi terzi, extraeuropei, persone che cercano asilo in Svizzera. «Si continua a parlare di crisi, quando si discute di rifugiati – ci dice Attilio Cometta –. Ma non bisogna più parlare di crisi: è un dato di fatto, è strutturale, sarà sempre così nel futuro. Bisogna accettare la situazione e lavorare per promuovere l’integrazione di tutte le persone che vivono da noi. Il Ticino è cambiato molto. Una volta questo Ufficio non esisteva, non c’erano gli stranieri che ci sono oggi. E quindi anche l’atteggiamento della popolazione è cambiato. Le diversità possono spaventare, non si tratta di razzismo, ma anche solo di disturbi banali. Magari danno fastidio gli odori di una cucina esotica, oppure l’alto volume della musica dei vicini di casa. Comunque più del 50% della popolazione ha un approccio positivo nei confronti dell’integrazione. In Svizzera abbiamo un numero consistente di stranieri, ma ce la caviamo bene». In Ticino gli abitanti, a fine 2016, erano 354’375, di cui 99’547 stranieri, pari al 28,1%. I rifugiati accolti erano 1195, mentre i richiedenti asilo 414. I maggiori problemi d’integrazione
sono dati da chi cerca asilo nel nostro Paese. Un fenomeno recente è quello dei minorenni non accompagnati, ragazzi che frequentano le scuole dell’obbligo e che poi devono essere indirizzati verso una formazione professionale. La Confederazione e il Cantone attuano le misure specifiche di promozione nell’ambito di programmi di integrazione cantonali (PIC) quadriennali. Berna mette a disposizione del Cantone fino a 1,5 milioni di franchi all’anno per l’integrazione degli stranieri. Inoltre il Cantone riceve un assegno di seimila franchi per ogni rifugiato. L’ordinanza federale sugli stranieri stabilisce alcuni capisaldi: «l’obiettivo dell’integrazione è di garantire agli stranieri pari opportunità di partecipazione alla società svizzera», inoltre «l’integrazione avviene in primo luogo mediante le strutture ordinarie quali la scuola, la formazione professionale, il mondo del lavoro e le strutture di sicurezza sociale e della sanità pubblica». «L’integrazione deve essere bilaterale – sostiene Cometta – Se vieni da fuori hai il dovere di integrarti, ma non puoi essere l’unico. Deve esserci una disponibilità anche da parte di chi ti accoglie. Bisogna creare opportunità. Conoscersi per integrarsi. Se io sono cittadino svizzero da dieci generazioni offro allo straniero la possibilità di conoscerci. Lo saluto se lo incontro, gli chiedo se ha bisogno di aiuto. Nel mondo del lavoro non è sempre facile». Le associazioni degli stranieri sono un partner prezioso per le autorità. Il secondo Programma d’integrazione cantonale, presentato l’autunno scorso, prevede di sostenere le Comunità mettendo a disposizione sportelli d’informazione e anche due sale per le riunioni. Verrà sostenuto e promosso anche il volontariato, creando moduli di formazione per i volontari. Il processo d’integrazione definito dal PIC 2 si fonda su due fasi principali: accoglienza e socializzazione, soggiorno e integrazione. Nella prima fase si tratta di imparare la lingua e le competenze di base, conoscenze del paese che permettano un inserimento sociale, poi si procede nella seconda fase, con una formazione professionale che dovrebbe garantire un posto di lavoro. Nei prossimi anni più che in passato, si punterà sui Comuni, come spiega Attilio Cometta: «Chiediamo ai Comuni di favorire al meglio l’integrazione dei loro cittadini. L’accoglienza è la cosa più importante. Per esempio si può organizzare un incontro con i nuovi arrivati, come si fa con i diciottenni, invitare a visitare i paesi, presentare le autorità. Poi bisogna migliorare le informazioni, offrendo sul sito del Comune
spiegazioni in diverse lingue, le lettere del controllo abitanti devono essere tradotte. Per queste mansioni noi possiamo aiutare finanziariamente i Comuni. E, ancora, seguire le nuove famiglie che arrivano, cercare di conoscerle, aiutarle per quanto riguarda le scuole, i contatti con gli operatori sociali, la sanità. Tanti Comuni mi dicono che non hanno le competenze e questo è un tema su cui lavoriamo. Formeremo, grazie all’Ufficio della formazione continua, lo specialista per l’emigrazione che potrà occuparsi di queste incombenze». Istruzione, formazione, lavoro, punti cardini per promuovere l’integrazione. Da quest’anno la Divisione della formazione professionale del DECS assume il coordinamento degli interventi formativi nell’ambito dell’integrazione. In particolare si prevede di coinvolgere 150 giovani adulti migranti nei prossimi quattro anni per agevolarne l’inserimento nelle strutture ordinarie della formazione, con apprendistati mirati che permettano loro di acquisire una qualifica e l’inserimento nel mondo del lavoro. «La nostra sfida – precisa Cometta – è individuare le professioni dove c’è domanda. Non è sempre facile, bisogna superare le discriminazioni e ottenere la disponibilità dei datori di lavoro. Bisogna forse anche inventare ruoli e funzioni che possano essere adatti a questa tipologia di stranieri. Ci sono già alcuni progetti pilota interessanti per esempio alla Clinica Luganese e alla Casa del popolo a Bellinzona. È un investimento impegnativo, ma ogni persona sistemata è un successo. Bisogna sfatare la leggenda che il rifugiato non ha voglia di lavorare, c’è chi ne approfitta, ma il vero problema è la mancanza di competenze. Altro tema è la concorrenza. Se si offrono ai rifugiati lavori che possono essere assunti dai locali, diventa un problema e si possono creare attriti». Nei prossimi quattro anni, con il PIC 2, si intende dare una spinta alla promozione dell’integrazione. Maggiore collaborazione interdipartimentale (Istituzioni, Educazione, Sanità e socialità) e coinvolgimento dei Comuni. Il delegato per l’integrazione incontrerà le autorità di tutti i Comuni ticinesi. Bisogna cominciare dal basso, dai luoghi dove gli stranieri vivono. «In prospettiva – conclude Attilio Cometta – bisogna far sì che il tema dell’integrazione non sia un problema, ma diventi un aspetto della vita di tutti i giorni, non si dovrebbe neanche più parlarne. Tutti dovrebbero contribuire a far meglio ed essere accoglienti. I programmi d’integrazione non devono durare all’infinito. A un certo punto la società deve riuscire ad accettare gli stranieri in modo autonomo e naturale».
Insegnare ai figli che nella vita è inevitabile una certa dose di insuccesso può essere un buon proposito per il 2018. La necessità di prepararli a contemplare l’ipotesi del fallimento è un tema su cui stanno facendo riflettere negli ultimi mesi scrittori di successo come Joanne Rowling e Roberto Saviano. Contesti totalmente diversi, stesso messaggio. E da genitori, a Il Caffè delle mamme, la questione non può essere ignorata anche se è destinata a suscitare un ampio dibattito. Joanne Rowling è la mamma di Harry Potter, una saga high fantasy che ha venduto nel mondo più di 450 milioni di copie, tradotta in 80 lingue e trasposta in otto film di successo planetario. Difficile trovare un bambino amante della lettura che a 10 anni non abbia divorato almeno Harry Potter e la pietra filosofale e Harry Potter e la camera dei segreti. Ma con l’uscita lo scorso mese di novembre del suo ultimo libro, Buona vita a tutti, la Rowling fa il salto da scrittrice di maggior successo a livello internazionale di romanzi per ragazzi a life coach. Il sottotitolo del saggio, che riprende integralmente il discorso tenuto ai neolaureati di Harvard nel 2008, è «I benefici del fallimento e l’importanza dell’immaginazione». Senza la capacità di fallire è difficile anche avere il coraggio di vivere davvero. «Qualche fallimento nella vita è inevitabile – spiega Rowling in Buona vita a tutti –. È impossibile vivere senza fallire in qualcosa, a meno di vivere così prudentemente che tanto varrebbe non vivere affatto. Nel quel caso si fallirebbe in partenza». L’autrice di Harry Potter parla per esperienza: «Ad appena sette anni dal giorno della laurea avevo già fallito clamorosamente – racconta –. Il mio matrimonio era imploso in tempi straordinariamente brevi, non avevo un lavoro, ero una madre sola ed ero povera quanto lo si può essere ai nostri giorni pur conservando un tetto sulla testa (...). Non conoscevo nessuno più fallito di me». Il fallimento non è uno spasso. C’è il buio. Il tunnel da attraversare è lungo e non sappiamo se e quando finirà. L’incertezza è padrona di ogni giornata. Eppure il fallimento ha dei benefici. «La consapevolezza di essere emersi più saggi e più forti dalle contrarietà – sottolinea la scrittrice – significa che, da quel momento, in poi sarete certi della vostra capacità di sopravvivere». È il motivo per cui, secondo la Rowling, bisogna insegnare ai figli che la vita non è una lista da spuntare di conquiste e risultati: «Il talento e l’intelligenza non hanno mai vaccinato nessuno contro i capricci del Fato». Mettere in conto che c’è il pericolo di cadere e non avere paura di rischiare è, tutto sommato, l’unico modo per non vivere
come George Gray, uno dei protagonisti dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «L’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti». Ma così i nostri figli non daranno mai un senso alla vita. Per Roberto Saviano, scrittore italiano conosciuto in tutto il mondo per Gomorra e in libreria da ottobre con Bacio Feroce, essere in grado di ammettere l’ipotesi del fallimento è fondamentale per essere liberi. Proprio in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, dove racconta la «paranza dei bambini», gruppi di 10-18enni legati alla Camorra e alla guida di piazze di spaccio che muovono milioni di euro, Saviano si è rivolto alle madri: «Insegnate a tutti i vostri bambini l’ipotesi del fallimento – scandisce a “Che tempo che fa”, la trasmissione domenicale di Fabio Fazio –. Basta medaglie, fallire è libertà». E lo scrittore spiega ad «Azione»: «Imparare a fallire significa imparare a spostare l’asse dei valori non sull’obiettivo, ma sul percorso. Se dovessimo solo valutare l’obiettivo la maggior parte delle nostre azioni sarebbero inutili, sbagliate, false o erronee. È il percorso che va valutato, soppesato, compreso. Se i genitori insegnano ai figli a sapere accettare l’ipotesi di fallire insegnano loro a guardare la strada da percorrere per raggiungere l’obiettivo. Altrimenti se l’obiettivo diventa tutto, ogni mezzo per raggiungerlo è legittimo. Ogni obiettivo giustificherà o legittimerà il percorso. Imparare a fallire, insomma, è importante per imparare ad essere liberi». Dopotutto, già nel 1895, Rudyard Kipling nella sua celeberrima poesia Se si rivolgeva al figlio con queste parole: «Se riesci a perdere e ricominciare dall’inizio senza dire mai una parola su ciò che hai perso sarai un Uomo, figlio mio». Non importa se i bambini cadono, la cosa fondamentale è che siano in grado di rialzarsi a testa alta. Un insegnamento fondamentale anche per dare loro il coraggio di non scegliere nella vita la strada più facile, ma quella giusta. Anche a costo di fallire. Rowling ne è certa: «Con il realizzarsi della mia più grande paura, il fallimento, mi ero ritrovata libera, ero ancora viva, avevo una figlia che adoravo, avevo una macchina da scrivere e un’ottima idea. Così il fondo che avevo toccato diventò la solida base su cui ricostruii la mia esistenza (...) Perché i vostri titoli di studio e il vostro curriculum non sono la vostra vita, anche se incontrerete molte persone che confondono le due cose. La vita è difficile, complicata e sfugge al controllo di chiunque e l’umiltà di capirlo vi consentirà di sopravvivere alle sue vicissitudini». Senza la paura di fallire che immobilizza e non permette di rischiare. Ossia di vivere.
Il fallimento non è uno spasso, ma quando si riemerge ci si sente più solidi. (Marka)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Lunari, almanacchi, pronostici Tra le tante cose che un tempo ricorrevano puntualmente ogni fine d’anno e che oggi vanno progressivamente in disuso ci sono gli almanacchi, i lunari. Ricordi d’infanzia mi riportano alla mente venditori ambulanti che nel mese di dicembre offrivano per strada questi strani miscugli di cognizioni astronomiche, di previsioni e di oroscopi per l’anno imminente, insieme a ricette di cucina, storielle, immagini dipinte. Anche nelle edicole i lunari troneggiavano sopra i quotidiani e le riviste, ed erano evidentemente appetiti da un pubblico folto. E poi passava regolarmente di casa in casa il frate questuante (il «fra cercott», come si diceva), con un almanacco speciale in cui – oltre alle fasi della luna – erano messe in rilievo le festività religiose, i santi del giorno e le preghiere più idonee per le diverse circostanze. Non a caso uno dei calendari più diffusi portava il titolo di Frate Indovino: sul-
la copertina campeggiava un frate con il saio, la lunga tunica dei cappuccini molto popolare e molto amata dalla gente. Ma anche il saio non capita più di vederlo in giro per le strade. Per lungo tempo gli almanacchi hanno esercitato un fascino potente: alcuni storici hanno appurato che nella Francia del Settecento i lunari occupavano il secondo posto in quella che oggi sarebbe la graduatoria dei best seller, subito dopo la letteratura religiosa. Anche negli Stati italiani dello stesso periodo la loro diffusione (dovuta anche al basso prezzo) era tale che l’illuminista Pietro Verri vi vide un potenziale strumento per l’educazione della società civile; ma a suo avviso, per perseguire questo scopo, l’almanacco avrebbe dovuto eliminare ogni pronostico astrologico, causa di « molti errori nella coltura delle terre e de’ giardini, e persino talvolta dei delitti per la seduzione delle cabale,
colle quali lusingano di far acquistar ricchezza». Inutile dire che, con la rinuncia a questi spizzichi di esoterismo profetico, l’almanacco avrebbe perso gran parte della sua attrattiva. Certo, una qualche utilità il fascicolo poteva sempre averla, dato che indicava le fasi lunari sulle quali si basava gran parte dell’attività agricola del passato (per il contadino l’anno lunare era assai più importante di quello solare, e dunque occorreva conoscere lo snodarsi delle lunazioni, il ciclo dei noviluni e dei pleniluni); e poi l’almanacco segnalava le feste di precetto, durante le quali il lavoro era severamente proibito. Ma, al di là di queste utilità pratiche, gli uomini vogliono pur sempre sognare, sperare, avventurarsi nel futuro: i lunari servivano a questo. È ancora così? Verrebbe quasi da pensare che l’età contemporanea abbia realizzato il pieno trionfo della razio-
nalità e della scienza, così da mettere definitivamente in disparte gli oracoli, gli indovini e i loro responsi relativi al futuro. Ma mi risulta che astrologi, cartomanti, chiromanti e oroscopi godono tutt’ora di un largo seguito – magari titubante di fronte al responso, ma pur sempre desideroso di sbirciare nel futuro. No, il declino degli almanacchi è certo dovuto al mutamento storico e culturale; ma il bisogno umano di scrutare nel buio del tempo a venire non è scomparso. Certo, oggi è più difficile prestare ciecamente fede agli indovini: la scienza e la razionalità accresciuta inducono a un ragionevole scetticismo, e in fondo quasi tutti condividiamo quello che il fisico Niels Bohr diceva con garbata ironia: «Fare previsioni è una cosa molto difficile, specialmente se riguardano il futuro». Anche i lunari, con le loro fasi della Luna, sono abbondantemente superati dalla tecnologia moderna: nei
quotidiani e in Rete si possono sempre trovare l’ora dell’alba e quella del tramonto, le previsioni meteorologiche, le fasi lunari. E la Luna, del resto, non è più la divinità misteriosa delle culture antiche e neppure l’enigmatico astro errante del Leopardi: le foto dei suoi crateri, l’impronta lasciata nella sua polvere dal primo uomo che vi è disceso hanno annullato il suo fascino misterioso. Ma, forse, proprio per questo aveva ragione Michele Ainis quando, pochi anni fa, documentava una nuova tendenza alla credulità: «Non c’è più niente in cui credere davvero, e allora tanto vale credere a tutto. Per conseguenza è nato un uomo più superstizioso e credulone di quello medievale. Maghi, cartomanti, fattucchiere non hanno mai fatto così tanti affari». E allora, perché non credere anche al valore propiziatorio degli auguri? Dunque, ai miei eventuali lettori, buon anno!
argento con motivi d’abete ma anche genziane maggiori: fiore simbolo dei pascoli giurassiani. Premiati all’Esposizione Universale di Milano, sono lavori anonimi degli stessi allievi artefici di Villa Fallet. Tranne quello di Le Corbusier che senza problemi di vista, avrebbe seguito il suo destino nel mondo degli orologi da tasca. In pietra, opera di Jeanne Perrochet, tra rami di pino semplificati come orme di uccellini nella neve, spunta geometrico anche uno scoiattolo. Ora nevica sul serio, tiro su il cappuccio del mongomeri – elegante forma italianizzata da Bianciardi nella Vita agra (1962) – e via. Il trecentodue mi porta al crematorio. Opera d’arte totale realizzata sempre dagli allievi del corso superiore d’arte e decorazione, tra il 1809 e il 1910, nel cimitero della Charrière, alla periferia nordorientale. Sull’arco del portale d’entrata, nella pietra biancastra del Vaucluse, i rami scolpiti da Léon Perrin assomigliano molto ai fiocchi di neve al microscopio. Abbasso la maniglia a
forma di foglia di lauro, chiuso. Sempre aperte invece, le porte di diversi edifici d’inizio novecento in centro, le cui trombe delle scale sono decorate da motivi vegetali regionali. Come i ricci degli ippocastani al centosette di rue de la Paix. Cammino ortogonalmente a zig zag nella neve e scovo ancora dei cardi in rue Numa-Droz centotrentasei, stucchi stile platani e foglie d’acero ornamentali sul soffitto nella tromba delle scale dell’edifico al nove bis di rue du Parc. Giornata a velocità inconsueta tipo giapponesi a Roma o Venezia, al punto che dopo tutta questa abetomania, ricoperto di neve, m’immedesimo un po’ nella parte. In realtà vorrei essere un abete di Douglas, quelli magnetici e magistrali di Twin Peaks. Concediamoci dunque un tè di rosa canina e due éclair al cioccolato sulle poltrone in pelle del tea-room Minerva. Davanti la stazione, sulla neve, di stucco mi lasciano le impronte dei piccioni: involontariamente sono in perfetto style sapin.
Con ciò, parlando di comodità e di standardizzazione si rischia di banalizzare un fenomeno che sembra aver eliminato creatività e immaginazione, insomma una componente culturale e persino umana, motore indispensabile nella moda, sinonimo di cambiamenti e sorprese. Invece, ci sono sempre, ma si manifestano in ben altre forme. Come, appunto, spiega van Rooijen, il futuro dell’abbigliamento sarà sempre più determinato da interventi scientifici e tecnologici. Si punta, non tanto sulle fogge e sui colori, quanto sulle proprietà di tessuti, capaci di svolgere funzioni utili: riscaldare o raffreddare la persona che li indossa, evaporare il sudore o, addirittura, agevolare e sostenere prestazioni lavorative e sportive. La Svizzera, nell’ambito dei cosiddetti «Smart Textiles», i tessuti intelligenti, si dimostra all’avanguardia, grazie alla collaborazione fra industria e politecnici. In altre parole, le sorti della moda
non si decidono più nelle case della «haute couture» e del «pret-à-porter», bensì nei laboratori dove si compiono ricerche avveniristiche che, però, si svolgono in quel clima di riservatezza tipico della scienza. Distanziandosi, ovviamente, dal tam-tam pubblicitario che circonda la moda, sin qui abbinata alla mondanità e al protagonismo dei «couturier» e degli stilisti. Personaggi che stanno perdendo quota sulla scala della notorietà. Negli ultimi anni, erano stati superati dall’avvento di una nuova categoria di onnipresenti: i grandi cuochi, gli chef. Certo, non è il caso di considerare chiusa la stagione dei Dior, Versace, Prada, e compagni. In pratica, però, il loro potere di persuasione e suggestione si assottiglia. La moda, come osservava John Carl Flügel, in Psicologia dell’abbigliamento, (Franco Angeli editore) è anche una questione di imitazione. Ci si veste per far parte della propria epoca, seguendo gli esempi che ci circondano.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Lo style sapin a La Chaux-de-Fonds Alla faccia di certi orrori natalizi, purtroppo rimasti ancora in giro come le atroci lucine a intermittenza, oggi vado a fare una bella passeggiata style sapin. Style sapin è un termine odierno per la microcorrente regionalista dell’art nouveau nata a La Chaux-de-Fonds nel 1905. Nasce con il corso superiore creato da Charles L’Eplattenier (1874-1946): studi a Budapest e Parigi e poi professore alla Scuola d’arte fondata qui nel 1870 grazie all’industria orologiera per la quale, si sa, è reputata questa città circondata da maestosi boschi d’abeti. Innevati a regola d’arte come quelli laggiù all’orizzonte. «L’abete e la neve sono stati la principale fonte d’ispirazione» afferma L’Eplattenier a proposito di questo stile tra natura e geometria. Neve ne è venuta giù tanta, alte conifere ondeggiano per il ventaccio nei giardini imbiancati delle villette di questo quartiere residenziale un po’ sopra La Chaux-de-Fonds. Cerco Villa Fallet: opera collettiva degli allievi di L’Eplattenier, tra i quali il diciassetten-
ne Charles-Edouard Jeanneret, futuro Le Corbusier. Prima casa in assoluto – sorta nel 1906 per Louis-Edouard Fallet, incisore-orologiaio – alla quale mette mano per i piani, il modellino eccetera. In zona, tra l’altro, si trovano le sue due più famose case successive: Villa Jeanneret-Perret (1912) e Villa Schwob (1916) meglio note come la Maison blanche e Villa Turque. Il Chemin de Pouillerel sale ripido. Alla prima curva, incorniciate dal tetto spiovente con taglio trapezoidale stile fattorie bernesi, ecco le inconfondibili decorazioni sulle facciate un pomeriggio ai primi di gennaio. Mi concentro sulla facciata sud, più in luce. La geometrizzazione dell’abete è totale. A sgraffito, tre triangolini rosso lampone, uno sopra l’altro, stilizzano al massimo l’abete. Accentuato inoltre dalla sagoma seghettata attorno, alla cui base parte il tronco esile come una striscia. Il tutto color senape, mentre dei triangolini azzurri cadenzano, uno dopo l’altro, questo motivo ad aghi-
foglie ripetuto a oltranza per tutta la facciata. A far ballare l’occhio attorno, l’abete qui è onnipresente. Segato triangolarmente all’inizio delle travi del tetto, forgiato a ziggurat nel ferro battuto del balcone, mimato di nuovo sulla porta d’entrata. I ghiaccioli appuntiti che pendono come pigne dalla gronda, rendono definitivamente questa casa vernacolare, una casa-conifera. Freddo cane ma ricostituente, prendo ancora il trecentodieci che mi riporta in stazione. In dieci minuti sono al Musée des Beaux-arts. Inizia a cadere qualche fiocco. Vado diretto alla sala numero sedici, dedicata allo style sapin. Il pezzo forte è la libreria-credenza in mogano honduregno chiaro, cesellata nel 1903 dallo stesso L’Eplattenier: quattro gufi in alto, rami d’abete, pigne, maniglie dei cassetti in basso a forma di lucertole e libellule. In faccia, gli acheni del tarassaco in avorio volano in giro, incastonati nel noce di un altro mobile, opera di Charles-Edouard Gogler. In una bacheca, dodici orologi a cipolla in
Mode e modi di Luciana Caglio Il futuro dell’abito: più confort, meno chic Almeno qui, le previsioni non saranno smentite, come succede, clamorosamente, in economia, in politica o in meteorologia. Nei confronti della moda, infatti, i pronostici rimangono verosimili. Non possono che confermare una tendenza evidente e irreversibile: il vestiario ha ormai imboccato la strada maestra della comodità, della funzionalità e della praticità, allontanandosi sempre più da quella tortuosa dell’originalità, della fantasia, dell’inventiva. Già negli anni 80, Gillo Dorfles, studioso dell’estetica contemporanea e dichiarato cultore dell’eleganza, aveva captato i sintomi di un’evoluzione che, bene o male, stava cambiando il mondo. Ed erano «l’internazionalizzazione, il meticciato, l’uniformazione del vestiario femminile e maschile, l’appiattimento del gusto». Dorfles li citava, senza emanare sentenze, registrando gli effetti che avrebbero prodotto nella moda. A cui è giocoforza arrendersi. Certo, non è stato del tutto indolore questo cambio d’obiettivo, insomma il
passaggio dallo chic al confort. Ma poi è avvenuto, anche nostro malgrado. Fatto sta che a questi indumenti e a questi accessori, più comodi che eleganti, un tempo condannati dal codice del buon gusto e dei comportamenti corretti, si è finito per fare l’abitudine.
La moda oggi è comodità, domani praticità. (Keystone)
Tanto da apprezzarne non soltanto i risaputi vantaggi d’ordine pratico ma, addirittura, da scoprirne pregi d’ordine estetico. Ci sono piaciuti persino i jeans, le magliette, i giubbotti, i piumini, che hanno conquistato un pubblico illimitato, reso uniforme da tenute standard. Ma, in proposito, l’indizio più rivelatore si registrava nel settore delle calzature. Qui, il successo delle sneakers, ha assunto le dimensioni di un’autentica rivoluzione mondiale. Tutti, di ogni età e stazza, sedotti dalla scarpa da tennis, in grado di restituire elasticità e agilità. Basta sedersi su una panchina in una qualsiasi località, e osservare i piedi dei passanti. Come ha fatto, per impegno professionale, Jeoren van Rooijen, redattore della «Neue Zürcher Zeitung», giungendo alla conclusione che: «La scarpa classica di cuoio, stringata, o la scollata a tacco alto, sono praticamente scomparse dal panorama quotidiano. Sopravvivono unicamente, nelle serate di gala all’Opera».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Ambiente e Benessere Monumenti biologici I nidi di miliardi di formiche dalla taiga siberiana al Giappone passando dai nostri monti
Viaggio intergenerazionale Un quinto dei giovani sotto i trent’anni trovano ispirazione per i loro viaggi nei racconti di genitori e nonni pagina 16
Il fascino dei castelli nipponici Himeji e Nijo sono due incredibili ed eleganti esemplari di fortificazioni del passato architettonico del Giappone
La più alta via delle alpi L’autore della Via incantata compie un’escursione ambiziosa, quella lungo il sentiero Bove
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Attacco di panico Psicologia È un’esperienza emotiva
che appare estrema, dalla quale si può tuttavia guarire e rinascere
Maria Grazia Buletti «Non respiro! Ho bisogno di te, non riesco a muovermi! Tremo tutta, sto sudando! Aiuto! Non riesco a camminare! Mi sento svenire!» Lena (nome noto alla redazione) è al telefono, chiede aiuto, parla ma è certa di non riuscire a respirare, crede di morire da un momento all’altro. Dall’altro capo sua madre che le chiede dove si trova: è sul marciapiede, sulla via di casa. Ma alla sollecitazione di camminare e respirare che è quasi arrivata, Lena non riesce nemmeno a muoversi ed è già tanto se ha saputo digitare il numero telefonico che la collega con qualcuno, con la realtà che a lei, in quel momento, pare assolutamente minacciosa. Non c’è stato un attacco terroristico, Lena non ha subito nessuna aggressione o cose di questo genere: sta solo rientrando a casa dal lavoro, come tutte le sere, e attorno a lei non sta succedendo nulla che giustifichi ciò che, d’un tratto, per lei si traduce in un attacco di panico. «Gli attacchi di panico possono essere segnali positivi che provengono dal nostro inconscio, segnali che vanno analizzati e che ci indicano come qualcosa nella nostra vita non va per il verso giusto e va modificata», esordisce lo psichiatra Michele Mattia, presidente Asi-Adoc (Associazione della Svizzera italiana per i disturbi d’ansia, depressivi e ossessivo-compulsivi). Se lo dicessimo a Lena, in quel momento, non caveremmo un ragno dal buco. «Lena è nel pieno di un attacco di panico: una crisi d’ansia molto forte, improvvisa e inattesa che può cogliere in ogni momento della vita, anche se spesso non ne riconosciamo subito le cause», afferma lo specialista che ne descrive la manifestazione attraverso «una forte e intensa tachicardia, l’angoscia di non riuscire a uscire dalla situazione, palpitazioni, vertigini, sudorazione intensa e la sensazione di non riuscire a respirare, di morire da un momento all’altro. Vengono così colpite la parte cognitiva, somatica, comportamentale ed emotiva». Proprio come descrive Lena, ma in realtà non è così: «L’attacco di panico non comporta un reale pericolo, ha una durata che va da alcuni minuti (da 10 a 30 circa, raramente più di un’ora)
e la sua intensità va smorzandosi da sé, lasciando la persona esausta». Esso è definito da una dimensione di elevata scarica adrenalinica come se vivessimo uno stato di minaccia molto forte: «Abbiamo paura che ci succeda qualcosa e temiamo un rischio irreale sovrastimato dalla nostra mente». Gli attacchi di panico sono molto diffusi, soprattutto tra i giovani, tanto che a ottobre Asi-Adoc ha dedicato a questo tema una giornata informativa. Il dottor Mattia stima che l’incidenza nei giovani dei College americani è del 40-50 per cento, mentre in Europa si situa attorno al 30-35 per cento: «Circa il 30 per cento della popolazione urbana soffrirà, almeno una volta nella vita, di un attacco di panico». I giovani sono dunque i più colpiti: «Non dimentichiamo che il cervello dei ragazzi è ancora in evoluzione, dunque vulnerabile, e già in età giovanile la nostra società impone loro un’estrema competitività, bombardandoli di una sovrabbondanza di informazioni che il cervello in crescita può faticare a gestire». I fattori di rischio passano per gli schermi degli apparecchi, a cui si vanno ad aggiungere altri fattori come la richiesta di perfette e immediate competenze, la modifica della dimensione famigliare, il sovraffollamento dei nuclei urbani, il rumore e quant’altro. «Tutto questo aumenta la sensibilità emozionale dei ragazzi e ne acuisce la difficoltà di avere un filtro adeguato, in una società che oggi possiamo definire come un’eccellente creatrice di ansia». Certo, essere vulnerabili gioca un ruolo insieme ai fattori di rischio ambientale: «Il nostro cervello si forma per due terzi dopo la nascita, secondo i fattori ambientali, famigliari, scolastici e gruppi di appartenenza che ci influenzeranno». Se la paura è uno stato emozionale assolutamente naturale e si definisce come un atto emotivo di difesa e di conservazione, non è così per l’attacco di panico: «La paura è la risposta adeguata a un reale pericolo; l’attacco di panico origina da una sovrastima della paura, amplificando la sensazione di un pericolo virtuale che accende lo stato d’ansia e arresta la valutazione cognitiva». Inutile, perciò, dire a Lena di man-
Lo psichiatra Michele Mattia, presidente Asi-Adoc. (Vincenzo Cammarata)
tenere la calma o provare a convincerla che non succederà nulla: «Quando entriamo nel circuito dell’ansia usciamo dalla nostra razionalità e siamo paralizzati dalla perdita delle nostre capacità cognitive. Tutto rientra solo nel momento in cui il panico si riduce, lasciando posto all’esperienza traumatica. Allora l’evitamento è in agguato perché si crea una memoria biologica del trauma che potrebbe indurci a evitare la situazione originaria». Anche perché l’attacco di panico non arriva per caso: «Al suo interno c’è un messaggio che dobbiamo provare a leggere; non a caso i Greci dicevano che quando ci si trova a mezzogiorno con il sole a picco in un quadrivio, non vedendo la propria ombra si potrebbe venire colpiti dal panico». Scoprire in cosa consiste «quell’ombra» nella nostra vita è la chiave per tramutare quella che ci pare un’esperienza drammatica e incontrollabile in qualcosa che, dice bene lo psichiatra: «Ci può portare a una rinascita, perché la crisi di panico è un se-
gnale evolutivo della nostra esistenza che ci dice che dobbiamo modificare qualcosa del nostro vivere, altrimenti la nostra mente insisterà nel produrre attacchi di panico». A lanciarci un fortissimo e chiaro segnale è dunque una parte di noi che non dominiamo: «Dobbiamo riprendere in mano la nostra vita, individuare cosa non va e provare a cambiare le carte in tavola, preferibilmente accompagnati da uno psicologo o psichiatra specializzato in questo campo». Lavorare per trovare le strategie e gli strumenti di cura degli attacchi di panico si può: «La terapia cognitivo-comportamentale è la più indicata, a patto che ci si crei la coscienza del problema e si voglia superarlo». Allora, un mix di «ristrutturazione cognitiva», unita a tecniche di rilassamento ed eventualmente a un’adeguata farmacoterapia possono aiutarci a risolvere parecchio della situazione: «Fondamentale è l’arrivo precoce in terapia e Asi-Adoc è a disposizione. La crisi non va subita ma affrontata, riconosciamo e troviamo
una via per entrare nella dimensione del recupero delle nostre capacità e, soprattutto recuperiamo la nostra vita». E Lena? Ha consultato un professionista, ha compreso che da tempo era oppressa da un rapporto di coppia che subiva passivamente, ha preso in mano la sua vita e riconquistato la sua indipendenza. Lena non ha più vissuto attacchi di panico e oggi è consapevolmente serena.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista allo psichiatra Michele Mattia.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Ambiente e Benessere
La valle delle formiche
Biodiversità Fra i boschi di conifere della Valle Maggia, ammirando un’architettura con una elaborata
e sofisticata funzionalità, edificata e mantenuta viva da milioni di formiche Alessandro Focarile Non occorre andare lontano per osservare (e magari per ammirare) alcuni significativi esempi di architettura sofisticata e costruita da un energico e straordinario ingegnere: la formica rosso-nera dei boschi di conifere (con esclusione di quelli popolati dal pino silvestre), che abita con sei specie differenti tutte le Alpi. Comodamente seduti potrete raggiungere Carì (1650 metri) sopra Faido in Leventina, oppure la regione circostante Acquacalda (1850 metri), salendo verso il Passo del Lucomagno, il grande bosco a 1950 metri). Ma se volete osservare la più vasta e numerosa colonia, è necessaria un’escursione di un paio di ore nella valle Maggia. Forse, la più vasta finora censita in Ticino, e scoperta dal forestale Marco Dönni.
Per osservare la più vasta e numerosa colonia è necessaria un’escursione nella Valle Sascòla a Sud-Ovest di Cevio in Valle Maggia Salirete alle Cantine dell’Alpe Cortino (1400 metri) e su una superficie di alcuni ettari scoprirete un assembramento di ben 22 formicai (acervi) tra loro collegati, e cioè inter-connessi da una fitta rete di «camminamenti». Alcuni di questi acervi possono raggiungere un metro di altezza e una circonferenza di diversi metri, insediati in un bosco di abeti bianchi e larici. Vi troverete la dimora di diversi milioni di formiche in alacre attività. E tutto ha avuto origine qualche centinaio di anni or sono grazie a un’unica formica regina, fondatrice del primo nucleo di formicai. Questo imponente esercito di formiche nella buona stagione (che si protrae per oltre sei mesi) occupa un territorio di caccia esteso su qualche chilometro quadrato. Qui il suolo e gli alberi sono incessantemente ripuliti di ogni piccolo essere vivente in movimento. Si tratta di molte tonnellate predate e apportate nei formicai nell’arco di un anno di vita attiva, per nutrire la regina della casa e le larve sempre fameliche. E siccome 10mila formiche rosso-nere pesano un chilogrammo i conti sono presto fatti: all’Alpe Cortino vive qualche quintale di formiche! Acervi. Queste funzionali strutture formano estese reti di unità sociali tra loro collegate. Queste possono riprodursi e svilupparsi in permanenza, restando collegate con il libero scambio di formiche operaie lungo le tracce odorose percepite, veri messaggi chimici, e che uniscono i vari formicai. Una super-colonia di Formica lugubris, scoperta nel Giura svizzero nel 1980, e descritta da Daniel Chérix, occupava
Un tipico formicaio di grandi dimensioni. (Pxhere.com)
70 ettari, ed era formata da 1200 formicai (acervi) interconnessi grazie a cento chilometri di «camminamenti». Questo imponente monumento biologico era popolato da parecchi milioni di operaie, accompagnate da migliaia di formiche regine. Nel 1979 i giapponesi Higashi e Yamauchi descrivevano una supercolonia di Formica yessenei (una specie appartenente al gruppo rufa), sicuramente la più vasta colonia animale finora conosciuta a livello mondiale. Essa copriva una superficie di 270 ettari nell’isola di Hokkaido. La popolazione stimata era di 306 milioni di formiche operaie, e di un milione di formiche regine. Questa enorme popolazione viveva in diverse migliaia di nidi tra loro interconnessi! Dalla taiga siberiana, ove la temperatura minima può raggiungere sessanta gradi sotto zero (ma i formicai sono ben protetti sotto la neve), alle fitte abetaie della Scandinavia e del Nord America, su una estensione di oltre 20 milioni di chilometri, le formiche ros-
Un esemplare di Formica lugubris. (Richard Bartz)
so-nere sono ovunque con miliardi di nidi, incuranti delle renne, degli orsi e degli ermellini che popolano i loro stessi territori. E sui nostri monti, con gli aghi dell’abete bianco a 1200 metri di altitudine, attraverso lariceti e abetaie (Picea abies), e con quelli delle lande di ginepri fino a 2200 metri, c’è dovizia di materiali per costruire i formicai. Questi costituiscono una struttura composta principalmente da materiale organico tratto dal bosco: aghi di conifere, frammenti di licheni, spoglie di insetti. Inoltre frammenti di roccia, grumi di terriccio, glomeruli di resina apportati dalle formiche operaie con funzioni battericide e antisettiche. Occorre osservare, inoltre, che la costruzione e la manutenzione del formicaio (acervo) avvengono utilizzando quasi esclusivamente un materiale vegetale, che presenta una molto bassa conducibilità termica: assorbe e perde calore molto lentamente (Geiger 1950). Le foglie (aghi) del pino cembro sono lunghe 4-6 centimetri, e quelle del ginepro alpino soltanto 10 millimetri. È probabile che le differenti specie di formiche rosso-nere si adattino a trasportare questi materiali che hanno pesi differenti. Il formicaio è una struttura vegetale permanentemente asciutta e secca ove non si formano fenomeni di marciume, e quindi assenza di batteri e micro-funghi. È un micro-ambiente completamente isolato dagli altri numerosi biotopi del bosco, saturo di acido formico, una sostanza chimica tossica e irritante secreta dalle formiche. Queste sono prive di pungiglione, spruzzano a molti centimetri di distanza un aerosol a base di acido formico con funzioni difensive e offensive. I formicai hanno un’architettura molto complessa e funzionale, in quan-
to devono assolvere diverse esigenze micro-climatiche che assicurano la vitalità, della dimora. Queste esigenze sono ottenute grazie alla presenza e alla febbrile attività delle formiche, innanzitutto con il loro metabolismo: centinaia di migliaia di formiche generano calore. La struttura stessa è molto complessa e razionalmente suddivisa in vari settori, a seconda se questi servono per la dimora regale, per gli allevamenti (uova, larve), per il deposito di cibo che durante la buona stagione viene senza sosta raccolto e portato a casa, e infine il settore riservato al deposito dei rifiuti. Il bruco di una farfalla e la larva di un imenottero defogliatore (tentredinide) sono organismi ricchi di proteine e di grassi, veri serbatoi di nutrienti. La parte esterna del formicaio è un sofisticato collettore solare grazie alla sua forma conica opportunamente rivolta a sud, e con un angolo di inclinazione di 45°–50° che favorisce l’assorbimento del calore solare indotto. Da ricordare che l’acervo costituisce la parte esterna dell’intero nido, e protegge la parte interna che si sviluppa nel terreno sottostante. Nell’acervo non vivono e prosperano soltanto le formiche, ma anche una più o meno ricca e differenziata consociazione di coinquilini più o meno tollerati. In un formicaio investigato a Faido in Leventina (700 metri) sono state censite ben 43 specie di artropodi, principalmente insetti. Si tratta di predatori a carico delle uova e delle larve delle padrone di casa, demolitori delle materie legnose che compongono l’essenziale della costruzione. Spacciatori di droga poiché le formiche sono ghiotte delle sostanze zuccherine ricche di alcaloidi. Spazzini di tutti i resti organici inutili per le proprietarie. Opportunisti che go-
dono del calduccio che si crea all’interno degli acervi: ben 12-15°C in più rispetto alle temperature esterne. Infine, qualche altra specie di formiche tollerate, come il Formicoxenus nitidulus. Ma non sempre le padrone di casa sono sagge! Ricerche comparate svolte in varie località alpine hanno dimostrato che il formicaio è una entità biologica con carattere di «insularità» nell’ecosistema forestale. Infatti, la mesofauna nella lettiera a pochi metri di distanza dal formicaio ha caratteristiche delle sue componenti del tutto differenti. Questa constatazione mette ancor più in risalto la singolarità e l’isolamento topografico ed ecologico delle formiche rosso-nere nell’ambito della complessa e affascinante biodiversità del bosco. «Chiuse nel loro mondo fatto di messaggi chimici, le formiche sono ignare dell’esistenza dell’uomo. Il loro strano cervello tripartito elabora informazioni ricevute principalmente da uno spazio di soli pochi centimetri intorno al loro corpo. E non hanno alcuna costruzione mentale del tempo a venire. È stato così per decine di milioni di anni, e così continuerà a essere per un futuro indefinito». (Hölldobler & Wilson, 1997) Bibliografia
Edouard Della Santa, Guide pour l’identification des principales espèces de fourmis de Suisse, Centre Suisse de cartographie de la faune, 1994 (Neuchatel), 124 pp. Rudolf Geiger, The Climate near the Ground, Harvard University Press (Harvard, USA) 1950, 482 pp. Bert Hölldobler & Edward O. Wilson, Formiche. Storia di una esplorazione scientifica, Edizioni Adelphi (Milano), 1997, 350 pp.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Ambiente e Benessere
Nonna, ho perso l’aereo
Viaggiatori d’Occidente Il viaggio intergenerazionale sarà di tendenza nel 2018
Non sentiero, non asfalto Bussole I nviti
a letture per viaggiare
Claudio Visentin Da bambini abbiamo scoperto il mondo dal sedile posteriore dell’automobile, contendendo lo spazio ai fratelli con un nascosto lavoro di gomiti e ascoltando i litigi dei genitori nei sedili davanti, tanto più aspri quanto più futili erano i motivi. Gli inglesi hanno addirittura coniato un termine apposito, Crap Days, per indicare quei giorni nei quali vorresti stare tranquillo nella tua cameretta e vieni invece trascinato a trovare i parenti o a visitare qualche insulso museo. Con i nonni si passavano invece mesi di interminabile noia al mare d’inverno. Una famiglia è anche questo del resto, se appena si esce dagli stereotipi rosa confetto. Raggiunta la maggiore età, la mia generazione metteva subito bene in chiaro che il tempo dei viaggi coi genitori era finito. Si partiva invece con i propri amici con l’Interrail o con veicoli improbabili, senza dare notizie di sé per settimane; poi si viaggiava con la fidanzata, sino a chiudere il cerchio quando un giorno, quasi con sorpresa, ci si trovava a litigare sul sedile davanti dell’auto con quella che nel frattempo era diventata la propria moglie. Le trasformazioni della società contemporanea, sempre più fluida, hanno superato questo schema. Per esempio oggi i figli si sposano più tardi, restano a casa più a lungo e superate le ribellioni adolescenziali viaggiano di buon grado coi genitori a loro spese. Anche l’accoppiata nonni e nipoti è sempre più frequente. I baby boomer (la generazione nata dopo la Seconda guerra mondiale) sono più sani e attivi rispetto al passato e quando vanno in pensione hanno buone rendite, da spendere viaggiando. Meglio però stare alla larga dai coetanei, per non sentirsi vecchi, sostiene qualcuno di loro; è più divertente progettare un viaggio insieme ai propri nipoti, davanti a una cartina dispiegata. Spesso è un viaggio avventuroso, se pensiamo che i premi per l’assicurazione di viaggio dei sessantenni e settantenni sono aumentati del 30 per cento negli ultimi dieci anni. Per chi non vuole rischiare troppo, ci sono comunque diversi operatori specializzati fondati negli ultimi anni per rispondere a una domanda crescente. I figli dei baby boomer tuttavia sono spesso impelagati in carriere molto più incerte e soprattutto meno redditizie. Non sempre possono partire quando si vorrebbe ed ecco che i nonni diventano i naturali compagni di viaggio dei nipoti. Poi, appena possibile, i
«Strade bianche: bianche, ocra, grigie, brune, castane, anche nere, testa di moro, resina, ruggine, seppia, terra bruciata, terra bagnata, terra di Siena e del Senese. Strade imbiancate dal tempo: cielo, neve, pioggia, sole, vento, soprattutto luce...»
Per sentirsi giovani è più divertente progettare un viaggio insieme ai propri nipoti. (Vimeo)
genitori li raggiungono per un inedito viaggio di tre generazioni, magari con i biglietti gentilmente offerti dai nonni (ricordatevi di definire con chiarezza gli aspetti economici prima della partenza per evitare spiacevoli equivoci: chi paga cosa?). L’occasione per un viaggio tutti assieme può anche essere il matrimonio o la laurea di un parente che vive lontano: dopo la cerimonia, perché non trattenersi qualche giorno in più come turisti? Naturalmente nei viaggi intergenerazionali è sempre meglio mettere in conto qualche conflitto: per esempio, appena giunti in una nuova città, i nonni vorrebbero rilassarsi prendendo un caffè in un tavolino all’aperto per contemplare lo spettacolo della vita cittadina, mentre i bambini non vedono l’ora di correre a terrorizzare i piccioni; a pranzo poi gli adulti buongustai dovranno superare la resistenza dei pargoli che puntano dritti verso il fast food… Ma tutto sommato sono situazioni prevedibili (e gestibili) quando si viaggia in un gruppo dove tutte le età sono rappresentate, da nove a novant’anni. In compenso il viaggio intergenerazionale può essere fonte di sorprese. Spesso i membri della stessa famiglia
vivono lontani e ci si sente soltanto per brevi telefonate formali. Un viaggio, pur con tutti i suoi imprevisti e magari anche i momenti di tensione, può essere l’occasione per scoprire che nel frattempo siamo cambiati, maturati, che possiamo uscire dai ruoli prefissati e parlarci come adulti, per esempio durante un lungo percorso ferroviario. E il superamento delle vecchie contrapposizioni può lasciare spazio a insospettabili affinità, nascoste nella nostra linea ereditaria: ricette preferite, modi di dire, piccole manie. Oppure un viaggio con tutto il nostro clan può essere l’occasione per mettere alla prova un nuovo fidanzato sul quale vorremmo investire per il futuro: se resiste è quello buono. Anche la scelta delle mete segue regole nuove. Secondo una ricerca di Hotels.com, un quinto dei giovani sotto i trent’anni trovano ispirazione per i loro viaggi nei racconti di genitori e nonni. Perché allora non visitare assieme questi luoghi? Perché non mostrare ai più piccoli le tombe dei faraoni studiate a scuola? O progettare un viaggio di famiglia a Gerusalemme sulle orme di Gesù? Preferite una vacanza naturalistica, per esempio un safari in Kenya o un viaggio tra le foreste del Casentino?
Altrimenti ci si può sfidare negli sport invernali o semplicemente rilassarsi alle terme. Potrebbe essere divertente anche un viaggio tutti insieme con un pulmino in stile hippie, per esempio lungo la Wild Atlantic Way, un tracciato di 2500 chilometri che scende dal Donegal, nel nord dell’Irlanda, alla contea di Cork. Oppure condividere una barca lungo i canali di Francia e Olanda, con escursioni in bicicletta per esplorare il territorio. C’è spazio anche per progetti decisamente più fantasiosi, come andare a caccia di alieni e costruire razzi spaziali a Roswell, New Mexico, dove nel 1947 si favoleggiò dello schianto di un UFO. Strada facendo, qualcuno potrebbe scoprire vocazioni insospettate, come Baddie Winkle: a 89 anni non rinuncia a vestire con fantasia ed è diventata una seguitissima star di Instagram. Ora sta facendo un giro del mondo con la ventunenne nipote Kennedy per vedere tutti i luoghi sino ad ora soltanto sognati e fare nuove esperienze: cantare in un pub di Dublino, passare una serata al Moulin Rouge, volare in elicottero sopra il Grand Canyon, appassionarsi a una partita di beach volley sulla spiaggia di Ipanema...
Più di un sentiero, che si cancella nello spazio di una stagione se non viene percorso; meno di una strada asfaltata, ben segnata sulle cartine e quasi indifferente ai viaggiatori. Le strade bianche sono la passione segreta dei camminatori. Strade di campagna «calpestate da milioni di viandanti poco visibili, clandestini, anonimi, minimi, minuscoli, microbici, muti e forse un po’ terrosi, eppure svolazzanti e sventolanti, aerati e aeronautici». La prosa elegante di Marco Pastonesi, giornalista della «Gazzetta dello sport» in odore di letteratura, si riconosce subito. Sulle strade bianche del resto hanno scritto le pagine più belle anche gli eroi della bicicletta delle origini, sport nazionale e popolare di un mondo segnato dalla fatica e dal sacrificio, ancora poco interessato ai capricciosi divi del pallone: tappe infinite, centinaia di chilometri dall’alba al tramonto, (dis)avventure a non finire. Ogni anno, la prima domenica d’ottobre, quei tempi tornano a vivere nell’Eroica, celebrazione del ciclismo su strada, della sua storia e dei suoi valori, rigorosamente corsa su biciclette d’epoca (anteriori al 1987) e con abbigliamento in tono. Il percorso si snoda attraverso alcune delle più belle strade della zona del Chianti senese, della Val d’Arbia e della Val d’Orcia; diversi tratti sono ancora strade bianche, e dunque «buche e tombini, fossati e chiodi, cani e gatti, macchine e camion, spettatori e avversari, forature e cadute». Bibliografia
Marco Pastonesi, La leggenda delle strade bianche. Piccolo omaggio alla polvere e al sudore degli eroi a pedali, Ediciclo, 2017, pp.96, € 8,50.
Passare il tempo con le consonanti Giochi di parole C hi trova la parola più lunga?
Da ciascuno dei seguenti gruppi di consonanti, provate a ottenere delle parole molto lunghe, utilizzando le regole esposte; confrontate, poi, i risultati ottenuti con quelli riportati nello spazio delle soluzioni. 1. CRST 2. GNNNR 3. GNNRVZ 4. MNRRTTT. Questo gioco è sicuramente stimolante e coinvolgente. Per renderlo un po’ più impegnativo, però, ho pensato di metterne a punto una variante (che ho chiamato Consonare), apportando le seguenti modifiche alle regole originarie. ■ Le consonanti estratte devono essere, tutte diverse tra loro. ■ Le parole devono contenere tutte le consonanti estratte, con eventuali ripetizioni. ■ Ciascuna parola ottenuta correttamente riceve tanti punti quante sono
le lettere da cui è composta, ma non è previsto, alcun bonus (dato che devono essere utilizzate tutte le consonanti estratte...). Ad esempio, supponendo di avere sorteggiato queste sei consonanti: CLNRTZ, alcune parole ottenibili potrebbero essere le seguenti: CONCETTUALIZZARE (16) – CON-
TRATTUALIZZARE (17) – ELETTROCAUTERIZZAZIONE (22). Nel rispetto di queste altre regole, provate a cimentarvi anche con i seguenti gruppi di consonanti; confrontate, poi, i risultati ottenuti con quelli riportati nello spazio delle soluzioni. 5. MNST, 6. GLNRT, 7. CLNSTZ, 8. CLMNQRT
Soluzione
Il grande successo ottenuto dai giochi di parole elettronici ha riacceso l’interesse nei confronti di analoghi passatempi, eseguibili anche senza supporti tecnologici. Tra questi, uno dei più semplici e coinvolgenti, è stato inventato nel 1996 dal fiorentino Michele Comerci, con il nome Consonando. Le sue semplici regole possono essere così esposte. ■ Ad ogni mano, viene estratta casualmente una prefissata quantità di consonanti (non meno di quattro e non più di otto), non necessariamente tutte diverse tra loro. ■ Subito dopo, nell’arco di un tempo concordato, ciascun concorrente deve cercare di formare una parola molto lunga, impiegando le consonanti
estratte (totalmente o in parte, ma senza ripetizioni), aggiungendo liberamente le vocali necessarie ■ È ammessa qualsiasi parola registrata in un vocabolario della lingua italiana, in tutte le sue potenziali flessioni (non sono validi, invece, i nomi propri). ■ A ciascuna parola valida vengono attribuiti tanti punti quante sono le lettere da cui è composta. ■ Nel caso in cui siano state utilizzate tutte le consonanti estratte, viene aggiunto un bonus uguale al numero di tali consonanti. Ad esempio, supponendo di avere estratto queste quattro consonanti: GMNN, alcune parole ottenibili potrebbero essere le seguenti (tra parentesi sono indicati i relativi punteggi): Ingenuo (7) – Mangiano (8+4 = 12) – Inguainiamo (11+4 = 15).
Qui di seguito, sono riportate alcune parole ottenibili con le regole proposte (non garantite, però, come quelle di punteggio più alto, in assoluto…). 1. Satirico (8+4 = 12) – Austriaco (9+4 = 13) – Euroasiatico (12+4 = 16) 2. Ingannare (9+5 = 14) – Nonagenario (11+5 = 16) – Inguaieranno (12+5 = 17) 3. Zigrinavano (11+6 = 17) – Rinegoziavano (13+6 = 19) – Aeronavigazione (15+6 = 21) 4. Tramortente (11+7 = 18) – Atterramento (12+7 = 19) – Autoritariamente (16+7 = 23) 5. Assennatamente (14) – Istantaneamente (15) – Entusiasmantissimo (18) 6. Intortigliato (15) – Autonoleggiatore (16) – Otorinolaringoiatria (20) 7. Consultazione (13) – Nazionalistico (14) – Anticostituzionalità (20) 8. Controquerelammo (16) – Millecinquecentotrentacinque (28) – Quattrocentoquarantaquattromilaquattrocentoquarantaquattro (58)
Ennio Peres
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Ambiente e Benessere
L’airone e l’usignolo: i castelli di Himeji e Nijo Reportage Più che un viaggio archeologico, un tuffo nel passato fortificato del Giappone
Simona Dalla Valle, testo e foto Bianchi come la neve e costruiti in luoghi strategici – su alture, presso importanti snodi stradali, vicino a porti, allo scopo di controllare agevolmente i dintorni – i castelli nipponici costituivano la residenza del Signore, o Daimyo, di una determinata zona. Oltre a essere inattaccabili e avere una tale imponenza da intimidire gli eventuali aggressori, queste strutture godevano di tutte le comodità necessarie in una residenza signorile.
Il castello di Himeji nel 1931 fu designato tesoro nazionale e nel 1993 l’Unesco lo inserì nella lista dei monumenti patrimonio dell’umanità Il castello era costituito da una serie di costruzioni all’interno di una cinta muraria, il cui cuore era costituito da una torre principale (Daitenshukaku) accompagnata eventualmente da torri minori (Shotenshukaku) di forma piramidale, collegate tra loro tramite passaggi – i Wateriyagura. Ai piani inferiori della torre principale erano localizzati gli appartamenti del Daimyo, mentre i piani superiori fungevano da luoghi di osservazione e controllo, e in periodo di pace anche da magazzini di armi o viveri. I castelli erano costruiti per lo più in legno ed è per questo che molti sono andati perduti; nel XVI secolo, periodo d’oro dei castelli in Giappone, ve ne erano quasi cinquemila in tutto il paese. Successivamente, per renderli maggiormente stabili e capaci di resistere alle nuove armi da fuoco, si cominciarono a utilizzare elementi in muratura. Situato sulla costa della prefettura di Hyōgo, a circa un’ora da Kyoto e Osaka, il castello di Himeji (nella foto
in alto) sorge su un’altura dominante l’omonima città ed è uno dei pochi castelli del Giappone conservatosi intatto fino ai nostri giorni. Il castello è costituito da quattro torri, delle quali la principale è collegata tramite corridoi a quelle minori. Nel complesso vi sono inoltre 30 torrette con la funzione di punti di osservazione e di spostamento delle truppe. Un altro importante edificio all’interno del castello è l’HarakiriMaru, dove i samurai si recavano per togliersi la vita. Costruito all’inizio del diciassettesimo secolo – quando le sofisticate tecnologie di costruzione dei castelli in Giappone avevano raggiunto il loro apice – è conosciuto anche come «Castello dell’Airone bianco» per la somiglianza della mappa delle mura di cinta con l’immagine di un airone che spicca il volo. È uno dei pochi castelli giapponesi a non aver subito architettonicamente influenze occidentali o cinesi. Alto sei piani, il castello presenta a ogni piano una pianta più piccola e scale più ripide. Costruito come fortificazione nella prima metà del XIV secolo da Akamatsu Sadanori per combattere i lord locali, nel 1577, la struttura fu gestita da Toyotomi Hideyoshi che cominciò
la costruzione del vero e proprio castello con una torre principale di tre piani. Nel 1600 avvenne la famosa battaglia di Seikagahara tra i sostenitori del clan Toyotomi e Tokugawa Ieyasu per il controllo dell’intero paese: la vittoria di Tokugawa costrinse gli sconfitti ad abbandonare il castello di Himeji, che venne affidato al generale di Tokugawa Ikeda Terumasa. Rendendosi conto del suo valore strategico, Terumasa iniziò i lavori di ampliamento che portarono il castello di Himeji ad assumere la sua struttura attuale. Nel 1871, con la fine del sistema feudale, il castello di Himeji fu abbandonato e poi venduto all’asta per la cifra di soli 24 yen. Con l’arrivo del XX secolo cominciarono i lavori di restauro; nel 1931 il complesso fu designato tesoro nazionale e nel 1993 l’Unesco lo inserì nella lista dei monumenti patrimonio dell’umanità. Anche il giardino del castello di Nijo, posto al centro di Kyoto, è patrimonio dell’umanità sotto l’egida dell’Unesco: per accedere al castello si attraversa la porta Karamon, del periodo Momoyama (secolo XVI), decorata in stile cinese con ornamenti floreali e zoomorfi. Il castello – residenza a Kyoto per gli shogun – comprende due fortifi-
cazioni, il palazzo Honmaru e il palazzo Ninomaru (foto sotto, su www.azione. ch si trova una gallery più estesa), oltre a vari edifici di supporto e giardini, e occupa un’area di 275mila metri quadrati. Nel 1601 Tokugawa Ieyasu, fondatore dello shogunato Tokugawa, ordinò a tutti i feudatari del Giappone occidentale di contribuire alla costruzione del castello di Nijo, completata durante il dominio di Iemitsu Tokugawa nel 1626. Nel 1867 il palazzo Ninomaru fu usato per la dichiarazione dello shogun Tokugawa Yoshinobu in cui consegnò l’autorità alla corte imperiale. L’anno successivo il gabinetto imperiale si stabilì nel castello, che nel 1939 fu donato alla città di Kyoto e fu aperto al pubblico l’anno successivo. Il castello è costituito da due anelli fortificati che comprendono una muraglia e un largo fossato. Intorno al palazzo Ninomaru vi è un’ulteriore muraglia all’interno della quale si trova il palazzo Honmaru, che costituisce il cerchio principale di difesa insieme ai suoi giardini. Il palazzo ha una superficie di 1600 metri quadrati che contengono i quartieri residenziali, saloni, entrate e cucine, e al cui interno si trovano dipinti di maestri come Eigaku Kano e Kiho Yagi. Tra le due mura-
glie, il palazzo Ninomaru, tesoro nazionale, che rappresenta l’architettura tradizionale del periodo Edo. Vi si trovano oltre tremila affreschi in ogni sua parte, tra i quali i lavori di Kano Tanyu, pittore di epoca Edo. Le stanze del palazzo sono coperte dai tatami con soffitti elegantemente decorati e fusuma, porte scorrevoli finemente dipinte. Un’altra delle caratteristiche di questo palazzo sono i «pavimenti dell’usignolo» che producono al passaggio un suono simile al cinguettare degli uccelli: il fenomeno, provocato dalla pressione dei piedi sui chiodi sottostanti il pavimento, era utile a prevenire attentati alla figura dello shogun. Il giardino di Ninomaru fu disegnato dall’architetto e maestro Kobori Enshu e si trova tra le due fortificazioni vicino all’omonimo palazzo. All’esterno il Jido, il giardino tradizionale giapponese è dominato da un grande stagno, pietre ornamentali e alberi di pino. A causa dell’incendio del XVIII secolo, della struttura originale – costituita da un complesso di edifici e del mastio a cinque piani – restano solo le pietre delle fondamenta. Salendoci si riesce ad avere una vista d’insieme sul meraviglioso parco.
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Ambiente e Benessere
Tagliatelle al prezzemolo con pesto di cavolo riccio
Migusto La ricetta della settimana
Primo piatto Ingredienti per 4 persone: 120 g di farina di spelta chiara ·120 g di farina bianca ·
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
60 g di semolino di grano duro · 2 cucchiaini di sale · 40 g di prezzemolo · 2 cucchiai d’olio di colza · 4 cucchiai d’acqua · 2 uova piccole · 100 g di baby kale (foglioline di cavolo riccio)* o di cavolo riccio · 1 dl d’olio d’oliva · 2 spicchi d’aglio · 50 g di pinoli · pepe · farina bianca · 50 g di parmigiano grattugiato. 1. In una scodella mescolate entrambe le farine con il semolino e la metà del sale. Formate al centro un incavo. Sciacquate il prezzemolo e staccate le foglie dagli steli. Frullate le foglie con l’olio di colza e l’acqua. Incorporate le uova e la purea di prezzemolo alla miscela di farina e impastate fino a ottenere una massa liscia e omogenea. Formate una palla con l’impasto, avvolgetela nella pellicola trasparente e lasciatela riposare per circa 30 minuti. 2. Nel frattempo, per il pesto impastate le foglioline di cavolo riccio con il sale finché non si ammorbidiscono. Aggiungete l’olio d’oliva, l’aglio e i pinoli e frullate il tutto. Condite il pesto con il pepe. 3. Spianate la pasta sulla superficie infarinata e formate una sfoglia di circa 1 mm di spessore. Spolverizzatela con abbondante miscela di farina e semolino. Ritagliate delle tagliatelle larghe circa 1 cm. Lessate le tagliatelle al dente in abbondante acqua salata per circa 2 minuti. Scolatele e lasciatele sgocciolare. Condite le tagliatelle con il pesto, cospargetele di parmigiano e servite. Preparazione: circa 60 minuti. Per persona: circa 24 g di proteine, 41 g di grassi, 56 g di carboidrati,
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Orari d’apertura: lun.–ven. 8.00–18.30 / gio. 8.00–21.00 / sab. 8.00–17.00 Tel.: +41 91 821 79 60
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Lungo il sentiero di Giacomo Bove 5
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3 2 piemontese, 6 Il seme nel cassetto Marco Albino Ferrari, con La via incantata ci porta sulle tracce dell’esploratore
diviso fra vita mondana e spedizioni, fra i ghiacci nordici e il Sud del mondo
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7 Nel corso di questa rubrica ci è capitato più volte di confrontarci con scrittori sopraffini. È il caso di Gilles Clément, è il caso di Pia Pera ed è anche il caso del fondatore e direttore del periodico «Meridiani Montagne» Marco Albino Ferrari. L’ultimo suo libro fresco di stampa per la casa editrice Ponte alle grazie e intitolato La via incantata è una straordinaria lettura, per leggerezza e per grazia. Anche qui torna l’intreccio natura/letteratura, cercata lungo tutto il romanzo nel rapporto fra l’esploratore piemontese Giacomo Bove e Emilio Salgari – quando Bove si sparò, l’autore del Corsaro nero seguì la vicenda da cronachista e ne ricavò tre articoli.
Giacomo Bove aveva il coraggio e il cuore, Emilio Salgari, la penna, Marco Albino Ferrari entrambe le cose Con una penna abile, capace di tenere attaccato il lettore e al contempo in grado di non sovraccaricare mai il testo, lasciando spazio all’aria, ai vuoti, seguendo la lezione di Calvino, Ferrari, aduso alla montagna sin da piccolo per via dell’iniziazione materna alle passeggiate e anche alle scalate, ci porta sulle tracce di Bove, diviso fra vita mondana e spedizioni, fra i ghiacci nordici e il Sud del mondo. Il punto più
entusiasmante e iperbolico della narrazione è certamente da rinvenirsi nella spedizione artica che, lavorata dalle sapienti mani dello scrittore e giornalista, diventa una parabola lucente, immersa com’è fra le aurore boreali, le giornate con una sola ora di buio e quelle, al contrario, con pochissime ore di luce. Sono quelle giornate lunghe a sostanziare le trentacinque lunghissime e intense settimane di pausa e attesa per attendere il disgelo che permetterà a Bove e ai suoi di trovare il Passaggio di Nord-Est dopo tre secoli di tentativi infruttuosi. Su questa avventura è caduta una damnatio memoriae ideologica, conseguenza evidente della decisione da parte di Bove di togliersi la vita dopo mesi 2 inaudite 3 5 6 7 8 di 1sofferenze causate da una 4 malattia contratta in Africa – spedizione che oltretutto gli era stata imposta e 9 10 che aveva accettato più con la testa che con il cuore. Ma – e Ferrari ce lo spiega 11 – non tutto del grande12esploratore è 13 andato perso, se è vero che Emilio Salgari si immedesimò in lui rivivendone 14 e il coraggio, pur 15 su pagina le avventure sottacendo la fonte, ed emozionando uomini con una percezione completacon16le stesse mente diversa 17 generazioni e generazioni 18 del tempo, uomini codi grandi e giovani lettori. Bove aveva il stretti a condizioni estreme e per quecoraggio e il cuore, Salgari, una sorta di sto capaci di andare all’osso, all’essenza 19su carta, la penna. Marco Bove rinato delle20cose. Ecco perché ha un senso Albino Ferrari entrambe le cose: chi si immergersi di nuovo nella wilderness, accinge a esplorare le montagne s’av- lontani dalla società positivista, per 21 ventura nell’ignoto, non sa veramen- 22 ritemprarsi in una solitudine assoluta te dove andrà a finire, cosa scoprirà, che ricorda quella abbacinante vissuta quando giungerà alla meta. da Bove e dai suoi a bordo della «Vega», 23 Con un giovane fotografo, l’au- nel punto più alto del globo, in una ditore compie un’escursione ambiziosa, mensione spazio-temporale aperta 24 lungo il sentiero Bove, la più alta quella a interpretazioni pronte ogni volta a via delle Alpi dove una volta vivevano contraddirsi e a riaprirsi di nuovo, nel-
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S T O P 7 R E5 T I3 N A O U T 1 2G A7 M E6 S T R A V N.I 43SDIFFICILE P O V E T dei confini R geografici E 4Ae al Tso,3ha Isenso nella misura C inOcui diamo N lo sgretolarsi ancora un senso all’immaginario. Alla contempo mentali. Un’avventura del genere, Ferrari letteratura, quindi, a quello che del paE L I 9T R A 1 L7 I S E l’ha vissuta – e ce l’ha trasmessa – an- esaggio rimane depositato come cenere che sull’isola di Montecristo, ne abbia- in zone remote e forse inaccessibili delmo parlato nel AcorsoNdi questa T rubrica. A la nostra O9psiche. E rinasce, e poi rimuoAnche lì, l’immaginario letterario cre- re, rinascendo ancora e sgretolando i confini tremuli di quella che per conato dal romanzo di Dumas si 6 3 S stupefacente, I A sposava R8chiamiamo realtà. con A una natura intatta, Lvenzione quasi del tutto inaccessibile all’uomo. 9 in Bibliografia 5 1 4 Ha senso che vi siano zone protette, U T D O S Albino Ferrari, La via incantaItalia, fra i nostri monti, dove èGIOCHI inter- Marco NATALIZI 1 186 9 pp. 6 ta, Ponte4 alle grazie, detto l’accesso all’uomo?Dicembre Se lo chiede 2017 -Stefania Sargentini GIOCHI NATALIZI T e la R MSì, ha Isen- T I Ferrari, rispostaE è ovvia.
2 2017 4 7 Dicembre -Stefania Sargentini SCOPRI IL MESSAGGIO Vinci una delle 3 carte regalo da 50 6franchi 1 con il cruciverba 8 e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. 50 - Marte, Monte Olimpo, Ventidue) 5 4 SCOPRI IL MESSAGGIO
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M A Soluzione: Scoprire i 3 E corretti T numeri da inserire nelle caselle Scolorate. E T O O S F I D A
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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(N. 49 - ... trenta metri, ventisei ruote)
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ORIZZONTALI 1. Lo fu Santo Stefano 7. «Mio» francese... 9. Diverso... nelle parole composte 10. Fiume della Francia 12. Una fibra tessile 13. Figlio del 9 orizzontale 15. Quantità da stabilirsi 16. Intero è più grasso 17. Accadimenti 18. Oratori senza orari 19. Servizio segreto statunitense 20. Adatto a Londra 21. Come finisce... comincia 22. Gobbe nel deserto
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Giochi per “Azione” - 1Dicembre 2017 9 4 Stefania Sargentini 5 6
Giochi Cruciverba Sapresti dire come si chiama il pianeta della foto, qual è la sua vetta più alta e per quanti chilometri si erge? Rispondi risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 5 – 5, 6 – 8)
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Laura Di Corcia
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23. Saluto arabo 24. La Sofia Ricci
T N.I 44RGENI E M O R O L O 7I R 3 6 A M E S S I 8 2 9 L A T T E 7 3 1 8 2 V E4 N T I 6 T C I A P A 5 I A 7 D U N S A4 L A 5T E L E1 N8 A 3 Soluzione - SCOPRI IL MESSAGGIO - Frase risultante: R E T T E
A M B A U G A V L U R A E A I T F A T E R M A U T O D T A P O T R I N R A I N O
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Vincitori del concorso Cruciverba e del concorso Sudoku su «Azione 49» del 4.12.2017 C. Fenner, S. Cheda, T. Gobbi, G. Desigis, E. Zanotto
I premi, cinque carte regalo Migros 21 valore di 5022franchi, saranno sor23 del teggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta 24 25 entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. 28
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I vincitori
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Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. 26 27 Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so30
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Frase risultante: Auguriamo a tutti i nostri lettori: Buon Natale.
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AUGURIAMO A TUTTI I NOSTRI LETTORI: BUON NATALE Soluzione del numero 50
16. Consentite, permesse 18. Lago etiopico 20. Sinonimo di lolla 22. Rintocco di campana 23. Precede un’ipotesi
(N. 51 - “No, ho chiesto arrosto con patatine”) SCHEMA S A M B A
VERTICALI 1. Triste, malinconico 2. 1 Lo era2Sartre 3 4 3. Linee... oneste 4. In posizione intermedia 7 Giove la mutò in giovenca 5. 6. Votata ad una carica 7. Modo9di vestire, tenuta 10 8. Anagramma di rio 11. Più versano più guadagnano 11 Fissazione 12 13 13. 14. Un raggio nei poligoni regolari 14 15 16
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F U G A I L U D E A F A A R M M U T O E T A L T R T R A I
SUDOKU NATALIZIO
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T A N N T I A L K R A O T T I I A
SOLUZIONE
N O C C H I O E C H I N S A E S T O A F R A L R O I C S U N T O luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti indirizzo, email del partecipante deve dei premi. I vincitori saranno avvertiti essere spedita Azione, Tper O iscritto.N Il nome sarà CSoluzione R a «Redazione I C Odei vincitori P SCOPRI MESSAGGIO - Frase risu Concorsi, C.P. 6315, -6901 Lugano». ILpubblicato su «Azione». Partecipazione Non si intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente a lettori che AUGURIAMO A TUTTI LETTORI: A Tvie legali T sonoIescluse. MNon II NOSTRI T R BUON I concorsi. Le risiedono inA Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Politica e Economia Putin corre da solo In marzo le presidenziali russe destinate a rieleggere Vladimir che è in corsa senza avversari
GB, l’anno della svolta Inizia con il nuovo anno la seconda fase del divorzio della Gran Bretagna dall’Europa, ma prima ancora una May molto debole dovrà affrontare un rimpasto di governo
Urge una strategia coerente Dopo le pressioni dell’UE sulla Svizzera, occorre una posizione chiara e unitaria del governo
Appetibili ipoteche In Svizzera le casse pensioni riscoprono il settore immobliare e il mercato dei crediti ipotecari pagina 25
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La rivolta di questi giorni si era diffusa su tutto il territorio nazionale. (AFP)
Trema il regime dei turbanti
Iran La rivolta iniziata il 28 dicembre è stata repressa ma riemergerà perché la Repubblica islamica ha fallito Marcella Emiliani E il settimo giorno della rivolta, il 3 gennaio scorso, il capo in testa dei Guardiani della Rivoluzione, il general maggiore Mohammed Ali Jafari annunciò ufficialmente la fine della «sedizione». In italiano, vocabolario alla mano, «sedizione» significa «sommossa violenta contro il potere costituito». E se lo ha detto lui, il generale Jafari, principale artefice della repressione, allora anche noi siamo autorizzati a definire quello che è successo in Iran dal 28 dicembre scorso una «sommossa violenta contro il potere costituito» che ha causato 23 morti e più di 450 carcerazioni. Le cifre le ha fornite lo stesso regime per cui sono come minimo sottostimate. Ma anche detto questo, non abbiamo nemmeno cominciato a capire perché migliaia di persone, coi giovani in testa, abbiano dato vita ad un movimento di protesta così ampio e diffuso come in Iran non si vedeva dal «glorioso» 1978, anno zero della Rivoluzione che nel ’79 avrebbe spazzato via la dittatura dello Shah Mohammed Reza Palhevi per instaurarne subito un’altra, di segno grettamente islamico. Molti analisti internazionali hanno preferito raffrontare la rivolta di questi giorni a quella del 2009, ma con tutto il rispetto il paragone non regge. Le proteste del 2009 furono innescate da un
preciso meccanismo di causa ed effetto: il Movimento verde, espressione dei riformisti, scese in piazza per contestare i risultati elettorali che avevano riconfermato alla presidenza della repubblica Mahmoud Ahmadinejad, capofila dei conservatori ed esponente dell’ala militarizzata del regime, i suddetti Guardiani della Rivoluzione o pasdaran che dir si voglia. Proprio con lui i pasdaran erano entrati fin dal 2005 – cioè dal suo primo mandato presidenziale – nella stanza dei bottoni politici e da allora rappresentano la punta di diamante di una dittatura divenuta clerical-militare, tutta protesa a fare dell’Iran una superpotenza nucleare in Medio Oriente. Quella del Movimento verde del 2009 – si dice – fu una rivolta che aveva capi riconoscibili (Mir Hosein Musavi in testa), mentre la rivolta attuale capi non ne ha: è vero. Quella del 2009 – sempre si dice – era una rivolta al cuore del sistema; il suo epicentro fu Teheran, mentre la rivolta di oggi sembra essere tutta «periferica» e molto diffusa su tutto il territorio nazionale: è vero. Ma proprio perché tutto questo è vero, la rivolta di oggi rischia di essere molto, ma molto più pericolosa di quella del 2009 se non nel breve, nel medio-lungo periodo. In ballo infatti non ci sono dei volgari brogli elettorali, ma la stessa ragion d’essere della Repubblica islamica. In 39 anni di esistenza la suddetta
Repubblica islamica non ha mai vissuto un momento storico tanto esaltante: è divenuta una potenza nucleare; con l’Accordo del 2015 sul medesimo nucleare, il gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania) ha riconosciuto il suo diritto a dotarsi di energia atomica, ma ad uso tutto civile, sotto il controllo dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica); con l’intervento americano in Iraq del 2003 che ha spazzato via la dittatura di Saddam Hussein, è riuscita a diventare il deus ex machina della vita politica a Baghdad e a porsi come scudo militare per la sopravvivenza dei suoi governi contro sfide destabilizzanti come quella di Al Qaeda nella terra dei due fiumi prima e dell’Isis poi; con l’aiuto dei suoi protetti, gli Hezbollah libanesi, ha contribuito a mantenere in vita il regime impresentabile di Bashar al-Assad in Siria e – non bastasse – sta sostenendo i ribelli Houthi in Yemen contro il governo di Rabbo Mansour Hadi, appoggiato a suon di bombe dall’arci-nemica Arabia Saudita. E proprio nel braccio di ferro con Riad per la supremazia nel Golfo e più in generale in Medio Oriente, è riuscita a consolidare il cosiddetto Crescente sciita che l’ha portata via Iraq, Siria e Libano a raggiungere le sponde del Mediterraneo. Allora, perché mai la popolazione di un paese tanto vincente dovrebbe ribellarsi
contro il regime di turbanti e divise che ha realizzato il sogno di ricreare un impero persiano? La risposta è disarmante: perché gli imperi costano e le guerre per costruirli e mantenerli costano ancora di più. Detto in altre parole l’Iran, soggetto fino allo scorso anno di sanzioni internazionali e penalizzato dal basso prezzo del barile del greggio sul mercato, ha speso fino all’ultimo rial per diventare una superpotenza e ha investito poco o nulla nella creazione di quel benessere diffuso che è la massima aspirazione della sua popolazione. Se poi ricordiamo che, nella retorica del regime, la mitica Rivoluzione del 1979 è stata voluta e realizzata nel nome dei mostazafin (i diseredati, i più poveri), il disastro diventa manifesto. La ristretta cerchia clerical-militare che monopolizza tanto il potere politico quanto quello economico non è più credibile agli occhi dei milioni di iraniani che stringono la cinghia ogni giorno per mettere assieme il pranzo con la cena. È una cerchia miliardaria, corrotta fin nel midollo, in cui la popolazione non ripone più alcuna fiducia, se si escludono i beneficati dell’elemosina del regime. Così nelle poche immagini trapelate fra le maglie della censura dei social media operata dal regime medesimo, si son viste cose inaudite: sassate contro le onnipresenti immagini della Guida
della rivoluzione, il molto venerabile Ali Khamenei, ritratti del presidente Rouhani dati alle fiamme, slogan contro la corruzione dilagante, contro la disoccupazione, contro la povertà, ragazze che si toglievano il velo... E dire che nel 1978-79 le ragazze il velo se lo mettevano per protestare contro la corruzione e la dittatura dello Shah! Per rivedere bandiere americane e israeliane bruciate in piazza si è dovuto aspettare il sesto e il settimo giorno della rivolta (il 2 e il 3 gennaio) quando gli «elemosinati» di Stato sono scesi in strada a sostegno del regime e solo dopo che il 2 gennaio Ali Khamenei si era finalmente espresso su quanto stava accadendo che – secondo un copione classico – era opera dei soliti «nemici esterni dell’Iran». Certo, Trump non ha mancato di twittare il suo appoggio alla popolazione iraniana, ma è difficile immaginarlo a coordinare le decine e decine di manifestazioni che hanno dato vita alla rivolta. È molto più probabile che la stessa popolazione iraniana, proprio perché non si aspetta aiuti esterni (leggi: possibile rinnovo americano delle sanzioni entro fine gennaio) abbia deciso di mostrare al re che è nudo. In altre parole non si è trattato di un complotto esterno, è la Repubblica islamica che ha fallito e proprio per questo la «sedizione» anche se repressa e bastonata riemergerà come un fiume carsico.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Politica e Economia
Putin contro se stesso
Processo Lula: appello il 24 gennaio
la cui candidatura è stata bloccata, il 18 marzo il presidente russo diventerà presidente per la quarta volta
Brasile Se la condanna verrà confermata
Anna Zafesova
Angela Nocioni
L’evento politico principale del 2018 in Russia avverrà il 18 marzo: nel quarto anniversario dell’annessione della Crimea Vladimir Putin (foto) diventerà presidente per la quarta volta. Sul fatto che il leader del Cremlino, al potere ormai da 19 anni (con una breve interruzione in cui è stato un superpremier, dal 2008 al 2012), vincerà le elezioni presidenziali, non ci sono molti dubbi. L’interrogativo principale, alla vigilia di Natale, era semmai come sarebbe arrivato a questa vittoria: come un trionfatore che ribadisce il suo dominio totale di un Paese del quale non è solo capo di Stato, ma anche il motore e il protagonista quasi esclusivo della vita pubblica, o come un moderato che vuole mostrare al mondo e ai propri concittadini di essersi guadagnato il quarto mandato in una lotta concorrenziale e aperta, in previsione di una transizione del potere nel 2024. Il Cremlino ha optato per la prima ipotesi. Al voto del 18 marzo Putin verrà sfidato da Vladimir Zhirinovsky, l’ultranazionalista che dal 1991 immancabilmente funge da parafulmine che dirotta il voto di protesta, da Xenia Sobchak, la «Paris Hilton» russa che rappresenterà l’opposizione liberale sfidando ancora prima che il governo la propria reputazione di star televisiva glamour, dal candidato del Partito comunista Vladimir Grudinin – che ancora prima dell’inizio della campagna elettorale ha dato un colpo alle proprie chance andando a festeggiare il Capodanno in una stazione sciistica tedesca – e da qualche comparsa politica ancora da definire. Il clima e le attese per le elezioni sono stati riassunti al meglio dai presidenti delle due camere del parlamento russo: la responsabile del Senato Valentina Matvienko ha ringraziato Putin per essersi candidato, e lo speaker della Duma Viacheslav Volodin ha aggiunto: «Con la sua candidatura lei ha regalato al Paese non solo una speranza, ma un futuro». La candidatura del principale avversario di Putin, Alexey Navalny, è stata bloccata dalla Commissione elettorale centrale, la cui presidente Ella Pamfilova ha fatto al blogger anticorruzione la ramanzina per «voler rincretinire i nostri giovani». Pochi giorni prima, alla tradizionale conferenza stampa di fine anno, il presidente russo aveva già preannunciato questa decisione: a una domanda sulla candidatura di Navalny ha risposto che «coloro che sono stati menzionati» (non chiama mai l’avversario per nome) non hanno un programma vero, che «la maggioranza del popolo non li vuole, noi non li vogliamo». Un mezzo lapsus che ha deluso coloro che credevano che l’ala moderata del Cremlino avrebbe ammesso Navalny alla campagna elettorale, per mostrare ai russi e soprattutto all’opinione pubblica internazionale – Washington e Bruxelles hanno già criticato la decisione di eliminare il leader dell’opposizione dalla corsa elettorale – che Putin non ha paura di nessuno, e il suo quarto mandato alla guida della Russia è meritato e legittimo. Una soluzione che aveva auspicato anche la stessa Pamfilova, dicendo a Navalny «noi siamo i primi a volere vederla competere, per attestare il suo peso reale». Il Cremlino però ha optato
Il Brasile è appeso all’attesa di una sentenza del tribunale di Porto Alegre Nella città simbolo dello Stato di Rio grande do sur, il 24 gennaio si celebra il processo d’appello all’ex presidente della repubblica Lula Da Silva, condannato in primo grado a nove anni e sei mesi di carcere per corruzione e per riciclaggio dalla procura di Curitiba guidata dal giudice di prima istanza Sergio Moro. La tensione politica è alle stelle. L’intera campagna elettorale per le presidenziali dell’ottobre del 2018 è ferma aspettando l’esito del processo. L’ex presidente, fondatore del Partito dei lavoratori, è da mesi, secondo tutti i sondaggi, il favorito alle elezioni. Se l’appello confermasse la sentenza di primo grado, scatterebbe per lui la revoca del diritto all’elettorato passivo. Candidatura stracciata. Porto Alegre potrebbe anche rilanciare Lula. Niente fa escludere infatti una assoluzione piena.
Presidenziali In assenza di avversari temibili, come Alexey Navalny,
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l’ex presidente non potrà ricandidarsi
per la linea dura, interpretata da molti come sintomo di insicurezza. Navalny è senz’altro il concorrente più temibile incontrato da Putin in ormai 19 anni al potere: ha una estesa ed efficiente rete di seguaci, è l’unico a riuscire a portare in piazza migliaia di russi, soprattutto i giovani considerati fino ad ora i putiniani per eccellenza, è carismatico, usa magistralmente i nuovi media, ha un immagine di eroe anti-burocrazia e gode di appoggi in Occidente. Alle elezioni del sindaco di Mosca ha preso il 27%, un assaggio del suo potenziale, e il suo film-inchiesta sulla corruzione del premier Dmitry Medvedev ha ottenuto 20 milioni di visualizzazioni in Rete in tre mesi.
Il suo problema non è vincere, ma vincere con una percentuale schiacciante, per governare fino al 2024, un quarto di secolo Secondo i parametri di una democrazia occidentale, la vittoria su un candidato del genere avrebbe più valore di quella su concorrenti di facciata. È però la stessa logica del sistema russo a renderlo impossibile. Il presidente in carica in Russia non partecipa mai ai dibattiti elettorali, sottolineando che non è al livello degli altri. Durante le proteste di piazza del 2011, che fecero emergere Navalny come volto principale dell’opposizione, il dibattito nel governo non era sulle richieste dei manifestanti, ma sull’eventualità di un loro incontro con Putin, che non venne mai concesso. Una tradizione politica plurisecolare vuole che il leader sia detentore di un potere assoluto, e il classico elettorato putiniano – burocrati, militari, anziani, operai, religiosi, abitanti dei centri rurali – desidera più uno zar che un primus inter pares. Se il numero uno accetta di farsi contestare mostra di essere un debole. Il suo elettorato è il primo a non volerlo vedere criticato o costretto a rispondere a domande imbarazzanti in un dibattito televisivo, per l’apparato statale sarebbe poi un segnale d’allarme. Il potere in Russia o è monolitico, o non è. In questa ottica, l’esclusione di Navalny era scontata. Le prevedibili critiche delle cancellerie internazionali finiranno nel cassetto già stracolmo di proteste occidentali, per la Cecenia, per la Siria, per l’Ucraina, per la legge anti-gay e la libertà di stampa. Ora gli elettori russi non allineati con il Cremlino hanno due mesi per decidere se votare Xenia Sobchak, un eventuale altro candidato, scheda bianca, o aderire alla proposta di Navalny
di boicottare le elezioni. Gli 84 uffici elettorali del blogger, sparsi per tutta la Russia, si sono già riconvertiti in «uffici del boicottaggio». I sociologi però sono scettici sul risultato della campagna. Il rischio infatti è quello di convincere a non presentarsi ai seggi i pochi liberali, abbassando di qualche punto l’affluenza al voto ma alzando drasticamente la percentuale di Putin. La minoranza d’opposizione in questo modo si autoescluderebbe dal dibattito politico, producendo con le sue mani un risultato gradito al governo. Per colpire l’avversario Navalny dovrebbe convincere a disertare i seggi i potenziali sostenitori di Putin, oppure quelli del comunista Grudinin, che secondo alcune indiscrezioni sui primi sondaggi potrebbe ambire addirittura al 30% dei voti, attirando il voto di protesta non liberale. Che Navalny possa muovere i voti lo si è già visto al voto per la Duma del 2011, dove Russia Unita, definito dal blogger in una campagna diventata virale «partito dei ladri e dei cialtroni», scese al minimo storico. Ma la vera minaccia per Putin a questo punto è lui stesso. Il suo problema infatti non è vincere, ma vincere con una percentuale schiacciante, per governare fino al 2024, un quarto di secolo. In Russia negli ultimi anni perfino i governatori regionali si fanno eleggere con il 90-95%. Indiscrezioni dei giornali moscoviti parlano di un obiettivo dell’amministrazione di Putin fissato al 70% dei voti con il 70% dell’affluenza, un dato superiore a tutti gli scrutini precedenti, il cui esito scontato ha fatto passare a molti elettori la voglia di spingersi fino al seggio. Nel 2000 Putin ha vinto con il 53%, nel 2004 con il 72%, nel 2012 con «solo» il 64% e proteste in piazza. Dopo, c’è stata l’annessione della Crimea, e la popolarità di Putin è salita al vertiginoso 86%. La lotta elettorale quindi non sarà tanto tra i vari candidati, ma una battaglia all’ultimo voto in cui, in assenza di un concorrente vero, il presidente dovrà correre in realtà contro se stesso. Dall’entusiasmo della Crimea però sono trascorsi quattro anni, che hanno visto la recessione dell’economia e il calo del prezzo del petrolio, le sanzioni e le controsanzioni, i tagli della spesa pubblica, lo scontro della Russia con l’Occidente e 20 milioni di russi sotto la soglia della povertà, un dato rivelato poco prima della fine dell’anno dal ministero del Lavoro. Il Putin-2018 non può promettere più del Putin-2012, che allora impose un fardello già molto pesante alle casse dello Stato. Per quasi 19 anni di protagonismo monopolista la ricetta Putin ha sempre funzionato, e proprio per questo replicarla diventa sempre più difficile. Un leader indiscusso ha bisogno di un plebiscito. E se non riesce a ottenerlo, ora non potrà incolpare il populismo di Navalny.
La condanna in secondo grado, ma con i giudici non unanimi, presenta scenari politici complessi anche dentro lo stesso Partito dei lavoratori Il Tribunale d’appello di Porto Alegre è quello che passa in rassegna le sentenze della procura di Curitiba, emesse dal giudice Moro. Finora Porto Alegre ha bocciato il 54% delle sentenze di Moro nell’inchiesta Lava Jato, la Mani pulite locale che sta processando per corruzione buona parte dell’establishment brasiliano. Un ribaltamento della sentenza di Moro a ridosso delle elezioni porterebbe probabilmente Lula in volata alla rielezione. Se la sentenza d’appello confermasse invece il giudizio pronunciato da Moro, potrebbe scattare l’arresto per Lula. Ma solo se l’eventuale giudizio di condanna fosse unanime. Il Superiore tribunale di giustizia ha infatti fatto sapere che soltanto se i tre giudici del secondo grado confermassero il giudizio di condanna all’unanimità potrebbe scattare l’arresto. In caso ci fosse anche un solo voto contrario, l’appello non potrebbe essere considerato concluso, quindi Lula non potrebbe essere arrestato. Non è questione giudiziaria, ma squisitamente politica. Gli avvocati di Lula dicono in privato di aspettarsi una condanna, ma non unanime. Se il voto di Porto Alegre fosse di condanna per due giudici contro uno, Lula riu-
scirebbe a candidarsi lo stesso perché potrebbe presentare più di un ricorso e rimandare così l’eventuale condanna definitiva. La condanna in secondo grado, ma con i giudici non unanimi nel deciderla, presenta uno scenario complesso che non scioglierebbe i nodi per la candidatura alle presidenziali né dentro il Partito dei lavoratori (Pt), dove non pochi ammettono a mezza bocca di considerare Lula «ficha suja», un cavallo azzoppato, né dentro l’opposizione. Il Psdb, lo storico partito avversario del Pt, non osa infatti schierare con certezza un candidato, per adesso. Perché un conto è rivaleggiare con un qualsiasi candidato del Pt. Altro conto è contrapporsi a Lula, uscito dal secondo mandato presidenziale consecutivo con l’80 per centro di consenso popolare. Finché non si risolve il processo, l’opposizione resta senza candidato che non sia di facciata. A prendere le parti di Lula per mettere a tacere prima ancora che spuntino le voci a lui contrarie, è stata la sua successora Dilma Rousseff. Nella riunione della direzione nazionale del partito a San Paolo, la Rousseff ha detto: «La partita è tutta puntata a buttar fuori Lula dalla disputa elettorale. Non dobbiamo far passare come ovvio il fatto che si stia usando questa nuova arma legale. Dobbiamo discutere tanto la condanna giudiziaria quanto quella politica. Si tratta di una ingiustizia clamorosa. Di una persecuzione politica». Lula pare deciso a giocarsi il tutto per tutto: sarà a Porto Alegre ad attendere la sentenza. Arriverà due giorni prima che il tribunale si riunisca. In città sono state organizzate mobilitazioni dei suoi sostenitori. La sua difesa ha chiesto ai giudici di ascoltare l’ex presidente prima di pronunciarsi. La condanna che dovrà esaminare il tribunale di Porto Alegre nasce dai lavori per la ristrutturazione di un attico, in una località balneare del litorale di San Paolo. Quella ristrutturazione, secondo il giudice Moro, nasconderebbe il pagamento di una tangente di 3,7 milioni di reais brasiliani, circa un milione di euro, da parte di una impresa di costruzioni, La Oas, beneficiata dal sistema di tangenti di cui Lula è considerato essere stato perfettamente a conoscenza. La difesa dell’ex presidente contesta, tra moltissimi rilievi, il fatto che la proprietà di quell’appartamento non può esser fatta risalire a Lula in alcun modo visto che non esiste un documento di proprietà, un atto di compravendita, nulla. Moro risponde che «nei reati di riciclaggio il giudice non può attenersi unicamente alla titolarità formale dei beni» sostenendo che quell’attico fosse di fatto a disposizione dell’ex presidente. Che, però, non l’ha mai abitato nemmeno per un giorno.
Lula Da Silva: i suoi avvocati dicono di aspettarsi una condanna. (Keystone)
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Politica e Economia
Brexit, via alla fase due
L’anno della svolta Nel 2018 dovranno essere delineate le mosse future sul divorzio dalla Ue, fra timori
di nuove elezioni, assalti alla premier Theresa May e avanzata della lobby del soft Brexit Cristina Marconi Alla fine i britannici avranno indietro i loro elegantissimi passaporti con la copertina blu scuro. Chissà se sarà sufficiente a tenerli soddisfatti quando dovranno riabituarsi a sfoggiare un po’ ovunque il loro incredibile talento per formare file ordinate: file alle frontiere, file negli aeroporti, file nei porti. Ma almeno per ora una parte consistente dell’opinione pubblica che ha votato a favore della Brexit è felice, confermando un vecchio sospetto: che l’uscita dalla Ue sia, agli occhi di molti, soprattutto una questione di simboli. Solo che gli aspetti tecnici lungamente nascosti sotto il tappeto da un governo timoroso e incapace di contraddire l’esito del referendum del 23 giugno del 2016 hanno iniziato a venire al pettine e se il 2017, almeno fino a dicembre, è stato l’anno della distrazione e dell’illusione – che uscire dalla Ue sia un’operazione facile, che il Parlamento sia disposto a farsi educatamente da parte e che a Bruxelles la posizione negoziale di Londra sia solidissima – il 2018 si presenta come il momento del confronto con la realtà, quello in cui dalle nebbie di un dibattito in cui non c’è stata la benché minima traccia di pragmatismo dovranno per forza iniziare ad essere fatte delle scelte, delineate delle mosse future. Dopo la quiete natalizia, dovuta alla volontà da entrambi i lati della Manica di continuare a dare ossigeno alla stabilità ai limiti della paralisi garantita dalla premier Theresa May, qualcosa senz’altro cambierà, ma per ora i britannici hanno potuto trascorrere le feste sicuri che il passaporto, che per scelta loro torneranno ad usare molto spesso, smetterà di avere quel color vinaccia che l’inviso Leviatano europeo ha imposto loro dal 1988. Tagliente come al solito, la leader scozzese Nicola Sturgeon ha bollato la notizia con due parole: «Insular nonsense», «sciocchezze da isolani». Ma il simbolismo nostalgico ha sicuramente più presa che i tecnicismi
di una questione spinosa come il confine tra le due Irlande, tutt’altro che risolta con l’accordo raggiunto tra una premier Theresa May che i critici non a torto definiscono giunta alla resa totale e una Bruxelles che vede con soddisfazione come le esigenze di Londra si siano ammorbidite di molto. Il fatto che la May, come si direbbe in Italia, sia arrivata a «mangiare il panettone» dipende soprattutto dall’incapacità dei suoi oppositori di mettersi d’accordo in un momento in cui i Brexiters del partito iniziano ad avere qualche difficoltà a trovare una soluzione ai tanti dilemmi che il negoziato di uscita pone e in cui i Remainers aspettano che l’opinione pubblica inizi a dare segni di ripensamento su una scelta i cui vantaggi, passaporto blu a parte, non si vedono. Dopo cinque attentati terroristici, la catastrofe della Grenfell Tower, le elezioni che dovevano consacrarla e che l’hanno lasciata debole e zoppa, un discorso che doveva rilanciarla e che è finito con le lettere dello slogan sullo sfondo che cadevano una dopo l’altra mentre lei finiva di parlare con la voce rotta dalla tosse, la May è talmente debole da essere quasi in una posizione di forza. Finora è stata l’onda lunga dello scandalo sulle molestie sessuali sceso dalle colline di Hollywood e giunto fino a Westminster con la sua capacità di illuminare vicende vecchie di una nuova sensibilità morale a darle più problemi: è stata costretta a sostituire l’ex ministro della Difesa Michael Fallon e a privarsi dell’efficacissima «frusta» di Gavin Williamson, il capogruppo Tory alla Camera, giovane e rampante, uno che teneva una tarantola viva in ufficio, e soprattutto ha dovuto fare a meno dell’uomo cardine della seconda fase della sua premiership, quella seguita alle elezioni di giugno: Damian Green, il suo vice scaltro e affidabile, influente e europeista, è finito al centro delle accuse di una giornalista di 31 anni, Kate Maltby, – mani sul ginocchio, messaggi blandamente allusivi, tutto il repertorio di cose che le donne,
Finora la premier Theresa May ha garantito stabilità ai limiti della paralisi. (AFP)
nel 2017, hanno deciso che non accetteranno più – e, soprattutto, di alcuni poliziotti che asseriscono di essere certi che usasse il suo computer di lavoro per guardare migliaia di immagini pornografiche. La May, esprimendo il suo rammarico, è stata costretta a lasciarlo andare a pochi giorni dal Natale, quando i suoi successi di dicembre le hanno dato quel minimo di vigore politico per resistere ad una perdita che non solo la danneggia, ma che la costringerà ad aprire il 2018 con una manovra politica delicata: un rimpasto, l’ennesimo, da condurre Manuale Cencelli alla mano, per garantire gli equilibri da chi vuole restare in Europa e chi no. È dalle elezioni dell’8 giugno scorso, in cui la May non ha avuto la maggioranza ed è stata costretta ad affidarsi ad alleati scomodi come gli unionisti nordirlandesi del DUP che si parla di una sfida alla leadership di Downing Street. I candidati non mancano e i più scalpitanti come Boris Johnson non hanno perso occasione per disseminare la strada accidentata percorsa dalla
premier di nuovi inutili ostacoli, con la scusa di difendere la causa di una «hard Brexit» che continua a garantire un’aura da difensore della patria che, in un contesto in cui chiunque provi a dire qualcosa di pragmatico sull’impatto della Brexit finisce con l’essere accusato di alto tradimento, conviene proteggere affidandosi ad un sistema infallibile: stare lontani dal dossier, non occuparsene mai davvero, continuare solo a parlarne in maniera astratta o criticando l’operato degli altri. Basti pensare alla parabola di David Davis, ministro per la Brexit che un tempo era tra i più accaniti euroscettici e che ora mostra lo smarrimento tipico di chi è in mezzo ad un percorso di conversione ancora non del tutto concluso. A dicembre ha ammesso che non erano stati fatti studi sulle conseguenze dell’uscita dalla Ue sui vari settori dell’economia e, quando li ha poi frettolosamente pubblicati prima di Natale, è emerso che erano generici e leggeri come una pagina Wikipedia – la Gran Bretagna è un’isola e le sue «forti tradizioni mercantili nava-
li possono essere fatte risalire a secoli addietro» si legge in un passaggio particolarmente illuminante – salvo poi raccogliere e dare voce alle paure degli imprenditori. C’è un’altra ragione per la quale un cambio di leadership fa paura, e sono le elezioni. Il Labour di Jeremy Corbyn si è normalizzato abbastanza da rappresentare una minaccia reale con quel 40% con cui ha egregiamente perso a giugno, anche perché Corbyn, alla guida di un partito altrettanto spaccato in materia di Brexit, sta eludendo il problema continuando a parlare delle altre questioni che chiedono una risposta: povertà, disuguaglianze, alloggi. E sebbene le sue soluzioni possano non piacere, il fatto che se ne occupi è un merito in un paese tutto spaccato, senza guida, incapace di fare i conti con la realtà, felice di avere un passaporto blu tra le mani e forse rassicurato dal fatto che il Big Ben, silenzioso da agosto e ancora avvolto dalle impalcature, sia finalmente tornato far sentire i suoi cari rintocchi. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Ora serve una strategia chiara Relazioni CH-UE Le frizioni nei negoziati sull’accordo quadro istituzionale tra la Svizzera
e l’Unione europea hanno spinto Bruxelles a fare pressioni su Berna, lasciando disorientato il Consiglio federale, che però dovrà saper reagire Marzio Rigonalli È difficile immaginarsi un 2018 più insidioso e più difficile di quello che attende la Svizzera nei suoi rapporti con l’Unione europea. La schiarita vissuta lo scorso 23 novembre a Berna, con gli abbracci e le altre espressioni di cortesia, tra la presidente della Confederazione Doris Leuthard ed il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, si è rapidamente dissolta ed ha ceduto il posto ad una tanta inattesa quanto frustrante depressione. La Svizzera è finita su una lista grigia dell’UE, comprendente 17 paesi definiti «non cooperativi» in materia fiscale, e si è sentita dire che le regole borsistiche elvetiche saranno valide nell’UE soltanto per un anno. Dopo questa scadenza, l’equivalenza della Borsa svizzera potrà essere rinnovata, ma soltanto se ci saranno stati progressi nella trattativa in vista di un accordo istituzionale. La durata di un anno è stata decisa dai 27 paesi membri dell’Unione ed ha provocato reazioni e proteste nel mondo politico elvetico. Ha soprattutto lasciato l’amaro in bocca ai principali responsabili della politica estera svizzera, che si attendevano un riconoscimento senza condizioni, come era avvenuto poco tempo fa con paesi come gli Stati Uniti e Hong Kong. Si è parlato di una misura discriminatoria, di un trattamento ingiusto e della mancanza di rispetto nei confronti di un partner affidabile come è la Svizzera. L’atmosfera tra le due capitali si è subito raffreddata ed una cappa di silenzio è scesa sui rapporti bilaterali. Come uscirne? Come ristabilire un rapporto bilaterale franco e cordiale, fondato sulla fiducia reciproca? La domanda è d’obbligo. Prima di
Dopo la «politica degli abbracci» di Doris Leuthard verso JeanClaude Juncker, ci vuole una strategia diplomatica più consistente. (Keystone)
proporre una risposta, tralasciando le frettolose ipotesi avanzate da più parti nelle ultime settimane, conviene soffermarci sulla realtà oggettiva che oggi caratterizza i rapporti tra la Confederazione e l’UE. Da un lato, siamo confrontati con un’unione di ben 27 paesi, che in
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quest’inizio d’anno sta attraversando un periodo, per certi aspetti, abbastanza positivo. Lo dimostrano, in primo luogo, la ripresa economica, che è in corso in tutti i paesi membri, nonché il rafforzamento dell’euro e della posizione dell’Europa nel contesto economico mondiale. Poi, l’intervento deciso di Bruxelles nei confronti della Polonia, accusata di non rispettare lo stato di diritto e di non essere fedele ai principi ed ai valori che sono alla base dell’Unione, poiché ha varato una riforma della giustizia che subordina le autorità giudiziarie a quelle politiche. Infine, il negoziato in corso in vista della Brexit. Le fasi della trattativa, i tempi ed i contenuti che vi vengono affrontati, sono definiti dall’Unione europea e non dalla Gran Bretagna. È Bruxelles che fissa le regole, che stabilisce gli obiettivi da raggiungere, che non consente alla Gran Bretagna di avviare subito trattative economiche con i singoli Stati europei, e che lascia chiaramente intendere a Londra che un paese che non fa parte dell’UE non può pretendere di godere dei vantaggi che offre l’Unione, senza accettarne anche gli oneri e gli obblighi che ne derivano.
L’UE è uscita rafforzata dalla crisi economica e dell’euro, fa quindi sentire il suo peso a Londra e Berna Il negoziato sulla Brexit ha dei riflessi anche sulla trattativa tra la Svizzera e l’Unione europea. Bruxelles vuole concludere un accordo con Berna, che ponga in un chiaro quadro giuridico tutti i conflitti e le questioni che derivano dall’applicazione degli oltre cento accordi bilaterali che sono stati sottoscritti dalle due parti. È il cosiddetto accordo istituzionale. Pensa che con quest’accordo si fisseranno le regole necessarie per disciplinare l’accesso al mercato unico europeo, nonché per
consolidare e rafforzare la collaborazione bilaterale. Siccome la trattativa è in corso da più anni e la sua conclusione appare ancora lontana, la Commissione europea ha ritenuto che, in definitiva, la Svizzera non voglia concludere questo accordo. Per tentare di convincerla, ha dunque fatto ricorso a quel mezzo di pressione che è rappresentato dal riconoscimento non ancora definitivo dell’equivalenza della Borsa svizzera. E probabilmente, la Commissione ha colto l’occasione per mandare un segnale anche a Londra, mostrando che l’accesso al mercato unico è subordinato a regole ben precise.
La definizione di una coerente strategia negoziale è più che mai urgente e spetta al ministro degli esteri Sull’altro versante, di fronte al colosso europeo, c’è la Svizzera, piccolo paese situato al centro del continente ed immerso in un intreccio di rapporti con tanti altri paesi europei. La Confederazione è uno Stato sicuramente in buona salute, ma gode di una capacità negoziale limitata al suo reale potere economico e politico e, negli ultimi anni, ha dimostrato di avere grandi difficoltà quando si è trattato di affrontare il nodo centrale del suo rapporto con l’UE, ossia la definizione di un accordo istituzionale. La ricerca di un’intesa bilaterale in grado di superare l’ostacolo di un’eventuale votazione popolare e di non venir affossata dalla propaganda nazionalista dell’UDC, si è subito rivelata ardua. Per due ragioni essenziali: per causa di un governo diviso, incapace di sostenere un’unica posizione negoziale, e per l’assenza di una chiara strategia. Negli ultimi tempi, il Consiglio federale non sembra aver fatto altro che aspettare l’arrivo di eventi importanti, come lo svolgimento e la conclusione del negoziato sulla Brexit e le votazioni popolari su due
iniziative dell’UDC, quella che s’impegna affinché il diritto svizzero primeggi su quello internazionale, la cosiddetta iniziativa per l’autodeterminazione, e quella che chiede l’abolizione della libera circolazione delle persone, ossia la fine degli attuali accordi bilaterali. Sono eventi che potrebbero fornire indicazioni interessanti sui rapporti che conviene intrattenere con l’UE. E l’attesa sarebbe stata volentieri prolungata, probabilmente fino a dopo le elezioni nazionali del 2019. Adesso, non è più possibile aspettare. Bisogna agire. Nuove idee sono subito emerse, come la creazione di un segretariato di Stato per le questioni europee, od un voto popolare sugli accordi bilaterali. Sono idee che meritano di essere approfondite, ma che non sono sufficienti per superare l’attuale momento difficile. Occorre definire una vera strategia negoziale, con gli obiettivi che si vogliono raggiungere e con i tempi che si ritengono necessari. Una strategia che va anche spiegata all’opinione pubblica, per lo meno nelle sue grandi linee, ed intorno alla quale bisogna concentrare il più ampio consenso politico possibile. Una strategia che sia da supporto ad un dialogo continuo con l’Unione europea, che rimane l’unica strada percorribile per raggiungere gli obiettivi nazionali. Le minacce e le decisioni unilaterali, invocate da alcune forze politiche, soddisfano momentaneamente il proprio orgoglio ed il proprio elettorato, ma non danno risultati concreti permanenti. Nessun piccolo paese riesce a raggiungere i propri obiettivi ricorrendo alle minacce. La definizione di una vera strategia negoziale sarebbe dovuta avvenire già da tempo. Adesso è più che mai urgente. È un lavoro che spetta in gran parte al nuovo capo della diplomazia elvetica, Ignazio Cassis. Tocca a lui, in primo luogo, ricucire lo strappo con Bruxelles e riporre le relazioni bilaterali su dei binari condivisi. È una prima grande prova e il modo in cui Ignazio Cassis la supererà, ci orienterà sulle sue capacità politiche e diplomatiche.
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Politica e Economia
I tassi di interesse continuano ad essere favorevoli
Politica monetaria Non si vedono ancora pressioni al rialzo, nonostante qualche accenno di inflazione.
I tassi ipotecari restano attrattivi, di conseguenza anche le casse pensioni tornano ad offrire questi crediti
Ignazio Bonoli Le previsioni di crescita economica stanno ridisegnando gli scenari finanziari in Europa e quindi anche in Svizzera. La Banca Centrale Europea è sempre più confrontata con pressioni al rialzo sui tassi di cambio dell’euro, per cui avrà difficoltà nei prossimi mesi nel mantenersi fedele alla linea di politica monetaria espansiva, confermata anche negli ultimi giorni dello scorso anno. La Svizzera segue attentamente le vicende economiche e anche politiche, constatando per il momento un indebolimento del franco, in particolare sull’euro. Siamo ormai vicini alla fatidica soglia di 1,20 franchi per un euro e si può perfino prevedere che potrà essere superata nel corso del 2018. La Banca nazionale Svizzera per il momento non fa interventi di peso sul mercato, ma tende – come spesso avviene – a seguire a breve distanza le mosse della Banca Centrale Europea. Questa evoluzione fa in modo che il franco diventi sempre più moneta di rifinanziamento e quindi continui a indebolirsi sull’euro, anche perché gli investitori svizzeri tendono pure ad approfittare della brusca crescita dei mercati europei. È quindi giunto il momento di passare a una politica monetaria più restrittiva? La risposta a questa domanda di-
pende dall’evoluzione del tasso di inflazione. Qualche cenno di rialzo lo si vede in questi giorni, ma finché la BCE non avrà raggiunto l’obiettivo di un tasso di inflazione del 2%, poco si muoverà anche in Svizzera. Tuttavia la Riserva federale americana ha cominciato il rialzo programmato dei tassi ufficiali, allo scopo di prepararsi a contrastare l’inflazione, ma dovrà muoversi con prudenza per non contrastare la politica di crescita del presidente Trump. Questo scenario influisce sul livello dei tassi di interesse anche in Svizzera e in questo senso cominciano a vedersi movimenti al rialzo sui «futures», che si riflettono sui tassi «libor». Pur tenendo conto che i dati di fine e inizio anno sono poco significativi, si registra qui un lieve rialzo. Quale effetto questa situazione possa avere sui tassi ipotecari è difficile dire, come è presto per prevedere un forte rialzo di questi tassi, vista l’abbondanza dell’offerta di prestiti e una certa saturazione del mercato immobiliare. Per il momento la scarsità di buoni rendimenti rende ancora attrattivo il settore immobiliare e quindi il credito ipotecario. A comprova di questa tendenza si nota anche il ritorno sul mercato delle casse pensioni, in concorrenza con banche e assicurazioni. In un confronto pubblicato da «Finanz und Wirtschaft» si vede, per esempio, nella
La scarsità di buoni rendimenti altrove, rende interessante il settore immobiliare. (Keystone)
classifica delle migliori offerte, anche per le lunghe scadenze, la Cassa pensione dei dipendenti del canton Zurigo. Anche altre casse pensioni cantonali offrono prestiti ipotecari con scadenza decennale, a tassi varianti fra l’1,10 e l’1,5 per cento annuo. La maggior parte delle offerte migliori per queste scadenze si situa comunque al di sotto dell’1,250 %. Il ritorno delle casse pensioni su
questo mercato ha sorpreso non pochi analisti. Se ne vedevano, infatti, sempre meno dal 2005 e la loro quota di mercato era scesa dal 3,1% all’1,4% tra il 2005 e il 2015, mentre la quota di crediti ipotecari nei loro bilanci era scesa sotto l’1,8%. In realtà, il credito ipotecario non era molto attrattivo a causa degli elevati costi di gestione. Rendite migliori si potevano ottenere sul mercato azionario e nell’immobiliare. Al punto
che la Cassa dei dipendenti della Confederazione «Publica» aveva ceduto il suo portafoglio di crediti ipotecari per 1,1 miliardi di franchi alla Banca cantonale di Berna. Effettivamente, nonostante i tassi di interesse molto bassi, il rendimento è stato migliore di quello di molti titoli obbligazionari di elevata sicurezza. Gli osservatori di questo particolare mercato hanno rilevato che molte tra le maggiori istituzioni di previdenza – tra le quali anche la Suva o la Cassa pensione delle FFS – hanno aumentato le loro posizioni su questo mercato. Il movimento potrebbe proseguire, da un lato perché si stima che i tassi di interesse resteranno a un livello basso per qualche anno ancora, dall’altro perché anche casse pensioni più piccole potrebbero partecipare a questo mercato con l’aiuto di istituti specializzati e concedendo ipoteche ai loro assicurati. Su un mercato globale di quasi 1’000 miliardi di franchi, tra i 30 e i 50 miliardi potrebbero essere appannaggio delle casse pensioni. Con due vantaggi: non devono finanziare il credito con mezzi propri e non devono disporre di un grosso apparato amministrativo. Inoltre il credito al proprio assicurato contribuisce a formare la sua propria rendita anche con tassi bassi. È uno dei motivi per cui si può sperare in tassi favorevoli anche per i prossimi anni. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Quanto devo pagare di affitto? La consulenza della Banca Migros
Evoluzione degli affitti in base al periodo di costruzione 2000 1800 1600 1400 1200 1000 800 600 400 200 0 2010
2011 Prima del 1919
2012
1919-1945
un cambiamento della domanda per gli appartamenti in affitto. Molti inquilini non intendono rinunciare ai buoni collegamenti con i mezzi pubblici o alla lavatrice/asciugatrice. Di conseguenza, in termini di prezzo gli appartamenti in affitto di nuova generazione si differenziano ben poco dagli appartamenti di
1946-1960
1961-1970
2013 1971-1980
1981-1990
2014 1991-2000
proprietà. Gli inquilini hanno dunque la scelta tra un appartamento nuovo nettamente più caro e uno vecchio più conveniente. Con la vivace attività edilizia degli ultimi anni e il calo degli stranieri in Svizzera, ci attendiamo una crescente pressione sugli affitti, soprattutto quelli
2001-2010
2015 2011-
UST
Thomas Kaufmann, Responsabile Fondi azionari e Clienti istituzionali della Banca Migros
Dai recenti dati delle società di consulenze immobiliari Wüest Partner e IAZI risulta che in Svizzera non è quasi più possibile finanziarsi una proprietà immobiliare. Ma qual è la situazione degli affitti? Dalla fine del 2000 all’inizio del 2017 l’indice degli affitti è salito del 23% circa. Non c’è da stupirsi, dunque, che gli Svizzeri si lamentino degli affitti elevati. Tuttavia non si può dimenticare l’andamento delle retribuzioni, il cui indice nominale è salito nello stesso periodo di oltre il 22%. Considerando il paniere medio di beni e servizi dei nuclei familiari svizzeri, emerge che il 20% circa delle spese per i consumi riguarda l’abitazione. Dal 2000 la situazione non è praticamente mutata. Allora perché molti Svizzeri hanno l’impressione che gli affitti siano incredibilmente cari? Un primo riferimento è fornito dalla statistica dell’andamento degli affitti in base al periodo di costruzione: gli affitti degli appartamenti costruiti prima del 1991 sono nettamente inferiori a quelli degli appartamenti più recenti. Tuttavia, sui portali immobiliari vengono spesso offerti i progetti più nuovi e nettamente più costosi. Da qui deriva l’impressione degli affitti elevati. Per i nuovi appartamenti, il rialzo degli affitti è ascrivibile, tra l’altro, all’ubicazione e agli standard di costruzione. Il crescente benessere ha provocato anche
Affitto in CHF
Thomas Kaufmann
iniziali. L’attività edilizia rimarrà vivace anche nel 2018, pertanto la quota degli appartamenti sfitti potrebbe aumentare. Per gli inquilini, che vogliono vivere in un appartamento recente a condizioni finanziariamente accettabili, vale dunque ancora di più la pena di confrontare i prezzi. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Tra mercato e Stato Per il Natale del 2017 il «Corriere del Ticino» ha pensato di sostituire la bottiglia di vino che era solito regalare, agli accoliti degni di attenzioni speciali, con un opuscolo sui problemi economici del momento scritto a due mani da due suoi collaboratori: Tito Tettamanti, commentatore a tutto campo, e Alfonso Tuor, giornalista che invece concentra i suoi contributi sui fatti economici. Al di là dei temi scelti per intitolare i quattro capitoli della loro pubblicazione, quello che i due autori si propongono di discutere nelle lettere, senza francobollo, che formano il testo della stessa, è la salute del nostro mondo. Come va il mondo della fine del 2017? Male, anzi malissimo, secondo Tuor. Non molto bene, secondo Tettamanti. All’insegna del detto «good news are no news» la diagnosi dei due commentatori del quotidiano luganese è quindi abbastanza simile. Il mondo va male per Tuor perché esiste, a livello internazionale, una combutta di governi e grossi gruppi
economici che curano solo i loro interessi al di sopra di quelli che potrebbero essere gli interessi delle popolazioni delle circa duecento nazioni di cui esso è fatto. Il mondo non va bene per Tettamanti perché lo Stato, governi e burocrazie, sono oramai strapotenti e, con divieti, regolamenti, limitazioni e una tassazione dei risultati dell’attività economica che paralizza l’iniziativa privata, impediscono alle forze del mercato di sviluppare i loro effetti taumaturgici. I due autori convengono poi nel diagnosticare che il malessere di cui soffre il nostro mondo sia dovuto, nella fattispecie, alla globalizzazione, una malattia che viene discussa a lungo nel secondo capitolo della loro pubblicazione. Pur essendo sostanzialmente diverse, le loro analisi della globalizzazione convergono verso un giudizio affine: la globalizzazione è da considerare come un fenomeno negativo perché tende a creare un importante accumulo di potere nelle mani di pochi. Né Tuor,
né Tettamanti lo dicono chiaramente nelle lettere che si scambiano, ma dagli argomenti che avanzano per criticare la globalizzazione il lettore intuisce anche che, per loro, esiste una contraddizione di principio tra globalizzazione – intesa qui come la tendenza a liberalizzare a livello internazionale, abolendo le frontiere e imponendo, di fatto, una legislazione e, almeno parzialmente, anche una giurisdizione internazionale che primeggiano su quelle nazionali – e democrazia. Pare anche di capire, ma sono queste deduzioni di chi scrive, che il sistema democratico non può esistere che all’interno dei confini nazionali. A livello di politiche economiche questa opposizione alla globalizzazione porta a preferire, nei rapporti economici internazionali, il protezionismo alla liberalizzazione internazionale dei mercati. Se la globalizzazione è la causa maggiore del malessere mondiale, il suo effetto più negativo è costituito da quello che i due autori definiscono
«l’esplosione delle disuguaglianze», un fenomeno al quale è dedicato il terzo capitolo del loro testo. Tuor sostiene che, nonostante la crescita del Pil, i redditi dei lavoratori non sono cresciuti. Questo significa ovviamente che la crescita incentivata dalla globalizzazione va solamente a favore dei capitalisti. Di conseguenza le differenze di reddito e di ricchezza tra queste due classi sociali sono aumentate. E non parliamo di cosa sia successo alla terza classe che è costituita da tutti coloro che – per età, invalidità o disoccupazione – non sono più inseriti nel processo lavorativo. Tettamanti risponde a queste critiche prendendo il discorso un poco alla larga. Il suo argomento è duplice: dapprima rileva che in una prospettiva secolare non si può negare che vi siano stati importanti miglioramenti nel benessere dei lavoratori. Poi insiste sui doveri e, in prima linea, quello di lavorare. Raccomandazioni valide, certamente: ma per poter lavorare
occorrerebbe poter disporre dei posti di lavoro necessari. L’ultimo capitolo di questa pubblicazione è intitolato «che fare?». Secondo me non dà risposte precise agli interrogativi sollevati nei due capitoli precedenti. Forse perché per esprimere un giudizio sul da farsi occorre pronunciarsi su quale possa essere il ruolo dello Stato nell’economia. È vero che, nel primo capitolo del loro epistolario, gli autori hanno fatto conoscere la loro opinione al proposito. Tettamanti pensa che l’economia di mercato sia il miglior sistema. Tuor reputa che questo tipo di economia ha molte pecche che devono essere corrette da interventi pubblici. La discussione è però finita qui. Apparentemente gli autori non si sono accorti, o non hanno voluto vederlo, che, con tutti i suoi limiti, in questi frangenti, il solo agente che possa intervenire è lo Stato o, a livello internazionale, le associazioni di Stati che si occupano della politica economica.
te ci siano molti timori sulla bolla che avvolge l’economia cinese, al momento non c’è eccessivo allarmismo. La convergenza virtuosa è stata creata dagli enormi sforzi fatti per uscire dalla recessione del 2007-2009, dallo stimolo liberale dei mercati emergenti, e dal fatto che l’economia americana si è rafforzata piano ma con costanza. Naturalmente ci sono alcuni paesi che crescono meno e, all’interno di ogni nazione, diversi livelli di reddito crescono in modo differente: la disuguaglianza che da un decennio ossessiona gli economisti e i sociologi non è destinata a estinguersi. Ma se il sistema migliora, gli effetti positivi ricadono su tutti: l’unico problema è che la finestra d’opportunità potrebbe non essere larghissima, pure se alcune stime di istituti finanziari americani, come JPMorgan, dicono che almeno tre anni di crescita sincronizzata sono garantiti. Ma se si vuole stare cauti, è necessario cogliere l’attimo.
La zona euro è la sorpresa del 2017 e quella che ha maggiori ambizioni di riforme per il 2018. Molti sostengono che l’entusiasmo sia eccessivo, restano ancora molti problemi all’interno dell’Ue: la frattura tra est e ovest è sempre più profonda e ora c’è anche l’incognita austriaca, con il suo governo destra-destra del babycancelliere Sebastian Kurz (31 anni), che si dichiara europeista ma occhieggia all’est di Visegard, che mostra molte tendenze illiberali. Lo stallo a Berlino rallenta il processo riformatore europeo, e anche se l’attivismo francese di Macron, il presidente appena quarantenne, compensa la momentanea assenza della cancelliere tedesca Angela Merkel, non si può più perdere troppo tempo. Nella penisola iberica resta accesa la miccia catalana, ora parzialmente disinnescata da un governo autonomista che però non può portare avanti l’autonomismo della Catalogna, ma comunque
presente: lo spettro nazionalista non è certo scomparso. Grande preoccupazione viene dall’Italia, che va al voto il 4 marzo prossimo e che è considerata la variabile meno certa del quadro ottimista del 2018. E poi c’è la Brexit, con tutte le sue incognite che riguardano sì gli inglesi, ma anche Bruxelles. Le sfide del 2018 sono ben chiare agli europei, così come è chiaro che le aspettative alte – e sono altissime – sono già di fatto un handicap: si rischia di creare illusioni. Ma le opportunità restano, il ciclo economico sembra adatto alle riforme, e i leader europei sono determinati a sfruttarle e soprattutto a dimostrare che l’unità e la volontà di mettere mano al progetto europeo non sono soltanto chiacchiere. Le stelle sono allineate, ora sta agli europei far sì che lo spettacolo sia fruttuoso, e che questo 2018 dei miracoli non si trasformi in un’altra occasione persa.
L’appoggio al servizio pubblico è stato corale fino all’inizio degli anni Settanta. La creazione di una stazione radiofonica (anni Trenta) e di un’antenna televisiva (anni Cinquanta-Sessanta) rispondeva ad un’esigenza largamente diffusa nella popolazione: la tutela delle minoranze linguistiche, che doveva estendersi anche all’etere. La radio, in particolare, poteva vantare un altro merito storico: la difesa dei princìpi democratici e della libertà in un’epoca – il periodo interbellico – dominata dal fascismo e dal nazismo. Questa eredità ha iniziato a smagliarsi negli anni Settanta, come riflesso di una ripresa dello scontro politicoideologico. In Ticino, per contrastare la presenza ritenuta eccessiva della sinistra nella sfera culturale, nacque «Liberi e Svizzeri», associazione che aveva nel mirino due bersagli: la radiotelevisione e la scuola. Poi dai mari del nord è sopraggiunta l’ondata neoliberista, con un programma tutto incentrato sul graduale ridimen-
sionamento delle aziende statali e para-statali. La strategia adottata per raggiungere l’obiettivo consisteva nel sottrarre risorse all’amministrazione e alle istituzioni pubbliche; si trattava, insomma, per dirla in gergo, di «affamare la bestia», ovvero di costringerla a dimagrire negandole le calorie necessarie. Queste politiche proseguono tuttora, nelle poste, nelle ferrovie, nell’esercito (un tempo uno dei principali datori di lavoro nelle regioni di montagna). Ora tocca alla radiotelevisione, in un contesto peraltro sottoposto a fortissime scosse e sollecitazioni, sia aziendali (colossi privati esteri), sia tecnologiche (Internet). Da tempo la SSR-SRG non è più padrona assoluta del settore; negli ultimi decenni molte piccole antenne radiotelevisive sono spuntate ai piedi del suo tronco, usufruendo di una frazione del canone. Non è però pensabile che quest’ultime possano garantire il pluralismo, condizionate
come sono dai capitali privati e dalla pubblicità. In un paese frammentato come la Confederazione (per lingue, confessioni, tradizioni storiche, culturali e religiose), rinunciare ad un forte centro ordinatore vorrebbe dire consegnare il paese ai canali delle nazioni che ci circondano. Ovvero, accettare un colonialismo informativo di matrice tedesca, francese e italiana (mentre all’interno proliferano le iniziative anti-europee per «salvare la patria»: un bel paradosso). C’è stata una fase, nell’Ottocento, in cui nell’esecutivo federale sedevano, su sette membri, un solo romando e nessuno svizzero-italiano (6:1). La crassa sproporzione, frutto del sistema di voto maggioritario, fu motivo d’indignazione e di accese rivendicazioni, sia in Romandia che in Ticino. Ecco: sopprimere il servizio pubblico significherebbe imboccare questa strada, ossia ritornare allo stato di minoranza priva di rappresentanza. Dunque orfana e afona.
Affari Esteri di Paola Peduzzi 2018, le stelle sono allineate Il 2018 è l’anno della «crescita sincronizzata», fenomeno raro che gli esperti stanno già festeggiando perché per una volta che le stelle si sono allineate è bello godersi lo spettacolo. Il 2017 è stato un anno sorprendente per il continente europeo: pensavamo che il progetto comunitario sarebbe imploso e che avremmo dovuto trovarne uno alternativo – meno integrato e ispirato agli stati-nazione –e invece è accaduto il contrario. Ci siamo innamorati dell’Europa, forse per la prima volta con uno slancio unitario tanto spontaneo. Che la Brexit in Inghilterra e Donald Trump nel Regno Unito potessero creare questa magia era pressoché impossibile: dopo colpi così duri non si torna mai uguali a prima. Eppure i negoziatori della Brexit si sono ritrovati uniti e aggressivi, il progetto di riforma europeo ha una road map, un po’ ritardata perché si aspetta il governo tedesco (avevano detto che per Natale ci sarebbe stato,
ma il negoziato per la grande coalizione è soltanto all’inizio) ma c’è, e alcuni annunci del presidente francese Emmanuel Macron, europeista in chief, stanno già prendendo forma. Ora che gli europei sono sopravvissuti, e anche piuttosto bene, è necessario consolidare il progetto e dimostrare che non è stata soltanto la paura di morire il traino di questa sopravvivenza. Le premesse sono perfette: secondo le stime più rilevanti, a partire da quelle del Fondo monetario internazionale che non è certo prodigo di buone notizie, tutte le più grandi economie del mondo cresceranno, e cresceranno assieme. Il fenomeno raro è questo: il sistema che migliora e migliora nello stesso momento. Stati Uniti ed Europa cresceranno del 2 per cento, Brasile e Russia usciranno dalla loro recente recessione, le economie asiatiche ex tigri cresceranno del 5 per cento, l’India dell’8. La Cina andrà avanti al suo ritmo del 6 per cento, e nonostan-
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Un patrimonio comune all’asta Segnatevi questa data: 4 marzo 2018. Sarà una domenica di fuoco. L’Italia ha in agenda le elezioni politiche generali, a chiusura di una lunghissima e rovente campagna elettorale. Anche noi, come abitanti di un cantone-prua che s’incastona in Lombardia, assisteremo allo tsunami televisivo che sta montando negli studi di Rai e Mediaset. Già, la televisione. Medium che sarà pure al centro di una delle più rilevanti votazioni degli ultimi anni nella Confederazione: l’iniziativa denominata «Sì all’abolizione del canone radiotelevisivo», detta anche «No Billag». Tre i capoversi salienti dell’articolo: «La Confederazione mette periodicamente all’asta concessioni per la radio e la televisione»; «La Confederazione non sovvenziona alcuna emittente radiofonica o televisiva»; «La Confederazione o terzi da essa incaricati non possono riscuotere canoni». In parole povere, l’iniziativa chiude l’era del servizio pubblico nel nostro paese, affidando i destini dei media all’asta, ovvero
all’offerta delle imprese private. Saranno loro a disputarsi le concessioni. La Confederazione si disimpegna. «No Billag» è stata lanciata da cerchie vicine alla destra nazionale. Tuttavia la stessa Udc è divisa, come pure la sua alleata Lega dei ticinesi. Ciò nonostante i promotori possono contare su un ampio e frastagliato schieramento di nemici del canone, capace di incamerare un buon numero di voti. Voti di varia provenienza e colore che però, alla fine, potrebbero sommarsi. Alcuni avversari sono noti, altri meno. Vediamone alcuni: 1) i neoliberisti, antistatalisti, antimonopolisti; 2) gli insoddisfatti (per vari motivi, ma soprattutto per l’ammontare del canone); 3) i discriminati (perché non adeguatamente rappresentati); 4) i risentiti (radiotivù come nido di privilegiati nelle mani della sinistra); 5) i fautori dei nuovi media che ritengono la tecnologia televisiva un relitto del passato; 6) i fruitori delle fonti gratuite in rete, considerate sufficienti.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Cultura e Spettacoli L’arte di Cuno Una bella mostra celebra l’artista svizzero Cuno Amiet al Museo d’Arte di Mendrisio
Tra serie TV ed editoria Fra le molte novità del 2018, anche il ritorno di nuove puntate di quelli che sono ormai dei classici come Montalbano e Gomorra pagina 33
Un fertile connubio Jools Holland e José Feliciano insieme per un disco inatteso ma godibilissimo pagina 35
Le creazioni di Christa Il Kunsthaus di Zugo omaggia la celebre stilista svizzera Christa de Carouge
pagina 37
pagina 31
Bellinzona: da sud, 1909, William Turner. (Keystone)
Passeggiate bellinzonesi Pubblicazioni Una raccolta di prose brevi dedicate alla capitale
Pietro Montorfani Di quale natura sia stato il rapporto di Giorgio Orelli con la sua città d’adozione (nato in Leventina e cresciuto a Locarno, fu bellinzonese dal ’45 alla morte) è cosa che molti ricordano con piacere, anche per esperienza personale. Tra i sempre più radi passaggi in sella alla bicicletta e le lunghe soste, mezzo alla mano, a conversare con i più svariati interlocutori, si era guadagnato negli ultimi anni l’appellativo di «poeta di Bellinzona»; titolo che, senza sue colpe, avrebbe potuto conferirgli qualcosa di macchiettistico non fosse stato per i testi che, con costanza e misura, senza mai eccedere, aveva pur continuato a scrivere e ad ambientare tra le mura della turrita, davvero per lui un piccolo mondo moderno, un luogo dell’anima, l’orizzonte più prossimo di una realtà trasfigurata. Le cinque prose raccolte da De Marchi e Terzaghi in questo libretto, pubblicato non a caso dall’editore bellinzonese per antonomasia, coprono un arco di sessant’anni ma non si discostano dal cuore di un unico problema (la messa
a fuoco dell’essenza stessa di un luogo, anche nei suoi risvolti sociologici), quasi l’autore avesse continuato a ruotare per anni, come un benevolo condor, attorno alla sua città, per coglierne le più piccole sfumature e contraddizioni. Le ragioni furono per lo più occasionali: una prosa inedita per un volume miscellaneo in onore di Francesco Chiesa (1951), la prefazione a un libro fotografico di Luigi Forni (1960), un racconto di «figure» da affiancarsi alle «luci» degli acquarelli di William Turner (1978). Quest’ultimo caso, favorito da Virgilio Gilardoni, è certo il più interessante, perché impose all’autore la riattualizzazione di una storia (Pomeriggio d’estate) già apparsa su «Palatina» nel 1959, poi in Un giorno della vita, e riscritta vent’anni dopo con notevoli differenze sin dalle prime righe: «L’altrieri la nostra piccola città pareva tutta vuota», ma prima che appaiano le biglie e la miracolosa scimmia sul portapacchi della versione originale, la Bellinzona degli anni Settanta si riempie di banche, «bisogna che qualche dì le conti, l’ultima l’hanno scavata dentro
alla roccia del castello di mezzo [...]. Eh finito il tempo che soldi trovavo, monete da cinque, che sembrano da cinquanta» (e chissà che l’inciso non sia stato in qualche modo intenzionale, in una pubblicazione promossa dalla Società Bancaria Ticinese...). La città di Orelli è fitta di incontri, spesso declinati al femminile, e trapassa presto dal piano della realtà a quello dell’immaginazione, senza per questo abbandonare del tutto quelle dinamiche relazionali, di sinceri rapporti umani, così tipiche della persona dell’autore: in un’epoca segnata da sacrosante rivendicazioni di correttezza, ma anche da un po’ di isteria riflessa e collettiva, rileggere la prosa orelliana significa rimettere al posto giusto uomini e donne sul palcoscenico dei loro corteggiamenti quotidiani, in un’aura di delicato e commovente erotismo: «Ora posso interessarmi a una giovane donna che corre in bikini verso il ponte. Quasi le grido: signorina non scappi. Ma aspetto d’esserle alle spalle, con la bicicletta è un attimo, per dirle sottovoce: non scappi per carità» (p. 44).
Naturalmente la prosa di Orelli, anche da questa particolare prospettiva, geografica e sentimentale, è soltanto una delle due facce della medaglia, e sempre andrebbe integrata con la produzione in versi; non fosse altro che per cogliere, sul bordo stesso della moneta, i momenti di intersezione tra i due generi, quelle tessere lessicali e sintattiche che persino i lettori più esperti non saprebbero, a prima vista, attribuire con certezza a uno o all’altro ambito: «madri vanno a passeggio con i figli», «aggrappato a un lembo della vita», «in un poco d’erba», «uhèila giovinotto», «grigia all’altezza dei colombi». Il gioco dei rimandi tra poesia e prosa, troppo spesso considerato a scapito della seconda, erroneamente intesa quale campo di prova per quelle intuizioni che avrebbero trovato, in poesia, più nobile cittadinanza, è qualcosa di tipicamente orelliano e che ancora attende di essere scandagliato fino in fondo (la via è stata indicata da Massimo Danzi e dallo stesso De Marchi). A questo gustoso libretto l’editore annuncia che ne farà presto seguire un
altro, dedicato alla Leventina (Rosagarda), con molte pagine inedite. La notizia è senz’altro positiva, ma anche da accogliere con circospezione: il piccolo universo orelliano, dopo il convegno di studi del 2014, si mostra oggi in tutta la sua varietà e ampiezza; non sarebbe difficile produrre strenne natalizie per anni a venire, di sicuro interesse per i lettori, con il rischio però di dare di Orelli un’immagine falsata, quasi fosse stato l’autore di molti titoli e di molti libri. Forse sarebbe più utile, in prospettiva, immaginare vasti e ambiziosi progetti editoriali che, dietro l’esempio della raccolta di (quasi) Tutte le poesie apparsa da Mondadori, rimettessero in circolazione tutte le prose narrative e tutte le pagine critiche, debitamente introdotte e commentate. Parere personale, naturalmente. Bibliografia
Giorgio Orelli, Pomeriggio bellinzonese e altre prose a cura di Pietro De Marchi e Matteo Terzaghi, Casagrande 2017, 69 pagine.
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Cultura e Spettacoli
Al tempo dei Salon
Mostre – 1 G li anni dal 1820 al 1880 al Kunsthaus di Zurigo Gianluigi Bellei Durante tutto l’Ottocento la vita intellettuale e artistica parigina era divisa, si fa per dire, fra i cenacoli e i Salon. I primi – come quello della Rue Royale i cui rappresentanti furono immortalati in un celebre dipinto di James Tissot nel 1868 – servivano sia alla carriera che alla creazione di una rete sociale influente. Frequentati da artisti, critici e scrittori erano un trampolino di lancio verso la notorietà. Marcel Proust ne dà un resoconto impietoso e «acido». In questi cenacoli contavano soprattutto le ragioni politiche, le origini sociali e il capitale finanziario. I Salon, al contrario, rappresentavano l’ufficialità dello Stato. Tutto è cominciato all’Académie des Beaux-Arts. Questa era una sezione dell’Institut de France guidato da quaranta membri eletti a vita che consigliavano gli acquisti di opere per lo Stato e selezionavano gli studenti per l’ammissione all’École des Beaux-Arts. Ai migliori la scuola consentiva l’accesso al famoso Prix de Rome che consacrava il giovane artista e gli prometteva fama, onori e una vita professionale sicura. I membri dell’Académie selezionavano anche gli studenti che dovevano partecipare al Salon. Una gerarchia con meccanismi perfettamente oliati e chiusi alla quale alcuni si opponevano preferendo studiare nelle sale del Louvre, a diretto contatto che le opere, o frequentando degli istituti privati, come quelli di Gleyre, l’Académie Julian o l’Académie Suisse. Il Salon veniva organizzato ogni due anni fino al 1833, poi ogni anno; a parte il periodo compreso fra il 1852 e il 1863. Diventò con gli anni sempre più grande. I dipinti erano appesi alle pareti uno sopra l’altro. I visitatori aumentarono anche loro esponenzialmente. Sarebbe lungo raccontare la storia di questa istituzione. Diciamo che la giuria, per esempio, durante la Restaurazione era formata da critici, funzionari e artisti. Venivano pertanto accettate opere diverse da quelle ufficiali e accademiche e artisti quali Géricault o Delacroix.
Durante la Monarchia di Luglio, al contrario, la giuria era composta esclusivamente da membri dell’Académie e di conseguenza chiusa alle novità. Émile Zola descriveva le inaugurazioni dei Salon come si potrebbe fare oggi per un qualsiasi vernissage. Le famiglie dei pittori davanti alle tele, i pittori con le amanti, una Sarah Bernhardt che saluta la folla, due linguacciuti che bofonchiano davanti a un’opera, il tizio che fa dello spirito con le signore, il buffet di mezzogiorno «coperto, camerieri, le sale si svuotano», le carrozze, la fiumana di persone che arriva, le sciocche frasi del pubblico che entra e che dopo un piovasco sa di cane bagnato, i fiori dei cappelli femminili che contrastano con quelli neri maschili, le donne con gli occhialini, i custodi in uniforme. Le frasi udite: avete visto la mia roba, oh una sciocchezza, non ci capisco granché, ah, quell’orrore. Charles Baudelaire, invece, nei suoi scritti ne dà un taglio maggiormente critico. Nell’introduzione al Salon del 1845 sosteneva che il suo metodo consisteva semplicemente nel dividere i lavori in quadri storici, ritratti, quadri di genere, disegni e sculture; di «collocare gli artisti secondo l’ordine e il grado che la stima pubblica ha loro assegnati». Anche se non sottaceva la sua predilezione per Delacroix. Dal 1864, accanto al Salon ufficiale, Napoleone III istituì il Salon des Refusés al quale partecipavano gli artisti rifiutati. Questo è l’anno convenzionale con il quale si fa iniziare l’Impressionismo. Quello che qui è interessante notare è come a quei tempi gli artisti dei Salon erano osannati mentre tutti gli altri sempre derisi. In seguito, con l’ascesa di un’agguerrita borghesia e di galleristi-mercanti senza scrupoli come Paul Durand-Ruel, la situazione si è capovolta. Gli artisti rifiutati diventavano i veri artefici della storia dell’arte e gli altri venivano dimenticati e chiamati spregiativamente pompier. In questi ultimi decenni la situazione è nuovamente cambiata e gli artisti dei Salon
rivalutati, come testimoniano la svariate esposizioni a loro dedicate (vedi per esempio Jean-Léon Gérôme al Musée d’Orsay, «Azione» 10 gennaio 2011, e Charles Gabriel Gleyre sempre al d’Orsay, «Azione» 2 agosto 2016). Chi fosse interessato a notizie dettagliate sui Salon, e le altre esposizioni collaterali, dal 1675 al 1914, anno per anno, autore per autore, quadro per quadro, può consultare la pagina salons. musee-orsay.fr. In questi mesi il Kunsthaus di Zurigo propone una mostra – a cura di Sandra Gianfreda e con opere provenienti da musei quali il Louvre e il d’Orsay di Parigi, l’Art Institut di Chicago e il Metropolitan Museum of Art di New York – che si propone di ribaltare ulteriormente la situazione. Cento dipinti realizzati fra il 1820 e il 1880, uno accanto all’altro, divisi solo dall’argomento, con lo scopo di mostrare quanto i vari artisti avessero tutti una base comune. Indipendentemente dalla loro appartenenza al filone accademico o meno. Anzi, si spinge oltre prospettando la tesi secondo la quale gli artisti accademici siano stati innovativi al contrario degli avanguardisti. D’altronde le categorie storico-critiche alle quali siamo abituati non sono altro che una sintesi di concetti dati a posteriori e spesso in forma dispregiativa. Infatti le definizioni di Gotico, Barocco, Impressionismo hanno radici nel disprezzo. Gotico significa arte da Goti cioè da barbari; Barocco deriva da «barrueco» che designa le perle non tonde ma mostruosamente bitorzolute. Robert Rosenblum definisce questi concetti simili a «camicie di forza semantiche che è divenuto impossibile sia usare che abbandonare». E soprattutto che cambiano di significato con il tempo. Una mostra, questa zurighese, fuori dagli schemi, ma non tanto, tutta da vedere, anche se non ci sono i capolavori assoluti del periodo. Sei le sezioni: I dipinti di storia; Le immagini dell’Oriente; Scene di vita contemporanea; L’erotismo del corpo; Ritratti e nature morte
Gustave Courbet, La source, 1862. (Havemeyer Collection, Bequest of Mrs. H.O. Havemeyer, 1929)
nello studio; La raffigurazione della natura fra idealismo e realtà. Fra le opere La campagna di Francia di Ernest Meissonnier, Giovani ragazze spartane che sfidano i ragazzi di Edgar Degas, le visioni dell’Oriente di Alexandre Cabanel e di Eugène Delacroix, Ballo all’opera di Eugène Giraud, i nudi di Gustave Courbet, Charles Gleyre, Jules Dalou, il ritratto di Napoleone di Paul Delaroche… Alcuni dipinti molto simili, altri particolarmente
innovativi o con un linguaggio personale (come per Delacroix, ad esempio) da vedere tutti assieme; questa volta senza preconcetti. Dove e quando
Gefeiert & verspottet. Französische Malerei 1820-1880. Kunsthaus, Zurigo. A cura di Sandra Gianfreda. Fino al 28 gennaio. Catalogo Hirmer, fr. 49.–. www.kunsthaus.ch
Un Paradiso per Cuno Amiet
Mostre – 2 A Mendrisio fino a fine gennaio un’imperdibile retrospettiva delle opere dell’artista svizzero Eliana Bernasconi 70 dipinti e 15 opere su carta provenienti dalla Fondazione Amiet di Oschwand e dai maggiori istituti museali svizzeri e ticinesi formano la mostra che sta avendo il più grande successo di questi ultimi anni al Museo d’Arte di Mendrisio, parola della curatrice Barbara Paltenghi Malacrida. Si tratta della prima mostra che viene dedicata ad Amiet in ambito culturale italiano, e questo ha convinto i musei svizzeri a partecipare al progetto. La mostra è frutto di un lavoro di più di due anni, oltre a Barbara Paltenghi Malacrida e Simone Soldini, hanno curato il catalogo ragionato Franz Müller, autore di importanti saggi critici, e Aurora Scotti, fra i maggiori studiosi del divisionismo italiano e della pittura tardo ottocentesca. Continua la curatrice: «La mostra è nata come una retrospettiva: poiché il nostro è un museo piccolo cerchiamo di concentrarci su aspetti inediti non ancora affrontati nei grandi artisti; con Amiet eravamo partiti dal tema del Paradiso, rendendoci presto conto che Amiet dipingeva “solo” il paradiso, quindi la mostra, nata come una piccola retrospettiva, man mano è diventata una grande antologica». Figlio di un cancelliere cantonale, archivista e storico, Cuno Peter Amiet nasce a Soletta nel 1867 e muo-
re il 6 luglio del 1961 nella sua casa di Oschwand, piccolo borgo dell’alta Argovia bernese dove ha trascorso gran parte della sua vita. Al suo arrivo a Oschwand nel 1898, dopo il matrimonio con Anna Luder, Amiet si accorda per un affitto di 100 franchi all’anno; ben presto però acquisterà una casa colonica bicentenaria e un grande atelier con vasto giardino e frutteto, che sempre ritorneranno nella sua opera. La casa di Anna e Cuno Amiet sarà estremamente ospitale, vi alloggeranno numerosi allievi e nasceranno amicizie tra personaggi dell’ambiente artistico e culturale, come Alexej von Jawlensky, Marianne Werefkin o Paul Klee. Scorrendo la biografia di Amiet si resta stupiti dall’istinto felice che sembra guidare ogni sua scelta, dagli incontri che non sbaglia mai, come con il collezionista Oscar Miller, o con
Giovanni Giacometti, amico di una vita. Giovanissimo Amiet fa un severo apprendistato con il maestro Buchser, imparando accademicamente l’importanza della resa della luce solare e dei suoi riflessi; partirà poi con Giacometti per studiare a Parigi, a quel tempo centro di ogni avanguardia e movimento artistico; nella metropoli, che non gli è congeniale, vedrà Manet, Cèzanne, Van Gogh, Bonnard, Matisse e molti altri, si reca quindi in Bretagna, a Pont Aven, per poi ritornare dapprima a Soletta e poi definitivamente a Oschwand. Vivere di arte agli inizi gli è difficile, ma nel 1900 la Società ticinese di belle arti gli acquista un Autoritratto con la moglie, e da allora la sua strada sarà in discesa. Spirito aperto e versatile, Amiet assimilò e si lasciò influenzare, nella
Doppio ritratto (Doppelporträt) 1903. (Collezione privata © M. + D. Thalmannerzogenbuchsee Crediti fotografici: SIK-ISEA, Zurigo – Philipp Hitz)
prima parte della sua vita, dai maggiori movimenti artistici dell’epoca, tra Francia e Germania, tra impressionismo e post impressionismo. Vi erano i Fauve, il Blaue Reiter, i Nabis e soprattutto il movimento espressionista tedesco «Die Brücke» che lo volle fra i suoi membri. L’eco di questi movimenti riecheggia e rende oltremodo interessante la mostra di Mendrisio che permette di cogliere come la vita di Amiet si divida in due fasi distinte, negli intenti e negli esiti artistici. La prima, quella del soggiorno a Pont Aven (1893-1922), è sperimentale e di impronta europea. La seconda, dagli anni Venti sino al termine della seconda guerra mondiale, sarà segnata da un progressivo ripiegamento tradizionale e regionale, un rientro all’ordine. I tredici anni che Amiet passa a Pont Aven saranno un irripetibile periodo di crescita: la tecnica pittorica neoimpressionista e divisionista lo segna per sempre, la pennellata si fa tratteggio o si fa materica, rompe la staticità della superficie, la resa luministica del tessuto pittorico è totale, (si veda ad es. Alberi nel cielo serale, 1893, posto accanto al Paesaggio di Bretagna di Paul Gauguin, o a Il Bucato) e senza rinunciare al dato figurativo si è innestato il processo di astrazione. Fra gli incontri significativi vi sarà quello con Ferdinand Hodler, sebbene Amiet non condividesse la drammati-
ca carica espressiva, l’austerità e il rigore kantiano del grande maestro della pittura svizzera. La sua indole infatti lo portava in direzione opposta, verso una dionisiaca e solare immersione nella natura. Da vedere a Mendrisio sono ancora i grandi quadri di carattere allegorico-simbolico, della Raccolta della frutta, del 1914, con l’irruente espressionistica violenza dei rossi e il segno nero dei contorni, ben lontani dal naturalismo degli esordi, o anche l’incredibile Autoritratto in rosa, dove figura e sfondo si fondono in un’unica vibrazione, in una materica sintesi cromatica. La mostra si chiude con l’ultima grande raffigurazione di un Paradiso: siamo nel 1958, la moglie Anna è morta da poco, lo splendore terrestre e la fisicità delle immagini dei paradisi che Amiet ha dipinto da una vita qui si trasfigurano in un’apparizione immateriale. Vediamo una piccola figura di donna sperduta, mentre sulla sinistra l’apparizione di un angelo dalle grandi ali, nel giallo quasi accecante della totalità della luce, le si fa incontro. Dove e quando
Il paradiso di Cuno Amiet, Mendrisio, Museo d’Arte. Orari: ma-ve 10.0012.00; 14.00-17.00; sa-do 10.00-18.00; lunedì chiuso. Fino al 28 gennaio 2018.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Cultura e Spettacoli
La regina Atwood e tutti gli altri Serie TV Nel 2018 le serie televisive sono destinate a fare di nuovo la parte del gigante, partendo dalla Atwood
(presente su più fronti) troveremo anche Camilleri e Ammaniti e, chissà?, forse un giorno Murakami
Mariarosa Mancuso Il 2017 ha visto il trionfo di Margaret Atwood. Merito delle serie tv, che hanno reso la scrittrice canadese popolare più del Booker Prize vinto nel 2000 con L’assassino cieco. Da Il racconto dell’ancella – datato 1985 e tradotto da Mondadori nel 1988, ora da Ponte alle Grazie – Bruce Miller ha tratto The Handmaid’s Tale. In un futuro non troppo lontano le donne non lavorano né hanno denaro. Sono le regole di Gilead, teocrazia situata dove un tempo erano gli Stati Uniti. Per colpa dell’inquinamento e di altre catastrofi, la fertilità è scesa a picco. Le poche ancora fertili – chiamate «ancelle» – sono schiave da ingravidare. Bastava molto meno per appropriarsi della serie e sventolarla come bandiera contro Donald Trump.
In Italia, oltre a nuovi episodi di Montalbano e Gomorra, si attende la serie di Niccolò Ammaniti
Concorso
Su Netflix da novembre è disponibile Alias Grace, mini-serie tratta un romanzo di Margaret Atwood datato 1996 (lo ha tradotto nel 1997 Margherita Giacobino, anche questo nel catalogo Ponte alle Grazie). Diretto da Mary Harron – già regista di un film dedicato a Bettie Page, regina del sadomaso soft anni 50 – L’altra Grace racconta la storia (già di suo appassionante) di una sedicenne cameriera irlandese in Canada. La accusarono di aver ucciso il padrone e la di lui governante, con la complicità dello stalliere. Sotto il segno di Margaret Atwood, nel 2018 vedremo altre serie di origine letteraria. È in arrivo su Amazon Video Electric Dreams: serie antologica britannica di Ronald D. Moore e Michael Dinner, tratta dalle storie di Phi-
Netflix ha tratto una serie anche da Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood. (Keystone)
lip K. Dick. Il titolo viene dal racconto che suggerì a Ridley Scott il film Blade Runner: «Gli androidi sognano pecore elettriche?» (bello anche il sequel diretto da Denis Villeneuve, non date retta ai disfattisti). Come preparazione spirituale – certe cose vanno prese sul serio – suggeriamo la lettura di Io sono vivo, voi siete morti, l’omaggio che Emmanuel Carrère dedica allo scrittore visionario (anche perché strafatto di droghe e anfetamine). L’Italia propone un paio di nuovi episodi con il commissario Montalbano, eterno eroe made in Camilleri (lo scrittore sostiene di aver però depositato nella cassaforte della casa editrice Sellerio il manoscritto che darà l’addio all’investigatore di Vigàta). Luca Zingaretti ci accompagnerà ancora
Minispettacoli Rassegna teatrale per l’infanzia Teatro San Giovanni, Minusio Domenica 14 gennaio, ore 15.00 L’acciarino Magico Tratto dal celebre racconto di Hans Christian Andersen, uno spettacolo per bambini dai 5 anni. www.minispettacoli.ch Lugano in Scena Stagione teatrale LAC Sala Teatro, Lugano Martedì 16 gennaio, ore 20.30 Il Malato Immaginario, di Molière Traduzione Cesare Garboli. Regia Andrée Ruth Shammah. Produzione Teatro Franco Parenti. www.luganoinscena.ch
www.azione.ch/concorsi Regolamento Migros Ticino offre ai lettori biglietti gratuiti per le manifestazioni sopra menzionate. Massimo due biglietti per economia domestica. La partecipazione è riservata a chi non ha beneficiato di vincite in occasione di analoghe promozioni nel corso degli scorsi mesi.
I vincitori saranno estratti a sorte fra tutti i partecipanti. Per aggiudicarsi i biglietti basta seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
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per molto, fa impazzire l’audience e ha un indotto turistico rispettabile. Ne ha uno anche Gomorra, terza stagione della serie tratta dal libro di Roberto Saviano: sceneggiatura e attori che nel cinema italiano sono rarissimi – se non impossibili – da trovare. Fa il salto verso la televisione Niccolò Ammaniti, scrittore di strepitosa bravura – i contrari o i tiepidi leggano subito Che la festa cominci o Come Dio comanda. Sarà lo sceneggiatore e showrunner di otto puntate intitolate Il miracolo («showrunner», per fare il verso a una celebre frase di Flaubert, è colui che sta a una serie tv come il Dio sta alla creazione: responsabile di tutto, non si fa vedere da nessuna parte). Arriverà anche la serie tratta da L’amica geniale di Elena Ferrante (o di chiunque si na-
sconda dietro lo pseudonimo, siamo stufi di ragionarci su, con il senno di poi non sembra modestia ma pura strategia pubblicitaria). Regia di Saverio Costanzo, che già aveva diretto l’adattamento italiano di In Treatment» con Sergio Castellitto – dal format israeliano Be Tipul, nella versione USA diretto da Rodrigo Garcia, figlio di Gabriel Garcia Marquez. Tra i romanzi già chiacchierati, va segnato il nome di Sally Rooney e il titolo Parlarne con gli amici. Per i critici americani viaggia con l’etichetta Salinger ai tempi di snapchat ed è la prima femmina a raccogliere l’eredità dello scrittore che viveva nascosto (e in casa non aveva neppure un manoscritto da lasciare ai fan del giovane Holden). Da Guanda uscirà Selva oscura, l’ultimo
romanzo di Nicole Krauss, più nota come ex signora Safran Foer (la serie The Affair consigliava ai litiganti l’avvocato del divorzio Foer / Krauss). Le duemila pagine del prossimo Haruki Murakami fanno ben sperare. Sono intitolate Killing Commendatore (il giapponese le tenta sempre tutte per non sembrare orientale). Ci sarà pure qualche ripetizione, come in 1Q84, ma nessuno come lui sa inventare mondi che sui risvolti di copertina sembrano insopportabili, e a leggerli incantano. Fa sperare meno bene Divorare il cielo di Paolo Giordano: tre fratelli e una ragazza in una masseria pugliese. Tocca citare Checco Zalone, che ha girato Quo vado in Islanda perché i film ambientati nelle masserie pugliesi gli erano venuti a noia.
Povero è per sempre Massimario classico Oggi come allora nel
sentire comune i ricchi sono dei privilegiati
Elio Marinoni Semper pauper eris, si pauper es [...] / Dantur opes nullis nunc nisi divitibus Se sei povero, sarai sempre povero [...]. Oggi si concedono beni solo ai ricchi (Marziale, Epigrammi, V, 81) Marziale scrive nella Roma imperiale degli ultimi decenni del I sec. d.C. La concentrazione del capitale nella società di quel tempo era certo era assai più marcata di quanto non lo sia oggi, quanto meno nei paesi sviluppati; non si può tuttavia negare che esistesse anche allora una certa mobilità economica e sociale. La pessimistica affermazione di Marziale riflette in realtà l’atteggiamento fatalistico dei ceti inferiori: una forma di supina accettazione della realtà, o, come si direbbe oggi, di «pensiero debole». Più specificamente, sotto quest’affermazione cova il sentimento di frustrazione di chi, a dispetto della propria vera o presunta superiorità intellettuale, ha subito molte umiliazioni, praticando tra l’altro (è il caso appunto dell’epigrammista) il mestiere del cliente. Sono ricorrenti, nella poesia di Marziale, le lamentele per la disagiata condizione economica, nonostante il successo dei suoi libri (al-
lora non esistevano i diritti d’autore). E quando, stanco di Roma, decise di tornare nella nativa Bilbilis (Spagna Tarragonese), a pagargli il viaggio fu il facoltoso, liberale e vanesio Plinio il Giovane, che si compiace di darne notizia. Qualche decennio più tardi, lo stesso sentimento di frustrazione e di sdegno per le ingiustizie sociali trova sfogo nelle satire di Giovenale, che indica nell’indignatio la musa ispiratrice della propria poesia. Anch’egli lamenta, nella Satira VII, le misere condizioni degli intellettuali, contrapposte alle smodate ricchezze dei campioni sportivi (nihil novi verrebbe da dire!); e nella Satira III si sofferma sulle diverse conseguenze che l’incendio del proprio appartamento (a quei tempi non si erano ancora diffuse le assicurazioni!) ha per un povero o per un ricco: il primo perde anche quel niente che aveva, per il secondo si mobilita la solidarietà di classe, trasformando il sinistro in occasione di ulteriore arricchimento. La denuncia dell’inadeguato riconoscimento economico del lavoro intellettuale costituisce del resto un topos della letteratura non solo antica, che ha trovato espressione nell’adagio latino, ma non classico, Litterae (o carmina)
L’antica città di Bilbilis. (Wikipedia)
non dant panem, «La letteratura (o: la poesia) non procura il pane», non meno che nel petrarchesco «Povera e nuda vai filosofia / dice la gente al vil guadagno intesa». Chiudo queste noterelle osservando che la massima di Marziale sulla radicalizzazione dell’antinomia poveri/ricchi può essere estesa al livello dei rapporti interstatali: nonostante le varie forme di aiuto poste in essere dagli Stati, da istituzioni religiose e no, da enti umanitari, il divario tra paesi ricchi e paesi poveri tende, soprattutto nei periodi di crisi economica come quello da cui stiamo faticosamente uscendo, ad aumentare. Non è forse un caso che la decima edizione (2017) del Premio giornalistico Gaspare Barbiellini Amidei abbia avuto come tema: «Ricchi o poveri? Il mondo spezzato: valori, paure, sofferenze, benessere».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Cultura e Spettacoli
Britain meets Puerto Rico
Musica La strana coppia: il britannico Jools Holland arruola a sorpresa un José Feliciano più in forma che mai
per realizzare As You See Me Now, album dal sapore d’altri tempi Benedicta Froelich Per quanto alle nostre latitudini il suo nome non sia mai assurto a veri picchi di popolarità, nella madrepatria inglese il 59enne Jools Holland è ormai da tempo definibile come un cosiddetto «household name» – ovvero, una figura nota e amata da ogni singola famiglia britannica. Ciò si deve principalmente alla sua presenza pressoché costante nei palinsesti televisivi della BBC con l’ottimo programma musicale Later… with Jools Holland, nonché alle molteplici avventure con la celebre Rhythm & Blues Orchestra da lui fondata: una classica «big band» d’altri tempi dallo spirito a metà strada tra swing, R’n’B e jazz, specializzata nella reinterpretazione di standard inglesi e americani degli anni d’oro.
Le esperienze di ascolto offerte dal cd non colpiscono perché nuove, quanto per la passione che rivelano E poiché, negli ultimi tempi, le avventure discografiche di Jools sono state equamente divise tra la sua orchestra e gli svariati dischi da lui incisi in coppia con interpreti di talento (da Ruby Turner a Tom Jones), ecco che oggi, nella sua lungimiranza, il cantante inglese ha deciso
di guardare un po’ più lontano, cimentandosi in un vero e proprio «esercizio di stile» tramite la collaborazione di un’autentica leggenda della musica leggera come José Feliciano. Cieco dalla nascita, in oltre cinquant’anni di carriera l’artista portoricano è riuscito a volgere un apparente svantaggio in un punto di forza, inventandosi uno stile interpretativo unico al mondo, basato sulla sovversione degli abituali schemi ritmici del pop – il tutto combinato a un virtuosismo chitarristico tale da farlo annoverare tra i grandi nomi della musica latina. E dal momento che gran parte della carriera di José è basata sulla reinvenzione di brani di successo del repertorio poprock contemporaneo (su tutte, si veda la sua magnifica cover di Light My Fire dei compianti Doors), questa sua collaborazione con Holland appare, in fondo, assolutamente naturale, poiché incentrata proprio sulla rivisitazione di pezzi celebri a firma dei più disparati autori; un esperimento riuscito, poiché, nonostante lo stile abituale di Jools possa, di primo acchito, apparire come quasi agli antipodi rispetto alle suggestioni amate da José, la commistione risulta a dir poco perfetta. Così, classici intramontabili del songbook americano quali Hit the Road Jack e Honeysuckle Rose – qui sapientemente rimaneggiati per collocarsi a cavallo tra blues, swing e jazz – si animano di nuova linfa vitale: anche perché il timbro intramontabile della voce di Feliciano e la sua inconfondi-
Improbabili, ma forse credibili proprio per questo: Holland e Feliciano.
bile chitarra solista donano una nuova dimensione al lavoro dell’orchestra di Holland, arricchendolo di un sapore «latino» inconsueto e intrigante. Insieme, José e Jools dimostrano di sapersela cavare con qualsiasi registro, passando senza alcuna fatica da capisaldi del blues tradizionale come Midnight Special a canzoni di Natale quali la celeberrima Feliz Navidad (ben nota ai fan di Feliciano), che l’orchestra ammanta qui di un sound carico delle suggestioni sudamericane della natia Puerto Rico; ed è interessante notare come gran parte della tracklist consista in brani per en-
trambi «collaudati», cioè già interpretati da Jools o José negli album da loro incisi: tra questi brillano l’indimenticabile ballata beatlesiana In My Life e una gemma come Baby Can I Hold You, glorioso cavallo di battaglia della cantautrice americana Tracy Chapman, a cui Feliciano ha reso omaggio in un album del 2016 a tiratura limitata (My Latin Street, Vol. 1). Dalla prima all’ultima traccia, l’ascolto di questo CD si rivela quindi un piacere assoluto per le orecchie e una consolazione per l’anima: si passa dalle atmosfere suadenti e a tratti perfino
sexy di You’re So Cold, che si avvale della collaborazione di Rita Wilson, a pezzi ammantati di grazia e profondità veramente notevoli (Treat Myself), fino ad arrivare all’irresistibile sound jazzato della title track As You See Me Now, valorizzata da una sezione di fiati impeccabile, che riporta l’ascoltatore alle atmosfere dei fumosi club speakeasy americani degli anni 30; senza dimenticare le irresistibili venature al sapore di flamenco di Let’s Find Each Other Tonight. E se, dopo tanti anni, la voce dell’interprete portoricano non può più definirsi quella di una volta, non vi è dubbio che la sua chitarra acustica resti uno dei maggiori tesori che la musica sudamericana contemporanea possa vantare; in più, l’innegabile maestria di una combinazione apparentemente azzardata come quella con la The Rhythm & Blues Orchestra non fa che acuire il senso di meraviglia che una simile operazione suscita nell’ascoltatore. Questa è musica che fa bene al cuore e allo spirito, suonata e interpretata con vera passione e professionalità; e benché, per sua stessa natura, un simile CD sia difficilmente capace di offrire esperienze di ascolto nuove o imprevedibili, il solo fatto che l’attuale scena musicale – troppo spesso caratterizzata da interpreti scialbi e tecnicamente poco professionali – possa ancora beneficiare di simili offerte è di grande conforto per qualsiasi vero appassionato. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Sotto la forza dei regimi
Incontri A colloquio con Mariss Jansons, direttore d’orchestra di origine lettone, al LAC
lo scorso novembre con il Bayerischer Rundfunk
Enrico Parola L’ultima domanda è l’occasione per la risposta più decisa e disarmante: «Come posso credere in Dio dopo quello che ho vissuto? Perché ho ricevuto tantissime cose belle e perché nessun potere, per quanto violento, forte e pervasivo, può arrivare fino al cuore, se tu lo mantieni integro».
«La settimana in cui fui costretto a stare lontano dalla musica fu una vera e propria sofferenza» Mariss Janson è uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi, per molti il più grande. Il pubblico di Lugano Musica lo ha potuto constatare quando, a novembre, si è esibito al Lac con il formidabile Bayerischer Rundfunk. Per chi oggi gira il mondo ricevendo onori e ovazioni nei più importanti teatri, per chi a 74 anni ha ancora l’agenda congestionata dagli impegni con le maggiori orchestre, potrebbe risultare ovvio dire che «la fede e l’arte sono le due cose più importanti della mia vita; sarebbe bello che avessero più importanza anche nelle vite di tanti altri». Ma a sentirlo ripercorrere i suoi settant’anni, da quando piccolissimo venne iniziato all’arte e alla fede dai genitori, l’ovvietà si dissipa. Per lui la vita è stata una sfida non dai primi, ma dal primissimo passo: «Sono nato a Riga mentre era assedia-
ta dalle truppe hitleriane; mia madre, dopo che le erano stati uccisi il padre e lo zio, si era rifugiata in uno sgabuzzino ed è lì che venni alla luce». La mamma era cantante d’opera, il padre dirigeva l’orchestra cittadina: «Non c’era la baby-sitter e mi portavano ogni giorno in teatro: assistevo alle prove dei concerti e agli allestimenti delle opere; alla sera, a casa, mi mettevo anch’io a spiegare ad orchestrali immaginari come suonare, cantavo, ballavo e con due pezzetti di legno diventavo violinista». Terminati i giochi, già tutti musicali, «la mamma mi faceva recitare le preghiere: la fede mi è stata trasmessa così, in modo semplice e familiare». Jansons non può ricordare l’assedio nazista, conobbe la forza dei regimi da adolescente, seguendo le vicende di suo padre: «Il Partito aveva deciso che Rostropovich (il più grande violoncellista del 900) era un personaggio sgradito e andava allontanato (aveva ospitato per quattro anni nella cantina della sua casa Solgenitsin, (lo scrittore che con Arcipelago Gulag aveva fatto conoscere all’Occidente gli orrori dei gulag stalinisti, ndr.). Così intimò a mio padre come ad altri musicisti di firmare una lettera con cui sottoscrivevano questo giudizio e questa intenzione; ma Slava era un amico oltre che un grande uomo e un grande musicista, e così mio padre si rifiutò, anche se le pressioni e le ripercussioni furono enormi». Qualche anno dopo sarebbe toccato anche a lui saggiare le chiusure della Cortina di ferro: nel 1968 riuscì a partecipare a una masterclass per giovani direttori con Herbert von Karajan, che
Mariss Jansons è considerato fra i più grandi direttori d’orchestra del mondo. (Keystone)
notò subito il talento di quel 25enne lettone: «Mi chiese di diventare suo assistente ai Berliner Philharmoniker, ma il Partito mi negò il permesso di stare fuori dai confini sovietici. Solo dopo, quando iniziavano a intravvedersi i prodromi del disgelo, mi lasciarono andare: fu un momento fondamentale, lavoravo con lui dalle nove del mattino alle undici di sera: lui era un uccello che volava nell’aria e noi umani lo ammiravamo da terra, ho imparato tantissimo come tecnica e come visione della musica». Nel 1985 il padre morì d’infarto mentre era sul podio a Manchester, nel anche lui 1997 rischiò
di fare la stessa fine: «Ero a Oslo, stavo dirigendo la scena finale di Bohème ed ebbi anch’io un infarto; non ricordo nulla, ma gli orchestrali mi raccontarono che mentre franavo a terra la mia mano destra cercava di tenere ancora il tempo... Non so se sia vero, però qualche settimana dopo ebbi un altro attacco. Non fumavo né bevevo, ma lo stress, il tanto lavoro, la vita vagabonda dell’artista stavano mettendo a dura prova il mio fisico; passai tra settimane in una clinica vicino a Locarno, dove sono tornato varie volte per dei controlli: tre settimane, la prima con totale distacco dallo studio, una sofferenza
per chi come me ha sempre riempito la sua vita con la musica». L’importanza data all’arte lo porta a valutazioni interessanti: «Non tutto del regime comunista era un male: il livello artistico era altissimo, per affermarsi era una lotta perché la concorrenza era tanta e qualificata. Quando ho iniziato a lavorare a Oslo la lotta era per avere un’orchestra e un teatro, poi per affermare la nostra qualità: c’era la democrazia, e questo è un bene, ma ad esempio non si poteva dire che un’orchestra fosse migliore delle altre e questa è una visione distorta della democrazia».
Christa de Carouge, quando gli abiti sono abitati Mostre Abiti e creazioni sartoriali della stilista svizzera esposti al Kunsthaus di Zugo fino al 18 febbraio Marinella Polli La Grande Dame degli stilisti svizzeri, Christa de Carouge (nata Furrer a Basilea, ma cresciuta a Zurigo, città in cui aveva un atelier, oggi chiuso come pure quello di Carouge), è una signora di 81 anni piccolina, con un caschetto argenteo, supercorto e sbarazzino che le incornicia il viso illuminato da vivacissimi occhi. È ovviamente vestita di nero – anche la montatura degli occhiali è rigorosamente nera –, in quello stile non ligio a mode, ieratico, solenne, ampio e un po’ ingombrante che caratterizza il suo intero operare artistico. I vestiti sono fatti per essere abitati, devono essere come una vera e propria casa per chi li indossa, come un’architettura per il corpo, suole ripetere la stilista, non certo modelli tagliati per rivestire la figura. Alla dama in nero, in quanto è il nero, come tutti sanno, ad avere la parola nelle sue straordinarie crea-
zioni, e alla sua arte, scelta cromatica, qualità, autenticità e genialità, il Kunsthaus di Zugo dedica presentemente una mostra che, assemblando in modo molto suggestivo ed invitante modelli di haute couture, oggetti, fotografie e disegni, è anche un significativo rias-
sunto di quanto fatto fin qui dalla grande stilista. Kimono, mantelli, tuniche, vestaglie, ampi pantaloni e giacconi a portafoglio dalla silhouette voluminosa fanno da cardine, a testimonianza di quanto Christa De Carouge spesso ripete, ovvero che i suoi abiti di materia
La stilista Christa de Carouge. (© DE NIZ)
e forme che li rendono unici nel loro genere non hanno nulla a che fare con la moda, le mode o i trend. E poi i tessuti, le stoffe: plissée, a drappeggio, ricamate, a inserti, con paillettes da toccare e accarezzare contropelo, con tarsie magnifiche di trama diversa, traforata a rete o a effetto pizzo. Stoffe prevalentemente provenienti dalla grande tradizione svizzera e dal Giappone, paese, quest’ultimo, che rappresenta il punto forte nell’ispirazione dell’artista, sempre alla ricerca del tessuto ideale, scoperto poi un giorno fra le stoffe zen dei monaci buddisti. In una sala del museo sono per esempio esposti un busto di Buddha, una campana tibetana e un kimono del buddhismo Zen. Esposti e sapientemente disposti, giacché nella mostra in questione, tutti i capi sono adagiati in maniera molto suggestiva sul pavimento o appesi a enormi guardarobe mobili. A parte qualche singolo capo
in rosso o in oro, tutto nero, come detto, in seducente contrasto con il bianco immacolato delle sale. Inoltre, a eloquente testimonianza che non tutto il nero è uguale: a seconda del materiale, della lavorazione, di combinazione e accostamento e della forma, questi tessuti sono un inevitabile palcoscenico delle più svariate luci, sfumature e colori. Il nero cattura infatti la luce in modo diversissimo: sfumature argentee o grigie, aloni brunastri, effetto a specchio, a velluto, ecc. Al Kunsthaus c’è anche una sala in cui si possono comodamente provare dei capi, e non poche visitatrici ne approfittano ammirandosi nell’enorme specchio a disposizione. Dove e quando
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Un lavoro ben fatto, poco spontaneo I miei coetanei escono di casa per andare a teatro, ai concerti, a correre, al bar Sport, alla bocciofila. Io esco di casa per andare in un archivio storico. È il mio trip e per questa rubrica ci torno sopra ancora una volta. Ma è l’ultima, lo giuro. Gli addetti all’Archivio di Stato mi vivono come un incubo, ma è colpa loro: mi hanno spiegato come si fa per richiedere i faldoni e soprattutto che è lecito fotografare i documenti anziché ricopiarli con la matita. Vi ricordate quando le fotocopiatrici fecero il loro ingresso nelle biblioteche pubbliche? Per le opere in consultazione, come la Treccani, non si poteva fare altro che copiare i passi che ci servivano o riassumerli. Così facendo, ricordava Umberto Eco, si finiva anche per impararne il contenuto. Diventava più rapido e comodo fotocopiare le pagine, tornando a casa con pile di fogli che finivano sulla scrivania a prendere polvere. In pratica cercavo, senza trovarle, tracce di un evento catastrofico verificatosi
il 31 maggio 1939 e mi sono imbattuto, nella raccolta degli atti del gabinetto della Regia Prefettura di Torino di due telegrammi che, secondo me, aiutano a comprendere la costruzione del consenso in Italia durante il fascismo. Il sottosegretario al ministero dell’interno Buffarini Guidi spedisce un telegramma a tutte le prefetture del Regno alle 12 e 15 del 9 maggio 1936. Il testo decifrato dice: «Stasera come è noto saranno partecipate direttamente popolo adunato pubbliche piazze decisioni alta importanza politica Nazionale et internazionale prese da gran consiglio Fascismo et da consiglio dei Ministri punto Eccellenze loro appena adunate avranno avuto termine telegraferanno subito notizie circa imponenza adunate stesse virgola indicando numero approssimativo intervenuti et impressione riportata masse at annunzio su accennato virgola grado entusiasmo manifestato et ogni altro elemento atto at chiarire adesione popolo decisioni
prese punto». Sappiamo che nel tardo pomeriggio del 9 maggio 1936 Mussolini pronuncia «il discorso dell’impero» affacciato al balcone di piazza Venezia a Roma, trasmesso via radio in tutto il paese. Perciò nel resto d’Italia il popolo doveva radunarsi per ascoltarlo dagli altoparlanti. Il duce annuncia «la rinascita dell’impero sui colli fatati di Roma». Quel giorno, con Etiopia, Somalia ed Eritrea nasce l’Africa Orientale Italiana. Possiamo immaginare un prefetto che risponda al ministro dicendo che la manifestazione è stata un mezzo fallimento? Ecco il rapporto telegrafico con «precedenza assoluta» del prefetto di Torino: «Adunata popolare in questo Capoluogo per udire decisioni prese Gran Consiglio Fascismo est riuscita per numero partecipanti anche più importante di quella pur imponente del 5 corrente punto Circa 400 mila persone senza contare quelle che hanno altrimenti ascoltato parole del Duce sono convenute in questa piazza Vitto-
rio Veneto e vie adiacenti punto Fra esse oltre 14 mila uomini in armi di questo Presidio Militare punto Malgrado pioggia dirotta sopravvenuta popolazione est rimasta ferma al suo posto accogliendo con vivissimo entusiasmo dichiarazioni del Duce entusiasmo che est diventato delirante annuncio proclamazione Impero punto Dichiarazione che decisioni prese saranno difese contro chiunque ha trovato convinta et entusiastica acclamazione punto At imponentissima adunata ha partecipato con autorità tutte S.E. Renato Ricci che precedentemente aveva qui presenziato cerimonia leva fascista punto At termine adunata S.E. Comandante Corpo d’Armata alle truppe che presentavano le armi ha ordinato Saluto al Re et Saluto al Duce cui hanno risposto con grido unanime tutti intervenuti punto Malgrado pioggia dirotta numerosi cortei attraversano Città festante et accompagnano alle caserme i reparti delle Forze Armate al canto inni fascisti punto
Nessun incidente punto». È difficile immaginare dei torinesi sotto la pioggia battente intenti a cantare inni fascisti. La narrazione degli eventi di massa piegata alla proprie esigenze non è finita con il fascismo. Se per partiti e sindacati i presenti a una adunanza sono 100mila la questura ne stima 3 mila. Il 14 ottobre 1980 si svolse a Torino la cosiddetta «marcia dei 40 mila»: i capi intermedi della Fiat protestavano contro i 35 giorni di occupazione degli stabilimenti. La vulgata vuole che sia stata una marcia spontanea, originatasi da un raduno organizzato al Teatro Nuovo della città. È documentata da una nutrita quantità di riprese cinematografiche realizzate da operatori posizionati sui balconi più alti delle case nelle vie attraversate dal corteo «spontaneo». Inoltre sui cartelli inalberati dai manifestanti le scritte «spontanee» presentano caratteri tracciati al tecnigrafo. Anche lo spontaneismo a Torino deve sottostare al culto del «lavoro ben fatto».
tre, l’ostentazione di ricchezza è pur sempre un segnale di successo, quindi illumina di luce ricca di riflessi positivi coloro che ostentano. Come una volta era la pancia per gli uomini delle campagne. Così tante erano le guerre, le carestie, le epidemie, così diffusa era la povertà, da ritenere strano che un bambino crescesse vivo, sano e robusto, se capitava era l’eccezione alla triste regola della morte e della malattia. Per diventare un bambino e poi un uomo adulto in carne, il benessere doveva essere presente in famiglia da almeno qualche generazione. Per arrivare poi a essere panciuti, da diverse generazioni. Ora è il contrario: è più facile che sia grasso, nella nostra opulenta società, chi per poca ricchezza mangia molti economici carboidrati, rispetto a chi invece si può permettere carni, pesce, o addirittura regimi vegetariani/vegani, che richiedono attenzione e specifici acquisti in luoghi certificati (tra parentesi: ma perché le farine a base di insetti si vendono nei reparti per vegani e
vegetariani? Non sono animali anche loro? Di questo parere era la gentil farfalletta della vispa Teresa: «anch’io son figlia di Dio»). Quindi, da ostentare saranno, oltre all’aereo privato, la linea perfetta nonostante la recente gravidanza – inviata da qualche luogo sublime del pianeta, dove non piove e non tira vento come dalle nostre parti; abiti e gioielli indossati a una festa, meglio se preceduta da red carpet (sul quale sfilano anche signore e signorine che non sono del mestiere, né attrici né stiliste né mogli o fidanzate di, chissà perché), insomma, il lusso. Qualcuno si lamenta, con cattivo gusto. Il mondo non ha da mangiare e tu consumi molti denari per un viaggio o un vestito. I censori tuonano, gli indignati si indignano. Allora viene in mente quella favola delle api di Bernard de Mandeville, che nel 1705 scrisse L’alveare scontento, ovvero i furfanti divenuti onesti, ripubblicata poi come La favola delle api, vizi privati pubbliche virtù. Il pensatore, divenuto poi un punto di riferimento per il libe-
rismo di Adam Smith e altri, sosteneva che il lusso, il vizio, infine le calamità (in quanto portano sempre lavori da svolgere) sono all’origine del benessere e della ricchezza delle popolazioni. Un libertino, che non si preoccupa di trattenere le sue passioni e lascia prosperare il vizio senza porsi altre domande, che vive nel lusso, avrà una prodigalità che «darà lavoro ai sarti, ai servitori, ai profumieri, ai cuochi e alle donne di vita: tutti questi a loro volta si serviranno dei fornai, dei falegnami» e così via, arrecando benefici a tutta la società. È vero, un terremoto comporta anche una ricostruzione. È vero, un pranzo raffinato dà più lavoro di un toast. Però un pranzo molto raffinato può comportare sprechi, spese inutili, ferite ecologiche. Non sempre è tutto indispensabile al buon funzionamento di una società. Meno jet privati – che inquinano senza motivo – e migliori servizi low cost? Ma se uno vuole e può permetterselo... ecco, almeno non ostenti.
con il commento: «Stamattina alzati presto per andare a sciare. Ma nevica alla grande, tutti a letto di nuovo. Primo giorno dell’anno imbiancato, bellissimo. Auguri, viva il #2018». Vi ricordate la celebre rubrica del settimanale di resistenza umana «Cuore» (5½)? Si intitolava un po’ brutalmente: «E chi se ne frega». Ecco, il tweet del segretario del Pd sarebbe stato il bersaglio ideale di quella benemerita satira ormai scomparsa dai giornali. In effetti a chi può interessare che la mattina del 1. gennaio 2018 Renzi torni a letto perché le piste sono impraticabili? A nessuno. Dunque: chissenefrega... A meno di non essere terremotati costretti a passare il capodanno in una tenda gelida nonostante le vane promesse del governo. Tant’è vero che da Amatrice, uno dei paesi più colpiti dal sisma dell’agosto 2016, è arrivata all’ex premier italiano una fotografia con tenda completamente sommersa dalla neve, accompagnata da una battuta sarcastica: «Anche qui
ad Amatrice non possiamo sciare». Bisognerebbe consigliare ai personaggi pubblici troppo tentati dall’apparire simpaticoni un uso parsimonioso di Twitter. Mai lasciarsi prendere la mano dal narcisismo presenzialista. Lo stesso Renzi (3–) ha sentito l’esigenza, nei primi giorni dell’anno, di avvicinare l’elettorato postando il suo commento su una trasmissione televisiva: «La magia della danza e la straordinaria forza del messaggio di Roberto Bolle ieri hanno incantato tantissimi italiani». Embè! Ce lo doveva dire lui? Matteo Salvini, che ha annunciato di essere nella «splendida Valtellina», si è beccato l’opportuna ironia di un elettore ben contento di essere lontanissimo da lì. Molto più apprezzabile la compostezza del presidente francese Emmanuel Macron che ai suoi due milioni e mezzo di followers ha inviato semplicemente gli auguri per il 2018 senza troppe spiritosaggini. O la sobrietà di Paolo Gentiloni che per l’anno nuovo si è limitato a consigliare di
avere fiducia nel proprio paese. Punto. Pare che il presidente Trump sia dipendente da Twitter come un alcolizzato dal vino. Un reportage sulla sua giornata tipo ha rivelato che si sveglia alle 5.30 del mattino e senza alzarsi dal letto si sintonizza subito sulla Cnn cominciando a twittare come un forsennato prima ancora di andare a far pipì. «Twitter è per Trump la sua Excalibur» secondo il «New York Times». Excalibur era la misteriosa spada infissa nella roccia che bisognava estrarre per diventare re: secondo la leggenda ci riuscì il buon Artù (6), così come il tycoon a stelle e strisce è riuscito a impadronirsi della presidenza americana grazie ai social network. Ma re Artrùmp purtroppo, nonostante il fantasmagorico parrucchino monoblocco che gli copre il cranio, non è una leggenda ma una autentica sciagura. Non è scientificamente provato, ma è probabile sulla base di raccomandazioni della scienza in considerazione degli standard e dei desideri della comunità.
Postille filosofiche di Maria Bettetini Permettiamocelo, ma senza ostentare «Debbe uno quando assalta una città fare tutte le sue ostentazioni terribili». Niccolò Machiavelli non ha dubbi, quando si aggredisce si deve ruggire, secondo la famosa legge «della golpe e del leone», della volpe e del leone, che porta a essere astuti ma a non tralasciare le esibizioni di forza bruta. Nel Cinquecento questo voleva dire ostentazione: esibizione, mostra. Oggi il termine ha assunto una colorazione leggermente diversa, chi ostenta lo fa per «sussiego e vanità», dicono i migliori vocabolari, arrivando anche a fingere, a ostentare nel senso di «fare come se» si fosse ricchi, o religiosi, o ben educati. Dal latino ostendere, un semplice «mostrare», al nostro indurre la credenza di un certo status, corrispondente a realtà o meno, il passo è meno breve di quel che sembra, e molto ci fa riflettere sulla crescente importanza dell’apparire rispetto all’essere, dell’immagine rispetto alla sostanza. Parole astratte e fumose, anche un po’ retoriche? Comunque
sia, di grande attualità. Si è dibattuto, nei passati giorni di feste e vacanze, se sia o meno corretto mostrarsi con la famigliola a bordo di un jet privato, in procinto di raggiungere favolosi luoghi di villeggiatura. Nessuna legge lo vieta, sui social media sono proibiti solo comportamenti offensivi e discriminatori. Così Instagram ha accolto le foto di Briatore con figlioletto, della moglie di Bonolis con bambini e risata del marito in sottofondo, di Melissa Satta col piccino. Tutti salutano, evviva andiamo in vacanza, nei caldi mari del Sud, dove sappiamo essere presente uno stuolo di altre star. Non riprese da fotoreporter ingombranti (ricordate gli appostamenti per la povera lady Diana?), niente paparazzi, ma le foto mostrate senza censure dai soggetti stessi o dai loro partner. Buona o cattiva che sia l’immagine, è sempre pubblicità. Una volta si diceva, in senso negativo, «parlate parlate, qualcosa resterà». Oggi diciamo lo stesso, aggiungendo un sottinteso «purché se ne parli». Inol-
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Parole senza libertà Se qualcuno non avesse ancora ben capito lo spirito del governo di Donald Trump (voto 1), con le sue nuove direttive linguistiche appare tutto ancora più chiaro. Il presidente americano ha disposto che dai documenti del Center for Disease Control (la massima autorità sanitaria degli Stati Uniti) vengano cancellate alcune parole: «vulnerabile», «diritto», «feto», «transgender», «diversità», pensando così di eliminare dei concetti disturbanti semplicemente eliminando le parole corrispondenti. Trump ha proibito le formule «basato sulla scienza» o «scientificamente provato», ordinando di sostituirle con una catena di parole fumose e insensate: «sulla base di raccomandazioni della scienza in considerazione degli standard e dei desideri della comunità». Il restyling linguistico servirebbe a rendere più complicato il dibattito sulle questioni di bioetica e sui diritti civili. Il linguista Raffaele Simone ha detto giustamente che con queste decisioni,
Trump si è messo a sua insaputa sulle orme di Hitler e di Mussolini, i dittatori che vollero rendere funzionale la lingua al loro regime imponendo purismi e censure. Oltre all’imposizione del «Voi» al posto del «Lei» di cortesia negli uffici pubblici, le parole straniere vennero messe al bando con alcune proposte comiche come «insalata tricolore» al posto dell’insalata russa e «chiavemorsa» al posto della chiave inglese. Quel che colpisce è come strumenti di comando molto antiquati e poco raffinati come le censure riescano a convivere, in una sola testa (gialloarancione), con l’uso più aggiornato dei social network, dove ognuno ha libertà di parola e dove appunto le parole in libertà dei governanti sono diventate abitudine discutibilissima (2+). Per esempio. Matteo Renzi si trova in vacanza con moglie e figli in un albergo sull’Alpe di Siusi, Alto Adige, e appena sveglio invia su Twitter la fotografia di una pista completamente innevata
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Idee e acquisti per la settimana
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shopping Nuovo anno all’insegna del benessere
Attualità Fate il pieno di vitamine e dolcezza con una scorpacciata di arance Tarocco dalla Sicilia
Giovanni Barberis
Gli agrumi in generale sono un’ottima fonte di vitamina C, importante per il buon funzionamento del sistema immunitario e per mantenere sani vasi sanguigni, gengive, denti e ossa. Tra le varietà di agrumi più apprezzate e diffuse presso i consumatori tra dicembre e aprile, troviamo certamente le arance semisanguigne Tarocco, qualità originaria della Sicilia, regione dove si concentra anche la maggior parte della produzione italiana di arance (oltre il 70%). Le Tarocco seducono grazie al loro delicato gusto agrodolce, al gradevole profumo che emanano e alla quasi totale assenza di semi. Sono ideali gustate da sole, per la preparazione di corroboranti succhi di frutta, marmellate, ma non sono da disdegnare nemmeno accostamenti salati come quelli con le insalate e i piatti di carne. A proposito: la coltivazione di arance Tarocco avviene soprattutto nelle provincie di Catania e Siracusa. Qui, grazie al clima secco e ai forti sbalzi di temperatura tra giorno e notte dovuti alla presenza del vulcano Etna, le arance sviluppano la loro naturale pigmentazione rossa detta antocianina. Più le escursioni termiche sono importanti, più le arance si colorano di rosso, sia internamente che esternamente. Infine, oltre alla arance Tarocco, Migros Ticino propone sui propri scaffali altri agrumi provenienti dalla Terra Sicula, come arance sanguigne, arance bionde, mandarini Paternò, clementine e mandarini Tacle.
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Premiazione «Jackpot dei formaggi» Negli scorsi giorni, presso il Centro S. Antonino, si è svolta la premiazione del concorso «Jackpot dei formaggi», attività organizzata lo scorso autunno in collaborazione con l’azienda Savencia Fromage & Dairy Suisse di Cressier. Tra le migliaia di partecipanti, la fortunata vincitrice del premio principale è stata la signora Verena Buzzini di Canobbio, che si è aggiudicata una carta
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Noci miste o spicchi di mango secchi Sun Queen in conf. da 2, per es. noci miste, 2 x 200 g, 5.50 invece di 7.90 30% Risoletto e Mahony in confezioni multiple, UTZ, per es. mini Risoletto Classic, 840 g, 11.70 invece di 16.80 30%
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 gennaio 2018 • N. 02
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Idee e acquisti per la settimana
azin presso Migros Mag r ne ig es D l ria ito lo Tys (37), Ed Carolus (10) e Pab
Mondo animale
Un buon mix
Annette Liesegang, esperta di nutrizione animale presso l’Università di Zurigo, spiega le caratteristiche di una corretta alimentazione mista e il motivo per cui i gatti non dovrebbero bere latte Testo Melanie Michael
Io e il mio gatto
«Siamo entrambi pigri» Pablo, da quando fate coppia? Da dieci anni.
Un gatto che pesa tra i tre e i quattro chilogrammi dovrebbe bere all’incirca 0,2 litri al giorno.
Il suo nome da dove arriva? A quell’epoca avevo un altro gatto, che aveva un amico immaginario di nome Carolus. (ride)
Nella mente di molti è ancorata l’idea che nella ciotola del gatto ci debba essere del latte. È corretto?
Come è arrivato da te Carolus? L’ho ricevuto da amici, quando aveva quattro settimane. Qual è il suo alimento preferito? Adora il tonno. Cosa avete in comune? Siamo entrambi pigri. (ride) Ci sono così tante cose che ci uniscono. Conosce i miei rituali e io i suoi. Siamo semplicemente ottimi amici. Carolus ha qualche abitudine particolare? Quando sta per ricevere il cibo, Carolus si alza sulle zampe posteriori e si allunga verso di me, come a dire: «Ciao, sono qui e ho fame!»
to sette porzioni di cibo fresco al giorno, dovrebbe ricorrere a un’alimentazione mista. Anche durante l’estate, quando il cibo umido si deteriora velocemente, si può proporre un alimento secco. Si conserva più a lungo e può restare senza problemi nella ciotola del gatto a temperatura ambiente. Anche una dieta a base di soli cibi secchi può essere appropriata, dipende però dalle abitudini del gatto.
Quanti liquidi deve assumere quotidianamente un gatto adulto?
No, il latte non va bene. Soprattutto con l’avanzare dell’età, molti gatti non hanno più la capacità di digerire il lattosio e ciò provoca loro diarrea. I gatti dovrebbero bere acqua. Il fabbisogno di liquidi dei gatti può essere coperto dal cibo?
Sì, un’alimentazione mista (la combinazione di alimenti umidi e secchi) può contribuire a coprire il fabbisogno di liquidi del gatto. Se il gatto viene alimentato unicamente con alimenti umidi, gran parte del suo fabbisogno quotidiano di liquidi risulta coperto: il cibo umido è composto indicativamente fino all’80 percento di acqua. Raccomanda un’alimentazione con cibi secchi o umidi?
Annette Liesegang raccomanda 0,2 litri di liquidi al giorno per i gatti.
Raccomando i cibi umidi, principalmente per il loro alto contenuto di acqua. È ciò che più corrisponde alla composizione della dieta naturale dei gatti, essenzialmente a base di topi. Tuttavia il cibo umido deve sempre essere fresco e non deve rimanere a lungo esposto a temperatura ambiente. Per questo motivo il fabbisogno quotidiano andrebbe suddiviso in sette piccole porzioni. Anche il cibo secco va bene?
Si, va bene anche il cibo secco. Soprattutto se il proprietario non può mettere a disposizione del gat-
Come si compone una corretta dieta mista?
Se possibile, il gatto dovrebbe ricevere mattina e sera una porzione di cibo umido, mentre durante il giorno dovrebbe avere a disposizione una ciotola con un mangime secco, così che possa assumere più volte delle piccole porzioni. Gli alimenti secchi hanno il vantaggio di non deteriorarsi. I proprietari che danno ai loro gatti cibi pronti anziché prepararne di freschi, devono sentirsi in errore?
Assolutamente no, non ce n’è ragione. Non vedo alcun problema se i gatti sono in forma, mantengono il giusto peso, hanno un bel pelo e una digestione sana.
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dall’8.1 al 3.2 dalle ore 7.30 alle 8.00
Gipfel al burro a -.50 * solo presso i supermercati Migros di Biasca, Giubiasco, Arbedo-Castione, Taverne, Pregassona e Bellinzona.
l’orario d’apertura dei supermercati Migros di Biasca, Giubiasco, Arbedo-Castione, Taverne, Pregassona e Bellinzona, sarà anticipato
alle ore 7.30