Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Sono solo 13 in Ticino le sindache in carica negli Esecutivi comunali: alcune ci raccontano le loro esperienze
Ambiente e Benessere Rios voadores è un progetto che mira a spiegare il fenomeno dei cosiddetti fiumi volanti, in particolar modo quelli dell’Amazzonia: in mostra all’Aquarium-Vivarium Aquatis di Losanna fino al 28 giugno 2020
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 13 gennaio 2020
Azione 03 Politica e Economia La crisi fra Usa e Iran segnata dall’assassinio del generale Suleimani da parte di Trump
Cultura e Spettacoli Una grande mostra celebra la figura e le opere dello scultore italiano Antonio Canova
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Fellini, Amarcord Rimini
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Luigi Baldelli
di Luigi Baldelli pagina 15
Tattica rischiosa, strategia incerta di Peter Schiesser La tattica dei colpi di spillo messa in atto da Stati Uniti e Iran in questi mesi ha rischiato di sfuggire al controllo. Come scritto una settimana fa, la mancata reazione statunitense all’abbattimento di un drone americano da parte iraniana, e soprattutto al bombardamento di due raffinerie saudite, aveva dato al regime degli ayatollah un vantaggio psicologico che aveva spiazzato gli stessi alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, ma l’uccisione del generale iraniano Suleimani, di fatto il numero due del potere iraniano (notizia giunta poco prima della chiusura del giornale) ha ribaltato completamente la situazione, mettendo in estrema difficoltà i persiani. Con un presidente erratico come Donald Trump non ha molto senso chiedersi perché abbia deciso una mossa così azzardata come l’eliminazione fisica di una personalità di tale spicco. La tesi secondo cui Suleimani stesse preparando degli attacchi contro interessi americani non va presa troppo sul serio, conoscendo Trump. Altri presidenti americani si sarebbero ben guardati dal compiere un simile assassinio, per timore di destabilizzare (ulteriormente) l’intero Medio
Oriente, The Donald invece ha rischiato, e rischiato grosso, ma la sua spavalderia ha messo a nudo la debolezza dell’avversario: colpito al cuore con l’eliminazione di Kassem Suleimani, il cui influsso politico-militare era tuttora in crescita, il regime degli ayatollah è rimasto paralizzato. La rabbia e le minacce hanno fin qui partorito solo un topolino (il lancio di qualche missile su due basi militari in Iraq, senza vittime), di certo non abbastanza per vendicare la morte del generale. Evidentemente, i governanti di Teheran temono che una risposta troppo forte provochi una reazione ancora più massiccia da parte degli Stati Uniti, almeno fintanto che alla Casa Bianca c’è un pistolero come Trump, che se ne infischia dei tabù e delle abituali logiche geopolitiche. Tuttavia, è altresì probabile che la vendetta vera e propria possa o debba ancora arrivare, per vie traverse, sotto forma forse di attacchi cibernetici o per interposta persona. Ma fin qui la retorica violenta del regime iraniano e dei gruppi armati ad esso legati si mostra per quello che è: solo retorica. Una questione di fondo però rimane: esiste una strategia di questa Casa Bianca riguardo al Medio Oriente, al ruolo che gli Stati Uniti vogliono svolgere nel presente e nel futuro? Uccidere un pezzo grosso di
una nazione nemica non basta, bisognerebbe sapere che cosa intende ottenere l’America nel confronto con l’Iran. E qui i segnali sono confusi. Se da una parte Trump insiste a volersi ritirare dallo scacchiere mediorientale (grazie alle loro riserve energetiche, gli USA non hanno più bisogno del petrolio arabo), lasciando a israeliani e sauditi il compito di difendere gli interessi americani, dall’altra la politica aggressiva verso l’Iran obbliga gli Stati Uniti a rafforzare la presenza militare nella regione. Inoltre, l’assassinio di Suleimani ha cancellato qualsiasi speranza di salvare o rinegoziare l’accordo sul nucleare con Teheran. Anzi, è probabile che il regime persiano riprenda il cammino verso la produzione di armi atomiche, ciò che a un certo punto causerebbe una reazione militare da parte americana o israeliana. Non ci sarà guerra fra Stati Uniti e Iran nell’immediato, non nel senso di un’invasione americana come quella dell’Iraq 17 anni fa. Ma i contraccolpi dell’uccisione di Suleimani si faranno sentire a medio termine in tutta la regione, in modi oggi non prevedibili. Può darsi che si destabilizzi ulteriormente l’Iraq, che gli Hizbollah libanesi si sfoghino contro Israele, ma anche che qualcosa cambi all’interno dell’Iran, oggi certamente meno spavaldo in un tempo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Società e Territorio Incontri Luisella Demartini-Foglia ha vissuto i principali cambiamenti delle condizioni di detenzione in Ticino impegnandosi a favore del reinserimento sociale e professionale
Anteprima cinema: DOLITTLE I nostri lettori hanno la possibilità di partecipare al concorso che mette in palio biglietti gratuiti per la prima del film con Robert Downey Jr. pagina 7
Anziani e sessualità Pro Senectute auspica una società più sensibilizzata, che riconosca agli anziani, anche quelli bisognosi di assistenza, il diritto di vivere la propria affettività e sessualità pagina 9
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Sindache per passione
Ticino Sono 13 su 115 le donne a capo di un
Esecutivo comunale. Per loro è più difficile affermarsi ma non impossibile: «grazie alla motivazione e alle soddisfazioni si riesce a pianificare il quotidiano»
Romina Borla Le sindache in Ticino sono mosche bianche. «Per la precisione 13 su un totale di 115», ci fa sapere la Sezione degli enti locali del Cantone. Tredici donne che preferiscono farsi definire sindaco perché – spiegano quelle che abbiamo sentito – «sindaca suona male». Hanno orientamenti politici diversi (4 del PLR, 4 del PPD, 4 rappresentanti di liste civiche e una leghista) e non sono tendenzialmente favorevoli alle quote rosa anche se auspicano una maggiore presenza femminile in politica. «Differenti punti di vista – sostengono – arricchiscono il dibattito». La maggioranza detiene la carica dalle ultime elezioni e rappresenta la prima «sindaco donna» del proprio Comune. A 50 anni dalla concessione del diritto di voto femminile in materia cantonale, e a pochi mesi dal rinnovo dei poteri comunali, ne abbiamo interpellato alcune. Partiamo dalla sindaca in carica da più tempo: Sabrina Romelli, già consigliere e municipale di Montagnola, dal 2004 alla guida dell’Esecutivo di Collina d’Oro. Cinquantacinque anni, figlia d’arte (il padre Flavio è stato sindaco di Montagnola dal 1964 al 1988), ha già fatto sapere di non voler sollecitare il suo quinto mandato e afferma: «Le donne in politica come in tutti gli ambiti tradizionalmente maschili sono confrontate con una certa diffidenza, specialmente all’inizio della carriera. Devono insomma provare più degli uomini quanto valgono». «Ma poi con i buoni risultati riescono a conquistare la fiducia e l’onda rosa di questi ultimi anni ne è una dimostrazione», osserva dal canto suo la sindaca di Sant’Antonino Simona Zinniker, eletta tacitamente nel 2015 dopo 15 anni di impegno come vicesindaca. Resta il fatto che viviamo in una società dove sono ancora le donne – che ormai lavorano anche fuori casa – a farsi carico di gran parte delle faccende domestiche e dell’accudimento dei figli. Per questo «tutti gli ambiti che richiedono una notevole quantità di tempo diventano particolarmente ostici per noi». Ammette
la politica: è pur vero che le cose stanno cambiando, anche se a piccoli passi. Così sempre più donne riescono a conciliare vita famigliare, carriera e politica. Basta organizzarsi bene. Magari sacrificando il tempo per sé. «Può succedere che alcuni periodi dell’anno o situazioni particolari richiedano maggiori sforzi ed energie – continua l’intervistata – ma nell’insieme, grazie alla motivazione e alle soddisfazioni, si riesce a pianificare il quotidiano piacevolmente». Puntando alle volte decisamente in alto. Nel mondo del lavoro e anche nell’arena politica. Le ultime votazioni federali hanno per esempio confermato l’avanzata delle donne. Al Consiglio degli Stati si è passati da 7 a 13 senatrici, mentre in Consiglio nazionale oggi si contano 82 deputate (prima erano solo 66). «Ormai è normale vedere donne che occupano posizioni di rilievo a livello nazionale ed internazionale», sottolinea Claudia Boschetti-Straub, prima sindaca del Comune di Blenio e della storia della Lega dei Ticinesi (dal 2016). Merkel in Germania, Lagarde prima al FMI poi alla BCE, Von der Leyen a Strasburgo, ecc. «Loro hanno dato un’immagine diversa della donna al potere. Certo, nel nostro piccolo Ticino qualche tabù rimane. Ad esempio se si presenta una donna sindaco, specie in valle, qualche smorfia di sorpresa la si nota ancora… Ma è solo l’impatto. Quando si comincia a parlare di cose serie i problemi scompaiono». La politica comunale – spiega la nostra interlocutrice – è legata al territorio, alla concretezza, ai progetti, agli aspetti pratici. «Ambiti in cui le donne sono fortissime». Come fortissime sono, secondo Boschetti-Straub, nei sentimenti. «Noi lavoriamo con passione e la passione porta a grandi risultati». La passione per la politica non manca ad Anna Celio-Cattaneo, eletta sindaca di Monteceneri nelle ultime elezioni comunali. «In casa mia era pane quotidiano», racconta. «Si faceva un gran discutere e c’era un viavai di personaggi pubblici anche ad alti livelli (l’ex consigliere federale Nello Celio, ad esempio,
Le sindache in carica esortano le donne a «buttarsi con coraggio» e candidarsi per le elezioni del prossimo 5 aprile. (Ti-Press)
era il cugino di suo nonno, ndr.)». Il fatto di essere donna non era un problema, continua. «Non si faceva nessuna differenza. Tutti erano chiamati ad impegnarsi per il bene collettivo. Crescendo mi sono comunque resa conto che per le donne è più difficile affermarsi in determinati campi. Spesso ci si ritrova a dover scegliere tra carriera, famiglia e politica. Tante di quelle che arrivano ad alti livelli non hanno figli. È difficile insomma far quadrare il cerchio ma non impossibile. È una questione di scelta. Bisogna decidere di scendere in campo e poi impegnarsi a fondo, anche se c’è chi ti mette i bastoni tra le ruote». Troppo poche, secondo Celio-Cattaneo, sono disposte a farlo. «Ed è un peccato. La politica non è solo confronto duro. È un’esperienza che insegna moltissimo e permette di conoscere un’infinità di situazioni e persone
interessanti». «È necessario che più donne osino e si mettano a disposizione», esorta Sabrina Romelli che riprende la parola. «Buttatevi con coraggio! Siamo capaci e competenti, dobbiamo solo farci avanti. Non possiamo dare la colpa a chi non ci vota oppure puntare sull’introduzione di correttivi che sminuirebbero ulteriormente il ruolo femminile». La sindaca di Collina d’Oro si riferisce alle quote rosa che, tra l’altro, non piacciono a nessuna delle nostre interlocutrici. «Non mi sento di sostenere delle crociate femminili in politica», dichiara ad esempio Alessia Ponti, alla testa dell’Esecutivo di Castel San Pietro dal 2014 (allora aveva 32 anni ed era il sindaco più giovane del cantone). «È il merito che bisogna promuovere indipendentemente dal sesso», precisa. «Certo, una maggiore presenza femminile in politica
è auspicabile: le donne hanno una sensibilità diversa su alcuni temi. Infatti per natura e per esperienza sono giocoforza confrontate con problematiche differenti rispetto agli uomini. Quindi il loro punto di vista arricchisce il dibattito politico e può aiutare a migliorare la vita dei cittadini». Le altre sindache ticinesi in carica sono: Claudia Canova (Morbio Inferiore), Brigitte Cella (Astano), Margherita Manzini (Croglio), Antonella MeuliPagnamenta (Sorengo), Fabrizia Milesi (Brione sopra Minusio), Daniela Moretti (Linescio), Simona Soldini (Muzzano), Nicole Volontè-Pagani (Cureglia). Chissà se concorreranno alle elezioni del prossimo 5 aprile? Lo sapremo l’11 febbraio, quando verranno pubblicate ufficialmente le liste coi nomi di chi scenderà in lizza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Costruire una nuova chance
Intervista Luisella Demartini-Foglia ha concluso una carriera ma non l’impegno dedicati al reinserimento sociale
e professionale delle persone detenute
aperta (Lo Stampino). Ciò che ancora manca in Ticino è un carcere femminile. Per le donne al momento esiste solo la detenzione preventiva alla quale, se del caso, segue un trasferimento oltre Gottardo. Gli operatori sociali seguono pure persone detenute in altre regioni della Svizzera, ma di competenza del nostro Cantone. Oltre alle trasferte, il lavoro viene svolto grazie a una rete di collaborazione a livello di servizi di probazione, questo anche sul piano internazionale per i detenuti che poi tornano nel loro Paese. Oggi, grazie alla facilità di comunicazione, riceviamo anche feed-back positivi da parte di qualche ex-detenuto.
Stefania Hubmann Tra i formali articoli del Codice penale (CP) dedicati alle misure socio-educative a favore dei detenuti e il racconto dell’esperienza professionale ed umana di Luisella Demartini-Foglia, responsabile fino allo scorso novembre dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa, vi è tutto un mondo, uno spaccato di vita ricco di sfide e progressi per migliorare la convivenza nella nostra società. Un’esperienza quarantennale sul campo ha permesso alla giovane diplomata – in Servizio sociale a Milano e Storia economica e sociale all’Università di Ginevra – di confrontarsi con un ambiente, quello delle persone private della libertà ma destinate un giorno a reinserirsi nella società, che fa da ponte fra queste due realtà. Ha vissuto in prima persona, promuovendoli con convinzione, i cambiamenti che hanno portato a migliorare le condizioni delle persone detenute in particolare dal punto di vista delle relazioni familiari e della formazione, due pilastri del percorso che compiono in carcere per prepararsi a riprendere in mano la loro vita libera. Ha lottato non solo per raggiungere questi obiettivi, ma anche come donna, catapultata in un mondo all’epoca ancora tutto maschile. La nostra conversazione, avvenuta mentre era ancora in atto la transizione con il nuovo responsabile Siva Steiner che per vent’anni ha lavorato al suo fianco, parte proprio da questa difficoltà iniziale, poi trasformatasi per certi versi anche in un atout. Come è avvenuto, signora Demartini-Foglia, il suo contatto con la realtà carceraria ticinese?
Nel 1980 ho partecipato al concorso per operatore sociale in carcere senza grandi aspettative, anche perché la mia formazione svolta in Italia era all’epoca concettualmente innovativa per il Ticino, quindi anche sospetta. Per di più ero donna e sposata. Forse proprio perché non avevo nulla da perdere, il mio colloquio con il direttore dell’allora Penitenziario della Stampa, Annibale Rabaglio, andò bene e fui assunta. Mi ritrovai così ad essere l’unica donna a lavorare in carcere, esclusa la presenza delle suore che gestivano la sezione femminile. Superate le difficoltà iniziali con il personale maschile, legate al diverso modo di porsi ed esprimersi, questa stessa specificità femminile nel relazionarsi con gli altri divenne un atout nei rapporti con i detenuti più reattivi o meno inclini a stabilire una relazione di fiducia. Non dobbiamo dimenticare che quarant’anni fa il carcere costituiva un mondo molto chiuso con poche possibilità di contatto con l’esterno. Una condizione che lei ha contribuito in prima persona a migliorare. Quali sono state le tappe principali di questa evoluzione?
Quando nel 1982 la Congregazione delle suore di San Giuseppe Benedetto Cottolengo lasciò l’incarico mi fu chie-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Il suo impegno a favore del reinserimento sociale è andato ben oltre l’attività professionale.
Luisella Demartini-Foglia è stata, fino allo scorso novembre, responsabile dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa.
sto di formare il personale femminile. Seguì il relativo avvio della sezione donne con le prime otto agentesse di custodia. Nel frattempo ero passata al nuovo Servizio di patronato esterno al carcere, poi divenuto Ufficio dell’assistenza riabilitativa. Una definizione, quest’ultima, che ritengo poco felice e che in futuro spero possa assomigliare maggiormente alle versioni francese e tedesca che utilizzano il termine probazione. Ho quindi partecipato alla nascita della scuola interna di formazione dei nuovi agenti di custodia, divenuta in seguito una scuola a tutti gli effetti. La formazione è un punto essenziale anche per le persone detenute e pure in questo ambito sono stati compiuti numerosi progressi. Introdurre i cambiamenti non è mai stato facile e come donna ho dovuto lottare per farmi ascoltare e per fare accettare le mie proposte che sul lungo termine si sono però rivelate scelte vincenti. Un’altra tappa fondamentale della nostra attività è stata, all’inizio degli anni Novanta, la fusione del Servizio sociale interno al carcere con il Servizio di patronato, ciò che ha permesso di promuovere il concetto di assistenza continua. Cosa significa questo concetto nell’attività concreta con i detenuti?
Il compito del nostro Ufficio è di seguire le persone arrestate dalla detenzione Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
preventiva fino alla scarcerazione e alla fine del periodo di prova, compresi il processo e il regime aperto. L’operatore sociale ha quindi modo di stabilire una relazione professionale lunga e profonda che attraversa le fasi citate con i relativi stati d’animo di ogni singolo. Durante la detenzione si costruisce un progetto per favorire il reinserimento sociale e di conseguenza ridurre il rischio di recidiva. L’esecuzione della pena, come si legge nell’articolo 75 CP “deve promuovere il comportamento sociale del detenuto, in particolare la sua capacità a vivere esente da pena”. Il carcere è quindi un luogo di formazione sociale e professionale che prepara alla vita in libertà. Sempre l’art. 75 prevede l’allestimento di un piano di esecuzione della sanzione che tocca tutti questi aspetti e stabilisce gli obiettivi. Il nostro lavoro è poco visibile al pubblico se non purtroppo in occasione di eventi drammatici. L’analisi dei casi delle tre giovani donne uccise negli anni scorsi nella Svizzera tedesca e francese ha tra l’altro evidenziato il rischio insito nei passaggi con la perdita di informazioni sugli autori. Anche per questo il concetto di assistenza continua è funzionale per la riduzione del rischio. Nell’art. 75 è citata anche la necessità di ovviare alle conseguenze Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Sono sempre stata pragmatica e ho quindi agito per trovare soluzioni concrete ai bisogni reali e ai compiti affidati al nostro Ufficio. Ufficio che dal 2011 assicura anche il sostegno e la consulenza in materia di violenza domestica su richiesta di autori e autrici di tali atti. Ho quindi predisposto nella nostra sede due camere per accogliere chi subisce un provvedimento di allontanamento immediato dal domicilio coniugale. Ho poi contribuito a realizzare progetti esterni come la società cooperativa Area e l’associazione L’Orto, per offrire la possibilità di lavorare a chi fatica a reintegrarsi dal punto di vista professionale. Credo in una società fatta di solidarietà e coesione e mi sono quindi impegnata su due fronti, quello di chi ha oltrepassato i limiti e quello di chi offre una nuova chance. Un impegno che non terminerà con la sua attività professionale, vero?
nocive della privazione della libertà. Cosa è cambiato al riguardo negli ultimi decenni?
Sono stata attiva in diversi organismi nazionali riguardanti la probazione e resterò presidente della Commissione federale di esperti per la statistica penale. Con i miei pari romandi ho promosso il progetto Obiettivo desistenza, avviato quest’anno e sostenuto dall’Ufficio federale di giustizia al fine di valorizzare la capacità della persona di fondarsi sul proprio potenziale e sulle istanze che rappresentano la società civile per un’uscita durevole da reti e comportamenti criminogeni. Ci rivolgeremo quindi ad associazioni sportive, di svago o di volontariato per favorire l’accompagnamento nella forma di tutor agli “integrandi”, perché l’inserimento è una questione che ci riguarda tutti come cittadini. Un altro tema al quale desidero dedicarmi è la giustizia riparativa, vale a dire il confronto, diretto o indiretto, fra autore del reato e vittima. Mediare questa frattura è necessario per entrambe le parti. In particolare, rendersi conto e ammettere le effettive e gravi conseguenze provocate dal proprio gesto sulla vittima, oltre che sanatorio per chi l’ha subito, può avere un effetto positivo sul rischio di recidiva. Nei Paesi confinanti la mediazione penale esiste già, mentre in Svizzera si è in fase di progetti sperimentali. È un ritardo che dobbiamo colmare.
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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Il carcere chiuso porta ad essere sempre gomito a gomito con altre persone, riduce la mobilità e la percezione dello spazio diventa unicamente verticale, i contatti con l’esterno sono minimi e il tempo si dilunga. Per questo è essenziale cercare di normalizzare la vita quotidiana mantenendo dei ritmi, che per alcuni però non sono magari nemmeno quelli che avevano prima della privazione della libertà. Favorire l’adattamento è uno dei compiti degli operatori sociali. Lavorano con il singolo, ma a beneficio di tutta la comunità carceraria. Per quanto riguarda i contatti con l’esterno, sono oggi una realtà le sette ore di visita al mese, la casetta La Silva (dove i detenuti possono beneficiare di congedi interni per incontri familiari o di coppia prolungati) e il progetto Pollicino che sostiene la genitorialità delle persone detenute nella relazione con i propri figli. Tre volte all’anno organizziamo una giornata d’incontro comune che accoglie in carcere un massimo di tre invitati adulti, oltre i bambini, per detenuto. Le strutture carcerarie cantonali comprendono circa 140 posti nel carcere penale La Stampa, 80 nel carcere giudiziario La Farera (detenzione preventiva) e 40 nella sezione
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Società e Territorio
Quel dottore parla con gli animali
Anteprima e concorso Nei cinema ticinesi la divertente storia
di DOLITTLE, un veterinario molto speciale. In palio biglietti per l’anteprima del 26 gennaio rasse uno dei copioni usati dal regista, mentre un pappagallo dopo aver sentito centinaia di volte gridare «Stooop!» avesse imparato a sua volta a urlarlo, con grande confusione della troupe. La pellicola, superando numerose traversie, riuscì comunque ad aggiudicarsi un paio di Oscar e a godere di un discreto successo. Nella nuova versione proposta da Stephen Gaghan (regista e sceneggiatore Premio Oscar che ha diretto Syriana e sceneggiato Traffic) la fantastica storia del veterinario ingle-
Dolittle al cinema dal 30 gennaio La Universal Pictures International Switzerland e Migros Ticino invitano i lettori di «Azione» a partecipare al concorso dedicato a DOLITTLE, film per famiglie (adatto per bambini dai 6 ai 12 anni) con Robert Downey jr., diretto dal premio Oscar Stephen Gaghan. In palio venti coppie di biglietti gratuiti per partecipare all’anteprima ticinese, con colazione compresa, domenica 26 gennaio al Cinestar di Lugano.
Programma:
■ ore 10.30 colazione e attività truccabimbi; ■ ore 11.00 proiezione. Il film sarà in programmazione nei cinema ticinesi dal 30 gennaio. Biglietti a pagamento per l’anteprima e altre informazioni su: www.arena. ch/lugano Per partecipare all’estrazione dei biglietti seguire le istruzioni contenute nella pagina internet www.azione.ch/ concorsi.
se che parlava con gli animali si arricchisce di un cast di tutto rispetto, con attori famosi quali Robert Downey Jr., Jessie Buckley, Antonio Banderas, Michael Sheen e Jim Broadbent. Oltre a questi protagonisti in carne ed ossa, altri interpreti di grande bravura offrono la loro voce (nella versione inglese) ai numerosi animali che fanno parte della storia. Tra questi in particolare un gorilla ansioso (doppiato dal premio Oscar Rami Malek), un’anatra entusiasta ma svampita (l’attrice premio Oscar Octavia Spencer), una coppia litigiosa formata da uno struzzo cinico (Kumail Nanjiani) e un allegro orso polare (John Cena). Una menzione particolare merita poi Emma Thompson, che dà la sua voce al testardo pappagallo aiutante di Dolittle. La storia di questa nuova avventura del veterinario Dolittle ci propone il suo viaggio in un’isola leggendaria alla ricerca di una terapia per curare la Regina Vittoria, che si è ammalata. Nel corso della sua fatica, in cui sarà accompagnato dal suo assistente e da vari amici animali, il medico incontrerà pericolosi avversari ma stringerà nuove amicizie con altri quadrupedi straordinari, che lo aiuteranno nel suo compito.
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Tra i corsi e ricorsi della storia del cinema può succedere di tutto: anche che un film del 1967 (basato su una serie di romanzi per bambini scritti all’inizio del 900) torni sugli schermi in una nuova versione. È piuttosto improbabile che qualcuno si ricordi di quel lontano Doctor Dolittle. Negli annali critici è ricordato più che altro per la grande serie di contrattempi che i numerosissimi animali presenti sul set provocarono alla produzione. Si racconta ad esempio che una capra famelica divo-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Società e Territorio
Anziani e sessualità
Pro Senectute La terza età non è più un periodo di decadenza, come in passato, ma una fase di vita
che può riservare sorprese ed emozioni forti come quelle vissute in gioventù Sara Rossi Guidicelli L’amore non ha età. E neanche il sesso, diciamolo. Con l’invecchiare della popolazione, si è scoperto che un’unica vecchiaia non esiste: non si sa dire quando comincia, non si possono prevederne sviluppi uguali per tutti, anzi, per certe persone è lì che inizia la vita. Negli ultimi anni sono arrivati al grande pubblico film e libri che raccontano di ultrasettantenni liberi, colti dall’amore, che si toccano e si scoprono sensibili come da giovani.
Ovviamente la realtà è sempre molto più complicata che al cinema. Ma non per questo la sessualità degli anziani deve rimanere tabù. «Ci sono persone che iniziano relazioni “clandestine” a settant’anni perché non osano dirlo ai propri figli e nemmeno mostrarlo ai loro vicini di casa», racconta Miriam Benin, psicologa, psicoterapeuta, neuropsicologa che lavora per Pro Senectute Ticino e Moesano. «Hanno paura di essere giudicati». Ma perché? Perché
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«Parlare di sessualità significa parlare di emozioni, di sensazioni, di fantasie, di ruoli, di progettualità, di pensieri… qualcosa che ci accompagna dalla nascita alla morte»
per molti, la sessualità appartiene soltanto ai giovani. Perché si pensa che ogni età si possa rinchiudere in una casella prestabilita (dagli altri) e che così ci sarà più ordine nel mondo. Salute, bellezza e amore: un trio esclusivo. E invece no, i fatti dicono altro. La sessualità è spesso condizionata da ciò che la gente pensa, così come
100 anni al servizio degli anziani Nel 1920, quando in Ticino nasce Pro Senectute, la povertà era diffusa soprattutto tra gli anziani (l’Avs non esisteva ancora!). L’allora associazione aveva lo scopo di aiutare le persone anziane bisognose e lo faceva raccogliendo soldi tramite una colletta. Dal 1929 la Confederazione iniziava a sostenere la Fondazione con sussidi, diventati però più consistenti soltanto a partire dagli anni SessantaSettanta. Nel 1988, con l’annessione dei circoli di Calanca, Mesocco e Roveredo (prima in Pro Senectute Grigioni), nasce Pro Senectute Ticino e Moesano, che nel 1994 cambia
statuto diventando una Fondazione. Gli anni che seguono sono contraddistinti da un rapido sviluppo di attività e servizi pensati per rispondere ai bisogni crescenti della popolazione anziana. Pro Senectute è oggi la maggiore organizzazione di prestazioni e servizi attiva a favore delle persone anziane in Svizzera. Nel 2020 Pro Senectute Ticino e Moesano offre un vasto ventaglio di proposte per una vecchiaia attiva e dignitosa nonché numerose prestazioni di supporto al mantenimento a domicilio. www.prosenectute.org
ne sono condizionate le definizioni di uomo e donna. Le persone anziane tendono a non essere più viste come esseri sessuati e i loro bisogni si smorzano talvolta più per motivi psicologici e sociali che non biologici. «Il desiderio dell’altro – prosegue la dottoressa Benin – non è correlato per forza alla sua fisicità e al suo corpo, ma piuttosto alla propria capacità di immaginare, provare emozioni e sensazioni che spesso sono legati a vissuti soggettivi e personali. Lo sguardo della persona anziana, se messo nella giusta condizione, riesce a non fissarsi sul particolare ma ad allargarsi ad una visione armonica dell’altro tanto da essere libero dall’influenza di modelli. Il corpo poi muta piano piano, nel corso degli anni; le persone hanno il tempo di integrare i propri cambiamenti e non hanno lo stesso punto di vista dei giovani, che a volte pensano di essere gli unici ad avere una vita sessuale attiva. Talvolta ancora permane quel mito del “vecchio saggio libero da ogni pulsione sessuale”, che sottintende che questa è la normalità e il resto aberrazione... Per fortuna ora cominciano a uscire film che raccontano anche di altri amori, meno “vendibili”, perché non rispecchiano i canoni odierni di
performance, bellezza, giovinezza, perfezione. L’età media di vita si è allungata significativamente: sono in aumento i divorzi tra persone anziane e anche i nuovi amori; in casa anziani ne nascono molti più di quanto si possa immaginare...». Uno stimolo dunque a riattualizzare i nostri modelli di giudizio, secondo la psicologa, che auspica una società più sensibilizzata, che permetta agli anziani, anche a quelli poco autonomi e bisognosi di assistenza, di continuare a essere persone, e quindi come tali ad avere diritto di vivere la propria affettività e sessualità senza limitazioni: «è molto importante per una soddisfacente qualità della vita sul piano fisico, psicologico e relazionale». Anche nelle istituzioni, come le case per anziani, Pro Senectute ritiene non ci sia ancora sufficiente considerazione per poter esprimere liberamente i propri bisogni né per viverli in continuità con la propria vita precedente. «Nel confronto con studenti e professionisti dell’ambito socio-sanitario, che incontriamo nelle formazioni, sono emersi disagi nell’affrontare situazioni legate al tema dell’affettività e della sessualità delle persone anziane»,
prosegue Miriam Benin. Nel 2015 Pro Senectute ha dunque avviato un’indagine per avere una fotografia dei vissuti e delle opinioni sul tema della sessualità e dell’affettività delle persone anziane. Nella ricerca sono stati coinvolti sia operatori socio-sanitari di Case Anziani, Centri Diurni e Servizi di Assistenza e Cura a Domicilio, sia persone anziane (pensionati che svolgono attività di volontariato o beneficiano di servizi da parte di Pro Senectute). I dati emersi si allineano alle proiezioni demografiche dell’Ufficio Federale di Statistica e alle ricerche mediche, psicologiche e sociologiche che mostrano l’emergenza di una popolazione anziana sempre più vasta, che sarà in futuro anche sempre più attiva sessualmente. La popolazione dei curanti ritiene che la sfera affettiva e sessuale delle persone anziane sia molto importante e che non viene sufficientemente considerata nella relazione di cura. Da allora è stata dunque ampliata la proposta formativa di Pro Senectute, offrendo ai professionisti percorsi di sensibilizzazione e formazione sul tema. «Lo scopo è promuovere un’integrazione della dimensione affettiva e sessuale nella presa a carico delle persone anziane». È inoltre stata estesa l’attività di consulenza ordinaria anche al tema della sessualità e dell’affettività e la permanenza telefonica per accogliere situazioni di disagio da parte di famigliari e operatori a confronto con la tematica. «Questo tema ci sta molto a cuore, perché è fortemente correlato alla qualità di vita delle persone e al tema dell’autodeterminazione degli anziani. L’affettività e la sessualità sono un aspetto importante della nostra identità; non considerarlo sarebbe come trascurare e far finta di non vedere una parte dell’individuo... una grossa parte dell’individuo, poiché la sessualità non è solo “rapporto genitale”, bensì qualcosa di più vasto attraverso cui facciamo esperienza di noi stessi e del mondo. Parlare di sessualità significa parlare di emozioni, di sensazioni, di fantasie, di ruoli, di progettualità, di pensieri. Sebbene tutto ciò vada incontro a modificazioni nel corso della vita intera, declinandosi in modi differenti, è comunque qualcosa che ci accompagna dalla nascita alla morte e vedere e valorizzare questa vitalità in una persona anziana significa permetterle di continuare a esprimersi e di sentirsi riconosciuta nella sua interezza di persona unica e irripetibile».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Raffaella Romagnolo, Respira con me, Pelledoca. Da 13 anni È un viaggio di formazione, quello che racconta questo romanzo, il primo per ragazzi della scrittrice Raffaella Romagnolo, uscito dall’editore milanese Pelledoca, specializzato in thriller e storie «da brividi». Qui però non c’è mistero, la tensione è tutta interiore, la dimensione «dark» è quella della natura selvaggia, che può essere benefica ma anche angosciante, soprattutto quando è fatta di selve oscure da attra-
versare. Boschi letterali – il giovane Amedeo Ghisleri deve attraversarli, da solo, di notte, se vuole salvare la vita al padre, caduto in montagna, sotto una frana – ma anche metaforici, perché Amedeo, adolescente in crisi, quei boschi deve attraversarli per ritrovare se stesso. Amedeo è un ragazzo pieno di rabbia, refrattario al mondo dietro il ciuffo che gli copre gli occhi, non va neanche più a scuola. Quando suo padre viene a saperlo, decide drasticamente di imporgli una gita in montagna molto impegnativa, un po’ come programma «d’urto», rieducativo, e un po’ per provare a stare insieme, loro due, in una dimensione offline e immersa nella natura. Dunque, scalata a Punta Liberté, 3453 metri di altezza. La camminata sarà rieducativa, certo, ma in un modo più drammatico rispetto a quello immaginato dall’ingegner Ghisleri. Il problema di fondo è che Amedeo ha un lutto da elaborare: quello di sua madre, morta tempo prima in un tragico incidente automobilistico. E i sentieri impervi che
sarà costretto a percorrere, prima con il padre, faticando alla conquista della vetta, poi in solitudine, attingendo alle proprie risorse interiori per non cedere alla stanchezza e alla paura, gli faranno compiere un viaggio altrettanto importante all’interno di sé. Così Amedeo ne salverà due, di vite: quella del padre, e anche la sua, perché «quella notte, nel bosco, la vita mi ha preso per mano». Il romanzo è costruito giocando sull’asse temporale: il tempo qui e ora dell’avventura in montagna e il tempo del ricordo della madre, presente nei continui, intensi, flash-back. Camminando in montagna si sta in silenzio, ma quel silenzio per Amedeo è abitato dal rumore dei pensieri e dei ricordi. E allora, passo dopo passo, il lutto viene elaborato, e la paura (quella di affrontare la natura minacciosa ma anche quella di affrontare la vita) viene sconfitta. Perché «la paura è tipo un ponte: lo devi attraversare se vuoi arrivare da qualche parte» ed è anche «tipo un vestito: devi starci dentro». E poi si può tornare a vedere la bellezza.
Valentina Gazzoni, Il cuore smemorato, EDT Giralangolo. Da 5 anni Cominciamo a leggere questo libro dai risguardi: delle grandi forbici nere tagliano a pezzetti un cuore rosso. Niente paura, perché «la scomposizione di un cuore non è un cuore infranto ma l’inizio di nuove avventure». Al di là del confortante significato metaforico – che arriverà forse più agli adulti – ciò che in questo libro è rilevante è proprio la dimensione letterale, visiva e materica, del «cuore a pezzi»: da un cuoricino rosso scomposto possono
infatti gioiosamente nascere innumerevoli altre figure. In effetti l’icona del cuore è inflazionata, in ogni tipo di comunicazione, e anche i bambini tendono a subirne lo stereotipo. Molto interessante, allora, questo progetto della giovane artista Valentina Gazzoni, che a partire dalla scomposizione della figura «cuore», crea altre figure (una barca, una tartaruga, una farfalla, un quadrifoglio...) e altre storie. Storie possibili, libere, nuove. I testi sono brevi e lasciano spazio alla creatività dei bambini, per i quali sono pensate le due pagine finali in cartoncino, su cui si trovano, pre-tagliati, dei cuori a pezzetti, pronti a rinascere in altre forme e in altre storie. Anche il linguaggio si mantiene su una dimensione giocosa, esplorando pure le fertili possibilità del nonsense e dell’onomatopea. Un’idea semplice – la cui semplicità è ribadita dalla bianca ariosità delle pagine, abitate da soli due colori, il rosso del cuore e il nero dei minimi segni aggiuntivi e delle parole – ma che potrà avere molti sviluppi creativi a scuola o in famiglia.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Arca di Noè Il primo giorno del Nuovo Decennio ha visto il vostro altropologo di fiducia impegnato in un giro di telefonate benauguranti, quest’anno di proposito mirate a persone care che non sentiva da tempo perché nella vita ahimè ci sono meno giornate che affetti e buona volontà. Fra queste una Signora ultraottantenne che vive sola in uno dei paesi più alti del bellunese, ultima e più in quota di altrettanto ultimissimi abitanti appesi in corda doppia alle pendici della Marmolada. Tutto bene tutto a posto e che bello sentirti dopo tanto tempo. Solo che… non fosse che. Insomma, raccontava accorata l’amica, il suo pollaio, da sempre obiettivo della Volpe, poco prima di Natale ha avuto la visitazione (uso questo termine ecclesiastico perché la vicenda ha avuto infatti un certo carattere ehm… liturgico) di quel nuovo protagonista di quella che da queste parti è ormai nota come «la guerra dei pollai» che è lo Sciacallo Dorato.
Il Canis Aureus – noto anche come Sciacallo Europeo – è l’ultimo arrivato di una serie di specie aliene che per mare, per terra, per aria (e per la miseria! – come glossava l’altra sera un amico al Bar degli Alpini) stanno colonizzando la penisola a Sud delle Alpi. Più piccolo di un lupo e più grande di una volpe, l’animale dalla magnifica livrea sta risalendo la penisola balcanica dalle montagne di Burgas, sopra il Mar Nero in Bulgaria e nella Penisola di Zadar, in Croazia. Da qui si sono probabilmente mossi gli individui che, a partire dalla fine del secolo scorso, hanno cominciato a spingersi verso Nord e verso Ovest. Nel 1994 un gruppo con cuccioli fu segnalato in provincia di Belluno. Superato dunque il confine con l’ex-Jugoslavia, quei grandi camminatori che sono gli sciacalli sono stati segnalati nelle valli di Mirandola, in provincia di Modena, segno che il loro areale di espansione verso Sud si sta espanden-
do. È stato detto che l’ingresso in Italia dello Sciacallo Dorato sia uno degli effetti collaterali dell’espansione del lupo, che dalle parti dell’Altropologo sta diventando un problema. La catena delle cause è quella ormai nota ma che val la pena ricordare nella sua spietata consequenzialità: fattori di origine antropica che vanno dal riscaldamento globale con la conseguente crescita delle temperature e gli inverni meno rigidi che limitano la selezione naturale hanno fatto aumentare a dismisura la popolazione degli ungulati minuti (caprioli in primis). La sopravvivenza di individui deboli ed anziani facilita il lavoro di caccia del lupo, mentre la drastica diminuzione del numero dei cacciatori viene ad aggiungersi al numero dei fattori che rendono disponibile il cibo per chi, come lo Sciacallo Dorato, si nutre in maniera parassitica degli avanzi dei pasti del suo parente maggiore. Non così lo Sciacallo che ha deva-
stato il pollaio della mia amica Lina. Se la volpe – o così lamentava lei – si limitava a sgozzare la gallina che le serviva per pasto, questo ha fatto un massacro di tutto quello che poteva ammazzare – dimostrando così (morale della storia) primo: di avere poco rispetto per chi alleva le galline (e che per consolidato patto è sempre stato pronto – o forse rassegnato – a pagare il tributo purché il prelievo si mantenesse entro termini civili) e, in secondo luogo, di essere un animale poco intelligente perché così facendo estingue una volta per tutte una fonte di cibo rinnovabile. Così l’amica Lina, che però non sapeva che lei – ultima arrivata di una lunga storia – forniva un ritratto del Nostro da secoli immemorabili consacrato dalla narrativa folclorica di tutto il mondo. Lo Sciacallo è noto nella letteratura antropologica che studia i rapporti fra Uomo ed Animale, come il Trickster, termine di difficile traduzione
che sta da qualche parte fra burlone, buffone, gabbamondo, ingannatore e stupidotto. Personaggio mobile, duttile e contraddittorio il Trickster del folclore è una sorta di Bertoldo a quattro zampe: sciocco eppure astutissimo, insolente quanto servile, scaltro tanto quanto goffo e credulone. Comunque imprevedibile. Il personaggio di Willy Coyote, ovvero Vil Coyote, in qualche modo riprende ed elabora su temi che hanno occupato l’umanità intenta a cogliere nel comportamento animale caratteristiche morali specifiche ed esclusive per ciascuna specie. Osservate «in purezza» ed inserite in sequenze narrative delle quali è ricca ciascuna tradizione culturale, tali attributi sono buoni per pensare a quel coacervo peraltro inestricabile e contraddittorio che è il comportamento umano. Dai parenti serpenti ai cinici sciacalli fino a Re Leoni, l’Arca di Noè è una vetrina di (s)virtù.
sono diventati di fatto due e che lei si è sentita chiusa fuori dalla porta, esclusa da una relazione che non riesce a comprendere e accettare. Ed eccoci giunti al quesito iniziale. Premesso che in questi casi non ci sono risposte ma soltanto ipotesi, suppongo che la strega brutta e cattiva sia stata scelta come partner proprio per svolgere la difficile missione di interrompere il legame di reciproca dipendenza che avvince lei e Filippo. L’incarico che suo figlio le ha implicitamente assegnato è quello di ministro degli esteri cui spetta stabilire rapporti diplomatici, dichiarare la guerra, chiedere la pace, fissare le frontiere dello stato, concordare patti di convivenza, anche utilizzando la forza. Grazie a questa delega, Filippo evita di attivare emozioni negative, di sottoporre a critica la vostra relazione, di utilizzare l’aggressività nei confronti di una persona che ama. Finché la cattiva rimane l’altra, lui può continuare a essere il figlio perfetto, il ragazzo bravo, buono e bello che tutti conoscono. Risulta, sempre dalla lettera che sto leggendo, che dopo tre giorni in cui
la coppia era ospite nella sua casa di vacanza, l’ingrata ha indotto Filippo a rifare le valigie e andarsene insieme, senza lasciare neppure un recapito. Ma è sicura che questa decisione non sia stata concordata? O almeno tacitamente auspicata anche da suo figlio? In fondo sta avvenendo quello che, in modo più moderato, avrebbe dovuto accadere molto tempo fa. Non è mai troppo tardi per diventare grandi! Ora siete in fase di belligeranza ma è possibile, se lei comprende il processo che sta avvenendo, che sopravvenga una tregua e che troviate il modo di stabilire la giusta distanza: né troppo vicino né troppo lontano, evitando il paradosso dei porcospini che, se stanno troppo vicini si pungono, se stanno troppo lontani hanno freddo.
casa. Cioè un sacerdote in tenuta da lavoro che stava creando una primizia: un centro socio-educativo, sanitario, un luogo d’incontro diverso dalla bettola per soli maschi. Mi spiegava: «Bisogna puntare sui giovani, che devono imparare un mestiere. E sulle donne, che devono capire di non essere soltanto macchine per far figli». In proposito, anni dopo, quando i televisori entrarono anche nelle abitazioni, magari capanne, degli indigeni, padre Angelo ne registrò gli effetti «contraccettivi», auspicabili per contrastare le troppe nascite: «Se si guarda la tv, si ha meno tempo per altro». Un umorismo spontaneo, che attribuiva alle sue radici («Sono laziale per origine e per fede sportiva») e la capacità di rifiutare pregiudizi e moralismi accompagnarono padre Angelo lungo un itinerario inimmaginabile sempre in fieri, fra cui una scuola d’informatica
a Ukunda, dove cristiani e musulmani crescono insieme. Tutto ciò grazie anche al sostegno finanziario e morale ottenuto dai turisti, alleati in un’operazione missionaria di nuovo stile. Dalla semplice donazione doveva poi scaturire un intervento di volontariato che, sotto etichette diverse, ha coinvolto numerosi ticinesi, fra cui citerò quella che fa capo a Gibus Scatizza. Un ponte, costruito sulla simpatia e la solidarietà, unisce Kenya e Ticino. Ma la corrente dell’aiuto non è a senso unico. Può riservare sorprese. A Lugano, cinque anni fa, quando l’incontrai per l’ultima volta, padre Angelo riuscì a impartirci una lezione di ottimismo: «Vedo in giro malumori, pochi sorrisi. Come mai? Eppure i negozi sono pieni di merci: 250 tipi di formaggio. C’è da perdere la testa…». Dietro la battuta ironica, padre Angelo proponeva una materia di riflessione: la sua preziosa eredità.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi La moglie imperfetta del figlio perfetto Cara Silvia, la prego mi aiuti a chiarire una questione familiare che da sola non so capire. Forse lei, che ha più esperienza di me (sono laureata in chimica), mi potrà aiutare. L’altro ieri incontro un’amica che mi affronta in modo inconsueto. Di solito è timida e riservata. «Scusa se te lo dico, comincia, ma mi chiedo perché tuo figlio Filippo, che conosco dalla nascita, si è messo con quella donna. E non me lo chiedo solo io ma tutti i nostri amici». «Quella donna» è mia nuora, che viene così descritta: «è sgarbata, supponente, aggressiva. Fosse almeno bella ma è più vecchia di lui e brutta come il diavolo. Che cosa ci trova Filippo, non lo so». Anche per me è un mistero, tanto più che mio figlio (che ha appena compiuto 50 anni) è un ragazzo straordinario. In seguito alla separazione da mio marito, avvenuta poco dopo la sua nascita, Filippo è vissuto sempre e solo con me. E dal primo momento l’ho messo al centro della mente e del cuore vivendo con lui e per lui. Ricambiata però da risultati eccezionali: successo negli studi
e poi nella professione, ottimi traguardi sportivi, simpatico e popolare, aspetto gradevole per non dire bello… e ora? Che delusione! Ma come è possibile che si formi una coppia così squilibrata? Che cosa li unisce nonostante tutto e tutti? Aspetto con ansia la sua risposta e la ringrazio comunque, qualsiasi cosa mi dirà. / Sandra Cara Sandra, le tue ultime parole mi fanno capire che si è già messa sulla difensiva. Probabilmente conosce le mie preoccupazioni per l’eccesso d’amore materno, molto più adesivo e passionale di quello paterno. La mossa di porre il figlio al posto del coniuge svanito e di dedicargli la vita intera è molto frequente nelle separazioni familiari, ma non per questo giusta. Non pensa che, senza volerlo, lei ha chiesto a Filippo una dedizione totale, impedendogli di essere se stesso, di cercare la sua strada, di costruire la sua identità, di aprirsi a nuove relazioni? La dedizione materna è generosa e sublime ma può diventare una prigione. Filippo ha cercato di essere Come tu mi
vuoi, per usare il titolo di un dramma di Pirandello, ma tanta disponibilità deve essergli costata cara, soprattutto dopo l’infanzia. Di solito, con l’adolescenza, ai ragazzi si pone il compito fisiologico di allontanarsi dai genitori ridimensionando la loro immagine, relativizzandone i meriti, trasgredendo le pur legittime richieste. A questo scopo utilizzano l’aggressività che, moderata dall’affetto, serve a prendere le distanze dall’attaccamento iniziale. Nei casi in cui la relazione familiare non sia però triangolare (padre-madre-figlio) ma duale (madre-figlio) risulta particolarmente difficile per i ragazzi trovare motivi di contrasto che giustifichino la voglia di indipendenza e di autonomia, col rischio di rimanere figli ideali, ma adulti mancati. Spesso l’evoluzione del figlio perfetto si ferma nella posizione filiale senza procedere verso la maturità, senza aprirsi alla genitorialità. Filippo, da quanto lei racconta, era andato a vivere da tempo in un appartamento ricavato dalla divisione del suo. Ma solo recentemente si è messo in coppia ed è da quel momento che gli appartamenti
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Aiutare utilmente: padre Angelo ci è riuscito L’appello ad aiutare, sempre attuale di fronte a inevitabili catastrofi naturali e conflitti, assume toni più insistenti nel periodo delle feste. Quando l’euforia degli acquisti, spesso superflui, mette in evidenza le disuguaglianze fra chi ha troppo e chi non abbastanza. Che permangono persino alle nostre privilegiate latitudini, dove la povertà può sembrare un’anomalia, una sorta di emarginazione volontaria. Mentre in quelle dei Paesi in via di sviluppo, in particolare africani, continua a essere una normalità, persino disarmante. Tanto da scoraggiare la nostra disponibilità all’aiuto. Un certo scetticismo nei confronti di un possibile riscatto dalla povertà, dovuto non da ultimo alla corruzione dei politici locali, rischia di prevalere sull’esigenza di contribuire a migliorare condizioni di vita: che sono migliorabili. Ma bisogna crederci, osare e, soprattutto, dare un senso all’aiuto. E c’è chi ci riesce.
È stato il caso di padre Angelo Fantacci, appena scomparso a 95 anni, vissuti per oltre mezzo secolo, in Kenya, da missionario, per così dire insolito. La sua esperienza rappresenta una svolta decisiva nel concetto stesso di missione, sinonimo di conversione religiosa, associata al passato coloniale, e che per lui, assunse ben altri connotati. Si è tradotta in opere concrete e indispensabili, avviate, agli inizi, sugli altipiani, fra i nomadi Kukuju, in parte cristiani e in parte animisti, alle prese con bisogni primari. Si trattava di scavare pozzi per l’acqua, coltivare terreni ostici, assicurare un tetto, garantire un minimo di cure sanitarie e istruzione scolastica. «I nostri miracoli, ripeteva, sono gli interventi sociali, i dispensari per le donne, le scuole aperte a tutti: questo è lo spirito missionario di oggi». Da praticare adeguandosi ai luoghi in cui si trovò via via a operare.
Quando la Consolata di Torino decise di trasferirlo sulla costa, a sud di Mombasa, padre Angelo si rese conto che il cambiamento comportava nuovi compiti e priorità. La regione, con una popolazione in maggioranza islamica, stava diventando una meta turistica di successo, frequentata da molti italiani e anche da ticinesi, che si godevano vacanze invernali in alberghi ben attrezzati, persino lussuosi, affacciati su spiagge incontaminate. Mentre, fra i palmizi del retroterra, sorgevano ville residenziali. Poco distante, a Likoni, periferia di Mombasa, padre Angelo aveva creato la sua parrocchia: singolare, come ho avuto modo di scoprire, in occasione della mia prima vacanza in Kenya, nel gennaio dell’85. Incuriosita dall’insegna «Catholic Church», sopra una cancellata che racchiudeva capannoni di tipo industriale, osai entrare, subito accolta dal padrone di
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Ambiente e Benessere «Amarcord» Fellini Il grande regista nei ricordi custoditi dalla sua città, Rimini: oggi luogo della sua memoria
Il Messico più iconografico Un viaggio nella terra dei Narcos, e in quella di Coco, nel trionfo dei teschi simpatici e allegri, nel pianeta del culto mafioso della Santa Muerte
La cucina francese Una prima incursione nella gastronomia della tradizione di alcune regioni pagina 21
Protagonisti al CES Tra i prototipi, a Las Vegas conquista molti cuori la BMW i3 Urban Suite
pagina 17
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pagina 23 Margi Moss in Amazzonia; sul sito www.azione. ch, una galleria fotografica più ampia.
Fiumi volanti in pericolo
Esposizione All’Aquarium-Vivarium Aquatis di Losanna una mostra temporanea, fino al 28 giugno 2020,
sul fenomeno dei fiumi volanti, una massa d’acqua impressionante che vola nei cieli del Brasile e non solo Elia Stampanoni L’esposizione temporanea presentata dalla Fondazione Aquatis all’acquario di Losanna è l’occasione per scrivere dei fiumi volanti, ovvero di quel fenomeno che coinvolge enormi masse di vapore acqueo che si liberano nell’aria. La loro esistenza è la conseguenza diretta dell’evaporazione dovuta alle grandi superfici forestali, le quali, come tutti gli alberi verdi, producono acqua nel processo della fotosintesi clorofilliana. L’acqua viene quindi rilasciata nell’atmosfera sotto forma di vapore, dove viene trasportata da differenti correnti d’aria. Il fenomeno è stato osservato in America latina, nella regione dell’Amazzonia che, con la sua foresta, è di certo un grande produttore di vapore acqueo. Anche l’espressione in portoghese rios voadores fu usata per la prima volta in Brasile, da José A. Marengo del Centro nazionale di monitoraggio e allerta sui disastri naturali, come riporta Wikipedia. La principale corrente nel bacino delle Amazzoni spinge gli enormi volumi d’aria umida verso le Ande che fungono, analogamente alle Alpi, da «barriera naturale», ridirigendoli verso il Brasile centrale e meridionale, ma anche
verso la parte settentrionale dell’Argentina, del Paraguay o dell’Uruguay. L’aria umida respinta dalle catene montuose causa quindi importanti precipitazioni piovose e solo in minima parte riesce a superarle per provocare piogge anche in Perù, mentre altre masse d’aria si spostano a nord. I fiumi volanti del Sud America, come cita anche Aquatis in fase di presentazione della mostra di Losanna, hanno origine lungo l’equatore, dove si verifica un’evaporazione su larga scala e l’umidità si trasforma gradualmente in precipitazioni alimentando anche i fiumi dell’Amazzonia e le acque delle regioni lontane dall’equatore. La maggior parte dell’umidità che raggiunge le Ande viene, come detto, respinta verso est e sud portando precipitazioni anche oltre la pianura amazzonica, mentre nella fase finale del loro viaggio le correnti umide bagnano anche aree che sarebbero altrimenti secche e aride. Si può comprendere l’importanza anche quantitativa dei fiumi volanti con i dati presentati da Aquatis. Stimando la superficie della foresta amazzonica in circa 5,5 milioni di kmq, è stata calcolata la quantità d’acqua rilasciata nell’atmosfera dagli alberi: 20 miliardi di tonnellate d’acqua in un solo giorno. A titolo di confronto, ri-
porta il comunicato di Aquatis, il Rio delle Amazzoni ne scarica «solo» 17 al giorno nell’Oceano Atlantico. I fiumi volanti sono quindi un elemento essenziale negli equilibri del complesso e a volte delicato ecosistema. Essendo strettamente correlati alla foresta amazzonica, la loro esistenza e consistenza dipende però dalla superficie di questo grande polmone verde della Terra, minacciato dalla deforestazione, come hanno voluto dimostrare Gérard e Margi Moss (coppia di ricercatori svizzero-brasiliana) assieme al biologo brasiliano Antonio Donato Nobre nel loro progetto Rios voadores, lanciato nel 2007 e concluso nel 2015. Quali gli altri obiettivi di questo progetto? Lo abbiamo chiesto a Sara Tocchetti, responsabile scientifica di Aquatis. «Il progetto di ricerca, sui cui si basa anche l’esposizione di Losanna, è stato tra i primi e il suo scopo era soprattutto di provare l’esistenza del fenomeno e di sensibilizzare le generazioni più giovani del legame tra la foresta amazzonica e il ciclo dell’acqua in Brasile. Questo progetto ha attirato molte attenzioni e ha reso i fiumi volanti un soggetto interessante, aprendo la via ad altre ricerche in quest’ambito. Tra questi alcuni hanno specificamente
studiato il legame tra la deforestazione e l’alterazione del ciclo dei fiumi volanti (meno piogge e a ritmi irregolari)». Nel progetto una squadra scientifica ha potuto approfondire il poco conosciuto fenomeno atmosferico dei fiumi volanti evidenziando, oltre a un legame tra la deforestazione e il cambiamento climatico, anche una crescente carenza d’acqua in alcune regioni del Brasile. Zone agricole che dipendono molto dagli effetti benefici dei fiumi volanti sugli ecosistemi, ma che in futuro potrebbero soffrire sempre di più per la mancanza di pioggia. «Per quel che concerne i legami tra le alterazioni di fiumi volanti e l’impatto su scala planetaria, non ci sono ancora dei risultati robusti a nostra conoscenza, ma solo degli studi in corso» precisa Sara Tocchetti. «Il ricercatore Nobre, che ha coordinato gli aspetti scientifici del primo progetto sui fiumi volanti, continua però a lavorare su questa e altre tematiche, mentre Gerard Moss è tuttora impegnato nel suo lavoro di sensibilizzazione, contribuendo alla realizzazione di esposizioni ed eventi». La mostra in corso a Losanna, in Route de Berne 144, oltre a trattare l’origine dei fiumi volanti e il loro significato, vuole anche approfondire i preziosi contributi della foresta amaz-
zonica a diversi ecosistemi. Grazie a esperienze tattili, animazioni ludiche, uno spazio di espressione e un film in 3D, l’intento della Fondazione Aquatis è di offrire un itinerario di visita coinvolgente e didattico per tutti, dai più piccoli curiosi ai più grandi. «Tutto il contenuto della mostra è in quattro lingue: francese e tedesco direttamente sui supporti, italiano e inglese tramite un documento disponibile all’entrata», conclude Sara Tocchetti. Un grosso merito va dunque anche ad Aquatis, un progetto innovativo. L’acquario di Losanna, noto con questo nome, è tra l’altro anche una meta proposta da Famigros e, oltre alla mostra temporanea sui fiumi volanti in corso fino al 28 giugno 2020, è un’attrazione per molti altri motivi. Come si può consultare anche sul loro sito (www. aquatis.ch), ha la caratteristica di essere un progetto al tempo stesso scientifico, tecnologico, culturale e sostenibile. Una struttura impressionante che si può provare a riassumere con alcune cifre: superficie di 12mila mq, 20 ecosistemi, 2 milioni di litri d’acqua dolce, 3500 mq di percorso di visita, 46 acquari, rettilari o terrari, 100 rettili e anfibi, 10mila pesci, 75 minuti di video didattici e anche 143 camere d’albergo.
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La Rimini di Fellini
Reportage Un percorso nella storia del cinema d’autore lungo le strade e le piazze della città romagnola
Luigi Baldelli, testo e fotografie Trovare un vero punto di partenza per scoprire la Rimini di Fellini è davvero difficile. Ogni piazza, luogo o via è stata ricordata nei suoi film dal grande maestro del cinema, nato in questa cittadina della Riviera romagnola il 20 gennaio 1920. La Rimini di Fellini è la Rimini dei film I vitelloni, I clowns, Roma, ma soprattutto di Amarcord, che in dialetto romagnolo sta a significare «mi ricordo». Il suo film più autobiografico. Premio Oscar nel 1975. Quella di Fellini è tuttavia una Rimini immaginaria, perché lui non ha mai girato una scena nella sua città natale, che ha invece sempre ricostruito negli studi di Cinecittà di Roma, dando vita alla Rimini della sua giovinezza, dei suoi ricordi, della sua fantasia. Eppure, camminando per le strade del centro, lungo i vicoli di Borgo san Giuliano o il lungomare si trovano le tracce del maestro e le atmosfere dei suoi film. Il 2020, anniversario del centenario della sua nascita, è l’anno ideale per visitare Rimini, che proporrà mostre, proiezioni e convegni dedicati a Federico Fellini, a tutti gli effetti uno dei maggiori registi della storia del cinema. Forse il luogo di partenza più adatto per questo tour è l’Arco di Augusto, costruito nel 27 a.C. e che ricorda la Rimini romana. Da questo Arco inizia Corso Augusto, dove, nel film Amarcord vediamo passare le auto della Mille miglia. E sempre su questo corso, al civico 115 si trova una delle case in cui visse Fellini con la famiglia. Non è la casa dove lui è nato, ma è quella che come disse «ricordo veramente». Più avanti si trova Piazza Tre Martiri, un tempo foro romano, con la sua statua di Cesare. Anche questa piazza, con il tempietto di Sant’Antonio, appare nei ricordi del maestro, sempre in Amarcord, quando con i suoi amici andavano davanti al Duomo per ammirare il fondo schiena delle signore in bicicletta. Proseguendo in direzione del Ponte di Tiberio, poco dopo si apre la maestosa Piazza Cavour. Questa piazza è intrisa dei ricordi privati e cinematografici dell’uomo e regista tanto amato. Sempre e soprattutto in Amarcord. C’è il Palazzo dell’Arengo che si vede durante le scene delle celebrazioni fa-
sciste. La Fontana della Pigna, che incantò anche Leonardo da Vinci, appare diverse volte; con la sua pigna collocata in alto, fa da coreografia durante le esercitazioni ginniche per le celebrazioni fasciste o nella celebre scena, durante la nevicata, quando ci si posa sopra il pavone. Ma questa piazza è stata anche l’ultima che ha dato il saluto al suo illustre figlio. Al Teatro Galli, il teatro comunale della città, il 4 novembre del 1993 venne allestita la camera ardente di Fellini. Alle spalle del teatro troviamo Castel Sismondo che ospita la mostra «Fellini 100. Genio Immortale» e dove la sera un fascio di luce proietta sulle sue mura il logo ufficiale delle celebrazioni dedicate al Maestro, disegnato da Paolo Virzì, «Fellini 100», che mostra
un Fellini domatore come in una foto del regista durante le scene di 8½. Castel Sismondo è entrato nella pellicola I clowns, quando il regista ci mostra una fortezza molto simile al castello. Ma torniamo a Piazza Cavour, riprendiamo Corso Augusto verso Ponte Tiberio e poco dopo ecco che alla sinistra si presenta quello che forse è il cuore degli intrecci tra Fellini e la sua città: il cinema Fulgor. Il mitico cinema Fulgor, riaperto l’anno scorso, completamente restaurato e con gli interni allestiti dal premio Oscar Dante Ferretti è stato «il luogo dove da piccolo scoprii i film» disse Fellini. Infatti, qui, seduto sulle gambe del padre vide il suo primo film, Maciste all’inferno. Ed è qui che si innamora del cinema, delle sue atmosfere, delle storie che si potevano
barche che vanno in cerca del transatlantico Rex. Siamo ormai arrivati quasi alla fine di questo viaggio felliniano. Manca però ancora un’ultima tappa, non lontano dal molo, sempre di fronte al mare: il Grand Hotel Excelsior. Con la sua elegante facciata liberty, il suo parco di pini e lecci. Il Grand Hotel non è solo un simbolo della città, ma è il luogo per eccellenza dell’immaginario felliniano. Il punto di partenza dei suoi sogni giovanili. Da ragazzo, quando andava a guardarlo da fuori, immaginava al suo interno donne bellissime ballare nei grandi saloni, la vita lussuosa, i suoi ospiti illustri. Tutti ricordi e fantasie che esalta nelle sequenze di Amarcord, rendendo immortale l’atmosfera fantastica del luogo. Il Grand Hotel era diventato anche il luogo dove Fellini amava andare quando tornava a Rimini, soggiornando sempre nella stanza 315. E le stanze dell’albergo fanno da scenografia a una delle battute forse più famose di Amarcord, quando la parrucchiera Ninola si offre da sotto le lenzuola: «Signor Principe, gradisca». Poi bisognerebbe andare sulla spiaggia, passeggiare sul bagnasciuga e ricordare le parole del Maestro, quando si interrogava sulla sua città e che forse meglio di tutti la descrivono: «Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare; lì la nostalgia si fa più limpida, specie il mare d’inverno, le creste bianche, il gran vento, come l’ho visto la prima volta. È piuttosto, e soltanto, una dimensione della memoria».
Qui, Fellini seduto sulle gambe di suo padre vide da piccolo il suo primo film.
raccontare. Un’emozione che non dimenticherà mai. Il Fulgor diventa la sua seconda casa. E lo ritroviamo in diverse scene di Amarcord. Bisogna entrare, per poter ammirare tutta la bellezza del restauro: legno, ottone, velluti rossi, colori caldi in uno stile anni Quaranta. Ci sono due sale, la Sala Federico e la Sala Giulietta. Il Fulgor è un tributo al cinema e a Federico Fellini. Riprendendo corso Augusto si arriva al ponte di Tiberio, costruito tra il 14 e il 21 d.C., e immediatamente dopo inizia Borgo San Giuliano, uno dei luoghi più affascinanti di Rimini. Il vecchio quartiere dei pescatori e marinai, con i suoi stretti vicoli e le sue case basse. Un quartiere e le sue atmosfere che il Maestro ha riproposto ne I clowns e in Amarcord. Certo, oggi il Borgo è completamente ristrutturato, le case hanno tutte colori pastello. Ma camminando tra queste stradine si scoprono sui muri delle casette i bellissimi murales tratti dai film di Fellini. Scene dei film La dolce vita, Amarcord, La strada, 8½, e protagonisti come Mastroianni, Masina, Benigni, la Tabachéra, sono tutte rappresentati in questi disegni che impreziosiscono il Borgo e lo rendono ancora più unico. Tornati indietro e riattraversato il Ponte Tiberio, si prende verso il mare e si costeggia il porto canale, che porta fino al molo, la «palata» come la chiamano i riminesi, altro classico luogo felliniano: questa è infatti l’emblema de I vitelloni, i nullafacenti, così come in Amarcord ci vediamo sfrecciare il motociclista pazzo o quando partono le
Al cinema Fulgor una figurante rievoca la «tabaccaia» di Amarcord.
La spiaggia di Rimini, con il logo dell’anniversario per il centenario di Fellini.
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Ambiente e Benessere
Sulla via della Santa Muerte
Viaggiatori d’Occidente Un percorso tra le icone più poetiche (ma anche commerciali) di un Messico che mantiene
Sara Pellicoro
il suo fascino, decadente quanto suggestivo
autore, l’illustratore José Guadalupe Posada, ironizzando sulla classe arricchita dei primi anni del XX secolo, che disdegna le proprie radici. È un’immagine destinata a grande fortuna nel secolo successivo. Con tutte queste scene nella testa si può solo affittare una moto a Città del Messico e partire per un viaggio durante i giorni dei morti. Nella terra dei Narcos, nella terra di Coco, nel trionfo dei teschi simpatici e allegri, nel pianeta del culto mafioso della Santa Muerte, fra milioni e milioni di fiori arancioni. Ecco fatto il miscuglio. Cultura pop cinematografica, tradizioni popolari, letture frettolose, iconografia pubblici-
Sara Pellicoro
taria che mette tutto insieme in obbedienza al marketing. Mentre guidi sulla statale che viaggia a Ovest, verso Morelia e poi il lago di Pátzcuaro, pensi che in fondo viaggi proprio per sfatare i miti che ti abbagliano quando parti. Scopri che l’antico culto dei morti, presente in tutte le società, qui non è tanto diverso dal nostro, è solo più colorato e sentito; che la festa in maschera di quei giorni è un’invenzione di un secolo fa e oggi mischia Halloween e cartoon; capisci che la Santa Muerte, pur assomigliando a tutto ciò, è ancora un’altra cosa, è il simbolo a cui affidarsi prima di correre un rischio, è la devozione pericolosa a un’entità un po’ borderline, sia essa un’effigie spaventosa
Sara Pellicoro
come insegna la vecchia nonna che dà il nome al film, Coco. Due appartamenti più in là risuona l’inconfondibile sigla di 007, il film s’intitola Spectre e l’inseguimento impossibile in elicottero che apre il film avviene proprio sopra lo Zòcalo, la piazza della capitale messicana, in piena Festa dei morti. Scena 4 – Anno 1913. La tipografia di Antonio Vanegas Arroyo, al numero 43 di Segunda Santa Teresa, Città del Messico, pubblica l’ultimo numero dell’anno del suo foglio satirico. In prima pagina campeggia il ritratto di una donna borghese, con un grande cappello e abiti sontuosi. La donna però è uno scheletro. La Calavera Catrina (il teschio elegante) lo ha chiamato il suo
Sara Pellicoro
Scena 1 – Nel patio della casa-tempio del boss risuona la struggente versione mariachi di A mi manera, la famosissima traduzione spagnola del cavallo di battaglia di Frank Sinatra, My Way. In effetti questo è un culto fatto proprio alla loro maniera. Qualcosa di inspiegabile lega tutti i malavitosi messicani alla Santa Muerte, una rappresentazione inventata dell’ineluttabilità del destino, che in quel tipo di vita è evidentemente ben presente. Michoacan: regione che vai, culto fuorilegge che trovi. Scena 2 – A meno di mezz’ora a sud di Tuxtla Gutiérrez, la capitale del Chiapas, c’è la cittadina di Chiapa de Corzo: una grande piazza con porticati e una fontana al centro, bancarelle, mercato, piccoli anfratti in cui mangiare due taco con chorizo. Il cimitero sul confine del paese è addobbato all’inverosimile con i cempasúchil, i fiori arancioni del giorno dei morti. Fra le tombe ce n’è una diversa dalle altre, una foto di un uomo con i baffi, ben vestito e sotto il nome: Enrique Verdi. In un pomeriggio anonimo, al suo capezzale c’è un uomo mal vestito con lo zaino rovinato che fuma un sigaro. Si volta e sorride: «Siete venuti a visitarlo?». Qui a sud, Enrique Verdi è il protettore dei gangster. Scena 3 – Interno salotto europeo, primavera. Sullo schermo di un computer, un cartone animato della DisneyPixar sta per iniziare. È la storia di un bimbo messicano che sogna di fare il musicista, osteggiato dalla famiglia. È il día de los muertos e tutto è possibile,
Sara Pellicoro
Guido Bosticco
con la falce, sia la figura di un assassino coi baffi diventato demone protettore. Nell’aria frizzante di novembre che attraversa il casco, sotto nubi grigie che ricoprono le grandi pianure d’altura di quelle zone, vieni superato da file di camionette con soldati armati fino ai denti. C’è una guerra in corso qui, contro bande di trafficanti. Poi sfrecciano auto sportive senza targa, poi c’è un posto di blocco, poi c’è un casello occupato: venti ragazzi incappucciati hanno deciso di intascare il pedaggio. Costa pure meno della tariffa ufficiale, la devi mettere in un secchio che ti porgono. È un mestiere come un altro. Viaggiando su due ruote tra le facce, i paesi, le colline, i murales e i superbi templi precolombiani cogli soprattutto l’innato spirito artistico di questo Paese e il gusto estetico che lo contraddistingue. Ovunque, dall’insegna di un negozio di cellulari alle stupefacenti facce delle statuette di Teotihuacan, dagli abiti delle Catrina in sfilata ai colori delle barche sui canali di Xochimilco, dalla cura degli addobbi funerari alle decorazioni della bandana zapatista, il Messico è disegnato con grazia, perfino negli anfratti meno battuti, dove solo lo sguardo di pochi può godere di un dipinto ben fatto o di una calligrafia perfetta. La storia poi, e non da oggi, ha ammantato di violenza molte di queste regioni, ma non ha potuto togliere loro l’afflato espressivo e poetico che le caratterizza da sempre. Corri in moto e pensi che a dispetto delle cronache efferate e delle icone prefabbricate, per quanto ti riguarda, ogni pregiudizio «descanse en paz» (riposi in pace).
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Ambiente e Benessere
Un’onda d’urto distruttiva
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Il vino nella storia La crisi dello sviluppo economico di Roma tra guerre e invasioni
nei secoli più bui del Medioevo, per la serie «Lungo le rotte del vino» – 7a parte Davide Comoli Lo sviluppo economico di Roma, sotto i primi imperatori, era dipeso molto dalla forza che l’Impero aveva profuso per il mantenimento della pace e della floridezza economica creatasi grazie all’espansione dei commerci: facile quindi immaginare cosa sarebbe successo se tutto questo fosse venuto a mancare. La piccola crisi avvenuta nel II sec. d.C. (superata con qualche difficoltà), infatti, con una diminuzione del benessere borghese, faceva presagire qualcosa di peggio. Nel V sec. d. C., la tempesta annunciata e della quale già si erano sentite le prime avvisaglie durante il regno di Marco Aurelio (121-180 d.C.), si trasformò in un drammatico uragano. Ai cronici e sempre più insanabili problemi interni, si aggiunsero i pericoli esterni.
Le frontiere dell’Impero che per secoli avevano resistito agli attacchi e alle invasioni da parte di soldataglie sempre più avvezze alla guerra, alle razzie, e sempre meglio armate, subirono un collasso. Alemanni, Franchi, Goti, Visigoti, Vandali, Sarmati, Boemi, Persiani e perfino le popolazioni della Libia e Mauritania, irruppero come uno tsunami, invadendo senza risparmiare nessun territorio e angolo di quello che era stato il cuore economico dell’Impero. Poco dopo la metà del V sec. l’Impero si disintegrò. Con la disfatta di Roma e la liquidazione del suo Impero, anche il commercio con i suoi protagonisti furono travolti da questa onda distruttrice. Il vino, che aveva avuto come patria la grande vigna rappresentata dai fertili territori dell’Impero sia in Oriente sia in Occidente, conobbe la sua lunghissima stagione dell’oblio. Prima dell’auspicata rinascita, il
La caduta di Costantinopoli, dipinto di Tintoretto nel Palazzo ducale di Venezia.
commercio del vino conoscerà ancora periodi difficili come quelli che coincideranno con le invasioni degli eserciti mussulmani. I quali, anche se non bloccarono completamente e definitivamente il commercio del vino via terra o via mare, contribuirono senz’altro a una drammatica recessione. L’inarrestabile espansione dei Musulmani che si erano stabiliti in Spagna, nelle Baleari, Malta e Sicilia, aveva edificato un’invisibile muraglia che divideva l’Europa orientale da quella occidentale. I vincoli commerciali che avevano legato i vari popoli dell’Impero che vivevano oltre il Mediterraneo, furono spezzati da questa nuova civiltà, che per motivi religiosi distruggeva la coltura vitivinicola delle regioni invase, con poche eccezioni. Con la scomparsa quasi totale dei commerci via mare che aveva il vino (forse protagonista assoluto), cessarono tutte le attività ad esso legate e tutte le corporazioni di mercanti che si erano affermate si sciolsero. Per lunghi secoli le società si basarono esclusivamente su un’economia rivale; le proprietà si rivolsero a un’attività mirata all’autosufficienza e non di rado alla sola sopravvivenza. I prodotti agricoli e il poco vino prodotto furono usati esclusivamente per un consumo interno e non ai mercati; correvano i secoli più bui del Medioevo. In alcuni periodi, come ad esempio quello carolingio, le città tradizionali che avevano avuto una connotazione anche come luogo di sfogo economico per il mondo contadino, scomparirono in gran parte dall’Europa e si trasformarono in «recinti fortificati», costruiti per proteggere il centro culturale rappresentato da un monastero o da una cattedrale. Anche il vino e la birra prodotti nei monasteri, che erano territorio di produzioni agricole e artigianale, se eccedevano rispetto alla necessità della comunità (folta) monastica, erano venduti. La vera attività commerciale, non era che un lontano ricordo. I mercato-
res o negociatores di un tempo erano in parte sostituiti da occasionali venditori, un ruolo che veniva spesso ricoperto dai servi del monastero incaricati di «esportare» il vino oltre le mura monastiche. In questo triste quadro della vita in Europa, nel X sec., riuscirono a sopravvivere alcune realtà, ad esempio Venezia: avendo mantenuto un porto attrezzato per scambi di alto profilo, riusciva a tenere rapporti con gli scali commerciali della Grecia e di Costantinopoli. Ma in questo contesto non va dimenticata l’intraprendenza di Genova e Pisa, che con audacia sfidarono le flotte saracene in terribili battaglie in mare, riuscendo a riaprire, in parte, le antiche vie marine del commercio. Solo sul finire del X sec., in alcuni dipartimenti europei, dove esistevano le cosiddette «città monastiche», viene garantita una certa sopravvivenza delle attività mercantili. Il vino tornava ad essere prodotto in molte zone, soprattutto in luoghi votati alla viticoltura che si trovavano lungo il corso dei fiumi. Nel cuore dell’Europa furono le vie fluviali a diventare il cuore dei traffici più importanti. Le merci trasportate lungo i corsi d’acqua avevano il 75 per cento di possibilità di arrivare a destinazione, sulle rive di questi corsi d’acqua, oltre ai famosi «castrum», costruiti per difendere le comunità religiose e naturalmente la popolazione, si crearono luoghi ove concentrare i traffici delle merci. Il Reno, il Rodano, il Danubio, tanto per citarne qualcuno, diventarono sedi di «faubourgs o portus», che avevano la caratteristica di essere luoghi stabili di stoccaggio delle merci. Sul finire del XI sec., riappaiono in tutta Europa i mercanti di professione. Anche se ancora numericamente scarsi, oltre a percorrere le ancora insicure vie marittime, utilizzano le numerose vie fluviali per il trasporto delle loro mercanzie. Il commercio del vino timidamente ricomincia a navigare sui barconi che solcano le acque dei fiumi europei.
Parfum de Vigne (Chasselas)
Sui terreni morenici, lasciati in eredità dal ritiro del ghiacciaio del Rodano più di 10mila anni or sono, nasce il Parfum de Vigne, uno Chasselas allevato nella Côte e vinificato rispettando la terra e intervenendo il meno possibile in cantina. Jean-Jacques Steiner è il vigneron produttore di questa perla, coltivato nel villaggio di Tartegnin (zona di Grand Cru) e che si fregia di una medaglia d’oro e del marchio «di qualità Terravin». Il Parfum de Vigne fa meraviglie al vostro aperitivo grazie alla sua freschezza e delicatezza, con profumi che spaziano dalla frutta ai fiori, dati dalla sua giovinezza. Nelle grandi annate (come il 2018), è possibile percepire forti i sentori di miele e di noci, che attestano la grande personalità di questo vino. Ottimo, data la stazione, l’accompagnamento con i tipici piatti di formaggio (raclette, fondue, malakoff), ma provatelo con il «sushi»: noterete come la delicatezza del pesce crudo ben s’accordi alla finezza dello Chasselas. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 14.90. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Ambiente e Benessere
Il regionalismo della cucina francese Gastronomia Non solo una carrellata di sapori ma anche una passerella di nomi raffinati come il famoso
croque-monsieur, sino alla bouchées à la reine, o quelli campagnoli come la gallina ripiena e i sanguinacci
Allan Bay La volta scorsa abbiamo parlato dei piatti nazionali francesi: ma ne esistono molti altri, propriamente regionali, meno noti all’estero. Tipico della cucina parigina è il croque-monsieur (nella foto), veloce e gustoso spuntino preparato racchiudendo prosciutto e formaggio tra due fette di pane che poi vengono fritte o gratinate con besciamella. All’estremo opposto si pongono i bouchées à la reine, raffinata creazione del cuoco francese Antoine Carême: vol-au-vent farciti con besciamella e pollo.
Dalla Champagne alla Provenza, passando per la Borgogna, la Costa Azzurra, sino ad approdare in Corsica Nella Champagne, la cucina è piuttosto robusta e accompagna con patate e verze la selvaggina e la carne di manzo e di maiale, quest’ultima trasformata in prosciutto delle Ardenne, boudin (un tipo di sanguinaccio) e andouillette (salsicce con interiora); il dipartimento di Orléans offre la celebre tarte Tatin (una crostata di mele rovesciata). Meno nota forse, ma non meno gradita, la specialità della Guascogna: la garbure (sostanziosa minestra con verdure, maiale e fagioli); la Lorena è famosa per le madeleines, di proustiana memoria; in Alsazia dominano piatti di influenza tedesca, come i già citati crauti (qui detti choucroute), il kugelhopf (dolce lievitato, servito con panna e poco zucchero) o i pâté di fegato, le salsicce e il prosciutto cotto in crosta di Strasburgo, il suo capoluogo, o ancora la birra e i distillati di frutta (ciliegie e prugne in particolare). Dai paesi baschi francesi arrivano prosciutti (come quello, famoso, di
Bayonne), salsicce e sanguinacci; dal Béarn la gallina ripiena di verdure e bollita, i confit di oca, anatra o maiale (ritagli di carne cotta, messi in un barattolo e coperti con il grasso fuso della carne stessa; tradizionalmente, se ne usa un cucchiaio a testa per dare forza e spessore ai minestroni); la Bretagna è invece prodiga di pesci, crostacei e molluschi, protagonisti per esempio della delicata cotriade (zuppa di cui si gustano separatamente pesce e brodo), ma propone anche i pré-salé, i saporiti agnelli che pascolano vicino al mare, latticini di alta qualità e biscotti affinati dall’ottimo burro prodotto localmente. In Borgogna, il sublime vino rosso non è solo servito a tavola, ma arricchisce anche il gusto degli stufati di carne: ne sono un esempio il manzo alla borgognona e il già citato coq au vin, e perfino una salsa pensata per accompagnare le uova (oeufs en meurette). Il Périgord va noto per le oche e le anatre, per i funghi e il tartufo nero; l’Alvernia per le castagne – usate come ripieno per il tacchino o trasformate in marmellate – e le lenticchie verdi del Puy; la Linguadoca è famosa per i cassoulet (stufati di carne e fagioli) e la Piccardia per la carbonnade (fettine di manzo cotte con cipolla e birra). Della Provenza tutti sanno la predilezione per le erbe aromatiche e l’aglio, indispensabili protagonisti della cucina mediterranea che lì si esprime nella brandade de morue (saporita purea di baccalà e olio di oliva) e nella zuppa di pesce nota come Bouillabaisse, ma anche in alcune specialità che la Costa Azzurra condivide con la confinante Liguria: per esempio la pissaladière, la socca e il pistou, corrispondenti rispettivamente alla pissalandrea (che però comprende anche il pomodoro), alla farinata e al pesto. Anche la Corsica ha una cucina sua propria, mediterranea, seppure con tratti un po’ diversi, fondata sui prodotti del mare; ma lo spazio è tiranno, ne parleremo un’altra volta.
CSF (come si fa)
E Francia sia, oggi. Vediamo come si fanno due ricette che più classiche non si può. Croque-monsieur (nella foto sopra). Gli ingredienti qui elencati sono per 4 persone. Affettate 100 g di buon Gruyère. Eliminate la crosta da 8 grosse fette di pancarré e imburratele leggermente. Ricoprite 4 fette con le fettine di Gruyère, distribuite sopra 100 g di prosciutto cotto o crudo a piacer vo-
stro e coprite con le altre fette imburrate. Legatele con filo da cucina. Fate fondere tanto burro in una casseruola (la capacità del pane di assorbire burro in cottura è proverbiale) adagiate le croque e fatele dorare qualche minuto per lato. Togliete il filo da cucina e servite. Se le servite coperte con un uovo fritto, si chiama croque-madame. Soupe à l’oignon. Per 4 persone. La più francese di tutte. Sbucciate 600 g di cipolle dorate e affettatele finemente: vanno bene anche le cipolle bianche ma non le rosse. Tagliate a fette sottili 100 g di Gruyère. Legate insieme con il filo da cucina 2 rametti di timo, una foglia di alloro e qualche gambo di prezzemolo. Mettere le cipolle in una casseruola e fatele appassire a fuoco basso con una noce di burro. Mescolate perché non brucino. Dopo circa 30
minuti, o comunque appena sono dorate, bagnatele con 1 bicchiere di vino bianco secco e fatelo sfumare. Portate il brodo a bollore e unite il mazzetto guarnito. Aggiungete poco alla volta, mescolando di continuo, 1 litro di brodo bollente. Proseguite la cottura a fuoco basso per circa 30 minuti, poi regolate di sale e di pepe. Nel frattempo, affettate una baguette (se non la trovate va bene altro pane bianco a fette) e fate tostare le fette in forno a 150° per 15 minuti. Eliminate il mazzetto guarnito e versate la zuppa in 4 ciotole adatte ad andare nel forno. Appoggiate sopra le fette di pane e copritele con il formaggio. Ponete le ciotole nel forno a 180° e fate gratinare bene la zuppa. Occhio alle ustioni! Dovete aspettare almeno 5 minuti prima di poter affrontare questa soupe!
Ballando coi gusti Oggi, due pani, particolarmente facili da preparare e rapidi, se non si conta il tempo di lievitazione e riposo, ovviamente.
Pane azzimo
Friselle
Ingredienti: 400 g di farina di segale · 40 g di farina tipo 0 · olio di oliva · sale grosso.
Ingredienti: 800 g di semola di grano duro · 300 g di semola integrale di grano duro
Tostate la farina di segale in una padella con 1 cucchiaio di olio. Spegnete, fate intiepidire. Versatela in un’ampia ciotola e unite la farina tipo 0, 1 cucchiaio di sale stemperato bene in poca acqua e 4 cucchiai di olio. Impastate fino a ottenere un impasto omogeneo che lascerete riposare per 12 ore. Dopo aver lasciato riposare, suddividete l’impasto in 10 panetti tondi, metteteli su una placca coperta con carta da forno, spennellateli con l’olio e fateli cuocere per 20 minuti nel forno a 180°. Poi abbassate la temperatura a 80° e proseguite la cottura per 1 ora circa.
· 10 g di lievito di birra · olio di oliva · sale.
Mettete le semole in un’ampia ciotola e unite il lievito, un pizzico di sale e 2 cucchiai di olio. Impastate fino ad avere un composto liscio e omogeneo. Lasciatelo lievitare per 12 ore in frigo, alla fine sarà raddoppiato in volume. Riprendete l’impasto, formate delle ciambelle, una dozzina circa, ma di più o di meno, non cambia, e lasciatele lievitare, coperte, per 2 ore. Mettetele su una placca coperta con carta da forno e fatele cuocere in forno a 210° per 20 minuti circa. Sfornate e tagliate le ciambelle ancora calde a metà, orizzontalmente. Passate le friselle ottenute in forno a 160° e fatele biscottare per 1 ora.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Ambiente e Benessere
Le auto conquistano il CES di Las Vegas
Motori All’evento mondiale deputato per le novità elettroniche, tra le Play Station e altri gadget futuristici,
anche i veicoli elettrici
Mario Alberto Cucchi Giusto il tempo di farsi gli auguri di buon anno e a Las Vegas dal 7 al 10 gennaio il CES 2020 – Consumer Electronics Show – ha parlato del mondo che verrà. Oltre 4500 espositori e più di 200mila visitatori da tutto il mondo. Se una volta al CES si vedevano solo robot, computer e consolle, oggi non è più così. Certo è sempre il posto giusto per presentare la nuova Play Station o la pallina da golf che va in buca da sola, ma oggi le automobili conquistano la luce dei riflettori.
La BMW i3 Urban Suite? Una specie di limousine biposto da città, interamente elettrica ed ecologica Al CES sono grandi protagonisti i prototipi: tra questi conquista molti cuori la BMW i3 Urban Suite. Un sogno a quattro ruote che svela un’esperienza di mobilità disegnata su misura delle esigenze individuali del passeggero. Auto elettrica, sì: la base è la nota i3. Niente guida autonoma, anzi. A vederla si potrebbe immaginare un elegante autista che scarrozza il passeggero accomodato dietro su una moderna e comoda
poltrona. Una specie di limousine biposto da città. «L’obiettivo – spiegano i designer BMW – è creare uno spazio invitante in cui trascorrere il tempo con un alto grado di benessere, il luogo perfetto per godere dell’intrattenimento in auto o concentrarsi sul lavoro in un ambiente rilassato. Ciò si ottiene includendo tra le altre cose un sedile ampio e confortevole con poggiapiedi, connettività 5G, uno schermo che scende dal padiglione e una Sound Zone personale». I tessuti contenenti materiali riciclati si fondono quindi con legno certificato e pelle conciata con estratti naturali delle foglie di ulivo, mentre i tappetini sono realizzati con materiali riciclabili che possono essere reimmessi nel ciclo di produzione, secondo i principi dell’economia circolare. Giustamente ecologica e non solo perché elettrica, in molti ci vorrebbero fare un giro e di certo non guidandola, ma seduti dietro. Al CES non solo concept, ma anche auto che presto vedremo sulle nostre strade. Le usiamo tutti e negli ultimi anni stanno avendo una velocissima evoluzione tecnologica. Lo sa bene il Gruppo FCA – Fiat Chrysler Automobile – che al CES presenta le sue più recenti tecnologie relative all’elettrificazione. FCA con il marchio Jeep espone a Las Vegas tre modelli dotati di tecnologia ibrida plug-in. Un primo passo nel viaggio verso l’elettrificazione dei
Giochi Cruciverba Sapete qual è uno degli strumenti musicali più antichi del mondo e circa quanti anni fa nacque? Scopritelo, a soluzione ultimata, leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 2, 6 – 16)
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Così si mostrano gli interni della BMW 13 Urban Suite.
fuoristrada duri e puri a stelle e strisce. «Entro il 2022 ci saranno varianti elettrificate su tutta la gamma» spiegano gli ingegneri americani. Ecco allora un nuovo marchio creato appositamente per identificare i nuovi modelli «Jeep4xe»: Wrangler 4xe, Renegade 4xe e Compass 4xe. Nomi che hanno fatto
la storia dell’off-road guardano al futuro e sono le nuove bandiere «verdi» del Costruttore USA. «Offriranno il massimo in termini di libertà e silenziosità nella guida open-air, portando le prestazioni, le capacità 4x4 e la sicurezza del conducente a un livello superiore» spiegano i tecnici Jeep. «Grazie alla
maggior coppia motrice e alla risposta immediata del motore, i modelli elettrici Jeep garantiranno un’esperienza di guida ancora più divertente su strada e migliori capacità 4x4 in fuoristrada». Insomma, niente compromessi. Non si scende a patti con la storia, o almeno così pare.
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku N. 49 FACILE ORIZZONTALI Sudoku Schema 1. Un numero
Soluzione: 5. Lo può essere la chioma Scoprire i 3 10. Antonio de Curtis 6 9 5 numeri corretti 12. Niente a Parigi 13. Fanno le arcate... con arte da inserire nelle 1 caselle colorate. 15. Scherzo balordo 17. Arresta senza manette... 2 5 7 1 3 18. Pronome dimostrativo 20. Stato dell’Asia orientale 9 3 22. Preposizione articolata 23. Lo invoca il muezzin 24. La volgare d’altri tempi... 5 3 26. Le iniziali della Casalegno 28. La lista che fa gola... 8 1 30. Piccolo gruppo 32. Le iniziali dell’imitatrice Aureli 2 8 7 9 33. Il ritorno del pendolo 34. Con, per i tedeschi 35. Le iniziali di Lincoln 1 7 8 36. Camera, stanza VERTICALI 6 2 3 5 1. Un ruminante 2. Le iniziali dell’attrice Tyler Soluzione del no 51 3. Nipote di Abramo Risposte risultanti: Anni di vita di Adamo: NOVECENTOTRENTA – Anni di vita 4. Un cartellino col prezzo Mosè: CENTOVENTI. 6. Le iniziali del compositore Respighi N. 45diFACILE Schema Soluzione 7. Prima moglie di Giacobbe 2 5 6 3 7 8 4 9 1 8. Si mette in cornice 2 N O 3 7S A V I E C E 9. Fuori moda 8 3 9 4 1 6 5 7 2 3U 9S O N 5O T R E N 11. Danno un punto a scopa 4 7 1 9 2 5 6 8 3 8 O S T R I C A S E N 14. Aglio a Parigi 3 2 5 8 4 9 7 1 6 4N E I 1 A S S I T A 16. Un quinto di five 19. Le prime lettere in olandese 7 1 4 2 6 3 9 5 8 7 O C A N L I E T O 21. Equipaggiodiimbarcazionedaregata 9 6 8 1 5 7 2 3 4 6 N 1A 5 7E T E 4 25. Le iniziali del fisico della relatività 5 9 2 6 8 1 3 4 7 2 6 3 O V E I N D 27. Circolo ricreativo per lavoratori 29. Negazione tedesca 1 4 3 7 9 2 8 6 5 1 A N I T A T 31. Se ci... capovolgete 6 8 7 5 3 4 1 2 9 8N 7O E A L 2I 9 34. Può precedere il se Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Politica e Economia Trump: un atto necessario Blitz di droni Usa uccide il generale iraniano Suleimani, regista delle tante milizie parallele che dal Libano alla Palestina, dalla Siria allo Yemen seminano il terrore pagina 26
Erdogan mostra i muscoli in Libia Intervento dell’esercito turco di Erdogan a sostegno del governo di accordo nazionale guidato da al-Sarraj, per fermare l’avanzata dell’autoproclamato «Esercito nazionale libico» del generale ribelle Khalifa Haftar. Con l’Ok di Mosca pagina 27
Il ritratto di Soleimani accanto all’ayatollah Ali Khamenei. (AFP)
L’Iran colpito al cuore
Ucciso Soleimani Il presidente Usa ha giustificato l’abbattimento del potente generale iraniano e del suo convoglio:
«Stava progettando attacchi imminenti contro diplomatici e personale militare americani» Lucio Caracciolo Fiumi d’inchiostro sono stati versati sulla nuova crisi Iran-Stati Uniti, segnata il 3 gennaio dall’assassinio del generale Soleimaini per mezzo di un drone americano e dalla per ora moderata risposta iraniana, sei giorni dopo. È molto presto per valutarne l’impatto geopolitico, anche se certamente resterà una pietra miliare nella storia del peculiare rapporto fra la principale potenza mondiale e la Repubblica Islamica. È invece possibile, e utile, trarne alcune conclusioni sul modo di operare strategico dei due attori. Ciò che ci aiuterà in futuro a decrittarne intenzioni e iniziative. La principale differenza fra America e Iran, sotto questo profilo, sta nei vincoli imposti o non imposti dal sistema politico-istituzionale ai decisori strategici. In parole povere, la differenza fra un sistema relativamente aperto, leggibile, che risponde direttamente
alla sua opinione pubblica, e un altro tendenzialmente chiuso, che risponde certo al suo popolo, ma anzitutto a se stesso. Quanto agli Stati Uniti. In caso di guerra o comunque di operazioni militari, sale in cattedra il presidente, potere altrimenti piuttosto pallido. Assume in pieno le funzioni di comandante in capo. Nel caso specifico, Trump ha personalmente ordinato di liquidare Soleimaini, fra la sorpresa dei suoi generali. Perché? Nessuna particolare grande strategia né sottigliezza clausewitziana. Molta politica e un po’ di sentimento. La contingenza politica consiste nell’essere entrati nell’anno elettorale, ultimo del primo mandato che ogni inquilino della Casa Bianca giudica propedeutico al secondo. Far fuori il più popolare e il secondo più influente decisore iraniano è servito a offuscare almeno per un poco la battaglia sull’impeachment, a profilarsi meglio in vista del voto di
novembre. E a costringere i candidati democratici a venire allo scoperto, rivelandone l’improntitudine. Chi più chi meno fortemente, Biden, Warren, Sanders e Buttigieg hanno preso le distanze dalla scelta di Trump, non considerando l’odio che buona parte dell’opinione pubblica americana, anche quella (ed è la grande maggioranza) che di norma non si occupa di questioni internazionali, coltiva per l’Iran. E qui si aggiunge il fattore sentimentale: Trump e i suoi generali condividono questa opinione. Le élite americane devono ancora metabolizzare il trauma del 1979-80, con il sequestro di loro diplomatici a Teheran e il fallimento dell’operazione militare per liberarli. Quella macchia attende di essere lavata. In altre occasioni, gli esecutori dell’ordine avrebbero evitato di eseguirlo, sparando qualche missile a casaccio intorno al bersaglio, nel timore delle conseguenze (rappresaglie) del
nemico. In questo caso non l’hanno fatto. Probabilmente mettendo a tacere la ragione per dare la precedenza al cuore, al piacere di annientare un odiato generale nemico. Come quasi sempre, gli americani hanno compiuto un atto di guerra, particolarmente clamoroso, senza troppo preoccuparsi di quel che ne seguirà. Contando sulla propria superiorità militare. La storia dimostra che il metodo non funziona così bene: l’ultima volta che gli Stati Uniti hanno vinto una guerra si perde nel passato – anno 1945. Gli iraniani hanno invece risposto finora in modo iper-razionale – anche qui confermando una radicata tradizione. Lasciata alle cerimonie funebri la soddisfazione dell’aspetto sentimentale, hanno calibrato la rappresaglia sulla necessità di restare entro due limiti. Primo, evitare una escalation verso la guerra totale, che rischierebbe di annichilire l’Iran. Secondo, mantenere la credibilità
del proprio potenziale militare, lanciando potenti missili balistici in prossimità di alcune basi militari Usa in Iraq, dopo avere indirettamente avvertito Washington via Baghdad. Grande effetto di suoni e luci. Nemmeno un ferito. Continuerà così? Certamente no. La parabola della sfida fra Usa e Iran ha preso una curva pericolosa. Al termine della quale Teheran vede come unica vera garanzia di sopravvivenza la produzione di un proprio arsenale nucleare. Ci vorrà tempo, certo. E non è affatto detto che americani e israeliani glielo concedano. Ma il conto alla rovescia verso la Bomba, interrotto dall’accordo 5+1 sul nucleare, del 2015, è ripreso. Il ticchettio è per ora sordo, quasi inaudibile. Sarà questione di anni, non certo di mesi. In fondo a questo percorso troveremo prima o poi la sagoma dell’ordigno atomico iraniano. O la devastazione della Repubblica Islamica per mano americana e/o israeliana.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Politica e Economia
Guerra del Golfo. Continua.
Crisi Usa-Iran Quello che sta succedendo in questi giorni fra Washington e Teheran sul suolo iracheno va visto
in un’ottica storica di lungo periodo, a partire dall’anno chiave del 1979 fino al 2003 con l’invasione dell’Iraq
Federico Rampini Siamo entrati nel 41esimo anno della Guerra del Golfo, quella che oppone l’Iran agli Stati Uniti, all’Arabia saudita, a Israele, con l’Iraq schiacciato in mezzo a questi contendenti e talvolta coinvolto da una parte o dall’altra. Solo in quest’ottica storica di lungo periodo – che va alle origini del moderno fondamentalismo islamico, anno chiave 1979, si snoda nella guerra Iran-Iraq degli anni Ottanta, nell’invasione del Kuwait e nell’attacco americano del 1991 per concludersi con l’invasione del 2003 – si può tentare di capire quanto accaduto dal 31 dicembre 2019 ad oggi. Prima l’offensiva anti-americana che ha portato a rasentare una nuova «crisi dell’ambasciata», stavolta nella Green Zone diplomatica di Baghdad anziché a Teheran. Poi la poderosa reazione degli Stati Uniti che ha eliminato addirittura il numero due del regime iraniano. Infine i venti di guerra, a cui ha fatto seguito un’apparente de-escalation o attenuazione del conflitto. Sulla quale nessuno dovrebbe illudersi troppo. «L’Iran si è piegato». La settimana di fuoco di Donald Trump si è conclusa temporaneamente mercoledì 8 gennaio con una dichiarazione trionfale del presidente americano. La pioggia di missili iraniani su basi Usa non ha fatto vittime. La rappresaglia lanciata da Teheran per reagire all’uccisione del generale Qassim Soleimani è stata un misto tra fuochi d’artificio e fuoco «amico»; quasi che l’Iran tema davvero di sfidare il Grande Satana americano. Per gli avversari di Trump il suo discorso dell’8 gennaio alla nazione può ricordare l’infausto striscione «Mission Accomplished» che accolse George W. Bush su una portaerei, quel prematuro cantar vittoria meno di due mesi dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. A cui seguirono non pochi rovesci. Ma per adesso la cronaca della settimana di fuoco che ha aperto l’anno 2020 è un crescendo trumpiano, con il presidente che s’impadronisce del trofeo militare dopo alcune pause d’incertezza, confusione, perfino paura.
L’attuale sfida risponde a uno scenario di deterioramento programmato delle relazioni con Trump che straccia l’accordo voluto da Obama Gli antefatti recenti coprono l’intero 2019. Gli attacchi iraniani contro navi petroliere di diverse nazionalità, nel Golfo Persico: una sfida diretta al ruolo degli Stati Uniti come garanti della libertà di navigazione in quella parte del mondo (anche se il petrolio che vi transita non viene più importato dagli americani, ormai autosufficienti, è tuttavia vitale per alleati come Europa India e Giappone, o rivali come la Cina).
La distruzione di un drone Usa da parte degli iraniani. Il micidiale attacco, sempre ad opera di droni iraniani, che mise fuori uso importanti impianti petroliferi dell’Arabia saudita: un colpo tremendo a un alleato strategico di Washington, non tanto per il danno economico ma per l’enorme caduta di credibilità militare di Riad. Da ultimo, a fine dicembre, l’uccisione di un cittadino americano in Iraq e l’assaltoassedio all’ambasciata Usa a Baghdad, attribuiti a fazioni filo-iraniane manovrate dagli ayatollah e dal generale Soleimani in persona. Da mesi l’Iran stava sfidando l’America, colpo su colpo ne logorava la credibilità in tutto il Medio Oriente. Questa sfida rispondeva a uno scenario di deterioramento programmato delle relazioni: fu Trump a stracciare l’accordo voluto dal suo predecessore Barack Obama, che aveva offerto la fine dell’embargo all’Iran in cambio di un congelamento del piano nucleare. Quell’accordo secondo Trump fu un grave errore. Allineandosi con le preoccupazioni di Israele e dell’Arabia saudita, i suoi due «mentori» in Medio Oriente, Trump ha optato per la linea dello scontro. Indurendo le sanzioni Trump sperava di indebolire Khamenei e i falchi iraniani; forse ha ottenuto l’effetto opposto di indebolire i moderati del regime come il presidente Rohani. L’economia iraniana si avvita in una crisi grave, la popolazione si rivolta contro il regime; quest’ultimo non esita a rispondere con una repressione sempre più sanguinosa (centinaia di morti). La cronaca dell’ultima settimana deve enfatizzare la «sindrome del 1979». Quando una folla di filo-iraniani assalta l’ambasciata Usa di Baghdad, Trump ha l’incubo di diventare un nuovo Jimmy Carter, il presidente che subì per 444 giorni la crisi degli ostaggi detenuti nell’ambasciata di Teheran. La sera del 3 gennaio arriva la formidabile reazione americana: un blitz di droni Usa uccide il generale Soleimani, capo delle forze speciali Quds, regista occulto o palese delle tante milizie parallele che dal Libano alla Palestina, dalla Siria allo Yemen seminano il terrore da anni. L’esecuzione – che insieme a Soleimani elimina un capo degli Hezbollah e altri otto miliziani – è avvenuta vicino all’aeroporto di Baghdad, quindi sul suolo iracheno. Nelle prime ore dopo l’annuncio, prevalgono le critiche. I democratici Usa accusano il presidente di aver agito senza consultare il Congresso. Gli alleati Nato lamentano di non essere stati informati. L’Iraq denuncia una violazione della sua sovranità. L’onda negativa si amplifica per i due giorni successivi. Nei commenti dei media prevale il catastrofismo: dalla recessione imminente alla terza guerra mondiale, ogni sorta di scenario apocalittico viene addebitato a Trump. Vacilla la stessa squadra di comando che ha coordinato le operazioni tra Casa Bianca, Pentagono e Dipartimento di Stato. Esce un’indiscrezione imbarazzante, su una lettera dei vertici militari ameri-
Donald Trump alla Casa Bianca assieme al segretario della Difesa Mark Esper e al segretario di Stato Mike Pompeo. (AFP)
cani che sembrano cedere alle richieste di ritiro che vengono dal Parlamento di Baghdad. La diplomazia Usa è costretta a dare un ordine di evacuazione di tutti i concittadini dall’Iraq, compreso il personale dell’ambasciata, il che appare una vittoria per l’Iran. Poi arriva, al quinto giorno, il primo segnale d’inversione di tendenza. È una tragedia nella tragedia, avviene quando nel corso di una cerimonia funebre per Soleimani muoiono calpestati nella ressa almeno 50 iraniani. Crudele e terribile fatalità, finisce indirettamente per ricordare che in Iran molto più numerose sono le vittime della violenza locale (di Stato) che quelle degli attacchi americani. Nella notte tra il quinto e il sesto giorno, la tempesta di fuoco che parte dall’Iran contro le basi militari Usa in Iraq si rivela uno spettacolo ad uso della propaganda di Teheran. Neanche un soldato americano o iracheno viene colpito. Non è chiaro se il flop dei missili sia voluto dal regime degli ayatollah perché non vogliono scatenare nuovi castighi americani; o se sia una semplice prova d’inefficienza. Si aggiunge il tragico mistero del Boeing ucraino caduto poco dopo il decollo da Teheran, con i sospetti che uno dei missili iraniani possa avere colpito per sbaglio il jet con passeggeri a bordo. Trump parla alla nazione, e il primo bilancio gli dà ragione: la terza guerra mondiale è rinviata. Lui ne approfitta per saldare i conti con la Nato a cui chiede un maggiore impegno an-
che in quell’area. Offre agli iraniani un futuro radioso, se solo rinunceranno all’espansionismo ideologico-militare. Sottolinea che mai e poi mai l’Iran avrà l’atomica, finché lui è presidente. Quest’ultima forse è la promessa più azzardata fra tutte. Che cosa cambia nella dinamica elettorale americana? L’impatto può rafforzare Trump? Questo non significa abbracciare la vecchia dietrologia secondo cui «i presidenti americani vanno in guerra per distrarre l’opinione pubblica dai loro guai interni». Logoro stereotipo, per lo più falso, soprattutto se dà per scontato che le guerre aiutano chi le fa. Bush padre vinse la prima Guerra del Golfo contro Saddam Hussein nel 1991 e subito dopo perse le elezioni. Lyndon Johnson fu distrutto dal Vietnam. Bill Clinton bombardò il Kosovo dopo lo scandalo Lewinsky ma non aveva nessuna rielezione in ballo. (Semmai la dietrologia guerrafondaia è più vera per gli ayatollah, che hanno bisogno di tenere altissima la tensione internazionale per soffocare le rivolte interne). Sta di fatto però che l’uccisione di Suleimani apre una fase in cui l’Iran con le sue future rappresaglie può decidere se, come, quando intervenire nella campagna elettorale americana. In questo senso il precedente storico più interessante è quello con Carter, il presidente democratico che nel 1979 dovette affrontare la cacciata dello Scià di Persia suo alleato, la rivoluzione islamica khomeinista, l’assalto all’amba-
sciata Usa di Teheran e i 444 giorni di detenzione degli ostaggi americani. Ne uscì rovinato, perse l’elezione per il secondo mandato, e l’ayatollah Khomeini fece liberare gli ostaggi dopo che aveva vinto il repubblicano Ronald Reagan. Certo, la tensione con l’Iran fa passare in secondo piano l’impeachment: ma la vicenda giudiziaria (che arriva al Senato dove i repubblicani assolveranno il presidente) non stava danneggiando Trump. Da non escludere a priori: l’ipotesi che ai falchi iraniani possa far comodo la rielezione di Trump. Come sempre, anche la sinistra potrebbe venire in soccorso a Trump. I cori di condanna per l’eliminazione di un capo terrorista suonano stonati, se l’impressione che rimane fra gli elettori americani è che l’opposizione prenda le difese dell’Iran. Passato lo shock iniziale i messaggi si sono differenziati. Ad un polo abbiamo il moderato Joe Biden, il quale in sostanza si propone come l’alternativa esperta e competente a Trump. Se guerra con l’Iran ha da esserci, meglio che alla guida del Paese ci sia qualcuno che ne capisce, dice Biden. Al polo opposto c’è il radicale Bernie Sanders per il quale la politica estera americana è imperialista, aggressiva, guerrafondaia. Non è difficile immaginare che Trump nei duelli televisivi rievocherebbe i pellegrinaggi di Sanders giovane in Unione Sovietica. Nel frattempo lui si permette il lusso di offrire de-escalation e ramoscelli d’ulivo a Teheran. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Politica e Economia I funerali delle vittime del raid alla scuola militare ordinato dal generale della Cirenaica Haftar. (AFP)
Mosca e Ankara sulla scena libica
Radici storiche Le ragioni dell’interesse
per il tormentato territorio nordafricano Alfredo Venturi
La mossa di Erdogan
Libia-Turchia Il 2 gennaio scorso il parlamento turco ha autorizzato
l’invio di soldati in Libia a sostegno di al-Sarraj. Questo lo scenario
Marcella Emiliani «In Libia ci sono già 2500 mercenari russi e 6000 soldati sudanesi, perché non dovrebbero esserci anche i turchi?». È con queste premesse che l’8 gennaio scorso il signore di Ankara, Recep Tayyp Erdogan, ha inviato in Libia un primo esiguo contingente delle proprie truppe scelte a difesa del Governo di accordo nazionale (Gan) di Fayez al-Sarraj sostenuto dall’Onu e ormai asserragliato a Tripoli che è stata presa di mira dall’Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar fin dal 4 aprile dello scorso anno. In un Paese che dalla morte di Muammar Gheddafi nel 2011 risulta come minimo spaccato in due (parlamento di Tripoli contro parlamento di Tobruk, al-Sarraj contro Haftar in una guerra tribal-civile cui, anno dopo anno, si sono aggiunte altre potenze regionali e internazionali) davvero non si sentiva la necessità dell’entrata in scena di un altro attore smanioso di ampliare la propria sfera di influenza sul cadavere della Libia che fu. Detto in parole povere, l’aiuto militare di Erdogan ad al-Sarraj sembra ricalcare il tristissimo copione della guerra civile che ha letteralmente dilaniato la Siria. Gli attori esterni, peraltro, sono gli stessi l’un contro l’altro armati: al-Sarraj ha dalla sua le ormai imbelli Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Unione europea, il Regno Unito, l’Italia, il Qatar e la Turchia, questi due ultimi rivali diretti in campo sunnita sia dell’Egitto sia dell’Arabia Saudita che appoggiano invece il generale Haftar assieme alla Russia, alla Francia e agli Emirati Arabi uniti. La differenza tra i due schieramenti perlomeno a parole non potrebbe essere più netta: mentre, infatti, i sostenitori del Governo di accordo nazionale – fino all’irruzione in Libia della Turchia – non intendevano usare le armi per mettere fine al caos libico, sostenevano cioè la ricerca di una soluzione politico-diplomatica, i sodali di Haftar sembrano credere solo al pugno di ferro per aver ragione di una crisi che rischia di destabilizzare non solo l’ex regno di Gheddafi ma l’intero Medio Oriente e tutta l’area mediterranea. Rispetto a quanto successo in Siria, in Libia manca un attore di primo piano come l’Iran attualmente sull’orlo della guerra con gli Stati Uniti che, con una drammatica mossa a sorpresa del presidente Trump, il 3 gennaio scorso hanno ucciso Qassem Suleimani, leader della Brigata al-Quds dei Guardiani della rivoluzione (i pasdaran) ma soprattutto uno degli artefici della sconfitta dell’Isis in Siria e in Iraq, e dell’espansione iraniana nello stesso Iraq, in Libano, in Siria, a Gaza e in Yemen, la cosiddetta «mezzaluna sciita» che tanto impensie-
risce l’Arabia Saudita sunnita. Quello che invece si gioca in Libia è uno scontro tutto intra-sunnita che non ha nulla a che vedere con gli schieramenti della storica contrapposizione sunniti-sciiti, ma che non è certo meno virulento. Per cogliere le sfumature più drammatiche di questo scontro intrasunnita bisognerebbe seguire – se ci si riesce – l’ondivaghezza delle alleanze delle milizie locali che combattono sul terreno, alleanze che cambiano di mese in mese se non proprio di settimana in settimana in base ai vantaggi che ognuna può trarre nell’immediato, visto l’andamento delle sorti militari sul campo che dall’esterno è oggettivamente difficile seguire. Una sola cosa è sicura: tutti gli attori della tragedia libica stanno cercando di strumentalizzarla a proprio favore, costi quel che costi al Paese. Sull’onda di questa certezza chiediamoci allora qual è il reale interesse della Turchia in Libia? Innanzitutto non è dall’8 gennaio che la Turchia aiuta il governo di alSarraj. In barba all’embargo decretato dall’Onu sulla vendita o la fornitura di armi a qualsiasi schieramento in campo, Ankara – non diversamente da altre capitali coinvolte nel conflitto – ha fornito al Gan di Tripoli droni, armi e cannoni, ma non ha mai spedito in Libia squadroni di mercenari come ha fatto il suo alleato sullo scenario siriano, il presidente russo Putin. Se Erdogan ha deciso di uscire allo scoperto e di impegnarsi alla luce del sole dalla parte del Governo dell’accordo nazionale con l’invio in Libia delle sue truppe d’élite è perché – con il trattato di cooperazione militare turco-libico ratificato dal parlamento turco il 21 dicembre 2019 – si è impegnato ufficialmente a farlo nel nome della legalità. Il presidente turco sostiene, infatti, che il generale Haftar sia una sorta di usurpatore, con le parole sue «non è un leader legittimo» perché «rappresenta una struttura illegale» che sarebbe poi il parlamento di Tobruk. Non stiamo neanche a discutere quanto siano «legali» i parlamenti di Tripoli e di Tobruk o quanto Erdogan sia affidabile come paladino della legalità nonché chi e quando l’abbia investito di questo ruolo. Anche in questo caso una sola cosa è certa: è stata proprio l’offensiva di Haftar a fornire alla Turchia il destro e la scusa per intervenire in Libia, cosa cui il presidente turco aspirava fin dalla morte di Gheddafi senza aver mai trovato l’occasione giusta per farlo. Chiediamoci allora perché l’ha fatto ora e quali reali opportunità politiche ed economiche hanno ispirato la cooperazione tra Ankara e Tripoli. Nonostante l’aggravarsi della situazione sul terreno e la progressiva internazionalizzazione del conflitto libico è stato l’atteggiamento delle su-
perpotenze a suggerire a Erdogan di scendere in campo apertamente proprio adesso. Gli Stati Uniti di Trump, tranne sul fronte della lotta all’Isis, non si sono mai veramente impegnati in Libia, dove si affidano all’Onu per trovare una soluzione al conflitto. La loro priorità in Medio Oriente è rappresentata dall’Iran e l’uccisione di Suleimani lo conferma appieno, con il rischio che comporta una guerra aperta Usa-Iran. Dal canto suo la Russia di Putin, nuovo arbitro delle sorti del Medio Oriente, non poteva e non può ignorare un paese potenziale fonte di destabilizzazione per tutta l’area mediterranea. Infine c’è da registrare l’atteggiamento della Cina. Xi Jinping si tiene adeguatamente defilato, pago delle forniture di armi che gli vengono commissionate con destinazione Libia da parte di attori quali gli Emirati arabi uniti o l’Egitto, tanto per fare nomi. Se la situazione in Libia si fa bollente, come in questo periodo, allora da Pechino arrivano pacati inviti alla calma e alla ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto. Quanto alle ragioni economiche che hanno spinto Erdogan al fianco di al-Sarraj basta pronunciare una sola parola: EastMed alias il gasdotto che da Cipro dovrebbe portare il gas in Grecia e dalla Grecia in Europa, un affare colossale dal quale la Turchia è stata esclusa tant’è che l’accordo per lo sfruttamento del giacimento off-shore scoperto nelle acque territoriali di Cipro è stato firmato il 3 gennaio scorso solo da Grecia, Cipro greca e Israele. L’accordo con Tripoli prevede così che Ankara possa partecipare alle prospezioni di gas o petrolio nel Mediterraneo in partnership con la Noc (National Oil Corporation), l’ente energetico statale libico. Il presidente turco infine non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione d’oro di aumentare il proprio peso politico in Medio Oriente moltiplicando gli scenari di conflitto in cui intervenire e possibilmente diventarne l’ago della bilancia decisivo. Una lezione imparata molto bene da Putin. Così l’8 gennaio nel corso di una visita lampo del presidente russo a Istanbul, i due compari hanno invitato tutti gli attori coinvolti nella guerra civile libica ad arrivare a un cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte del 12 gennaio. Smettessero intanto loro di rimestare nel torbido libico appoggiando l’uno Haftar e l’altro al-Sarraj. Naturalmente non lo faranno, anzi proprio quel loro comunicato sembra preludere ad una sorta di spartizione della Libia ricalcando quanto hanno già fatto in Siria. E l’Italia, ci chiederemo noi? Rimane ininfluente tanto quanto l’Unione europea. Ormai i giochi in Libia sembrano fatti solo dalla forza delle armi e non dalle parole.
L’attivismo di Turchia e Russia sullo scacchiere libico ha radici lontane che affondano nella storia dei due imperi, ottomano e zarista. Costantinopoli fu padrona fin dal Cinquecento delle province di Tripolitania e Cirenaica, alle quali dovette rinunciare il 18 ottobre 1912, quando la firma di un trattato pose fine alla guerra italo-turca che si trascinava da un anno. Era il primo trattato di Losanna, da non confondersi con il secondo, che undici anni più tardi regolerà i rapporti fra le potenze vittoriose dell’Intesa e la nuova Turchia democratica uscita dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale e dal disfacimento dell’impero. I turchi dovettero rassegnarsi anche alla perdita del Dodecanneso, l’arcipelago egeo strategicamente collocato nei pressi dei Dardanelli, il mitico Ellesponto caro alle memorie classiche. L’Italia aveva occupato quelle isole per esercitare un’ulteriore pressione, impegnandosi a restituirle se fosse cessata la resistenza libica all’occupazione militare, di cui Roma addossava proprio ai turchi la responsabilità. Poiché la resistenza continuò (fu soffocata soltanto con la brutale campagna condotta fra il 1930 e il ’31 dal generale Rodolfo Graziani contro i ribelli guidati dall’eroe nazionale Omar al-Mukhtar) il Dodecanneso rimase parte integrante del bottino coloniale. Un sola concessione fu fatta alla Turchia sconfitta, il riconoscimento di una convenzionale autorità religiosa in Tripolitania e Cirenaica offerto come segno di rispetto per la tradizione islamica di quei territori, con il trasparente obiettivo di disinnescare una potenziale motivazione della resistenza. Le due province libiche, che erano ben distinte per retaggio storico, etnico e culturale, furono unificate proprio durante l’occupazione italiana. Fu allora che nacque la Libia come entità territoriale compatta, che dopo la fine del periodo coloniale si trasformò successivamente nel Regno di Libia, nella Jamahiria del colonnello Gheddafi, fino all’attuale Stato di Libia sprofondato in una caotica guerra civile. Nella quale è tuttora visibile in controluce l’antico dualismo fra le storiche province turche. Non a caso i due maggiori poteri attualmente in lotta per il predominio territoriale e il controllo dei giacimenti e degli impianti petroliferi, quello riconosciuto dalle Nazioni Unite di Fayez al-Sarraj e quello di Abdullah al-Thani, l’uomo che ordinò al generale Khalifa Haftar di «liberare» la capitale, hanno sede rispettivamente a Tripoli e a Tobruk, cioè appunto in Tripolitania e in Cirenaica. Sono meno evidenti, ma non meno significative, le radici storiche dell’interesse di Mosca nei confronti di questo tormentato Paese. Nel gennaio del 1946, mentre si discuteva sul destino delle ex-colonie italiane, in una conferenza ministeriale a Londra si fece avanti il rappresentante dell’Unione Sovietica, chiedendo che all’Urss venisse affidata l’amministrazione fiduciaria della Tripolitania e di un’altra ex-
Putin e Erdogan hanno appena inaugurato una nuova infrastruttura (Turkstream) che porta il gas russo a Turchia e Europa. (AFP)
colonia, l’Eritrea. L’amministrazione fiduciaria, o trusteeship, era il sistema che nell’Organizzazione delle Nazioni Unite aveva sostituito il mandato della Società delle Nazioni con cui nel precedente dopoguerra erano state gestite dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dal Belgio le colonie strappate alla Germania sconfitta. Il trusteeship prevedeva la gestione diretta del territorio da parte di una potenza amministratrice scelta dalle Nazioni Unite e sotto il loro controllo, con la missione di preparare il paese all’indipendenza entro un termine concordato. La richiesta sovietica suscitò perplessità e sorpresa. Era difficile immaginare che l’Urss, avversa alle pratiche colonialistiche delle potenze occidentali, potesse essere interessata ad assumere una funzione di questo tipo. In realtà c’era una forte motivazione in proposito, che aveva la sua origine nella storica ossessione russa dell’accesso ai mari caldi attraverso il Bosforo e i Dardanelli, gli stretti sotto controllo turco che collegando il Mar Nero al Mediterraneo sono sempre stati fonte di attriti fra Mosca e Costantinopoli. Nel confuso Dopoguerra e nel nuovo clima di contrapposizione ideologica, questa auspicata proiezione verso l’occidente mediterraneo era rafforzata dall’opportunità di completare, con le consolidate posizioni nell’Europa orientale conquistata dall’Armata rossa, l’accerchiamento del «nemico di classe». L’Unione Sovietica insistette nella richiesta anche dopo avere rinunciato a ogni pretesa sull’Eritrea. Si parlò addirittura di baratto Trieste-Tripoli: nei segreti meandri della diplomazia, Mosca si dichiarò infatti pronta, pur di ottenere il sospirato posto al sole sulla costa nordafricana, a esercitare pressioni sulla Jugoslavia del maresciallo Tito, che ancora non aveva messo in discussione l’ortodossia filo-sovietica, perché rinunciasse alle sue aspirazioni sulla città adriatica. Per insediarsi a Tripoli il Cremlino era dunque disposto a cedere all’Occidente non più alleato ma avversario una posizione chiave a ridosso della cortina di ferro. Ma le cose andarono diversamente. Trieste tornò all’Italia dopo un periodo di amministrazione militare alleata. Quanto alla Tripolitania, fu nuovamente unita alla Cirenaica, che Londra aveva rivendicato sulla base del fatto che proprio da lì era stato lanciato l’attacco italo-tedesco alle forze britanniche in Egitto, e ottenne l’immediata indipendenza. Il neonato Regno di Libia fu affidato al sovrano senussita Idris, che sarà detronizzato nel 1969 dall’allora capitano Gheddafi. Dopo la fine di quest’ultimo e il caos che ne è seguito ora sono Turchia e Russia, l’una e l’altra visibilmente tentate da ambizioni neo-imperiali, gli attori principali sull’accidentato territorio libico. Mosca sostiene Haftar nella sua offensiva verso Tripoli, Ankara si è schierata al fianco di al-Sarraj. Sapremo presto se si tratta di reale confronto o di spartizione concordata, magari lungo la linea tradizionale del dualismo Cirenaica-Tripolitania.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I progressi della statistica Il nostro ufficio cantonale di statistica ha compiuto 90 anni e li ha festeggiati lo scorso mese di febbraio al Castelgrande di Bellinzona. Ci sono stati i discorsi di rito e gli oratori hanno messo in evidenza quanto necessarie siano le statistiche per chi governa un paese, sia pur piccolo come è il Cantone Ticino. Che chi ha celebrato l’anniversario dell’USTAT abbia insistito sulla sua necessità delle statistiche è un bene perché da un paio di decenni, con i cambiamenti intervenuti nella politica cantonale, è purtroppo l’opinione contraria che sembra avere il vento in poppa. Per quanti membri del Gran Consiglio ci siano che sostengono come sia necessario disporre, in un’amministrazione moderna, di statistiche aggiornate, complete e, nella maggior misura possibile, rappresentative, altrettanti ve ne sono che delle statistiche se ne infischiano o che le utilizzano quasi sempre a sproposito. Questi negatori dell’importanza dell’informazione numerica sono
anche quelli che premono di continuo per tagliare i mezzi di cui il nostro ufficio di statistica cantonale può ancora disporre. Ma siccome la nostra non era un’intenzione polemica, parliamo d’altro.
Parliamo dei progressi che l’USTAT ha fatto nei primi novant’anni di vita. Partito in sordina per iniziativa di coloro che, dovendo raccogliere informazioni quantitative a sostegno delle rivendicazioni che il Consiglio di Stato intendeva formulare verso il governo della Confederazione, l’Ufficio cantonale di statistica ha cominciato a svilupparsi, prima della seconda guerra mondiale e nei decenni seguenti a questo conflitto, approfondendo due filoni principali. Il primo era costituito dai censimenti federali della popolazione e delle aziende che dovevano venir organizzati su scala cantonale. Il secondo filone era invece rappresentato dalla raccolta e dalla pubblicazione di dati che venivano prodotti dalle attività amministrative dello Stato e dei comuni, nonché dal reperimento in maniera continua, ma non sistematica, di informazioni sulle attività dell’economia ticinese. Il risultato più evidente di questo lavoro era costituito dall’annuario
statistico del Cantone Ticino. Fin verso la fine degli anni Settanta, la raccolta e la pubblicazione dei dati furono le uniche attività svolte dal piccolo gruppo di collaboratori dell’USTAT: È solo con l’arrivo alla direzione dell’Ufficio di Elio Venturelli, che veniva da un’esperienza di ricerca empirica, svolta presso i servizi del Dipartimento di educazione, che alle attività tradizionali comincia ad aggiungersi quella dell’analisi e valutazione dei dati raccolti. Così, negli anni Ottanta dello scorso secolo, l’USTAT fa un salto di qualità che si rileva direttamente nel cambiamento del formato e nell’intensificazione delle pubblicazioni. Accanto all’annuario, pubblicato ora in due volumi (Cantone e Comuni) si aggiungono pubblicazioni non solo sull’evoluzione demografica, ma su un ventaglio di temi sempre più largo e interessante. Lo sviluppo delle attività pubblicistiche dell’USTAT raggiunge il suo acme con l’apparizione della
rivista «Dati – statistiche e società» pubblicata dapprima trimestralmente e, in seguito, solo semestralmente. Una pubblicazione che anche dal profilo scientifico proietta l’ufficio di statistica ticinese in prima fila, in Svizzera, tra le istituzioni che fanno ricerche empiriche nelle scienze sociali (nell’immagine, l’edizione dedicata ai 90 anni). Non da ultimo perché, proprio grazie a «Dati», l’USTAT si è profilato come l’istituzione di riferimento per eccellenza per quanti, in Ticino e fuori, si occupano di ricerche empiriche sulle realtà socio-economiche del Cantone. Questi progressi e questi eccellenti risultati sono stati compiuti e raggiunti grazie, da un lato, alle iniziative prese dai direttori dell’Ufficio succedutisi sin qui e, dall’altro, dall’avvedutezza dei politici che, dagli anni Settanta ad oggi, hanno assunto la direzione del Dipartimento dell’economia. Noi, che dell’analisi dei dati della realtà ticinese abbiamo fatto una ragione di vita, non possiamo che esser loro riconoscenti.
così tanta gente al lavoro: AfricanAmerican, Asian-American, HispanicAmerican». Come a dire: il trumpismo fa bene a tutti, ai ricchi ma pure ai poveri, ai nativi come agli immigrati. Resta da vedere se il confronto con l’Iran rafforzerà questo racconto. O se lo metterà a repentaglio. Il «New York Times» ha pubblicato l’altro giorno un interessante editoriale di Elizabeth Cobbs e Kimberly C. Field che tentava di rispondere alla domanda-chiave: «Perché l’America ha ucciso Suleimani?». La risposta potrebbe essere ovvia: perché, nella fase in cui si sta ritirando dalla regione, vuole dimostrare che può ancora colpire e non è disposta a lasciare troppo spazio all’Iran. Ma la crisi mediorientale è anche l’occasione per porsi un’altra domanda: l’America ha oggi una strategia? E quale sarebbe la migliore? Semplificando forse un po’ troppo, Cobbs e Field sostengono che nella sua
storia l’America ne abbia avute solo due. Quella di George Washington, il cui corollario è la dottrina Monroe: non abbiamo bisogno di alleati; l’Europa non ha diritto di interferire Oltreoceano. E quella di Harry Truman, basata al contrario sulla costruzione di una rete di alleanze per contrastare il nemico sovietico. Vinta la Guerra fredda, l’America oscilla ora fra tre diverse strategie. Poliziotto del mondo, pronto a intervenire nelle crisi interne dei vari Paesi, da Haiti alla Somalia, dal Kuwait all’ex Jugoslavia: un po’ quello che fecero Bush padre, Clinton e – con avventatezza – Bush figlio; e palesemente non ha funzionato. La seconda strategia è quella denominata «Fortezza sulla collina»: come se l’America fosse un fortilizio equipaggiato per tutto, compresa una nuova guerra fredda con la Cina, da combattere con le armi dei dazi e dello spionaggio elettronico. La terza strategia è quella
della «Città sulla collina»: ritiro dai teatri di guerra; massicci investimenti in infrastrutture; ammodernamento dell’esercito come deterrente. Trump oscilla tra queste due ultime visioni. Con quel pizzico di imprevedibilità che, se usata bene, può essere una forza; ma che può anche provocare disastri. Rimane da capire se sarà ancora lui il presidente per i prossimi quattro anni. A novembre si vota, e i democratici non hanno ancora un leader. Sono divisi tra l’ala radicale, guidata da Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, e l’ala moderata. Personalmente sono convinto che alla fine il candidato democratico sarà Joe Biden. E che possa battere Trump, riconquistando Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. Anche se battere un presidente in carica non è mai facile. Soprattutto quando spirano venti, se non di guerra, di crisi aperta.
lice Anno Nuovo, Joyeux Noel e Frohe Festtage, era quasi inevitabile che la scelta cadesse sulla felicità. Così mi sono tuffato tra i «cartafazzi» dei miei Acta più vecchi alla ricerca di spunti che consentissero di dare corpo e possibilmente anche un po’ di anima al tema di questa prima rubrica dell’anno. Regola numero 1: niente concetti o discorsi impegnativi, anche perché la felicità, forse per colpa dell’indifferenza o dell’assuefazione che impediscono di prestare attenzione alle cose più preziose della nostra esistenza, non è un argomento facile da inquadrare. Alla fine mi sono ritrovato con due documenti sull’allegria molto distanti l’uno dall’altro. Il primo riportava questo pensiero: «Spesso è necessario riflettere sul perché siamo allegri, ma sappiamo sempre perché siamo tristi». È uno straordinario aforisma (scovato nella miniera del «Detti e contraddetti» di Karl Kraus) che ci ricorda come la tristezza sia, se non connaturata, sempre presente in noi, talmente inva-
siva che abbiamo difficoltà a far caso ai nostri momenti felici. L’altro era invece un passaggio di una lunga intervista fatta da una giovane Oriana Fallaci nel 1963 a Antonio De Curtis, in arte Totò, e pubblicata sulla rivista l’«Europeo». Interrogato sulla sua religiosità, Totò chiude la sua risposta con queste malinconiche parole: «L’ho scritto anche in una poesia: “Felicità: vurria sapé che d’è / chesta parola. Vurria sapé che vvo’ significà”. Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza». Alla fine ho optato per un accostamento fra questi due giudizi dei miei «almanacchi nascosti», perché il ritratto un po’ malinconico della felicità proposto da Totò offre una perfetta spiegazione del giudizio sintetizzato nell’aforisma di Kraus. Ma anche perché consente di augurare al lettore di riuscire a far caso, nel 2020, a tanti «attimi di dimenticanza».
In&outlet di Aldo Cazzullo Le tre strategie americane Eliminare il numero 2 del regime iraniano è una reazione sproporzionata rispetto a un fatto serio ma non irrimediabile come una chiassata di fronte all’ambasciata americana a Baghdad. Le sedi diplomatiche dovrebbero essere sacre; ma usando questo metro Carter avrebbe dovuto bombardare Teheran, quando i pasdaran tenevano i diplomatici Usa in ostaggio. Tentò invece un maldestro blitz, naufragato nel deserto, che gli costò la rielezione. Ma Reagan non usò la forza; liberò l’ambasciata con la diplomazia. Donald Trump ha invece eliminato il generale Qassem Suleimani con un drone. Quella iraniana è la prima vera crisi (Corea del Nord a parte) che il 45esimo presidente degli Stati Uniti si trova ad affrontare. Pur attento a non scatenare nuove guerre, Trump ha capovolto la strategia di Obama verso Teheran. Ora, drammatizzando la si-
tuazione ed esponendosi alla vendetta degli ayatollah, si è messo in pericolo; anche se poi ha usato parole distensive, dicendo in sostanza «finiamola qui». Il regime di Teheran è odioso; ma attaccarlo, in un momento in cui veniva contestato dall’interno, rischia di rafforzarlo. In realtà, la campagna elettorale americana è già cominciata. A Capodanno Trump non ha tenuto discorsi, ma ha risposto alle domande dei giornalisti. Era in smoking, teneva per mano Melania in abito da sera luccicante, sullo sfondo si sentiva una musica ballabile. Alla fine, sollecitata da una cronista, ha parlato anche Melania, auspicando la pace nel mondo. Poi Trump ha ripreso brevemente la parola, pronunciando una frase che sarà il leitmotiv della sua campagna: «America has never done better», l’America non ha mai fatto meglio di così. «Mai così pochi disoccupati. Mai tasse così basse. Mai
Zig-Zag di Ovidio Biffi «Momentini minuscolini» di felicità Ogni fine anno il mondo giornalistico gareggia per offrire servizi mirati a riepilogare i principali avvenimenti o a rievocare personaggi, tematiche o qualcosa (ultimo grido: la parola dell’anno) che in qualche modo abbia segnato o rappresenti i 12 mesi trascorsi. È un esercizio che, accanto a una ritualità più che scontata (inizia ormai verso metà dicembre), presenta comunque anche risvolti positivi. Su tutti spicca la rivista americana «Time» che ormai da un secolo annuncia a tutto il mondo la sua scelta (il primo fu per Charles Lindbergh, indicato come personaggio del 1927 e undici anni dopo era seguito da... Adolf Hitler), dando il via a tutta una pletora di alternative quest’anno favorite anche dalla fine di un decennio. Ho sempre subìto un’attrazione particolare, diciamo pure un contagio, da questo rito. Così ancora oggi – nonostante la pensione da oltre 12 anni cerchi di frenarmi con un «take it easy» piuttosto che un «piantala» – mi trovo a fantasticare e a buttar giù
idee o scalette che a mio avviso ogni direttore di giornale o rivista potrebbe ospitare (giuro: non le ho mai proposte a nessuno). Ogni fine anno sogno una o più pagine, massimamente le due pagine centrali, che per me da sempre sono simili a campi di atterraggio per idee e fantasie. Era uno sfizio che un tempo potevo togliermi grazie alla magnanimità e all’apertura culturale dell’editore Migros Ticino che ogni Natale e ogni fine anno consentiva alla redazione di offrire straordinari contributi ai lettori di Azione. Li riempivo con contributi di artisti e scrittori, a cui facevano seguito aforismi, fotografie, vignette e scritti brevi raccolti durante i 12 mesi. Davo un senso a queste selezioni rievocando l’ordine di pubblicazione oppure seguendo i principali argomenti, le novità o gli avvenimenti registrati nel corso dell’anno. Così, seguendo quel ghiribizzo professionale, e l’illusione che qualcuno possa ancora oggi arrivare a chiedermi di riproporre quegli «almanacchi moderni»,
io continuo ancora imperterrito ad accumulare storie, aforismi, dichiarazioni, vignette, fotografie a cui si sono aggiunti anche tweet e video che «nascondo» in una cartella del mio Mac denominata «Acta». Lo so che nessuno le leggerà mai e che un bel giorno (si fa per dire) qualcuno userà il tasto «delete» per polverizzare l’intera collezione di questi miei sogni. Ogni tanto però, rileggendole a distanza di anni, le tessere dei miei «almanacchi nascosti» mi dispensano ancora qualche traccia o prezioso suggerimento. È capitato anche dopo l’ultimo Natale, mentre ero alla ricerca di un tema da proporre a inizio anno. Non avevo fatto i conti con scadenze e dettami redazionali; così alla fine mi sono accorto che la pubblicazione sarebbe slittata a dopo la Befana, quindi ben oltre il periodo più indicato per proposte giornalistiche che sfarfallano dalle rievocazioni dell’anno finito ad aspettative per quello che inizia. Alla fine, trovando sulla scrivania biglietti di Fe-
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Cultura e Spettacoli La foto nell’illustrazione La mostra su Dudovich al m.a.x. di Chiasso offre uno sguardo diverso sull’arte dell’illustrazione pubblicitaria pagina 32
Il cinema come un buco nero A Ginevra sta per prendere il via Black Movie, la manifestazione cinematografica più anticonformista del Paese
Il teatro in carcere Il regista, drammaturgo e attore italiano Armando Punzo, attivo da anni nelle carceri italiane, è stato recentemente a Bellinzona pagina 34
pagina 33
Antonio Canova, Endimione dormiente. (Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova 2019, Fond. Canova onlus; foto Lino Zanesco)
Canova, la bellezza che non passa
Mostre A Roma una grande esposizione celebra lo scultore veneto Antonio Canova (1757-1822), colui che seppe
far «rinascere l’Antico nel Moderno» Blanche Greco È nel bel mezzo di una piroetta o forse di un saltello la Danzatrice con le mani sui fianchi, l’abito leggero tirato su a scoprire le caviglie sottili e i piedi in procinto di staccarsi dal suolo, mentre il viso dall’espressione maliziosa ha la bocca atteggiata in un sorriso gioioso e divertito, così più che una statua quasi di grandezza naturale, sembra un incantesimo: l’essenza dell’armonia e della bellezza femminile colta in un guizzo da Antonio Canova (1757-1822) e trasferita in un marmo che sembra lieve come un passo di danza. La statua proviene dal Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo ed è uno dei capolavori esposti nella mostra romana: Canova. Eterna Bellezza allestita a Palazzo Braschi che racconta l’artista e l’uomo Antonio Canova soprattutto nel suo rapporto con Roma, i suoi Papi e gli eventi del suo tempo, attraverso le opere, i bozzetti, i gessi, le lettere, le scelte e anche le battaglie come «ispettore delle Belle Arti» nominato dal Pio VII. Uno scultore celebrato dai suoi contemporanei, che ebbe commesse da tutte le case regnanti d’Europa, compreso Napoleone e Thomas Jefferson. Un uomo colto dalla biblioteca sterminata, studioso appassionato di arte classica, come racconta Giuseppe Pavanello, uno dei massimi esperti dello sculto-
re veneto, curatore della mostra che si articola in tredici sezioni con centosettanta opere, non solo di Canova, ma in parte anche di suoi contemporanei per raccontare il vivace contesto che questi, ventiduenne, trovò al suo arrivo a Roma nel 1779. La mostra mette in luce la modernità delle opere di Antonio Canova, artista capace di far «rinascere l’Antico nel Moderno» e di far affiorare dal marmo sentimenti ed emozioni, tutto all’opposto del «freddo classicismo» di cui venne accusato in seguito. Così nelle prime sale sono messi a confronto quattro grandi gessi: Apollo del Belvedere statua antica e il Perseo Trionfante di Canova dalle forme apollinee; e ancora l’antico Gladiatore Borghese contro il canoviano Pugilatore Creugante muscoloso e possente. Subito dopo si rimane affascinati dall’umana fragilità che emana la figura accasciata della Maddalena penitente di Canova, soggetto sacro che i contemporanei definirono «un’opera figlia del cuore»; e accanto a lei ammiriamo l’Amorino Alato, scultura creata invece, con uno sguardo all’antico; poco più in là la statua di Amore e Psiche stanti dove la bellezza delle due figure pare legata da un segreto e intimo affetto. Dei più noti monumenti funerari creati dall’artista e ricordati in mostra con modellini e gessi anche di grande formato, affascina
il busto di Papa Clemente XIII nella sua assorta naturalezza, la statua in marmo è collocata a San Pietro come quella di Clemente XIV e il Monumento agli ultimi Stuart, famoso per la conturbante nudità e la bellezza dei due angeli piangenti, ancora oggi amati e «accarezzati» da folle di visitatori. «Il ricchissimo ventaglio della creatività di Canova riesce ad esprimere ogni volta cose completamente diverse. Basti pensare che nella fase finale della sua carriera», ci ha raccontato Giuseppe Pavanello, «non solo progetta La Religione, una statua che doveva essere alta otto metri dall’espressione severa che non venne mai realizzata (è la «mamma» della statua della Libertà di New York), ma contemporaneamente scolpisce l’Endimione Dormiente opera di straordinaria sensualità da noi evocata sia nel modello in gesso che con il calco in marmo, per far capire al visitatore la differenza tra le due versioni. La statua di marmo invece è in Inghilterra». La mostra Canova. Eterna Bellezza è un suggestivo viaggio nel tempo, e nel percorso non solo viene ricreato l’atelier dello scultore di Via delle Colonnette (vicino a Piazza del Popolo), ma l’illuminazione stessa delle sale è studiata in modo da evocare quella prediletta da Canova che riceveva clienti e viaggiatori del Grand Tour solo di sera
e alla luce delle torce, perché le ombre e i chiaroscuri che provocava, parevano quasi dar vita alle statue, alcune delle quali erano collocate su piedistalli girevoli, come quello sul quale è esposta, a Palazzo Braschi, la Danzatrice con le mani sui fianchi. «Canova voleva che il visitatore rimanesse fermo a guardare la statua animarsi», spiega ancora Pavanello, «abbiamo ancora molte delle sue statue di marmo sulle basi originali che si girano, e tra queste vediamo qui anche Ercole e Lica che pure è una montagna di marmo. È il mito di Pigmalione che fa la statua di Galatea, se ne innamora e la vuole “viva” e Canova aveva questa idea, che il marmo doveva essere “carne”, che è anche un’idea molto veneziana e neotizianesca per cui Paolina Borghese è come una venere di Tiziano, non è quindi solo un riferimento all’antico, ma anche alla pittura veneziana, ricordando così le origini di questo artista». Ma sbaglierebbe chi immagina Canova preso solo dalla propria arte, infatti è proprio lui che in veste di Ispettore generale delle Antichità nel 1802, difende il patrimonio artistico di Roma dalle brame di ricchi acquirenti e aggressivi monarchi facendo emanare un bando che vieta l’esportazione di opere d’arte. Se nel caso del Fauno Barberini (in mostra in una copia in gesso) spettacolare scultura ellenistica che Ludwig di Ba-
viera riuscì a farsi dare dal Papa, Canova subì una bruciante sconfitta, pochi anni dopo, nel 1815, all’indomani di Waterloo, fu proprio lui, grazie alla sua fama internazionale e alla sua diplomazia, a ottenere dai francesi la restituzione di una parte delle opere razziate da Napoleone a Roma e in altre città della penisola. Un’impresa lunga e difficile che lo prostrò anche fisicamente, come si può leggere in una sua lettera in mostra, in cui scrive: «Non dormo. Non mangio. Non dormo e non mangio da giorni. Agitazione di stomaco, dubito di cadere ammalato». La mostra Canova. Eterna Bellezza si conclude con la sorprendente serie di fotografie di grande formato di Mimmo Jodice che con il suo obbiettivo ha colto le eleganti posture delle sculture più famose di Canova, inseguite nei vari musei, immortalandone i volti e gli abbracci in trenta primi piani tanto rivelatori da sembrare quasi indiscreti che mettono a nudo l’anima romantica dell’artista. Dove e quando
Canova. Eterna Bellezza, Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi (ingresso Piazze Navona e San Pantaleo). Orari: ma-do 10.00-19.00; lu chiuso. Fino al 15 marzo 2020. www.museodiroma.it
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Cultura e Spettacoli
Dalla fotografia alla pubblicità
Mostre Il m.a.x. museo di Chiasso ospita i cartelloni del grande maestro Marcello Dudovich Alessia Brughera Marcello Dudovich è considerato uno dei padri del moderno cartellonismo pubblicitario. Anzi, per molti incarna il simbolo stesso del manifesto italiano. Sempre al passo con i tempi e insieme rispettoso della tradizione, l’artista triestino, classe 1878, è stato un grande innovatore che in oltre cinquant’anni di attività ha dato vita a centinaia e centinaia di opere seguendo con discrezione le correnti figurative e maturando altresì un linguaggio personale e all’avanguardia.
Dudovich è stato uno dei pochi illustratori della sua epoca ad affidarsi anche alla fotografia Molti dei suoi lavori sono diventati celeberrime composizioni che hanno raccontato soprattutto gli agi della borghesia italiana, un universo fatto di mondanità, abiti eleganti e donne disinvolte che ha veicolato con efficacia messaggi nell’inconscio dello spettatore, lasciando un segno indelebile nella sua mente. Nelle affiche di Dudovich compaiono figure femminili raffinate e disincantate così come uomini affascinanti e seducenti, tutti immortalati in una varietà di posture capaci di restituirne un’immagine dal forte impatto visivo.
Ma da dove venivano desunti quegli atteggiamenti, quelle movenze e quegli sguardi così riusciti? Quelle pose che sapevano rendere le donne così impeccabili o i modelli maschili così attraenti e al tempo stesso così reali? Inesauribile fonte d’ispirazione per Dudovich sono state le fotografie, istantanee che egli stesso scattava o che venivano realizzate da familiari e amici o, ancora, da celebri fotografi. Un materiale estremamente prezioso per l’artista, questo, a cui egli ha attinto per trarne spunti ideativi funzionali alla sua feconda produzione. Dudovich è stato uno dei pochi affermati illustratori dell’epoca a fare del medium fotografico un valido strumento di supporto alla propria arte e ciò è ancor più significativo se si pensa che per il maestro l’utilizzo della fotografia è stato una sorta di filo rosso che ha attraversato tutta la sua esperienza professionale e umana. Se fin dalla giovane età Dudovich ha amato molto farsi ritrarre, complici il suo narcisismo e la sua avvenenza, è stato soprattutto tra il 1910 e il 1940 che il suo rapporto con la fotografia è cambiato: il maestro si posizionava adesso dietro l’obiettivo alla ricerca di nuovi gesti e personaggi da «bloccare» nella loro veridicità e da far confluire poi nei manifesti e nelle illustrazioni. Gli scatti alla moglie Elisa Bucchi (giornalista di moda attentissima all’abbigliamento più di tendenza), quelli alle tante ragazze che si prestavano entusiaste a farsi immortalare nello studio o all’aperto, sino ad arrivare a quelli alle dive dello
Marcello Dudovich, Mele & C., Napoli, 1908 (parz.), litografia su carta, Officine Grafiche Ricordi, Milano. (Collezione privata Alessandro Bellanda)
spettacolo che aveva modo di frequentare nei suoi tanti appuntamenti mondani, sono stati per Dudovich una fondamentale risorsa da cui carpire forme inconsuete ma sempre assolutamente naturali.
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Sono state proprio alcune delle fotografie di Dudovich, ben milleduecento, appartenenti a collezioni private, ad aver dato il via all’esposizione allestita negli spazi del m.a.x. museo di Chiasso, una rassegna che ha il merito di indagare un aspetto dell’operato dell’artista rimasto finora inesplorato, quello appunto del legame tra la fotografia e la cartellonistica. Particolarmente interessante, difatti, è riuscire a cogliere attraverso il materiale esposto il processo creativo dell’artista dallo scatto al manifesto, e, in taluni casi, persino dallo schizzo con cui Dudovich tracciava le linee guida per effettuare l’istantanea e dal bozzetto ispirato alla stampa fotografica. La mostra, che si inserisce nel contesto della Biennale dell’immagine di Chiasso Bi11 e che nella primavera del 2020 sarà ospitata presso il Museo Scuderie del Castello di Miramare di Trieste, raccoglie più di trecento pezzi, tra fotografie originali vintage, schizzi, bozzetti, manifesti, riviste e copertine, che documentano l’intera attività di Dudovich. A inizio percorso, accanto a una selezione di scatti che ritraggono l’artista negli anni dei suoi esordi professionali a Milano e Bologna, troviamo alcune fotografie eseguite da Dudovich del periodo in cui, chiamato a collaborare con la rivista satirica «Simplicissimus» di Monaco di Baviera in qualità di disegnatore della pagina mondana, viaggia di continuo nelle più rinomate località d’Europa per eternare i fasti di una Belle Époque ormai agli sgoccioli. È proprio grazie a questa esperienza che Dudovich incomincia a comprendere le enormi potenzialità della fotografia quale materiale visivo da tenere sott’occhio nell’elaborazione dei suoi lavori. Questi sono anche gli anni della collaborazione dell’artista con i Magazzini Mele di Napoli, di cui in mostra sono presenti alcune affiche che spiccano per sintesi formale, e con il marchio Borsalino, di cui è esposto quel manifesto datato 1911 (con relativa fotografia della poltrona protagonista) che inizialmente proprio non era piaciuto al patron delle Officine Grafiche Ricordi per l’assenza della figura umana e per la tinta «zafferano» che tanto ricordava un risotto alla milanese, ma che poi vinse il Concorso Nazionale dei grafici pubblicitari indetto dalla nota marca di cappelli facendo conquistare a Dudovich la stima del committente. Sono presenti anche molte opere
realizzate negli anni Venti e Trenta, il momento di maggior successo dell’artista. La donna, non più idealizzata e distante, viene rappresentata nella sua bellezza reale. E, puntualmente, ecco anche le istantanee da cui, con metodicità, Dudovich ha estrapolato gli elementi utili ai suoi manifesti: leggiadre dame avvolte in abiti e veli fluttuanti si mettono in posa sulla spiaggia secondo le direttive del maestro, danzando e muovendosi con gestualità accentuate per fornirgli la movenza perfetta da immortalare. Bella, in particolare, l’affiche del 1922 per la Rinascente, dove sulla battigia appare una giovane a passeggio con il cane, immagine di estrema emancipazione e modernità. Il serrato dialogo tra fotografia e manifesto si coglie anche nei lavori legati al mondo del cinema, di cui Dudovich era molto appassionato, e dello spettacolo, con attrici, cantanti e soubrette famose (da Maria Melato, a Nella Regini a Ines Lidelba) a fare da muse ispiratrici per regalare all’artista memorabili scatti da usare come materiali pubblicitari. Preziosa sezione della mostra chiassese, poi, è la raccolta di una ventina di fotografie di Leopoldo Metlicovitz, concittadino di Dudovich e suo mentore negli anni di formazione alle Officine Grafiche Ricordi. Questo piccolo ma significativo nucleo di opere ci offre la possibilità di fare un paragone diretto tra i due artisti, svelando come al lavoro fotografico di Dudovich, anche nel confronto con stimati e abili colleghi, appartenesse quell’estrema disinvoltura che è stata il suo indimenticabile marchio di fabbrica. Dove e quando
Marcello Dudovich (1878-1962) fotografia fra arte e passione. m.a.x. museo, Chiasso. Fino al 16 febbraio 2020. L’esposizione è curata da Roberto Curci e Nicoletta Ossanna Cavadini. Orari: ma-do 10.0012.00/14.00-18.00. www.centroculturalechiasso.ch Sabato 18 gennaio 2020, alle ore 17.00, nelle sale del m.a.x. museo (solo con il pagamento del biglietto d’ingresso alla mostra) si potrà assistere alla performance «Danza e mistero». Omaggio alla danzatrice Charlotte Bara, Premio svizzero patrimonio della danza 2018, coreografia e regia Tiziana Arnaboldi, interprete Eleonora Chiocchini, ricerca musicale Mauro Casappa.
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Cultura e Spettacoli
Cinema, pozzo senza fondo
Rassegne Black Movie, il festival cinematografico ginevrino che non lascia indifferenti
Muriel Del Don Dopo aver festeggiato con brio la sua ventesima edizione, il festival ginevrino Black Movie ritorna quest’anno sulle sponde del Lemano con una programmazione a dir poco allettante, singolare e decisamente controcorrente. Sì, perché il Black Movie di normativo e consensuale non ha davvero nulla. Il motto delle sue carismatiche e intriganti direttrici Kate Reidy e Maria Watzlawick è sempre stato lo stesso: regalare a Ginevra un festival cinematografico «diverso», una vetrina internazionale del meglio del cinema alternativo. Al Black Movie il termine «alternativo» è da interpretare in senso ampio poiché il festival ingloba film molto diversi tra loro: dal kitsch low budget in stile John Waters al cinema verità in presa diretta, passando per opere sperimentali tra poesia e ultra modernità. Insomma, le direttrici del festival non indietreggiano di fronte a nulla, solo la qualità dell’opera conta. Il cinema si trasforma in un mezzo per svegliare le coscienze, espressione artistica che spinge il pubblico a riflettere su problematiche spesso scomode quali il razzismo, l’omofobia o ancora la violenza contro le donne e la radicalizzazione. Unico nel paesaggio dei festival di cinema svizzeri, il Black Movie si impone grazie a una programmazione sempre esigente composta da film inediti (spesso esclusi dai circuiti ufficiali di distribuzione) e capitanata da una nuova generazione di cineasti che privilegiano scelte estetiche e narrative audaci e intransigenti. Durante le passate venti edizioni, numerosi sono stati i giovani registi che hanno potuto mostrare a un pubblico internazionale, curioso ed esigente, le loro prime o seconde opere. Per la ventunesima edizione il Black Movie si avvale di una concezione grafica accattivante e misteriosa firmata Neo Neo, un duo di creativi attivi a Ginevra nel campo del grafismo e della direzione artistica. Sul poster una piscina tutta nera domina all’esterno d’una villa californiana apparentemen-
te disabitata, il tutto arricchito dalla scritta «Black Movie» in lettere cubitali gialle. Come detto dalle direttrici durante la conferenza stampa, questa piscina nera rappresenta la nostra società capitalista, disperatamente standardizzante, in opposizione ai film programmati dal festival, alternativi e atipici. A completare l’universo décalé del festival, l’istallazione dell’artista Cetusss composta da una serie di cactus gonfiabili disseminati nelle varie locations. Dal 17 al 26 gennaio il Lemano si trasformerà quindi, grazie al Black Movie, in una piscina multicolore nella quale tuffarsi alla ricerca di emozioni forti. In totale 102 film, dei quali 53 lungometraggi e 49 corti e non meno di 22 invitati alimenteranno la nuova edizione in un’atmosfera sempre festiva e inclusiva. Delle produzioni in provenienza da 43 paesi: una prima internazionale, tre prime europee e 59 prime svizzere, suddivise in dieci stuzzicanti sezioni: il «Petit Black Movie pour adultes» che accoglierà una serie di cortometraggi dal sapore acidulato, «La fureur de voir», sezione dedicata a giovani protagonisti alle prese con le difficoltà della vita ma sempre animati da un «furore di vivere» che li rende per certi versi invulnerabili, «Solitaires singuliers» che mette in scena le innumerevoli facce dell’isolamento, «À suivre…», vera e propria vetrina per i cineasti preferiti del festival, «Labyrinthe des femmes» che metterà in scena delle eroine moderne che lottano per i loro diritti, «Marcos, Ceausescu&cie», sezione che raggruppa sei coraggiose finzioni ispirate dalle derive del potere autoritario, «Rituels» che permetterà al pubblico di assaporare delle opere magiche accomunate dall’idea di rituale come antidoto al caos, e infine «Poor Lonesome Cowboys», ricettacolo di sei film stranianti abitati da personaggi solitari che ricordano i cowboys selvaggi dei western americani (e italiani). Impossibile non citare anche la retrospettiva dedicata al documentarista algerino Malek Bensmaïl che
Black Movie sarà in scena fino al 26 gennaio.
ha incentrato tutta la sua opera sulle contraddizioni di un paese che sembra non riconoscere più. Una volontà la sua di mantenere viva la memoria e di trasformare il documentario in strumento di riflessione e democrazia. Malek Bensmaïl e Pedro Costa (ancora da confermare) saranno presenti al Black Movie per due eccezionali Masterclass aperte al pubblico. Pedro Costa presenterà a Ginevra il suo ultimo lavoro Vi-
talina Varela (Pardo d’oro a Locarno). Decisamente importante e attuale anche la tavola rotonda «Femmes, Islam et intégrisme religieux» durante la quale il pubblico potrà discutere con gli ospiti presenti delle problematiche legate alla questione delle donne e dell’Islam: come sono definiti i rapporti di genere? Come esprimere la propria identità in quanto donne nei paesi musulmani? Numerosi i film selezionati che
propongono tematiche controverse o ricerche formali audaci. Tra questi, A Girl Missing del regista Koji Fukada, thriller elegante che ci fa entrare nelle viscere di una società nipponica che non permette errori, fredda fino all’ipotermia. Nella stessa sezione «A suivre…» ritroviamo A Tale of Three Sisters di Emin Alper, fiaba realista che esplora le ambivalenze emotive e i dilemmi esistenziali che uniscono le tre eroine. Emin Alper parla di una società patriarcale nella quale le donne ma anche gli uomini devono interpretare un ruolo tristemente prestabilito. Manuel Abramovich affronta anche lui i rapporti di potere attraverso il sorprendente e magnificamente crudo documentario Blue Boy che mette in scena sette escort boys rumeni in un bar berlinese. In un registro più festivo e kitsch ritroviamo Technoboss del portoghese João Nocolau, sorta di ibrido tra una commedia musicale amatoriale e un road movie esistenziale. João Nicolau parla di mascolinità e vecchiaia con uno sguardo al contempo tenero e ironico, come a volerci ricordare che l’autoironia è il miglior antidoto contro l’invecchiamento. Nella stessa vena anticonformista e poetica ritroviamo El prìncipe del cileno Sebastiàn Muñoz, adattamento filmico del libro omonimo di Mario Cruz, un dramma carcerario sull’esplorazione sessuale di un giovane efebo che vuole scoprire se stesso malgrado la violenza che lo circonda. Immancabile anche Basil Da Cunha, una delle giovani speranze del cinema elvetico, che grazie al suo thriller sociale O fim do mundo farà scoprire al pubblico del Black Movie la bellezza crudele della bidonville di Reboleira (alla periferia di Lisbona). Crudele e maestoso anche Acid del giovanissimo beniamino del cinema russo Alexander Gorchilin. Anche se lo meriterebbero, impossibile citare tutti i film presenti, non resta quindi al pubblico che farsi personalmente un’idea tuffandosi nelle acque agitate e misteriose di un festival che non ha certo intenzione di mettere la testa a posto. Annuncio pubblicitario
Il giusto valore ai figli
Cinema The Marriage Story di Noah Baumbach: un film intenso
e ben recitato, in cui il tempo assume una dimensione speciale
Nicola Mazzi Presentato all’ultima Mostra di Venezia e disponibile da qualche settimana sulla piattaforma Netflix, The Marriage Story è uno dei film più importanti e interessanti degli ultimi tempi ed è in corsa per aggiudicarsi alcuni Oscar il
La locandina del film.
prossimo 9 febbraio. Intanto la corsa è partita bene con una statuetta ai Golden Globes per la migliore attrice non protagonista a Laura Dern. Dietro la macchina da presa Noah Baumbach (coautore di un paio di sceneggiature di Wes Anderson e regista, tra gli altri, de Il matrimonio di mia sorella e di The Meyerowitz Stories), uno che sa come scrivere una bella storia. Davanti la cinepresa due attori che passano con naturalezza dalle megaproduzioni Marvel e Disney a film d’autore come questo: Scarlett Johansson e Adam Driver. Accanto a loro altri comprimari di tutto rispetto: appunto Laura Dern, Ray Liotta, Alan Alda e Julie Hagerty. The Marriage Story racconta le vicende che hanno portato Nicole e Charlie sull’orlo del divorzio. Ha, ovviamente, il punto di riferimento più scontato in Kramer contro Kramer, ma può ricordare anche un maestro del cinema indipendente americano come John Cassavetes, autore che aveva alla base di molte pellicole i conflitti di coppia e le difficoltà relazionali. Gli ambienti asettici e stilizzati di Los Angeles rammentano David Lynch, mentre quelli borghesi e newyorkesi sono vicini a Woody Allen. È in questo contesto di riferimenti che si inserisce la produzione di Netflix.
È un film fatto di spazi precisi e caratteristici. I piccoli teatri, gli appartamenti pieni di libri e stretti di New York; le case luminose, ampie e i set enormi degli Studios di Los Angeles. E pure di molte parole. Quelle che ricordano il passato felice della coppia e quelle sul problematico presente. È come se lo spazio e il tempo fossero gli indicatori di una divisione netta tra Charlie e Nicole. Infatti lei proviene da L. A., ha ancora la famiglia che vive nella città degli angeli e da sempre vuole tornare in quell’ambiente. Lui newyorkese d’adozione ha solide radici, amici e lavoro nella Grande Mela. Due modi di vivere diversi (questo nodo narrativo è peraltro anche uno dei catalizzatori del precedente bel film di Baumbach The Meyerowitz Stories) che nel tempo sono diventati inconciliabili. The Marriage Story è sicuramente la storia di una coppia sull’orlo di un divorzio, ma è anche quella della vittima: il figlio. Come dice la rivista «Positif»: «tutto è costruito affinché il bambino – che lo spettatore nel corso del film tende a dimenticare – possa riprendere, alla fine, il posto centrale che non ha mai smesso di occupare». Ecco, il lavoro di Baumbach, in definitiva, fa proprio questo: rimette tutto al posto che gli spetta e dà il giusto valore alle relazioni tra genitori e figli.
Per il reparto logistica della centrale di distribuzione a S. Antonino, cerchiamo una collaboratrice o un collaboratore
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Cultura e Spettacoli
Armando Punzo: un teatro per il riscatto dei sogni
Teatro Il regista, drammaturgo e attore, recentemente ospite del Teatro Sociale di Bellinzona, ha fatto del lavoro
con i carcerati la sua personale e valida cifra artistica Giorgio Thoeni Non c’è regista, attore o drammaturgo o, più in generale, intellettuale o studioso che non sia stato attirato dal carcere come luogo di costrizione, sofferenza, universo di umanità dalle regole fuori contesto. Nessuno ha però vissuto un’esperienza di vicinanza creativa così longeva quanto quella di Armando Punzo (Cercola, 1959), da oltre trent’anni regista, drammaturgo e attore con la Compagnia della Fortezza da lui fondata nel carcere di Volterra nel 1988: un artista che ha saputo interpretare la forza e il valore del teatro attraverso il lavoro con i reclusi. «Chi sta fuori si pensa libero, afferma, perché si misura in relazione al carcere intendendolo solo come mura e cancelli. A me sembra che l’unica libertà vera sia quella da se stessi. Il resto è prigione, dovunque ci si trovi». La sua vicenda umana e la storia della Compagnia della Fortezza corrono fra le pagine di Un’idea più grande di me (Luca Sossella editore, pp. 399); molto più di una biografia, quasi un romanzo di formazione attraverso il racconto appassionante e appassionato della sua avventura artistica scaturito dalle conversazioni tenute con Rossella Menna, studiosa di teatro e saggista. Un intenso e paziente dialogo iniziato nel 2012 dal quale emergono umanità
e sensibilità del regista partenopeo nel riuscire a scrivere pagine teatrali con spettacoli ospitati nei più prestigiosi teatri e festival destinati a imporsi come nuovi orizzonti innovativi, formativi ed etici. Un risultato riconosciuto dalle sfere più autorevoli del mondo artistico italiano e internazionale come riferimento per la scena contemporanea; una conquista ottenuta dopo anni di gioventù passati a coltivare le passioni e le incertezze di un giovane come tanti della sua generazione. Quegli stessi che dopo l’adolescenza spesso non sanno decidere che strada percorrere cercando rifugio negli studi, attraverso titubanze e irrequietezze in attesa di un colpo di fulmine. Per Armando è stato determinante l’incontro con la dimensione teatrale, dapprima con il teatro di strada (e il Terzo Teatro), poi l’incontro con rigorose sperimentazioni fisiche con il gruppo Avventura: limiti da superare tra fatica e resistenza alla ricerca di una realtà diversa dalla tradizionale nozione teatrale. Una sorta di «iniziazione ai segreti del corpo mitico, un corpo originario dalle infinite potenzialità, libero dai condizionamenti sociali e culturali». Percorsi dettati anche dalla lezione di maestri come Barba e Grotowski nel lavoro di registi come Thierry Salmon. Esperienze stimolanti da cui partire
Beautitudo nella messinscena al carcere di Volterra. (Compagnia della Fortezza)
con una decisione che risulterà fondamentale per la sua vita. Nel 1988 chiede di poter realizzare un laboratorio teatrale di duecento ore con i detenuti del carcere di Volterra, un’austera fortezza medicea del XV secolo che ospita criminali e mafiosi. La richiesta gli venne accordata. Inizia così a realizzare il suo sogno in una stanza di tre metri per nove. «In quella stanza», racconta Punzo, «con una spalliera da ginnastica, il pavimento di graniglia, le sedie di plastica bianche, umidità e muffa, e un freddo, un freddo terribile, avevo
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trovato quello che stavo cercando, il posto giusto in cui far reagire il teatro per metterlo alla prova e la mia compagnia, la Compagnia della Fortezza». E dopo momenti di riluttanza e sospetti – «ci sono voluti un paio di anni» – dallo sparuto gruppo dei primi tempi ora il lavoro della compagnia è seguito da un’ottantina di detenuti. Il libro-memoriale mette in luce una ricerca continua, faticosa e instancabile ma non priva di insidie: un’esperienza necessaria per la conquista della fiducia di tutti, dai reclusi agli agenti
di custodia alla direzione dell’istituto penale. Grazie a quel lavoro sono state messe in scena opere, spesso adattate o in parte riscritte con i suoi attori in un confronto costruttivo. Come La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone, Masaniello di Elvio Porta e Armando Pugliese, Marat-Sade da Peter Weiss, Eneide II Studio da Virgilio, I Negri da Jean Genet, Orlando Furioso da Ludovico Ariosto, Macbeth e Dopo la Tempesta da Shakespeare fino ai più recenti Beatitudo e Le Rovine Circolari dello stesso Punzo. In tutto, gli allestimenti sono una trentina come gli anni di attività durante i quali il regista ha ricevuto molti prestigiosi riconoscimenti tra i quali vogliamo almeno ricordare sei Premi UBU, il Sigillo d’Ateneo dell’Università di Urbino, il Premio Associazione Nazionale Critici di Teatro, il Premio Nesi, il Premio Carmelo Bene della rivista «Lo Straniero», il Premio Europa Taormina Arte, il Premio speciale Biglietto d’oro Agis. Punzo è stato recentemente invitato dal Teatro Sociale di Bellinzona per condurre un laboratorio dal titolo Da homo sapiens a homo felix: un viaggio alla ricerca di «un approdo che», come spiega nella presentazione, «non è né in cielo né in terra, né in un dio, né in un altrove esotico, ma tutto in noi, solo in noi, «nella nostra natura, anzi nelle nostre “infinite naturae”».
Una professione che è testimonianza Personaggi Al San Materno di Ascona
un incontro con la giornalista Maria Cuffaro Il prossimo mercoledì 22 gennaio, alle 20.30, la nota giornalista italiana Maria Cuffaro – già conduttrice del TG3 Rai, nonché inviata e documentarista pluripremiata – sarà invitata al Teatro San Materno di Ascona per una serata in cui dialogherà con il pubblico a proposito della sua attività professionale nel settore dei media. La discussione, animata dalla giornalista della RSI Rossana Maspero, si muoverà ripercorrendo le numerose esperienze compiute dalla Cuffaro nel corso degli ultimi due decenni e amplierà così la traccia contenuta nella sua biografia, Kajal. Le vite degli altri, pubblicata da Imprimatur nel 2012. Figlia di un nobile siciliano e di una donna svizzero-indiana, Maria Cuffaro è cresciuta in un ambiente multiculturale che ha stimolato il suo interesse per il mondo che la circonda e per le persone che lo animano. Nella sua attività professionale, che l’ha vista collaborare con Michele Santoro nelle trasmissioni Rosso e Nero, Tempo Reale, Raggio Verde, Sciuscià, si è occupata di vari temi legati all’attualità. È stata poi inviata di guerra e nelle sue cronache ha sempre voluto mantenere un di-
Biglietti in palio «Azione» offre ai suoi lettori alcune coppie di biglietti per la serata. Per partecipare al concorso seguire le istruzioni contenute nella pagina www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
È un volto noto della televisione italiana. (teatrosanmaterno.ch)
stacco dagli avvenimenti che le garantisse uno sguardo libero da pregiudizi e da luoghi comuni. Il dialogo col pubblico proporrà vari spunti di riflessione sulle vicende dell’oggi, vicine e lontane, offrendo la sua esperienza come punto di partenza per un tentativo di comprensione degli eventi. Maria Cuffaro si racconta
Teatro San Materno Ascona Mercoledi 22 gennaio 2020, ore 20.30 In collaborazione con
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 13 gennaio 2020 • N. 03
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Fai sempre la domanda giusta Il buon vecchio Raymond Carver amava pescare i salmoni nel fiume dietro casa. Una volta il buio della sera lo sorprende in piedi in mezzo al fiume; a un tratto avverte nell’acqua una presenza misteriosa che gli sfiora gli stivali e gli procura un lungo brivido di paura. Scrive nella poesia Il fiume: «Ho trattenuto il fiato e ho lanciato la lenza pregando che niente abboccasse». Senza essere mai stato pescatore, quante volte nella vita ho lanciato la lenza, pregando che nessuno abboccasse! La prima volta avevo tredici anni, frequentavo la terza media e lei si chiamava Milena. Eravamo ad Asti, in piazza Alfieri (tutto ad Asti si chiama Alfieri), era il tempo delle giostre di maggio per le feste patronali in onore di San Secondo, il santo patrono. Sulla pedana d’accesso alla pista ellittica delle auto da corsa eravamo rimasti solo io e lei. Tutti i miei compagni erano già seduti nell’automobilina con una ragazza accanto. Percepivo i loro muti incoraggiamenti: o adesso o mai
più. Ma io ignoravo come si guidavano quei cosi, non avevo mai preso in mano un volante! Ho lanciato l’amo, pregando che non abboccasse: «Ti andrebbe di fare un giro?». Grazie Milena, a settanta anni di distanza, per aver pronunciato un no senza appello. Forse hai letto nei miei occhi il terrore, forse il tremolio della voce e la goffaggine dei gesti hanno causato il tuo no. Comunque grazie. Se tu avessi risposto di sì, starei ancora pagando i danni al giostraio. Ignoro come siano adesso i rapporti fra gli adolescenti dei due sessi ma, osservandoli da lontano, ho il sospetto che siano molto diversi da quelli dei nostri tempi, quando anche la messa grande della domenica poteva servire per lanciare muti messaggi. In quegli anni ero anche balbuziente a causa del fatto che, essendo mancino, mi costringevano a scrivere con la mano destra. Così, per completare una frase impiegavo sei messe. Anche ai nostri tempi c’erano i conquistatori, i belli, i sicuri di sé. Forse non è il caso
di specificare che io non appartenevo alla categoria. Per noi, goffi e imbranati, la prima mossa consisteva nel puntare una coetanea che fosse ancora spaiata. Le carine erano già impegnate, si trattava di una seconda scelta. Scelta la candidata, bisognava trovare il modo di farglielo sapere. Fortunati quei compagni provvisti di una sorella da mandare in avanscoperta. Non avendo sorelle, tessevo nella mia mente raffinate strategie. Correre attorno a un isolato per poterla incontrare «per puro caso» col fiato grosso, salvo scoprire che nel frattempo lei si era fermata a parlare con un’amica. Fiondarsi nella cartoleria dove lei è appena entrata. Cosa posso comprare che costi poco? «Mi dia una boccetta d’inchiostro». «L’hai già finita quella che hai comprato ieri?» mi domanda quel genio del cartolaio, mai che si faccia una flebo di cavoli suoi. Lei è accanto a me alla cassa, mi guarda in tralice e accenna un mezzo sorriso. Sarà un invito? Se esco con lei dal
negozio e le chiedo se viene al cinema con me sono sicuro che dirà di no. Ma se non glielo chiedo non saprò mai se avrebbe detto di sì o di no. Se per caso dice di sì, cosa faccio? Come mi devo comportare? La prendo sottobraccio? E una volta al buio del cinema, cosa si fa? Devo continuare a guardare il film per commentarlo con lei quando usciamo? Se compro una carruba per rosicchiarla durante la proiezione devo offrirla anche a lei? E se preferisce il bastone di liquirizia? Io adesso glielo chiedo. Esco dal negozio, affretto il passo, lei mi sente arrivare, rallenta, l’affianco, mi domanda: «Cosa te ne fai di tutto quell’inchiostro? Scrivi poesie?» E no! Va bene essere sfigati ma anche poeta no, è troppo! «No», le rispondo. «Tengo un diario, da grande voglio fare lo scrittore». Lei m’incoraggia: «Come Cesare Pavese? Mio papà sta leggendo il suo diario. Dice che Pavese, come tutti gli scrittori, non ci sapeva fare con le donne. Dice, mio papà, che se ci sai fare
con le donne non hai bisogno di perdere tempo a scrivere». È il momento, o adesso o mai più: «Verresti con me al cinema?» «Grazie, ma preferisco di no». È andata, sono salvo. Il mio amico Carlo, maestro di seduzione, mi spiegherà che dovevo insistere, che le ragazze non dicono mai subito di sì, ma io preferisco che sia andata così. Per tutta la vita ho seguitato a lanciare lenze sperando che nessuno abboccasse e devo ammettere che mi è andata abbastanza bene. Se avanza una fetta di torta butto la lenza: «Per caso qualcuno ne vuole ancora?» E me la metto nel piatto senza attendere una risposta. Piove, non mi va di uscire: «Andiamo al cinema? Ci sediamo in galleria, nelle inondazioni l’acqua di solito si ferma in platea». In montagna: «Ti andrebbe di fare una gita? Hai letto di quei due che si sono persi? Non ti devi preoccupare, mi porto dietro la pistola lanciarazzi». Il modo giusto per porre le domande è una dote innata. O ce l’hai o non ce l’hai.
andando in ufficio. È stato difficile far capire che sono senza fissa dimora; i più credono significhi vivere da poveraccio; mentre invece è la libertà. Voglio cambiare quartiere? Lo cambio. Voglio cambiare i servizi igienici? Li cambio. Voglio il sole? il fresco della campagna? un bel panorama? Mi sposto e ho tutto. Voglio osservare la gente che passa, le belle signore, l’andirivieni dei negozi? oppure il silenzio e la quiete? Stessa cosa. Quando la sera torno stanco della giornata, apro la portiera, mi siedo e ascolto musica in stereofonia, ritrovando tutto il mio buonumore. Qualcuno mi ha chiesto: ma come ceni? Beh, ho un fornellino e un pentolino, taglio le verdure su un’assicella e le cuocio, le verdure depurano, poi una passeggiata; se piove passeggio attorno all’auto, poi corro dentro, mi stendo e sotto la coperta ascolto il ticchettio della pioggia sulla lamiera, se è un temporale ascolto i tuoni rombanti che passano, la macchina è una gabbia di Faraday, può essere colpita dal fulmine, che la percorre
esternamente; dentro uno è sicuro. Una volta mi sono svegliato al mattino ed ero sotto un manto di neve; ho acceso il motore, e nel tepore mi sono goduto lo spettacolo come da un igloo. Voglio incamminarmi verso la libertà, e a poco a poco fare a meno di tutto; prima cosa la libertà dalla casa, che è come un’ancora. Formalmente non è vietato, ma se tutti facessero così crollerebbe il prodotto interno lordo. Non pretendo di avere seguaci, neanche Diogene ne voleva, ognuno si regoli come crede meglio, se uno vuole la botte, che stia nella botte, non dico che non possa essere bello, però è vivere da trogloditi, fermi in un posto. Sì, uno la può far rotolare, ma dovrebbe avere la targa; per avere la targa dovrebbe farla immatricolare come mezzo di trasporto; difficile. Passerebbe il camion dell’immondizia e la porterebbe via. In auto non ho l’acqua corrente, è vero; ma non è l’acqua che deve venire a me, sono io che vado all’acqua, come si è sempre fatto; mi sposto con l’abitazione
a un canale, dove m’immergo e nuoto, cosa che non potevo nell’appartamento. Quindi mi sembra di stare meglio. Niente gas, e niente bolletta del gas, se voglio cuocermi un arrostino vado in periferia, raccolgo i legni che buttano, e accendo un bel focherello, poi sulle bragia ci cuocio un pollo, che diventa squisito, e non ho bisogno dell’aspiratore di fumi, non appesto la cucina con l’odore del pollo strinato, non ho bisogno della lavastoviglie, né del tavolo e della tovaglia; tengo aperto lo sportello dell’auto, mi siedo sul bordo di fronte al fuoco, e mi mangio il pollo infilato in un bastoncino. Poi mi distendo sull’erba e guardo il cielo oscurarsi, mentre si accende un pianeta, poi una stella, poi le costellazioni complete. Non sono allacciato alla corrente elettrica, quindi non me la possono togliere; di conseguenza non ho la TV e il canone obbligatorio. Niente tassa per il pattume o per il passo carraio, niente spese condominiali né commercialista. A poco a poco voglio fare a meno anche dell’auto.
di una lingua per formare una buona prosa e dare un ritmo alla sua storia e condividerla con i lettori. 3. L’«impulso storico», ovvero «il desiderio di vedere le cose come sono, di scoprire la verità dei fatti e tenerla in serbo per la posterità». 4. L’intento politico (in senso ampio): si tratta del proposito, più o meno rivelato, di «spingere il mondo verso una direzione», di cambiare l’idea che gli altri hanno della società. Orwell sostiene che «non esiste un libro autenticamente immune da pregiudizi politici» e che già l’idea che l’arte non dovrebbe aver niente a che fare con la politica è una idea politica. Orwell si dichiara scrittore politico: il suo tentativo è quello di «trasformare la scrittura politica in un’arte» aggiungendo: «Nel rivolgere lo sguardo alla mia opera mi rendo conto come sia proprio quando non avevo prefissato un obiettivo politico che ho puntualmente scritto libri smorti, lasciandomi ingannare dai fraseggi fioriti, dal periodare privo di senso, dagli aggettivi insulsi
e, in sostanza, dalle fandonie». Eppure le sue premesse politiche lo portano a essere tutt’altro che ideologico, un anticomunista, un antifascista e un anticapitalista, un socialista per nulla ortodosso, un rivoluzionario e insieme un conservatore, come disse Giorgio Manganelli, suo massimo ammiratore. Per diventare uno scrittore «politico», da gentleman impoverito (di famiglia upper-middle class) ma rimasto alquanto snob, Orwell per cinque anni operò in Birmania come poliziotto della Polizia imperiale (ne venne fuori Giorni in Birmania); partì per la guerra civile spagnola (ne venne fuori un capolavoro di giornalismo narrativo come Omaggio alla Catalogna); si inabissò nel ventre di Parigi facendo il lavapiatti nei luridi sotterranei di un albergo di lusso, proseguendo l’esperienza di vagabondo nei bassifondi inglesi (ne venne fuori un racconto alla Jack London, Senza un soldo a Parigi e a Londra). Orwell ebbe pure i suoi tenaci avversari. Per esempio,
il poeta T.S. Eliot, che da editor di Faber & Faber respinse La fattoria degli animali. Era il 1944 e quella allegoria cupa sull’umanità fu rifiutata da tanti editori: il fatto che gli animali si rivoltano ai padroni per diventare indipendenti producendo dal loro interno una nuova classe di padroni, denotava un pessimismo troppo radicale proprio quando si doveva aprire qualche spiraglio di speranza. Allorché l’editore Warburg decise di stamparlo, nell’agosto 1945, fu però un successo che consentì a Orwell di comperarsi una casa sull’isola di Jura, al largo della Scozia. Pur essendo già consumato dalla tubercolosi, nel biennio 1947-1948 portò a termine il romanzo del Grande Fratello, che doveva intitolarsi The Last Man in Europe (L’ultimo uomo in Europa). Secondo Warburg, forse per ragioni legate allo stato fisico dell’autore, 1984 è un libro che «non concede al lettore alcuna speranza, neppure quella di una minuscola, tremolante luce di candela».
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni Vivere da cinici Ho incominciato con l’idea di vivere in una botte, come Diogene, il filosofo cinico. Ma le botti sono difficili da trasportare, e poi dove la potevo mettere? In città lo stazionamento con una botte è vietato, anche se uno si proclama filosofo cinico. Non è più come ad Atene del IV secolo a.C. Perciò ho optato per l’automobile, pensando che se Diogene vivesse oggi vivrebbe in un’automobile, che può circolare e non stupisce nessuno. Così mi sono trasferito nell’auto, e mi sono trovato bene; innanzi tutto perché è luminosa, finestre sui quattro lati, mentre prima stavo in una casa buia. Poi l’auto è comoda, due poltrone davanti; dietro ho abbassato i sedili e ho fatto un monolocale che uso come camera da letto. Il materassino gonfiabile è confortevole ed essendo un ambiente raccolto non faccio più gli incubi su tasse, bollette, canoni ed esazioni. Di sera una luce gradevole mi viene gratis dai lampioni stradali, e se non voglio la luce, mi sposto con tutta l’auto nella prima campagna; mentre il vecchio appartamento
era inamovibile; anche avesse avuto le ruote, dovevo portarmi dietro tutto il condominio, con le inevitabili proteste di quei cani fetenti che sono i condòmini. Se c’è il sole, l’auto ne è invasa, e mi beo nel suo calore, mentre prima era una lotta per avere il riscaldamento più alto. Poi esco e rientro facendo un passo solo; prima l’ascensore era sempre occupato dai lazzaroni dei primi piani, che lo usavano su e giù come divertimento. Esco quando ho un bisogno, e lo vado a fare dietro una siepe; senza spreco d’acqua, restituendo alle piante quello che loro ci danno in termini d’ossigeno. Scavo una buchetta poi la ricopro, con il venticello invece dell’aspiratore, rumoroso e innaturale. Mi lavo a una fontana, al mattino presto; l’acqua è abbondante, non ci sono problemi di ingorgo, e l’acqua fa anche da specchio. Se non c’è nessuno mi lavo il torace, e se è ancora fievole la luce dell’alba, mi spoglio e mi spruzzo, poi torno corroborato alla macchina e mi cuocio un uovo per dare avvio alla giornata. Ci tengo ad essere in ordine
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Omaggio a Orwell Inaugurare un nuovo anno nel segno di Eric Arthur Blair non è un cattivo segnale, trattandosi di George Orwell, morto il 21 gennaio 1950, dunque esattamente settant’anni fa. Evviva gli anniversari, quando invitano a parlare di ciò che ci piace. E Orwell ci piace (6+), non solo perché la distopia che racconta ne La fattoria degli animali e in 1984 è uno dei pochi casi di autentica profezia letteraria, ampiamente realizzata prima con la globalizzazione che uniforma tutto e poi con la Rete che controlla tutti. Non solo. In una pagina di Come funzionano i romanzi, pubblicato anni fa da Mondadori, il critico del «New Yorker» James Wood segnalò un dettaglio straordinario nella prosa di Orwell: nel saggio Un’impiccagione lo scrittore-cronista descrive il condannato che, diretto al patibolo, si sposta di lato per evitare una pozzanghera. «Pur non avendone più alcuna buona ragione, il condannato pensa ancora a non sporcarsi le scarpe». Wood paragona quella scena a una
sequenza di Guerra e pace, dove Pierre nota che un uomo, appena prima di essere fucilato dai francesi schierati davanti a lui, si sistema la benda sulla nuca, perché evidentemente gli dà fastidio. Su simili vertiginosi dettagli dell’insignificanza si fonda la grande letteratura. In un altro celebre saggio, intitolato Perché scrivo, Orwell elenca sostanzialmente quattro ragioni, esclusa la necessità di sbarcare il lunario, che ispirano lo scrittore: 1. Il puro egocentrismo e narcisismo, che consiste nel desiderio di apparire intelligente, di far parlare di sé anche dopo la morte, di riscattarsi di fronte agli adulti che lo ignoravano da bambino. Sarebbe ipocrita, osserva Orwell, fingere che queste non siano serie ragioni che peraltro avvicinano lo scrittore e l’artista in genere agli scienziati, ai politici, agli avvocati, ai militari, agli uomini d’affari e a tutte le persone di successo. 2. Quello che Orwell chiama «entusiasmo estetico», cioè il piacere che lo scrittore prova nel combinare i suoni
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