Azione 04 del 20 gennaio 2020

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Con tutta la famiglia all’Europa-Park Sabato 21 marzo 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio L’ultimo libro dello psicoterapeuta Alberto Rossetti è un ritratto delle nuove generazioni fuori dai luoghi comuni

Ambiente e Benessere Chirurgia estetica e paura della morte nella conferenza pubblica alla Clinica Sant’Anna, il prossimo 22 gennaio: il dottor Philipp Fallscheer anticipa qualche riflessione

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 20 gennaio 2020

Azione 04 Politica e Economia Il 3 febbraio nello Iowa iniziano le primarie democratiche, ma nessuno scalda i cuori

Cultura e Spettacoli L’approdo su Marte non è solo una sfida tecnologica, ma anche una questione di design

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Vincenzo Cammarata

Il medico che sceglie la montagna

di Mauro Giacometti pagina 5

L’India, non solo indù di Peter Schiesser Se guardiamo all’Asia, l’attenzione è catturata dalla Cina, per il conflitto con gli Stati Uniti, per le sue mire geopolitiche, per la repressione in Tibet e nello Xinjiang. Ma quel che succede nella più vasta dittatura del mondo non deve farci dimenticare la più vasta democrazia del mondo: l’India – nel sesto anno di potere del primo ministro Narendra Modi, massimo esponente del BJP, il partito nazionalista indù. La democrazia indiana ha vissuto altri periodi bui, per esempio la Emergency, quei 18 mesi fra 1975 e 1977 in cui Indira Gandhi sospese le libertà civili e governò per decreti (inappellabili), ma quanto sta avvenendo nel secondo mandato di Modi ha il potenziale di modificare alle fondamenta questo paese-continente (grande 80 volte la Svizzera), al grido di hindu first! Nel maggio del 2019 Narendra Modi è stato rieletto con più voti di cinque anni prima, in agosto ha dato ordine di dissolvere lo Stato del Jammu e Kashmir (quest’ultima regione, a maggioranza musulmana), da allora la valle del Kashmir brulica ancora più di soldati indiani e resta senza accesso internet. Con un colpo di spugna, il governo

del BJP ha cancellato la semi autonomia concessa ai kashmiri in cambio dell’appartenenza all’India, rinfocolando tensioni che solo a fatica nei decenni si erano affievolite, dopo la sanguinosa insurrezione scoppiata nel 1989. La valle del Kashmir è oggi per l’India quello che da decenni è il Tibet per la Cina (e ora anche lo Xinjiang): una regione in cui la popolazione è in prigione a casa propria. Ma il colpo più radicale il governo Modi l’ha sferrato a metà dicembre 2019 con la nuova legge sulla nazionalità, il Citizenship amendment act, che riconosce la cittadinanza indiana a rifugiati indù, sikh, jain, buddisti, cristiani e parsi da Pakistan, Bangladesh e Afghanistan se perseguitati per ragioni religiose – ma non a musulmani (benché anche talune sette musulmane subiscano persecuzioni in questi paesi) e ad altre minoranze. Questa legge è stata immediatamente giudicata per quello che rappresenta: un ulteriore passo verso una trasformazione dell’India da paese laico e multinazionale in nazione indù (e anti-musulmana). Da allora le proteste raccolgono centinaia di migliaia di persone in diverse grandi città indiane. Ad un alto prezzo, però: decine di persone sono state uccise, centinaia ferite dalla polizia indiana, alcune università assaltate a

Delhi (la Jamia Millia Islamia e quella di orientamento progressista, la prestigiosa Jawaharlal Nehru University). Ma la protesta continua, c’è un’opposizione civile che va al di là di quella musulmana, poiché in gioco ci sono i fondamenti della costituzione laico del 1950, che negava espressamente qualsiasi legame fra nazionalità e religione. Il Nobel dell’economia Amartya Sen l’ha espresso in modo chiaro, recentemente a Bangalore: «La Corte suprema dovrebbe bocciare questa legge in quanto incostituzionale, poiché non puoi difendere determinati diritti umani fondamentali se leghi la cittadinanza alle differenze religiose». Non sembra che il governo Modi intenda fare marcia indietro, piuttosto sono da attendersi altre mosse che discriminino i musulmani (220 milioni su 1,3 miliardi), perché il disegno dei nazionalisti indù è di trasformare l’India nella patria degli indù, in cui comandano solo loro. Non tutti coloro che hanno votato per Modi condividono questa ideologia, gli hanno dato fiducia per le sue promesse di maggiore benessere. Se non ci riuscirà neppure nel secondo mandato (nel primo non c’è riuscito), verrebbe scalzato dal potere, e l’India tornerebbe ad essere il caotico caleidoscopio etnico-religioso che è.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Società e Territorio Tutto diventa gioco La gamification è l’utilizzo di elementi tipici dei giochi (sfide, ricompense, punteggi) in diversi ambiti per trasformare attività noiose in esperienze divertenti

Un percorso tra storia e natura Il sentiero storico naturalistico di Sonvico invita a scoprire testimonianze del passato rurale e panorami meravigliosi

Passeggiate svizzere Oliver Scharpf ci accompagna in Engadina per una visita al museo Segantini di St. Moritz pagina 13

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Adolescenti fuori dai luoghi comuni Pubblicazioni Alberto Rossetti,

psicoterapeuta e psicoanalista, ha intervistato ragazze e ragazzi tra i 12 e i 17 anni. Le risposte ci dicono che i giovani hanno voglia di cambiare il mondo e credono nel futuro

Stefania Prandi Non è vero che i giovani di oggi sono disillusi, spaventati, apatici, privi di iniziativa e senza spirito critico. Alberto Rossetti, psicoterapeuta e psicoanalista, specializzato in clinica dell’adulto e dell’adolescente, ha intervistato ragazze e ragazzi tra i dodici e i diciassette anni con domande sui loro desideri, sulle aspirazioni, sul rapporto con il presente e le nuove tecnologie. Ha raccolto le risposte nel saggio I giovani non sono una minaccia, anche se fanno di tutto per sembrarlo (Città Nuova). Leggendo il libro si ha uno spaccato diverso dai soliti luoghi comuni sulle nuove generazioni. Alberto Rossetti, perché molti adulti non vedono di buon occhio i giovani di oggi?

Il mondo degli adulti vive nella realtà che abita, segue schemi e conformismi. I giovani, invece, sono più portati al cambiamento, all’innovazione, al vedere e fare notare quello che non funziona, a sottolineare le ipocrisie. Gli adulti guardano con sospetto ai giovani perché ne hanno paura. Tra i due mondi c’è una grande distanza anche a causa dei linguaggi, così differenti da risultare incomprensibili. E quando non ci si capisce si ha paura. Va sottolineato che chi ha più da perdere in questa incomunicabilità sono gli adulti. Che cosa accade durante l’adolescenza?

Durante l’adolescenza ci si interroga per la prima volta sulla propria identità. È un momento di forte introspezione, in questa fase il giudizio degli altri diventa molto importante. I ragazzi vivono un tempo che io definisco sospeso nel presente. Il rapporto col passato diventa difficile perché non ci si riconosce in quello che si è stati, si prendono le distanze. E c’è ritrosia nel guardare avanti. Durante l’adolescenza si vive in

uno spazio in cui tutto è amplificato, dalle relazioni alle emozioni. Quando accade qualcosa di negativo si fatica a capire che non sarà per sempre.

Citando il filosofo Alain Badiou, lei scrive che viviamo in una società che ha eroso tutto ciò che ha a che fare con la tradizione, focalizzata sull’idea di libertà come assenza di limiti, che impone di consumare. Come vivono i giovani in questo clima?

I giovani non se ne accorgono più di tanto. Non notano la mancanza dei riti e dei punti fermi rappresentati dalle tradizioni perché non hanno termini di paragone. Da fuori, però, si percepisce che le conseguenze di questa idea di libertà estrema siano l’ansia e l’insicurezza. È difficile per loro fare delle scelte dato che, almeno in teoria, si può scegliere tutto. Ciò nonostante, hanno comunque la forza e l’intelligenza di trovare la loro strada. E sicuramente i modelli che stanno emergendo anche a livello mediatico, come ad esempio Greta Thunberg, sono uno stimolo e un riconoscimento dei loro sforzi. Avere punti di riferimento positivi aiuta a crescere. Nel suo libro critica il modello imperante della «genitorialità intensiva». Può spiegare brevemente a cosa si riferisce e perché può risultare dannoso?

Per «genitorialità intensiva» intendo un modello occidentale che vede i genitori troppo presenti nella vita dei figli, con continue proposte di attività e occasioni di formazione. È un approccio che lascia poco spazio alla libertà di espressione e alla formazione dell’identità. Ci si rapporta alle ragazze e ai ragazzi con l’idea che abbiano bisogno costantemente di un adulto che sia sempre lì e faccia cose per loro. Il problema è che così non si aiutano i giovani a cavarsela, a capire qual è la propria strada, perché non si permette che abbiano tempo e modi per inventarsi. È un modello che

I ragazzi di oggi vivono immersi nei social network, gli adulti devono aiutarli a interrogarsi sul loro uso. (Marka)

non fortifica, anzi indebolisce. Ci sono diverse ipotesi sui motivi che hanno portato i genitori di oggi a diventare oppressivi. Forse perché viviamo in un periodo di crisi economica e quindi c’è il timore che i ragazzi e le ragazze non ce la facciano da soli. Secondo altre teorie, i figli sono diventati una sorta di protesi dei genitori, un investimento esistenziale ed economico che necessita un controllo continuo. Come si devono comportare gli adulti per essere bravi genitori di adolescenti?

Devono trovare il modo di lasciare liberi i ragazzi, di avere fiducia in loro, senza il timore continuo che finiscano in qualche disgrazia. Serve una presenza emotiva forte. Bisogna essere in grado di dare esempi virtuosi, assumendosi la responsabilità di essere testimoni di un modo di vivere. Ad esempio, se si

conduce una vita orientata al consumo non si può pensare di riuscire a educare i propri figli a qualcosa di diverso. Occorre sapere ascoltare, capire la differenza che c’è in ciascuno, non proiettare sugli altri le proprie ambizioni e aspettative. Quanto pesano i social network nella costruzione dell’identità giovanile?

Tanto. Gli adolescenti di oggi vivono immersi nei social network che condizionano la loro identità, il loro modo di essere, di pensare e di comportarsi. Questa è la realtà con cui ci si deve confrontare. Non ha senso essere contrari ai social network perché fanno parte in tutto e per tutto della vita delle nuove generazioni. Quello che gli adulti possono e devono fare è aiutare i giovani a interrogarsi sull’uso dei social network, da Instagram a TikTok, sul concetto di

privacy che per loro è davvero difficile da capire, sul rispetto degli altri anche negli ambienti virtuali. Che cos’è il futuro per i giovani di oggi?

Dalle interviste emerge che il futuro per loro è qualcosa di possibile. Non ho riscontrato eccessivo pessimismo tra i giovani a differenza di quanto invece si vede tra gli adulti. Le ragazze e i ragazzi di oggi hanno molta voglia di fare, di costruire: vogliono lasciare un segno. Però con il fatto che sono cresciuti con l’idea di libertà estrema, hanno bisogno di qualcuno che li sostenga nel trovare la strada. È quello che mi hanno detto loro stessi: le eccessive possibilità spaventano e paralizzano. Hanno bisogno di educatori e genitori che li guidino nelle scelte importanti come, ad esempio, che scuole frequentare e quale sarà il loro ambito lavorativo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Da dottore in città a medico di montagna

Incontri La scelta anticonformista di Sergio Luban che da Locarno si trasferisce in Val Calanca, sulle orme

del nonno paterno. Visiterà a domicilio i pazienti e suonerà l’organo della chiesa Mauro Giacometti

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Il dottor Sergio Luban, sullo sfondo la bella cascata di Augio; in basso, la targa commemorativa sulla Casa comunale dedicata a suo nonno, il dottor Salman Luban. (Vincenzo Cammarata)

da Grono e muovendosi con lentezza e fatica tra scoscesi sentieri, mulattiere e cumuli di neve alti due metri, raggiungeva le umili abitazioni di Selma, Landarenca, Santa Maria o Braggio per visitare, assistere, dare conforto e curare i suoi pazienti. «Questa è una valle aspra, discosta, ma fin da piccolo l’ho amata e mi è rimasta nel cuore. La natura è incontaminata, l’aria, l’acqua, la flora, la fauna, il fiume, le montagne che la circondano e la proteggono continuano ad affascinarmi. Ci venivo spesso con i miei genitori e i miei fratelli; da adolescente, d’estate, aiutavo i contadini a raccogliere il fieno e gli al-

levatori a governare le stalle. Anziché acquistare una casa di vacanza, quindi, ho deciso di trasferirmi qui, in pianta stabile, facendo il medico a domicilio», spiega l’internista locarnese. Proprio come il nonno, che con la sua borsa da medico percorreva tutta la valle – inizialmente su un calesse trainato da un cavallo condotto dal fidato assistente «Modesto», un artigiano che per anni si prestò a fare da guida al dottore – anche Sergio Luban, con l’auto elettrica o in mountain bike con pedalata assistita, raggiungerà i suoi pazienti alla bisogna. «Oltre che a rispondere ad un’esigenza perso-

Al servizio dell’umanità sofferente Così Salman Luban, nel suo diario Ricordi di un medico di montagna, scritto nel 1954, descriveva la professione medica: «La medicina, pur arrivando al limite del possibile di scienza esatta, non potrà mai considerare e trattare il corpo umano come una macchina composta di formule puramente matematiche e chimiche, ma dovrà sempre occuparsi del lato psichico dell’uomo, così fine e differenziato da non tollerare l’ingerenza di macchine calcolatrici per scomporlo e ricomporlo. Così, accanto al lato essenzialmente scientifico della nostra grande Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Vincenzo Cammarata

Nel suo rustico nel nucleo del villaggio di Augio, in Val Calanca, seduto sulla poltrona in soggiorno e davanti al camino acceso, sfoglia lentamente un opuscolo ben rilegato: Ricordi di un medico di montagna. È un diario romanzato scritto poco prima di morire, nel 1954, da suo nonno, Salman Luban, medico di condotta della Calanca. Lui non era ancora nato, ma il padre Boris, medico e psichiatra di fama internazionale, gli parlò a lungo di quel nonno, fuggito dalla Russia, che nel 1918 si laureò a Berna e subito dopo approdò in Mesolcina per combattere l’epidemia di grippe (la tragica «Spagnola») che nel primo dopoguerra colpì anche la Svizzera provocando quasi 25’000 decessi. Insediatosi a Grono con la moglie Sofia, Salman Luban fu destinato alla Calanca e per oltre 30 anni curò la gente di questa valle che, apprezzandone le qualità professionali e umane, lo proclamò cittadino onorario del villaggio di Augio con tanto di targa commemorativa sulla Casa comunale. A distanza di tanto tempo Sergio Luban, 63 anni, locarnese, specialista in medicina interna generale, figlio di Boris e nipote di Salman, ha deciso di insediarsi in Val Calanca, proprio ad Augio non solo ripercorrendo le orme professionali del nonno ma trasferendo la sua residenza dalla città alla montagna. «Per quasi trent’anni ho avuto il mio studio a Locarno, collaborando con l’Ospedale La Carità e la Clinica Santa Chiara. Negli ultimi decenni, però, la medicina è radicalmente cambiata: più burocrazia, più esami, meno contatti diretti con i pazienti, meno tempo per le visite o l’aggiornamento professionale. Così nel 2017, non trovando colleghi subentranti, ho deciso di chiudere il mio studio locarnese, affiliandomi ad un centro medico, struttura che gestisce la sempre più opprimente parte amministrativa, lasciandomi più spazio per la pura professione. Poi, l’estate scorsa, ho acquistato un rustico ad Augio. Proprio mentre assistevo ai lavori di ristrutturazione della casa mi si fece incontro una signora del posto: aveva una dolorosa distorsione alla caviglia e, sapendo che ero medico, mi chiese di aiutarla. In quel momento ho avuto una sorta di illuminazione: ecco la mia futura missione, ho pensato. Quella che fu la vocazione di mio nonno sarà la mia: fare il medico di montagna», racconta Sergio Luban. Così da quest’anno, ottenuto il libero esercizio anche per il Canton Grigioni, la Valle Calanca ritrova il suo «medico di condotta». È appunto Sergio Luban, attinente di Augio (35 abitanti, oggi frazione di Rossa), nipote di quel dottor Luban che, partendo

e nobile professione, ci sarà sempre posto per l’arte medica che, dacché mondo è mondo, s’è sempre offerta, seppur con alterne vicende, al servizio dell’umanità sofferente». Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

nale di ritorno alla natura e alle mie radici familiari – sottolinea – questa mia scelta ha un fondamento etico nei confronti di una professione, quella di medico, che, come ho detto, si sta snaturando. Vorrei riportare al centro del mio lavoro il rapporto diretto e senza filtri tra paziente e medico: il primo, che sta male, si affida alla conoscenza e all’esperienza del secondo, che cerca di farlo stare meglio. Avrà di fronte un professionista che lo ascolta, lo visita al proprio domicilio, si prende il tempo per una corretta anamnesi, per la scelta di esami di laboratorio oltre che strumentali di conferma della diagnosi ed infine dispone una terapia adeguata. E che, passando sotto casa, non disdegna di suonare il campanello per assicurarsi del decorso della sua malattia». Per spiegare la sua necessità di riportare la medicina al centro della sua vita professionale, Sergio Luban ci racconta un aneddoto, questa volta riguardante il padre, Boris Luban-Plozza. «Aveva seguito le orme paterne, studiando medicina. Ma un giorno, proprio da queste parti, vide una capretta azzoppata. La guardò, la accarezzò, si prese cura di lei e la guarì. In quel momento, mi spiegò più tardi, capì le potenzialità della mente umana, dell’empatia, dell’interazione che se potevano essere d’aiuto ad un animale figuriamoci ad un essere umano. Così nacque il suo interesse per la psicologia

e la psichiatria, discipline nelle quali poi si specializzò», spiega. In caso di necessità, il suo rustico di Augio avrà a disposizione anche una stanza per il primo soccorso o le visite, sempre in accordo con il medico curante della regione. Ma, ci tiene a ribadire il dottor Luban, saranno interventi occasionali: «A Locarno manterrò una certa attività, un paio di giorni alla settimana tornerò in città. Anche il quel caso, però, nessuna visita ambulatoriale ma solo pazienti consultati a domicilio. Pazienti che ho informato per tempo e che hanno dimostrato comprensione e apprezzamento per la mia scelta». La sua nuova vita ad Augio e in Valle Calanca – che potrebbe presto avere il riconoscimento di Parco nazionale – avrà però anche un côtè culturale. Da sempre appassionato di fotografia, con la pubblicazione di un paio di volumi e diverse mostre all’attivo, il dottor Sergio Luban sicuramente organizzerà qualche esposizione al Centro culturale e ricreativo «La Cascata» di Augio, a pochi metri dal suo rustico. E siccome si cimenta bene anche al pianoforte, sta già pensando di ridare voce all’unico organo di tutta la Val Calanca ospitato proprio nella chiesa parrocchiale di Augio. «Per fare l’organista, però, dovrò studiare ed esercitarmi un po’, ma credo che per la prossima estate sarò pronto», ci dice sorridendo e salutandoci dalla sua valle.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Idee e acquisti per la settimana

Il carnevale in tavola

Attualità Tradizionali e immancabili specialità per il periodo più festoso dell’anno Frittelle di carnevale 6 pezzi/216 g Fr. 2.90 Frittelle di carnevale mini 6 pezzi/90 g Fr. 1.95

Un po’ di storia…

Presso Midor la produzione delle frittelle ebbe inizio nel 1935. All’epoca le donne stendevano e lavoravano l’impasto sulle ginocchia, alfine di ottenere la caratteristica consistenza supersottile. I dischi di pasta così ottenuti venivano in seguito fritti in venti padelle poste sulla fiamma del gas. Già dopo quattro anni il prodotto divenne un autentico bestseller, tuttavia la produzione dovette essere interrotta durante gli anni della guerra a causa del razionamento dell’olio. La fabbricazione delle frittelle riprese nel 1945. Nel 1956 vennero costruiti tre macchinari appositi in grado di spianare la pasta e cuocerla subito dopo. Nel 1970 la produzione venne spostata in un nuovo impianto – dove peraltro ancora oggi vengono confezionati i dolci – e tra il 1971/1972 ai tre macchinari si aggiunge una nuova macchina da frittelle, le quali complessivamente avevano una capacità produttiva giornaliera di 80’000 confe-

zioni. Undici anni dopo si aggiunse una macchina automatica per il confezionamento. Negli anni 2004/2005 Midor sostituì completamente l’olio di arachidi con olio di girasole, mentre la ricetta non subì alcun cambiamento e rimane ancora oggi quella tanto apprezzata da ormai quasi un secolo. La produzione

A pieno regime oggi Midor arriva a produrre giornalmente qualcosa come quasi 900’000 frittelle, di cui 600’000 nel formato grande e 270’000 mini frittelle. Ciò avviene utilizzando 9 tonnellate di farina di frumento, 80’000 uova da allevamento al suolo, 8,5 tonnellate di olio di girasole e 3,5 tonnellate di zucchero a velo, come pure sale, yogurt e kirsch in piccole quantità. Nel 1984 venne superata per la prima volta la soglia di 24 milioni di frittelle prodotte all’anno. Oggi mediamente se ne producono «solo» circa 20 milioni, che corrispondono ad un peso totale di 700 tonnellate. Ogni giorno dalla Midor partono dieci vagoni colmi di frittelle di carnevale. Il tragitto dalla produzione ai negozi Migros dura due giorni. Le frittelle sono in vendita dalla fine di dicembre fino al termine dei carnevali svizzeri: con il Morgenstraich di Basilea terminano sia la vendita che la produzione. Infine, ricordiamo che oltre alle frittelle firmate Midor, l’assortimento di Migros Ticino di dolci carnascialeschi annovera ancora le Maschere, le Riccioline, i Pettegolezzi di Colombina, i Galani dei dogi, le Chiacchiere e le Bugie zuccherate.

Alcune fasi di lavorazione delle mitiche frittelle di carnevale Migros.

La pinsa romana

Novità L’assortimento Migros Daily si arricchisce di due nuove

sfiziosità per soddisfare le aspettative culinarie quotidiane

Tresol Group/Däwis Pulga

I carnevali ticinesi entrano nel vivo: da qui fino a fine febbraio ogni fine settimana sono in programma momenti di baldoria sfrenata su e giù per la Svizzera italiana. Ma carnevale è anche sinonimo di frittelle, la classica specialità da gustare tra un bagordo e l’altro. Sapevate i celebri dolci ondulati della Migros esistono da oltre ottant’anni? È l’azienda del gruppo Migros Midor di Meilen, sul Lago di Zurigo, ad occuparsi della produzione. Le frittelle sono disponibili in due varianti, nella versione classica e in quella mini. Entrambe le confezioni contengono sei pezzi.

Il marchio Migros Daily contrassegna un’ampia e variegata selezione di prodotti pronti al consumo, sia caldi che freddi, preparati giornalmente con ingredienti freschi di prima qualità. Dalle insalate ai panini, dagli smoothie alle pizze, dai wrap ai müesli e fino ai piatti caldi e alle macedonie di frutta, presso il reparto Migros Daily ognuno avrà di che soddisfare i propri bisogni in fatto di varietà, gusto ed esigenze alimentari contemporanee. Senza scordare che la scelta viene costantemente aggiornata a seconda delle stagioni, nonché adattata anche per coloro che seguono un’a-

limentazione vegetariana o vegana. Negli scorsi giorni la gamma Migros Daily è stata sviluppata ulteriormente, grazie all’introduzione di una tipica specialità della cucina romana, la pinsa, disponibile nelle due varietà alle verdure miste e al prosciutto cotto e funghi. Prodotte in Ticino da un’azienda con pluriennale esperienza nella gastronomia mediterranea, queste specie di focacce vengono preparate in modo artigianale con ingredienti attentamente selezionati. La pasta è composta da una miscela di farina di frumento, semola di grano duro, farina di farro e farina di riso. La lenta maturazione dell’impasto è un passaggio molto importante: la lievitazione naturale con lievito madre ha una durata di ben 72 ore. Rispetto alla pizza, l’impasto della pinsa contiene inoltre più acqua, meno

sale e meno calorie. Queste specificità rendono la pinsa più leggera e altamente digeribile, come pure bella croccante fuori e incredibilmente morbida al suo interno. Altra differenza sostanziale rispetto alla pizza è la forma, che nella pinsa è ovale. La pinsa ha origini antichissime ed era già diffusa presso le popolazioni rurali dell’Antica Roma. Può essere certamente considerata l’antenata della pizza. Il termine «pinsa» deriva dal verbo latino «pinsere», che sta a significare macinare, schiacciare, allungare, pestare. Pinsa alle verdure o cotto/funghi 320 g Fr. 4.55* invece di 5.95 In vendita nelle filiali Migros con reparto Migros Daily *Azione 25% di sconto dal 21 al 27.1


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Idee e acquisti per la settimana

Protezione efficace contro i germi Spesso virus e batteri passano da una persona all’altra tramite le mani. Lavarsi regolarmente le mani è quindi la cosa più semplice da fare per eliminare germi e sporcizia. I germi patogeni sono però in agguato anche sulle maniglie delle porte, sulle tastiere dei computer e su tram e bus. Ecco perché è utile proteggersi come fanno i professionisti della sanità. -Sterillium Protect & Care, il disinfettante per le mani più utilizzato negli ospedali, elimina efficacemente fino al 99,99% dei germi proteggendo la pelle. È disponibile in gel o sotto forma di pratiche salviettine da portare con sé e sempre pronte all’uso.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Società e Territorio

Videogiochi sempre in crescita

2020 Uno sguardo agli ultimi dieci anni

nel settore videoludico e alle nuove tendenze

Marka

Davide Canavesi

È tutto un gioco

Tempi moderni I giochi ci fanno divertire. Perché non sfruttare

questa loro caratteristica per motivarci a svolgere attività noiose?

Stefano Castelanelli Ogni Capodanno milioni di persone in tutto il mondo formulano promesse per l’anno nuovo. Buoni propositi che in molti però hanno difficoltà a mantenere e a mettere in pratica. E non è solo un problema di promesse per l’anno nuovo. Le persone fanno fatica a seguire i loro buoni propositi in generale. Chi non vorrebbe mantenersi in forma, mangiare sano, risparmiare o usare il proprio tempo libero in modo produttivo? Ma quanti di noi veramente lo fanno? Ebbene negli ultimi anni è diventato popolare un nuovo approccio capace di motivarci a seguire i nostri buoni propositi: la gamification.

La gamification tocca tanti ambiti, dalla formazione alla promozione della salute, perché quando giochiamo viviamo emozioni positive Il termine gamification, come si può facilmente intuire, deriva dalla parola game, cioè gioco, e indica l’utilizzo di elementi tipici dei giochi come sfide, ricompense e punteggi, non per il semplice divertimento ma per comunicare messaggi di vario tipo e indurci a comportamenti attivi. Quando giochiamo siamo spesso molto motivati a raggiungere i nostri obiettivi e spesso viviamo anche emozioni positive come gioia, divertimento e soddisfazione. Esattamente queste emozioni sono cruciali per trasformare attività noiose in esperienze divertenti. Non ce ne accorgiamo nemmeno, ma la gamification si è diffusa a tal punto che elementi dei giochi sono presenti in ogni aspetto della nostra vita e hanno trasformato compiti tediosi in attività piacevoli. Imparare una lingua ad esempio è molto difficile ma la gamification può renderlo più piacevole. Prendiamo la piattaforma di educazione linguistica Duolingo ad esempio. Il progetto è nato nel 2009. Dopo approfondite ricerche e numerosi test l’azienda ha creato una strategia di gamification in quattro punti per rendere l’apprendimento di una lingua più facile e piacevole. La strategia include i seguenti punti: stabilire piccoli obiettivi quotidiani individuali, visualizzare i progressi che facciamo, ricevere notifiche giornaliere e ottenere premi e in-

centivi. Duolingo ha avuto un enorme successo. La piattaforma offre oggi 94 diversi corsi di lingua in 23 lingue ed è utilizzata da oltre 300 milioni di utenti in tutto il mondo. Non solo per imparare le lingue, la gamification si è dimostrata un potente strumento per migliorare l’apprendimento in generale. Agli studenti infatti piace imparare giocando ed è stato dimostrato che in determinate circostanze può migliorare le prestazioni degli studenti. I ricercatori hanno scoperto che la gamification può aumentare l’impegno e la frequenza di studio e ridurre la differenza tra gli studenti più bravi e quelli meno bravi. La gamification può anche essere utile per promuovere lo sport e la salute perché può indurre le persone a svolgere attività fisiche, a fare scelte alimentari sane, ad educare i pazienti sulla loro malattia e a motivarli a impegnarsi nella loro terapia. Ci sono dozzine di storie di successo. Zombies Run! ad esempio è un’app che ti motiva a fare jogging attraverso una serie di missioni che devi portare a termine per aiutare una città a sopravvivere all’invasione di zombi. Mentre l’app MySugr offre ai pazienti che soffrono di diabete un monitoraggio dei progressi facile e chiaro e li aiuta a rimanere in buona salute. L’app raffigura il diabete come un mostro da combattere e consente agli utenti di affrontare sfide per mantenere alta la propria motivazione. L’app Re-Mission invece aiuta i bambini e i giovani a combattere il cancro. Nel gioco i giocatori si trovano all’interno del corpo umano e con un arsenale di armi e superpoteri, come la chemioterapia, gli antibiotici e le difese naturali del corpo devono combattere il cancro. È stato dimostrato che il gioco aiuta a combattere il cancro perché trasmette ai pazienti un senso di potere e controllo verso la malattia e li incoraggia a proseguire con il trattamento. Anche nella mobilità le soluzioni non mancano. L’EcoScore app dell’azienda di car-sharing Car2Go, ad esempio, permette agli utenti di imparare a guidare in modo più ecologico. Sul display dell’automobile viene illustrata la qualità di guida durante l’accelerazione, la velocità di crociera, e la decelerazione. Ognuna delle tre categorie è rappresentata da un albero. Quando la guida dell’utente è particolarmente ecologica, l’albero è sano, fiorente e popolato da tanti animali, ma se la guida non è molto ecologica, l’albero è piccolo e avvizzito. L’app Waze invece informa gli utenti sulla situazione del traffico in tempo reale. Per incentivare gli utenti

a segnalare i problemi di traffico, per ogni segnalazione che fanno, essi ricevono punti e possono così avanzare di livello. La piattaforma mostra poi il loro punteggio rispetto agli altri utenti della community. La gamification ci insegna anche a risparmiare. Con Digipigi, il salvadanaio digitale di Credit Suisse, ad esempio i bambini possono imparare fin da piccoli in modo giocoso a gestire i propri soldi. Nell’app Digipigi Kids infatti i bambini possono facilmente stabilire i propri obiettivi di risparmio personali e tenere traccia dei loro risparmi in modo semplice e divertente. Anche le aziende utilizzano la gamification per migliorare la gestione dei clienti, consolidare la fedeltà ad un brand ed aumentare il rendimento e la performance degli impiegati. Il rivenditore online digitec ad esempio nel 2017 ha introdotto un nuovo programma di fidelizzazione. I clienti vengono premiati con punti e premi quando fanno acquisti o discutono di prodotti e danno recensioni. Ogni cliente può poi vedere il proprio punteggio e livello rispetto agli altri clienti. Come dimostrano questi esempi, la gamification oggi è presente un po’ ovunque ed è in continua crescita. Ogni giorno vengono pubblicate circa 1600 nuove app e il 43% sono giochi. Ma che cos’è un gioco? Ogni gioco è composto fondamentalmente da tre elementi: un obiettivo che indica ai giocatori la direzione e se viene raggiunto permette di passare al livello successivo; delle regole che definiscono come si può raggiungere l’obiettivo; e un meccanismo di feedback per permettere al giocatore di capire quanto è vicino all’obiettivo. Inoltre giocare deve essere un’attività volontaria. Non deve sussistere nessun obbligo di partecipazione. Il trucco per sviluppare un gioco di successo è mantenere il giocatore in uno stato di flow caratterizzato dal giusto equilibrio tra la difficoltà della sfida e l’abilità del giocatore. Se il giocatore si sente sopraffatto perché il gioco è troppo difficile tende ad essere frustrato e si arrenderà. Al contrario se il gioco è troppo facile e non stimola abbastanza il giocatore, quest’ultimo si annoierà e smetterà presto di giocare. Un gioco di successo si ottiene quindi attraverso sfide successive. Il livello di difficoltà deve aumentare sfida dopo sfida di pari passo con l’abilità del giocatore. Senza che ce ne siamo resi conto, quindi, la nostra vita è diventata un gioco. E forse, grazie alla gamification, i buoni propositi che abbiamo fatto per il nuovo anno, questa volta, li riusciremo a mantenere.

Con l’inizio del 2020 e della nuova decade del terzo millennio viene spontaneo soffermarsi, con un misto di nostalgia e curiosità, sugli avvenimenti degli ultimi dieci anni. In questo periodo il mondo dei videogiochi è cambiato enormemente: dai prodotti creati per essere fruiti da singoli utenti si è passati ai giochi da condividere con amici e sconosciuti in modalità online. Non che prima del 2010 non esistessero giochi multiplayer sulla rete, ma è il fenomeno è cresciuto a livello esponenziale. Gli anni Dieci, inoltre, hanno visto l’avvento di nuove figure professionali nel mondo del gaming: le più importanti sono sicuramente gli atleti di e-sport e gli streamer. I primi (proprio come quelli veri) possono guadagnare milioni, tra premi, sponsorizzazioni e altre attività. Gli altri incassano piccole fortune trasmettendo online le proprie partite. Un fenomeno che all’inizio degli anni 2000 non compariva nemmeno nei sogni più assurdi di chi, chiuso nella propria cameretta, smanettava con PlayStation e Gamecube. L’ultima decade ha visto quindi crescere l’importanza dei videogiochi quale fenomeno globale di massa. Quasi tutti, oggi, siamo giocatori. Le sole differenze stanno in come ci percepiamo nei panni di giocatori e nel tipo di gioco che scegliamo. Basta dedicare qualche minuto al giorno a un rompicapo sullo smartphone per essere, tecnicamente, dei gamer. L’accesso a questa fonte d’intrattenimento è ormai alla portata di chiunque, appunto perché i videogiochi possono essere fruiti non più solo su dispositivi creati appositamente allo scopo o su computer d’ultima generazione. Di pari passo, inevitabilmente, è anche cresciuto il fatturato del settore, arrivando a superare agilmente cinema, televisione e musica. L’incremento oscilla tra il 15 e il 20% annuo, percentuali impensabili per i media tradizionali, che, scusate il gioco di parole, non posso competere con i giochi. E in questo campo colpisce in modo particolare l’invasione del mercato compiuta dalle produzioni orientali, in particolar modo cinesi. Per ciò che riguarda i titoli classici, gli anni Dieci hanno visto l’arrivo di franchise oramai entrate nella leggenda, quali Grand Theft Auto 5, League of Legends, Overwatch, Fortnite, Minecraft e via dicendo. La lista è davvero lunga. Più in generale possiamo affermare che i videogiochi hanno subito un’evoluzione lenta ma costante, dando origine a categorie sempre più specifiche. Da un lato, i giochi con una forte componente narrativa, dall’altra esperienze ludiche vissute esclusivamente online. Quelli che non arrivano sul mercato sono giochi con ambizioni artistiche più alte. Anche se si è visto qualche titolo molto interessante, capace di sfruttare a fondo le capacità narrative e cinematografiche del medium, tuttavia il mondo dei videogiochi continua a non essere considerato come terreno fertile per opere di rilevanza culturale.

Fortnite, il fenomeno di rilievo negli ultimi anni. (epicgames. com)

Un’opinione probabilmente destinata a cambiare nella prossima decade, quando i giovani nati coi videogiochi si avvicineranno ai cinquant’anni di età. Quando il prodotto del videoludico sarà condiviso da diverse generazioni e da diverse classi di età assumerà forse una nuova fisionomia. Che cosa attendersi allora dagli anni Venti? Le prime avvisaglie della nuova generazione sono già qui. Sia Microsoft che Sony dovrebbero lanciare sul mercato i successori di PlayStation e Xbox entro la fine dell’anno. I videogiochi si avvicineranno sempre di più ad una fedeltà grafica per ora solo possibile nelle produzioni cinematografiche di Hollywood. Tecniche speciali quali raytracing, cloud computing e parallelizzazione dei carichi computazionali la faranno da padrone, e magari restando termini incomprensibili al pubblico. È anche possibile che in futuro più nessuno possegga una console per i videogiochi e che l’industria migri completamente verso servizi sul Cloud. Ogni grande attore del mercato, Google compresa, sta lavorando alacremente in questa direzione per diventare «il Netflix dei videogiochi». Tuttavia, se questa transizione si farà sul serio dipenderà da molti fattori, non da ultimo l’accesso a connessioni internet sempre più veloci, tra cui le reti 5G. Non dimentichiamo poi la realtà virtuale, che dopo una partenza entusiasmante, ha un po’ rallentato la sua espansione. Va però detto che questo tipo di applicazioni sta giungendo lentamente alla maturità e c’è la possibilità che un giorno diventi un prodotto mainstream. La stessa cosa vale per i giochi in realtà aumentata (pensiamo al fenomeno Pokémon GO) sui cellulari: migliorie forse poco visibili ma costanti porteranno a netti progressi in questo particolare settore. Per finire, le applicazioni di intelligenza artificiale e reti neurali. Termini un po’ vaghi che però entreranno a far parte della vita quotidiana. Sistemi di computer che aiuteranno gli sviluppatori di videogiochi a proporre esperienze sempre più complesse e articolate, svolgendo compiti altrimenti impossibili per gli esseri umani. Già oggi ci sono applicazioni che sfruttano reti neurali per produrre una grafica migliore o il riconoscimento di parole, visi, modelli grafici e molto altro. Non arriveremo, si spera, ad una IA malvagia come si vede spesso nei film catastrofici. Tuttavia è ormai chiaro che una serie di IA avanzate saranno parte della nostra esistenza quotidiana, che questo ci faccia piacere o meno. Insomma, la prossima decade sarà caratterizzata, come tutte quelle precedenti, da luci e ombre. Fantastiche evoluzioni e pessime idee. Il mondo dei videogiochi evolverà ancora, diventando probabilmente sempre più preponderante e di valore. C’è solo da sperare che la Svizzera, con la sua industria del videogioco ancora in fase di gestazione, non perda il treno in un settore che non solo può portare molti soldi ma anche molti posti di lavoro e sbocchi creativi alle nuove generazioni.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Società e Territorio

Tra storia e natura

Sonvico Nove chilometri di sentiero per scoprire testimonianze

del passato rurale e panorami meravigliosi

Elia Stampanoni Rinnovato dopo 20 anni d’esistenza, il sentiero storico naturalistico di Sonvico si può percorrere oggi seguendo un’aggiornata e accurata segnaletica che conduce i visitatori lungo i nove chilometri del tragitto, tra boschi e prati, colline e paesi. Il punto ideale di partenza è proprio nel nucleo del paese. La gita richiede senz’altro una discreta condizione fisica e un adeguato abbigliamento avendo, oltre ai chilometri, anche quasi 500 metri di dislivello complessivi, distribuiti su sentieri di media montagna. Un tragitto abbastanza impegnativo, ricompensato però dalla scoperta di luoghi discosti e affascinanti della regione, come l’antica cantina, il cassinél, che s’incontra in una delle prime tappe appena fuori dal nucleo, quando già si può ammirare un bel panorama sul golfo di Lugano. Questo tipo di costruzione, molto diffusa nel passato rurale, serviva alla conservazione del latte. Nel cassinél, costruito in pietra e incassato nel terreno, la frescura era garantita dalla sorgente, la cui acqua corrente garantiva delle temperature ideali. Seguendo il rumore dell’acqua in lontananza, il sentiero scende ancora verso valle, per arrivare dapprima a un vecchio ponte ad arco restaurato e quindi, con una breve deviazione, al vecchio mulino situato nella zona «Murín» che, come suggerisce il nome, era un tempo caratterizzata dalla presenza di più macchinari. Quello che si può visitare

è rimasto in funzione fino all’abbandono attorno al 1930 e oggi si possono ancora vedere le macine, i muri e altre strutture che permettevano, tramite un canale, di captare l’acqua del fiume Franscinone, lungo il quale prosegue l’itinerario disegnato in funzione dei quattro elementi: acqua, fuoco, terra e aria/cielo. Nei ventotto punti d’osservazione, segnalati e descritti con dei pannelli (in quattro lingue), si ritrova infatti una relazione a uno o più di questi elementi. Il tragitto risale quindi dolcemente lungo il fiume, immergendosi nel silenzio e nei suoni della natura, attraversando ambienti particolari per raggiungere altre tappe d’interesse, tra cui il vecchio lavatoio. La costruzione è divisa in due parti, quella più interna, completamente interrata, fungeva da cassinél, quella esterna da lavatoio, luogo di fatiche per il bucato della popolazione rurale. La gita prosegue su alcune passerelle spettacolari, che permettono di superare gli avvallamenti sfruttando la vecchia condotta dell’Azienda elettrica comunale di Massagno che, nel 1925, iniziò a produrre autonomamente l’energia di cui aveva bisogno grazie alle acque del Cassarate e, di seguito, anche del Franscinone (1932). Le condotte, ora convertite in sentiero pubblico, furono abbandonate quando si realizzarono le tubazioni sotterranee per il trasporto delle acque dei due fiumi alla centrale idroelettrica della Stampa. Dopo il passaggio presso la presa e centrale di captazione del Franscino-

ne, una breve scalinata e un segmento quasi pianeggiante portano a una cascina per la lavorazione del latte e di seguito a una fornace per la produzione della calce, percorrendo una zona rurale ricca di campi, boschi e selve. Una piccola deviazione invita a visitare la zona umida di Canéed e poi il sentiero sale vertiginosamente verso Rosone, transitando dalla ricostruzione di una carbonaia, da alcuni monti e quindi accarezzando, a lato del sentiero, alcuni terrazzamenti esistenti. Si tratta di costruzioni straordinarie, opera dell’uomo che in passato è stato abile nel dissodare e adattare il terreno per ricavare pascoli e prati anche in luoghi impervi. La camminata prosegue con pendenze decisamente più piacevoli e presto s’arriva in zona Madonna D’Arla, con la sua cappella a testimonianza di come fosse in passato un importante luogo di passaggio per raggiungere la Val Colla e proseguire verso la Val Cavargna. Poco sopra splende la vasta selva castanile di Pian Piret e quindi a seguire una faggeta che conduce il visitatore verso il Monte Roveraccio, posto a 904 metri di altitudine, il culmine della passeggiata. Qui ci sono ancora alcuni punti d’interesse, come un misterioso masso cuppellare, ma c’è soprattutto un panorama meraviglioso, dove spiccano i Denti della Vecchia, interessanti, non solo dal punto di vista paesaggistico e geologico, ma pure da quello botanico e faunistico. L’ultimo tratto permette di ritor-

Il cassinél per la conservazione del latte. (E. Stampanoni)

nare al punto di partenza da «R’Alborón», un castagno secolare con una circonferenza di oltre dieci metri, in parte cavo, ma tuttora vitale. Poco sotto si passa dall’oratorio di San Martino e velocemente si rientra nel paese di Sonvico, immettendosi nello «Stradòn», la via principale. Case, viottoli, porticati, fontane, strettoie e cortili portano fino alla Piazza del torchio, dove si può sbirciare dalla finestra il vecchio torchio delle noci (visite su appuntamento con l’associazione Amici del Torchio). Si tratta di un grande e antico torchio piemontese a leva nel cui tronco principale, lungo 10 metri, è incisa la data 1582. Utilizzato fin oltre la seconda guerra mondiale per la produzione di olio, è stato restaurato nel 1983 e la sala in cui si trova accoglie oggi degli spazi espositivi e una mostra permanente sul noce. La gestione è curata dagli Amici del Torchio, gruppo attivo

dal 1990 e impegnato nel proporre diverse attività legate alla riscoperta e alla valorizzazione delle particolarità locali, come per esempio il sentiero storico naturalistico di Sonvico. Realizzato vent’anni fa proprio dall’associazione, l’estate scorsa il sentiero è stato rinnovato nella segnaletica da parte dell’Ente Turistico del Luganese e risistemato nei suoi punti d’interesse dal Dicastero servizi urbani della Città. Come leggiamo sul sito degli Amici del Torchio, il percorso «intende valorizzare sia elementi della natura che peculiarità locali», ma anche «stimolare una riflessione sulla delicatezza e complessità dei legami fra gli esseri viventi e sul ruolo di ognuno di noi nel modificare i fragili equilibri ambientali in cui siamo immersi». Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni La civiltà del desiderio Tutti gli animali hanno bisogni; noi uomini, in più, abbiamo i desiderî. I bisogni primari sono radicati nella natura biologica: respirare, cibarsi, riprodursi e difendersi sono necessità che condividiamo con gli animali. Ma Maslow – che ha teorizzato una scala gerarchica dei bisogni – vi aggiunge il bisogno di amore e appartenenza, di autostima e di autoaffermazione, tipicamente umani. Da sempre, nelle civiltà umane, questi bisogni hanno regolato (o sregolato) il comportamento degli individui. Ma è verosimile che il progredire della civiltà stia rafforzando sempre di più il desiderio, che diventa, più che il bisogno, il vero motore dell’azione. Ovviamente ci sono cause facilmente intuibili di questo cambiamento. In primo luogo, la società dell’abbondanza rende assai più difficile che in passato avvertire con forza un bisogno: più che la fame, oggi si prova l’appetito; la sicurezza, per lo più, non

costituisce un problema. Semmai, sono i bisogni affettivi che mostrano oggi molte carenze: la solitudine, la depressione, la tristezza sono piaghe che affliggono troppe persone in una società sempre più frantumata e individualistica. Ma, soprattutto, ai bisogni si sostituiscono i desideri. E l’offerta pubblicitaria è ideata e perfezionata apposta per fare sorgere incessantemente desideri sempre nuovi. Non è certo un bisogno quello di sostituire al cellulare vecchio di due anni, che funziona ancora bene, il nuovo modello stracolmo di nuove «app»: un bisogno crea una necessità, il desiderio crea una dipendenza. Non è peraltro un fenomeno nuovo ed esclusivamente nostro di oggi: Platone scriveva, più di duemila anni fa, che tentare di soddisfare un desiderio è come versare acqua in una brocca bucata: una volta che l’hai soddisfatto, il desiderio ricompare

volgendosi, magari, verso un oggetto diverso. Fa dunque parte della natura umana questa attitudine al desiderare sempre di nuovo, ma è indubbio che questa tendenza si va attualmente rafforzando nella dimensione consumistica e nella sovrabbondanza degli oggetti disponibili. C’è però un aspetto della capacità umana di desiderare che non va sottovalutato. Lo ha indicato, nel Settecento, Immanuel Kant: il desiderio è ciò che ci permette di introdurre nella realtà cose che non ci sono. Se, in tempi preistorici, in una notte gelida l’uomo non avesse desiderato di ristorarsi al caldo, forse non avrebbe scoperto come accendere il fuoco; se non avesse sognato di volare, non avrebbe inventato l’aerostato e poi l’aeroplano. Dal desiderio, dunque, nascono i sogni, e dai sogni non di rado si passa alla loro realizzazione. A questa capacità umana di desiderare e immaginare quel che non c’è si deve il

progresso della civiltà. Come scriveva Max Weber, se gli uomini non tentassero continuamente l’impossibile, il possibile non verrebbe mai raggiunto. Questa stessa tendenza a sognare realtà che ancora non ci sono è tipica dei giovani e – quando tutto va bene – è una formidabile spinta a rimboccarsi le maniche, a darsi da fare per realizzare la vita sognata. Ma, come insegnava Benedetto Croce, desiderare non è ancora volere: il desiderio è certo la spinta iniziale ad andare oltre, ma solo se il desiderio si traduce in volontà, solo allora si inizia il cammino. Purtroppo, nella società odierna il desiderio è prevalentemente legato al consumo. Sono gli oggetti a dominare i nostri interessi, e molto spesso, anche quando il desiderio si riferisce ai sentimenti, è strumentalizzato in modo da riuscire a far vendere o comprare qualcosa: la pubblicità ne è la prova. Il desiderio più impor-

tante nella nostra società è la merce, e l’aumento continuo del prodotto interno lordo è la condizione necessaria al suo buon funzionamento. Ma ci può essere anche un effetto alla rovescia: la sovrabbondanza dei beni può condurre alla saturazione e allo spegnimento dei desideri. Mi diceva un amico: «Quando eravamo giovani avevamo molte voglie, ma pochi soldi in tasca. Ora i soldi ci sono, ma non sappiamo cosa volere». Il desiderio, dunque, ha molti volti: alcuni mostrano un sorriso persistente, come in un sogno dolce; in altri il sorriso si spegne rapidamente, quando alla soddisfazione subentra la noia. L’attuale facilità di soddisfare il desiderio non giova: si sapeva bene, in passato, che una delle caratteristiche fondamentali per innalzare la soglia del piacere è differirlo. Ma il motto dei contestatori del ’68 – «Vogliamo tutto e subito» – ha finito per prevalere.

Prima di varcare la soglia, butto un occhio alla targa commemorativa in bronzo posta nel 1941 con il profilo in bassorilievo di Oscar Bernhard (1861-1939): medico di Samedan iniziatore del museo e amico di Segantini che accorse a soccorrerlo invano trovandosi poi al suo capezzale. La Morte (1898-99), appeso a destra dello spettatore, è illuminato in pieno dalla luce che proviene da una delle finestre in alto, a volta, verso il lago. Ho letto da qualche parte che il momento migliore per venire qui è sul mezzogiorno. In realtà dipende anche dalle stagioni, ma alla fine non c’è un orario migliore di un altro. I tre dipinti, esposti alla perfezione contro lo sfondo verde oliva che confina con il biancore del soffitto, vivono anche molto di luce propria. Ad ogni modo alle undici e trentanove a metà gennaio, centoundici anni esatti dopo l’apertura al pubblico, mi siedo sulla panca-parallelepipedo in legno. Nel paesaggio innevato di Maloja all’alba si nota l’incompiutezza delicata del cavallo che aspetta chino con la slitta, la salma. In faccia La Vita

(1896-99): Soglio all’imbrunire con donne e mucche e l’ultima luce sulle montagne. Al centro della sala rotonda con il parquet a spina di pesce, La Natura (1897-99): il mastodontico ultimo quadro con quel cielo da non crederci che ti cattura e prende gran parte di questa tela divisionista di quattro metri circa per due e mezzo. Non per niente, oltre Alpentriptychon, come titolo si utilizza Trittico della Natura. In controluce c’è anche il vitello tirato da un’alpigiana stanca e spintonato dal muso della madre dietro, la neve della Val Roseg, il disegno incorniciato del pavillon per il panorama, il ticchettio dell’aggeggio che misura temperatura e umidità nella sala. Eppure lo sguardo torna sempre a quel cielo che vibra in eterno con una sola nuvola. Seguendo il tragitto dei raggi nel cielo al tramonto su in cima allo Schafberg – un po’ come si insegue la parabola di un arcobaleno per sapere dove gli gnomi hanno sepolto la pentola piena d’oro – si plana verso il lago di St. Moritz dove è prefigurato il posto dove sono seduto adesso in un non tempo.

gine, le speranze, i desideri e provocando, infine, grandi delusioni. Tutto ha avuto inizio quel famoso pomeriggio dell’undici maggio del 1997 in cui il campione di scacchi Garry Kasparov, al 35esimo piano di un grattacielo di Manhattan, viene sonoramente sconfitto da Deep Blue, un computer. La delusione e la rabbia di Kasparov di allora simboleggia l’offesa, la mortificazione digitale dell’umanità che da allora si è ripetuta altre milioni di volte. Quell’ingombrante calcolatore ed elaboratore dati che era Deep Blue si è trasformato in una macchina dotata di intelligenza artificiale in grado di percepire la realtà circostante e di comunicare, interagire con essa. E qui c’è l’aspetto più inquietante che Zehnder mette in luce nell’analizzare i vari livelli di sviluppo e cambiamento che da 250 anni a questa parte la rivoluzione

tecnologica ha portato con sé. Mentre le precedenti rivoluzioni hanno sostituito o modificato le modalità di lavoro dell’uomo, la quarta rivoluzione innalza lo sviluppo ad un livello che lui definisce super umano, per cui alcuni processi e relative prestazioni vanno oltre quelle che sono le capacità e le prospettive di noi comuni mortali. A tal punto che i computer assumono quella che Zehnder chiama una prospettiva divina e cita Giobbe capitolo 34, versetto 12: «Poiché egli tiene gli occhi sulle vie dell’uomo, e vede tutti i suoi passi». Inquietante, non è vero? Zehnder nella sua analisi, profonda e attuale, va ancora oltre e alla fine ci dà anche una speranza, della serie: non tutto è perduto. Per sapere di che cosa si tratta seguite la prossima puntata in cui, vi anticipo, si parlerà anche di Stefan Zweig e di Goethe.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il museo Segantini a St. Moritz La posizione prescelta per il museomausoleo sorto nel 1908 in memoria di Giovanni Segantini (1858-1899) proviene dal punto in cui, nel dipinto centrale del Trittico delle Alpi, convergono i raggi del sole appena tramontato. Alle spalle del panorama di montagne catturate in controluce sullo Schafberg (2731 m) dove a quarantun anni, il ventotto settembre, Segantini muore di peritonite in una baita. Il luogo, individuato dal Comitato per il Museo Segantini, si trova sulla strada per Champfèr, al limitare del bosco di larici e cembri dove entro ora assaporando a ogni passo lo scricchiolare della neve sotto i piedi. Nuda, una donna mimetizzata come le pernici bianche emerge da un blocco di marmo di Carrara. Monumento mezzo innevato scolpito da Leonardo Bistolfi (1859-1943) per la tomba al cimitero di Maloja dove è sepolto il famoso pittore paesaggista apolide nato ad Arco di Trento e approdato lì, preda della luce, nel 1894. Astronomico e sacrale ecco ergersi sul pendio boscoso il museo Segantini a St. Moritz (1874 m) come

un tempio in pietra locale, la cui cupola con dodici finestre-oblò, è cosparsa da piode in serpentino della Valmalenco. L’edificio, tutto in sassi che si sposano a meraviglia con neve e conifere, è disegnato da Nicolaus Hartmann (1880-1956) junior: architetto già incrociato per via dell’hotel Castell a Zuoz e autore tra l’altro anche dell’ala occidentale del Badrutt’s Palace, del Museum Engiadinais non lontano e altra roba nei dintorni. Il museo richiama di certo il Pantheon, il Mausoleo di Teodorico a Ravenna, altri battisteri ed edifici sacri circolari con cupola, ma non smette di ricordarmi molto alcuni osservatori astronomici. Orientato verso lo Schafberg, lassù in cima sopra Pontresina, stabilisce un legame tra quella morte in altitudine dipingendo fino alla fine l’ultima tela e la vita di ogni visitatore. La vista abbraccia, qui sotto, il lago semighiacciato ai piedi del Piz Rosatsch ombreggiato da magnetiche cembrete. Sul ghiaccio nero, temerari pattinano. Lo spunto chiave seguito da Hartmann però, è lo schizzo di Segantini stesso per il pa-

diglione circolare che avrebbe dovuto accogliere, in occasione dell’esposizione universale di Parigi nel 1900, il panorama engadinese mai realizzato. Proclamato da Segantini come «il più grande panorama di tutti i tempi» al quale dovevano partecipare Hodler, Amiet, Giovanni Giacometti con tanto di effetti speciali illusionistici e già finanziato in parte da diversi albergatori della regione ma naufragato a fine gennaio 1897. Il Trittico delle Alpi nasce da questo grandioso progetto arenato ed è all’origine della cupola, baciata ora dal primo sole d’inverno, dove è custodito accarezzato di continuo dalla luce engadinese che entra dall’alto. Prima dell’alba mi sono svegliato per essere, verso mezzogiorno, seduto nella cupola a contemplare il trittico tornato al suo posto che secondo me non dovrebbe mai lasciare. Con lo sforzo fatto da Segantini per salire sullo Schafberg a dipingere fino all’ultimo il paesaggio, il minimo è venire qui e fare religiosamente i diciotto scalini che portano su dentro la cupola. Solo qui, in realtà, si può vedere come si deve il trittico.

La società connessa di Natascha Fioretti La mortificazione digitale Secondo lo studio McKinsey nel 2030 circa il 25% di tutte le attività professionali in Svizzera saranno automatizzate e circa 1,2 milioni posti di lavoro cancellati. Al contempo, grazie alle nuove tecnologie nasceranno 800’000 nuovi posti di cui la metà in ambito tecnologico, in particolare nel campo del Software e dell’Hardware e in aziende che propongono soluzioni digitali. Cosa succederà a chi perde il lavoro? Lo salveranno la riqualificazione professionale e la formazione continua. Lo stesso scenario vale per tutta l’Europa in cui oggi molti paesi corrono al riparo alzando i toni nazionalistici e lanciando grandi proclami contro l’immigrazione e la manodopera a basso costo che porta via il lavoro ai propri cittadini. La vera minaccia però non sono gli immigrati è la digitalizzazione: o perché senza occhiali o per convenienza, i politici si

rifiutano di mettere a fuoco l’elefante nella stanza. Questo è quanto ci racconta Matthias Zehnder nel suo sag-

gio uscito per NZZ Libro Die digitale Kränkung. Über die Ersetzbarkeit des Menschen (La mortificazione digitale. Sulla sostituibilità dell’uomo). Così come in tedesco, anche in italiano il titolo ci porta dritti a Sigmund Freud. L’autore, classe 1967, studi in germanistica e filosofia all’Università di Basilea, un dottorato in scienze dei media, per spiegare quanto sta accadendo oggi si rifà al padre della psicanalisi e alla tesi secondo cui le grandi rivoluzioni sono anche grandi mortificazioni dell’umanità. In altre parole, dopo quella copernicana, biologica e psicologica ora stiamo vivendo la grande mortificazione digitale. Per dirla con le parole del neurologo e psicoterapeuta Reinhard Haller le mortificazioni sono il risultato di aspettative positive disattese che feriscono il narcisismo e l’amore di sé dell’uomo mettendone in discussione l’atteggiamento, l’imma-


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Ambiente e Benessere Un tesoro nascosto Anche nei nostri boschi è possibile trovare tartufi neri, che si perpetuano grazie a dei coleotteri

False partenze Torna Mamé con le sue avventure e disavventure, giacché nel mare d’Irlanda ha rischiato un naufragio… pagina 19

Civiltà o intolleranza? La nuova offerta è dare la possibilità di scegliere un posto distante dai passeggeri con bambini sotto i due anni

Forza e misura Le arti marziali come alternative alla perdita di certi valori, primo fra tutti il rispetto

pagina 23

pagina 17

pagina 25

Giovani (e belli) per sempre

Anatomia Chirurgia estetica e paura

della morte nella conferenza pubblica alla Clinica Sant’Anna

Maria Grazia Buletti «In un’ampollina… L’elisir della giovinezza. Il segreto della vita eterna. Il potere di una pozione magica. A volte funziona… Io ho settantuno anni suonati! Ecco che effetto fa. Arresta il processo di invecchiamento all’istante, e lo costringe a regredire. Beva quella pozione, e non invecchierà mai più, neanche di un solo giorno. Non la beva, e continuerà a vedersi imputridire»: in questa esortazione di Lisle (depositaria di una magica e antesignana parvenza di medicina estetica) sta il senso del lungometraggio Death Becomes Her (in italiano: La morte ti fa bella). Una commedia nera che ricordiamo per la trama grottesca nella quale Madeline (interpretata magistralmente da Meryl Streep) manda all’aria il matrimonio della sua migliore amica Helen col chirurgo Ernest che alla fine diverrà suo marito. Poi, tutto ruoterà attorno alla chimera di vita e giovinezza eterne che entrambe le protagoniste perseguiranno rivolgendosi alla stessa misteriosa clinica dove l’affascinante Lisle persuaderà Madeline a comprare un elisir di lunga vita che la renderà per l’appunto, bella e immortale. Finché entrambe le donne, ansiose di eterna bellezza, andranno inesorabilmente in pezzi. «Giovani per sempre: chirurgia estetica e paura della morte» è il titolo del tema proposto mercoledì 22 gennaio dalle ore 18.00 (nella seconda conferenza del ciclo «L’Ora Blu») alla Clinica Sant’Anna di Sorengo, in cui interverranno il dottor Philipp Fallscheer e il dottor Giovanni Barco (specialisti in chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica), la pediatra Marianne Caflisch dell’Ospedale Universitario di Ginevra e le dottoresse ideatrici del Ciclo di conferenze «L’ora blu» Petra Donati e Cari Platis. Un tema di crescente attualità che nell’incontro con il pubblico metterà su un piano colloquiale quel che sempre più impone la nostra società dei consumi nella quale la «manutenzione» è sempre necessaria, si tratti di un’automobile o, per restare nella metafora cinematografica, di una bionda «pozionata» da una maga. Durante la serata si avrà modo di disquisire sull’ideale di bellezza e sulla sua evoluzione, sull’era social nella

quale siamo sempre più immersi e sulla relazione fra selfie, immagine di sé e realtà. E ancora: sull’età come variabile o meno del ricorso al ritocchino di persone sempre più giovani, sulla medicina estetica e sulla chirurgia plastica che potrebbero sconfinare nell’illusione di esorcizzare l’invecchiamento e, di conseguenza, la paura della morte. Un universo vasto nel quale ci siamo addentrati, almeno un poco, insieme al dottor Philipp Fallscheer che ha dapprima definito chi sia il chirurgo estetico: «Utilizzando una citazione, posso dire che il chirurgo estetico è uno psichiatra con capacità estese». Con questa efficace definizione, il dottore ci parla della sensibilità necessaria per ascoltare le persone e comprendere cosa hanno bisogno, «senza cadere nel tranello di voler dare tutto ciò che esse chiedono, magari in modo poco differenziato e omologato». L’etica è il primo concetto saliente che emerge parlando di un mondo in cui i trattamenti di medicina e chirurgia estetica si moltiplicano, e alcuni media li mettono sotto i riflettori con una luce molto diversa dalla realtà («bisogna chiedersi se siano tutti necessari»). Affidarsi in mani poco professionali o poco esperte è il pericolo che sta dietro l’angolo («magari sono interventi non sempre eseguiti in modo così ineccepibile»): «Questo si ripercuote sul professionista serio che lavora con senso etico, con il risultato che spesso tutta la categoria viene messa sotto accusa». C’è confusione, ma ci sono anche professionisti etici e affidabili. Saper ascoltare la persona, cercare di comprendere i suoi sogni e i suoi bisogni sono condizioni essenziali per il chirurgo estetico. «Una parola molto importante del mio vocabolario è “no”, quando questa si rende necessaria, anche se cerco di comprendere le motivazioni della persona che ho davanti». Tatto, abilità ed empatia emergono come fattori salienti in una comunicazione medico-paziente che sta alla base di un risultato adeguato alla persona stessa. Che si tratti degli interventi più praticati a livello mondiale come blefaroplastica, rinoplastica, mastoplastica e liposuzioni, o di trattamenti estetici («per i quali pure bisognerebbe affidarsi a un serio professionista chirurgo estetico, diffidando dei centri estetici che

Il dottor Philipp Fallscheer, specialista in chirurgia plastica, ricostruttiva ed estetica. (Vincenzo Cammarata)

non sempre dispongono delle risorse per far fronte a eventuali possibili complicazioni»), emerge un professionista accorto ed empatico: «Ascoltare, comprendere, esprimere un proprio parere medico accompagnato da una simulazione o dalla spiegazione attraverso immagini o un disegno, permettendo alla persona di esprimere ciò che desidera, fanno parte di un approccio volto a garantire un risultato per il quale la persona possa uscire di qui più contenta di quando vi è entrata. Ciò che vorrei è consentire a chi ho dinanzi di riflettere bene, affinché se si fa qualcosa bisogna che sia fatta in modo adeguato e soprattutto privo di esagerazioni». Il nostro interlocutore ci spiega l’importanza della profonda conoscenza dell’anatomia e dell’anatomia estetica che concedono al medico di riuscire

a valutare e ad applicare le regole delle proporzioni e delle misure estetiche che, comunque, ci spiega, tutti possediamo in modo innato. Emergono altre due parole chiave come armonia ed equilibrio: «Dobbiamo ricordare che esiste un’armonia di età interiore e una che il nostro esteriore riflette: quando quella esteriore sembra più “vecchia” di come ci si sente, allora potrebbe intervenire il desiderio di apparire più giovani esteticamente anche fuori, logicamente». Legittimo dunque desiderare di andare verso qualche ritocchino se questo ci fa sentire meglio, purché affidato a mani esperte e professionali che sapranno agire con etica in modo che il risultato non esca dal perimetro dell’armonia e dell’equilibrio. Viene da chiedersi se la chirurgia estetica possa

essere un palliativo per aiutare a dimenticare la mortalità. «Potrebbe essere una teoria, io non ho una risposta», risponde francamente, aggiungendo: «Credo di poter interpretare il pensiero collettivo sul fatto che la paura della morte sia comune a tutti i mortali. Sentirsi belli, sempre più belli, sempre ancora belli potrebbe allora aiutare a farci vivere più momenti in cui non ci ricordiamo di questa legittima paura». Ci spiega che l’evoluzione della specialità volge verso i trattamenti non invasivi, anche se dice di non avere la sfera di cristallo: «Più che della chirurgia plastica, i miei timori riguardano il futuro della nostra società che ha accusato una crescita incredibile del desiderio di modificare se stessi, rischiando di andare anche un po’ oltre a quanto si possa reputare sensato».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Gli estimatori dei tartufi

Ambiente e Benessere

Entomologia II ben noto fungo sotterraneo è ricercato non soltanto da esigenti buongustai,

Il cibo del culturista La nutrizionista

ma anche da coleotteri ultra-specializzati

Come mettere massa e togliere grasso?

Alessandro Focarile

Laura Botticelli

Senza il prezioso e determinante aiuto di certi cagnetti bastardini, dal fiuto ineguagliabile e pazientemente addestrati, il «trifulat» piemontese, e il suo collega «truffier» francese ben difficilmente potrebbero trovare la «trifola». E senza l’indispensabile presenza degli insetti coleotteri del genere Leiodes (vedi foto), i tartufi sarebbero condannati a una ancor maggiore rarità. È questo un altro dei numerosissimi esempi di simbiosi (dal greco = vita insieme), e di evoluzione parallela (o co-evoluzione) di un insetto e di un vegetale. E poiché – una volta di più conosciamo anche i coleotteri leiòdidi conservati nell’ambra del Baltico (35-40 milioni di anni da oggi) – è una vita in comune instauratasi da ben vecchia data, si capisce che già in quell’epoca lontana erano presenti i funghi sotterranei. Forse, anche i tartufi. Il tartufo, e tanti altri funghi sotterranei meno conosciuti, e per niente pregiati e commestibili, difficilmente potrebbero svilupparsi e diffondersi nel suolo senza la presenza dell’insetto, come vedremo. Di fatto il tartufo è un tesoro, e come tale vive sottoterra. II «fungiatt» che vaga per i boschi, alla ricerca di svariati funghi commestibili (non esistono solo i pregiati boleti), difficilmente può immaginare che, ai suoi piedi, vi è tutto un mondo, ricchissimo di specie, costituito dai funghi ipogei (= che vivono sottoterra). Sono funghi del tutto particolari, che non avendo la possibilità di diffondere le loro spore all’aria libera, devono forzatamente ricorrere all’opera dei Leiodes.

Gentile Laura, vorrei rendere più consapevoli in materia di alimentazione i molti utenti che si avvicinano o già stanno praticando lo sport del «culturismo» se così possiamo definirlo. La domanda che in molti si pongono è la seguente: «Mi sto alimentando correttamente per raggiungere il mio scopo?» Mi lascia pure scettico a volte la frase: «Più si mangia, maggiore crescita muscolare si avrà, non importa cosa e quando». Potrebbe per favore dispensare qualche consiglio utile su come comportarsi quando si vuole seguire una dieta ferrea, ma corretta. Grazie per l’aiuto. / Nicola

Nonostante le scoperte mirabolanti in campo biologico, i funghi restano creature vegetali misteriose e… redditizie Questi coleotteri, nel cibarsi esclusivamente di spore, mostrano uno stadio altamente evoluto e specializzato di alimentazione. Così operando, contribuiscono alla veicolazione delle spore, che vengono espulse, in parte non digerite, nel terreno circostante. L’esame del contenuto intestinale dei Leiodes mostra considerevoli quantità di spore le quali, esemplificando al massimo, sono i «semi» dei funghi. Nell’Europa temperata, due sono le specie di tartufi rinomati e ricercati: quello bianco (Tuber magnatum), e quello nero (T. melanòsporum). Abbisognano entrambi di terreni argillosi e ricchi di carbonati, dove possono insediarsi nei boschi di querce e di noccioli. In Ticino, la quasi completa assenza di terreni calcarei nelle regioni collinari (se si esclude parte del Mendrisiotto), fa sì che il pregiato tartufo bianco sia

Un tartufo nero (Tuber melanòsporum). (Elena Regina)

assente, e sia presente (seppure sporadicamente) quello nero, ben noto come «tartufo di Norcia», località dell’Italia centro-appenninica, oppure come «truffe du Périgord», regione della Francia centrale. Diverse altre specie di Tuber sono conosciute, ma hanno il difetto di non essere commestibili per gli umani. Ad esempio vi sono i ben noti «tartufi dei cervi» (appartenenti ad altri generi), che sono golosamente ricercati dagli ungulati nei boschi di pino e di peccia. La parte non fruttifera del tartufo costituisce il micèlio, il quale contrae una tipica simbiosi sotterranea con le radici di molti alberi (anche castagni e faggi). Sono le micorrìze (dal Greco = funghi + radici), le quali hanno una vitale importanza per la fertilità e la salute del bosco. Insediandosi sui terminali più minuti delle radici (vedi foto), le micorrìze permettono e facilitano l’assunzione, da parte dell’albero, di sostanze indispensabili, quali il potassio, il sodio, il fosforo, generalmente poco mobili nel suolo, e precariamente ottenibili dall’albero. Queste sostanze sono trasmesse all’albero dalla micorrìza, che si presenta come un cappuccio che circonda i terminali più minuti delle radici (vedi foto). Grazie a questa vita in comune, la micorrìza apporta nutrimento all’albero, e l’albero contraccambia offrendo la possibilità di sostegno e di ancoraggio alla micorrìza. Tutt’oggi, nonostante le mirabolanti scoperte in campo biologico, i funghi restano creature vegetali misteriose e… redditizie. Perché a una annata doviziosa di comparsa, fa seguito una serie di anna-

Micorrize che avvolgono i capillari delle radici (larghezza 35 mm). (Alessandro Focarile)

te «magre», nonostante i fattori climatici (umidità, temperatura) sembrino a noi favorevoli? Perché certi funghi hanno una comparsa del tutto fugace ed estemporanea, e non se ne vede la loro presenza attraverso lunghi anni? Perché l’uomo, tutt’oggi, è riuscito a coltivare solo qualche specie di fungo, peraltro non entusiasmante, dallo scialbo e deludente sapore, e dal profumo inesistente, se non quello di «legno marcio»? Anche con i tartufi sono stati fatti (e si fanno tuttora) molti tentativi di coltivazione, ma senza risultati apprezzabili, e soprattutto remunerativi, se si considera che occorre attendere almeno dieci anni e più per vedere i risultati (anche negativi!) dei tentativi. Il gioco vale la posta in quanto, intorno ai

tartufi, ruotano interessi commerciali con parecchi zeri. Soltanto a New York, uno dei più celebrati ristoranti acquista ogni anno qualcosa come 110 chili di pregiatissimi e costosissimi tartufi bianchi. Tutt’oggi, manca una collaborazione scientifica (reciprocamente proficua) tra studiosi e amatori dei funghi (i micòlogi e i «micòfagi») e gli entomòlogi, gli studiosi degli insetti. Forse la chiave di comprensione e di aumento delle conoscenze (anche ai fini pratici e applicativi), sta tutta nell’instaurarsi di questa collaborazione. I funghi hanno bisogno degli insetti, e questi hanno bisogno dei funghi. È un problema di sopravvivenza reciproca, come l’ambra del Baltico ci testimonia a distanza di tanto tempo. Bibliografia

Antonio Auguadri, Carlo Vittadini, Giacomo Lazzari, Tartufi del Cantone Ticino (incl. Monographia Tuberacearum, di Vittadini C. (Milano 1831), Ed. Soc. Micologica C. Benzoni (Chiasso, 1991), 307 pp. Gianfelice Lucchini, I Funghi del Cantone Ticino e di altre regioni svizzere ed estere conservati al Museo di Storia Naturale, Ed. E. LucchiniBalmelli (Gentilino, 1997), 520 pp. A. Newton Jr., Mycophagy in Staphylinoidea (Coleoptera), in Wheeler, Q. & Blackwell, M. (eds.), Fungus-Insect Relationships: Perspectives in Ecology and Evolution – Columbia University Press (N. York,(1984), 514 pp. G.O. Poinar Jr., Life in Amber, Stanford University Press (Stanford, USA, 1992), 350 pp.

Egregio Nicola, in effetti il culturismo è uno sport diverso dagli altri perché gli atleti vengono giudicati in base all’aspetto fisico più che sulle prestazioni. Il National Physique Committee (NPC, la più grande organizzazione di bodybuilding amatoriale negli Stati Uniti) esamina la presentazione, le dimensioni, la muscolosità e la simmetria dei bodybuilder. I muscoli, oltre a essere grandi, devono essere simmetrici e ben definiti. Per avere una maggiore definizione e per mostrare le vene bisogna avere pure un ridotto grasso corporeo. La sfida per questi sportivi consiste quindi nella riduzione della percentuale di grasso mantenendo la massima massa muscolare possibile. Obiettivo raggiungibile con l’allenamento, che in genere si suddivide in due fasi. La prima fase si concentra sulla costruzione di più massa muscolare possibile sollevando pesi e aumentando l’apporto calorico. Nella seconda fase invece si riduce la percentuale di grasso corporeo diminuendo l’apporto calorico e aumentando il livello di attività. Non si tratta però solo di bruciare grassi per vedere gli addominali; questo sport può portare alla perdita di grasso a un livello quasi estremo e pericoloso per la salute. Per aumentare la massa muscolare si deve certamente mangiare di più, ma non è vero che non importano il come, il cosa e il quando, per citare la sua frase. Di certo sono necessarie più calorie di quelle che si bruciano. Si hanno infatti bisogno di calorie extra per avere energia durante gli allenamenti di sollevamento pesante e per sostenere la riparazione e la crescita muscolare che avvengono tra queste sessioni. Il fabbisogno calorico giornaliero dipende da molti fattori tra cui peso, età, sesso e livello di attività. Esistono molti calcolatori online o app per determinarlo. Una volta calcolato basta aggiungere tra 250 e 500 calorie al giorno, non di più, il corpo infatti può costruire solo mezzo chilo di muscoli alla settimana, più calorie probabilmente porterebbero a ingrassare insieme al muscolo Insomma, è uno sport che richiede molta disciplina, e consiglio vivamente, prima di iniziarlo, di chiedere un parere al proprio medico di famiglia e di affidarsi ad allenatori seri, per impostare il proprio piano di allenamento, e a dietiste specializzate per aiutare i vari cambiamenti nella dieta. Come sempre, sconsiglio invece il «fai-date» preso un po’ qui e un po’ là dal web. Spero di essere stata esaustiva nella mia risposta. Informazioni

Un tartufo nero (Tuber melanòsporum), grande quanto una nocciola, e il coleottero intento a cibarsi delle spore. (Alessandro Focarile)

Il Leiodes cinnamòmea, coleottero specifico dei due tartufi. (Udo Schmidt)

Molti gli insetti conservati nell’ambra del Baltico (35-40 milioni di anni). (pexels.photo)

I consigli circa il contenuto di una dieta adatta sia per mettere massa sia per diminuire il grasso si trovano sul sito www.azione.ch, integrati nell’articolo. Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Ambiente e Benessere

Naufragio sfiorato

Reportage Disavventure irlandesi sulla rotta del ritorno nella decima puntata del viaggio della barca a vela Mamé

Giorgio Thoeni, testo e foto Amo l’Irlanda. E non faccio differenza fra l’Ulster battagliero e l’Eire, fra protestanti e cattolici, fra unionisti e repubblicani europeisti. Certamente ci sarebbe molto da discutere sui due fronti e sulle ragioni storiche della loro divisione, su troubles («disordini») dei quali ancora ardono braci sotto le ceneri di un confronto di cui non si vorrebbe più sentir parlare ma che alcuni vorrebbero rilanciare. Di una cosa non ho dubbi: è un popolo adorabile, ospitale, cordiale, generoso e la loro terra è straordinariamente bella e affascinante. Dalle campagne verdeggianti alle coste selvagge e insidiose dell’ovest, dai fiumi dalle ampie anse ai porti turistici dell’est fino alle terre del nord, passando da Dublino a Belfast. Frequentare a più riprese gli irlandesi nella loro intimità famigliare è un regalo che però non lascia dimenticare ferite sociali appena rimarginate e le cui tracce sono in parte ancora presenti. Detto ciò, mai avrei pensato di rimanere in Irlanda così a lungo nella mia sfida solitaria, a vela dal Mediterraneo ai mari del Nord. Un bilancio che quest’anno mi fa dire di aver vissuto gli episodi più neri da quando navigo con Mamé, il mio vecchio sloop di 26 piedi protagonista dei miei viaggi per mare. Prime avvisaglie. Tutto inizia l’estate scorsa ai primi di luglio, quando ritorno a Donaghadee, un villaggio della contea di Down a poche miglia da Belfast dove ho lasciato svernare Mamé in un ormeggio apparentemente sicuro, a buon mercato con un ingresso strettissimo. Trepidante all’idea di riappropriarmi della barca, il mio entusiasmo viene smorzato poco prima del mio arrivo quando vengo informato che il motore, un robusto e fedele fuoribordo (di modesta potenza ma estremamente importante) è stato rubato. Al disappunto per il danno subito ho dovuto aggiungere l’attesa di una dozzina di giorni prima di poterlo sostituire. Giornate spesso interminabili, trascorse con la speranza di riprendere il mare, fra un Fish&Chips e una birra al Grace Neill’s, il più antico pub d’Irlanda. Faccio la conoscenza con Lenny, uno skipper professionista: «Ti posso accompagnare fino a Newlyn, sulla punta della Cornovaglia dove potrai lasciare la barca o decidere se proseguire». Ottimo. Il mio proposito, una volta laggiù, è infatti quello di costeggiare per alcune decine di miglia verso est per poi attraversare il Canale della Manica da Falmouth e raggiungere le coste della Bretagna. Divideremo il percorso in due parti, propone Lenny, dapprima arriviamo fino a Howth, vicino a Dublino e lasciamo la barca: «Devo tornare perché ho del lavoro da sbrigare». Ci ritroviamo a metà agosto. Fiducioso e soddisfatto, parto con Lenny per Ardglass, una trentina di miglia fino all’ultimo villaggio nordirlandese dove passiamo la notte. L’indomani sveglia di buon’ora. Ci attendono cinquantacinque miglia e almeno dieci ore di navigazione che si rivelano abbastanza dure a causa di un vento moderato e onda al traverso. Arriviamo a Howth, un vecchio borgo di pescatori di fronte a un’isoletta, è Ireland’s’ Eye (Occhio d’Irlanda). Disabitata e parco naturale protetto, su di essa ci sono i resti di una chiesa del VIII secolo. Un promontorio ci divide dal golfo di Dublino e a Howth si conclude la prima parte del viaggio. Lenny torna a casa mentre io organizzo la prima manutenzione del nuovo motore fuoribordo, obbligatoria dato che è in garanzia. Il vantaggio di essere a Howth è che si trova vicino all’aeroporto internazionale. Prendo il primo volo verso casa. Ma le sorprese non finiscono mai.

L’imbarcazione dei volontari del RNLI (Royal Navy Lifeboat Institution) mentre traina Mamé in avaria verso il porto di Howth.

Dopo un paio di settimane sono di ritorno: tutto è come l’avevo lasciato e Mamé è pronta a ripartire. Manca solo Lenny che… «non posso continuare – mi avverte – devo essere in Portogallo e ho già il biglietto per l’aereo. Mi dispiace. Posso però darti dei consigli per proseguire il tuo viaggio». Approfitto dell’occasione per accogliere la proposta di Michele, un amico ticinese, che mi aveva manifestato piacere di condividere l’avventura. Lo chiamo immediatamente: «Riesci a prendere il primo aereo? Possiamo salpare domani prima dell’alba con l’alta marea e la spinta della corrente. Ci fermeremo ad Arklow

dopo quaranta miglia. Quella cittadina si è fatta un nome per i passati fasti legati all’industria e alle costruzioni navali: il grande navigatore britannico Sir Francis Chichester vi si fece costruire il suo Gipsy Mounth III con cui vinse nel 1960 la prima regata transoceanica. Per ormeggiare entreremo dalla foce del fiume Avoca. Poi resteremo in attesa del momento più favorevole per affrontare un tappa impegnativa: la traversata del St. George Channel fino a Milford Haven, nel Galles, un porto commerciale molto trafficato dove speriamo di entrare con la luce del giorno. In tutto ci attendono un centinaio di miglia e

Daisy, la foca sorniona. Altre immagini del viaggio su: www.azione.ch

almeno ventiquattr’ore di navigazione. Da lì a Newlyn ne restano altre centoventi. In due ci si dà spesso il cambio, almeno ogni paio d’ore, le notti sono ancora corte… Insomma, questo è il piano e si può fare». E invece. Michele riesce ad arrivare in tempo e salpiamo. Impieghiamo più di sei ore per arrivare ad Arklow, fatichiamo a scapolare una punta, frenati dalla corrente che nel frattempo è girata. Dopo aver ormeggiato, riposato e fatto provviste, trascorsi un paio di giorni decidiamo di ripartire. Le previsioni sembrano essere propizie. Dobbiamo però fare ancora i conti con gli

Porto dei pescherecci a Howth.

orari della marea e, se vogliamo approfittarne, dovremo salpare a notte fonda con un vento da sud-ovest che si sommerà aiutandoci nella traversata. Inizialmente sfruttiamo il motore. Dopo circa un’ora vado all’albero per issare la randa, Michele è al timone. Il forte rollio della barca rende la manovra faticosa. Quando finisco sono esausto e vado a riposarmi all’interno. Tutto sembra procedere finché un rumore mi sveglia di soprassalto: «Cos’è successo?» chiedo a Michele. «Non lo so, improvvisamente ho sentito un gran silenzio». Il rumore potevo sentirlo solo io dall’interno. Non sento più il motore, controllo a poppa e… il fuoribordo è sparito! Strappato e trascinato sul fondo del mare che in quel punto è a più di quaranta metri. Dovremo rassegnarci e tutto sommato siamo stati fortunati. La collisione non ha causato avarie evitando così la peggiore delle situazioni: un naufragio e l’abbandono della barca. Ma che cosa ha provocato l’incidente: un container alla deriva? Un grosso tronco arrivato dal fiume? Un cavo d’acciaio sommerso? Solo congetture. Come quella di sommergibili russi che giravano in quella zona… una leggenda risalente agli anni Sessanta. Restiamo calmi e discutiamo sul che fare. Abbiamo percorso una decina di miglia. Decidiamo di tornare a vela tentando la risalita del fiume. Un’impresa che accantoniamo dopo un paio di tentativi: il vento è troppo fiacco e una leggera corrente contraria impedisce la manovra. Non ci resta che dar fondo all’ancora nella baia adiacente all’ingresso della foce e chiamare soccorso alla Guardia Costiera. In meno di un quarto d’ora veniamo raggiunti dall’imbarcazione dei volontari del RNLI (Royal Navy Lifeboat Institution) che in pochi minuti ci riporta all’ormeggio. Siamo al sicuro. Ci liberiamo delle cerate, le appendiamo ad asciugare e ci regaliamo un po’ di sonno. Nel frattempo, sfuma l’idea di continuare. Sistemiamo Mamé per l’inverno e torniamo a casa. Sarà per l’anno prossimo. Dopo un paio di mesi di peripezie, fra i tanti ricordi irlandesi mi resta quello dell’airone cinerino che ogni tramonto passeggia sulla banchina di Howth a caccia di cibo e l’espressione di Daisy (mi piace chiamarla così), foca sorniona, mentre fa capolino dalle fredde acque del porto di Howth. Istantanee di un viaggio interminabile, con la speranza di riuscire finalmente a tornare sulla costa bretone. Informazioni

Le puntate precedenti sono apparse su «Azione» il 18.02.2013, il 17.06.2013, il 07.10.2013, il 02.12.2013, il 09.02.2015, il 21.03.2016, il 19.06.2017, il 22.01.2018 e l’11.02.2019.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana

Tagliatelle ai carciofi e al gin Primo vegetariano

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

Ingredienti per 4 persone: 210 g di cuori di carciofo in scatola, sgocciolati · 1 spicchio d’aglio · 1 mazzetto di timo · 400 g di tagliatelle · sale · 1 c d’olio d’oliva · 150 g di pomodori cherry semi secchi, sgocciolati · 1,5 dl di gin, nei negozi di specialità · pepe · 20 g di formaggio grattugiato per guarnire, ad es. parmigiano.

1. Dimezzate i cuori di carciofo. Tagliate l’aglio a fettine. Sfogliate i rametti di timo. 2. Lessate le tagliatelle in abbondante acqua salata in ebollizione. 3. Nel frattempo, per la salsa soffriggete i cuori di carciofo nell’olio. Unite i pomodori cherry e continuate brevemente la cottura. 4. Scolate le tagliatelle, sgocciolatele e versatele nella padella con i carciofi. 5. Irrorate con il gin. Condite la pasta con il timo, regolate di sale e pepe. Servite le tagliatelle con il formaggio grattugiato. Preparazione: circa 25 minuti. Per persone: circa 16 g di proteine, 12 g di grassi, 78 g di carboidrati, 570 kcal/

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Ambiente e Benessere

Mamma, ho preso l’aereo

È tornato il marinaio

Viaggiatori d’Occidente È corretto segnalare la posizione dei bambini nei voli internazionali? Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Lo scorso settembre, Japan Airlines ha introdotto una novità nel suo sistema di prenotazione: al momento di scegliere il posto, un’icona mostra se accanto hanno prenotato passeggeri con bambini sotto i due anni. Naturalmente non ci sono garanzie sul risultato. Per esempio, l’icona non sarà visibile se i passeggeri con bambini fanno parte di un tour organizzato o se hanno prenotato attraverso un altro sito; inoltre, a meno di aspettare l’ultimo minuto, qualche genitore potrebbe prenotare dopo di voi e vanificare il vostro sforzo. Ma l’intenzione è chiara: permettere a chi non ama i bambini di scegliere un altro posto. L’uomo d’affari Rahat Ahmed (un americano originario del Bangladesh) ha espresso tutto il suo sostegno alla compagnia: «Grazie per avermi avvisato dove dei bambini hanno intenzione di urlare durante un viaggio di tredici ore. Dovrebbe davvero essere sempre obbligatorio». Le reazioni non si sono fatte attendere. Molti hanno apprezzato e condiviso l’intervento, altri hanno invitato a una maggiore tolleranza. Un indiano di Mumbai, dove la famiglia tradizionale è ancora importante, ha sottolineato come i bambini non siano un capriccio dei genitori quanto piuttosto il futuro di qualunque società: «Sono bambini, come tutti noi siamo stati un tempo». Ma evidentemente al di fuori dell’India non è più così ovvio. Non a caso del resto la popolazione giapponese diminuisce regolarmente dal 1975 e il tasso di fecondità (ovvero il numero di figli che una donna dà alla luce nella sua vita) ha raggiunto il livello minimo di 1,26. Grazie anche a un tasso di immigrazione vicino allo zero e a un’alta aspettativa di vita, nella seconda metà del nostro secolo gli anziani saranno metà della popolazione giapponese, un esperimento sociale senza precedenti nella storia. Altri hanno osservato che bisognerebbe segnalare anche la presenza di chi russa, mangia rumorosamente, si ubriaca, si lava poco, parla troppo o

Henry Burrows

Claudio Visentin

si impadronisce del bracciolo… A sua volta Ahmed ha poi spiegato come gli uomini d’affari utilizzino spesso il tempo del viaggio per finire un lavoro o recuperare ore di sonno; da qui la necessità di silenzio.

Scelta ingiustificata e discriminatoria, o segno di rispetto e democrazia per chi ha perso la capacità della tolleranza? Non sono mancati commenti divertenti; per esempio, dal momento che ancora scontiamo le conseguenze della grande crisi finanziaria del 2008, alcuni hanno chiesto di segnalare anche la presenza a bordo di gestori di fondi d’investimento come lo stesso Rahat Ahmed, per starne ben lontani. Altri hanno lodato l’iniziativa da un punto di vista completamente diverso: in questo modo i genitori saranno sicuri di non avere accanto persone intolleranti e avranno più spazio a disposizione se dei posti rimarranno vuoti. Il mio commento preferito comunque è quello di Sam, una hippy

canadese: «Ci sono persone come me che sarebbero felici di sedersi vicino alla famiglia e cercare di aiutare in ogni modo possibile. Posso giocare per giorni a cucù nello spazio tra i sedili [è un gioco nel quale si nasconde il viso con le mani per poi improvvisamente toglierle gridando: “cucù!”]». Per quanto gli spazi ristretti degli aerei nei lunghi viaggi internazionali aumentino il senso di fastidio per i comportamenti altrui, forse la situazione potrebbe essere gestita con il semplice buon senso da parte di tutti, come si è sempre fatto. Per cominciare i genitori potrebbero ridurre i lunghi viaggi allo stretto necessario nei primi anni di vita della prole. Soprattutto dovrebbero far capire agli altri passeggeri quanto siano dispiaciuti del disturbo arrecato; una giovane coppia per esempio ha regalato ai vicini un cioccolatino e… dei tappi per le orecchie (a questo proposito, un viaggiatore abituale dovrebbe avere sempre con sé delle cuffie con cancellazione del rumore, molto efficaci). Gli altri passeggeri per parte loro potrebbero dare una mano invece di lamentarsi. Regina Ottman ha pubblicato un annuncio per ritrovare e ringraziare quel passeggero che vent’anni

fa (!), in un volo tra Vietnam e Corea, si era offerto di badare un poco al suo bambino perché Regina e il marito potessero riposare. Anche gli assistenti di volo naturalmente dovrebbero prestare un’assistenza mirata: menu speciali, cambi di posto gratuiti verso settori meno affollati ecc. (per approfondire e trovare le compagnie meglio disposte verso i bambini, flyingwithababy.com). Intanto l’esempio di Japan Airlines sembra ispirare iniziative simili. Una startup ha appena lanciato sul mercato Tempted, la prima app che permette di applicare il filtro no-bambini nella ricerca di un tour o di un albergo anche attraverso Booking o TripAdvisor (tra le esperienze più richieste dagli utenti lo shopping nelle vie della moda di Milano o un fine settimana tra i vigneti, le cantine e i piccoli villaggi della Champagne). Naturalmente viaggi rivolti esclusivamente ad alcune categorie non sono certo una novità. Per restare solo alle crociere, ci sono proposte per ballerini, appassionati di musica rock, di lavori a maglia o di yoga, fan di Star Trek, giocatori di poker, gastronomi ed enologi, amanti dei gatti (ma i loro gatti non sono ammessi a bordo), nudisti… Ci sono crociere per anziani, coppie, single e sì, ci sono anche crociere riservate ai bambini, come quelle organizzate dalla Disney Cruise Line, imbarcando Topolino e gli altri personaggi Disney. Ma un conto sono le proposte tematiche, altro è la normale offerta dei mezzi di trasporto. In realtà si confrontano (e a volte si scontrano) due visioni diverse del viaggio. Da un lato il desiderio di ritagliare un tempo perfetto, sottratto ai fastidi e alle frustrazioni della vita quotidiana, dove esprimere a pieno la propria personalità; dall’altro il riconoscimento che il viaggio è uno dei tanti momenti della nostra esistenza, dove si alternano piaceri e fastidi. Questa è anche la mia visione e per questo, sia pure con l’attenuante delle buone intenzioni, giudico la scelta di Japan Airlines ingiustificata e discriminatoria. E voi? Scrivete le vostre storie di bambini in volo ad ambiente@azione.ch

«Dammi la vita che amo, / e null’altro mi sfiori. / Dammi la gioia del paradiso / e la strada lì fuori. / Letto di arbusti, tetto di stelle, / pane intriso nel fiume: / questa è la vita per me, / questa la vita per sempre. (…) Non cerco tesori, / speranze, amici, amori, / ma sulla testa il paradiso / e sotto i piedi la strada…». Lo scrittore Robert Louis Stevenson, al quale dobbiamo tanti libri di viaggi e avventure, sarebbe stato felice di incontrare bambini lungo la sua via. Credeva infatti fermamente che proprio l’infanzia sia l’età della vita nella quale la passione per i viaggi, come ogni altra, prende forma. Da bambino la sera, prima di addormentarsi, la sua tata Cummy gli raccontava storie di pirati, caravanserragli e isole orientali. Il letto si trasformava allora in un veliero, il sonno in una navigazione, il mattino in un approdo. Una notte Stevenson scappò silenziosamente dal letto e guardò la sua casa e la sua stanza da fuori, nella purezza notturna sotto il cielo stellato. Poi fu scoperto, preso e sgridato, impacchettato e rispedito a letto, ma quell’evasione notturna gli rivelò che i viaggi, dopo averli sognati, si possono fare nel mondo, che l’età adulta non rinnega i sogni del bambino ma dà loro corpo nella realtà. Questa curata edizione, con testo inglese a fronte, raccoglie proprio le poesie di Stevenson dedicate al tema del viaggio, insieme ad altre d’amore. Canti di viaggio uscì postumo nel 1895, un anno dopo la morte dello scrittore. Dal 1890, dopo un lungo peregrinare, Stevenson viveva nelle isole Samoa, dove fu sepolto insieme all’amata moglie Fanny nel più piccolo cimitero al mondo, sul Monte Vaea, protetto dalla foresta impenetrabile. Sulla tomba si legge l’epitaffio da lui composto: «È tornato il marinaio, è tornato dal mare, / e dalla collina è tornato il cacciatore». / CV Bibliografia

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Ambiente e Benessere

Sono forte perciò non ti picchio

Sport Il ruolo delle arti marziali nell’educazione alla non violenza, al rispetto e all’armonia Giancarlo Dionisio Il ragazzo è steso a terra. In posizione fetale. Quasi non ha più voce per implorare pietà. Pur di farli smettere, ha offerto tutto ciò che aveva: orologio, telefonino, soldi, giubbotto. Niente da fare. La banda di piccoli delinquenti non sente ragione. Insiste con pugni e calci ovunque. Arriva la pattuglia. I persecutori fuggono. Forse, per il ragazzo, è già troppo tardi. È la squallida, brutale, vile legge del branco. Non ci sono iniziative, petizioni e referendum che la possano abrogare. Serve semplicemente educazione. Educazione alla non violenza, al rispetto, all’armonia. Chi se ne occupa? O meglio, chi se ne dovrebbe occupare? Le istituzioni educative tradizionali sono in crisi. Un numero sempre più elevato di famiglie è alle prese con problemi più primordiali: far quadrare il bilancio, garantire il minimo vitale a tutti i membri, sommando due o più lavori sottopagati. Situazioni che provocano rabbia, frustrazione, insicurezza. Altri sono invece vittime della smania di incrementare continuamente il proprio capitale e il proprio potere. Altro che trovare tempo e lucidità per applicare sani principi. Dal canto suo la scuola fa fatica a reggere il passo con la tracotante maleducazione di altri modelli educativi. I Social media hanno sdoganato linguaggi e comportamenti che solo 10-15 anni fa erano inimmaginabili. I giovani sono più propensi a seguire quelli. Sono più facili da assimilare, rispetto a quelli che provengono dalla scuola. I social media non hanno barriere sociali. I loro valori travalicano ogni fil-

L’inchino iniziale prima di un combattimento è già di suo segno di rispetto dell’avversario. (Ma.Ma)

tro e contaminano anche chi ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza nella bambagia, ricoperto da regali e denaro. La recente cronaca locale ce ne ha fornito la testimonianza. In questo affresco dalle tinte drammatiche esistono, per fortuna, delle isole felici che possono essere fonte di speranza: le scuole di arti marziali. Che si tratti di Kung fu, Karate, Taekwondo, Judo, o altro, hanno tutte una matrice comune. Sono nate nel lontano Oriente, per aiutare l’individuo a difendersi imparando a combattere con maggiore efficacia. Non a caso il loro nome ricorda Marte, il Dio della guerra. Si sono nel tempo trasformate in una sorta di luogo in cui attivare un processo di crescita per il corpo e per la

mente. Spesso associate alla meditazione, sono diventate col passare di secoli e decenni, autentiche discipline spirituali. Anni fa un maestro mi disse: «Se entri in una scuola di arti marziali da picchiatore, ne esci in veste di difensore dei deboli». Uno dei concetti fondamentali del loro insegnamento, al di là della capacità di attingere alle forze della mente per sopportare privazioni e dolore, è quello della consapevolezza dei propri limiti e soprattutto della responsabilità della propria energia. Come dire: «Ricordati che puoi fare male, molto male». I delinquenti della scena iniziale, con ogni probabilità, non avrebbero aggredito la vittima, se fossero stati da soli. Caso mai questo

potrebbe essere un comportamento da squilibrato. No, l’aggressione avviene solo quando e perché si è in tanti contro uno. Ci si sente al sicuro. Il «nemico» non riuscirebbe a sovvertire le sorti del combattimento neppure se fosse Bruce Lee. La garanzia di «successo» è totale! Come ovviare a questa barbara stupidità? Non esistono ricette. Qualche indicazione tuttavia la può fornire il mondo dello sport. Probabilmente non quello con la «S» maiuscola, quello che brucia e dispensa miliardi su miliardi. Sicuramente quello di base, che insegna, o dovrebbe insegnare, alcuni semplicissimi valori fondamentali: il rispetto delle regole e delle persone, l’educazione al successo e l’accettazio-

ne della sconfitta. In fondo basterebbe pochissimo: da parte di genitori e famigliari un po’ più di tempo per giocare con i propri figli: in casa, su un prato o in un bosco, senza barare, aiutando il pargolo a vincere onestamente e a perdere serenamente. Da parte di allenatori e monitori servirebbe un po’ più di consapevolezza dell’importanza del proprio ruolo. Pensate a quanti giovani trascorrono ore ed ore nell’ambito di un’associazione sportiva, scoutistica o culturale. Perché non immaginare che questi ragazzi possano uscire allo scoperto come testimoni della pace e della non violenza? Perché non ipotizzare che possano ergersi a paladini della lotta al bullismo e alla sopraffazione? Fare una classifica fra le varie aree sportive può risultare antipatico, e soprattutto ne uscirebbe una graduatoria figlia di un’ingiusta approssimazione. Ovunque ci sono individui che lavorano bene. Ovunque ce ne sono di quelli (si spera una netta minoranza), che provocano danni a volte irreparabili. Mi sento però di affermare, per esperienza personale, che, in questo ambito, le scuole di arti marziali hanno una carta in più. Anzitutto possono far sfogare le pulsioni dei loro praticanti su un tatami o su un ring, nel pieno rispetto di regole e di principi etici. Inoltre, sono vincolate da un codice di comportamento rigorosissimo: se sbagli paghi, anche con l’allontanamento dalla palestra. Tuttavia, nessun bravo maestro vorrebbe privarsi di un suo discepolo. Quindi, statene pur certi, farebbe di tutto per mantenerlo sotto le proprie ali protettrici e per farlo crescere sano, forte, ma soprattutto onesto e consapevole.

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Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Quale significato hanno i nomi Anna e Sara? Terminato il cruciverba troverai le risposte, leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 8, 11)

ORIZZONTALI 1. Assicura il mantenimento dell’impegno di terzi 7. Il nome dell’attore Sharif 8. Le iniziali del romanziere Zola 9. Le iniziali di una nota Pivetti 10. I preziosi di famiglia 12. Fa binomio con labor 14. Le iniziali dell’attrice Cortellesi 16. Tre vocali 18. L’indimenticabile cantante Gaetano 21. Un fiore 23. L’hello italiano 24. Rifiutati 26. Incitazione per sollevare un grosso peso 28. Le iniziali del presentatore Mammuccari 29. Può essere offensivo 31. Tutto per gli inglesi 32. Fornisce circolazione d’aria 33. Le iniziali del fisico della relatività VERTICALI 1. Rendono gelosa Elsa... 2. Prendono per la gola 3. Si coltiva nell’orto 4. Le iniziali della cantante Ruggeri 5. Tre volte in latino 6. Nome di uno storico presentatore di «Striscia la notizia» 10. Ardito, temerario 11. Urto che provoca spostamento 13. Scoppia per divertimento... 15. Ricche di sostanze grasse 17. Attaccato al raspo 18. I raggi del poeta 19. A ... gran quantità 20. Pietra ornamentale 22. Cuor di coniglio 25. Cifra approssimativa 27. Sclerosi laterale amiotrofica 30. Due di fiori

Sudoku

Partecipazione online: inserire la

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Soluzione della settimana precedente

Uno degli strumenti musicali più antichi è: Risposte risultanti: IL FLAUTO – Gli anni che ha sono circa: TRENTACINQUEMILA.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Politica e Economia Mosca, attore in campo La Russia messa a dura prova nella partita che sta giocando in Libia (e Siria) con la Turchia

Chi comanda in Libia? La Libia nonostante i morti delle ultime settimane diventa sempre più una pericolosa guerra per procura multipolare, in cui vanno a definirsi strategie economiche e politiche ma anche religiose

Taiwan indivisibile Dopo la vittoria di Tsai Ing-wen alle presidenziali, Pechino avverte che Taipei è indivisibile dalla Cina pagina 30

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Tutto pronto ma nessuno scalda i cuori

Casa Bianca Il 3 febbraio inizia la lunga

corsa per le primarie democratiche con i tradizionali caucus dell’Iowa, ma nessun candidato sembra riuscire a unire le due anime del partito

Christian Rocca Lo scontro tra Stati Uniti e Iran conferma che il 2020 sarà l’anno più importante della nostra storia recente, almeno quanto il 2016 è stato l’anno nero per la democrazia globale. Resta da capire se sarà l’anno della disfatta della società occidentale o quello della riscossa. Il 3 novembre prossimo, con le elezioni presidenziali americane, sapremo se l’esperimento nazionalista sovranista populista continuerà a imperversare di qua e di là dell’Atlantico oppure se finalmente saranno scattate le contromisure per il ristabilimento della normalità democratica. Il caos globale che stiamo vivendo in questo momento ha radici profonde e motivazioni serie, ma si è consolidato ed è diventato virale il 23 giugno, l’8 novembre e il 4 dicembre del 2016, con lo sconsiderato referendum sulla Brexit, con la dubbia elezione di Donald Trump e con il No alle riforme costituzionali italiane. In tutti e tre i casi c’è stato un attacco esterno via social network, sia pure con modalità e impatti diversi, ai processi democratici dei due paesi leader dell’alleanza atlantica e di uno dei suoi più importanti alleati. Un’ingerenza grave che ha esacerbato i problemi interni, ma ancora più gravi sono state le conseguenze politiche e sociali di quegli accadimenti del 2016. Innanzitutto la rinuncia dell’America a interpretare il ruolo dell’America, cominciata in realtà con Barack Obama per scelta ideologica e in reazione alla politica interventista occidentale post 11 settembre, e poi lo sfaldamento dell’Europa attivato dalla Gran Bretagna. Questi due eventi politici hanno lasciato il campo in Occidente e fuori Occidente alle scorribande delle potenze imperialiste antidemocratiche, dalla Russia alla Cina, libere di interferire, di intervenire, di ammaliare le frange estremiste, anticapitaliste e antioccidentali di destra e sinistra. L’assenza di una guida liberale e democratica ha disorientato l’opinione pubblica occidentale, o ciò che ne è rimasto a causa della disintermediazione creata dalla rivoluzione digitale. La Francia di Emmanuel Macron e la Germania di Angela Merkel hanno provato a fare da contraltare, con mil-

le difficoltà e notevoli proteste interne e per questo sempre molto attenti a difendere innanzitutto i loro interessi nazionali più che quelli sovranazionali in un mondo dove le alleanze tradizionali contano meno di una volta. Il rigetto di una nuova Italia finalmente dinamica e moderna, la crisi di identità della Spagna, il proliferare di forze antieuropee e antisemite, la nobilitazione della rabbia e del risentimento a nuovo pensiero dominante, lo strapotere dei signori dell’algoritmo, la chiusura dei porti e l’apertura a capitali e progetti illiberali come quelli cinesi e russi hanno creato il caos di questi quattro anni. Il 3 novembre 2020 è il giorno in cui può ricominciare la riscossa del mondo libero, perché soltanto quando Donald Trump sarà cacciato dalla Casa Bianca, preferibilmente con le buone regole democratiche ma andrebbe bene anche con le cattive procedure penali, il mondo potrà sperare di riorganizzarsi intorno a un sistema condiviso di libertà e di prosperità per tutti. Il punto è che oggi è più probabile che Donald Trump sia rieletto anziché defenestrato dagli elettori e poi abbandonato ai tribunali civili che aprirebbero la mattanza giudiziaria finora impedita dal fatto che solo il Congresso, cioè la politica, può incriminare un presidente in carica. L’economia americana va bene, la borsa vola, la disoccupazione è ai minimi storici, anche se c’è chi spiega che i beneficiari di questa crescita siano soprattutto gli americani che stanno bene, e non quelli che ne avrebbero bisogno, mentre altri fanno notare che tutto questo in realtà accade nonostante Trump, un presidente che con questi dati economici dovrebbe avere un gradimento popolare di oltre il 70 per cento, mentre sta poco sopra il 40. La quasi guerra con l’Iran potrebbe fargli conquistare consenso oppure no, dipenderà da che cosa succederà nelle prossime settimane. Difficile fare previsioni, le sorprese non mancheranno. La situazione politica è paradossale: con un presidente come Trump, infestato da scandali di ogni tipo, con i suoi stessi uomini che scappano dalla Casa Bianca, con i suoi stessi elettori che sanno benissimo di avere a che fare con un impenitente imbroglione, do-

Elisabeth Warren è una possibile vincitrice delle primarie del partito democratico in vista delle elezioni Usa 2020. (AFP)

vrebbe esserci la strada spianata verso Pennsylvania Avenue per uno sfidante serio e credibile. Il problema è che uno sfidante serio e credibile ancora non c’è. Il processo delle primarie democratiche comincerà il 3 febbraio con il caucus dell’Iowa e presumibilmente continuerà a lungo, certamente fino al Super Tuesday del 3 marzo, ma molto probabilmente fino a ridosso della Convention di Milwaukee del 13 luglio. La situazione oggi è questa: ci sono due candidati a diversa gradazione di socialismo, e per questo considerati estremisti e quindi il miglior regalo possibile per Trump, come Bernie Sanders e Elizabeth Warren, i quali si divideranno i voti di un partito spostatosi molto più a sinistra rispetto alle sue tradizionali posizioni liberali. Questo lascia spazio ai candidati liberali, i quali per restare a quelli principali sono tre, il giovane sindaco Pete Buttigieg, il più interessante dell’intero gruppo di aspiranti presidenti, e gli anziani Joe Biden, il favorito che non convince, e Mike Bloomberg, il quale non partecipa al primo giro di primarie per puntare direttamente al premio grosso del Super Tuesday del 3 marzo. A un mese dal voto, i sondaggi danno in vantaggio Buttigieg in Iowa e

Sanders e Buttigieg in New Hampshire, poi Biden in South Carolina e Nevada. Se le previsioni fossero confermate, uno tra Warren e Sanders, presumibilmente Warren, sarà costretto a pensare di abbandonare la partita. A quel punto, al Super Tuesday, quando voteranno gran parte degli americani, entrerà in scena Mike Bloomberg, il quale sta inondando quegli Stati, ma anche quelli che saranno decisivi per l’elezione del presidente a novembre, di una quantità di spot, soprattutto su Facebook, senza precedenti. Finora Bloomberg ha speso 18 milioni di dollari in microtargeting su Facebook soltanto a novembre, più altri 128 in spot televisivi, con la previsione di arrivare al Super Tuesday intorno una cifra che varia tra i 300 e i 400 milioni di dollari, tutti di tasca sua, che pareggerebbe quanto speso da Obama durante tutta la campagna elettorale del 2012. La strategia di Bloomberg si basa sulla scarsa presa popolare di Biden e di Buttigieg e sul pericolo socialista rappresentato da Sanders e Warren. La data decisiva del suo progetto è il 3 marzo: se sbaraglierà gli avversari nei 15 Stati del Super Tuesday, tra cui California e Texas, la strada sarà in discesa

perché Buttigieg difficilmente avrebbe le risorse per continuare e Biden perderebbe lo status di candidato favorito che è l’unico suo asso nella manica. Non è detto, però, che la strategia di Bloomberg, sia pure sostenuta da centinaia di milioni di dollari, funzioni anche per il sistema elettorale delle primarie democratiche che, a differenza di quello repubblicano che è maggioritario, è proporzionale. Insomma a Bloomberg non basta vincere, deve stravincere per costringere gli avversari a ritirarsi. Altrimenti si apre lo scenario della brokered convention, cioè che si arrivi a Milwaukee, a luglio, senza un candidato che abbia la maggioranza assoluta dei delegati, costringendo la convention a trasformarsi in un tradizionale congresso di partito che dovrà trovare una tormentata mediazione per scegliere internamente il candidato da contrapporre al presidente. Lo scenario della brokered convention è una fantasia da nerd della politica che viene evocata senza mai arrivare quasi a ogni ciclo elettorale, ma che in questi tempi impazziti sembra meno improbabile del solito e, soprattutto, rischia di essere l’ultimo grande regalo a Donald Trump e un addio al sogno di riscossa della società occidentale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Politica e Economia

Mosca-Ankara, partita a due

Guerra (e pace) per procura L’alleanza fra la Russia e la Turchia è soggetta a mille variabili, ma intanto può vantare

il successo di aver avviato una trattativa fra le diverse fazioni libiche in attesa che entrino in scena altri attori (europei) Anna Zafesova La partenza improvvisa del generale Haftar da Mosca, senza firmare il documento sulla tregua in Libia, ha messo a dura prova la pazienza del Cremlino, anche se Lev Dengov, il capo del Gruppo di contatto russo, si è mostrato ottimista. Ma la maratona negoziale svoltasi nel villino neogotico del ministero degli Esteri a Mosca il 13 gennaio ha messo in luce tutta la complessità della partita che Vladimir Putin sta giocando in Medio Oriente e in Nord Africa. I giornalisti del «Kommersant» riferiscono di una diplomazia quasi impossibile, con le delegazioni delle due controparti libiche, il generale Khalifa Haftar – «sponsorizzato» da Mosca – e del governo riconosciuto dall’Onu di Fayaz Sarraj – barricate in stanze diverse rifiutandosi di parlarsi faccia a faccia, con il ministro Serghej Lavrov a fare la spola e i ministri della Difesa russo e turco impegnati in un fitto colloquio tra di loro. A quanto pare, il motivo della rottura di Haftar è stato il no alla sua condizione di rimandare a casa i militari turchi chiamati dal governo di Tripoli. «Ora, tocca a Putin», è stato il commento di Recep Tayyip Erdogan.

I due presidenti in rotta con l’Occidente appaiono sempre più vicini. Dopo aver diviso le zone d’influenza in Siria si stanno muovendo insieme in Libia Il tentativo di negoziato di Mosca è stato infatti l’ultima azione congiunta della alleanza Putin-Erdogan. I due presidenti in rotta con l’Occidente appaiono sempre più vicini, e dopo aver diviso le zone d’influenza in Siria ora si sono proposti come mediatori nel conflitto libico. Un’alleanza che appare ormai collaudata, dopo che Ankara e Mosca avevano sfiorato lo scontro dopo l’abbattimento del caccia russo in Siria, nel 2015. Un diverbio dimenticato, e Putin è volato a Istanbul per inaugurare insieme a Erdogan il gasdotto Turkish Stream. Anche se resta un’improbabile alleanza di avversari. Anche in Libia, russi e turchi stanno giocando su sponde opposte. Mosca sostiene il laico Haftar, ospite frequente nella capitale russa. Ha potenti alleati al ministero della Difesa, anche perché ha studiato in Unione Sovietica e parla russo. Erdogan lo chiama «golpista» e «terrorista» e si schiera dalla parte di Sarraj, con il governo del quale condivide parentele che risalgono ai Fratelli musulmani. Anche in Siria Mosca e Ankara hanno giocato su fronti opposti. Paradossalmente però, in Medio Oriente il Cremlino riesce a mettere da parte tutta l’emotività che l’ha spinto a paralizzare il dialogo con l’Europa e l’America, sfoggiando l’arsenale

Il generale libico Haftar (a destra) con il ministro della Difesa russo Shoigu a Mosca. (AFP)

completo di diplomazia da realpolitik: negoziati, compromessi, spartizioni di sfere d’influenza e mosse abili e spregiudicate su scacchiere multiple. E così, dopo aver creato il triangolo di Astana – Turchia, Iran e Russia – in Siria, ora Erdogan e Putin si stanno muovendo insieme in Libia, nonostante il presidente abbia accusato Mosca di aver schierato in aiuto ad Haftar centinaia di contractor del «gruppo Wagner», già attivi in Siria. Il capo del Cremlino ha gelidamente replicato che «se ci sono combattenti russi in Libia, non sono stati mandati laggiù dallo Stato», una mezza ammissione. Una delle poste in gioco è il petrolio libico, sul quale i russi vorrebbero rimettere mano, e attualmente la zona dei giacimenti è sotto il controllo di Haftar, mentre Ankara vorrebbe una rinegoziazione che vada a favore del governo di Tripoli. La partita però è di una complicazione vertiginosa. In Siria, il Cremlino deve vedersela con un Bashar Assad desideroso di emanciparsi ma totalmente dipendente dai militari russi nella guerra contro l’opposizione (spalleggiata dalla Turchia). L’apertura di un dossier congiunto sulla Libia potrebbe essere per Putin anche l’occasione di

barattare con Erdogan altri dossier, per esempio, la tregua a Idlib. Ma l’avvicinamento russo alla Turchia ha messo in guardia l’Arabia Saudita e l’Egitto, due potenze regionali che sostengono Haftar. E se fino a un paio d’anni fa Mosca poteva vantare con il Cairo un asse privilegiato (erano stati proprio gli egiziani a incoraggiare i contatti tra Haftar e i russi), ora l’Egitto guarda preoccupato ai contatti di Mosca con la Turchia e anche con l’Algeria, che la diplomazia russa vedrebbe come potenziale partner in una triangolazione sul modello di Astana, al posto dell’Iran. L’alleanza con la Turchia preoccupa anche gli europei, soprattutto dopo che il governo di concordia nazionale di Tripoli ha siglato con Ankara un accordo che estende i suoi confini marittimi a danno della Grecia e dell’Egitto. L’offensiva di Erdogan rispecchia in qualche modo quella lanciata da Putin contro l’Occidente: manda i suoi militari per «difendere i fratelli turchi» in Libia, reagendo con istanze nazionaliste ed espansioniste a una crisi interna. Ma proprio questa similitudine fa temere la tenuta di un’alleanza retta da due personaggi con ambizioni simili e interessi contrapposti. Russia

e Turchia hanno molti interessi comuni, tra cui il commercio, hanno nemici comuni a Bruxelles, ma nello stesso tempo hanno molti terreni di scontro, non ultimi l’Asia centrale ex sovietica e il Caucaso russo. L’improvvisa partenza di Haftar è stata un duro colpo alla credibilità di Mosca, un segno della sua incapacità di controllare le proprie marionette. Un altro colpo è arrivato da Teheran, dove il missile di produzione russa della contraerea iraniana che ha abbattuto incidentalmente l’aereo civile ucraino ha fatto ricordare alla comunità internazionale le relazioni pericolose di Mosca con gli ayatollah, riaccendendo anche il conflitto tra Mosca e Kiev. Il Cremlino si è lanciato in avventure diplomatico-militari nel mondo arabo essenzialmente per distrarre l’opinione pubblica interna dal fallimento nel Donbass, e per mostrare all’Occidente di essere una potenza che non può essere isolata nonostante la crisi ucraina. I ragionamenti sul petrolio e sulle basi nel Mediterraneo sono subordinati a questo obiettivo, dimostrare di essere un global player che tiene le redini dei conflitti e risolve crisi, e che ha riempito i vuoti lasciati

da Washington, e l’assenza o le divisioni tra i Paesi europei. Il fatto che Mosca stia giocando una partita di puro potere, le rende anche più facile cambiare alleanze. E l’establishment russo non è così monolitico come appare all’esterno. Ci sono fazioni russe che hanno avviato contatti con Sarraj, sia perché considerano Haftar troppo inaffidabile, sia perché il generale è schierato con i loro avversari moscoviti. Tra i suoi alleati russi figura Evghenij Prigozhin, il «cuoco di Putin», il fondatore della «fabbrica dei troll» del Russiagate e della compagnia di contractors «Wagner», un attore molto potente che non ha ruoli formali, ma ha molti nemici a Mosca. Inclusi alcuni amici di Putin: in caso di successo in Libia, Prigozhin potrebbe avanzare delle pretese sulla spartizione della torta, andando contro gli interessi di altri oligarchi soprattutto petroliferi, e acquisire un peso ancora maggiore nei corridoi del Cremlino. L’alleanza tra Putin ed Erdogan è soggetta quindi a una serie infinita di variabili. Ma intanto può vantare almeno il successo di aver avviato una trattativa tra le diverse fazioni libiche, in attesa dell’entrata in scena di attori europei come Angela Merkel. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Politica e Economia

Quel che resta di una guerra civile

Libia Il conflitto sta vivendo uno stallo diplomatico: Haftar e al Sarraj

Francesca Mannocchi Il 4 aprile del 2019 il generale Khalifa Haftar ha lanciato un’offensiva per conquistare la capitale libica, Tripoli, sotto il controllo del GNA, Governo di Accordo Nazionale, sostenuto dalle Nazioni Unite e presieduto da Fayez al Sarraj. Da allora sono passati quasi dieci mesi e si continua a fare la conta dei morti: 150 mila persone sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni, distrutte sul fronte meridionale della città, nei quartieri di Qasr bin Gashir e nella zona di Ain Zara, che – soprattutto – sono stati teatro di scontri particolarmente brutali. I morti più di mille, i feriti più di diecimila. I due attacchi più sanguinosi del conflitto hanno colpito un centro di detenzione per migranti, lo scorso luglio, quando due bombe lanciate dalle truppe di Haftar (foto), hanno centrato una prigione a Tajoura, in cui erano detenuti circa 400 migranti. Qui cinquanta morti, e centotrenta feriti. Il mese scorso, a Tripoli, un missile ha preso l’accademia militare: trentatré morti, per lo più cadetti, giovani studenti, e decine di feriti. Oggi il conflitto sta vivendo uno stallo diplomatico, le due parti – da un lato il generale Haftar e dall’altro Sarraj – non si incontrano personalmente ma i loro alleati cercano una mediazione, il ripristino della negoziazione politica e di un percorso che porti a elezioni. Ma le soluzioni diplomatiche continuano a fallire, così come è fallita la Conferenza di Palermo nel dicembre 2018, organizzata dall’allora governo italiano a guida Lega-5 Stelle e come sono falliti i successivi incontri di Abu Dhabi, in vista di una conferenza programmatica a Ghadames, che avrebbe dovuto tenersi il 14 aprile scorso. Dieci giorni prima il generale Haftar aveva lanciato la sua campagna militare al grido di «Libererò in tre giorni la capitale dai terroristi».

Dieci mesi dopo Tripoli non è ancora caduta, ma la guerra non è più ormai una guerra civile, è diventata una pericolosa guerra per procura – così come lo è stata e lo è tuttora in Siria – in cui attori regionali e non, si contendono zone di influenza e asset energetici, di cui il Paese è ricchissimo essendo la nona riserva petrolifera al mondo. La guerra di Libia è una guerra multipolare, una guerra in cui gli assi delle alleanze internazionali sono molteplici e vanno a definire strategie di influenza certamente economiche e politiche ma anche religiose. Nella complessità di questo scenario, i governi europei, con particolare riferimento a quello italiano e francese che per ragioni storiche hanno interessi in Libia, hanno dimostrato tutta la loro debolezza. L’Europa ha risposto all’ultimo conflitto libico (vale la pena ricordare che è il quarto conflitto in nove anni, dal 2011, anno della primavera araba, della rivoluzione che ha deposto il regime quarantennale dell’ex rais Muammar Gheddafi) con posizioni diverse, contrastanti, senza una visione condivisa della soluzione del conflitto. Il governo francese di Emmanuel Macron ha sostenuto negli ultimi anni il generale Haftar, i governi italiani (tre in meno di 24 mesi) hanno sostenuto il governo delle Nazioni Unite, il governo Sarraj, per ragioni economiche (è in Tripolitania infatti che l’Italia ha un asset energetico strategico, il compound Eni di Mellitah) e per ragioni che fanno capo al fenomeno migratorio, che ha i suoi nodi nevralgici di partenza proprio nella parte occidentale del Paese, quella controllata dal GNA, Governo di Accordo Nazionale. L’Europa sconta oggi l’aver considerato la Libia in questi anni solo nell’ottica di brevissimo periodo, ottica legata a temi di impatto elettorale come il fenomeno migratorio, così, mentre l’unico

dibattito nel Vecchio Continente era su chi volesse accogliere o respingere i migranti in arrivo dal paese nordafricano e sui finanziamenti alla Guardia Costiera Libica; dall’altra parte del Mediterraneo si sono mosse e consolidate alleanze ben più solide e i vecchi attori protagonisti, l’Italia e la Francia, sono stati lentamente sostituiti da Turchia e Russia, e dai ricchi e potenti paesi del Golfo. Sarraj per mesi ha chiesto agli antichi alleati europei una presa di posizione netta sul conflitto, sostenendo che in questa guerra ci fosse un aggressore (Haftar) e un aggredito (la città di Tripoli) e che dunque non si potesse accettare una negoziazione che non prevedesse il ritiro delle truppe dell’LNA (esercito nazionale libico di Haftar). L’Europa però taceva, mentre le truppe di Haftar sono a dodici chilometri da Tripoli. Non indietreggiano neppure oggi, a seguito di un fragile cessate il fuoco, maturato in un incontro a Mosca la settimana scorsa. Come detto, la guerra di Libia è nei fatti una guerra multipolare. Il governo di Tripoli è sostenuto da Turchia e Qatar, mentre l’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha il supporto della Russia, dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto. Il supporto che fino a un anno fa era di natura politica, oggi, complice la guerra, ha assunto natura economica e militare. La Russia ha contribuito con centinaia di mercenari del Gruppo Wagner, esercito privato legato al Cremlino e al presidente Putin, in soccorso di Haftar, combattenti che hanno radicalmente cambiato le sorti del combattimento. Sul fronte opposto, Sarraj ha stretto recentemente due accordi – uno sui confini marittimi e uno per la cooperazione militare – con il governo di Erdogan, che hanno incrinato gli equilibri nel Mediterraneo centrale e orientale, perché coinvolgono operazioni di trivellazione

AFP

non si incontrano ma i loro alleati cercano una mediazione. Sullo sfondo di un complicato scenario religioso

e la competizione sull’energia di Cipro, Grecia e Egitto. In tutti questi mesi Erdogan ha avuto la cinica scaltrezza di capitalizzare la debolezza europea a proprio vantaggio. Ha stretto un trattato sui diritti di perforazione del gas, attraverso cui la Turchia assorbirebbe una parte di acque territoriali greche, perché Ankara non ha mai riconosciuto la convenzione Onu del 1982 sui confini marittimi, non riconosce dunque la Repubblica di Cipro Sud e i suoi accordi economici con Egitto, Libano e Israle. In cambio dei diritti di perforazione Erdogan ha messo da un lato a disposizione di Sarraj le proprie truppe e i propri soldati, dall’altro la sua capacità negoziale con Putin. Perché se certamente i due non sono amici, è anche vero che non sono completamente nemici. Esattamente come nell’altra cronica guerra per procura, quella siriana, Erdogan e Putin hanno dimostrato che sia assai più produttivo spartire i paesi in zone di influenza che finire allo scontro totale. Non è dunque un caso che i due incontri cruciali delle ultime settimane si siano svolti a Istanbul e Mosca. Il primo per inaugurare il Turk Stream, la pipeline russo-turca che incanalerà il gas naturale russo attraverso la Turchia verso l’Europa, un oleodotto di 930 km. Il secondo, a Mosca, per facilitare il tentativo di un cessate il fuoco libico, a dimostrazione che i due tavoli – affari e sfere di influenza agite per procura – si muovono in parallelo. A complicare ulteriormente lo scenario, c’è l’elemento religioso. Da un

lato, i due sostenitori di Sarraj, Qatar e Turchia, sono espressione della Fratellanza Musulmana, l’islam politico; dall’altra Emirati e Sauditi che sostengono Haftar sono espressione di gruppi salafiti madkhalisti, anche noti come «salafiti quietisti», che supportano il Generale della Cirenaica dal 2014, e sono stati un elemento fondamentale della sua campagna militare. Sebbene Haftar si sia sempre presentato e accreditato con il mondo come un militare difensore del secolarismo, sul campo le zone grigie delle sue truppe hanno anche la forma di gruppi estremisti. I salafiti madkhalisti seguono i precetti del novantenne Rabi al Madkhali, uno sceicco saudita, la cui dottrina prevede l’obbedienza al wali al-amr (cioè colui che detiene l’autorità) e il mantenimento dello status quo. Seguono un’interpretazione letterale del Corano, credono di essere l’unica vera espressione del salafismo, rifiutano le elezioni e la democrazia e queste caratteristiche li hanno resi, negli anni, molto popolari con i dittatori. Come lo erano con Gheddafi, che li invitò negli anni Novanta, in Libia, proprio per ostacolare l’attività dei Fratelli Musulmani. Ecco dunque che la Libia, trascurata dall’Europa, è diventata negli ultimi anni terreno di scontri regionali molto complessi, che non potranno essere risolti se non con una visione di lungo termine, perché è anche dalla stabilità della Libia che dipendono la sicurezza e l’approvvigionamento energetico europeo.

«Morte agli ayatollah»

Alta tensione in Iran Dopo l’abbattimento dell’aereo ucraino a Teheran si scende in piazza per chiedere

il rovesciamento del regime. E non per protestare contro l’America di Trump che ha assassinato Qassem Soleimani li del Medio Oriente, che strappano i poster che celebrano il suo martirio preparati dal regime per mostrare una compattezza che non c’è. Niente. Zero assoluto, nonostante in queste ore gli aguzzini islamici al potere a Teheran dal 1979 continuino a sparare sulla folla, dopo aver ucciso centinaia di concittadini nelle scorse settimane. Al contrario, si nota una diffusa costernazione per l’uccisione del generale Qassem Soleimani, raccontato

AFP

Non c’è nessuna mobilitazione popolare né elitaria né social, niente di niente, a favore dei coraggiosi iraniani che sfidano a migliaia i proiettili dei pasdaran e scendono in piazza contro il regime degli Ayatollah. Nessuno si fila i giovani e i meno giovani che da due giorni protestano contro un sistema corrotto e assassino, che rifiutano di calpestare le bandiere americana e israeliana, che considerano Qassem Soleimani uno dei peggiori crimina-

come un semidio da analisti, politici e influencer e da quella caricatura di tutte e tre le categorie che inopinatamente ricopre il ruolo pro tempore di ministro degli Esteri italiano. Si notano anche avvilimento e dispiacere per la salute della dittatura teocratica sciita di Teheran nonostante sia abituata a torturare i dissidenti, impiccare gli omosessuali e ridurre a parodia il sistema democratico. Sulle prime pagine dei giornali internazionali, salvo le note eccezioni, non si legge una parola contro un sistema dispotico e fanatico che uccide i suoi concittadini, esporta il terrorismo, conduce guerre clandestine, minaccia di cancellare Israele, si vuole dotare dell’atomica e che negli ultimi anni è stato responsabile di milioni di morti e soltanto nell’ultimo mese di aver ucciso centinaia di concittadini iraniani e di aver attaccato i campi petroliferi sauditi, le basi della coalizione internazionale in Iraq, l’ambasciata statunitense a Baghdad e, infine, di aver abbattuto un aereo di linea ucraino sbriciolando 176 persone. Dopo aver negato l’evidenza, i mullah hanno riconosciuto di aver colpito per errore l’aereo ucraino, cosa che ha convinto alcuni a soste-

nere la stravagante tesi secondo cui, avendo infine ammesso che sono stati loro ad abbattere il Boeing ucraino, gli Ayatollah sono per questo gli interlocutori credibili e privilegiati con cui l’Europa e l’Italia devono fare comunella per evitare che lo scontro con Donald Trump deflagri in una guerra mondiale. Trump sarà orrendo, e lo è, ma a suo modo ieri ha twittato in difesa del popolo iraniano, consigliando a Teheran di non uccidere chi scende in piazza a protestare. Trump non sarà simpatico, e non lo è, e avrà ucciso Soleimani senza pensare nemmeno un attimo alle conseguenze mentre giocava a golf a Mar-a-Lago, in Florida, ma – se dureranno, e non è detto che dureranno – al momento le conseguenze sono che gli iraniani hanno fallito il contrattacco, che sono morte una settantina di persone ai funerali del generale, che un aereo di linea ucraino è stato abbattuto da un regime al collasso e che la reazione popolare è contro gli Ayatollah, non contro l’America o Israele. Anche la tesi secondo cui l’uccisione di Soleimani avrebbe radicalizzato i cattivi di Teheran per ora è smentita dall’attualità, visto che – come riporta il «New York Times» – i falchi del re-

gime a sorpresa stanno criticando sui loro organi di stampa la gestione della crisi fino addirittura essere arrivati a chiedere le dimissioni del nuovo capo delle Guardie rivoluzionarie, una cosa impensabile fino a poco tempo fa. Vedremo a breve se gli Ayatollah saranno sul punto di crollare come i comunisti sovietici dopo il 1989, come da vecchio adagio secondo cui una rivoluzione il giorno prima sembra sempre impossibile mentre il giorno dopo pare sempre inevitabile, oppure se è solo un fuoco di paglia. Ma, intanto, gli interlocutori dell’Europa e delle nazioni democratiche non possono essere i destabilizzatori del Medio Oriente, i savi della setta sciita, gli sterminatori di iracheni, curdi, siriani, yemeniti, israeliani e pure di iraniani. Gli interlocutori sono gli iraniani che scendono in piazza per chiedere libertà, democrazia e giustizia. Gli eroi sono i persiani che ripudiano le guerre razziste e di religione combattute dal regime e che in queste ore ribaltano il vecchio indottrinamento «Morte all’America» e «Morte a Israele» con un altrettanto torvo «Morte agli Ayatollah» che, però, è la più grande speranza per l’Iran, per il mondo islamico e per noi. / CR


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Politica e Economia

Da Taiwan messaggio democratico Presidenziali Pechino e Hong Kong guardano da prospettive

opposte la rielezione di Tsai Ing-wen Giulia Pompili L’immagine delle ultime elezioni presidenziali di Taiwan è quella pubblicata su Twitter da Tsai Ing-wen, un minuto dopo che i risultati del voto la confermavano alla guida dell’isola per un secondo mandato. Si vede lei di spalle, al centro della foto, che tiene per mano la sua squadra di governo e si inchina al pubblico: una folla festante, una partecipazione di massa com’è da tradizione nei paesi democratici asiatici. Al centro della piazza, tra le bandierine colorate della campagna elettorale, si vedono soltanto due cartelli neri. Entrambi dicono: Hong Kong libera. Taiwan e Hong Kong hanno una storia diversissima ma mai come oggi complementare. Parte della vittoria schiacciante di Tsai alle elezioni dell’11 gennaio – 2,9 milioni di voti, il più alto tasso di affluenza sin dagli anni Settanta, che ha raggiunto quasi il 75 per cento – viene da Hong Kong. E dall’esempio dei ragazzi che da mesi ormai protestano in cerca di un sistema che garantisca loro l’autonomia promessa da Pechino. Fino a qualche mese fa il Partito progressista democratico di Taiwan, guidato dalla Tsai, sembrava in caduta libera. La presidente era accusata di non aver fatto molto per la crescita, nell’ultimo quadriennio, di essere stata poco incisiva sul piano delle riforme economiche. Il suo principale avversario, il candidato del partito Kuomintang Han Kuo-yu, aveva raccolto enormi consensi grazie a una campagna elettorale definita populista da larga parte dei media.

Taiwan rappresenta per Hong Kong un modello da imitare. Mentre per la Cina un atto di strumentalizzazione Sindaco di Kaohsiung, la seconda città taiwanese, e prima ancora parlamentare piuttosto sconosciuto al grande pubblico, nel luglio del 2019 Han Kuo-yu ha vinto le primarie del Kuomintang a sorpresa. Come abbiamo visto fare a molti leader definiti populisti, ci è riuscito anche grazie a slogan semplici, sull’economia e sull’immigrazione, e un rinnovato attaccamento ai cosiddetti «valori tradizionali». Han è diventato subito popolare soprattutto tra le generazioni più anziane, promettendo perfino di eliminare una delle più progressiste riforme portate avanti dalla presidente Tsai, che l’anno scorso ha fatto di Taiwan il primo paese asiatico a legalizzare i matrimoni gay. Poi però è successo

qualcosa. Il Kuomintang, che tradizionalmente promuove una specie di quieto vivere nei rapporti con Pechino, non ha preso una posizione sulle proteste di Hong Kong. Tsai, invece, ne ha fatto il punto principale della battaglia politica. Domenica 12 gennaio, il giorno dopo la vittoria di Tsai Ing-wen alle presidenziali taiwanesi, tutti i giornali di Hong Kong aprivano con la stessa notizia. Per la Cina, Hong Kong dovrebbe essere un modello per Taiwan, ma per i ragazzi delle manifestazioni di questi mesi è Taiwan il vero modello: molti di loro sono scappati dagli arresti, dalle rappresaglie della polizia, e il primo luogo che vogliono raggiungere dal porto profumato è Taipei. La vittoria di Tsai ha dato loro un’altra speranza. E infatti anche nelle manifestazioni che ogni fine settimana proseguono al centro di Hong Kong si iniziano a riconoscere cartelli e messaggi per i cugini taiwanesi, «parliamo la stessa lingua», ci dice un ragazzo sui vent’anni che si fa chiamare Danny, «e non è il mandarino», cioè il cinese della Cina continentale. Un anno fa il presidente cinese Xi Jinping aveva detto che «Taiwan sarà riunita alla Cina». Il modello proposto da Pechino a Taipei per un suo «ritorno alla madrepatria», con le buone o con le cattive maniere, è da sempre quello di «un paese, due sistemi». Cioè lo stesso utilizzato a Hong Kong, sin dall’accordo nel 1997 tra Gran Bretagna e Cina per il trasferimento di sovranità sull’ex colonia britannica. Il Partito progressista democratico di Tsai, pur riconoscendo che l’economia taiwanese è estremamente legata a quella di Pechino, ha sempre negato una eventualità simile, facendo forza proprio sull’unicità di una democrazia come quella taiwanese. È un affronto intollerabile per Pechino, che considera Taiwan una provincia ribelle, e non un paese indipendente. Come punirla? Se applicare ritorsioni al business è impossibile, perché sia la Cina sia Taiwan avrebbero conseguenze negative, Pechino ha trovato un metodo di grande impatto mediatico ma forse non altrettanto efficace. La crescita della potenza economica cinese è andata di pari passo con un graduale isolamento diplomatico di Taiwan. Sono pochissimi, a oggi, i paesi che riconoscono la Repubblica di Cina come uno Stato indipendente. Anche l’Unione Europea e l’America aderiscono alla cosiddetta «One China Policy», anche se, di fatto, mantengono ottime relazioni bilaterali con Taiwan. Tsai è stata la prima presidente a cui ha telefonato Donald Trump dalla Casa Bianca, creando un notevole imbarazzo diplomatico. Così, dopo le elezioni dello scorso fine settimana, pressoché tutti i leader politici americani si sono

Carlos Ghosn, da re Mida a criminale

Spy story La rocambolesca fuga da Tokyo

di uno dei manager più famosi del mondo

congratulati con la presidente, soprattutto per la forza che il suo messaggio politico manda al mondo. Sui libri di scienze politiche probabilmente si studierà per molto tempo questo incredibile sorpasso di Tsai Ing-wen – l’unica donna al potere in Asia che non abbia avuto un padre, un marito politico al suo fianco, insomma una self made woman – sull’uomo forte e popolare, che semplifica ogni questione politica. La vittoria della democrazia, anche quando è messa a rischio da questioni geopolitiche più forti, più imprevedibili. Su «Foreign Policy» Lev Nachman scrive che «un mese prima delle elezioni l’approvazione di Tsai era al 51 per cento e quella di Han 29 per cento», posizioni invertite rispetto al periodo precedente. «La mobilitazione è stata l’arma segreta di Tsai contro la minaccia populista. È stata una vittoria nei numeri, non necessariamente una vittoria ideologica». La presidente e il Partito progressista democratico sono riusciti a mobilitare due milioni di persone in più rispetto alle elezioni precedenti – quasi tutti giovani. Sono andati a cercarli, quelli indecisi, quelli che non sapevano chi votare, e li hanno portati alle urne mostrandogli le fotografie e i video dei loro cugini, a Hong Kong, che sfidano i blocchi della polizia perché a votare vorrebbero andarci, e non possono. O meglio: il 24 novembre scorso, durante le uniche elezioni possibili nella regione autonoma di Hong Kong, ovvero quelle per i consigli distrettuali, i cittadini hanno scelto a maggioranza i candidati pro democrazia – un segnale importante, ma quasi inutile dal momento che a decidere il governo locale di Hong Kong è ancora Pechino. «Prima delle elezioni, ho detto che Taiwan si sarebbe unita per difendere la libertà e la democrazia», ha scritto su Twitter la Tsai il giorno dopo la sua rielezione. «Negli ultimi sei mesi Hong Kong ha dimostrato quanto sia prezioso questo impegno. Spero che i cittadini di Hong Kong si innamorino del messaggio che le nostre elezioni hanno inviato al mondo». Secondo la stampa della Cina continentale quella della presidente Tsai Ing-wen è stata una «strumentalizzazione» delle proteste di Hong Kong a fini elettorali. Il «Wall Street Journal», due giorni prima delle elezioni, ha pubblicato un articolo firmato dall’«Editorial board» dal titolo Le elezioni taiwanesi di Hong Kong, in cui spiega che una vittoria dei progressisti sarebbe stata una bella grana per Xi Jinping e le mire egemoniche di Pechino nell’area. E infatti, finora, la risposta cinese alle elezioni taiwanesi è vaga, piena di propaganda e poca azione. Intanto, però, il messaggio democratico di Taiwan è stato lanciato.

La linea dura con la Cina è valsa a Tsai Ing-wen un secondo mandato. (AFP)

La stampa nipponica è molto critica nei confronti dell’ex Ceo di NissanRenault Carlos Ghosn. (AFP)

È una storia da film quella di Carlos Ghosn, il Re Mida del settore automobilistico internazionale finito nelle maglie della giustizia giapponese. Un intrigo tra i più evocativi della storia, per il mondo del business. E infatti le notizie si susseguono, si smentiscono, pettegolezzi e fonti si accavallano, ed è difficile pensare a una sola verità. Quel che è certo è che l’ex presidente e amministratore delegato del gruppo Renault-Nissan è riuscito a scappare dalla giustizia giapponese, che sin dal novembre del 2018 lo teneva in arresto per illeciti finanziari. E non è un caso se prima della fuga, secondo vari media, avrebbe avuto colloqui con Netflix, il colosso dello streaming, e almeno un incontro con il produttore cinematografico di Hollywood John Lesher: «Il più famoso cittadino libanese ha deciso di controllare fino in fondo la narrazione della propria vicenda», ha scritto «Le Monde». Del resto l’intrigo è internazionale, coinvolge il mondo della finanza e la diplomazia, ed espone il sistema penale giapponese al giudizio mediatico come mai era accaduto fino a ora. L’avvocato giapponese di Ghosn, al momento della sua fuga, come condizione della libertà su cauzione costata 4,5 milioni di dollari, aveva in custodia i tre passaporti del milionario – quello francese, libanese e brasiliano. Ma probabilmente, per arrivare all’estero, Ghosn ha usato un quarto passaporto, cioè una copia di quello francese che gli era stato concesso di portare con sé come documento di riconoscimento, dopo che la Nissan lo aveva di fatto licenziato e il suo permesso di lavoro in Giappone era quindi decaduto. Secondo le autorità nipponiche il manager sarebbe uscito da una delle sue case di Tokyo come il grande illusionista Houdini: qualcuno all’inizio parlava della custodia di un contrabbasso come poetico nascondiglio, poi l’ingombrante strumento musicale si è trasformato nella scatola di un amplificatore. Così, secondo le ricostruzioni, il fuggitivo ha eluso i controlli ed è riuscito addirittura a viaggiare indisturbato su uno Shinkansen, uno dei treni superveloci che collegano la capitale giapponese all’aeroporto di Osaka. Arrivato alla stazione ha preso un taxi e ha raggiunto una stanza d’hotel, dove ha aspettato l’arrivo di due jet privati turchi che lo hanno portato prima a Istanbul, e poi a Beirut, a casa, dov’è atterrato il 30 dicembre scorso. Durante la sua fuga Ghosn sarebbe stato accompagnato da almeno due persone, forse due americani che lavorano nella sicurezza privata e nella liberazione di ostaggi. Al suo arrivo nella capitale libanese l’ex capo di Nissan ha detto di essere scappato da una «giustizia arbitraria e discriminatoria», un commento che ha costretto il ministro della Giustizia giapponese Masako Mori a replicare, a distanza di giorni, alle parole del

manager: «Ghosn ha lasciato il Paese illegalmente, e questa è una questione separata dalle accuse contro il sistema penale giapponese». Nel frattempo però, il Libano ha già fatto sapere che non collaborerà con l’Interpol e non ha nessuna intenzione di estradare un suo cittadino. Qualunque cosa abbia fatto davvero Ghosn durante i suoi anni alla guida di Nissan, ha scritto la Cnn, di sicuro sarà messo in ombra dalle accuse che uno dei manager più esposti mediaticamente al mondo ha mosso contro il sistema giudiziario giapponese. Perché come quasi tutti i sospettati in Giappone, al momento dell’arresto in carcere Ghosn è stato interrogato per giorni senza poter vedere un avvocato. Ha perso per ben due volte le cause per la libertà su cauzione, e sua moglie – un altro personaggio epico di questa vicenda – ha raccontato a vari giornali di come le autorità giudiziarie durante una delle prime perquisizioni nella sua casa di Tokyo la accompagnassero perfino al bagno, «traumatizzando» una intera famiglia che «non ha niente da nascondere». Non solo: nel paese nel Sol levante il 99 per cento dei processi penali finiscono con una condanna. Nel settore finanziario questo è ancora più evidente, soprattutto per i manager stranieri di aziende giapponesi che cadono nelle maglie della giustizia – come Michael Woodford, ex ceo di Olympus, che fu accusato nel 2011 di illeciti finanziari e lasciò la multinazionale – o finiscono per avere problemi con la «cultura aziendale» nipponica, e in qualche modo vengono allontanati. Solo l’8 per cento delle aziende giapponesi quotate in Borsa hanno stranieri nel loro board. Ed è anche per questi numeri che anche sui media giapponesi si parla sempre di più di un’operazione orchestrata dai vecchi manager di Nissan per bloccare la fusione con Renault, un’operazione che aveva il volto di Carlos Ghosn. Comunque vada a finire la vicenda – è molto probabile che il Giappone andrà avanti con le sue investigazioni, sia sugli illeciti di cui è accusato Ghosn sia sulla violazione delle norme sulla libertà su cauzione – la sua spettacolare fuga sarà un altro tassello da aggiungere al profilo di un personaggio che ha cambiato il business, soprattutto quello giapponese. C’è stato un momento in cui Carlos Ghosn a Tokyo era considerato il Re Mida del business. Nel 2011 gli dedicarono addirittura una serie a fumetti, La vera vita di Carlos Ghosn, un best seller in cui veniva raccontata la storia epica del salvataggio di Nissan, il fiore all’occhiello dell’industria automobilistica di Yokohama da anni impantanata nella stagnazione economica. Da Re Mida a criminale. La strada per la globalizzazione del business giapponese è ancora lunga. / GP


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Politica e Economia

L’Italia alla ricerca di un equilibrio

Economia e commercio Una nazione che si può definire controversa, ma che offre eccellenze a livello mondiale

e un tessuto di piccole e medie imprese di prim’ordine. Un partner fondamentale per la Svizzera

Marzio Minoli Se esiste un paese che si può definire perlomeno controverso questo è l’Italia. Sentendo le opinioni di diversi analisti finanziari c’è un assunto che ricorre frequentemente: «Purtroppo l’Italia fa parte di quei paesi dei quali si parla sempre in negativo», contrariamente, ad esempio, alla Germania della quale spesso si lodano le peculiarità, mettendo in secondo piano gli aspetti meno edificanti. Quella sull’Italia è un’affermazione che trova, in parte, una sua giustificazione. Il paese proietta di sé un’immagine di instabilità soprattutto in ambito istituzionale. Una situazione che porta come conseguenza la poca certezza delle regole. Un fatto che per chi vuole investire in Italia, se pensiamo alle società estere, è spesso motivo di molta preoccupazione e ripensamenti. Una nazione quindi che spesso non offre quelle garanzie normative che sono fondamentali per fare impresa. Insomma, citando uno dei grandi italiani della storia, Lorenzo De Medici, «del doman non v’è certezza». E sappiamo che per l’economia la certezza, qualsiasi essa sia, è fondamentale per poter adeguarsi ed essere produttiva. Questo sentimento di sfiducia viene sottolineato anche dalla Banca Mondiale, la quale stila annualmente una classifica dei paesi nei quali è più facile «fare impresa». Sono dieci i parametri che vengono presi in considerazione, che vanno dall’ottenimento di un permesso di costruzione, all’ottenimento di un credito fino al pagamento delle imposte. Scorrendo questa classifica, capeggiata dalla Nuova Zelanda, si nota che gli Stati Uniti sono al 6. posto, il Regno Unito all’8., la Germania al 22., mentre la Svizzera è al 36. Per trovare l’Italia bi-

sogna scendere fino alla 58esima posizione. L’ultimo dei paesi del G7, ovvero le sette economie maggiormente avanzate del pianeta. Ma non si tratta solo di questioni istituzionali. Ci sono dati che oggettivamente non giocano a favore dell’Italia. La sua crescita economica è tra le più deboli dell’Unione Europea, con uno 0% nel 2019 e + 0,5% per il 2020 secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale pubblicate lo scorso mese di ottobre. La produttività soffre da anni, mentre continua a preoccupare l’alto livello del debito pubblico, giunto a circa il 134% del prodotto interno lordo. Letta così, l’Italia sembra un paese debole e senza prospettive. Ma ragionando un attimo su questi dati, la domanda da porsi è: «Come mai un’economia con queste caratteristiche non è in gravissime difficoltà?» La risposta si trova nel fatto che quello che spesso si conosce meno, soprattutto non arriva al cosiddetto «grande pubblico» è che esiste un’Italia composta da un tessuto produttivo di prim’ordine che fa da contraltare alle inefficienze citate in precedenza. E, importante sottolinearlo anche per evitare luoghi comuni troppo facili da citare, questo tessuto economico, con le sue eccellenze, si trova al Nord come al Sud. Come sempre per capire meglio queste affermazioni, ci vengono in aiuto i numeri. Oltre alle grandi industrie ci sono 5’300’000 piccole e medie imprese, che occupano 15 milioni di persone e che generano un fatturato di 2000 miliardi di euro l’anno. Di queste PMI 2 milioni si concentrano tra Lombardia, Piemonte, Veneto e Emilia Romagna. Appena fuori dalla porta di casa nostra, perlomeno al Sud delle Alpi e questo fattore contribuisce a fare dell’Italia un importante partner

L’assemblaggio di una Ferrari, a Maranello: oltre a industrie conosciute in tutto il mondo, l’Italia ha più di 5 milioni di piccole e medie imprese con un fatturato annuo che supera i 2000 miliardi di euro. (Keystone)

commerciale per la Svizzera. Anche qui, affidiamoci alle cifre. L’Italia, è il terzo partner commerciale, dietro a Germania e Stati Uniti. Esportiamo per circa 14 miliardi di franchi principalmente prodotti di carattere chimico farmaceutico e strumenti di precisione ed importiamo per 19 miliardi soprattutto chimica, farmaceutica e macchine utensili, settore dove l’Italia è un’eccellenza. Senza contare il settore agroalimentare, vera e propria punta di diamante dell’export italiano. Per quel che concerne gli inve-

stimenti, quelli svizzeri in Italia ammontano a circa 18 miliardi di franchi, creando 51’000 posti di lavoro, secondo i dati forniti dalla Banca Nazionale Svizzera, e questo fa della Svizzera il 6. investitore soprattutto in campi come la farmaceutica, la manifattura e l’agroalimentare. Per contro gli investimenti italiani in Svizzera ammontano a circa 6 miliardi di franchi, ponendo la Confederazione al 14. posto degli interessi italiani all’estero. L’Italia quindi, ma non è una no-

vità, ha grandi potenzialità, ma, come si dice per gli studenti, «ha le capacità ma non si impegna». Perché i numeri, le forze e le conoscenze per fare bene ci sono tutti. L’augurio è che si possa trovare l’equilibrio tra l’immagine di un’Italia «poco affidabile», quella istituzionale, e quella di un’Italia che produce molta ricchezza e consente al Bel Paese di avere una resilienza tale che la fa rimanere tra le maggiori potenze economiche mondiali. Un equilibrio che le permetta di non essere più citata solo per le questioni negative.

Banca Nazionale: più utili, più richieste

Finanza pubblica Raddoppierà la distribuzione a Confederazione e comuni, ma crescono le pressioni per risanare

anche i conti della previdenza vecchiaia e professionale. Tradizionale prudenza della BNS Ignazio Bonoli Da qualche giorno gli analisti esterni prevedevano che l’utile della Banca Nazionale Svizzera (BNS) per il 2019 sarebbe stato di una cinquantina di miliardi di franchi. Voci che poi sono state confermate il 9 gennaio scorso con la pubblicazione dei risultati provvisori del bilancio della banca. L’utile a

bilancio è, infatti, di circa 49 miliardi di franchi ed è dovuto per circa 40 miliardi alle posizioni in valuta estera; per 6,9 miliardi all’aumento del valore delle riserve in oro e per circa 2 miliardi di franchi alle posizioni in franchi svizzeri, fra cui spiccano i frutti degli interessi negativi. Si tratta quindi di buone notizie sia per la Banca Nazionale stessa, sia per

I membri del direttorio della Banca Nazionale Svizzera prevedono ulteriori utili, ma di portata minore in futuro. (Keystone)

Confederazione e Cantoni. Questi ultimi si vedono non soltanto garantita la distribuzione ordinaria di un miliardo di franchi, ma il raddoppio della stessa per quest’anno. Questo aumento è reso possibile perché le riserve destinate alla distribuzione, dopo l’addebito dell’utile previsto, superano il minimo concordato in 20 miliardi di franchi, raggiungendo un totale di riserve di 86 miliardi di franchi. Come di regola l’utile da distribuire verrà assegnato nella misura di un terzo alla Confederazione e di due terzi ai Cantoni. Data l’eccezionale crescita delle riserve, la BNS prevede per il 2020 un ulteriore aumento, «in misura contenuta», della distribuzione. Un annuncio che ha destato parecchia sorpresa e anche qualche speculazione sulla consistenza della distribuzione totale. Secondo le dichiarazioni della banca stessa, la distribuzione avverrà secondo «i principi abituali», il che può significare che l’assegno dipenderà dalla consistenza delle riserve vincolate, quindi non indipendentemente dal risultato d’esercizio. In questo senso si può interpretare anche la richiesta della BNS della discussione di una nuova convenzione con il Dipartimento federale delle finanze. L’attuale convenzione vale per il periodo 2016-2020. La nuova convenzione per gli ulteriori cinque anni verrà

discussa nel 2021. Ovviamente questa situazione ha provocato molte discussioni e proposte di nuova distribuzione degli utili, tra le quali spiccano un aumento degli attuali versamenti a Confederazione e Cantoni, ma anche una concessione diretta al conto dell’AVS e della previdenza professionale, che faciliterebbe, tra l’altro, anche la soluzione dei problemi attualmente in discussione. Ancora una volta, di fronte a queste nuove richieste, la Banca Nazionale si mostra prudente. Se è vero che negli ultimi anni la BNS ha potuto consolidare la copertura del capitale proprio, è anche vero che in questo settore finanziario le previsioni sono molto difficili. Tutto può lasciare pensare che gli «anni d’oro» stiano per finire. Gli economisti dell’UBS, che seguono molto da vicino i bilanci della BNS, anticipandone perfino i risultati, dicono che il potenziale di utili della BNS per i prossimi sette anni sarà soltanto di appena 10 miliardi di franchi, il che significa circa l’1% di tutti gli investimenti, compresi l’oro e gli interessi negativi. Queste considerazioni si basano sulle previsioni che escludono per il momento un’ulteriore discesa dei tassi di interesse, per cui le rendite degli investimenti subirebbero una certa pressione. Sul fronte del mercato azionario si sono toccati vertici difficilmente

eguagliabili e il ciclo congiunturale sembra ormai giunto alla fine, soprattutto se accompagnato da tassi di interesse al rialzo. Infine, la situazione che verrà a crearsi provocherà un rialzo delle quotazioni del franco, il che riduce il potenziale di guadagno sulle divise. La politica che la BNS dovrà seguire è in netto contrasto con le richieste di aumento (soprattutto se permanente) della distribuzione degli utili. Si vede in sostanza il pericolo di una politicizzazione degli investimenti della BNS, il cui fine è invece quello di servire principalmente agli scopi della politica monetaria. Tanto più che l’esperienza insegna che una volta deciso un aumento è sempre molto difficile ottenere il contrario. L’attuale enorme crescita del bilancio della BNS suggerisce inoltre che presto o tardi questa posizione dovrà essere ridotta e gli interessi aumentati, il che riduce la possibilità di utili. Da notare, infine, che gli utili della BNS sono utili contabili (dovuti per esempio agli ormai 755 miliardi investiti in divise estere) che potrebbero cambiare direzione, come si è già visto in passato. Quindi anche la mossa di aumentare la distribuzione, voluta in parte per rispondere alle crescenti richieste «politiche» potrebbe invece rinforzare la tendenza a chiedere sempre più soldi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Politica e Economia

I tassi d’interesse ipotecari rimangono bassi La consulenza della Banca Migros

Thomas Pentsy

Tassi medi in Svizzera per ipoteche con diverse durate (nuove stipulazioni) 2.5%

Ipoteca fissa, durata 7-10 anni Ipoteca fissa, durata 5-7 anni Ipoteca fissa, durata 3-5 anni Ipoteca Libor, durata 2-3 anni

2.0%

1.5%

deve seguire l’andamento del tasso di interesse di riferimento. Le autorità monetarie svizzere si limiteranno ad interventi mirati sul mercato dei cambi. Sussiste tuttavia un rischio residuo che la BNS debba comunque allentare

la politica monetaria: se l’incertezza congiunturale globale dovesse notevolmente intensificarsi, il franco potrebbe essere sempre più ricercato come bene rifugio. Questo non corrisponde però al nostro scenario principale.

Fonte: BNS

06.2019

12.2018

06.2018

12.2017

06.2017

12.2016

06.2016

12.2015

06.2015

12.2014

06.2014

12.2013

06.2013

0.5%

12.2012

1.0%

06.2012

Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Nonostante l’aumentare delle critiche sugli interessi negativi, la Banca nazionale svizzera (BNS) mantiene la sua politica monetaria espansiva. Nella riunione di dicembre ha lasciato i tassi di riferimento invariati al –0,75%. Non vi sono segnali di una fine imminente della politica dei tassi d’interesse negativi, come suggeriscono le dichiarazioni della Direzione generale della BNS. Da un lato, il conflitto commerciale tra Cina e Stati Uniti continua a gravare sul commercio mondiale. Le prospettive congiunturali globali rimangono di conseguenza modeste e vi è il rischio che l’economia mondiale peggiori. Dall’altro, un aumento dei tassi d’interesse nell’attuale contesto di mercato sarebbe controproducente, in quanto tassi più elevati aumenterebbero l’attrattiva del franco svizzero come porto d’investimento sicuro. Un franco più forte, a sua volta, ridurrebbe tuttavia la competitività dell’industria delle esportazioni svizzera. Secondo le nostre previsioni sui tassi, il tasso di riferimento della BNS rimarrà invariato anche nel 2020. Quest’anno la Banca centrale europea (BCE) potrebbe diminuire il tasso sui depositi di 0,1 punti percentuali. Ciò non dovrebbe però particolarmente rafforzare la tendenza all’indebolimento dell’euro rispetto al franco, cosicché la BNS non

Nel complesso partiamo dal presupposto che nel prossimo futuro i tassi ipotecari non aumenteranno in modo significativo. Sia le ipoteche fisse sia le ipoteche Libor rimangono dunque interessanti. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi I ticinesi, piagnoni o troppo esigenti? Una delle novità prodotte dalla statistica svizzera nel corso degli ultimi trent’anni è il ricorso a inchieste e sondaggi. La loro importanza è diventata tale da sostituire, in qualche caso, la raccolta diretta di dati, estesa a tutto l’universo della popolazione analizzata. Così è stato, a partire dal 2010, per il censimento federale della popolazione, diventato troppo costoso e osteggiato da una frangia sempre più consistente di economie domestiche censite. Una sottocategoria di inchieste molto interessante è quella che cerca di stabilire le opinioni degli interrogati su un ventaglio di temi che, con il tempo, tende ad allargarsi sempre di più. L’inchiesta di opinione è in sé uno strumento affascinante dell’analisi statistica in quanto consente di far luce su aspetti che difficilmente possono essere contabilizzati come sono, per fare un esempio, le

caratteristiche di una popolazione. Nel contempo, l’inchiesta di opinione comporta difficoltà che il censimento a tappeto, su tutta la popolazione invece non conosce. In primo luogo vi è sempre il problema della rappresentatività del campione. Conclusioni sugli apprezzamenti espressi dagli interrogati possono essere accettate solo se il campione è rappresentativo. Siccome il campione è tanto più rappresentativo quanto più è ampio, la questione della rappresentatività di fatto è anche una questione di costo. L’altro problema posto da questo modo di raccogliere informazioni è che è difficile controllare se la persona che risponde all’inchiesta dice o meno la verità. Come hanno messo in evidenza ricerche fatte in altri paesi, non è infatti raro che chi risponde all’inchiesta adotti, per mille e più ragioni che non sempre

sono evidenti, un atteggiamento strategico, rispondendo in modo falso, o rifiutandosi di rispondere a questa o a quella domanda. L’esistenza di questi problemi deve indurre a considerare con molta prudenza i risultati che discendono da inchieste di opinione e ad accettarli solo se si ripetono in più occasioni. Uno dei temi favoriti dall’inchiesta di opinione in Svizzera è il tema del benessere soggettivo. Come stanno gli svizzeri? Stanno bene o stanno male? Ovviamente sappiamo, dalle statistiche su elementi oggettivi del benessere che gli svizzeri sono le persone più ricche del mondo, che essi dispongono di un’offerta di infrastrutture e servizi di qualità, disponibile praticamente su ogni chilometro quadrato di superficie della Confederazione al disotto dei 1500 metri s.l.m. Insomma gli

indicatori oggettivi del benessere puntano tutti verso una sola risposta: gli svizzeri stanno bene. Ma quando si pone loro la domanda di come si sentono, le risposte sono diverse. Per esempio, rispondendo alle domande dell’indagine sulla salute del 2017 solo il 92% degli svizzeri hanno affermato che la loro qualità di vita è buona o molto buona. In Ticino questa percentuale era addirittura inferiore e non raggiungeva che l’84%. L’indagine sui redditi e sulle condizioni di vita delle economie domestiche del 2017 chiedeva invece ai partecipanti di valutare la soddisfazione complessiva nei confronti della vita su una scala da 0 a 10, dove 10 è la nota che corrisponde alla soddisfazione massima. Anche in questo caso la valutazione dei ticinesi (7,7) è inferiore alla media per la Svizzera (8,0). Questi due risultati possono poi essere confrontati con

quelli di una terza indagine, quella federale fra la gioventù del 2018. Alla domanda «siete soddisfatti della vostra vita?» hanno risposto di sì il 70% dei giovani svizzeri interrogati, mentre per i ticinesi la percentuale era solo del 63%. Osserviamo che, almeno per quel che riguarda i giovani ticinesi, la percentuale dei soddisfatti è andata aumentando nel corso degli ultimi anni. Tre inchieste federali su come si apprezza il benessere e tre risposte consistenti, almeno nel confronto Ticino –Svizzera. Con percentuali che vanno dal 4 al 10%, a seconda dell’inchiesta, i ticinesi si esprimono in modo più negativo dell’insieme dei partecipanti a queste inchieste. Sembrerebbe che siano i piagnoni della Confederazione. Oppure pongono le loro condizioni ideali di benessere così in alto da non poter mai essere raggiunte.

Rohani, annunciava politiche per la crescita, investimenti, redistribuzione. La promessa è stata tradita e non perché l’Amministrazione Trump ha deciso di ritirarsi dall’accordo: è stata tradita da Teheran, che ha preferito investire i nuovi proventi nel suo sogno espansionista in Medio Oriente invece che nel rilancio economico dell’Iran. Il punto di rottura è stato raggiunto quando la consapevolezza del tradimento è diventata chiara, e non c’entrano l’arricchimento dell’uranio né la polizia del pensiero né le brutture ideologiche del regime. C’entra il fatto che un paese con le risorse dell’Iran, dopo quarant’anni di isolamento indotto dalla Rivoluzione, aveva creduto di potersi riscattare, e di poter smettere di mendicare o di dover risparmiare per mesi soltanto per permettersi un pollo in più a settimana. Il dominio rivoluzionario del 1979 non si è crepato perché mancano

slancio o devozione religiosi o perché la fazione sciita è meno forte di quella sunnita: basta vedere come la «rule iraniana» si è sfasciata pure in altri paesi, in Libano o ancor più in Iraq, dove le piazze non urlano «morte all’America» o «morte a Israele» o «morte ai sauditi», ma chiedono cibo, soldi, opportunità per il futuro. Sulla rete – finché funziona – ci sono appelli per continuare a dimostrare «contro il regime corrotto» dell’Iran: la piazza vuole far sentire la pressione, chiede sostegno all’estero e mentre noi ci interroghiamo sul fatto che questo sostegno possa risultare controproducente per gli stessi manifestanti accusati di essere eterodiretti da forze straniere nemiche, loro sfidano la repressione, si contano per vedere chi manca, vanno a cercarsi, alzano i pugni, «non hanno lacrime quando vengono colpiti dai lacrimogeni», come canta Hichkas, e no, «non è ancora finita».

per i trapianti… non esiste ambito che possa considerarsi al riparo dal contagio. Come sempre, per scoprire trame e canali, occorre «seguire il denaro» in transito da uno snodo all’altro, soldi che alla fine approdano su conti anonimi nei paradisi fiscali. Per la magistratura inquirente seguire le strade del riciclaggio vuol dire affrontare un labirinto disseminato di scatole cinesi… C’è infine il risvolto forse più inquietante, per chi ancora serba in sé un ideale puro della giustizia: la sordità, i silenzi, l’omertà delle più alte istituzioni di fronte alle violazioni più crasse dei diritti umani. Complicità presenti non solo in regimi che mai hanno conosciuto una vera democrazia, ma anche nell’Occidente figlio della civiltà giuridica, con in testa gli Stati Uniti, maestri nel sospendere i princìpi fondamentali dando mano libera alla CIA. Marty ha pagine severe sui metodi adottati dagli americani per combattere il terrorismo; metodi che comprendono i sequestri di perso-

na (le famigerate «consegne straordinarie»), la detenzione illegale in prigioni segrete, la tortura. Cedimenti esiziali, una tomba per il primato del diritto. Il lettore troverà nel libro, oltre ai resoconti delle indagini e ai rapporti redatti per conto del Consiglio d’Europa, anche uno spaccato della «forma mentis» dell’autore, le sue simpatie/ antipatie per alcuni (sconcertanti) personaggi incontrati durante i viaggi, i suoi moti d’indignazione per situazioni di palese sopruso coperte dal segreto di Stato. Marty non nasconde le sue ascendenze ideologiche, più radicali che liberali, nate nel secolo dei lumi e poi confluite nell’alveo del liberalismo ottocentesco. Una riflessione fondata su solidi studi giuridici e nutrita di non estemporanee letture, tra le quali spiccano, a sorpresa, le opere di Gramsci (un comunista, seppur eretico a suo modo). Una lettura piacevole, spesso avvincente, e una testimonianza venata di forte tensione morale.

Affari Esteri di Paola Peduzzi I pugni alzati delle piazza iraniane Povertà, nepotismo, corruzione, ingerenza all’estero, conquista all’estero, repressione. Nella sua ultima canzone il rapper iraniano Hichkas (vuol dire «nessuno») denuncia il regime degli ayatollah, la loro brutalità contro «il nemico», che sarebbe il popolo iraniano, canta dei ragazzi presi dai letti d’ospedale e portati in prigione, mentre sotto si sentono le voci della piazza: non sparate, non sparate. Pugni alzati, così s’intitola la canzone di Hichkas, che vive a Londra dal 2011, è diventata la colonna sonora delle proteste che sono scoppiate nel novembre scorso in Iran, dopo che il regime ha annunciato l’aumento del prezzo della benzina. Hichkas l’aveva postata su Twitter, era stata subito ripresa moltissimo dai giovani che si riconoscevano in quel triste lamento, ma poi l’accesso alla rete era stato negato e così il ritornello è diventato un passaparola, una segnale, quasi

un incoraggiamento. E quando nelle ultime proteste i manifestanti gridavano che il nemico non è all’estero, il nemico non è nemmeno il popolo come vuole far credere il regime, il nemico «è qui», è il regime stesso, qualcuno intonava anche la canzone di Hichkas. La frequenza delle proteste in Iran è aumentata: durano poco perché la repressione è sistematica, ma poi ricominciano. Nei giorni convulsi che hanno seguito l’uccisione da parte americana del generale Soleimani abbiamo visto la mobilitazione del regime in tutta la sua forza: questa è la piazza che gli ayatollah vogliono mostrare, l’orgoglio di una nazione ferito dall’imperialismo piratesco dell’America. Fiumi di gente, centinaia di foto (anche quaranta morti). Poi, quando il regime ha infine ammesso che nella notte della rappresaglia contro gli americani ha erroneamente abbattuto un aereo di linea

(con due missili), è tornata la piazza dei pugni alzati, quella che non ne può più, e l’abbiamo vista perché per mostrarsi ferito e vendicativo, l’Iran aveva aperto le porte all’esterno. L’ideologia e la religione non contano più, nell’Iran di oggi. Conta che la promessa di benessere sottostante all’accordo sul nucleare del 2015 non è stata mantenuta. Ed era decisiva, invece, era il motivo per cui dopo la firma di quell’accordo c’era stata una festa per strada, una festa dello stesso popolo che pure già manifestava contro il regime, perché in quella firma c’era l’impegno a riaprirsi al mondo, al dialogo, alla possibilità di uscire da un isolamento che sapeva di troppa povertà. Il popolo iraniano non festeggiava perché tutt’a un tratto si era ricreduto sul regime – a dire la verità i falchi del regime non lo amavano affatto, quell’accordo – ma perché voleva fidarsi quando il presidente, Hassan

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Marty alla ricerca della «giustizia giusta» Negli ultimi anni siamo diventati una terra di giallisti. Un fiume di noir, thriller, spy-story ha invaso gli scaffali delle librerie. Effetto Camilleri-Montalbano? Influenze nordiche? Cupe suggestioni gotiche? Lasciamo agli specialisti del genere la risposta, ma probabilmente per decifrare quest’esplosione editoriale converrà rivolgersi ai sociologi della letteratura più che ai critici letterari. Fenomeno comunque degno di attenzione, segno di un mutamento in corso nel nostro microcosmo delle lettere, finora restio ad abbandonare la tradizione, il cànone ereditato dalla linea lombarda e poi coltivato lungo tutto il Novecento con i classici studiati sui banchi di scuola. Ma ecco che alla suddetta pattuglia si è ora venuta ad affiancare la «concorrenza» degli ex-procuratori: Carla Del Ponte, Natalia Ferrara, Dick Marty. Qui, evidentemente, non siamo più nel campo della fiction, ma in quello, ben più realisticamente ruvido, dell’esperienza vissuta, della memorialistica e dell’autobiografia; qui si entra nei

meandri meno commendevoli della convivenza civile. Sono dispacci inviati dalla linea del fronte e dalle aule dei tribunali, all’interno di un sistema di relazioni multiple, locali e globali, lineari o spiraliformi. Infatti la criminalità organizzata non conosce confini o spazi vergini. Col tempo ha imparato a sfruttare i vuoti legislativi, indossando i panni della persona per bene e frequentando i salotti buoni. Fondamentale è cancellare le tracce e infiltrarsi nelle istituzioni senza dare nell’occhio. Dick Marty, nel volume uscito prima in francese e poi in italiano (Una certa idea di giustizia, edizioni Casagrande), ci offre una casistica che va ben oltre la dimensione penale dei casi. Marty, in qualità di presidente della commissione per la tutela dei diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa (istituzione fondata nel 1949; la Svizzera vi aderì soltanto nel 1963), ha avuto modo di visitare molti teatri di guerra e regioni di crisi, dalla Cecenia ad Haiti, da Cipro al Ruanda. Missio-

ni che gli hanno permesso non solo di misurare le conseguenze dei conflitti sulla popolazione civile, ma anche di conoscere le logiche che li scatenano, in primo luogo gli interessi economici e politici, interni ed esterni. Spesso la miccia che accende lo scontro guizza dentro comunità fragili, dove il diritto è ridotto ad arbitrio, e dove le classi dirigenti, corrotte e avide, prosperano sulla miseria dei più. Il fatto è – sottolinea Marty – che molti di questi paesi devastati dalle guerre, dall’Africa all’America latina, sarebbero sulla carta ricchissimi, zeppi di risorse preziose e di metalli rari, tutte quelle parti che permettono ai nostri dispositivi di funzionare. E invece prevalgono il saccheggio e la schiavitù, pratiche tollerate se non incoraggiate dalle grandi multinazionali. Il racconto di Marty procede a cerchi concentrici, proprio come i traffici che il crimine riesce di volta in volta ad architettare con mezzi vieppiù sofisticati, in base alle richieste del momento: la droga, le armi, gli organi


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Cultura e Spettacoli Le parole dentro Uno Shakespeare insolito e inatteso quello andato in scena al LAC per la regia di Rifici pagina 36

Donne e sovranismo Sara Farris ha scritto un interessante saggio sulle contraddizioni di un certo femminismo pagina 37

Who chi? The Who La storica formazione inglese torna sulla scena mondiale con un nuovo lavoro intitolato...Who pagina 38

On Mars Today, esperienza multisensoriale. (Felix Speller per il Design Museum)

A casa su Marte, progetto controcorrente

Mostre La scoperta e l’eventuale abitabilità del pianeta rosso al centro di una curiosa esposizione a Londra

Luciana Caglio Mentre la difesa del nostro pianeta impone rinunce, sul piano pubblico e privato, insomma stop alle conquiste spaziali e meno viaggi in aereo, a Londra una mostra lancia una proposta di segno opposto. S’intitola Moving to Mars e, curiosamente, è stata allestita dal Design Museum. Fatto sta che, sia per il tema intempestivo, sia per la sede, a prima vista inadeguata, ha innescato una polemica, d’ordine politico e morale, che vede in prima fila «The Guardian», quotidiano sulla cresta dell’onda ambientalista. Dalle sue pagine è partita una raffica di accuse e sospetti nei confronti di un’iniziativa inopportuna, che, partendo dall’idealismo dello scienziato Stephen Hawking, sembra adesso coprire gli interessi del miliardario sudafricano Elon Musk. In altre parole, esplorare Marte, in vista di un possibile insediamento umano, rappresenta una sfida inutile, fine a se stessa,

e, in definitiva, una forma di colonialismo a oltranza, da parte dei poteri forti, NASA e Agenzia Spaziale Europea, comprese. Dal canto loro, gli organizzatori della mostra, anticipando le reazioni dell’opinione pubblica, hanno voluto, innanzitutto, rispondere a un interrogativo scontato: perché un museo del design si occupa di un’impresa spaziale? Secondo Justin MacGuirk, capo curatore dell’istituto, a giustificare quest’evento è la presenza dell’uomo, quale protagonista di un viaggio, non impossibile, anche se discusso. «Non si tratta, dichiara, di unificare le posizioni sulla fattibilità del progetto. Ci si rivolge, consapevolmente, a sostenitori e scettici. Intanto, però, la scienza prosegue il suo corso. Già nel 1976, sonde approdate sul pianeta rosso, avevano riportato le immagini di un mondo tutto da scoprire». Da qui, l’ipotesi, non più fantascientifica, di un nuovo itinerario a disposizione di un’altra ge-

nerazione di astronauti, cioè persone alle quali occorre procurare abiti e poi abitazioni, arredi, utensili, alimenti, in grado di consentire l’esistenza quotidiana. Sia durante un volo di sei mesi lungo un percorso di 53 milioni di km, e, in seguito, durante il soggiorno in un ambiente dove la temperatura è, di media, meno 65°, e l’atmosfera carica di anidride carbonica, radiazioni cosmiche, tempeste di sabbia. Ora proprio queste esigenze d’ordine pratico comportano aspetti d’ordine tecnologico e, non da ultimo, estetici, insomma creativi. Una sfida che ha mobilitato industria tessile e stilisti, impegnati nel filone spaziale, che prese avvio con le tute, gli stivali, i guanti destinati agli astronauti approdati 50 anni fa sulla Luna. Per non parlare degli architetti e degli ingegneri, chiamati, a loro volta, in causa per progettare case, si parla di bolle, da costruire usando materiale locale, il «regolith», estratto dal suolo, per ottenere pareti

spesse, tali da rendere, all’interno, l’aria respirabile. Tutto questo dispendio di soldi, di energie intellettuali e inventiva, per permettere a pochi spericolati cittadini terrestri di mettersi alla prova in condizioni limite? All’interrogativo, suggerito dal cosiddetto buonsenso, che non porta lontano, il museo londinese replica rifacendosi all’esperienza storica, che racconta un itinerario mai concluso. Ed è quello che esprime l’incessante aspirazione alla conoscenza, alla necessità di andare avanti, superando le frontiere dell’ancora ignoto. Sotto questa spinta, si scoprirono continenti, si decifrarono linguaggi, si crearono mezzi di trasporto e di comunicazione. Anche la conquista di Marte ha alle spalle precedenti secolari. Gli esordi risalgono, addirittura alla civiltà babilonese: con una tavoletta in cui figurano osservazioni planetarie sul pianeta rosso. A questo rarissimo reperto si affiancano oggetti e documenti che, con

effetti spettacolari, illustrano le tappe di uno spirito di ricerca che «appartiene al nostro DNA». Dai rudimentali telescopi usati dagli astronomi nel 1700, a quello usato da Giovanni Schiaparelli all’osservatorio di Brera agli inizi del 1900, fino ai missili dell’era Wernher von Braun e infine alle navicelle che consentirono l’allunaggio, ci si trova, da visitatori profani, coinvolti in un’esperienza culturale, e soprattutto umana, che induce alla riflessione. Certo, oggi, lo spirito di conquista colpevolizza, richiama alla memoria sopraffazioni di stampo colonialista, distoglie l’attenzione dai problemi della tutela ambientale. Ma pensare oltre rimane una scappatoia indispensabile verso l’avventura. Dove e quando

Moving to Mars, Londra, Kensington, The Design Museum. Fino al 23 febbraio 2020. designmuseum.org


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Un’arte per tutti

Mostre/2 Un Giappone poco conosciuto in mostra

al MuseoVela di Ligornetto

L’ordine, passione del secolo Mostre/3 A Roma si celebra l’artista

del XVIII secolo, Luigi Valadier

Marco Horat Gli oltre duecento oggetti provenienti dal Giappone antico e moderno attualmente esposti al Museo Vela di Ligornetto, fanno parte della collezione privata di Jeffrey Montgomery, americano-luganese di adozione, raccolti qua e là nel mondo durante tutta una vita: oltre mille reperti, che coprono un ampio arco cronologico, di quella che viene chiamata mingei, arte popolare potremmo dire o artigianato di qualità, in contrapposizione a kogei, cioè arte aristocratica, per usare categorie nostre. Una separazione di genere molto sfumata e problematica (come classificare ad esempio le famose stampe giapponesi?) con la quale si è dovuta confrontare anche la cultura occidentale quando ha incontrato altre culture; è avvenuto nel panorama europeo con l’irruzione delle maschere africane o dell’oriente portate da artisti famosi quali Picasso, Braque, Brignoni. Mingei in Giappone ha una lunga tradizione, anche se il termine fu coniato solo negli anni 20 del secolo scorso in ambito intellettuale. Un periodo importante per la storia del Paese uscito da pochi decenni da un isolamento durato secoli e alle prese con uno scontro epocale fra tradizione e rinnovamento; la letteratura riflette questo conflitto culturale, continuato nel successivo dopoguerra e forse non ancora del tutto risolto nemmeno oggi. Alla crisi economica, alla spinta espansionistica del capitalismo nipponico, ai conflitti sociali e agli scontri politici tra destra e sinistra, si era aggiunto nel 1923 il terremoto che aveva colpito la regione del Kanto, distruggendo la capitale Tokyo e facendo oltre 100’000 morti. Un momento difficile nel quale, affermano gli storici, trovò terreno fertile quel nazionalismo che doveva poi sfociare nel disastro della Seconda guerra mondiale. Le tradizioni popolari andavano perciò valorizzate per affermare una forte identità nazionale. E qui entrano in scena le migliaia di artigiani-artisti quasi sempre anonimi che nel corso dei secoli avevano prodotto oggetti della quotidianità, frutto di una vitalità creativa e di un sapere tradizionale

Giovanni Gavazzeni

Coprifuton con motivo di coppia di aragoste, periodo tardo Meiji-inizio Shoˉwa (1900-39). (©Yuki Seli 2019, Courtesy Jeffrey Montgomery Collection)

che rischiavano di andare perduti di fronte all’industrializzazione e alla produzione in serie: tessuti, sculture in legno e statuette di divinità, vasellame, ceramica, lacche, mobilia e suppellettili, maschere, dipinti e oggetti di uso comune in metallo o bambù. Un patrimonio che non solo colpisce per la varietà dei materiali e l’eleganza delle forme, ma oggetti che trasmettono emozioni perché sprigionano una grande forza spirituale che viene loro dalle storie che raccontano, da chi li ha creati e da chi li ha manipolati o visti nel tempo. «Li ho sempre scelti con il cuore e con la pancia, mai con la testa», dice il collezionista. Sono creazioni che, nel contesto della politica messa in campo da anni dal Museo Vela diretto da Gianna Mina, vengono presentate per la loro valenza estetica, per la forza che sprigionano e l’immediatezza con la quale colpiscono il visitatore; e non quali testimonianze etnografiche che andrebbero altrimenti contestualiz-

zate, così come accade spesso per altre istituzioni svizzere; penso alle Collezioni Baur o al Barbier-Mueller di Ginevra. Arte minore direbbe qualcuno, se paragonata alle espressioni artistiche elevate che siamo soliti ammirare nelle mostre che da anni vengono regolarmente dedicate al Giappone in tutto il mondo. La discussione è aperta, ma intanto ecco la possibilità di andare alla scoperta di un terreno affascinante quanto ricco di sorprese del quale vi era stato un primo assaggio in Ticino, con una scelta differente di oggetti della stessa collezione Montgomery, alla Galleria Gottardo, nel lontano 1990.

A Luigi Valadier, proveniente da una famiglia di argentieri avignonesi trasferitasi a Roma verso il 1720, è dedicata una mostra di straordinario fascino presso la Galleria Borghese di Roma. Valadier lavorò in gran parte per i padroni della Villa in cui è allestita la mostra. Infatti, per la famiglia Borghese, Valadier realizzò gli arredi liturgici delle cappelle di famiglia, lavorando poi nella residenza di Campo Marzio, nel casino di Pratica di Mare e nella Villa Pinciana dove, negli anni Settanta, il munifico principe Marcantonio IV Borghese avvierà grandiosi lavori di rinnovamento per esporre la straordinaria collezione di scultura antica già del cardinale Scipione Borghese. Un «rifacimento» che coinvolse assieme a Valadier «i più eminenti pittori e scultori allora presenti a Roma. E assieme a essi anche ebanisti e doratori, intagliatori e tornitori, mosaicisti, stuccatori, fusari, marmorari, tappezzieri, e fustai, antiquari e restauratori, che portarono alla ripresa di mestieri e botteghe da lungo tempo assopite, incrementando al massimo la produzione artigianale e artistica, con il conseguente forte impulso impresso

Luigi dei Francesi, si era trasferita in strada Paolina (oggi al numero civico 89 dell’odierna via del Babuino), anche allora crocevia di «stranieri facoltosi», dove Luigi divenne celebre come formidabile fonditore di bronzi («statuario»). Realizzava prodigiose riduzioni per teste coronate o collezionisti aristocratici, come la colonna Traiana in argento dorato, marmo bianco, granito di Assuan e pietre colorate, acquistata dal principe elettore di Baviera. Il suo genio trova sintesi nei «deser», «storpiatura del termine francese dessert», sontuosi centri tavola destinati ad appassionare l’intera Europa e realizzati con marmi di scavo. Era come se sulla tavola si concretassero le fantasie di Piranesi winckelmanizzate. La libertà di composizione, «derivata dalla casualità dei reperti, applicava i contenuti di una scienza archeologica alla formazione di un gusto». L’idea di tradurre «in oggetto un immaginario favoloso e al tempo stesso storico, preservandone la monumentalità nonostante la riduzione in scala, la verosimiglianza logica attraverso la preziosità dei materiali, l’esattezza ossessiva dell’esecuzione che diviene in sé un valore», venne a Valadier dalla mediazione dell’architetto Antonio

Dove e quando

Giappone. L’arte nel quotidiano. Manufatti mingei dalla collezione Jeffrey Montgomery, Ligornetto, Museo Vela. Fino all’8 marzo 2020. Orari: ma-sa 10.00-17.00; do 10.00-18.00; lu chiuso. www.museo-vela.ch

Nell’immagine la sala numero XVII del Museo Vincenzo Vela. (© Museo Vincenzo Vela - Foto Mauro Zeniv)

Giuseppe Valadier e Carlo Albacini, Riduzione del Tempio di Iside a Pompei, 1805-1806, alabastro fiorito, alabastro rosa, cotognino, erborizzato, diaspro di Corsica, rosso antico, lumachella, porfido e bronzo dorato. (Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli © Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo – Museo e Real Bosco di Capodimonte)

all’economia della città. Basti pensare al recupero della tecnica del mosaico, così eminentemente romana ma sopitasi dall’inizio del secolo precedente e che raggiunse in questo momento l’apice del suo sviluppo e della sua qualità» (così Anna Coliva, curatrice e direttrice della Galleria nel catalogo della mostra). Sono gli anni nei quali in Francia e poi in Europa prende spazio un «sentimento anti rococò» che ricorre «all’antico di orientamento neogreco». In Valadier prende forma l’eclettismo che Giovanni Battista Piranesi teorizzava e illustrava nelle sue visoni dell’antico, amalgama di simboli prelevati «dalle civiltà confluite nel patrimonio dell’Impero, comprendenti l’arte degli egizi, degli etruschi, dei greci e persino delle popolazioni barbariche», eclettismo che entrava in contatto con l’ordinatrice influenza di Winckelmann e il suo il ritorno alla nobile semplicità antica, alla sobrietà dell’ornato, all’equilibrio delle parti. La bottega di Valadier, nata in San

Asprucci, suo sodale collaboratore nella formidabile impresa del rinnovo di Villa Borghese. Impresa che insieme a Villa del cardinale Albani sulla Via Salaria, al Museo Pio Clementino, voluto dal Papa Garganelli Clemente XIV e dal Papa Braschi Pio VI, rispondevano alla passione del secolo: l’ordine. Ordine «in senso proprio di ordinata e distinta disposizione delle parti. Un ordine geometrico e universale, che non sacrificava il valore e il gusto della varietà». Da qui nasce una cultura museale nuova, antiquaria ed estetica, «dove il progetto di accordo tematico tra la decorazione delle stanze e le sculture in esse contenute ne fecero il modello per le decorazioni concepite da Percier e Fontaine nelle gallerie delle antichità del Museo del Louvre». Dove e quando

Valadier. Splendore nella Roma del Settecento. Roma, Galleria Borghese. Fino al 23 febbraio 2020. www.galleriaborghese.beniculturali.it


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Cultura e Spettacoli

L’essenza secondo Rifici

I 40 anni del gruppo Cantemus

Teatro Il bello è brutto, il brutto è bello nell’incanto diabolico di Macbeth

Concerti La corale

ticinese propone due serate d’eccezione

Un momento dello spettacolo Macbeth andato in scena al LAC. (LAC, Foto Studio Pagi)

Giorgio Thoeni Il teatro, quello vero, non dà risposte ma crea problemi e, alla fine di ogni spettacolo, la più bella sensazione è constatare che quanto è stato visto abbia prodotto qualcosa negli spettatori. Una collezione di reazioni, fra sensazioni, stimoli, dubbi e riflessioni, insomma, la messa in moto di emozioni anche profonde. Come quelle registrate soprattutto fra i giovani (molti in platea) che hanno seguito l’applaudito debutto di Macbeth, le cose nascoste, la rilettura del capolavoro di Shakespeare di Angela Demattè e Carmelo Rifici con la dramaturg Simona Gonella, andato in scena sul palco del LAC, ultima produzione di LuganoInScena realizzata in coproduzione con Teatro Metastasio Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina. Frutto di due anni di lavoro e, soprattutto, opera di scavo nell’animo umano alla scoperta dei suoi più remoti archetipi, il progetto ha trasformato l’approccio all’opera del Bardo in un manifesto antropologico. Ne sanno qualcosa Giuseppe Lombardi, nel suo ruolo chiave, psicoanalista junghiano protagonista degli incontri preliminari con gli attori, e Luciana Vigato, esperta

di comunicazione non verbale e stili relazionali. Lo vediamo nelle fasi iniziali dell’approfondimento operato su alcuni dei soggetti protagonisti sulla scena, filtro con gli attori e sugli attori, percepiti attraverso delle fasi filmate che introducono le azioni del dramma offrendo una chiara dimostrazione di come tutto vada a comporre il percorso attorno a storie che riguardano tutti, un grumo centrale denso, terminale, dove la complessità del passato è memoria, dunque conoscenza. Una tela di intimi intrecci che vanno così a combaciare con le vicende del futuro re di Scozia. È l’importanza, l’essenza di lavorare su un testo classico che nel progetto per la sua messa in scena rappresenta per Rifici lo strumento indispensabile al fine di meglio capire noi stessi e i rapporti fra noi e il mondo in cui desideriamo vivere. In questa prospettiva Macbeth è forse l’opera più crudele del Bardo: un meccanismo svelato attraverso le sue sfaccettature e la forza con cui penetrano nell’inconscio svelando i presupposti del male, dell’invidia e della violenza avvolti nella febbre per il potere. Un mito ancestrale che abbraccia tutto e tutti, fin dalle origini dell’uomo. La psicoanalisi per la lettura di un testo teatrale, tecnica non nuova ma certamente in questo caso imprescin-

dibile, ci porge la chiave di volta per aprire voragini sull’essere e sul divenire, su contenuti profondi interni spesso scabrosi, crudeli. Rifici e la sua squadra attraverso il Macbeth affrontano lo studio degli archetipi, confrontandosi con simboli, segni misterici di un regno primitivo, legato alla terra e ai suoi riti, anche religiosi. Un mondo che abbiamo dimenticato ma che non ci ha del tutto abbandonato, rivelando i rigurgiti di una sapienza antica, preclassica. Come per la profezia delle streghe dove Il bello è brutto e il brutto è bello così un principio di inizio e fine si sviluppa nell’interpretazione di Rifici che riduce a pochi personaggi la tragedia: tutti ruotano attorno alla cifra tre, magica e divinatoria. Ecco allora tre streghe, tre Macbeth, tre Ladies, tre Banquo. E il mito di Ecate che al termine integra le tre streghe per un’ultima divinazione universale. Il tutto appare fluido e naturale nella successione degli avvenimenti dopo l’iniziale processo introspettivo, fino al cuore della vicenda scespiriana. Con Macbeth che torna dalla guerra con Banquo, divorato dalle profezie delle streghe in accordo con la moglie uccide Duncan e le sue guardie, e in seguito lo stesso Banquo: un diabolico fiume di sangue immaginato grazie a un complesso dispositivo raccontato con qualche sacrificio

testuale, fra scene memorabili per la loro forza recitativa e dimensioni contemporanee miste a anime barocche tra i canti, i suoni e le suggestive musiche di Zeno Gabaglio, le scene di Paolo Di Benedetto e la pedana inclinata su cui scorre lieve l’acqua purificatrice di peccati, i costumi senza età di Margherita Baldoni. Il tutto avvolto dal suggestivo piano di luci di Gianni Staropoli, dai video di Piritta Martikainen, dalle riprese delle sedute d’analisi a visioni pittoriche (Mantegna, Bacon…). Un gran bel lavoro dal profilo drammaturgico (Demattè e Gonella) e registico con uno degli spettacoli più riusciti di Rifici. Un denso universo teatrale dal quale si ritagliano un posto di assoluto primo piano gli attori, eccellenti per bravura e intensità: Alessandro Bandini, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Christian La Rosa, Leda Kreider, Maria Pilar Pérez Aspa, Elena Rivoltini.

Il Gruppo Vocale Cantemus di Lugano, l’Orchestra Sacro Monte di Varese e solisti di fama internazionale si incontrano per un progetto transfrontaliero, con lo scopo di realizzare due concerti a Lugano e a Zurigo e far conoscere a un ampio pubblico un giovane e talentuoso compositore svizzero. Cantanti e musicisti provenienti da due cantoni e da due nazioni, diretti da Davide Fior, gettano un ponte a cavallo di 180 anni di storia della musica, dallo Stabat mater di Gioachino Rossini (1842) fino alla prima esecuzione assoluta di Vergine madre, composizione del 2019 commissionata dai due cori al compositore della Svizzera romanda Grégoire May. I due concerti si terranno il prossimo 25 gennaio a Lugano, nella Cattedrale di San Lorenzo, e il 26 gennaio a Zurigo, nella Fraumünster. Gli artisti a cui è affidata la parte solistica sono: María Caballero, soprano; Margherita Maria Sala, contralto; Giovanni Sala, tenore; Francesco Leone, basso. Cantemus, che ha compiuto i 40 anni di storia, è nato su iniziativa di un gruppo di sei amici nel 1979. Dal 2017 è diretto da Davide Fior quale direttore artistico. Sotto la sua direzione e grazie alla didattica riguardo alla vocalità, il coro si è già presentato in diverse occasioni con brani di autori come Scarlatti (Magnificat), Vivaldi, De Victoria, De Morales, Lotti, ma anche di autori meno conosciuti come Zelenka, Rheinberger e la contemporanea ticinese Maria Bonzanigo. Informazioni

Il programma di dettaglio è pubblicato su www.cantemus.ch; www.concertovocale.ch In collaborazione con

I 30 anni della Compagnia della Fortezza

L’articolo apparso la scorsa settimana dedicato al libro-intervista con Armando Punzo conteneva un’imprecisione nella sottotitolazione: il regista non è ancora stato a Bellinzona ma sarà ospite del Teatro Sociale dal 13 al 16 febbraio prossimi. Ci scusiamo con gli interessati. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Cultura e Spettacoli

La donna sovranista Pubblicazioni Anche nell’ambito del femminismo

assistiamo a delle preoccupanti derive nel nazionalismo Laura Marzi Che cos’è il femminismo? Una domanda difficile, impossibile anzi, perché non esiste un solo femminismo, ma molti, basti pensare già solo alle differenziazioni relative agli indirizzi sessuali: cis, trans, lesbo, eccetera. Eppure se c’è una connotazione che definisce tutti i femminismi è la ricerca della libertà, una aspirazione chiara a lottare, tra le altre cose, affinché le donne tutte possano averne di più: libertà sessuale, di interpretazione del mondo, di vivere la propria vita scevre dai dettami e dai doveri che il ruolo di genere imponeva e impone. A quanto, però, ci spiega Sara R. Farris nel suo saggio Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne anche questo legame che sembrava inscindibile tra libertà e femminismo sta vacillando sotto i colpi, ormai ventennali, della xenofobia e del razzismo. La studiosa italiana, docente alla Goldsmiths University of London, in una cornice teorica molto approfondita e ampia analizza come casi esemplari Paesi Bassi, Francia e Italia dimostrando come in questi tre contesti dai percorsi politici e dalle storie nazionali molto diversi si possa notare uno stesso fenomeno chiamato femonazionalismo. Che il corpo e le vite delle donne, più in generale, siano da sempre e continuino a essere strumentalizzati dalla politica per obiettivi e ideologie le più diverse si sa. Sappiamo che una buona parte dei messaggi razzisti che per esempio in Italia vengono rivolti contro i migranti dipingono gli uomini stranieri come aggressori e violentatori delle donne italiane. Affermazioni queste che ignorano – come? – il dato eclatante che la violenza di genere, piaga mostruosa della terra italica, vede come protagonisti tra i carnefici per la stragrande maggioranza persone vicine alle vittime. Una ricerca dell’ISTAT (Istituto Nazionale di Statistica) di qualche anno fa riscontrava che il 76% degli stupri era compiuto da compagni, ex, parenti e amici. La novità del femonazionalismo riguarderebbe però il coinvolgimento delle femministe in questa pratica di strumentalizzazione. Molto conosciuto per esempio, in Francia, il caso di

Korn, il nulla più splendido

Musica The Nothing è un album tormentato

ma dalle soluzioni eccellenti

Alessandro Panelli

Un dettaglio della copertina del libro di Sara Farris.

Elisabeth Badinter o in Italia di Oriana Fallaci e Barbara Spinelli che si sono schierate apertamente contro il diritto per le donne musulmane a indossare il velo perché esso sarebbe il simbolo dell’arretratezza islamica e dell’assenza in quella civiltà della parità di genere. Il tema è scottante e complesso, ma al di là delle singole idee che ognuno ha in proposito, ciò che fa notare Farris è che una posizione di questo tipo pone per il femminismo tre ordini di problemi. Indicando per le donne musulmane l’Occidente come modello è stata «distolta l’attenzione sulle molteplici forme di disuguaglianza che ancora colpiscono le donne occidentali». Inoltre, continua Farris, alle donne migranti viene indicata come via di liberazione dalla cattività islamica il lavoro: ma quale tipo di lavoro? Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di lavoro di cura, domestico, proprio quelle attività, quindi, da cui il femminismo della seconda ondata ha contribuito a liberare, almeno in parte, le donne occidentali. Infine Farris si sofferma sul materiale educativo che viene distribuito in Francia, in Italia e nei Paesi Bassi alle persone migranti per istruirle sui costumi e le leggi della nazione che li ospita: in tutti e tre i casi le donne migranti vengono individuate come i soggetti

chiave per il processo di integrazione. Devono imparare come funziona, per esempio, il sistema scolastico del paese d’arrivo e essere parte attive del processo educativo, partecipando alle attività scolastiche dei propri figli. Non solo ci troviamo allora di fronte alla contraddizione tra il femminismo storico che aveva cercato di liberare le donne dal ruolo di madre come garante unica della cura e dell’educazione della prole, ma poi come fanno le donne musulmane a partecipare alle attività di una scuola, per esempio in Francia, se molto spesso viene loro negato l’accesso all’edificio perché indossano il velo? Un testo interessante, quindi, perché al di là delle difficili questioni che pone il tema enorme dell’integrazione, mostra in modo evidente come anche il movimento dei femminismi, tradizionalmente antirazzista, abbia ceduto a derive nazionaliste, sposando, in alcuni casi, un’idea di supremazia occidentale che non si allontana poi così tanto da quella che sottostava al colonialismo, una delle cause vere e taciute del fenomeno migratorio contemporaneo.

I Korn pubblicano il loro tredicesimo album in studio, The Nothing, uscito il 13 settembre 2019 dalla Elektra Records e dalla Roadrunner Records e composto da 13 tracce dalla durata totale di 44 minuti. Il concept dell’album è un viaggio oscuro all’interno dei propri tormenti, delle presenze negative e dannose che emergono dal proprio essere. L’ispirazione che ha portato Jonathan Davis (leader, scrittore, cantante) e gli altri componenti della band a parlare di una sofferenza cupa, di lotte con il proprio io più profondo e di pentimenti di fronte alle scelte compiute nel corso della vita, scaturisce dal dolore per la recente morte della moglie di Jonathan Davis, Deven Davis, scomparsa nell’agosto 2018 per un overdose causata da un mix di droghe. Durante tutte le 13 tracce i Korn trasmettono una sensazione cupa e dannata esplicitata da una scrittura incisiva, diretta, che scava nell’animo umano in modo distinto, canzone dopo canzone. A fare da base ai testi oscuri un’eccellente composizione musicale, che varia tra riff di chitarra ottusi, semplici e d’impatto, a linee di basso profonde e perfettamente riempitive, a una batteria tridimensionale, efficace e in grado di creare un muro di suono devastante. Il tutto all’interno di una struttura poco ricercata ma che rispecchia perfettamente i canoni del nu metal classico, in grado di creare breakdown pesanti, distruttivi e ritornelli melodici ma allo stesso tempo gravi che non

si sentivano ormai da qualche album. L’aspetto meglio riuscito di The Nothing è il ritorno alla ricerca di sonorità profonde, graffiate e sporche, caratteristica presente in parte anche nel loro ultimo lavoro uscito nel 2016, The Serenity of Suffering, ma con meno incisione e personalità. La voce di Jonathan torna anch’essa agli esordi dei primi album con una varietà tra il melodico e il growl, mai banale, con un timbro vocale disperato e composizioni di un coinvolgimento totale. Oltre al devastante tormento che domina in quasi tutte le tracce dell’album, troviamo anche sonorità più allegre, nonostante i testi delle canzoni rispecchino comunque i drammi di una persona martoriata dalle scelte che è stata costretta a compiere. In tracce come H@rd3r ci troviamo di fronte a una strofa dettata da un riff di chitarra piuttosto acuto e giocoso, mentre in pezzi come Can You Hear Me e Gravity of Discomfort domina un senso di sfogo e libertà, con ritornelli che trasmettono una sensazione di ampiezza e immensità che per un momento fa sperare che Jonathan sia riuscito a sconfiggere i propri demoni. Ma purtroppo, nell’interlude finale, lo stesso cantante esplicita il suo fallimento arrendendosi, e chiedendo aiuto a Dio, nella canzone Surrender to Failure. Ogni traccia di questa nuova opera trova una propria identità, dalle differenziazioni delle strofe ai ritornelli catch ai breakdown sporchi e cattivi. Non c’è che dire, i Korn sono come il vino, col passare del tempo guadagnano in qualità.

Bibliografia

Sara R. Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne, Roma, Edizioni Alegre, 2019.

La copertina del nuovo album dei Korn.

Parole malfamate

Linguistica La storia della parola «Bulgaro» e il destino di un popolo nell’ultimo libro

dello storico della lingua Enrico Testa Stefano Vassere All’interno della molto vivace collana «Parole nostre», che la casa editrice il Mulino va pubblicando da qualche anno affidando a singoli linguisti italiani di prim’ordine la trattazione di una parola-mondo dell’italianità storica (Ciao, Pizza, Bravo, per esempio), esce ora Bulgaro. Storia di una parola malfamata di Enrico Testa. Bulgaro abita espressioni di vario tipo; come quando si dice maggioranza bulgara, editto bulgaro, ma poi anche, in altri ambiti, pista bulgara, pasto bulgaro ecc. I significati di questi usi sono, come gli usi stessi, variabili e con variabili significati; ma ciò che li accomuna è il valore puntualmente sminuente delle espressioni. Non si tratta in effetti di veri e propri insulti; non a caso (forse lo dice anche Testa in un qualche punto del suo libro) l’uso è quasi sempre aggettivale e di regola mai queste qualifiche assumono la forma del sostantivo: in pratica, questa fraseologia è più obliqua e meno illocu-

tiva di un’ingiuria. Il problema sta nel contesto che viene montato, nel risuonare socioculturale. La storica bulgara Maria Todorova allude appropriata-

mente a «una malerba linguistica» (lei parla dei Balcani tutti insieme e del lessico associato all’etnonimo, ma nel libro di Testa le affinità con l’uso della famiglia lessicale legata a Balcani sono spiegate per bene). Il riferimento alla Bulgaria e ai suoi abitanti è fucina lessicale importante per l’italiano, se è vero (come sembra) che da quella fabbrica derivino per esempio il toponimo carducciano Bolgheri, ma anche un termine come buggerare che significa «fregare», «raggirare», e pure «sodomizzare». Si potrebbe poi dire anzi che il rinvio a quell’area geografica e al suo contesto sociale sia prerogativa dell’italiano («locuzioni simili paiono assenti in altre lingue») e che la ricerca vada indirizzata non solo nel contesto delle connotazioni legate al blocco sovietico e alla sua storia ma pure a vicende molto più antiche, come testimonierebbe tra l’altro l’età degli stessi due termini qui appena richiamati. Del resto, recita bene Testa, a fronte di un uso così ancora vivo, «i

regimi comunisti dell’Est sono finiti da un pezzo» e nessuno ci ha ancora spiegato perché in simili espressioni si scelga puntualmente di richiamare la sola Bulgaria e non un’altra delle realtà nazionali di quell’area geopolitica, l’Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia, la stessa Russia. Il racconto delle origini e dei destini delle espressioni che contengono l’aggettivo bulgaro ci insegna un paio di cose molto generali sulla storia dell’italiano e sulla storia delle lingue. Se, come ci dice Enrico Testa, «i segni linguistici non si spiegano da soli e la lingua non può essere considerata “come sistema a sé stante”», l’influenza tra lingua e cultura va considerata nella sua reciprocità: pregiudizi e stereotipi avranno sì contribuito ad accreditare l’uso di bulgaro come lo conosciamo bene oggi, ma anche, all’inverso, il ricorso insistito a queste espressioni avrà indotto qualche anima semplice a sviluppare un’idea almeno ingenerosa della Bulgaria e dei Bulgari. Siamo dalle

parti di quella che gli esperti chiamano «teoria del determinismo linguistico», che ebbe fortunato corso durante il Novecento e il cui imperatore supremo fu il linguista americano Benjamin Lee Whorf. Potrà forse stupire infine il cocciuto radicamento storico (e sociale: l’uso di bulgaro sembra non conoscere confini sociali e «intellettuali») di questo vocabolario così poco rispettoso. Ma qui ammonisce Claude Lévi-Strauss e con lui lo stesso Enrico Testa: «una società è sempre soggetta alla incidenza di altre società e di stati anteriori del proprio sviluppo e su una società e sulle forme delle sue rappresentazioni collettive si fanno sentire anche fasi precedenti del proprio sviluppo ed elementi remoti della propria storia». Bibliografia

Enrico Testa, Bulgaro. Storia di una parola malfamata, Bologna, il Mulino, 2019.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 20 gennaio 2020 • N. 04

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Cultura e Spettacoli

La macchina del tempo

Musica Superata la soglia dei settanta, Roger Daltrey e Pete Townshend, in arte The Who,

incidono un album che vibra di tutta la grinta e dedizione dei loro vent’anni

I supereroi non sono più quelli di un tempo Serie TV Dal

Benedicta Froelich Sarà anche vero che i nostalgici del rock anni 60 sanno essere perfino più integralisti dei membri di una setta – e, spesso, anche ben poco obiettivi davanti alle loro passioni; eppure, pur dando il giusto peso alla nostalgia, vi sono comunque alcune verità tuttora impossibili da ignorare. Tra queste, il fatto che non occorre aver assistito in prima persona alla leggendaria stagione della «British Invasion» per essere inguaribilmente innamorati dei The Who, forse la più iconica tra le formazioni di quell’incredibile periodo – soprattutto dal momento che, a oltre cinquant’anni dagli esordi, la band costituisce una realtà ancora viva e presente sui palchi internazionali, nonché in grado di regalare grandi emozioni; e questo sebbene la line-up originale sia ormai ridotta al semplice duo composto dagli «eterni ragazzi» Roger Daltrey (frontman e voce) e Pete Townshend – chitarrista, ma anche geniale mente dietro ogni successo del gruppo. Nonostante ciò, una certa apprensione circondava comunque questo WHO, primo album da tredici anni a questa parte: un disco che si presenta come dichiarato tributo alle suggestioni di un passato sempre più ammantato di leggenda – a partire dalla copertina, tripudio di icone sixties (da Mohammed Ali a Chuck Berry), nonché dei feticci personali della band (su tutti, l’immancabile istantanea che vede Pete pronto a distruggere l’ennesima chitarra sul palco). E del resto, basterebbe l’incipit della canzone d’apertura, All This Music Must Fade («non me ne importa, ma so che odierai questa canzone»), per rendersi conto di come il CD rappresenti un vero e proprio ritorno a quell’irresistibile, candida sfrontatezza che è sempre stata il marchio di fabbrica dei nostri. WHO diviene così una fusione consapevole quanto magistrale

tra l’eterno, inconfondibile sound della band e una forma sottile, eppure mai condiscendente, di energica e quasi brutale contemporaneità. Ma ciò che più lascia stupefatti – e, a voler essere sinceri, perfino commossi – è l’eterna potenza e freschezza della voce di Daltrey, la quale, insieme alla forza espressiva tuttora dimostrata da Townshend, costituisce senz’altro uno dei grandi miracoli rock di sempre; lo dimostrano l’epicità dei travolgenti Hero Ground Zero e Break the News – e, soprattutto, di I Don’t Wanna Get Wise, sorta di nuova, aggiornata dichiarazione d’intenti da parte degli eterni scavezzacollo di un tempo, perfettamente in linea con il carattere di chi, in uno dei propri maggiori successi, aveva cantato «spero di morire prima di diventare vecchio». Un concetto oggi ammantato di una certa ironia, considerando le meraviglie di cui ancora Pete e Roger sono capaci e, soprattutto, la loro riluttanza e incapacità ad «appendere il microfono al chiodo». Così, ecco che quest’invidiabile capacità di ricreare il passato nei minimi particolari dà a tratti origine a un «effetto flashback» quasi surreale, come accade con la bonus track Got Nothing To Prove, vecchio demo che sembra giungere direttamente dalla Summer of Love del ’67; e per quanto godibili, è probabile che, per alcuni ascoltatori, brani come Detour e Rockin’ in Rage appaiano un po’ troppo reminiscenti del repertorio giovanile della band per risultare davvero coinvolgenti. Eppure, l’implicita bellezza dell’album risiede proprio nella sua capacità di «innalzare un ponte» tra presente e passato: come negare la meraviglia del vibrante e ribelle Ball and Chain, certo una delle cose migliori prodotte dalla formazione negli ultimi vent’anni? E poi ci sono, naturalmente, le tracce a cavallo tra il più sfacciato «stile à la Who» e una dimensione

fumetto di Garth Ennis una serie su Amazon Fabrizio Coli

WHO è il nuovo lavoro dei The Who.

maggiormente cantautorale e, per certi versi, attuale: si vedano This Gun Will Misfire – in cui l’usuale leggerezza tipica del gruppo si ammanta nuovamente di un’inquietudine dai toni socialmente impegnati – e i felici intermezzi romantici I’ll Be Back e Beads on One String; per non parlare della ballata She Rocked My World, stupefacente connubio tra leggiadre sonorità jazz e cadenze tipiche della bossa nova, in cui la voce abitualmente appuntita di Roger si fa suadente e vellutata. E vista la forza di simili performance, diviene ancor più difficile non domandarsi per quale motivo un lento dal gusto retrò come Danny and My Ponies (struggente parabola sull’imperturbabile saggezza di un vagabondo

dimenticato da tutti) veda Townshend macchiarsi dell’unica concessione «modaiola» del CD – cedendo, nonostante una voce ancora ampiamente capace di sfumature emotive e toccanti, alle lusinghe di quel flagello moderno che è l’odiato autotune. Tuttavia, nonostante gli occasionali limiti, WHO resta un autentico trionfo per qualsiasi vero fan dello storico ensemble: e, come tale, un’occasione per suscitare meraviglia, e perfino una qualche forma di intima commozione, anche in chi non ha ancora avuto la fortuna di sperimentare la gioia data dal repertorio sprezzante e gioioso di Pete e Roger – vere icone del rock che, una volta di più, hanno dimostrato al mondo la propria immortalità.

La bacchetta magica

Musica Mancano pochi giorni a uno degli appuntamenti musicali più attesi del LAC:

il 25 gennaio si esibirà il grande direttore d’orchestra Riccardo Muti Enrico Parola Per tutti gli amanti della classica è l’evento musicale dell’anno. Giovedì Riccardo Muti sbarca al LAC al timone della «sua» Chicago Symphony Orchestra, mitica corazzata americana considerata assieme ai Wiener e ai Berliner Philharmoniker la migliore orchestra al mondo. Formazioni, queste due, che il direttore artistico Etienne Reymond è riuscito a portare nel cartellone di Lugano Musica la scorsa stagione, guidati da Tilson Thomas e Harding. Ottime bacchette, ma imparagonabili per carisma, storia e classe assoluta a Muti. Il quale, dopo mezzo secolo speso sui più prestigiosi podi del mondo, aveva giurato innanzitutto a se stesso e al mondo che non avrebbe più assunto incarichi stabili. «Me l’ero promesso davvero. Nel 1968 ero stato chiamato dal Maggio Musicale Fiorentino, poi Londra, Philadelphia, i vent’anni alla Scala. Dopo si era fatta avanti per due volte la New York Philharmonic, ma avevo declinato. Però nel 2007 tornai a suonare con la Chicago a 34 anni dall’ultima volta che l’avevo diretta». Galeotta fu quella tournée: «Lì scattò qualcosa: fu un incontro straordinario dal punto di vista squisitamente artistico, ma anche a livello umano. Furono

Una vita per la musica, Riccardo Muti. (www. riccardomutimusic. com/Chris Lee)

sessanta gli orchestrali che mi scrissero una lettera per esprimermi la loro gioia di aver condiviso quell’esperienza. Dopo poco tornai per un altro concerto e poco dopo ancora accettai di diventarne direttore musicale». Il decimo nei 129 anni di vita dell’orchestra: «Ho ricevuto un’eredità gloriosa e onerosa: i miei predecessori sono stati dei giganti dell’interpretazione e sono arrivati a Chicago non a inizio carriera, ma nel pieno della maturità: Kubelik, Solti, Barenboim, Haitink, Boulez. Questa tradizione ha reso la Chicago l’orchestra più famosa e carismatica d’America». D’America, seppure almeno agli inizi d’indole europea: «Si può addirittura dire tedesca. Theodore Thomas, che fondò l’orchestra nel 1891, era un violinista nato in Germania; tedesco fu anche il suo successore, Frederick Stock. Non a caso molte musiche europee ebbero la

prima americana proprio a Chicago». Ma quanto un direttore, pur con una personalità artistica molto forte, può influire su un’orchestra con una storia, un’identità e un carisma così spiccati? «Non la si può snaturare, ma ogni direttore comunica una sua cifra, lascia il segno con un suo accento particolare. Solti esaltò la muscolarità e l’enfasi della potenza sonora di una formazione già celebre per i suoi straordinari ottoni, con Barenboim ha maturato un equilibrio maggiore tra ottoni, archi e legni. Per quanto mi riguarda, penso di aver aggiunto un fraseggio e una lucentezza del suono che prima mancavano; l’ho fatto attraverso l’opera italiana, che i musicisti hanno mostrato di amare molto; a Chicago abbiamo approfondito Verdi con Macbeth, Falstaff e Otello, circa un mese fa è stata la volta di Cavalleria rusticana».

L’orchestra nasce nel 1891 e già all’inizio del nuovo secolo diventa di riferimento; la Chicago di quegli anni viene raccontata in una prospettiva un po’ diversa dal cinema… «Già, i gangster, la criminalità organizzata… Le notti di Chicago fu il primo gangster movie; però sa dove debuttò la prima direttrice afro? Proprio a Chicago, Margareth Harris nel 1971; e la prima volta di una donna scelta come prima parte di un’orchestra? Ancora Chicago, la cornista Helen Kotas nel 1941. Chicago è il cuore moderno dell’America». Muti ha rinnovato l’incarico fino al 2022, ma ci sono già pressioni perché prolunghi ulteriormente: «Mai dire mai, però nel 2022 avrò 81 anni, non mi dispiacerebbe essere più libero; il che non vuol dire non fare musica assieme, ma ci sono anche altri modi per rimanere legati. Intanto nel ’22 ci aspetta una tournée europea che farà tappa al festival di Salisburgo, a Londra, Lucerna…» Intanto, prima del KKL, il privilegio di applaudirlo è appannaggio del pubblico del LAC; quasi un dettaglio il programma proposto, dove spicca la sinfonia Dal nuovo mondo di Dvorak: un altro europeo che conquistò l’America musicale.

La ragazza guarda teneramente il ragazzo. Si sorridono, le mani dell’una in quelle dell’altro. Poi lei esplode, si vaporizza in una pioggia di sangue e frammenti microscopici di carne e di ossa. Il supereroe che le è passato attraverso alla velocità di un treno merci supersonico, si ferma un secondo per bofonchiare uno «scusa» e riprende la sua corsa. Il ragazzo rimane lì. Le sue mani stringono ancora quelle dell’amata, l’unica cosa che rimane di lei. Dimenticate la simpatia dell’Uomo Ragno o i principi morali di Superman. I supereroi di The Boys sono tutta un’altra storia e sotto la loro perfetta immagine pubblica nascondono perversioni e comportamenti inenarrabili. Creata da Eric Kripke (Supernatural), Seth Rogen ed Evan Goldberg, la serie ha da poco debuttato sulla piattaforma Amazon Prime Video e a luglio è attesa la seconda stagione. Già dai tempi di Watchmen e de Il ritorno del cavaliere oscuro, i supereroi non sono più quelli di una volta. Le graphic novel di Alan Moore e Frank Miller ne hanno ristrutturato il DNA, rendendoli ombrosi e ambigui. Ma con The Boys si va oltre. Anche qui si parte da una graphic novel, opera nel 2006 dell’incendiario Garth Ennis (Preacher) e di Darick Robertson. Politicamente scorretta, violenta e spettacolare, intrisa di abrasivo umorismo nero, la serie è acutissima nell’aggiornare il fumetto di una quindicina d’anni facendone lo specchio di una società dove i fatti e la verità sono filtrati dai social e manipolati da un marketing spietato che fa di ogni cosa un prodotto. Vale anche per «i Sette», i supereroi più famosi del pianeta, galline dalle uova d’oro per la Voughn International che ne gestisce il marchio, l’immagine e la comunicazione. Hanno nomi come Patriota, A-Train, Abisso, Black Noir o Queen Maeve questi esseri dai poteri straordinari acclamati dalle folle come rockstar. Ma il raffazzonato gruppetto di outsider capitanato dall’agente CIA Billy Butcher, che ha un motivo più che personale per avercela con i super, non la vede così e vuole smascherarli e punirli. Sono «i ragazzi» del titolo e Hughie, il giovane sotto shock dell’incidente che col botto apre la serie, vi viene subito arruolato. Karl Urban e Jack Quaid, figlio di Meg Ryan e Dennis Quaid, sono perfetti nei loro ruoli. Antony Starr dà al suo Patriota l’aspetto sinistro di un Superman deviato mentre Elisabeth Shue ed Erin Moriarty brillano in due personaggi femminili antitetici: la spregiudicata PR Madelyn e Starlight, innocente e ingenua super di campagna, chiamata nei Sette dopo un casting nazionale. Scoprirà subito il marciume nascosto dietro la loro sfavillante facciata.


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