Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Promuovere l’artigianato e la creatività in Ticino: l’impegno di Aticrea e l’esperienza di Lugano Bella
Ambiente e Benessere Il professor Andrea Papadia, primario di ginecologia e ostetricia all’Ospedale Regionale di Lugano fa il punto sui progressi nell’oncologia ginecologica
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 3 febbraio 2020
Azione 06 Politica e Economia Donald Trump presenta il suo piano di pace per il Medio Oriente
Cultura e Spettacoli Lo scrittore tedesco Wolfgang Hilbig è stato finalmente tradotto anche in italiano
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AFP
Il virus che ingabbia il dragone
di Federico Rampini pagina 29
Un mondo globale in quarantena di Peter Schiesser Cinquanta milioni di persone chiuse in casa, megalopoli come Wuhan in quarantena, le strade vuote, altrove nel paese milioni di persone che escono solo con una mascherina, e quando si sospetta un caso di infezione da coronavirus ecco infermieri che sembrano astronauti alle prese con un nemico spaziale invisibile. La paura di una pandemia, o comunque di un’epidemia che metta ancora una volta in cattiva luce le autorità, come fu il caso con la SARS nel 20022003, ha spinto il governo centrale di Pechino a imporre misure drastiche e spettacolari – anche se a livello locale la diffusione del virus è ancora una volta dapprima stata taciuta, perciò facilitata. E ciò nonostante in questi giorni cadessero le festività per il Capodanno cinese, le più sentite e occasione del ricongiungimento annuale con la famiglia, o per un viaggio all’estero. L’impatto economico del nCoV-2019 si farà sentire (ne scrive Rampini a pagina 29), anche se attualmente non sappiamo neppure quanto esponenziale sarà ancora la crescita del numero dei casi, considerato che il coronavirus è già arrivato in Occidente. In una fase iniziale di
un’epidemia è facile che alcune certezze vengano smentite in breve tempo e che i pareri degli esperti divergano. Secondo taluni, per un contagio occorre un contatto frequente con una persona infetta a meno di un metro di distanza, secondo altri basta molto meno. Per intanto, mitiga in parte i timori il fatto che fin qui il tasso di mortalità è di 3 decessi ogni 100 pazienti, una via di mezzo fra una classica ondata di influenza e la SARS. Tuttavia, i virus hanno la capacità di mutare geneticamente mentre si replicano, restano quindi un’incognita. La settimana che si apre oggi sarà importante per capire l’estensione e il tenore dell’epidemia, e quanto saranno toccati altri paesi, asiatici e del resto del mondo. Ma da dove spunta questa nuova forma di coronavirus? La tesi più diffusa è che abbia avuto origine in un mercato popolare di Wuhan, dove la promiscuità fra esseri umani e animali crea l’ambiente ideale per una trasmissione di un coronavirus (anche la SARS lo era) da animale a umano. Ma che questo sia avvenuto a Wuhan è in fin dei conti un caso «fortunato», poiché nell’Istituto di virologia di questa città lavorano scienziati che si sono fatti un nome nella ricerca sui virus: è la dottoressa Zheng-Li Shi e i suoi collaboratori che hanno
identificato il nuovo ceppo, ed erano stati loro nel 2005 a provare che il virus della SARS era stato trasmesso da pipistrelli. Non solo: come riferisce David Quammen sul «New York Times», in un documento del 2017 la dottoressa Shi e i suoi hanno attestato di aver identificato un coronavirus identico al 96 per cento a quello odierno in quattro tipi di pipistrelli studiati in una caverna dello Yunnan. Il fatto di aver verificato che il tre per cento delle persone che abitano vicino alla caverna avesse sviluppato degli anticorpi a coronavirus imparentati con la SARS mostra che il passaggio di virus da animale a uomo non è così raro come sembrava in passato. È certo che l’aumentata mobilità dell’era della globalizzazione rende molto più facile e rapido il contagio su scala planetaria, tuttavia per generare un pandemia ci vuole una combinazione di virus molto aggressivi, quindi molto contagiosi, e molto letali. Inoltre, sistemi sanitari più pronti di un tempo a far fronte a simili emergenze lasciano sperare che da questa parte del continente eurasiatico si possa dormire tranquilli. Il problema si pone più grave quando le epidemie scoppiano laddove la risposta giusta, sanitaria e politica, non c’è, così come a lungo è stato con l’Ebola in Africa.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Attualità Migros
In cucina si sta bene
Formazione Corsi per tutti i gusti alla Scuola Club di Migros Ticino
Buone idee per il bene di tutti Concorso Migros lancia la campagna
«Impegniamoci tutti insieme. Per il mondo di domani» e chiama i suoi apprendisti a formulare proposte concrete
Gli apprendisti di Migros Ticino si preparano a elaborare i loro progetti.
È un dato che qualche anno fa ci avrebbe sorpreso. Oggi non più. Nelle categorie dei libri più venduti brillano moltissimi libri di cucina. E lo stesso vale per le trasmissioni televisive. Ce n’è davvero per tutti i gusti. Letteralmente. Dalle cucine dal mondo, a quelle a Km zero. Dalla gastronomia sofisticata, a quella che si impegna a rigenerare gli avanzi. Le ragioni di questo straordinario interesse sono tante. È come se attorno al cibo si siano coagulate molte delle domande tipiche del nostro tempo che proprio in cucina trovano lo spazio per esprimersi e raccontarsi. Anzitutto, la salute. La ricerca di una vita più sana ha portato ad una crescente attenzione a cosa si mette quotidianamente nel piatto. La cura incomincia dagli acquisti, che premiano prodotti di qualità, biologici o certificati, e arriva a un controllo costante dell’equilibrio nutrizionale, con un sapiente dosaggio di proteine, carboidrati e grassi. Un secondo motivo è legato all’affermazione del gusto come diritto. Sdoganato ogni tabù, oggi non abbiamo nessun timore a rivelare il nostro desiderio di assaggiare, assaporare, degustare. Il piacere del cibo si associa anche ad un’idea di riappropriazione della propria esistenza: contro la frenesia della vita contemporanea e l’omologazione dei «non-luoghi» si ricercano tempi più rallentati in posti autentici. Un vero e proprio elogio della lentezza,
Un’esplorazione di altre culture e di altri sapori.
che consente di riscoprire anche la ricchezza di sapori e tradizioni. Un terzo elemento da considerare è l’importanza della dimensione esperienziale ed estetica. Sedere a tavola è come prendere un treno e partire per un affascinante viaggio. Mangiare diventa una meravigliosa avventura. Un’esplorazione. Ecco la ricerca di piatti di altre culture, di combinazioni esotiche, di odori, colori e gusti differenti da quelli di casa, con prodotti e modalità di preparazione che la globalizzazione rende più facilmente accessibili. Infine, c’è una ragione etica, che
I nostri prossimi corsi in partenza Sommelier del cioccolato Locarno – sabato 15 febbraio, dalle 14.00 alle 17.00 – 1 incontro, Fr. 96.–. Degustazione delle birre Bellinzona – da lunedì 2 marzo, dalle 19.00 alle 21.00 – 3 serate, Fr. 192.–. Cucina tailandese Bellinzona – mercoledì 25 marzo, dalle 19.00 alle 22.00 – 1 serata, Fr. 75.–. Panificazione naturale Lugano – da giovedì 26 marzo, dalle 18.30 alle 21.30 – 3 serate, Fr. 225.–.
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Cucina base vegetariana Bellinzona – da mercoledì 22 aprile, dalle 18.30 alle 21.30 – 3 serate, Fr. 225.–. Degustazione di vini Lugano – da martedì 24 marzo, dalle 18.00 alle 20.00 – 4 serate, Fr. 256.–. www.scuola-club.ch Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 77 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60 Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
spinge a valutare le nostre scelte in ragione del criterio della sostenibilità ambientale e sociale. Si valorizzano prossimità, filiere locali, biodiversità. Le motivazioni sono tante ma, si potrebbe dire, tutte portano in cucina. È proprio qui, infatti, che tutte le esigenze si ricompongono e trovano risposta. La cucina diventa così un luogo del cuore: spazio della cura e del piacere, delle relazioni familiari ed amicali, della scoperta di sé e delle proprie capacità, della creatività e della ricerca estetica. Da sempre attenta alla salute e al benessere, al desiderio di espressione e di relazione delle persone, la Scuola Club di Migros Ticino ha fatto sue queste domande attorno al cibo, e le ha trasformate in tante opportunità di incontro e scambio, apprendimento e sperimentazione, divertimento e cultura. Grazie alle sue cucine ben attrezzate e all’accompagnamento di cuochi qualificati, portatori di visioni originali sul mondo e sul cibo – dalla scuola vegetariana della Joia Academy alla cucina sostenibile, dalla gastronomia esotica al finger food –, alla Scuola Club è possibile avvicinarsi, conoscere, preparare, assaporare, condividere con nuovi amici la gioia di creare ogni volta un piatto nuovo. Per riscoprire, in buona compagnia, che in cucina si sta proprio bene. Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
Da sempre Migros sollecita nei suoi dipendenti e nei suoi clienti uno spirito collaborativo volontario. Quale cooperativa, intende essere una comunità che persegue l’obiettivo di una vita migliore, sana ed equilibrata per la società intera. A conferma di questo interesse esistono il Percento culturale, il fondo Engagement Migros e il fondo di Sviluppo Migros, organismi che si impegnano a sostenere attività e progetti a sfondo sociale. Con la nuova iniziativa «Impegniamoci tutti insieme. Per il mondo di domani» Migros si propone ora di coinvolgere nel suo progetto legato alla coesione sociale un gruppo di lavoro molto particolare: quello degli apprendisti. Impiegati in diversi settori di formazione professionale, gli apprendisti sono le future leve aziendali e sono anche coloro che possono indicare nuovi percorsi. Obiettivo centrale del progetto è permettere all’azienda di rinnovarsi dall’interno: valorizzando il punto di vista dei giovani, Migros si impegna a sollecitare nuove idee. Per rinnovarsi prende spunto dalla creatività dei collaboratori più giovani, quelli che sono più a contatto con le nuove tendenze e che possono dare un contributo a rendere l’azienda sempre più in grado di soddisfare aspettative e bisogni dei clienti del futuro. Quale primo progetto rivolto a questo specifico gruppo dei suoi collaboratori, Migros mette in palio un premio di 1000 franchi per chi proporrà il progetto più interessante, volto a
rafforzare la coesione sociale. Nello specifico, Migros Ticino, ha già agito in anticipo: già nel corso del mese di dicembre i giovani sono stati informati dell’evento e sensibilizzati sull’importanza di partecipare attivamente al concorso. I circa 40 apprendisti attivi presso la nostra cooperativa sono stati poi divisi in gruppi di 3-4 (in base alle sedi di lavoro e/o scolastiche) e, nell’ambito delle giornate formative presso la centrale di S. Antonino (o durante le attività quotidiane per gli apprendisti di commercio), invitati e supportati dai responsabili della formazione alla ricerca di proposte «vincenti», nate magari dal coinvolgimento nella fase di ideazione dei propri amici e parenti. La domanda di fondo è: «Come può Migros contribuire a favorire la coesione sociale?». Si tratta quindi di inventare attività e situazioni in cui stimolare la creazione di gruppi di interesse e suscitare un’interazione positiva tra le persone. Dal torneo sportivo di quartiere alla passeggiata ecologica, dalla gara di talenti musicali al corso di cucina vegetariana, dalla biciclettata di gruppo al corso di golf popolare, ogni pretesto può essere buono per creare un momento di scambio relazionale e di vita in comune. Tutte le informazioni concrete sulle modalità di partecipazione al concorso sono pubblicate su «migipedia. migros.ch/it/impegno». Il concorso si concluderà con una gran finale live, che si terrà a Zurigo il 10 giugno 2020.
Come funziona Gli apprendisti hanno tempo fino alle 23.59 del 28 febbraio 2020 per presentare, in squadre formate da 3 o al massimo 4 compagni, idee per progetti, azioni o eventi volti a rafforzare la coesione sociale. Le loro proposte possono essere caricate sulla piattaforma delle idee «migipedia.migros. ch/it/impegno» sotto forma di breve video o di testo. Chi è in cerca di ispirazione può trovare stimoli ed esemTiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
pi nelle pagine web che riguardano le attività attualmente sostenute da Migros tramite Percento culturale Migros (www.percento-culturalemigros.ch), Fondo di sostegno Engagement Migros (www.engagementmigros.ch/it), Fondo di sviluppo Migros (generation-m.migros.ch/it/ migros-sostenibile/retroscena/societa/fondo-di-sviluppo-migros-e-progetti.html). Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Società e Territorio Soccorso operaio svizzero Disoccupazione, migrazione e integrazione: l’attività di SOS Ticino al fianco delle persone in difficoltà
Nati per credere Le ricerche del professor Ara Norenzayan sui meccanismi evolutivi delle religioni e sul loro ruolo nel trasformare la nostra vita sociale pagina 9
La «Sonnenstube» piace ancora Svizzero-tedeschi e germanici continuano a trasferirsi stabilmente in Ticino. Ne abbiamo parlato con Marianne Baltisberger, caporedattrice della «Tessiner Zeitung» pagina 11
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L’artigiano oggi
Mestieri d’arte L’impegno di Aticrea,
Associazione ticinese artigiani e artisti, a favore della promozione e della formazione. L’esperienza del collettivo Lugano Bella
Valentina Grignoli Lavorare la materia con le proprie mani, creare oggetti originali, artistici, utili, belli. Entrare in contatto con saperi antichi continuando a essere innovativi. Chi sono oggi gli artigiani, come lavorano e cosa producono? Abbiamo cercato di scoprirlo insieme a Claudio Gianettoni, Vicepresidente dell’Associazione ticinese artigiani e artisti Aticrea, e l’esperienza di un collettivo luganese, Lugano Bella. Ciò che salta all’occhio è che il lavoro dell’artigiano ha subito un profondo mutamento: dal produrre manufatti di stretta necessità si è passati all’oggettistica di nicchia. Cambiano i tempi, il prezzo e il pubblico, e per sopravvivere nel presente l’artigianato deve rimanere al passo, essere attrattivo senza svendersi, mostrare quali sono le sue imprescindibili qualità rispetto alla produzione seriale. Basterà produrre cose belle? Forse sì, ma vanno valorizzate la formazione, l’esperienza, la conoscenza, l’unicità delle proprie creazioni, e soprattutto bisogna imparare nuovi modi di comunicare e concepire il lavoro manuale, creando rete. In Ticino l’associazione Aticrea, sta cercando di portare l’attenzione del mondo dell’artigianato verso questi ambiti: la promozione, con le Giornate europee dei mestieri d’arte, e la formazione, con il Progetto Comedia. Claudio Gianettoni ci racconta che: «Aticrea è nata nel 2018, sulla base di un’altra associazione esistente, per dare un taglio diverso al settore: non parlare solo di artigianato in generale, perché questo riconduce a zoccolette, gerle e boccalini, ma valorizzare la creatività. E così quelli che consideriamo artigiani aumentano: un tecnico luci, un regista, sono tutti dei creativi. Fare l’artigiano oggi non significa più stare dietro al bancone ma avere un mondo di potenziali clienti. Per questo oggi più che mai servono le nuove tecnologie». Insomma, le idee e i concetti ci sono, ma concretamente, cosa fa Aticrea? «Ci concentriamo sulla progettualità, sosteniamo i nostri associati nell’elaborare il loro progetto. L’associazione diventa così un erogatore di servizi di interesse comune, comprimendo i costi, capitalizzando le competenze, le relazioni, le conoscenze. Si tratta di avere
un’ottica più funzionale. Oggi come oggi il valore di un artigiano dipende in gran parte dalla capacità di presentazione. Bisogna creare l’aspettativa, comunicare quello che si esprime con il prodotto e capire come mediare la creatività del cliente con le proprie competenze. Non basta più la tecnica». Quindi l’artigiano non è più l’artista nella sua bottega che crea oggettistica tradizionale o artistica? «No, non voglio negare questo aspetto. Andare a riscoprire le radici, farne un’interpretazione, e riproporre l’oggetto con una nuova visione mantenendo lo spirito, la storia, la conoscenza dei materiali. Questa energia, oltre a esperienza e competenze, è quello che differenzia l’artigianato dal prodotto industriale. Oggi però ci vuole anche più autostima». Per questo motivo Aticrea ha portato due anni fa in Ticino il format europeo delle Giornate dei mestieri d’arte, una vetrina dell’artigianato aperta a tutti, dove negli stessi giorni, contemporaneamente in tutta Europa, è possibile visitare laboratori e mostre per conoscere i mestieri. La scorsa edizione sono stati più di 2000 i visitatori all’ex Macello di Lugano e negli atelier degli artisti. «Dal 3 al 5 aprile 2020 – continua Gianettoni – faremo scoprire il dietro le quinte delle attività artigianali che operano per tre settori fondamentali nella nostra regione: il carnevale, il cinema, il teatro e i media. Si potrà assistere a laboratori e esposizioni alla RSI di Besso per il multimedia, alla Città dei Mestieri a Bellinzona per il carnevale e al Palacinema di Locarno per il cinema». Un programma denso (disponibile a breve su www.metiersdart.ch) che non si esaurisce nei tre giorni di aprile, ma che a novembre è stato anticipato da eventi come incontri e conferenze sul carnevale e che prevederà anche un dietro le quinte del LAC con Daniele Finzi Pasca, e che soprattutto vuole sottolineare anche il legame con la neonata Città dei mestieri di Bellinzona. Parlando di giovani, ci sono scuole che preparano gli studenti al mondo dell’artigianato, come il Centro scolastico per le industrie artistiche di Lugano. «Abbiamo deciso di collaborare con loro – spiega Gianettoni – per creare il Progetto Comedia, che mira a colmare le lacune legate alla comuni-
Aticrea sostiene e promuove reti di collaborazioni tra chi è attivo nel settore dell’artigianato. (Vanni Pesciallo Gioielli)
cazione. Il corso che proponiamo inizierà nel mese di marzo, e sarà aperto a studenti e artigiani, con docenti Csia e nostri». In effetti da un’indagine effettuata da Aticrea, è risultato che su 1600 artigiani, meno della metà possiede un indirizzo internet, e meno di 100 un proprio sito. Tra gli obiettivi del corso: più informatica (web, social media) e maggiori conoscenze degli strumenti idonei alla promozione e commercializzazione, anche attraverso partner specializzati. «Il nostro obiettivo finale è poi creare un magazine digitale». In Ticino oggi però c’è anche chi sa già come promuovere il lavoro artigianale locale e di qualità, con un discreto successo. Forse è un nuovo modo di concepire le professioni di un tempo, forse una nuova tendenza. Stiamo parlando del giovane colletti-
vo Lugano Bella, formatosi un anno fa e gestito da Veronica e Valeria Panizza e Damiano Merzari. Due gli appuntamenti finora che li hanno visti protagonisti, un contanier sul lungolago l’estate scorsa e uno spazio vendita pop-up prima di Natale: in entrambi i casi una vetrina singolare su prodotti locali. Boccalini rivisitati, asciugapiatti design coi pesci di lago, il rosso e il blu, tanta Lugano. «Si tratta di una piattaforma per la produzione e la promozione di cose belle, che hanno come riferimento comune il Ticino. Ma anche un punto d’incontro, uno spazio dove chiacchierare e conoscersi – ci raccontano i tre – Lugano Bella è nata per dare visibilità e facile accesso a cose pensate, realizzate con buoni materiali, per la qualità di tutti i giorni». I tre vengono da professioni e vite diverse,
chi artigiano, chi no: «collaboriamo con artisti cui ammiriamo abilità e operato. Ci piace chi lavora bene, senza pensare solo a quello che sarebbe più strategico fare». A loro, che ce ne sembrano portatori, chiediamo se è corretto oggi parlare di un artigianato di ritorno: «Le nostre produzioni sono sicuramente influenzate dal passato e dalla tradizione artigianale ticinese, per noi è stato quasi istintivo. In questo momento storico si è tornati a prestare attenzione ai propri acquisti e a prediligere un determinato tipo di produzioni, di riflesso l’artigianato ne beneficia. È la dimostrazione che vi è un’altro modo di fare le cose, più lento, più dolce, più curato e alla fine più bello. E gli oggetti così vengono trattati meglio, tramandati, diventando quasi dei tesori».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
La polenta nostrana è servita Attualità Le due polente pronte dei Nostrani del Ticino arricchiscono la nostra tavola
invernale di tradizione e sapori locali
Accompagnata con del brasato, dello spezzatino, ma anche con del formaggio erborinato come il gorgonzola, oppure semplicemente con del latte, la polenta è uno dei piatti tipici del nostro territorio a cui è impossibile resistere. Prelibatezza che, soprattutto durante la stagione più fredda, riscalda lo stomaco e stuzzica il palato. Non volete rinunciare ad un buon piatto di polenta anche se avete poco tempo per cucinare o, semplicemente, manca la voglia di spadellare? Allora provate la nostra polenta nostrana pronta da cuocere in pochi minuti. Nei reparti refrigerati dei maggiori supermercati Migros trovate la variante classica e Taragna. Entrambe sono prodotte secondo tradizione, con l’impiego di materie prime al 100% ticinesi. A cominciare dalle farine utilizzate, che provengono da mais e grano saraceno coltivati sul Piano di Magadino. La polenta nella variante classica è preparata solo con granoturco e burro ed è esente da latte. La Taragna è la versione più corposa: oltre alla farina di mais, contiene infatti anche farina di grano saraceno, che le conferisce il caratteristico gusto e colore beige. Inoltre durante la cottura viene aggiunto dell’aromatico formaggio Canaria, prodotto in Alta Leventina con latte di montagna. Piccola curiosità: il nome della ricetta deriva dal termine dialettale «Tarél», che designa il lungo bastone di legno utilizzato per mescolare la polenta nel paiolo di rame. La polenta Taragna contiene anche del burro e del latte intero.
La preparazione dei prodotti è assai semplice e veloce: si possono riscaldare nel forno tradizionale, nel microonde, oppure in padella. La variante classica, tagliata a fettine, è ideale anche per essere grigliata o per preparare altre ricette a base di polenta.
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Polenta 300 g Fr. 2.45* invece di 2.90
Per piatti veloci e sfiziosi
Attualità Le sottili fettine di tacchino «Le Gaulois» sono l’ingrediente perfetto per la cucina di tutti i giorni
Azione 25% Fettine di tacchino al naturale Le Gaulois «La Belle Escalope» Francia, imballate per 100 g Fr. 2.75 invece di 3.70 dal 4 al 10.2
Leggera, saporita, versatile e particolarmente conveniente: la carne di tacchino, così come quella di pollo, oltre a contenere preziose sostanze nutritive utili al nostro organismo, si presta bene per la realizzazione di moltissime appetitose ricette che mettono d’accordo sia grandi che piccini. Come per le altre carni, Migros pone una particolare attenzione alla provenienza dei tacchini, affinché i consumatori possano essere certi di acquistare un prodotto di qualità, sicuro ed ottenuto nel rispetto delle condizioni di allevamento degli animali. Per soddisfare la forte domanda di questo tipo di pollame, Migros importa dalla Francia parte della sua carne fresca di tacchino. Quest’ultima proviene esclusivamente da allevamen-
ti conformi alla legislazione svizzera in materia di protezione degli animali, normative considerate tra le più restrittive al mondo. Negli allevamenti francesi che producono per la Migros gli animali dispongono di più spazio rispetto agli standard europei ed hanno accesso ad un’area a clima esterno, detta «giardino d’inverno», quando lo desiderano. La loro alimentazione è composta da cereali prodotti dall’azienda stessa, o comunque provenienti dai dintorni dell’allevamento. La carne di tacchino è venduta sotto la marca «Le Gaulois», ed è disponibile in forma di fettine al naturale e fettine impanate alla milanese. Scegliendo il marchio «Le Gaulois», potrete gustare carne di tacchino con la coscienza tranquilla.
Fettine di tacchino al burro vanigliato
Ingredienti per 2 persone 250 g di fettine di tacchino «La Belle Escalope» 50 g di burro ½ limetta, scorza e succo 1 baccello di vaniglia Sale, pepe 100 g di riso
Preparazione • Tagliare il baccello di vaniglia in due ed estrarre i semi • Far fondere il burro a fuoco dolce • Rimuovere il siero di latte formatosi sotto il burro. Mescolare il succo di limetta, la scorza finemente grattugiata e il baccello di vaniglia dimezzato • Salare, pepare le fettine di tacchino e spennellarle con il burro vanigliato alla limetta • Riscaldare un tegame senza materia grassa e rosolare le fettine di tacchino 2-3 minuti per ogni lato • Cucinare il riso come indicato sulla confezione, scolare e servire accompagnato dal burro vanigliato rimasto.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Idee e acquisti per la settimana
Pattumiera per rifiuti organici Bokashi Organko
Novità Un efficiente e sostenibile sistema di compostaggio per la cucina, ideale per tutte le economie domestiche
Con Bokashi Organko potrete ridurre in modo significativo i vostri rifiuti domestici. Questo innovativo sistema di compostaggio permette di tenere i rifiuti organici nella propria cucina, a temperatura ambiente, e questo senza odori sgradevoli e senza dover utilizzare sacchetti o svuotare giornalmente la pattumiera. Il contenitore può essere installato dove meglio si desidera, per esempio sotto il lavello, in un armadio o in un ripostiglio della casa. Il funzionamento è semplice: si inseriscono i rifiuti organici nella pattumiera, si aggiunge la speciale polvere Terra Preta Bokashi e si chiude ermeticamente con il coperchio in dotazione: a questo punto inizia il processo di fermentazione. I microorganismi naturali attivi della polvere impediscono che si formino cattivi odori e che i rifiuti marciscano. Ogni 3-5 giorni il liquido di fermentazione deve essere scolato. Quando la pattumiera è piena, il contenuto può essere svuotato in un contenitore per rifiuti organici, sotterrato oppure aggiunto al
mucchio di composto in giardino. Al termine del processo di fermentazione i rifiuti organici fermentati mantengono le sostanze nutritive essenziali (in particolare azoto), e sono la base ideale per un composto di qualità. Nella pattumiera Bokashi Organko si possono gettare quasi tutti i rifiuti organici domestici. Per un processo di fermentazione più efficiente, si consiglia di tagliare i rifiuti in piccoli pezzi. Il set di due pattumiere completo di accessori fa sì che il processo di fermentazioni arrivi a totale compimento in uno dei due contenitori. Il set contiene anche un manuale d’uso dettagliato con
tutte le indicazioni per ottenere il massimo da proprio sistema di compostaggio Bokashi Organko. Set di compostaggio Bokashi Organko 2 pattumiere, 1 polvere per rifiuti organici Terra Preta Bokashi (1,5 kg), set di accessori (1 livella, 2 setacci, 1 dosatore, 1 misurino, 1 manuale d’uso) Fr. 129.– Terra Preta Bokashi polvere per rifiuti organici 1,5 kg Fr. 14.95 In vendita da Do it + Garden Migros Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Per il lavoro e l’integrazione
Socialità Cambio al vertice di SOS Ticino, Soccorso operaio svizzero. La direttrice Chiara Orelli Vassere lascia
dopo dieci anni. L’associazione continua a essere al servizio delle persone in difficoltà
L’atelier Ri-cicletta, programma occupazionale di SOS Ticino, è il fornitore delle bici pardate del Festival del Film. (Ti-Press)
Fabio Dozio Un giovane afgano di 23 anni, residente in Ticino dal 2014, potrà rimanere nel nostro paese grazie al SOS Ticino, Soccorso operaio svizzero, che si occupa, tra l’altro, della protezione giuridica dei rifugiati e dei richiedenti asilo. È una notizia significativa, perché Berna è stata sconfessata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, grazie a un ricorso inoltrato dal giurista del SOS. Il giovane, di etnia hazara, si è convertito al cristianesimo e con ciò ritiene di essere in pericolo in Afghanistan. Strasburgo ha condiviso questi timori a differenza delle autorità svizzere. Un esempio che dimostra il rilievo dell’assistenza giuridica per rifugiati o richiedenti asilo che arrivano nel nostro Paese.
Soccorso operaio svizzero nacque negli anni 30 per sostenere le famiglie operaie bisognose, oggi si occupa soprattutto di disoccupazione e migrazione Che cos’è e cosa fa SOS Ticino? Lavoro e integrazione, due parole che rappresentano le linee guida dell’associazione. Il campo di attività è ampio e molto sensibile: dall’inserimento professionale dei disoccupati al settore migrazione; infine l’impresa sociale Sostare che gestisce il ristorante Casa del Popolo a Bellinzona. La missione principale del SOS è chiara: «un’organizzazione umanitaria che si impegna nella promozione della giustizia sociale, politica ed economica e sostiene l’autodeterminazione e il rispetto dei diritti umani, operando nei contesti di emarginazione e povertà».
La storia dell’associazione affonda le radici nel secolo scorso. Venne infatti fondato nel 1936 dall’Unione sindacale svizzera e dal Partito socialista dopo la crisi economica per sostenere le famiglie operaie bisognose. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale il SOS cominciò a occuparsi di rifugiati. Altro importante capitolo riguarda la disoccupazione in Svizzera, un fenomeno che dagli anni Novanta ha assunto proporzioni significative. In questo ambito, il Soccorso operaio svizzero ha svolto un ruolo pionieristico, organizzando programmi occupazionali e promuovendo il reinserimento professionale. La sezione ticinese è nata a metà degli anni Ottanta e attualmente a livello nazionale il SOS conta circa 600 collaboratori, distribuiti in dieci associazioni regionali. Il settore migrazione si occupa da anni di sostenere i richiedenti asilo che arrivano nel nostro cantone. «I progressivi inasprimenti della legislazione svizzera sull’asilo, – si legge sull’opuscolo che presenta l’associazione – sempre più sfavorevoli ai migranti, rischiano di esporre molte persone a situazioni di precarietà e di abbandono». Sostegno giuridico e accompagnamento verso l’integrazione sono i due aspetti fondamentali dell’intervento a favore degli stranieri che cercano asilo in Svizzera. Con l’entrata in vigore della rinnovata legge sull’asilo nel marzo dello scorso anno, SOS Ticino si è aggiudicato, assieme a Caritas svizzera, il mandato federale per la consulenza e la rappresentanza legale nei nuovi Centri federali d’asilo in Ticino e Svizzera centrale. «La ristrutturazione nell’ambito dell’asilo, – ci dice la direttrice Chiara Orelli Vassere – prevede un elemento centrale, insieme alla velocizzazione delle procedure e alla riunione di tutti gli attori coinvolti nella procedura in un medesimo spazio di attività: una consulenza e rappresentanza legale
Chiara Orelli Vassere.
indipendente per ogni richiedente asilo, fin dai momenti immediatamente iniziali della procedura legata alla sua domanda. Si tratta di una novità molto importante e decisamente positiva per il richiedente, che può sapere a cosa va incontro e avere in ogni momento consigli e supporto a tutela sua e dei suoi diritti. Certo, vi sono ancora diversi elementi problematici, ad esempio l’insufficiente attenzione alle vulnerabilità mediche, ma la valutazione è a mio giudizio complessivamente positiva. È tuttavia utile mantenere alta l’attenzione e la vigilanza, che devono essere però ancorate a dati reali e non meramente ideologici, affinché questa protezione possa essere costantemente monitorata e dove necessario migliorata». Il settore disoccupazione organizza programmi occupazionali e formazioni con l’accompagnamento nella ricerca dell’impiego, per garantire il reinserimento sociale di persone a forte rischio di esclusione. Questi compiti sono esercitati collaborando con il cantone, i comuni, gli uffici regionali di collocamento e le aziende della regione. Attualmente i programmi occupazionali offerti da SOS Ticino sono
tre. Ri-cicletta, l’atelier che aggiusta e rinnova le biciclette. Ri-Sostegno, offre un aiuto nella ricerca del lavoro e occupa gli utenti in attività pratiche quotidiane, come sgombero mobili e rivendita degli oggetti. E Ri-Taglio, un atelier indirizzato soprattutto alle donne, che organizza lavori di cucito, piccole riparazioni, nuove creazioni e anche lavanderia e stireria. Piccoli lavori che permettono all’utente di riprendere confidenza con un impegno di tipo professionale, mentre si cerca di ottenere un reinserimento nel mercato del lavoro. L’impresa sociale è l’ultimo settore creato dal SOS Ticino. Si tratta della gestione del Ristorante Casa del Popolo a Bellinzona, un’istituzione secolare, che permette di integrare socialmente persone svantaggiate offrendo loro un impiego. Si coinvolgono utenti a beneficio di prestazioni assistenziali concesse per svolgere attività di utilità pubblica. Vi sono anche migranti che hanno ottenuto lo statuto di rifugiato ma che hanno difficoltà a inserirsi nel contesto lavorativo locale. L’obiettivo dell’impresa è l’integrazione sociale dei partecipanti, grazie alla possibilità di riavvicinarsi, anche se solo per un periodo definito, al mondo del lavoro. Come sono i rapporti tra l’associazione e le autorità? «Sono buoni. – spiega Chiara Orelli Vassere – SOS Ticino ha ormai acquisito autorevolezza, ed è riconosciuto come punto di riferimento nella Svizzera italiana per i temi della migrazione, della disoccupazione, dell’inserimento sociale. Più in generale, credo che non vi sia una vera e propria politica globale di riequilibrio degli squilibri alla base dei fenomeni migratori». Chiara Orelli Vassere ha diretto SOS Ticino per dieci anni e si appresta a lasciare l’incarico per occuparsi del delicato tema della violenza domestica in seno al Dipartimento cantonale delle Istituzioni. «Ho avuto dieci anni
di grande fatica e impegno, – confida – ma anche di grandissime opportunità di apprendimento e di crescita. Il confronto con le situazioni difficili e dolorose portate dai nostri utenti, vissute con dignità e forza, e insieme l’abnegazione dei colleghi che sostengono queste persone, sono stati il dono principale che mi ha fatto il SOS. Io penso di avere portato al SOS l’impegno a rafforzare e consolidare la struttura, che pativa qualche negligenza precedente, e a recuperare una dimensione progettuale e attiva che era stata fortemente ridimensionata. Tutta la nostra attività nei vari campi ha contribuito ad arricchire il nostro territorio con i valori della solidarietà, dell’impegno sociale, dell’inclusione. Una strategia anticiclica vincente, e che spero possa ulteriormente consolidarsi». Occuparsi di rifugiati in un Paese e in un periodo in cui non mancano di soffiare venti sovranisti e «primanostristi» non è sempre facile. Il presidente di SOS Ticino Edy Meli, avvocato, ex procuratore pubblico ed ex giudice, ha sottolineato la sua preoccupazione perché in Svizzera il numero dei rinvii di richiedenti asilo prevale nettamente sulla media europea: 56,8% contro il 36,6. «Credo che il nostro Paese non possa più essere considerato terra di asilo, – ci dice a malincuore Meli – ammesso che lo sia stato in passato. Lo testimoniano le sempre crescenti restrizioni introdotte negli ultimi 30 anni circa nella legislazione relativa: Legge sull’asilo e Legge sugli stranieri in particolare, ma penso anche agli accordi di Dublino. L’ultimo flusso di un certo rilievo che mi sembra potesse ancora testimoniare uno spirito di accoglienza è quello che ha riguardato gli esuli cileni degli anni 70. L’approccio è cambiato: dal problema dell’asilo che veniva declinato come necessità di accoglienza si è passati al problema dei flussi migratori, dove si cerca di regolamentare e filtrare il più possibile».
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Società e Territorio
L’invenzione sociale dei Grandi Dei Religione Per far cooperare con fiducia la moltitudine di persone anonime di società
sempre più grandi inventammo gli Dei che ci osservano Lorenzo De Carli Non c’è popolazione attuale né mai ce ne fu in passato che non abbia una qualche forma di sentimento religioso. Come il linguaggio, anche la religione è un universale cognitivo della nostra specie e, in quanto tale, ha un’evoluzione. Siamo cognitivamente «nati per credere» perché il meccanismo della selezione naturale ha premiato l’attitudine a pensare in termini di obiettivi e di intenzioni, un adattamento biologico importantissimo per un animale sociale come l’uomo. Per ciascuno di noi è normale immaginare che dietro ad ogni fenomeno naturale ci sia una causa intenzionale, uno scopo, forse anche un disegno perché quest’attitudine offre il vantaggio di anticipare mentalmente la presenza di agenti che potrebbero essere prede o predatori. Effetto collaterale di questa caratteristica della nostra mente fu l’inclinazione ad ipotizzare la presenza di agenti intangibili, in certi casi anche dotati di una intenzionalità capace d’influire sulle vicende umane. Professore di psicologia all’Università della British Columbia a Vancouver, negli ultimi dieci anni Ara Norenzayan e il suo gruppo di ricercatori hanno condotto numerose indagini volte non solo a studiare i meccanismi evolutivi delle religioni ma, in particolare, il ruolo che esse hanno avuto nel trasformare la nostra vita sociale. Il risultato di queste ricerche è stato pubblicato in un volume intitolato
Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo. Dalle ricerche di Norenzayan emerge che, perché a qualunque livello di complessità (dalle divinità marine o ai grandi dei delle fedi monoteiste) possa attecchire la fede religiosa, occorrono quattro condizioni: «1) formare rappresentazioni mentali intuitive degli agenti soprannaturali; 2) considerare volontariamente gli agenti soprannaturali come fonte reale e rilevante di significato, di consolazione e di controllo; 3) essere stati esposti culturalmente, in precedenza, all’idea che esistano particolari divinità e aver dedotto che, tra tutti gli agenti soprannaturali rappresentabili mentalmente, soltanto queste specifiche divinità meritino di essere credute reali e importanti; 4) mantenere questo impegno senza compiere ulteriori processi cognitivi che potrebbero mettere in crisi le credenze intuitive». In pratica: nati per credere, sviluppando già da bambini quella teoria della mente che ci permette di attribuire intenzionalità anche agli altri e non solo a noi, quello che poi ci serve per sviluppare un sentimento religioso è solo un’esposizione culturale ad una narrazione condivisa e convincente, sospendendo l’esercizio del dubbio. Secondo Norenzayan questo meccanismo basilare di ogni credenza religiosa non spiega perché, partiti da una molteplicità di dei, si sia poi arrivati ad avere poche religioni monoteiste. Norenzayan ha trovato la spiegazione nel-
L’occhio di Horus, simbolo che arriva dall’antico Egitto. (Wikipedia)
la necessità sociale di avere strumenti di controllo adeguati a società caratterizzate dall’aumento del numero di persone anonime. Secondo l’ipotesi di Norenzayan, le piccole società di cacciatori-raccoglitori avevano dei meccanismi di controllo sociali basati sulla conoscenza reciproca. Gruppi sociali più grandi dovettero però trovare meccanismi diversi. Norenzayan condivide la convinzione dell’antropologo britannico Robin Dunbar, il quale sostiene che c’è limite cognitivo alla nostra capacità di mantenere relazioni sociali stabili, un limite invalicabile perché correlato alle dimensioni della nostra neocorteccia. L’evoluzione culturale ha proceduto anch’essa per tentativi ed errori, prima di selezionare in entità soprannaturali figure adatte per sorvegliare, questa volta dall’alto, i soggetti ormai
anonimi che andavano incrementando il numero delle persone che, attorno al diecimila prima di Cristo, cominciarono a vivere assieme nelle prime cittàStato lungo i fiumi della Mesopotamia. La domesticazione delle piante e degli animali è pressoché coeva alla creazione di grandi insediamenti urbani, e in un certo senso le religioni basate sul rispetto di divinità poste di là dei confini umani furono una sorta di auto-addomesticamento del nostro genere attraverso una selezione culturale di gruppo che favorì le società più grandi. La ricostruzione di Norenzayan mette in evidenza che il sentimento religioso, di per sé, non ha nessuna valenza morale: come ancora oggi per i gruppi di cacciatori-raccoglitori sopravvissuti, i piccoli gruppi sociali che caratterizzarono la maggior parte della nostra esi-
stenza non avevano divinità che prestavano attenzione alle azioni umane o che definivano precetti morali. I tratti moralizzanti dei Grandi Dei furono selezionati dall’evoluzione culturale solo in seguito, dichiara Norenzayan, quando le assai più grandi società costituite di individui anonimi avevano la necessità di figure intangibili capaci di fornire regole di condotta sociali. Il sentimento religioso ci appare naturale perché abbiamo l’inclinazione a credere nel dualismo mente-corpo, abbiamo cioè l’impressione di essere, sì, in un corpo ma anche di essere qualcosa che lo supera. È quindi un passo breve pensare di avere qualcosa come un’«anima» che, finita la vita, possa sopravvivere altrove. Atei, per contro, si diventa – osserva Norenzayan, sviluppando un’attitudine critica nei confronti della funzione sociale dei culti religiosi. Secondo le ricerche condotte da Norenzayan, i fedeli delle grandi religioni odierne hanno maggior fiducia nei credenti di altre fedi, che non negli atei. Tuttavia, osserva ancora Norenzayan, ci sono società, come quelle scandinave, che additano la possibilità di creare società cooperative di non credenti. Queste società non più sorvegliate dall’occhio dei Grandi Dei si consolidano quando lo stato di diritto mostra di funzionare, sono quei casi in cui le istituzioni laiche hanno determinato un declino della religiosità, usurpando la capacità della religione di incentivare la costruzione di comunità. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Scegliere di vivere in Ticino
Non solo Sonnenstube Svizzero-tedeschi e germanici continuano a stabilirsi stabilmente a sud delle Alpi.
Ecco l’identikit dei «teutonici» che faticano a parlare in italiano ma amano il dialetto ticinese
Mauro Giacometti Età media intorno ai 60 anni, una buona sostanza, rendita o pensione che permette di vivere agiatamente nella «Sonnenstube» svizzera; figli grandi, autonomi, con nipoti da ospitare saltuariamente nell’appartamento di vacanza acquistato ad Ascona o in Collina d’oro a Lugano. Nel migliore dei casi, villa con piscina a sud delle Alpi per l’agiato «buen retiro». Questo l’identikit degli svizzerotedeschi e germanofoni che scelgono il Ticino e in particolare il Locarnese e le sue valli, Gambarogno compreso, come residenza più o meno permanente. Lo traccia Marianne Baltisberger, caporedattrice della «Tessiner Zeitung», unico settimanale in lingua tedesca diffuso in Ticino e che può contare stabilmente su circa 6000 abbonati che lo leggono da cima a fondo per avere un’infarinatura, nell’idioma di Goethe, su ciò che succede nella loro terra d’adozione. Lei stessa, vent’anni fa, si fece conquistare da laghi e montagne e si trasferì stabilmente dal Canton Argovia nella regione del Verbano. «Ci sono due tipi di residenti confederati o tedeschi: quelli che scelgono il Ticino per godersi la pensione, potendo usufruire di un clima decisamente più confortevole di Zurigo o Monaco e chi, invece, investe i propri risparmi nell’acquisto di una residenza secondaria e ci passa svariati mesi l’anno, concedendone l’uso anche a parenti ed amici. In entrambi i casi la scelta è dettata da fattori ormai consolidati: oltre alle temperatu-
re generalmente miti e agli orizzonti naturistici ci sono la sicurezza, la qualità di vita e dei servizi pubblici e l’affidabilità delle cure sanitarie», sottolinea. Tutti elementi decisivi soprattutto per chi si appresta ad affrontare la terza età, ma che hanno un certo atout anche per supermanager o capitani d’azienda confederati e germanici che, magari dopo aver trascorso qualche giorno nella «Sonnenstube», la scelgono come base permanente per le rispettive famiglie. E oltre che per godere del clima e del buon cibo, anche per lanciarsi in qualche business, com’è il caso di Stefan Breuer, imprenditore che, proveniente dalla Germania, s’è insediato ad Ascona con la propria famiglia e in pochi anni ha monopolizzato la ristorazione del Borgo con il marchio Seven. Non solo villeggiatura, dunque, anche se, a onor del vero, il mercato immobiliare direbbe il contrario, facendo registrare negli ultimi anni un certo calo di appeal da parte degli acquirenti germanofoni. «I tedeschi da qualche anno sono spariti – conferma Renza De Dea, promotrice immobiliare specializzatasi in appartamenti e residenze di standing superiore, con immancabile vista lago –. L’economia della “locomotiva d’Europa” ha rallentato, di conseguenza i tedeschi danno priorità ad altri investimenti che non all’acquisto di una casa di vacanza in Ticino. C’è poi un altro fattore negativo da considerare: la riuscita del referendum che ha fissato la soglia massima del 20% da destinare alle residenze secondarie. In alcuni Comu-
Ascona e la regione del Verbano sono ancora le zone più amate dai tedeschi che si trasferiscono in Ticino. (Ti-Press)
ni il limite è già stato superato, quindi la disponibilità di appartamenti e case di vacanza si è azzerata. Proprio per questo ultimamente ci si concentra sulle ristrutturazioni, anziché sulle nuove costruzioni. E in questo segmento sono gli svizzero-tedeschi ad essere protagonisti di questa nicchia di mercato», sottolinea De Dea. D’altra parte le statistiche sugli abitanti parlano chiare: in diversi Comuni del Locarnese, Ascona in testa, i confederati residenti o domiciliati sfiorano
Porte aperte ma non proprio spalancate Tappeti rossi e porte aperte ai facoltosi acquirenti immobiliari confederati o tedeschi, ma non del tutto spalancate. È il caso del Park Hotel Delta Resort di Locarno, sui terreni alla Maggia, al centro di una diatriba legale, che approderà al Tribunale federale, che vede da una parte i proprietari di una dozzina di appartamenti, perlopiù germanici, dall’altra il Municipio cittadino. I primi hanno chiesto la residenza, considerando che occupano
stabilmente gli appartamenti di pregio; Palazzo Marcacci invece sostiene che nella zona dove è stato costruito il complesso, inaugurato cinque anni fa, sono previsti solo impianti e strutture per attività turistiche di tipo alberghiero, ma non la residenza primaria o secondaria. Altro discorso, ma sempre inerente ad un futuro insediamento turistico-residenziale sul Monte Bré, la collina dei locarnesi. Qui alcuni promotori confederati intendono co-
struire un maxi resort con Spa e diversi appartamenti su una superficie di circa 30’000 mq. in piccola parte attualmente edificata. Il Piano regolatore di Locarno lo permetterebbe, ma il Municipio, anche di fronte ad una sollevazione popolare, ha deciso di soprassedere in attesa di una revisione del PR che ridefinisca gli indici di costruzione in collina, certamente uno dei luoghi più ameni e incontaminati del Locarnese.
il 10% della popolazione, in alcuni casi come Ronco s/Ascona, Orselina o nei piccoli centri delle valli, il tedesco o lo Switzerdütsch è parlato dal 30% e più degli abitanti. «Quello della mancanza di integrazione attraverso l’espressione nella lingua locale è un limite conosciuto e consolidato della comunità germanofona in Ticino – confessa Baltisberger che, nonostante le sue origini argoviesi, si esprime in un ottimo italiano –. Molti svizzero-tedeschi, ad esempio, pur residenti da anni in Ticino, non fanno nemmeno lo sforzo di parlare un po’ d’italiano. Al contrario, pretendono che ci si rivolga loro in tedesco, se non addirittura in stretto dialetto zurighese o basilese. In Romandia, al contrario, se non si esprimessero in francese sarebbero subito messi in croce», sottolinea la caporedattrice della Tessiner Zeitung. Che però dà qualche attenuante ai suoi linguisticamente pigri corregionali confederati: «Mi è capitato, soprattutto con chi risiede nelle zone periferiche o con chi lavora stabilmente in Ticino, di sentirli parlare in dialetto pur continuando a snobbare l’italiano». Prove un po’ particolari di integrazione nell’amata e soleggiata Svizzera
italiana, dunque, anche se qualche passo in più per agevolare la convivenza tra teutonici e latini è stato fatto dai tempi, non lontanissimi, in cui il Ticino era visto solo come luogo di vacanza, con il sole, i grotti e la gente che canta. «Questi stereotipi sono molto difficili da superare. In realtà si tratta di un cantone economicamente molto importante, con delle industrie di punta poco conosciute ma che lavorano in tutto il mondo, con un sistema universitario che ha portato un bel cambiamento. Noi cerchiamo di presentare questa realtà, perché il Ticino è un cantone dinamico, dove si lavora sodo, altro che cantare», spiega Baltisberger. Lo stesso tentativo culturale di sdoganare il Ticino dai preconcetti, oltre alla «Tessiner Zeitung», lo compiono diverse associazioni locali di germanofoni residenti, come ad esempio il Deutscher Club Tessin (https://deutscherclubtessin.ch) che ha sede a Lugano e un comitato con rappresentanti in tutte le regioni. Sulle rive del Verbano sono attivi da tempo il Deutschschweizer Club Locarno (www.dclocarno.ch) o il Deutschschweizer Verein Minusio (https://dsvm.ch). Il Ticino, insomma, è sempre e comunque «über alles». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola O la borsa o la vita «Ricordati che ci devi passare tutta la vita con te stessa. Soddisfa i tuoi desideri. Perdonati gli errori. Saluta il passato. Amati». Guarda! Che belle idee! Quasi quasi me le compero. Sono anche molto convenienti, addirittura a metà prezzo. Due signore a passeggio, in un grande magazzino, reparto borsette. Di borsette pensanti ce ne sono tante in esposizione. Borsette un po’ autoritarie, pronte a mortificare la tua presunta inadeguatezza nei confronti della vita, ma altrettanto pronte a sedurti, desiderose di accompagnarti con un tocco di generosa bellezza. E terapeutiche, anche. Altro che camminare e basta, se ne compro una e la indosso, se la porto a spasso con me, mi posso nutrire anche di tutto il benessere ricamato. Con un sussulto quasi metafisico, una nuova moda sembra dunque volersi sostituire a pacchianissime griffes, capaci solo di evocare spudoratamente
il volto felice del consumo. Così, quasi per caso, stiamo forse assistendo ad un’ultima frontiera dell’esibizione. Di quell’esibizione dell’umano che sempre più porta ad identificare il nostro stare al mondo con il far vedere «cose» di noi stessi (dai funghi raccolti in luoghi segreti, ai piatti cucinati o assaporati, da performances sportive a perle di saggezza, trovate chissà dove, dentro o fuori di sé). Siamo alla versione online, insomma, di quel «faccio cose, vedo gente», felice intuizione con cui Nanni Moretti anticipava, in Ecce Bombo, le derive prossime venture del nostro vivere e convivere. Derive, sì, perché portando a spasso questi oggetti non sei più tu ad esibire pensieri «tuoi», seppur pescati dentro pensieri già pensati (ah, le gabbie del mainstream!). Con quei pensieri «tuoi» puoi infatti continuare ad esibire te stesso, identificandoti con loro, a volte anche solo per un agognato «mi
piace». Al contrario, i pensieri appiccicati su plastiche colorate, o cuciti su «vera pelle», sono loro ad esibire te, come farebbe un buon life counselor (espressione intraducibile) che, stando nell’ombra, è in grado di migliorare la tua immagine. Consumismo metafisico, appunto. E non a caso, forse, ciò può accadere proprio dentro una borsetta, oggetto ambivalente e accogliente, pronto a custodire frammenti della nostra soggettività. L’amica della signora ormai esibita a metà prezzo (felicissima di passare così tutta la vita con se stessa, di soddisfare i propri desideri, salutando il passato e amandosi) esprime a questo punto tutto il suo scetticismo sulla scelta e con entusiasmo alternativo indica invece la sua preferita: «tenete gli occhi aperti che certe cose sono più belle dei sogni». Come dire, guarda quante cose belle, non hai bisogno dei sogni! Anche
perché per sognare bisogna vedere chiudendo gli occhi sulle cose del mondo. Guardare non è vedere: anzi, guardare il mondo, tutto squadernato davanti ai nostri occhi, può impedire di vedere (la radice greca del verbo indica anche avere un’idea, comprendere). La vista, nel pensiero greco, è profondamente legata all’esperienza umana del pensare. In Platone, ad esempio, è metafora della conoscenza e sorgente della trascendenza: alla vista della bellezza di un corpo, posso ritrovare, scritto nell’anima, il ricordo di una bellezza più grande, altrove conosciuta. Ma noi abitiamo un mondo che si lascia guardare, senza suggerire alcun altrove. E alla signora piace tanto l’ invito a guardare meglio questo mondo qui, pieno di cose belle. Un volto nuovo di questa nostra cultura dell’esibizione? Forse sì, perché stare dentro l’accecante visibilità del mondo è un po’ come ritrovarsi in uno specchio,
con il rischio di vedere, questa volta sì, vedere, solo quel riflesso di sé, quel «nulla» tanto amato da Narciso. Al di là delle preferenze delle due amiche, al di là di improbabili messaggi filosofici svolazzanti tra gli scaffali, resta il fatto che questi «comandamenti» sembrano soprattutto suggerire un nuovo bisogno: quello di una guida, seppur di stoffa, per camminare con sicurezza nella vita, secondo il monito di Cartesio. E a proposito di Cartesio, e della res cogitans grazie a cui esistiamo, segnalo che, ben visibile accanto alle due prescelte, c’era un’altra borsa, ma è passata piuttosto inosservata. Modello abbastanza elegante e scritta sobria: «segui il tuo cuore, ma tieni con te la testa». Forse, nella sua banalità dal sapore un po’ moralistico, è parso alle signore un «comandamento» inutile. Anche perché la testa c’è sempre, eccome: a prova di selfie.
con Abbado. Altro grande direttore mahleriano, le cui ceneri riposano nel cimitero accanto una chiesuola della Val di Fex. Dopo pizokels e porcini, ecco i Kaiserschmarrn. Specie di nuvolosa frittata dolce imperiale, a pezzi, con uvetta dentro e cosparsa di zucchero a velo. Accanto, in simbiosi, salsa di mirtilli rossi e composta di mele. In compagnia di un gipeto di fronte, un camoscio di fianco, il signore elegante di un quadro, e una marmotta sulla mensola, una sera presto verso fine gennaio divoro questo prodigioso piatto da far resuscitare i morti. Il logo dell’Hof Zuort, sul bordo del piatto, è un palco caduco di cervo. L’uomo e i suoi simboli (1964) avanza solo di una pagina o due, ma prima di sprofondare in un sonno primordiale, guardo ancora, mettendo fuori la testa dalla finestra, il cielo stellato come non mai. A colazione scopro la sala-veranda dipinta con paesaggi bucolici non alpestri: gondole, mulini, e passeggiatori antiquati. Con la chiave per la cappella Mengelberg in tasca, avanzo nella neve verso lo chalet Mengelberg voluto nel 1911 come residenza estiva e poi, quan-
do è stato accusato di collaborazionismo e privato del passaporto, luogo d’esilio fino alla morte. La chiesetta stile Lapponia è alle sue spalle, più su, a ridosso del bosco. Cesellata da Clot Corradin (1891-1978) di Sent, dentro lascia a bocca aperta. La particolarità è un carillon con quindici campane, mentre nel legno si ritrovano simboli cristiani come il pellicano che si becca il petto. Sul fianco, fuori, una casetta per uccellini. Più in alto, noto una panchina. La raggiungo ricalcando le orme di qualcuno nella neve alta, e mi siedo quando il sole sorge dalle montagne facendo scintillare i brillantini della neve dura dove sono marchiate leggiadre le traiettorie dei caprioli. A parte la posizione privilegiata, non è una panchina come le altre, si vede che è vecchissima. Mezzo innevata, cosparsa di aghi di larice, le manca un pezzo di schienale. Il legno del bracciolo è consunto e ricamato dai licheni. Panchina senza orpelli, quasi perfetta, appartata in questa piega di mondo dove attutito dallo strato di ghiaccio, si sente appena, nell’aria tonica del mattino, il suono sordo del torrente Brancla.
razzanti». Uno studio condotto negli ospedali americani ha dimostrato come un quarto dei pazienti preferisca condurre il colloquio per le proprie dimissioni con un assistente dotato di intelligenza artificiale che con un medico o un assistente del personale. Vi avevo detto che c’era la luce in fondo al tunnel. Zehnder cita Enrico Pestalozzi «l’uomo è unità di cuore, mente e mano». Se le ultime due non sono più nostro appannaggio esclusivo lo è il primo, che è ciò che ci distingue. Se educato il cuore ci dona empatia, sentimento, intuizione, ci rende creativi, animali sociali e ci fa tendere verso la conquista di valori intellettuali e di una realizzazione personale. Per dirla con i versi di Goethe «Sia nobile l’uomo, soccorrevole e buono! Instancabile compia l’utile e il giusto; Poiché questo soltanto lo distingue da tutti gli esseri che conosciamo». La letteratura, come l’arte e la musica, ci
ha tante volte indicato la strada, è stata salvifica per tanti individui in tanti momenti bui della storia. Torniamo allora al principio e cioè la partita di scacchi ma non tra Kasparov e Deep Blue: tra il famoso maestro Mirko Czentovic e il misterioso Signor B., protagonisti della Novella degli scacchi di Stefan Zweig. «Qualsiasi bambino può apprenderne le regole, qualsiasi idiota può cimentarvisi, eppure, all’interno di questo immutabile, angusto quadrato esso può generare solo una particolare specie di maestri, incomparabili a chiunque altro, esseri umani che possiedono un talento predestinato unicamente agli scacchi, uno specifico genio, in cui visione, pazienza e tecnica operano in una precisa ripartizione, come avviene nel matematico, nel poeta, nel musicista». L’importante non è vincere, essere più bravi, non è qui che risiede la bellezza dell’umanità.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Hof Zuort Da sempre, oltre a imponenti montagne innevate, incantevoli case antiche e fienili da sogno, della Bassa Engadina mi stregano le scoscese foreste di conifere a perdita d’occhio. Peccete più che altro, scure e riposanti. Dopo tre ore di cammino da Ramosch via Vnà, incontrando scoiattoli, cembri, larici, caprioli, penetro nel fitto di maestosi pecci che svettano tra metri di neve. L’ultimo sole rimane sulle cime delle montagne più alte, affretto un po’ il passo prima dell’imbrunire. In una radura, verso l’ora del tè, avvisto la chiesetta e lo chalet Mengelberg. Willem Mengelberg (1871-1951): grande direttore d’orchestra olandese che durante una passeggiata nel 1910 s’innamora di questo posto in culo ai lupi chiamato Zuort. Se dell’Hof Zuort, nascosto per ora alla vista dal bosco, come luogo di sosta si ha notizia dal 1482, il toponimo della radura è millenario e sembra risalire a suord: sordo in romancio vallader. Un urogallo impagliato appeso al muro sopra una citazione incorniciata di Nietzsche sulla natura, e due palchi di cervo appoggiati fuori dalla stalla sul retro dell’Hof Zuort
(1711 m), mi danno il benvenuto. Dentro, mi sorprendono due gufi imbalsamati mentre ghermiscono una donnola. Di fianco, un enorme orologio a cucù con cesellato un cervo che bramisce, cerva allattante un cerbiatto, foglie e bacche di pungitopo. Gasthaus discosta e al contempo dogana fino al 1920 – sulla via per il valico con il Tirolo –che emana un’atmosfera da covo di cacciatori, eremiti girovaghi, mahleriani incalliti, estimatori di Kaiserschmarrn. Specialità austriaca che non vedo l’ora di provare stasera per dessert, anche se già in testa da settimane per merenda. Intanto doccia calda, tazza di tiglio e sotto le coperte nella camera numero tre. La più bella, grande, e luminosa delle quattro camere di questo hotel remoto di proprietà dal 2010 – come lo chalet qui vicino dove si può anche pernottare e la chiesetta tutta in legno fatta costruire dal controverso direttore d’orchestra donnaiolo nato a Utrecht e morto qui a Zuort – di Peter Robert Berry IV. Quarto medico di St. Moritz con questo nome, nipote di Peter Robert Berry II, pittore amatoriale amico di Segantini
e membro del Comitato per il Museo di Segantini. La luce sulle montagne perdura più del previsto, il cielo resta misteriosamente chiaro anche se il resto si oscura, la vista della sedia di vimini a dondolo con coperta di pecora stile dacia è soporifera. Sarà dura alzarmi da questo letto belle époque bavarese sperduto in fondo alla Val Sinestra. Da qui, in estate, un sentiero raggiunge, in breve, l’ex sanatorio-hotel tipo castello fiabesco con tanto di fantasma, il cui proprietario-impresario di bus è curiosamente anche olandese. E come pure i gruppi similsettari di svarionati che lo frequentano, tra i quali uno, cinque anni fa, mi parlava di continuo del concerto dei Guns N’ Roses visto più di un ventennio prima ad Amsterdam. Nessun nesso profondo dunque, credo, tra gli olandesi dell’hotel Val Sinestra e il direttore per cinquant’anni dell’orchestra del Concertgebouw di Amsterdam, amico di Mahler e ineguagliato esecutore, pare, delle sue sinfonie. Mentre un’ulteriore analogia tra luoghi e persone – ben più forte della nazionalità –quasi un’assonanza tra spirito e paesaggio, ci sarebbe
La società connessa di Natascha Fioretti «Sia nobile l’uomo, soccorrevole e buono!» La scorsa volta ci siamo lasciati con il verso di Giobbe: «Poiché egli tiene gli occhi sulle vie dell’uomo, e vede tutti i suoi passi». Pensate a tutti i dati che raccolgono su di noi Google, Facebook e le applicazioni che utilizziamo ogni giorno. Negli Usa, alle fasce più povere della popolazione, grazie a dei finanziamenti pubblici, di recente sono stati distribuiti dei telefoni contenenti malware nascosti. Un esempio estremo ma indicativo dei pericoli ai quali siamo esposti nell’era della sorveglianza di massa in cui semplici applicazioni come Google Map, Whatsapp e altri osservano i nostri spostamenti, ascoltano le nostre comunicazioni, registrano le nostre abitudini e le nostre preferenze e per questo, perché conoscono tutto di noi, secondo Matthias Zehnder, autore del saggio Die digitale Kränkung. Über die Ersetzbarkeit des Menschen (La mortificazione digitale. Sulla sostituibilità dell’uomo) assu-
mono una prospettiva, uno sguardo e una potenzialità divina. I computer, le macchine non solo ci sostituiranno ma prenderanno il controllo. L’esempio è quello del capotreno preoccupato perché presto un robot farà il suo lavoro. In verità le macchine non solo sostituiranno il capotreno ma prenderanno in mano la gestione dell’intero sistema ferroviario. Tra le professioni a rischio c’è anche quella del traduttore, da qualche tempo in concorrenza con le reti neurali artificiali utilizzate con successo per programmi come Google Translate. Leader in campo linguistico è l’azienda DeepL che in collaborazione con Linguee, il più grande motore di ricerca per le traduzioni, ha fornito agli utenti più di un miliardo di traduzioni. Dove andremo a finire se spariranno i traduttori, i capistazione, i contabili, i giuristi, i funzionari bancari e tante delle operazioni che oggi siamo abituati a fare interagendo con gli esseri
umani, le faremo guardando negli occhi un robot? Altro che mortificazione, andremo incontro ad una tragedia umana, come i lemming compiremo un suicidio di massa. O forse no. La psicologa americana Sherry Turkle, nel 2012, con il suo saggio Alone Together (Da soli insieme) ci aveva messi in guardia da un futuro in cui avremmo preferito la compagnia dei robot e delle macchine. Il motivo? I robot e le macchine sono più affidabili e prevedibili dell’uomo che invece è un emotivo pieno di sorprese e fonte, molto spesso, di amare delusioni. Un esempio che può sembrare banale ma ci dà l’idea è il Bancomat: se tentiamo di prelevare e il conto è in rosso non dobbiamo giustificarci e non proviamo imbarazzo, una cosa diversa è sentirsi scrutati dallo sguardo curioso dietro lo sportello. Altri esempi sono le casse automatiche nei supermercati, molto gettonate se si fanno acquisti particolari e «imba-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Ambiente e Benessere Uno squalo in Ticino Naturalmente è fossile, del periodo Giurassico, ritrovato nelle Gole della Breggia
Un’escursione a Pradóir Sulle orme dell’«ultimo nomade» ticinese, in valle di Blenio: Franco Vanzetti di Dangio
Iperconnessione turistica Il virtuale ha così trasformato il mondo da intaccare ormai anche quello dei viaggiatori
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Un facile gugelhopf La scorza e i dadini d’arancia sanguigna, per un aroma davvero squisito e succoso pagina 23
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Oncologia ginecologica Medicina I grandi progressi di ricerca,
diagnostica e terapia nelle neoplasie ginecologiche
Maria Grazia Buletti Seno, ovaio, cervice uterina ed endometrio: sono le sedi dei «tumori declinati al femminile». Con oltre 5700 nuovi casi all’anno tra il 2008 e il 2012, l’Ufficio federale di statistica indica come più frequente il tumore al seno (un terzo dei nuovi casi di tumori ginecologici in Svizzera), con un rischio di mortalità di 4 donne su 100. Il tumore della cervice uterina rappresenta un quarto di tutte le malattie tumorali, con 250 nuovi casi all’anno e il rischio di contrarlo è dello 0,2 per cento. Il tumore ovarico, infine, costituisce il 3,3 per cento ed è l’ottava patologia tumorale più frequente, la quinta causa di decesso per neoplasia. Ne abbiamo parlato con il professor Andrea Papadia, specialista in ginecologia oncologica e primario di ginecologia e ostetricia all’Ospedale Regionale di Lugano, che interpreta i dati statistici in modo rassicurante: «In Ticino, la popolazione è esigua e di conseguenza il numero di casi non è grande». Oggi, per molte di queste neoplasie, una diagnosi non rappresenta una condanna: «La ricerca ha fatto passi da gigante e la sopravvivenza ha continuato a migliorare stabilmente nell’ultimo ventennio, anche se si può ancora fare molto per migliorare la salute femminile: sia sviluppando nuove terapie e strumenti diagnostici, sia migliorando i programmi di screening e di prevenzione, sia preservando la fertilità delle pazienti». Lo specialista definisce il tumore al seno come una neoplasia a sé stante: «Nei paesi industrializzati si osserva un aumento della frequenza, ma si tratta di una malattia governabile a lungo termine attraverso terapie complesse e gestibili con gli oncologi medici». La peculiarità del tumore della cervice sta nello screening del pap-test che è in grado di identificarne i precursori del carcinoma prima che esso presenti le caratteristiche del tumore: «Questo test molto banale permette di giungere a una diagnosi precoce, in grado di identificare una condizione precancerosa che poi si può contrastare con
una semplice terapia di prevenzione del cancro». È possibile perché «l’identificazione dell’agente eziogenico (necessario allo sviluppo tumorale) ha permesso di sviluppare un vaccino profilattico. Di conseguenza, nelle società in cui possono essere attuate queste misure di prevenzione si è potuto modificare l’impatto del tumore della cervice. Non a caso, è uno dei tumori più frequenti a livello mondiale, tranne nei Paesi in cui si effettua la prevenzione». Infine, il tumore ovarico: «Contrariamente a quanto accade per i carcinomi della cervice e della mammella (che si può identificare con lo screening quando ancora è di dimensioni ridotte), per il carcinoma ovarico non esiste una metodica di screening di provata efficacia. Perciò la diagnosi viene posta in seguito alla comparsa di una sintomatologia che si presenta solo quando la malattia è già avanzata. La sua incidenza resta stabile proprio perché non si è ancora in grado di identificare le lesioni pretumorali. In questi anni stiamo scoprendo però farmaci dall’alta efficacia. Fanno ben sperare su un cambiamento dell’evoluzione biologica di questa neoplasia che può contare sempre più anche su una chirurgia elettiva: elemento importante e irrinunciabile del trattamento a cui vengono associate chemioterapia e terapia di mantenimento». L’oncologia ginecologica rappresenta una delle scuole chirurgiche di più antica tradizione in Europa. Si occupa della diagnosi, del trattamento chirurgico e chemioterapico delle neoplasie ginecologiche, e integra le proprie competenze in modo multidisciplinare con quelle di radiologi, anatomo-patologi, radioterapisti, oncologi medici e ricercatori specificatamente dedicati a queste patologie. Quando viene diagnosticato un tumore ginecologico, è cruciale affidarsi a personale medico specializzato che lavori in modo integrato in un team dedicato per ricevere le cure più appropriate, ottimizzando il risultato terapeutico che, dalla prevenzione alla diagnosi e alle relative scelte terapeutiche individualizzate, mostra
Il professor Andrea Papadia, specialista in ginecologia oncologica e primario di ginecologia e ostetricia all’Ospedale Regionale di Lugano. (Stefano Spinelli)
un approccio alle malattie tumorali ginecologiche in costante evoluzione. «Questo grazie anche all’impiego di tecnologie diagnostiche e terapeutiche avanzate che offrono soluzioni sempre più all’avanguardia e trattamenti sempre meno invasivi, più precisi e personalizzati», racconta lo specialista che pone l’accento sull’individualizzazione della presa a carico della paziente, in cui la chirurgia ha pure fatto grandi progressi: «Un tempo si pensava di agire sempre attraverso una grande incisione, mentre nel trattamento di certi tumori (come ad esempio quello dell’endometrio) lo standard della chirurgia si è spostato da aperto a mini-invasivo. Anche se la chirurgia mini-invasiva non è adatta a tutti i casi perché ciascuno merita il suo approccio specifico con una sua evidenza scientifica e terapeutica». Nel sottolinearne l’importanza, il professore invita a ricordare che «non c’è cura senza ricerca. In tutta l’onco-
logia, il campo della ricerca è volto ad aumentare il tasso di cura, riducendo gli effetti collaterali del trattamento». La ricerca procede a diversi livelli, con linee che si diramano in campo chirurgico, farmacologico e nella biologia molecolare: «Andiamo dalle cose più banali a quelle più raffinate con lo stesso costante obiettivo che rimane l’identificazione della cura più adatta a una specifica paziente». E con uno sguardo al futuro, egli afferma: «La ricerca ha come obiettivo la comprensione sempre più profonda dei meccanismi biologici che guidano l’insorgenza e la progressione del tumore, così come la sua risposta alle terapie. Per gradi, stiamo andando nella direzione dell’identificazione delle alterazioni genetiche che segnino il presupposto per una terapia specifica». In questa evoluzione della ricerca, ci spiega «le terapie sono sempre più sostenibili e adattabili alla paziente». Inevitabile parlare di prevenzione:
«La prevenzione primaria passa per uno stile di vita sano che comprende la rinuncia al fumo, ad eccessi alimentari e un consumo moderato di alcol, e combatte la sedentarietà con almeno mezz’ora al giorno di movimento». Tutte cose semplici e banali, osserva, facilmente attuabili, ma che riducono il rischio di ammalarsi anche delle patologie gineco-oncologiche. Nella prevenzione dobbiamo naturalmente ricordare ancora una volta il pap-test («è fondamentale»), e la vaccinazione che lo specialista ritiene ideale: «Recentemente è stato sviluppato un nuovo vaccino che copre contro nove ceppi del virus (più di quello precedente), ed è un vaccino profilattico consigliato a ragazze prima del primo rapporto, anche se in America viene esteso fino ai 45 anni». Naturalmente «non ci sono buoni motivi per non vaccinarsi, ma farlo non esime dal ricorrere ai regolari controlli periodici».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Ambiente e Benessere
La rivincita delle bruttine
Novità
Mondoverde Quelle piante ritenute fuori
moda, sono anche quelle più utili per purificare l’aria di ambienti casalinghi e uffici
20x PUNTI
Anita Negretti Alla domanda se esistono piante brutte, solitamente rispondo che esistono piante mal valorizzate. A parte quelle che per gusto personale non piacciono proprio, altre passano in seconda fila nel grado di apprezzamento poiché sono poco appariscenti. Ne sono un esempio le Sanseverie, piante d’appartamento con foglie strette e allungate, con bordi crema, ideali per la mezz’ombra. Io le ho sempre considerate antiquate e demodé, molto anni Ottanta, ma se accompagnate da un vaso squadrato, moderno, dalle forme pulite, eccole svecchiate di quarant’anni e assolutamente spendibili in uffici o appartamenti.
Basta un vaso squadrato, moderno, dalle forme pulite per svecchiare una pianta fuori moda, e arricchire i nostri spazi E cosa dire dell’Aucuba japonica che spesso, a dispetto delle sue esigenze (ombra o mezz’ombra), la vedo abbandonata in giardini assolati, con l’unico risultato di avere piante abbruttite dall’incuria? Provate invece a coltivarle in mastelli di metallo all’ombra o in larghi vasi bianchi, in grado di illuminare le zone con poco sole, specie con la varietà «Maculata» che ha foglie verdi con macchie giallo crema e bacche rosse durature per tutto l’inverno. Oltre alle belle foglie coriacee e al portamento compatto, Aucuba japonica ha un’elevata rusticità e un’elevata tolleranza dello smog. In piena terra circondatele con un basso prato di Convallaria japonica (Ophiopogon) o con la varietà nera (Ophiopogon «Nigrescens»).
Ritornando alle essenze d’appartamento, vi è l’intramontabile Philodendron, onnipresente negli uffici che mi capitava di frequentare durante l’infanzia, diventati dopo varie decadi degli highlander vegetali. Anni fa assistetti al risultato di uno strano esperimento di qualche impiegata dai gusti discutibili: i rami ormai esausti e indeboliti di un Philodendron si erano allungati a dismisura per il piccolo vaso che li conteneva e venivano utilizzati come tendine verdi per dividere le scrivanie di un vetusto ufficio con mobili in formica e moquette. In realtà il Philodendron, con le sue grandi foglie cuoriforme elegantemente traforate, lo si può coltivare in vasi dai colori brillanti, per esaltare il verde intenso delle foglie. Personalmente ho in casa due illustri portabandiera di questo gruppo di piante bruttine ma indistruttibili: un clorofito (Chlorophytum comosum) ereditato qualche mese fa da un’anziana signora, e un pothos (Epipremnum aureum) recuperato da un’amica durante uno dei suoi traslochi, che vive placido e tranquillo sopra a un mobile. L’unica cura che richiede quest’ultima pianta è un bicchiere d’acqua alla settimana e il taglio regolare delle sue fronde poiché non amo liane troppo invadenti. Pianta altrettanto facilissima da mantenere, il clorofito ha un’ottima vigoria, tollera l’ombra, purifica l’aria e non si lamenta mai. Per il mio è bastato toglierlo da un vecchio vaso di terracotta quasi di epoca romana (!), trasferirlo in un modernissimo vaso quadrato di alluminio imbrunito, per essere accolta come una nuova e bella pianta in casa mia. La vera rivincita di queste piante modeste? Provate a fare una ricerca su google riguardante le piante migliori per purificare l’aria: tra le prime dieci troverete senz’altro quelle che per anni sono state considerate fuori moda.
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Lo squalo della Breggia
Ambiente e Benessere
Paleontologia 180 milioni di anni or sono, l’Oceano della Tetide ospitava l’Asteracanthus smithwoodwardi;
nel secolo scorso la Breggia ne ha riportato alla luce i resti fossili e il loro carico di enigmi
Rudolf Stockar, testo e fotografia Martedì primo ottobre 1940 piove a dirotto. Non vi è più traccia del sole d’autunno che in precedenza aveva accompagnato l’Assemblea annuale della Società geologica svizzera a Locarno. I venti partecipanti all’escursione finale percorrono le Gole della Breggia. Sotto la guida del basilese Louis Vonderschmitt, gli affioramenti dell’attuale geoparco del Mendrisiotto raccontano dell’Oceano della Tetide, di sedimenti, di acque profonde e dei loro abitanti morti e letteralmente sepolti. Bernhard Peyer («Azione» 44, 28.10.2019) aveva scoperto il Ticino geologico una ventina di anni prima, sedotto dal Triassico del Monte San Giorgio. Insieme agli altri partecipanti attraversa ora i successivi periodi del Mesozoico, il Giurassico e il Cretacico. Nella formazione del Rosso Ammonitico Lombardo, Vonderschmitt mostra un ciottolo immerso nell’argilla rossastra: oggi lo chiameremmo dropstone, una pietra caduta sul fondale dopo essersi staccata dalle radici di un albero alla deriva in superficie. Vonderschmitt è un geologo, nelle rocce cerca indizi che ne raccontino la genesi. Peyer è un paleontologo, nelle rocce cerca i fossili, che qui certo non mancano. L’impressione che gli desta la serie di strati è tale che incarica il suo assistente Emil Kuhn e il tecnico Fritz Buchser di ripercorrere i luoghi dell’escursione campionando alcuni punti. Presso il dropstone, lo sguardo di Kuhn cade su un oggetto più chiaro della cupa matrice del Rosso Ammonitico. Estratto, si rivela un dente di 3,3 x 1,8 centimetri, dai contorni rettangolari e una superficie lucente percorsa da fini rughe. Un dente di squalo, il primo dalla Breggia. Alla fine dello scavo, i denti in mano a Kuhn sono 19, alcuni ancora associati alla cartilagine delle mascelle. Peyer è entusiasta: sul San Giorgio i fossili di vertebrati sono pane quotidiano ma nella Breggia un’assoluta rarità. Torna la primavera successiva, ampliando lo scavo con piccole cariche di esplosivo. Cerca qualcosa che tuttavia
non trova: una spina. I denti appartengono, infatti, al gruppo degli ibodonti, squali dominanti nel Triassico e nel Giurassico inferiore, in seguito surclassati dai neoselaci, cui appartengono le forme moderne, e infine scomparsi alla fine del Cretacico, 66 Ma (milioni di anni or sono). I sedimenti del Rosso Ammonitico risalgono al termine del Giurassico inferiore, hanno 180 Ma, e gli ibodonti erano ancora in piena forma. Come gli altri squali, disseminavano nell’ambiente un gran numero di denti, sostituiti di continuo e quasi inalterabili, tanto che sappiamo ben di più dell’evoluzione della loro struttura che degli squali che li avevano persi. Lo scheletro di questi ultimi è, infatti, cartilagineo e solo a tratti calcificato e pertanto, alla morte dell’animale, facilmente deteriorabile. Gli ibodonti avevano però un’interessante prerogativa: le due pinne dorsali erano sostenute da lunghe e robuste spine ossee, e strutture simili ornavano anche il cranio dei maschi. Sono le spine che Peyer cercò invano. Denti simili, tuttavia provenienti da altre località, erano stati descritti da Louis Agassiz già un secolo prima, nel 1838, e attribuiti a un genere di squalo che chiamò Strophodus. L’anno precedente, nel 1837, lo stesso Agassiz aveva invece descritto delle spine dorsali lunghe fino a 35 centimetri, battezzando il nuovo genere col nome Asteracanthus, dal greco astér (stella) e ácantha (spina), alludendo ai tubercoli a forma di stellina che le ricoprivano. Agassiz manifestò il sospetto che i denti e le spine appartenessero allo stesso animale, ma la conferma giunse solo dopo la sua morte grazie alle ricerche del paleontologo amatoriale Alfred Leeds nelle cave di argilla giurassica della località inglese di Peterborough. Nella sua collezione di fossili di vertebrati marini coesistevano sia denti di tipo Strophodus sia spine di tipo Asteracanthus. Sir Arthur Smith Woodward, curatore di geologia al British Museum, pubblicò questo dato nel 1888, ritenendo che spine e denti potessero appartenere a un unico pesce per il quale man-
Woodward e il giallo di Piltdown Arthur Smith Woodward (1864-1944) fu uno dei maggiori paleontologi e il massimo esperto di pesci fossili del suo tempo. Nonostante 370 pubblicazioni scientifiche e diversi riconoscimenti mondiali, la sua reputazione fu tuttavia gravata dal coinvolgimento nella maggiore frode scientifica del XX secolo, quella dell’Uomo di Piltdown. Il 18 dicembre 1912, vent’anni dopo il rinvenimento in Indonesia del primo esemplare di Homo erectus (l’Uomo di Giava, risalente a 1,8 Ma) da parte di un antropologo olandese, Woodward annunciò il ritrovamento di un fossile d’importanza ancora maggiore, chiamandolo Eoanthropus dawsoni. Il nome era un omaggio a Charles Dawson, paleontologo amatoriale che gli portò un insieme di reperti composto da parti di un cranio tipicamente umano associate a una mascella tipicamente da scimmia, ossa di mammiferi (tra cui un ippopotamo) e utensili in pietra, tutti dello stesso colore bruno delle ghiaie della cava di Piltdown, nel Sussex, da cui sosteneva provenissero. L’ossessione derivante da questo presunto fossile, dai caratteri sempre più anomali man mano che altri ominidi venivano alla luce in diverse parti del mondo, spinse Woodward a trasferirsi presso Piltdown per continuare gli
scavi una volta lasciato il museo nel 1924. Nonostante nessun altro reperto emerse dopo la morte di Dawson nel 1916, abbandonò le ricerche solo quando costretto dalla cecità. Dedicò gli ultimi anni di vita a dettare alla moglie Maud la storia dell’Uomo di Piltdown, finendo poco prima della morte sopraggiunta nel 1944. Il libro The Earliest Englishman uscì postumo nel 1948. Cinque anni dopo, nuove analisi sulle ossa ne rivelarono l’appartenenza a un orangotango (la mascella) e a un uomo (la calotta cranica), entrambi moderni. Abrase e pigmentate ad hoc erano state poi sepolte nella cava di Piltdown, insieme agli altri reperti che oggi sappiamo provenire dall’area mediterranea. Il primo sospettato della frode fu naturalmente Dawson, ritenuto un manipolatore seriale ossessionato dall’ambizione scientifica. Ma almeno altri 12 sono stati accusati, dallo stesso Woodward ad Arthur Conan Doyle (che proprio nel 1912 pubblicò The Lost World), non risparmiando neppure l’oca Chipper, frequentatrice assidua degli scavi e onnipresente nelle foto dell’epoca che, con il suo fare chiassoso, avrebbe distratto gli studiosi permettendo nel frattempo a Dawson di «condire», ad hoc le ghiaie di Piltdown.
Come l’attuale Nautilus, si spostavano nella colonna d’acqua superficiale che avrebbe costituito il territorio di caccia del nostro squalo (sul sito www.azione. ch una creazione grafica di come poteva presentarsi, e altre immagini). Le due interpretazioni non si escludono a vicenda, ed è possibile che l’Asteracanthus smithwoodwardi si muovesse tra i diversi ambienti alla ricerca di tutto ciò che fosse frantumabile dalle sue mascelle. Intanto, mentre pensiamo a un menù giurassico a base di frutti di mare, la Breggia scorre erodendo il Rosso Ammonitico e portando così alla luce nuovi protagonisti della storia dell’antico oceano. E forse un giorno nelle acque del fiume si specchierà anche un osso a forma di spina, tempestato di stelline. L’affioramento del Rosso Ammonitico Lombardo nelle Gole della Breggia.
tenne il nome Asteracanthus, poiché coniato prima di Strophodus. Peyer partì da tale ipotesi anche riguardo ai denti dello squalo della Breggia, dimostrando un insolito azzardo, poiché provenire dagli stessi strati – com’era il caso dei fossili di Leeds – non implica appartenere allo stesso animale. Imputò l’assenza delle spine dorsali alla disarticolazione post mortem o all’erosione del fiume e, sulla base della diversa forma delle mascelle e delle dimensioni dei denti, nel 1946 istituì una nuova specie, Asteracanthus smithwoodwardi, dedicandola al colle-
Bibliografia
ga morto due anni prima. Uno squalo di 2-3 metri di lunghezza, dalla dieta contrastante con il mito del pesce assassino e sanguinario. Una sessantina di denti larghi e piatti «lastricava» infatti le mascelle, formando piastre atte a frantumare gusci di invertebrati. Si trattava probabilmente di bivalvi e gasteropodi, attestati come fossili nello stesso Rosso Ammonitico, e in tal caso il nostro squalo sarebbe stato un frequentatore del fondale. Tuttavia non si può escludere che le prede fossero proprio le ammoniti, i molluschi cefalopodi che danno il nome alla formazione.
Agassiz L. (1835-1844), Recherches sur les poissons fossils, Tome 3, 390 pp. + 47 tav., Neuchâtel. Maisey J. (1982), The anatomy and interrelationships of Mesozoic hybodont sharks, American Museum Novitates n. 2724, 1-48. Peyer B. (1946), Die schweizerischen Funde von Asteracanthus (Strophodus), Abh. Schweiz. Palaeont, Ges. 64, 1-101. Woodward A. S. (1888), On some remains of the extinct Selachian Asteracanthus from the Oxford clay of Peterboroug, Ann. Mag. Nat. Hist., Ser. 6, 2, 336-342. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Ambiente e Benessere
L’ultimo nomade
La sedia di Franco Vanzetti. Sul sito www. azione.ch si trova l’itinerario, oltre a qualche immagine in più.
Itinerari Un’escursione a Pradóir, balcone fiorito della Valle del Sole
Romano Venziani, testo e immagini Non so quanti anni avesse quando l’ho conosciuto. A occhio e croce poco più di una sessantina, vista la sua età di adesso, ma già allora si portava sulle spalle i segni di una vita di lavoro duro e di fatiche. Il volto abbronzato solcato da un intrico di rughe, le mani incallite di chi non le ha mai lasciate in pace, la schiena un po’ ingobbita, come se stesse sempre trasportando un carico gravoso. In quel primo incontro, Franco mi raccontò la sua storia, arricchitasi poi di dettagli negli anni seguenti, quando di tanto in tanto ritornavo a rendergli visita. Come sto facendo ora, in questa strana giornata di metà ottobre. Strana, perché avvolta da un’immobilità inconsueta per questo momento dell’anno. Non un filo d’aria. Il cielo è un lenzuolo blu smunto steso sulle montagne, appena appena infreddolite nel loro abito di mezza stagione, e sui boschi ancora eccezionalmente verdi. Ci sono solo, qua e là, spruzzi di giallo caldo, qualche tocco di rosso vino, chiazze di toni bruni. Poche foglie secche sul sentiero, seminato, nel primo tratto, di ricci di castagno, qualche solitario fungo matto perso nel sottobosco maculato di sole. Sto salendo a Pradóir o Pradöir, uno straordinario balcone affacciato sulla valle di Blenio, poco sotto i millecinquecento metri di quota. Il nome ne rivela la natura, in sostanza quella di un vasto prato sospeso proprio sull’orlo (ör/ öir) del pendio coperto di boschi, che va giù a capofitto verso il paese di Aquila. Io, ma probabilmente non sono il solo, continuo a chiamarlo impropriamente Prato d’Oro, perché questo ampio terrazzo naturale cosparso di pascoli era una preziosa riserva di foraggio per i contadini del posto, confrontati con un territorio, quello bleniese, per oltre il cinquanta per cento ricoperto di boschi e terreni improduttivi, dove anche una manciata di erba valeva oro. Franco Vanzetti, di Dangio, fa il contadino da quando è nato e continua a farlo anche da pensionato. Non proprio attivamente, nel senso del munger
mucche, fare il formaggio o spazzar letame, ma per l’eredità che lascia a chi gli è succeduto, a quei resistenti che, con grande passione, rimangono abbrancati alle origini e a quell’agricoltura di montagna tanto essenziale quanto densa di sacrifici, mal retribuita e bistrattata dalle circostanze, contingenti o meno. E poi, lui, quel mestiere se lo porta dentro, quasi fosse scolpito nell’anima, come una sorta di missione di cui parla senza nascondere la commozione. Quando l’avevo conosciuto, amava definirsi l’ultimo contadino nomade della Valle di Blenio, anzi, «probabilmente di tutto il Ticino», aggiungeva con fierezza. Sì, perché Franco e la sua mandria erano in perenne movimento. Dal piano, al monte, all’alpe e viceversa. In un continuo trasmigrare, che gli permetteva di sfruttare nel modo più razionale possibile i pascoli e le riserve di foraggio. In un anno, sei transumanze. Roba da Guinness dei primati. Ricordo quella, a metà luglio, dal pre-alpe di Garzott specchiato nel lago di Luzzone, all’alpe di Motterascio, disteso sulle dolci gobbe fiorite che annunciano l’altipiano della Greina. Con il fiato sospeso, avevo seguito la quarantina di mucche sullo stretto sentiero che taglia obliquamente il fianco della montagna, alto, sopra l’acqua nera del lago. Bastava un passo falso, a una bestia, per rotolar giù dal dirupo e sfracellarsi sulle rocce. E non sarebbe stata la prima volta. In quell’occasione, mi ero meravigliato vedendo la cautela e la disciplina con cui la mandria procedeva sopra il burrone. Più su, quando la gola finisce e la montagna si apre nella Val Garzòra, le mucche si erano messe a correre per il sentiero, fiutando l’erba tenera della Greina che le aspettava là in alto. Attorno alla metà di settembre, quando i pascoli ormai radi di Motterascio si svegliano il mattino coperti da un velo ghiacciato di brina, la mandria tornava giù a Garzott, vi rimaneva per un paio di settimane e poi via, di nuovo, verso Pradóir, dove passava l’inverno. Agli ultimi di gennaio, il ritorno in paese, a Dangio, fino al tardo aprile, poi su di nuovo, Pradóir, Garzott, Motterascio… Nel passato, la pratica del nomadismo coinvolgeva l’intero mondo contadino e lo spostamento del bestiame era una sorta di rito, rigorosamente codificato. Si chiamava carent, scrive Guido Bolla nella sua Storia di Olivone, e ul dì d’carent, di solito un venerdì o un sabato, era un giorno di festa annunciato la sera della vigilia con fuochi di gioia.
Il sentiero, che sale a Pradóir, dopo Cregua di Dangio è piuttosto ripido e monotono, ma il paesaggio che ci aspetta all’arrivo compensa largamente la fatica. Qua e là, lungo il percorso, la vista si apre sulla valle, i villaggi della sponda destra del Brenno, la regione del Nara e il profilo di cime, che le fanno da corona, il pizzo Erra, il Molare, la Punta di Stou e quella di Larescia, con il suo cubo-rifugio del Nido d’Aquila. Al Piano di Garè siamo più o meno a metà strada. Un pugno di rustici ben riattati all’ombra di vecchi noci, aceri colorati e ciliegi dai tronchi tormentati. Da qui scopri la Val Soi, che sprofonda nel massiccio dell’Adula. La vetta bianca si intravvede appena, ma si racconta, che, sul finire dell’Ottocento, il suo ghiacciaio faceva ancora capolino sporgendosi sopra il crinale del Laghetto e la gente di Dangio, la notte, poteva sentire il boato cupo dei seracchi, che collassavano precipitando giù nella valle. Con un ultimo sforzo, si rosicchiano i 200 metri di dislivello mancanti e si arriva a Pradóir. Il sentiero scorre in mezzo ai pascoli, dove sonnecchiano alcune mucche, che mi guardano passare incuriosite con quei loro languidi occhioni. Attorno, le cascine e le stalle addossate al limite del bosco di conifere, la Faura de Pradóir, che abbraccia il monte, proteggendolo dalle rocce minacciose della Cima di Pinadee. Verso nord, una distesa di erba giallognola, sfregiata da una fiammata rossa, un faggio, forse, da lontano non so distinguerlo. Dietro, disegnati sull’orizzonte, l’incavo del Lucomagno, la conca del Döttra, il Pizzo Rossetto, in secondo piano lo Scopi, la Cima della Bianca, il Medel e, un po’ più vicino, la cuspide
inconfondibile del Sosto. Lo ricordo ammantato di neve, Prato d’Oro, proiettato contro un cielo di piombo, un gennaio agli sgoccioli di tanti anni or sono. Esaurite le scorte di fieno, Franco stava preparando la transumanza verso il piano. Ero rimasto qui un paio di giorni, meravigliandomi, quando, la sera dal cielo avevo visto cadere fiocchi dorati, mentre il sole spennellava la Bassa del Nara. E avevo apprezzato una volta di più le qualità e la sensibilità di quell’alpigiano tutto d’un pezzo, il suo rispetto per l’uomo e la natura e l’amore per le bestie, che in fondo, ripeteva, «sono il mio capitale». La Regina, ferita a una gamba, l’aveva fatta scendere a valle appesa al cavo dell’elicottero («sarà contenta anche lei di tornare a casa in pochi minuti»), il vitellino spedito con la teleferica e poi con Rosette, la sua giovane aiutante argoviese, aveva scavato un sentiero dove la neve era più alta e ricoperto di terra le lastre di ghiaccio insidioso per rendere più sicura la discesa. È stato il primo, Franco, ad avvalersi della cooperazione di donne, studentesse o neolaureate, soprattutto svizzero-tedesche, con la passione per la natura e gli animali, desiderose di farsi un’esperienza sull’alpeggio. Una novità in un mondo fino ad allora prettamente maschile. Il nostro contadino nomade, al tempo stesso pragmatico e idealista, ma soprattutto lungimirante, è stato un precursore dei cambiamenti profondi avvenuti negli ultimi decenni nell’agricoltura di montagna. Già agli inizi degli anni Sessanta, sperimenta l’uso dei fermenti lattici, promuove, spesso avversato, nuovi metodi di fabbricazione del formaggio (il suo vincerà la medaglia d’argento all’E-
sposizione nazionale di Losanna del 1964), cura il bestiame con l’omeopatia e punta sulla produzione biologica, molto prima che si inizi a parlarne. Franco mi sta aspettando. Contento. Non che gli manchi la compagnia. Tutti i giorni c’è qualcuno, che sale a trovarlo. È così, quando uno ha un cuore grande. Il fuoco scoppietta nel camino, sulla stufa a legna l’acqua borbotta nella pentola. Dal balcone il panorama è grandioso. Appesi contro il muro, lì fuori, alcuni campanacci di bronzo, con il suo nome, le date e le figure di fiori, mucche, capre e gli stemmi della Svizzera e del Ticino. «Come va?» Gli chiedo. «Non male. Ormai le gambe non sono più quelle di una volta, risponde, faccio solo qualche giretto appoggiandomi al bastone». Ho notato, arrivando qui, un paio di sedie sistemate in posizione strategica, al limitare dei prati, dove la vista si apre sulla valle. Due passi e poi si siede e sta lì a controllare, come dice lui, quello che succede là sotto, in paese. Da quando è andato in pensione, sei o sette anni fa, vive buona parte dell’anno a Pradóir. Scende solo quando incomincia a fiutare l’aria di neve, che scivola giù dalle cime. Allora viene a prenderlo con il quad, il Donato, il contadino che gli ha affittato l’azienda. È contento, Franco, del Donato, «perché, almeno, quello che ho fatto in tutti questi anni non è finito in niente». E poi può ancora vedere le sue mucche, quando salgono a pascolare quassù. Sulla parete dietro la panca, tante fotografie, con le amiche e gli amici venuti a trovarlo, i collaboratori che sono stati al suo fianco qui e sull’alpe, le sue bestie, qualche spicchio di paesaggio. Ce n’è una con lui, giovane, in piedi sul ponte di legno, che ha costruito con le sue mani, sopra un torrente nella Greina, dopo che una delle sue aiutanti c’era cascata dentro, buscandosi la polmonite. Tanti ricordi, che rievoca con gli occhi lucidi. Lui però non vive di ricordi. Guarda avanti, si interroga sul futuro, più che suo, di questo mondo, che non va per niente bene. Non è più l’ultimo contadino nomade, ora, Franco, ma per me rimane il contadino filosofo, con i suoi pensieri profondi, l’acutezza dei ragionamenti, l’apertura di spirito e la grande esperienza di cui ti fa partecipe. Il cielo intanto si è sbiancato, riflettendo quella lucentezza che ammoscia tutti gli altri colori. È tempo di tornare al piano. Un saluto, la promessa di rivederci presto e mi metto in cammino.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Travel onlife
A scuola di viaggio
Viaggiatori d’Occidente Così ci si muove all’interno di questa nostra società iperconnessa Claudio Visentin
in uno scenario di numeri esplosivi: nel 2050 una persona su due al mondo si recherà all’estero (oggi solo una su sette). L’intelligenza artificiale, coi suoi algoritmi sofisticati, seguirà ogni tappa del viaggio proponendo soluzioni in grado di migliorare l’esperienza del turista e aumentare la propensione alla spesa. Sarà un turismo «urbano» (+47% tra il 2012 e il 2018), con soggiorni sempre più brevi e attrazioni create con la realtà aumentata e virtuale. Il racconto sui media è ormai parte del viaggio stesso: secondo uno studio di Wyndham Destinations, il 22% dei viaggiatori acquista un particolare itinerario avendo in mente proprio la possibilità di ben figurare sui social. Da qui l’offerta di tende sospese, eremi chic, case di design sugli alberi e altri sfondi instagrammable. La memoria e l’orientamento, per citare solo due facoltà comuni ai grandi viaggiatori del passato, serviranno molto meno. In ogni momento l’intelligenza artificiale ci darà tutte le informazioni per trovare il tragitto migliore, acquistare il biglietto aereo più conveniente o chiedere informazioni sulla nostra camera d’albergo nella lingua del posto, con minimi margini di er-
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Che cosa significa essere umani nell’era digitale? Nel 2014 un gruppo di studiosi di varie discipline (antropologia, computer science, neuroscienze, politica, sociologia e psicologia) coordinato dal filosofo Luciano Floridi (Internet Institute dell’Università di Oxford), nell’ambito di un progetto della Commissione europea, pubblicò «The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era» (facilmente disponibile in rete). Nonostante fosse un testo di poche pagine, «The Onlife Manifesto» aprì una nuova prospettiva, segnalando quattro fondamentali trasformazioni del mondo contemporaneo: l’attenuarsi della distinzione tra reale e virtuale; i sempre più incerti confini tra uomo, macchina e natura; il passaggio dalla scarsità all’abbondanza di informazioni; la nuova importanza delle interazioni nel definire la nostra identità. «The Onlife Manifesto» supera la tradizionale contrapposizione tra favorevoli e contrari alle nuove tecnologie. Le macchine sono ormai parte stabile della nostra vita quotidiana e per disegnare il futuro bisogna comprendere le
novità senza cadere da un lato in paure irrazionali («Il digitale ci deruba delle esperienze reali!») dall’altro in un infondato ottimismo («Il Web risolverà tutti i nostri problemi!»). Il neologismo – Onlife (Online + Life) – fu coniato per indicare la profonda trasformazione della condizione umana in una società iperconnessa, dove ormai ha poco senso la distinzione tra online e offline. Tutto dev’essere ripensato. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) pongono sfide inedite sul piano etico, legale e politico; nel nuovo contesto concetti chiave come proprietà, privacy, attenzione e responsabilità devono essere nuovamente definiti. Il «Manifesto» prefigurava proprio il mondo del 2020. Oggi queste idee vengono declinate in diversi campi e tra questi il turismo, rivoluzionato in profondità dalle tecnologie con nuove forme di comunicazione, prenotazione, acquisto, esperienza. Per questo la più importante fiera italiana del settore – BTO Buy Tourism Online, Firenze 12-13 febbraio 2020, www.buytourismonline.com – quest’anno parlerà proprio di Travel Onlife. Le novità sono impressionanti,
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laboratorio con Scuola Club Migros Locarno
rore. Oppure ci consiglieranno gli altri viaggiatori: il 57% dei millennial orienta le proprie scelte di viaggio sulla base delle recensioni trovate in rete, ritenute più autorevoli e vissute rispetto alle indicazioni proposte dalle fonti ufficiali. Tutto sarà più facile, veloce, efficace. Nel 2020 i pagamenti digitali supereranno i 700 miliardi e non solo il contante, ma le stesse carte di credito potrebbero essere presto superate. In Cina i portafogli digitali (Digital wallet) sono la prima forma di pagamento. In Svezia un microchip sottopelle (sperimentato su oltre cinquemila cittadini) elimina il bisogno di contante per le transazioni quotidiane. Negli alberghi e negli aeroporti il riconoscimento facciale al check-in e il frequente ricorso ai robot per il servizio sono già utilizzati in molti Paesi orientali. Anche gli ambiti più tradizionali e materiali – come l’enogastronomia, in rapida crescita – si aprono alle nuove tecnologie. Per esempio un’app di Visual Translation (Google Translate tra le tante) ci permette di tradurre un menu dopo averlo inquadrato con la fotocamera dello smartphone. E poiché i viaggiatori tendono a usare le stesse app della vita quotidiana, dopo aver prenotato un appartamento con Airbnb potrebbero usare un servizio di food delivery non per pizza o kebab, ma per ordinare un prodotto del territorio in un ristorante tipico. E la tecnologia blockchain, abitualmente usata per le criptovalute, potrebbe essere impiegata per garantire la tracciabilità degli ingredienti utilizzati. Al di là di questi sfavillanti esempi, resta tuttavia cruciale lo sforzo di mantenere l’uomo al centro dell’esperienza del viaggio. Pur con tutta la preparazione tecnologica, il momento della verità in ogni esperienza turistica resta il rapporto – unico, irripetibile – col luogo e con chi lo custodisce. L’obiettivo è allora superare la contrapposizione tra macchine e umani (o peggio la subordinazione degli umani alle macchine in un mondo dominato dall’intelligenza artificiale) e utilizzare invece la tecnologia al servizio di viaggi sempre più interessanti. Ci riusciremo?
Il viaggio ci rivela la bellezza del mondo e al tempo stesso ci trasforma, apre nuove prospettive nella nostra vita. Per questo il laboratorio dedicato all’arte di viaggiare – organizzato da Scuola Club Migros in collaborazione con «Azione» – è ormai diventato un appuntamento regolare per i nostri lettori (ai quali è riservato anche uno sconto sull’iscrizione). Lo proponiamo ora per la prima volta a Locarno, senza cambiare la formula originale. Impareremo come progettare un viaggio interessante, come prendere appunti strada facendo, come rielaborare quanto visto dopo il ritorno a casa… La scrittura è il filo conduttore del laboratorio (combinata con la fotografia nel reportage), con esercizi divertenti, adatti ai principianti al pari di chi ha già qualche esperienza di scrittura. L’insegnante è Claudio Visentin, il fondatore della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it), conduttore radiofonico per Rete Due, docente universitario e curatore della nostra rubrica «Viaggiatori d’Occidente». È il corso perfetto per chi vuole imparare a raccontare i propri viaggi in forme coinvolgenti e appassionanti. Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Gugelhopf all’arancia sanguigna Dolce vegetariano Ingredienti per 14 porzioni (per uno stampo da gugelhopf di circa 2 l e 25 cm di Ø): 2 arance sanguigne, non trattate · 250 g di burro, morbido · burro e farina
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
per lo stampo · 1 bustina di zucchero vanigliato · 220 g di zucchero · 1 presa di sale · 4 uova · 250 g di farina bianca · 50 g di cacao in polvere · 2 cc di lievito in polvere · 1,5 dl di latte intero · 2 c di zucchero a velo. 1. Grattugiate finemente la scorza di un’arancia sul burro. Pelate le arance a vivo e tagliatele a dadini, raccogliendo il succo che metterete da parte. 2. Scaldate il forno a 180 °C. Imburrate e infarinate lo stampo. 3. Montate a spuma il burro con lo sbattitore elettrico. Aggiungete lo zucchero vanigliato, lo zucchero e il sale e lavorate il composto per circa 3 minuti. Unite le uova una alla volta. 4. Mescolate la farina con il cacao e il lievito e incorporatene un cucchiaio per volta. Aggiungete il latte, poi incorporate con cautela i dadini d’arancia. Versate l’impasto nello stampo. 5. Cuocete il gugelhopf al centro del forno per circa 1 ora. Controllate la cottura infilando uno stuzzicadenti nel gugelhopf: se non resta attaccato nulla è cotto. Lasciate riposare nello stampo per 10 minuti, poi sformate il gugelhopf e lasciatelo raffreddare. Mescolate il succo d’arancia messo da parte con lo zucchero a velo e glassate il gugelhopf, poi lasciate asciugare la glassa. Preparazione: circa 25 minuti. Cottura in forno: circa 1 ora. Raffreddamento:
circa 1½ .
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Ambiente e Benessere
Doris, Michela, Lara: le tre regine Sport Cercasi disperatamente Re: Tiski ci prova, ma l’impresa è titanica e la concorrenza gigantesca
Giancarlo Dionisio Le cifre parlano chiaro. In Ticino ci sono 55 sci club, ma sono solo 16 i ragazzini e le ragazzine che praticano lo sci competitivo sotto l’egida della Federazione di Sci della Svizzera Italiana. Quest’ultima, adeguandosi alle lusinghe del modernismo anglosassone, ha trasformato il proprio nome in Tiski. Ma la sostanza non cambia. La stragrande maggioranza dei club agisce nell’ambito dello sport di base, consentendo a giovani, adulti e famiglie di trascorrere qualche giornata di salute e di divertimento sulle piste. Ci può stare. Qualcuno potrà obiettare che si tratti di vecchia retorica stantia, ma è fuori di dubbio che la pratica dello sport faccia bene alla salute individuale e collettiva. Da un po’ di tempo le sorti supreme dello sci alpino competitivo ticinese sono rette da Mauro Pini. Senza nulla togliere a chi lo ha preceduto, e che ha svolto un lavoro egregio, sorge la tentazione di farsi ingolosire. In fondo Mauro è una sorta di Re Mida dello sci. Ai suoi esordi nel grande Circo bianco seppe riportare il nome della Spagna ai vertici mondiali. Chi non ricorda Maria Rienda Contreras, che per alcune stagioni duellò con le migliori gigantiste del globo? Ci fu poi il periodo Lara Gut, quindi quello delle ragazze rossocrociate, e anche quello dei maschi, fra cui un funambolo neocastellano che risponde al nome di Didier Cuche. Infine il capolavoro. Mauro Pini raccolse a bordo pista una Tina Maze, mentalmente stanca e tecnicamente in perdita di velocità, la prese per mano, e la condusse fino all’oro olimpico. Come non sperare quindi che uno
L’ultima regina rossoblù: Lara Gut, medaglia di bronzo alle Olimpiadi del 2014, sul podio con l’elvetica Dominique Gisin, vincitrice dell’oro a pari merito con la slovena Tina Maze. (M. Smelter )
o una dei 16 competitori ticinesi non possa ripercorrere questa via? Non sarà semplice. Pragmaticamente, il Responsabile della Federazione non nega a nessuno questa possibilità. E confida molto sul senso di responsabilità dei due allenatori professionisti, Alessandro Lazzarini e Patrick Schranz, così come sull’apporto di tutto lo staff. Chi guida giovani che appartengono a una élite, deve essere consapevole del fatto che in partenza, in quanto esseri umani, non hanno nulla in meno rispetto a tutti gli altri. Si tratta di trovare le adeguate alchimie di lavoro. Si tratta
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L’optimum, sostiene Mauro Pini, sarebbe poter disporre di una pista attrezzata per allenamenti in sicurezza, da novembre ad aprile. Ciò significherebbe attivare impianti di innevamento programmato a tutto campo per 5-6 mesi l’anno. Sul piano finanziario, infine, le esigue dimensioni della nostra realtà, portano inevitabilmente a un budget globale che neppure lontanamente può competere con quello di altre realtà nazionali e internazionali. I giovani ticinesi hanno potuto partecipare, la scorsa estate, a un campo di allenamento a El Colorado, in Cile. Si è trattato di un’esperienza profi-
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Per difendersi dai predatori cosa fa il pesce palla? Per scoprirlo rispondi alle definizioni poi leggi nelle caselle evidenziate. (Frase: 2, 6, 12, 5)
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anche di offrire loro le migliori condizioni. Ed è soprattutto in questo ambito che sorgono le differenze rispetto ad altre realtà. Pensiamo ad esempio a cantoni come Grigioni, Vallese e Berna, oppure ad altri paesi come l’Austria. Nella Svizzera Italiana ci sono delle condizioni oggettive che non facilitano la crescita dei nostri ragazzi. Anzitutto la legge dei numeri. Se invece di 16, i nostri sciatori di punta fossero 160, ci sarebbero maggiore concorrenza interna e maggiore selezione, di conseguenza il livello ne risulterebbe innalzato. In secondo luogo, pesa la questione piste.
cua e arricchente, sia sul piano tecnico, sia su quello personale, ma quasi totalmente finanziata dalle famiglie. Quindi, complimenti vivissimi anche ai sacrifici dei genitori. Se da un lato possiamo affermare che il campione singolo, il giovane dal talento straripante, può (ma non necessariamente deve) sbocciare ovunque, è altrettanto vero che un movimento lo si sviluppa là dove le condizioni quadro sono ideali. Per questa ragione i nostri ragazzi saranno chiamati a compiere sforzi e sacrifici supplementari, come ad esempio lasciare il Ticino sui 15 anni, per proseguire la formazione nei costosissimi Ski Gymnasium d’Oltralpe. Riusciranno a reggere e a emergere? Un «in bocca al lupo» è il minimo che il mondo dello sport possa offrire loro? Sarà un re, oppure di nuovo una regina il prossimo campione ticinese del grande Circo bianco? Credo che il pubblico degli appassionati non starà a guardare di fino, pur di avere qualcuno dei nostri per cui palpitare. Il fatto che finora il Ticino abbia acceso tre stelle, è probabilmente figlio del caso. È vero che numericamente, in campo femminile, la concorrenza su scala mondiale, è inferiore rispetto a quella fra i ragazzi, ma per arrivare ai livelli di Doris De Agostini, Michela Figini e Lara Gut, è necessario avere tutto: talento, classe, tecnica, forza, mobilità, tenacia, adattabilità, capacità relazionali, e molto altro ancora. Si tratta di caratteristiche universali, ascrivibili tanto alle donne quanto agli uomini. Quindi forza! Ben venga una quarta regina! E se proprio non si riuscisse a far salire sul trono un re targato Ticino, ci accontenteremmo con gioia di un principe rossoblu.
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
ORIZZONTALI 1. L’attrice Argento 4. Piena d’aria 9. È peggio che tardi 10. Ha la chiglia affusolata 11. Simbolo chimico del plutonio 12. Ricoveri per navi 13. Una consonante 14. Vorace, avida 16. Il dei tali... 17. Stadio d’altri tempi 18. Le misure degli ingredienti 20. L’avanzata... dei nonnini 22. Un’attrice di nome Ornella 23. Due nel quadro 24. Alberi ad alto fusto 26. Due vocali 27. Imposta... che non si paga VERTICALI 1. Vasti, spaziosi 2. Un bagno di vapore 3. Elisabetta regnante 4. Lago italiano 5. Vergogna, disonore 6. Pronome personale 7. Di stoffa ... fine 8. Lo sono i ginnasti 10. Palchi quelle del cervo 12. Un’opera del Pascoli 13. La sua azione è al 4 orizzontale 15. L’indimenticabile Garbo attrice 16. Nelle torte e nel timballo 19. Entrambi 21. L’ultimo della covata 23. Consonanti in quarta 25. Preposizione francese Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Politica e Economia Regionali italiane L’Emilia-Romagna resta a sinistra con la riconferma di Stefano Bonaccini e vede la sconfitta della Lega, mentre la destra vince in Calabria con Santelli
Terrorismo jihadista nel Sahel La partita mortale che si sta giocando nell’Africa sub-sahariana è ancora più importante della Libia. Dopo la sconfitta dell’Isis in Iraq e in Siria questo è diventato il fronte principale della loro azione
Che ne è della Corona? L’allontanamento di Harry e Meghan dalla Royal Family è stato come il distacco di una placca tettonica
Votazioni federali Il 9 febbraio si vota sull’iniziativa per pigioni moderate e sul divieto di discriminare gay, lesbiche e transessuali
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Un piano, ma non per due Stati
Medio Oriente Il manifesto Trump per la pace fra Israele e la Palestina è favorevole alla politica espansionistica
di Netanyhau e ostile alla nascita di un’entità statale palestinese
Lucio Caracciolo Il piano di Trump per Israele e Palestina fotografa la realtà di fatto. Tra Mediterraneo e Giordano non c’è che un solo Stato, quello ebraico. Dentro a questo Stato, sotto stretta vigilanza israeliana, alcune enclave palestinesi aggruppate intorno a Ramallah in Cisgiordania e collegate per vie improbabili alla Striscia di Gaza. Forse questo piano non sarà mai codificato, o forse sì. L’importante è sapere che salvo una nuova guerra, in cui Israele sia definitivamente abbattuto e annichilito, non ci sono alternative. La diplomazia internazionale, inclusa retoricamente anche quella americana, continua a parlare di due Stati. Di fatto, questa ipotesi è decaduta da almeno un ventennio. In particolare, da quando l’amministrazione di George W. Bush concordò con
il premier israeliano Ariel Sharon di gelare la situazione creata sul terreno e di escludere qualsiasi limite agli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Nel frattempo, molte di queste colonie sono diventate cittadine, alcune vere e proprie città fortificate. Protette da un muro di impressionante cogenza, costruito asseritamente da Israele per bloccare gli attentati terroristici palestinesi. Questo muro esercitava ed esercita un’altra e forse più importante funzione: quella di delimitare lo spazio ebraico rispetto a quello arabopalestinese nei territori biblicamente definiti da Gerusalemme Giudea e Samaria. Dopo l’annuncio alla Casa Bianca, Jared Kushner, il plenipotenziario di Trump in questi negoziati, ha fatto sapere che Washington non vuole avviare l’implementazione del progetto prima del voto israeliano di marzo.
Sicché Netanyahu ha dovuto rinunciare all’idea di approvare formalmente il piano Trump in una seduta speciale del Consiglio dei Ministri prevista il 2 febbraio. Se quindi questa idea di stabilizzazione della situazione sul terreno doveva servire al premier israeliano per migliorare le sue chance nella prossima competizione elettorale, l’effetto sarà mitigato. Ma l’aspetto forse più interessante di questa fase è la reazione molto variegata del mondo arabo e islamico. È chiaro che prima di annunciare un piano di questa portata, gli americani non potevano non consultare (meglio: avvertire) i loro soci arabi. I quali però si sono necessariamente divisi su una questione troppo scottante per le loro opinioni pubbliche. In particolare, la Giordania ha reagito molto vivacemente, come d’altronde era inevitabile. Data la forte componente palestine-
se della sua popolazione, re Abdallah era costretto, quantomeno, ad alzare la voce. Consapevole del rischio che una crisi in Cisgiordania avrebbe immediate ripercussioni sul fronte interno. Certo, ritrovarsi anche sotto il profilo del diritto interazionale lo Stato d’Israele lungo tutta la frontiera del Giordano è un cambiamento fondamentale della collocazione geopolitica del suo Regno. Diverse le posizioni assunte da altri paesi arabi. In particolare, l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Confermando quanto già si sapeva, non sono scesi in campo per solidarizzare con i «fratelli» palestinesi, ma hanno sostanzialmente, sia pure con prudenza, dato luce verde all’intesa raggiunta da Trump e Netanyahu. Ovvia invece la reazione dei Fratelli Musulmani in tutta la regione e del loro leader effettivo, il presidente turco Erdogan.
Sul piano geopolitico, interessanti tra l’altro le «concessioni» israeliane ai palestinesi. Lo Stato ebraico formalizza il carattere arabo di alcuni modesti territori nel nord, nell’area del cosiddetto Triangolo della Galilea. Obiettivo: rendere più omogeneo Israele, liberandolo dalla presenza di circa 100mila arabi in un’area strategicamente sensibile. Importante anche la cessione di qualche pezzo di deserto nel sud-ovest, che non avrà effetti etno-demografici particolari, ma simboleggia la disponibilità di Israele a cedere qualcosa (molto poco) in cambio della legittimazione dei suoi possedimenti cisgiordani. I prossimi mesi e anni ci diranno se questo progetto diventerà realtà. Di sicuro oggi possiamo constatare che la questione palestinese, relegata sino a ieri a problema umanitario, torna ad avere una sua pregnanza geopolitica.
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Politica e Economia Stefano Bonaccini vincitore del centrosinistra in Emilia Romagna. (Keystone)
Con Zingaretti ritorno alle regole Il segretario del Pd Nel 2018 lanciò
la sua candidatura per succedere a Renzi
Sogni infranti
Regionali in Emilia (e Calabria) Il voto ha penalizzato
Matteo Salvini ma la vera vittima è il Movimento 5 Stelle
Alfredo Venturi Si era detto sicuro di stravincere ma deve accontentarsi di registrare che per la prima volta, nella lunga storia dell’Emilia rossa, si è profilata la possibilità di un cambio di testimone. Il fatto è che gli elettori hanno respinto a larga maggioranza questa prospettiva. A sua parziale consolazione Matteo Salvini saluta la netta vittoria del centrodestra nell’altra regione chiamata al voto, la Calabria. Ma anche qui grava un’ombra sulle fortune leghiste: infatti il successo è dovuto principalmente agli alleati di Forza Italia. Il partito di Silvio Berlusconi, altrove in fase declinante, con alcune liste direttamente collegate è stato scelto da oltre un quarto degli elettori calabresi garantendo il successo alla candidata forzista Jole Santelli. Ma soprattutto il grande sogno di ripetere a Bologna e dintorni il formidabile exploit delle elezioni europee del 2019 e dunque espugnare la roccaforte storica della sinistra, è rimasto nel cassetto. Il Partito democratico ha ripreso la posizione e il ruolo di prima forza politica dell’Emilia-Romagna che gli era stato strappato dalla Lega. I sondaggi prevedevano un risultato testa a testa e una lotta all’ultimo voto, e invece otto punti percentuali dividono il vincitore Stefano Bonaccini dalla sfidante Lucia Borgonzoni.
Il centrodestra invita Mattarella a prendere atto che l’attuale maggioranza in parlamento non corrisponde più a quello che è il Paese A nulla dunque sono serviti la martellante e tonitruante campagna elettorale di Salvini, il suo instancabile peregrinare fra le città e i villaggi emiliani e romagnoli, le sue effusioni nei confronti di salami e mortadelle in omaggio alla tradizione gastronomica locale, né certe sbavature caratteriali come quel suo aggrapparsi al citofono, davanti alle telecamere, per interpellare una famiglia tunisina della periferia di Bologna: mi risulta che voi spacciate droga, è vero? Né gli è servito violare sui social il silenzio elettorale d’obbligo alla vigilia del voto, e neppure gli ha portato fortuna quello striscione che troneggiava dietro di lui sul palco di Bibbiano: «Giù le mani dai bambini!». Bibbiano è un piccolo paese nei pressi di Reggio amministrato dalla sinistra, dove è in corso un procedimento giudiziario per uno scandalo di adozio-
ni forzate che chiama in causa coperture politiche. La gente del posto non ha gradito l’uso che della vicenda ha fatto Salvini: Bibbiano è fra i luoghi in cui la sua messe di voti è stata più scarsa. Si ritiene che gli eccessi e le cadute di stile abbiano contribuito non poco alla sconfitta, la prima nella sua impetuosa arrampicata al potere. Infatti all’indomani del voto serpeggiava nella Lega un sordo malumore per il suo modo di gestire la sfida emiliana: stavolta ha esagerato, confidavano alcuni. Inoltre il capo leghista ha commesso lo stesso errore che costò il potere a un altro Matteo, l’ex presidente del consiglio Renzi. Proprio come Renzi in occasione del referendum costituzionale del dicembre 2016, Salvini ha trasformato questo voto regionale in un plebiscito sulla sua persona. Inoltre lo ha collegato a un progetto politico, la spallata al governo giallorosso di Giuseppe Conte, che non ha niente a che vedere con le tematiche regionali. Mentre Salvini sbraitava i suoi slogan oscurando di fatto la sua stessa candidata, il presidente uscente Bonaccini enumerava con calma olimpica i successi della sua amministrazione in quella che è una fra le più floride regioni italiane. Contrapponendo il buon governo di Bologna alle mire salviniane sul mal governo di Roma. Poi ha fatto notare, a risultato acquisito, che «l’arroganza non paga». Il contrasto fra un’esagitata campagna elettorale e un approccio realisticamente pacato ha finito con il premiare quest’ultimo. È balzato in primo piano, in questa vicenda politica, un attore non direttamente impegnato nel raccogliere voti ma non per questo meno decisivo. Ha influito profondamente sulle scelte degli elettori quel movimento delle sardine che è nato proprio in Emilia, e proprio per contrastare l’invadenza e le intemperanze verbali di Salvini. Non a caso la notte dello spoglio un raggiante Nicola Zingaretti, segretario del Pd, si è affrettato a ringraziare pubblicamente il nuovo protagonista del dibattito italiano. Quelle piazze affollate di giovani e meno giovani che chiedevano ai cittadini coinvolgimento e partecipazione, e ai contendenti serietà, compostezza, responsabilità, come una ventata di aria fresca hanno rivitalizzato una politica ormai ripiegata su se stessa, sui suoi vecchi schemi, sulle sue vuote retoriche. È stata una scossa elettrica che ha avuto ragione dell’inerzia di tanti cittadini delusi dalla politica politicante, inducendo una massa di elettori fin qui riluttanti a depositare la scheda nell’urna. Di conseguenza l’affluenza al voto, che alle europee fu di poco superiore al trentacinque per cento, già evidentemente sollecitata dalla rumorosa sfida
salviniana si è quasi raddoppiata avvicinandosi al settanta. Questo voto penalizza dunque Salvini e le sue scomposte ambizioni, ma la vera vittima è il Movimento cinque stelle. Ormai da tempo in vistoso declino come testimoniano i sondaggi d’opinione, in Emilia-Romagna quello stesso partito grillino che il 4 marzo 2018 fu consacrato dagli elettori come prima forza politica nazionale è letteralmente crollato. L’esito del voto lo colloca al di sotto del cinque per cento. Le prime analisi dei flussi elettorali rivelano che oltre ai votanti recuperati dall’aumento della partecipazione sono stati proprio gli elettori delusi dei Cinquestelle a trasmigrare in massa verso i lidi di Bonaccini e del suo Pd. Nelle stanze romane del potere si prende atto dell’ennesimo paradosso: il partito che grazie allo spettacolare risultato del 2018 domina numericamente il parlamento (nonostante alcune defezioni di deputati e senatori grillini che hanno fiutato il vento sfavorevole), si trova nel consenso reale fortemente ridimensionato. Questa situazione provoca due effetti. Il primo è l’opportunità, apertamente rivendicata dai dirigenti del Pd, di rinegoziare i patti di governo all’insegna di un riequilibrio che tenga conto dei mutati rapporti di forza. Zingaretti parla di rilancio e di «fase due» per l’esecutivo Conte, della necessità di mettere a punto una nuova agenda. Si vogliono ridiscutere alcuni temi scottanti, come la controversa normativa sulla prescrizione dei processi o gli altrettanto controversi decreti sicurezza a suo tempo voluti dall’allora ministro Salvini. Il secondo effetto è una richiesta, formulata dalla Lega e dai suoi alleati, al presidente della repubblica Sergio Mattarella. Il centrodestra invita il capo dello Stato a prendere atto che l’attuale maggioranza parlamentare non corrisponde più a quella che elezioni e sondaggi rivelano nel Paese: dunque sciolga le Camere portando i cittadini al voto e anticipando di tre anni la scadenza fisiologica del 2023. Attento custode delle norme costituzionali, Mattarella è invece propenso a rispettarne la lettera, che prevede una durata di cinque anni del mandato parlamentare senza eccezioni legate al mutare del consenso. Ovviamente i Cinquestelle sono d’accordo con lui: in parlamento nulla è cambiato, dicono. È vero, ma molto è cambiato nel Paese: se come è plausibile l’attuale tendenza sarà confermata, la terza forza grillina finirà con il ridursi a un ruolo marginale. E così sull’orizzonte della politica italiana si staglia di nuovo, riveduto e corretto, il caro vecchio bipolarismo: da una parte il centrosinistra guidato dal Partito democratico, dall’altra il centrodestra a trazione leghista.
La Storia potrebbe ricordarlo come l’uomo che ha salvato dall’estinzione il più antico tra gli attuali partiti italiani, tuttavia la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica continua a considerarlo il fratello del commissario Montalbano, fortunato personaggio inventato dalla penna geniale di Andrea Camilleri e trasformato in star internazionale dalla ventennale serie televisiva. È l’amaro destino di Nicola Zingaretti (foto), di quattro anni più giovane del celeberrimo Luca, al quale il diretto interessato risponde con il sorriso di chi se n’è fatta una ragione e tutto sommato ritiene che in fondo sia giusto così. Anzi ha usato questa confusione come schermo dietro il quale proteggere la moglie, le due figlie, lo sconfinato amore per la politica, per cui ha tralasciato l’ambita laurea in lettere.
Zingaretti continua a credere nel lavoro dietro le quinte, nella fatica silenziosa, nel procedere un passo alla volta A differenza del fratellone, che lui tra l’altro sormonta in statura e corporatura, lo Zingaretti segretario del Pd non brilla per carisma, comunicatività, feeling persino in aperto contrasto con il suo segno zodiacale dei pesci. Nella stagione dominata dalla capacità d’incidere, di trasmettere empatia, di lasciare comunque il segno Zingaretti continua a credere nel lavoro dietro le quinte, nella fatica silenziosa, nel procedere un passo alla volta senza avventurismi e salti nel buio. Non pare il profilo di un leader, eppure mai ha perso un’elezione: da presidente dell’Unione internazionale dei giovani socialisti a presidente della Provincia di Roma, a presidente della Regione Lazio con rinuncia a correre da sindaco di Roma. Quando nell’ottobre del 2018 lanciò la propria candidatura per succedere a Renzi in un Pd proveniente dal peggiore risultato elettorale, poco più del 18%, sembrava che gli toccasse liquidare il partito, in cui era entrato poco più che ventenne e che al tempo si chiamava ancora Pci (Partito comunista italiano). Alla crisi incombente Zingaretti ha risposto tessendo la tela della convivenza tra le tante anime del calderone democratico. Ha cercato di ricucire ciò che l’arroganza e i metodi sbrigativi di Renzi avevano sbrindellato. Si è sforzato di rilanciare il senso dell’appartenenza. Ha provato a includere lì dove il suo predecessore si era divertito a rottamare. Il lunghissimo cursus honorum, fatto pure d’incarichi all’apparenza minore, gli ha insegnato a trasformare i problemi in opportunità, le battute d’arresto in spinta per la ripartenza.
La desuetudine ai proclami, l’idiosincrasia per la battuta a effetto gli sono serviti nella gestione di una realtà così controversa e contraddittoria. L’inattesa crisi di governo scatenata da Salvini la scorsa estate non ha prodotto le elezioni anticipate, che a Zingaretti non dispiacevano. Gli avrebbero infatti permesso di plasmare un corpo politico molto più omogeneo di quello che l’aveva eletto segretario, ma che lo teneva in ostaggio essendo nella quasi totalità fedele a Renzi. Le sue speranze sono state frustrate dall’inatteso voltafaccia dello stesso Renzi, capace di lanciare all’improvviso l’alleanza con il detestato M5S nel nome della crociata anti Salvini. È stata la mossa che ha scardinato i progetti sia di Salvini, sia di Zingaretti. Il primo ha finito con l’impiccarcisi all’inseguimento del ribaltone impossibile. Il secondo, al contrario, sull’imprevisto ritorno al governo ha costruito una nuova visione recuperando il rapporto con gli scissionisti di Liberi e Uguali, pochi di numero, però fondamentale ponte di collegamento con la variegata sinistra radicale. Davanti agli umori altalenanti del Movimento, il Pd di Zingaretti si è trasformato nella roccia, alla quale si volevano aggrappare i numerosi italiani contrari al settarismo, all’istigazione all’odio, alla violenza non solo verbale scatenati da Salvini. La cautela di Zingaretti, il continuo privilegiare ciò che unisce una maggioranza tanto eterogenea, la lealtà nei confronti di Conte sono stati valutati un sano ritorno alle regole della politica civile, lontana dalle smargiassate, dalla bugie a ripetizione, dall’insulto. E se Renzi l’ha liberato dalla sua presenza sono occorse tutta la sua capacità d’incassatore per non alienarsi un alleato di governo e tutta la sua esperienza di mediatore per contenere in termini quasi irrilevanti le defezioni. Per il Pd è stato il momento più delicato: i lievi progressi registrati nelle Europee della primavera 2019 (il 22%) potevano essere spazzati via da quel 10%, che Renzi giurava di avere con sé. Nella realtà sono stati molto di meno e già si registrano diversi casi di resipiscenza. Nelle regionali vissute a distanza in Emilia-Romagna e con discrezione in Calabria il successo di Bonaccini è stato corroborato da un Pd spintosi nella regione oltre il 40% con le liste associate e primo partito financo nella desolata Calabria. Zingaretti ne ha tratto la lezione di lasciare il quadro intatto, malgrado il M5S sia ridotto ai minimi termini: dunque, conferma della futura legge proporzionale e nessuna tentazione di maggioritario per non irritare i disperati pentastellati, nessuna richiesta di rimpasto, disponibilità ad accogliere i nemici di ieri trasformatisi in convinti estimatori di oggi. E mai dimenticarsi di essere comunque il fratello del commissario Montalbano, nonostante chi l’avvicini non chiede più se può fargli avere l’autografo di Luca.
AFP
Alfio Caruso
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Politica e Economia
Il prezzo dell’isolamento
Coronavirus Dopo un ritardo iniziale, il leader cinese Xi Jinping ferma la nazione più popolosa del mondo
e si chiude. È una paralisi progressiva programmata dall’alto per bloccare il contagio. Con importanti ricadute internazionali Federico Rampini Cosa rischia la Cina, cosa rischiano il resto del mondo e l’economia globale, per effetto dell’epidemia del coronavirus? Nella migliore delle ipotesi fra tre mesi saremo fuori dal tunnel e il bilancio dei danni sarà stato contenuto in termini ragionevoli. Come nel caso della Sars, 17 anni fa. Nella peggiore delle ipotesi… In realtà nessuno può formulare la peggiore delle ipotesi, perché ogni epidemia è un caso a parte. Tuttavia abbiamo dei precedenti storici su cui ragionare. Il più apocalittico, che cito solo come una «curiosità» storica, è la cosiddetta influenza spagnola che nel 1918-19 fece 50 milioni di morti, un’ecatombe molto superiore alle vittime della Prima guerra mondiale. Altri tempi, in cui la medicina non aveva gli strumenti di oggi. Un paragone vale, però. La spagnola si chiama così non perché sia nata in Spagna, né perché abbia infierito con particolare violenza su quel Paese. In realtà l’epidemia scoppiò altrove e fece più vittime in altri paesi, dalla Francia agli Stati Uniti. Ma a causa della guerra tutti avevano leggi speciali per censurare la stampa e nascosero a lungo il flagello dell’influenza virale. Che divenne di dominio pubblico solo quando ne morì il re di Spagna, Alfonso XIII. La Spagna era neutrale e da lì cominciarono a diffondersi le informazioni. Questo ci ricorda un punto debole nella risposta cinese: com’era accaduto nel 2003 con la Sars, anche stavolta nella Repubblica Popolare le notizie sul coronavirus sono state nascoste. Nel 2003 ci fu una censura che fece ritardare i provvedimenti sanitari di ben tre mesi, questa volta forse il ritardo è stato «solo» di un mese. Ma tutto ciò che sta facendo Xi Jinping viene visto con sospetto da una popolazione abituata a ricevere notizie manipolate dalla propaganda di regime. Alcune proteste di cittadini cinesi che sono riusciti ad aggirare le barriere della censura, evocano addirittura una «sindrome Cernobyl», dal nome della catastrofe nucleare che avvenne in Unione sovietica nel 1986, fu a lungo nascosta dalle autorità, e in qualche modo segnò «l’inizio della fine» per il regime comunista. Il paragone è eccessivo, sotto ogni punto di vista: dal bilancio delle vittime alle colpe del governo. Però anche l’esagerazione è indicativa; quando una società non ha mezzi di esprimere le proprie critiche liberamente e pubblicamente, è come una pentola a pressione senza valvola di sfogo. Le pandemie virali di origini suino-aviarie tendono a nascere in Cina da secoli, per ovvie ragioni: da nessun’altra parte al mondo esiste un laboratorio patogeno così grosso, un bacino umano e animale spesso promiscuo, in condizioni igieniche tuttora scadenti, dove la natura può sperimentare ogni sorta di contagio. La Cina di oggi ha 1,4 miliardi di abitanti, e nonostante la modernizzazione conserva alcune tradizioni antiche incompatibili con la prevenzione delle epidemie: in
In Cina i blocchi imposti al traffico hanno fatto calare del 42% i viaggiatori in aereo e treno. (AFP)
particolare i cosiddetti «mercati umidi», cioè i mercati all’aperto, dove sulle bancarelle dei venditori ci sono sia carni macellate, sia animali vivi. Tra questi ultimi abbondano selvaggine di ogni genere, inclusi gli animali che possono trasmettere virus all’uomo (per il coronavirus sono stati identificati diversi sospetti, dal pipistrello allo zibetto). Ho un ricordo personale della Sars: il 2003 era l’anno del mio trasloco dalla California alla Cina, che dovetti rinviare. La differenza evidente rispetto al 2003 riguarda la dimensione della Cina e quindi l’impatto sulle nostre economie. 17 anni fa era solo la quarta economia mondiale, oggi è la prima a parità con l’America. La sua dimensione si è praticamente quadruplicata. Poiché siamo in pieno panico iniziale da coronavirus, con i casi di contagio che salgono di giorno in giorno anche al di fuori del focolaio originario (provincia dello Hubei, 35 milioni di abitanti, Cina centrale) e le previsioni sono impossibili, ecco alcuni elementi per stare all’erta senza eccedere nel pessimismo. Differenze dal 2003, in negativo: la crescita cinese stava già rallentando per altre ragioni, prima delle misure eccezionali prese da Xi Jinping. Nei mesi precedenti il coronavirus abbiamo avuto la guerra dei dazi, la crisi di Hong Kong, la peste suina, tre fattori di rallentamento della crescita del Pil (al 6,1% nel 2019 cioè la crescita più debole da 30 anni). Ora si aggiungono i blocchi imposti al traffico che hanno già fatto calare del 42% i viaggiatori in aereo e in treno. La chiusura di luoghi pubblici (dalla Grande Muraglia alla Città Proibita fino alla Disneyland di Shanghai) e di molte catene di ristorazione (MacDonald e Starbucks nella provincia dello Hubei, fra le straniere) fanno prevedere un pesante calo dei consumi interni in un periodo dell’anno in cui i
cinesi spendono molto: il loro Capodanno lunare equivale al nostro Natale, anche per i regali. Altra aggravante rispetto al 2003: oggi la Cina ha un’economia più matura e di conseguenza i consumi pesano molto di più di 17 anni fa, oggi sono circa il 60% del Pil. La frenata nelle spese delle famiglie sarà sentita di più. Ne risentiremo anche noi: il turismo cinese è addirittura 7 volte superiore al 2003, è una fonte di entrate importanti in molti paesi occidentali oltre che asiatici; il lusso italiano o francese secondo uno studio di Bain & Co. ricava il 35% del fatturato da clienti cinesi, molti dei quali fanno shopping durante i viaggi all’estero. Una stima Standard&Poor: un calo del 10% nel turismo provocherebbe un taglio dell’1,5% nella crescita del Pil. Molte multinazionali stanno limitando i viaggi da e per la Cina; o addirittura hanno chiuso le proprie filiali locali affinché i dipendenti restino a casa ed evitino il contagio negli uffici. Dalla Apple alla Ford, è lungo l’elenco di fabbriche chiuse e di multinazionali che devono correre ai ripari perché la loro catena produttiva e logistica è interrotta, mancandovi l’anello cinese che rimane essenziale in moltissime produzioni. British Airways è stata la prima compagnia aerea a sospendere tutti i voli per la Cina intera, poi l’hanno imitata Lufthansa, Swiss, Austrian ed altre; molte aziende prolungano le vacanze del Capodanno Lunare per ritardare il ritorno dei dipendenti. Tutto questo ha un costo economico. Recuperabile, almeno in parte, quando l’emergenza sarà passata. Non esageriamo però l’impatto economico delle epidemie. La Sars del 2003 tolse due punti di crescita al Pil cinese (dall’11,1% al 9,1%), ma solo per un trimestre. Uno studio della banca
JPMorgan sull’impatto per le Borse delle maggiori epidemie mondiali negli ultimi vent’anni indica che in media un mese dopo il picco del contagio i mercati hanno già più che recuperato le perdite. Tra coloro che potrebbero trarne qualche vantaggio c’è Big Pharma: quattro multinazionali farmaceutiche (AbbVie, Johnson & Johnson, Gilead Sciences e Merck) hanno già inviato medicinali in Cina per sperimentare l’eventuale efficacia di prodotti già esistenti. Peraltro molte multinazionali americane che operano in Cina ne stanno approfittando per un’operazione di relazioni pubbliche all’insegna della riconciliazione: Microsoft, Dell, Cargill sono fra le prime ad aver annunciato donazioni e aiuti. Ci sarà un impatto politico del coronavirus? Nella popolazione cinese crescono di giorno in giorno le proteste sui social media, per adesso se la prendono soprattutto con le autorità locali dello Hubei per i ritardi nell’informare e reagire all’epidemia; nonostante la censura anche il governo centrale viene preso di mira. Xi Jinping si sta giocando, all’interno e all’estero, la sua credibilità di leader efficiente e decisionista. Il sistema sanitario cinese non ha fatto gli stessi progressi di altri settori come le infrastrutture. Gli stessi media governativi non possono cancellare immagini di un sistema ospedaliero che appare sopraffatto dalla crisi. La corsa al primato scientifico-tecnologico nella gara con l’America deve tradursi nella capacità di dare benefici alla collettività, per esempio nelle cure mediche. In quanto al rallentamento della crescita che già preoccupava Xi Jinping prima del coronavirus, fino alla fine dell’anno scorso i rimedi già varati erano soprattutto di natura monetaria (più liquidità dalla banca centrale). La tregua con gli Stati Uniti o «accordo di fase uno» ha ridotto
la tensione e doveva parzialmente attutire i danni del protezionismo, prima che intervenisse lo shock-coronavirus. Adesso c’è chi vede la crescita cinese scendere sotto il 5% che sarebbe una soglia pericolosa per un regime che genera consenso attraverso il benessere. La posta in gioco politica è importante, e anche se viene dopo quella sanitaria le due dimensioni sono strettamente legate. Questo spiega anche il comportamento altalenante delle autorità cinesi. Prima c’è stato il solito riflesso, tipico dei regimi autoritari: nascondere le cattive notizie; proprio come l’Iran aveva fatto inizialmente dopo l’abbattimento del jet ucraino, o l’Urss dopo Chernobyl. Non sappiamo – forse non sapremo mai – quanto la colpa del ritardo sia da attribuire esclusivamente alle autorità locali, nella logica per cui i gerarchi di periferia non vogliono «perdere la faccia» verso i loro capi di Pechino. Certo il sindaco di Wuhan viene considerato un irresponsabile, perché tra l’altro organizzò una festa pubblica con alcune migliaia di partecipanti, a contagio già iniziato. Lui stesso ha offerto di dimettersi, accettando di fare il capro espiatorio. Dopo il silenzio iniziale, Xi forse esagera nel senso opposto? Aver messo «in quarantena» 56 milioni di persone è un’operazione senza precedenti nella storia. C’è il rischio di un effetto negativo: più le misure sono estreme e provocano disagi, più cresce la voglia di aggirarle. Tanto più in una popolazione che nutre diffidenza verso il governo. La natura draconiana delle misure decise da Xi dà l’idea dell’importanza di questa sfida: il suo regime paternalistico, tecnocratico, meritocratico ed efficientista, fonda la propria immagine e legittima i propri metodi illiberali grazie ai risultati. In questo caso non può permettersi di sbagliare. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Escalation jihadista nel Sahel
Africa Mentre tutta l’attenzione è focalizzata sulla Libia, l’intera area sub-sahariana (Niger, Ciad, Burkina Faso,
Nigeria e Camerun) rischia di venire destabilizzata dagli attacchi terroristici che stanno flagellando le popolazioni Pietro Veronese Presa com’è dalle sue numerose difficoltà – dall’immigrazione alla Brexit, dalle spinte centrifughe interne alle pressioni geopolitiche esterne – l’Europa non si accorge di avere una guerra alle porte. Non la guerra civile libica, che pure minaccia il suo rifornimento energetico e la stabilità dell’intero Mediterraneo, bensì un conflitto più subdolo e strisciante; meno visibile, ma causa potenziale di una crisi infinita. Sconfitti in Siria e in Iraq, gli estremisti islamici che sognano il Califfato e l’avvento di una feroce dittatura religiosa nel nome di Allah investono ora le loro speranze in una regione molto più vicina ai confini europei.
Sconfitti in Siria e Iraq, gli estremisti islamici che sognano il Califfato si attivano in regioni alle porte di un’Europa che teme nuove ondate migratorie Si tratta di quell’ampio arco di Paesi che si estende lungo la sponda meridionale del Sahara, dalla Mauritania a ovest fino al Ciad a est, passando per il Burkina Faso, il Mali e il Niger, senza trascurare le regioni settentrionali della Nigeria e del Camerun. In tutti questi Paesi sono in corso conflitti armati che vedono una galassia di milizie islamiste, talora numerose e di notevole efficacia operativa, contrapposte a eserciti governativi spesso sgangherati; a contingenti di supporto forniti da altri Paesi della regione; a elementi delle forze speciali Usa in veste di consiglieri militari; e almeno in un caso, il Mali, a caschi blu dell’Onu e a unità militari d’élite inviate dalla Francia. È una somma di conflitti locali; ma sempre più spesso si sovrappongono e agiscono di concerto: il loro effetto destabilizzante, in contesti sociopolitici
precari, è potente. L’intera regione è coinvolta in una crescente crisi umanitaria che nessuno appare in grado di affrontare e le cui potenziali conseguenze per il nostro continente sono fin troppo evidenti. Nell’ultimo biennio la somma delle vittime di queste piccole guerre è stata devastante – oltre quattromila secondo le Nazioni Unite – tra conflitti a fuoco, talora vere e proprie battaglie campali, e attacchi a civili inermi. La gravità della situazione ha indotto il presidente francese Emmanuel Macron a convocare un vertice che si è svolto a Pau, nei Pirenei, il 13 gennaio scorso e che ha riunito, insieme a lui, i governanti dei cinque Paesi maggiormente coinvolti, il cosiddetto G5. A parte l’annuncio dell’invio di altri 220 soldati francesi, non sono da registrare risultati di rilievo. È significativo che dai partner europei, alcuni dei quali (l’Italia) hanno punti di vista molto diversi da quello di Parigi sulla situazione nordafricana e in particolare sulla crisi libica, la questione venga di fatto considerata un problema francese che non li riguarda più di tanto. I Paesi del Sahel, la vastissima regione semiarida che costeggia il Sahara a meridione, dalla sponda atlantica al Sudan, sono da sempre, strutturalmente, esposti e fragili. L’avarizia della natura, la scarsità d’acqua e di risorse, condanna le loro economie alla povertà e gli abitanti a pratiche agricole e pastorali, spesso nomadi, di pura sussistenza. Negli ultimi decenni sono stati vittima di ricorrenti siccità. Con il nuovo secolo un concorso di fattori ha contribuito all’addensarsi di quella che appare ormai come una tempesta perfetta. Il vento di scontento che ha travolto i regimi dell’Africa araba ha soffiato anche qui, provocando in alcuni casi violenti cambiamenti politici. Come altrove nell’Africa musulmana, la propaganda islamista ha trovato terreno fertile in seno a società prive di prospettive e a gioventù che disperano di riuscire a migliorare la propria sorte. Il diffuso fallimento economico ha accentuato la trasformazione delle rotte commerciali attraverso il Sahara in una rete criminale dove
Base militare francese a Gao, nel nord del Mali, operativa contro i gruppi armati dell’Isis. (Keystone)
si traffica di tutto, dalle armi alle vite umane, e di cui i Paesi del Sahel costituiscono il terminale sud. A partire dal 2011, il crollo del regime di Gheddafi in Libia ha riversato a meridione le formazioni armate che lo avevano fiancheggiato ottenendone in cambio favori e protezione. Facendo leva su antichi scontenti, sul ricordo di passate insurrezioni armate e sul nuovo modello di Islam estremista e armato fornito da Al Qaeda e dall’Isis, l’anno seguente esse hanno travolto il Mali, arrivando quasi in vista della capitale e causando l’inizio dell’intervento francese. Da allora le milizie islamiste del nord del Mali, respinte e contenute ma mai definitivamente sconfitte, son diventate un fattore di instabilità permanente. Nell’ultimo scorcio del 2019 la loro attività militare si è intensificata, causando perdite anche nei ranghi del contingente francese. Soprattutto, sono diventate un esempio per gli altri movimenti estremisti della regione. Il Paese maggiormente bersagliato dagli attacchi delle formazioni che si richiamano all’Isis è adesso il Burkina Faso. L’Onu ha nominato un inviato speciale nella regione, il ghanese Mohamed Ibn
Chambas, il quale non fa che lanciare allarmi inascoltati e aggiornare in rialzo i bilanci delle vittime. In Burkina Faso il totale è passato da circa 80 morti nel 2016 a 1800 nel 2019. La strategia dei fanatici musulmani è quella del puro terrore: attaccano mercati di villaggio, chiese, scuole, lasciando sul terreno più corpi che possono prima di ritirarsi. Le forze governative appaiono del tutto insufficienti a far fronte alla sfida. Per la prima volta a fine 2019 le rivendicazioni di queste azioni militari in Mali e in Burkina Faso sono venute da una stessa organizzazione, lo «Stato islamico del Grande Sahara» o ISGS nella sigla in inglese, di esplicita affiliazione all’Isis. Di qui la preoccupazione dei francesi, che dopo sette anni di presenza armata in Mali – con 4500 uomini, senza contare gli oltre 13’000 caschi blu – sono costretti a constatare la relativa inefficacia della loro missione. E l’ansia comincia a serpeggiare nelle diplomazie e tra i responsabili delle strategie della sicurezza europea: cresce il timore che il Sahel precipiti nel caos, che le insurrezioni dei diversi Paesi si saldino tra di loro e alla criminalità che controlla i traffici trans-sahariani, che la violenza
sempre più diffusa generi nuove ondate migratorie dirette alle sponde d’Europa. Dal punto di vista geopolitico, la partita mortale che si sta giocando nel Sahel è ancora più importante. Per le sparse forze che si richiamano all’Isis, è evidente che dopo la sconfitta in Iraq e in Siria questo è diventato il fronte principale della loro azione. Per gli occidentali, invece, è qui che si apre nei fatti la frattura tra europei e americani. Negli anni di Obama, gli strateghi del Pentagono avevano individuato in questa regione un baluardo da sorvegliare e difendere. Una grande base militare con migliaia di uomini e una struttura di comando erano state create in Niger. Ma Trump appare determinato a invertire questa strategia. Come altrove nel Vicino Oriente e in Afghanistan, sta riducendo significativamente la presenza militare americana nel mondo. I focolai di terrorismo intorno al Mediterraneo non lo interessano: se ne occupino semmai gli europei, con i quali ha aperto da tempo un contenzioso sui costi della difesa comune. Per questo, che lo vogliano o no, i governi d’Europa – e non solo quello francese – dovranno presto mettere il Sahel nei loro ordini del giorno.
La placca tettonica della Corona
GB Le vicende dei Windsor, da un paio d’anni, hanno uno spiacevole retrogusto di perdita di controllo Cristina Marconi Todo cambia, tutto cambia, cantava l’argentina Mercedes Sosa. E sembra quasi di sentirla riecheggiare, questa canzone esotica e spirituale, per le strade di un Regno Unito sempre meno esotico e spirituale che va scivolando verso un futuro molto diverso da quello che ha reso Londra un polo d’attrazione per tutta l’Unione europea per qualche decennio. La Brexit, dopo tanto parlare e tergiversare, ormai è cosa fatta, e non perché sia chiaro che forma avrà, ma perché i britannici, con pragmatismo un po’ spiccio, hanno deciso che è ora di andare via e di guardare oltre. E pazienza se il futuro è ignoto e se il primo dossier importante post-Brexit, ossia il ruolo di Huawei nella costruzione della rete 5G, vede il Paese già schiacciato tra la voce grossa di Washington e quella di Pechino, potenziali alleati certo meno rassicuranti della vecchia Bruxelles. L’importante è poter sbattere la porta, sentirsi di nuovo rampanti, festeggiare con fuochi d’artificio abbastanza alti da poter essere visti dalla costa della Francia, così che anche in Francia tutti sappiano com’è bello essere «sovrani», qualunque cosa signifi-
chi: se sottovalutare il Regno Unito e la sua capacità di trovare la sua strada da solo sarebbe da ingenui, assistere senza un po’ di turbamento al falò di tutto quello che è europeo è praticamente impossibile. Ma in questo inizio di decennio già folle, i movimenti tettonici di un’identità in evoluzione non hanno riguardato solo la politica, bensì anche quel serbatoio di immaginario e radici che è la famiglia reale, dove una bella
Harry e Meghan hanno depositato il marchio Sussex Royal. (AFP)
donna incauta e schietta ha fatto sapere al mondo che l’Inghilterra non le piace affatto e, portandosi dietro il principe più carino e amato, ha sbattuto la porta in malo modo. E ha costretto la regina Elisabetta II a rimuovere altri due parenti dall’album di famiglia, dopo che l’amicizia del figlio prediletto Andrew con il finanziere pedofilo suicida Jeffrey Epstein, raccontata in un’intervista alla BBC che passerà alla storia per la quantità di dichiarazioni catastrofiche raccolte in poco più di un’ora, ha imposto una prima, brutale, «abdicazione» dalla Royal Family. Le vicende dei Windsor, da un paio d’anni a questa parte, hanno uno spiacevole retrogusto di perdita di controllo, di mancanza di regia: nel caso di Harry e Meghan il problema, che molti attribuiscono al fatto che Filippo è troppo anziano per governare la famiglia e che il tentativo di Carlo di ritagliarsi un ruolo ha di fatto svuotato Buckingham Palace del suo potere centrale. Fatto sta che i due Sussex, la cui insofferenza era chiara già da tempo, hanno infranto un tabù enorme per una monarchia che ancora si prende molto sul serio, e hanno deciso di guadagnarsi da vivere come ogni celebrity
che si rispetti, ma per cautela hanno anche depositato il marchio Sussex Royal in modo da poterlo usare per felpe, calzini e qualunque oggetto la cui vendita abbia il potenziale di mantenere il loro straordinario stile di via. D’altra parte, come diceva qualcuno, nessuno è mai diventato povero scommettendo sul cattivo gusto della gente. E non è neppure detto che Meghan e Harry debbano ricorrere alla paccottiglia per mantenere vivo il loro brand: se ben amministrata, salvaguardando un comportamento almeno un po’ «royal», la loro immagine vale moltissimo e colossi come Disney o Netflix già si sono fatti avanti o si sono detti intenzionati a farlo. La ex attrice di Suits, se non fosse stata così refrattaria al rispetto delle regole di casa, sarebbe stata un grande punto di forza per i Windsor, visto che la sua immagine moderna e la sua origine afroamericana la rendono un modello per moltissime giovani donne in tutto il mondo. E sicuramente dietro gli accordi con cui i «ragazzi» hanno rinunciato ai fondi pubblici, all’uso del titolo di Altezze Reali e hanno promesso di ripagare i costi di ristrutturazione di Frogmore House, ci sono anche vincoli all’utilizzo della
loro immagine per fini commerciali. Il problema è che una pubblicità per un orologio di lusso, sebbene contraria alla filosofia reale, è comunque meno dannosa di un’intervista sguaiata in cui si rivelano i segreti di famiglia. Sebbene i media britannici abbiano attaccato Meghan e siano in generale rispettosi della corona, certo è che qualunque rivelazione, anche minima, sul matrimonio di William e Kate o sul funzionamento della famiglia reale avrebbe conseguenze pesanti. È quindi importante che la voce di Meghan venga screditata piano piano e questo sta avvenendo con lo spazio smodato dato alle interviste al livorosissimo padre Tom, con la continua insistenza sulla salute mentale della coppia, sulla loro fragilità. Intanto la regina e la famiglia reale si fanno vedere misericordiosi, accoglienti, pronti al perdono, capaci di mostrare le ferite pur andando avanti. Un po’ come il Parlamento europeo, forse, sanno che non c’è nulla di meglio che tenere le braccia tese per mettere chi va via, che sia una coppia di duchi o un intero Paese, dalla parte del torto e sperare che un giorno, magari, tutto torni come prima.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Politica e Economia
Più alloggi a pigione moderata?
Votazioni federali 9 febbraio L’iniziativa lanciata dall’Associazione Svizzera Inquilini punta a rafforzare la presenza
delle cooperative d’abitazione, gli oppositori lo ritengono irrealistico e molto oneroso
Alessandro Carli Confederazione e cantoni potrebbero essere costretti a costruire più abitazioni a pigione moderata, a condizione che popolo e cantoni accettino l’iniziativa dell’Associazione Svizzera Inquilini (ASI), il 9 febbraio prossimo. Partita col vento in poppa, gli ultimi sondaggi la danno in forte perdita di consensi. Se fosse approvata, la parte dei nuovi alloggi d’utilità pubblica, realizzata in particolare dalle cooperative edilizie, dovrà raggiungere il 10% delle nuove abitazioni in Svizzera. Per i contrari, si tratta di un obiettivo irrealistico, oltre che molto oneroso. I promotori dell’iniziativa, che contestano i costi di circa 120 milioni di franchi annui citati nell’opuscolo informativo federale, affermano invece che la strategia proposta consentirà di fermare l’ «ingordigia degli speculatori immobiliari» e di tornare a pigioni moderate. Consiglio federale e Parlamento sono contrari all’iniziativa «Più abitazioni a prezzi accessibili», depositata il 18 ottobre 2016 con 104’800 firme, ritenendola inconciliabile con l’economia di mercato, costosa e illusoria. Per i contrari, nonostante il titolo apparentemente allettante, la proposta in votazione cela un approccio molto pericoloso e contrario al collaudato sistema elvetico.
Grazie al diritto di prelazione, Cantoni e comuni potrebbero mettere a disposizione i terreni edificabili I fautori sottolineano che in Svizzera ci sono troppo poche abitazioni a prezzi abbordabili. Confederazione e cantoni dovrebbero dunque contribuire ad aumentare la quota delle abitazioni appartenenti alle cooperative edilizie, onde raggiungere il citato 10%. Grazie a un diritto di prelazione, essi dovrebbero mettere a disposizione i terreni edificabili necessari a tale scopo. L’iniziativa mira anche a preservare le abitazioni in affitto a prezzi moderati. In questo senso, i poteri pubblici dovran-
no incoraggiare risanamenti che non comportino la perdita di questa tipologia di abitazioni. Secondo il Governo, nel nostro Paese vi è nel complesso un numero sufficiente di abitazioni di buona qualità e a prezzi abbordabili. Le persone che cercano un alloggio hanno oggi più possibilità di scelta rispetto agli ultimi anni, anche a causa del crescente numero di abitazioni vuote. A detta dell’Ufficio federale di statistica (UST), il 1° giugno scorso si contavano in Svizzera 75’323 case e appartamenti sfitti, pari all’1,66%, ciò che conferma una tendenza in atto da 10 anni. In Ticino, la proporzione è assai superiore e raggiunge il 2,29%. A livello nazionale, sull’arco di 12 mesi, le abitazioni vuote sono aumentate di 3029 unità (+4,2%). Alla luce anche di questa realtà, per il Consiglio federale gli interventi dello Stato sollecitati dai fautori dell’iniziativa non sono necessari. Nelle zone urbane, dove il fabbisogno è molto alto, la rigida regola del 10% di abitazioni nuove in mano alle cooperative edilizie sarebbe controproducente, dato che non permetterebbe un adattamento alle specificità locali del mercato locativo. Ove fosse necessario, cantoni e comuni possono già correggere il tiro, sfruttando le possibilità del diritto di prelazione esistenti. Inoltre, si dovrebbero edificare numerose abitazioni anche dove vi è già un’eccedenza. Tuttavia, i fautori dell’iniziativa non vogliono saperne. Per loro è tempo di porre fine alla speculazione immobiliare. L’ASI, con la sinistra, i sindacati, le associazioni di inquilini e di proprietari fondiari, le organizzazioni giovanili e per la terza età, sostengono che la maggioranza dei locatari paga sempre di più per l’affitto, mentre gli investitori fanno benefici da primato. Dal 2005, gli affitti sono aumentati di quasi il 19% e incidono sul potere d’acquisto delle famiglie. Orbene, i committenti d’utilità pubblica offrono pigioni molto più contenute, non sottoposte alla legge del rendimento e dei rapidi profitti. Aumentando la loro quota su scala nazionale dal 4% al 10% – affermano i sostenitori del progetto – si permetterà alla popolazione di risparmiare fino a 150’000 franchi di affitto sull’arco di una vita.
La consegna delle firma per l’iniziativa, il 18 ottobre 2016, a Palazzo federale. (Keystone)
Ma il Consiglio federale sottolinea che «realizzare tutte le richieste avanzate dai fautori dell’iniziativa graverebbe pesantemente sulle finanze federali e cantonali e comporterebbe per tutti gli interessati maggiori oneri amministrativi». Il governo ricorda pure che la Confederazione già promuove la costruzione di abitazioni di utilità pubblica, garantendo i prestiti della Centrale di emissione destinati a tale scopo. Ha inoltre istituito un «fondo di rotazione», attraverso il quale ai committenti d’utilità pubblica sono concessi mutui che fruttano interessi. Il fondo è così definito perché in esso vengono riversati gli ammortamenti che servono a finanziare nuovi mutui. Dal 2003, questo fondo di rotazione ha permesso di costruire e rinnovare ogni anno circa 1500 abitazioni ad affitto moderato. Le misure finora adottate dalla Confederazione per promuovere le costruzioni di abitazioni di utilità pubblica si sono dunque dimostrate valide e vanno mantenute. Per aumentare il fondo di rotazione (dotato attualmen-
te di 510 milioni di franchi) e a titolo di controprogetto indiretto all’iniziativa, le Camere hanno deciso, su proposta del governo, di stanziare un credito quadro di 250 milioni di franchi sull’arco di 10 anni. Questo credito permetterebbe di continuare a incoraggiare la costruzione di 1500 alloggi all’anno, pari alla media annuale registrata dal 2004. Ma attenzione: il fondo di rotazione sarà alimentato soltanto se l’iniziativa popolare verrà respinta il 9 febbraio prossimo. Il citato credito permetterebbe all’edilizia di utilità pubblica di mantenere a circa il 4% la sua quota di mercato a livello nazionale. Eventuali misure supplementari a livello regionale o locale sono di competenza cantonale o comunale. Il Consiglio federale giunge dunque alla conclusione che «modificare la Costituzione federale, come chiede l’iniziativa, non è la soluzione giusta». Eppure il Comitato d’iniziativa continua a ribadire che in Svizzera «il numero di abitazioni a prezzi accessibili è insufficiente». Nonostante tassi
Non discriminare diversi orientamenti sessuali Occorre sanzionare l’omofobia alla stessa stregua del razzismo. È quanto propone la modifica del Codice penale e del Codice penale militare, pure in votazione federale il 9 febbraio prossimo, contro la quale è stato lanciato il referendum. In sostanza, i cittadini sono chiamati a estendere la norma antirazzismo, entrata in vigore nel 1995, per punire anche le discriminazioni nei confronti degli omosessuali. Secondo i sondaggi, questa proposta di Governo e Parlamento, dai risvolti etici e giuridici, sarà approvata. Sottotono la campagna di voto. La discriminazione basata sull’orientamento sessuale è attualmente protetta solo in caso di delitti contro l’onore o di lesioni corporali. Questa protezione vale soltanto per gli individui, ma non consente di punire attacchi contro la comunità omosessuale o bisessuale. Il Consiglio federale e il Parlamento ritengono che nessuno debba essere discriminato a causa della sua omo-, etero – o bisessualità. Da qui la proposta di estendere la norma penale antirazzismo. La revisione della legge scaturisce da un’iniziativa parlamentare depositata nel 2013 dal consigliere nazionale Mathias Reynard (PS/VS) nell’intento
di proteggere la comunità LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Se la revisione sarà accolta, le autorità dovranno intervenire in caso di atti di odio e di discriminazione dovuta all’orientamento sessuale. L’Unione democratica federale e i giovani UDC hanno lanciato il referendum perché, secondo loro, non è il caso di ridurre la comunità LGBT a una minoranza da proteggere. Essi sono convinti che le norme penali attuali proteggano a sufficienza contro la violenza o la diffamazione nei confronti degli omosessuali. Gli oppositori, sostenuti dall’UDC, sono del parere che gli omosessuali e bisessuali vogliono essere membri della società a parte intera e non considerati come una minoranza debole. Una legge specifica stigmatizzerebbe queste persone che desiderano invece essere considerate come tutti. La tolleranza – affermano – non può essere imposta con strumenti penali. Per il comitato referendario, la modifica del Codice penale, presentata come una protezione contro la discriminazione, è in realtà una legge di censura che minaccia la libertà di opinione, nonché la libertà di coscienza e di commercio, preziosi strumenti della democrazia. «Tutto quanto si avvicina, anche se di
poco, a una giustizia che sanziona il modo di pensare rappresenta una minaccia per la democrazia». I sostenitori del referendum sottolineano che, dal profilo giuridico, è estremamente difficile stabilire dove si situano i limiti della libertà di espressione. Lo Stato potrebbe interpretarli in modo arbitrario. Occorre dunque prestare la massima attenzione quando il mondo politico tenta di limitare tale libertà, anche se le sue intenzioni, di primo acchito, «sembrano buone e lodevoli». Ribadiscono infine che la legge è inutile: già ora è possibile punire chi insulta e discredita un’altra persona. Il Codice penale e quello penale militare annoverano una disposizione che protegge dalla discriminazione e dall’incitamento all’odio a causa della razza, dell’etnia o della religione. I contravventori rischiano una pena detentiva fino a tre anni o una pena pecuniaria. Ora, decidendo di estendere questa norma penale, sarà vietata anche la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. I fautori del rafforzamento della norma penale antirazzismo ricordano che il divieto della discriminazione basata sull’orientamento sessuale non concerne le discussioni nell’ambito della
cerchia familiare, tra amici, o al bar, e nemmeno i dibattiti pubblici o l’esternazione di punti di vista, sempre che non danneggino la dignità umana o neghino i diritti a una persona. Le dichiarazioni omofobe saranno punibili soltanto se fatte in pubblico o sulle reti sociali. Un comportamento discriminatorio sarà punibile soltanto se intenzionale. L’autore deve quindi essere consapevole che il suo comportamento umilia qualcuno. Per il Consiglio federale la libertà di espressione non dev’essere un lasciapassare per giustificare l’odio, la molestia o le vessazioni. Non va nemmeno dimenticato l’impatto delle dichiarazioni odiose o delle violenze contro i giovani che cercano la loro identità sessuale. Il tasso di suicidio tra gli adolescenti omosessuali è cinque volte superiore rispetto agli eterosessuali. Anche se l’estensione della norma può apparire delicata, si tratta dunque di agire e non di censurare. La Svizzera è uno degli ultimi paesi europei a non punire la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Austria, Francia, Olanda e Danimarca già l’hanno fatto. Con questa proposta, le Camere hanno anche seguito la raccomandazione del Consiglio d’Europa e dell’ONU. /AC
d’interessi ipotecari estremamente bassi, le pigioni aumentano, poiché i proprietari di immobili vogliono redditi sempre più elevati. L’iniziativa crea una maggiore offerta di abitazioni a prezzi accessibili, soprattutto per le famiglie e il ceto medio, visto che la pigione è la voce di spesa più importante nel bilancio di un’economia domestica. Il Consiglio federale sottolinea però che per raggiungere la quota del 10% con gli strumenti di promozione esistenti, sarebbe necessario un numero di mutui cinque volte superiore a quello attuale. Secondo l’opuscolo informativo sulla votazione popolare, la Confederazione dovrebbe mettere a disposizione ogni anno 120 milioni di franchi. Ma nulla è sicuro: molto dipenderà dalle modalità d’applicazione dell’iniziativa in caso di accettazione popolare. I fautori di quest’ultima hanno nel frattempo contestato il citato costo, definendolo ingannevole e fuorviante. Per loro non si tratta infatti di costi, ma di investimenti, dato che il fondo di rotazione concede prestiti rimborsabili per la costruzione di alloggi di utilità pubblica che fruttano addirittura interessi alla Confederazione. Non si deve dunque parlare di costi per 120 milioni, bensì di prestiti rimborsabili, sottolineano i fautori dell’iniziativa. Gli oppositori temono che l’iniziativa possa scoraggiare i proprietari a realizzare risanamenti energetici, rallentando così l’attuazione della strategia energetica 2050. Essi sostengono che soltanto una piccola minoranza ne approfitterà, visto che appena un quarto degli occupanti di alloggi sovvenzionati rientra nel 20% della popolazione a reddito modesto. Sarebbe molto più efficace sostenere le famiglie meno abbienti con aiuti diretti. Che cosa fare, dunque? Al di là dei costi presunti o effettivi, occorre promuovere maggiormente l’offerta di abitazioni a pigione moderata nell’ambito di un sistema che già opera in questo senso e nel momento in cui aumentano gli alloggi sfitti? La strategia proposta riuscirà veramente a placare gli appetiti degli speculatori? La consigliera agli Stati Marina Carobbio (PS/TI) – favorevole all’iniziativa – sostiene che «gli eccessivi costi dell’alloggio sono un grande problema anche in Ticino, che va risolto». Il suo collega Marco Chiesa (UDC/TI) – contrario al progetto – afferma che «la rigidità dell’iniziativa porterà ad avere abitazioni di utilità pubblica in regioni in cui non servono, a scapito di regioni che potrebbero averne bisogno».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Politica e Economia
Primi contrasti sulla riforma
Previdenza professionale La consultazione è appena iniziata, ma già sorgono parecchie divergenze,
soprattutto da parte padronale. Tra i partiti, il PPD ha già messo in evidenza alcuni punti di contrasto, ma non resterà solo in Parlamento
Ignazio Bonoli Commentando il messaggio sulla riforma della previdenza professionale, che il Consiglio federale ha posto in consultazione (vedi «Azione 52» del 23.12.19), prevedevamo che la proposta riforma avrebbe incontrato parecchie difficoltà. Per sommi capi, l’accordo raggiunto fra sindacati e padronato, e fatto suo dal Consiglio federale, prevede la diminuzione dal 6,8 al 6% del tasso di conversione del capitale in rendita, e la compensazione delle perdite subite dalle rendite. Secondo gli ambienti padronali questa compensazione (per tutti e a tempo indeterminato) introduce nel secondo pilastro il principio della distribuzione, utilizzato in parte per il primo (cioè l’AVS).
Il progetto non considera l’aumento della speranza di vita né la buona situazione finanziaria dei pensionati, inoltre trasferisce oneri alle nuove generazioni
Gerhard Pfister, presidente PPD, è scettico riguardo questo progetto di revisione della previdenza professionale. (Keystone)
Soprattutto questo «difetto» – che non considera né l’aumento della speranza di vita, né la migliorata situazione finanziaria dei pensionati e trasferisce oneri dalle vecchie alle giovani generazioni – aveva indotto i dirigenti dell’Unione Svizzera Arti e Mestieri (USAM) a distanziarsi subito dall’accordo fra padronato e sindacati. Secondo questa importante componente del padronato, l’accordo, in cambio di una riduzione del tasso di conversione, in molti casi già superata, concede un aumento del prelievo sui salari e una distribuzione indiscriminata di sussidi.
Accanto all’USAM (che aveva pure presentato un progetto alternativo), anche altre componenti dell’Unione dei datori di lavoro si sono distanziate dalle decisioni prese dai vertici centrali. Così, tre importanti associazioni padronali (banche, edilizia e commercio al dettaglio), già all’inizio del periodo di consultazione, hanno pure presentato un progetto alternativo. Progetto che non prevede né un aumento forfettario delle rendite, né un nuovo prelievo sui salari secondo il modello dell’AVS. Secondo questo progetto, la diminuzione delle rendite dovuta al nuovo tasso di conversione può
essere compensata con un aumento dei capitali di vecchiaia, durante un periodo transitorio di dieci anni, mediante gli accantonamenti effettuati dalle casse pensioni. Questa proposta si avvicina parecchio a quella delle stesse casse pensioni che prevede perfino una diminuzione del tasso di conversione al 5,8%, compensato da un diverso sistema di aumento dei capitali di vecchiaia. Due varianti discutibili, ma a patto che si rinunci alla prevista distribuzione «a innaffiatoio» dei supplementi alle rendite e non si riprenda il modello dell’AVS del finanziamento mediante un ulte-
riore prelievo sui salari. Con le banche da un lato e i dettaglianti dall’altro, si trovano curiosamente riuniti un settore ad alti e uno a bassi salari. Ma anche altri settori, come la chimica-farmaceutica e le assicurazioni, sono critici, non si sono però ancora espressi. Per il momento i negoziatori difendono le loro posizioni dicendo che una riforma del secondo pilastro è più che mai necessaria, ma che finora non si è potuta trovare una soluzione migliore. Anche sul piano politico le cose non si presentano in modo migliore. Nel tradizionale incontro dell’Epifania con la stampa, il presidente del PPD ha
creato una certa sorpresa mostrandosi piuttosto scettico sulla soluzione concordata fra i partner sociali. Secondo lui, le possibilità che il messaggio del Consiglio federale superi lo scoglio del Parlamento sono piuttosto scarse. Toccherà probabilmente al Parlamento trovare una soluzione accettabile. Se è vero che, vista la nuova composizione delle Camere federali, il PPD avrà spesso un ruolo decisivo nella soluzione dei problemi di sicurezza sociale, è anche vero che nel progetto di riforma della previdenza vecchiaia, tanto una parte dei liberali, quanto dell’UDC avrà tendenza a seguire l’USAM e gli ambienti padronali piuttosto che accettare una riforma che non piace, nonostante il compromesso raggiunto a livello di dirigenze padronali e di sindacati. Né può aiutare molto alla soluzione del problema il fatto che le casse pensioni abbiano vissuto nel 2019 un anno eccezionale. Si parla di un risultato in media superiore dell’11,1%, dovuto soprattutto al miglioramento delle quotazioni di azioni, in particolare di quelle svizzere (+30%). Il totale del capitale di vecchiaia accumulato dalle casse pensioni svizzere supera così i 1000 miliardi di franchi. Tre restano però ancora i problemi principali da risolvere: l’eccessivo uso dei premi dei giovani per pagare le rendite dei pensionati. Problema in parte già risolto per la parte non obbligatoria dell’assicurazione con una forte riduzione del tasso di conversione. Cosa che però non è fattibile per le casse che assicurano dipendenti con bassi salari, aumentando il divario con le più ricche. Un altro problema è quello dei lavoratori a tempo parziale, finora non risolto per tutti. Infine, rimane il problema del premio da pagare, che aumenta con l’età e crea problemi di posti di lavoro per le generazioni più anziane.
Persiste la richiesta dell’oro La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy
Il potenziale di rialzo per l’oro è limitato 1700 1600 1500 1400 1300 1200 1100 1000 2015
2016
2017
2018
Oncia troy d’oro in dollari USA
tassi negli Stati Uniti dovrebbe diminuire ulteriormente. Il dollaro tenderà ad avere un andamento laterale o a indebolirsi leggermente. Entrambi gli andamenti sosterranno il corso dell’oro. Tuttavia, in previsione di una certa distensione del conflitto commerciale e di una leggera ripresa
congiunturale, l’oro non sarà più richiesto come rifugio sicuro come nel 2019. Questo contesto dovrebbe sostenere il prezzo dell’oro ad un livello di 1500 dollari, ma ciò non basta per proseguire la corsa al rialzo dell’ultimo anno. In fasi di incipiente insicurezza
2019
2020
Fonte: Bloomberg
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
A metà gennaio il prezzo dell’oro era di circa 1550 dollari. Sulla scia delle tensioni tra Iran e Stati Uniti, dall’inizio dell’anno il metallo prezioso giallo è leggermente aumentato. L’oncia troy d’oro si è così attestata al livello dell’agosto 2019, quando i timori di recessione e l’escalation del conflitto commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti hanno talvolta causato una sostanziale incertezza tra gli investitori. L’anno scorso l’oro ha registrato un rincaro di oltre il 18%. È stato uno degli anni migliori per gli investitori dell’oro dalla crisi economica e finanziaria globale del 2008/2009. L’oro ha tuttavia beneficiato di un contesto ottimale: il rallentamento della congiuntura globale e l’inversione di marcia delle banche centrali hanno fatto scendere i tassi in tutto il mondo, causando un netto aumento della domanda del metallo giallo. Infine, ma non meno importante, l’incertezza derivante dal conflitto commerciale ha avuto un ruolo centrale nel notevole aumento del prezzo dell’oro. Gli investitori avevano riscoperto l’oro come bene rifugio. Nell’anno in corso alcuni di questi fattori continueranno a stimolare il prezzo dell’oro, a differenza di altri che non lo faranno più. Il livello dei
sui mercati e/o di ulteriori allentamenti della politica monetaria delle banche centrali, una temporanea spinta verso l’alto delle quotazioni è senz’altro possibile. Tuttavia, alla luce del minor rischio di recessione, nel 2020 il potenziale di guadagno del metallo prezioso ci appare limitato.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Fisco e fuga di cervelli Si parla di «fuga di cervelli» quando i flussi di popolazione in uscita di una data regione sono composti, in proporzione importante, da persone che hanno terminato formazioni terziarie (università, scuole universitarie professionali o istituti tecnici superiori). Di solito la fuga di cervelli è da un paese all’altro. Consistente, per esempio, è quella dai paesi meno sviluppati verso i paesi avanzati. Nel caso di paesi federalisti come la Svizzera è possibile seguire il movimento delle persone maggiormente qualificate anche da un cantone all’altro. È quanto hanno fatto, recentemente, Chantal Oggenfuss e Stefan C. Wolter, due ricercatori specializzati in analisi nel campo dell’educazione e della formazione. Prima di occuparci dei risultati della loro ricerca, vorremmo ricordare che la fuga di cervelli è probabilmente determinata sia da
fattori strutturali, come, per esempio, le carenze del mercato del lavoro nel cantone dal quale si emigra, sia da fattori congiunturali, come il livello del tasso di disoccupazione. Nel loro studio, basato su dati relativi ai primi anni di questo secolo, Oggenfuss e Wolter si sono occupati solo degli aspetti strutturali, in particolare del problema a sapere se l’emigrazione dei cervelli è maggiore nei cantoni universitari o in quelli che non dispongono di un’università. La differenza tra questi due gruppi di cantoni è data dal fatto che gli studenti di quelli non universitari sono praticamente obbligati a emigrare se vogliono conseguire una laurea e questo potrebbe essere un incentivo a non tornare nel cantone di nascita, a studi terminati. Gli autori di questa analisi hanno dapprima verificato dove risiedono gli studenti, originari di un determi-
nato cantone, 5 anni dopo aver terminato gli studi. Hanno così potuto calcolare l’emigrazione e l’immigrazione di laureati nei singoli cantoni e, per differenza tra i due flussi, il saldo del movimento migratorio dei «cervelli». Per poter comparare una situazione con l’altra, hanno quindi rapportato il saldo del movimento migratorio al numero di studenti universitari per cantone. Ovviamente la percentuale così ottenuta può essere positiva o negativa. Una percentuale positiva indica che il flusso dei laureati immigrati è superiore a quello dei laureati emigrati e viceversa quando la percentuale è negativa. Per i cantoni senza università le percentuali sono, ad eccezione del canton Zugo, che possiede un saldo nullo, tutte negative. Il saldo medio corrisponde al 36%. Il valore del rapporto varia tra 0, nel caso del canton Zugo, e 61% nel caso del
canton Uri. Nel caso dei cantoni universitari (con università completa o parziale) troviamo sia percentuali positive che percentuali negative. Basilea città, Berna, Friburgo, Vaud, Ginevra e Zurigo hanno percentuali che indicano l’esistenza di saldi positivi nei movimenti migratori di laureati. Neuchâtel, S.Gallo, Lucerna e Lugano, invece hanno saldi negativi. I valori negativi del saldo variano tra il – 7% di Neuchâtel e il –38% di S. Gallo. Il saldo del Ticino si trova a metà strada: –15%. Creare un’università non basta quindi ad arrestare completamente la fuga di cervelli. Se rapportiamo il saldo negativo del Ticino al saldo negativo medio dei cantoni non universitari ci accorgiamo comunque che la creazione dell’università contribuisce a ridurre il saldo negativo. I due autori, citati qui sopra, hanno anche cercato di identificare i fattori che possono
influire sulla mobilità intercantonale dei laureati. Si tratta in generale di tre fattori. Dapprima l’inclinazione per la mobilità. Più un laureato è stato mobile durante il periodo degli studi e meno tenderà a rientrare nel suo cantone di origine. Il secondo fattore è il livello dei risultati ottenuti negli studi. I migliori laureati sono anche quelli che non torneranno nel cantone di origine. La fuga di cervelli è quindi un grosso costo per il cantone che li perde non solo in termini quantitativi, ma anche in termini qualitativi. Il terzo fattore è costituito dall’incidenza delle imposte. I laureati tendono ad insediarsi nei cantoni che hanno tassi di imposizione bassi. Di conseguenza la politica fiscale di un cantone può di fatto combattere anche contro la fuga di cervelli. E ora attendiamo il piano del nostro fisco per recuperare i cervelli ticinesi in fuga!
vo poi magari ripescarne qualcuno come candidato vicepresidente). In più c’è una frattura ideologica netta dentro al Partito democratico che si approfondisce sempre di più e che fa da fronte di battaglia: moderati di qui, radicali di là. A livello nazionale, l’ex vicepresidente Joe Biden, quello al centro del caso di impeachment, è davanti, ma la prima fase delle primarie è per lui delicata perché i primi Stati che votano nei sondaggi non lo premiano. Biden è un politico moderato che sta facendo una campagna molto «intima» che gli permette di valorizzare la sua qualità migliore: l’empatia. Incontri ristretti, molte conversazioni su se stesso, il suo buon senso, il suo pragmatismo: pochi guizzi, nessun urlo, molta rassicurazione. Il rivale principale di Biden è Bernie Sanders, senatore del Vermont che non è nemmeno iscritto al Partito democratico ma che già nel 2016 creò un movimento molto attivo e popolare che ancora oggi gli consente di essere seguitissimo: riceve endorse-
ment da molte associazioni legate alla sinistra più radicale, ha una strategia di comunicazione aggressiva aiutata dalla presenza in campagna elettorale al suo fianco di Alexandria OcasioCortez, la star del Congresso che non perde occasione per attaccare l’establishment del Partito democratico, al punto da definirlo «non di sinistra». L’inizio per Sanders sarà più facile che per Biden, ma bisogna vedere quanto capitale politico riesce a racimolare in questa prima fase: gli servirà quando le primarie si sposteranno a sud, ed entrerà in corsa anche l’ex sindaco di New York, Mike Bloomberg. Gli altri candidati rincorrono: Elizabeth Warren, che ha vissuto un momento di grande popolarità prima di Natale, oggi patisce lo scontro con Sanders, una lotta nella lotta. I due sono affini ideologicamente, ma si sono accapigliati di recente, e a pagare di più è stata proprio la Warren che non ha a sostenerla quella base molto attiva che ha Sanders. Nel campo dei moderati ci sono in particolare
Pete Buttigieg e Amy Klobucher, entrambi poco conosciuti (la seconda ha ricevuto, insieme alla Warren, l’endorsement del «New York Times», che sogna una presidenza rosa). Negli ultimi giorni ha fatto molto parlare la strategia adottata da Buttigieg, sindaco di South Bend in Indiana, per superare il fatto di non avere un nome che suona familiare agli elettori americani. Invece che fornire ai propri attivisti un elenco di numeri di telefono da contattare per pubblicizzare Buttigieg (c’è chi deve andarsi a sentire come si pronuncia), la campagna del sindaco ha detto ai volontari di convincere principalmente i propri amici, parenti, colleghi. Buttigieg cerca di costruire il proprio network a partire dalle relazioni personali, invece che far fare telefonate che risultano fastidiose e banali, visto che in questo periodo tutti i candidati le fanno. Una attivista in Iowa ha detto di avere grandi speranze: è riuscita a convincere l’ex marito a votare Buttigieg, vuol dire che può convincere chiunque.
ha ceduto il passo ad una matassa i cui fili s’intrecciano in modo disordinato, e senza dar luogo ad appartenenze definitive. Ciò nonostante lo schema destra/sinistra – che spesso si ritiene superato, un cascame degli antichi duelli rusticani – non è scomparso dall’orizzonte delle giovani generazioni: serve ancora a segnalare le proprie coordinate sulla mappa della politica. E questo funziona perché in fondo i princìpi della rivoluzione francese («liberté, égalité, fraternité») ancora condizionano il nostro universo mentale, suggerendoci quale strada imboccare nell’ora della scelta. Ora – dicono gli ultimi dati raccolti – i giovani appaiono attratti più dalla destra che dalla sinistra. In questo caso non c’è sorpresa. Il pendolo ha iniziato ad oscillare in quel settore già a partire dagli anni Ottanta con il riflusso per poi proseguire nei decenni successivi, sull’onda del neoliberismo galoppan-
te, messaggero di benessere generale. In realtà, come s’è visto dopo l’infarto bancario del 2007-2008, anche le promesse legate alla globalizzazione si sono via via liquefatte per lasciare il posto, nelle classi dei perdenti, ad un diffuso senso di impotenza e di abbandono. La destra qui ha avuto, e ha ancora, buon gioco a cavalcare disagi e frustrazioni. Ma l’idea di politica, come ancora dimostra questo studio, non è statica. Negli anni ’70 faceva tutt’uno con le visioni del mondo ereditate dall’Ottocento; oggi invece politica significa impegno e partecipazione fuori (e a volte contro) i partiti, una mobilitazione per valori alti come la tutela dell’ambiente, l’economia sostenibile, l’aria pulita, un commercio che non sia sinonimo di sfruttamento e saccheggio. Vedremo se e come le prossime inchieste sociologiche registreranno questa ulteriore virata del quadro valoriale dei giovani.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Via alle primarie La campagna elettorale per le presidenziali americane è ufficialmente incominciata, anche se sembra che quella del 2016 non sia mai finita. Il calendario delle primarie – si inizia in Iowa questa settimana, poi si va in New Hampshire – scandirà la prima fase della campagna fino all’estate, quando il candidato democratico che deve sfidare Donald Trump sarà stato scelto. In teoria ci sarebbe un’incognita anche sullo stesso presidente: al Senato americano è in corso il processo di impeachment, il terzo della storia degli Stati Uniti, nel quale Trump è accusato di abuso di potere e di ostruzione dei lavori del Congresso. Per quanto si tratti di un evento storico e rilevante, quel che accade in aula resta come un rumore di sottofondo: ci appassioniamo più alle lamentele dei senatori che devono restare chiusi lì dentro a bere solo acqua o latte, senza telefoni e senza materiale di svago, che al merito del dibattito. Questo accade non soltanto perché la materia del contendere è
complessa – uno scambio che sa di ricatto: gli aiuti militari all’Ucraina in cambio di materiale compromettente su rivali politici: i Biden – ma anche perché il finale è dato per certo: i repubblicani hanno la maggioranza al Senato, se tutti votano per assolvere Trump come sembra vogliano fare, Trump resterà presidente. Perché perdere tempo?, chiedono i trumpiani che hanno definito il perimetro dello scontro a loro modo, cioè: l’impeachment è una caccia alle streghe messa in piedi dai democratici, che invece di pensare agli americani sono ossessionati dal presidente e dalla voglia di cacciarlo via con ogni mezzo, tranne quello elettorale. L’incognita su Trump quindi è molto debole, e infatti il team per la sua rielezione sta già pensando ai passi successivi: come sfruttare al meglio l’assoluzione. Per i democratici la strada è più accidentata. Le primarie, per loro natura, finiscono per essere una serie di fratricidi: vince chi ha ucciso tutti i compagni di partito (sal-
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti I giovani cambiano. E la politica con loro Sia questo settimanale, nella rubrica di Angelo Rossi (no. 52/2019), sia «la Regione» (14 gennaio 2020) hanno presentato la ricerca pubblicata lo scorso anno dall’editore Dadò con le stesse parole: i giovani guardano a destra. Il libro – intitolato Giovani adulti allo specchio. Chi sono, cosa pensano, come cambiano – si fonda su una banca dati larghissima, circa 30mila interpellati, una base ricca e articolata, e quindi altamente rappresentativa. Figlia dei celebri «Esami pedagogici delle reclute», svolti fin dalla metà del secolo scorso per accertare il livello scolastico degli arruolati, l’indagine negli ultimi anni ha perfezionato metodi e finalità, e ampliato il campione, includendo anche le ragazze. Siamo dunque in presenza di una radiografia sociologica solida, che permette di seguire nel tempo scelte, valori, preferenze dei giovani adulti (19-20 anni), in una fase quindi di svolta della loro vita (formazione/professione, diritti politici, servizio militare).
Alcuni diagrammi non mancheranno di stupire, come quello riportato a p. 131 da Oscar Mazzoleni e Andrea Pilotti nel contributo sull’interesse politico e l’orientamento sull’asse destra-sinistra. Nella colonna concernente il Ticino figura che nel 1972 gli interpellati che rifiutavano di auto-collocarsi politicamente sfiorava il 70%, un dato sorprendente se con la memoria torniamo a quel periodo: anni «caldi», che ancora trattenevano l’eco del movimento del ’68, la contestazione alla Magistrale di Locarno e successivamente le ondate di protesta nelle scuole superiori di Lugano e Bellinzona. Nella confinante Italia il moto si era esteso agli operai delle grandi fabbriche (autunno caldo, statuto dei lavoratori), per poi crescere, tra mille contraddizioni e derive, nelle pieghe della società. Una stagione cupa, punteggiata di stragi di marca neofascista e di agguati e sequestri (Brigate Rosse).
Ebbene, cinquant’anni dopo le ricerche smentiscono l’impressione che allora la gioventù fosse pronta a mobilitarsi contro l’ordine costituito. Anzi, risulta il contrario, ovvero che soltanto un ristretto gruppo palpitasse per quanto avveniva nel paese e nelle aree di crisi, dal Vietnam al Cile. Evidentemente non era così, la forte ideologizzazione della contesa politica in realtà era faccenda che riguardava unicamente una minoranza: attiva e rumorosa, ma sempre minoranza. Certo, le categorie che gli autori utilizzano non sono granitiche, perfettamente definite. Ogni fase dell’inchiesta rispecchia significati e umori che nel frattempo sono mutati nella coscienza degli interpellati. Si pensi all’asse «destra-sinistra», a come si è modificato nell’ultimo mezzo secolo. Cinquant’anni fa dominavano le ideologie, le grandi famiglie partitiche, atteggiamenti fideistici e tribali; oggi tutto questo è svanito, la logica binaria
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Cultura e Spettacoli Un vantaggio per tutti Hedi Graber racconta le novità del Percento culturale Migros nell’ambito del sostegno
La verità secondo Vittorio A colloquio con Vittorio Nocenzi, storica mente del Banco del Mutuo Soccorso, una delle maggiori band pop italiane pagina 37
Giriamo in Ticino Il nostro Cantone ha fatto da location a molte produzioni cinematografiche pagina 38
pagina 36
Giornate positive Grande successo per le Giornate del Cinema di Soletta, dirette per la prima volta da Anita Hugi
pagina 39
Alla scoperta di Wolfgang Hilbig
Narrativa Grazie all’iniziativa dell’editore
Keller anche il pubblico italofono ha modo di conoscere la scrittura fuori dagli schemi dell’autore tedesco
Natascha Fioretti Considerato uno dei maggiori autori tedeschi del Novecento, soprannominato l’Hölderlin della Sassonia per la sua poetica, paragonato a Kleist per la precisione e la bellezza lessicale, considerato l’erede di E.T.A. Hoffmann per le atmosfere romantiche e decadenti dei suoi testi, Wolfgang Hilbig è stato insignito dei più prestigiosi premi letterari, uno per tutti il George Büchner Preis nel 2002. Eppure, nel panorama italiano della letteratura tradotta, era un grande assente. Per questo la scelta dell’editore Keller di dare alle stampe due delle sue opere più importanti è da considerarsi particolarmente lodevole e coraggiosa. Le femmine e Vecchio scorticatoio, raccolti in un unico volume, sono due racconti tradotti rispettivamente da Riccardo Cravero e Roberta Gado. Da molti anni di casa a Lipsia, traduttrice e mediatrice culturale, Roberta Gado ha già fatto conoscere al pubblico italofono un altro autore dell’editore S. Fischer e della terra di Hilbig, nonché suo grande estimatore, Clemens Meyer: «era una grande lacuna che siamo contenti di avere colmato. Tradurre Hilbig mette a dura prova ma regala anche grande soddisfazione per la sua straordinaria sensibilità e genialità linguistica». Ci sono scrittori che leggiamo per nostro gusto e ci sono scrittori che non possiamo fare a meno di leggere. Wolfgang Hilbig appartiene alla seconda schiera e non si può leggerlo, a mio avviso, senza conoscerne la vita perché si rischierebbe di non comprenderne la grandezza o di non cogliere l’essenza che abita le sue opere, la pulsione che le sottende, le ossessioni e le oscure vertigini che guidano la sua penna. Nato nel 1941 a Meuselwitz, un piccolo paesino della Turingia a 40 Km da Lipsia, Hilbig avrebbe potuto rimanere per tutta la vita un semplice fuochista, di quelli che nei giorni gelidi della DDR aveva l’obbligo di spalare fino a 32 tonnellate di carbone. Invece, benché nato e cresciuto in un milieu avverso, è diventato ciò che sentiva di essere: uno scrittore. Cresciuto senza padre, morto nel 1942 a Stalingrado, con un nonno analfabeta che capiva meglio il russo e il polacco del tedesco e andava ripetendo «non importa sotto quale governo, noi della
classe operaia saremo sempre gli stupidi di turno», una mamma, iscritta nelle file della SED, che derideva le sue velleità letterarie e lo credeva un buono a nulla, ancora oggi ci si chiede dove e come Wolfgang Hilbig abbia trovato le conoscenze e il talento per coniare una propria lingua. Una lingua elaborata, originalissima, onirica, traboccante di sinestesie e di aggettivi capaci di tradurre in parole il suo immaginario, il suo flusso interiore e il suo vissuto. Quella stessa lingua altamente poetica che il critico letterario Marcel-Reich Ranicki definiva pericolosa perché rischiava di annebbiare la realtà storica. Hilbig era fissato con la forma, «per me essere scrittore significa scrivere in modo artificioso», disse in un’intervista al giornalista Günter Gaus nel 2003. Dopo anni di scrittura avvolto nell’oscurità amica, nel 1979 per l’editore Fischer pubblica nella Repubblica Federale tedesca una raccolta di poesie dal titolo Abwesenheit («Assenza») che gli costerà alcune settimane di prigione per illecito valutario. Hilbig verrà scoperto dal grande pubblico e dalla critica prima con i suoi racconti in prosa Die Weiber (Le femmine) e Alte Abdeckerei (Vecchio scorticatoio) usciti nel 1987 e nel 1991, poi con i romanzi Ich (1993) e Das Provisorium (2000). In quest’ultimo è lui stesso a rivelarci cosa rende peculiare la sua penna: «per poter scrivere le mie opere ho sacrificato la mia biografia, la mia persona. Ho avuto molto presto l’impressione che la mia vita fosse scandita in singole scene di modo che potessi osservarla da tutti i punti di vista». Si è sempre chiesto chi fosse suo padre, si è confrontato con le sue origini, ha descritto la landa industriale e povera in cui è cresciuto pur sottolineando di non avere mai sentito l’appartenenza a una Heimat, una patria: «sono cresciuto in una topaia fatta di sola industria, dove certe emozioni non si potevano sviluppare». Nato durante la Seconda guerra mondiale, cresciuto sotto la DDR e il socialismo nelle vicinanze di un lager distaccato del campo di concentramento di Buchenwald, nei suoi testi Hilbig critica il sistema liberticida della DDR, condanna le logiche e i crimini nazisti. Il centro delle sue riflessioni rimane però l’individuo con la sua solitudine, i suoi precipizi interio-
Lo scrittore tedesco (1941-2007) in un’immagine degli Anni Duemila. (Keystone)
ri, la sua disperazione, le sue pulsioni segrete. Il suo biografo Michael Opitz lo ha definito «un’eccezione del panorama letterario» perché Hilbig non scriveva come gli altri, scrivere era per lui un atto liberatorio, una lotta permanente contro le sue ossessioni. Hilbig scrive Le femmine nella Germania dell’ovest, dove si trasferisce nel 1985 grazie a un permesso di espatrio temporaneo. L’opera, densa di elementi autobiografici, rappresenta il suo trampolino di lancio. Ci sono le baracche abbandonate nelle quali usava giocare da bambino, distaccamenti del campo di concentramento di Buchenwald. Vicino si trova una fabbrica di munizioni dove scopre delle detenute che in modo denigratorio vengono chiamate femmine («Weiber»), ma femmine sono anche le lavoratrici della fabbrica che il quarantenne Signor C. spia dalla grata dello scantinato in cui viene relegato, donne sudate e corpulente che nutrono le sue fantasie sessuali. Un giorno il Signor C. viene licenziato e poi chiamato dall’Ufficio d’Indirizzamento al Lavoro. Vogliono conoscere il motivo per cui da tempo non ha un lavoro regolare. Lui balbetta che sente un’inclinazione per la scrittura «cosa vorrà mai scrivere? Non ha nemmeno fatto la maturità. Noi le abbiamo dato la possibilità di imparare un mestiere decente... La sua gratitudine nei confronti dello Stato e della società lascia assai a desiderare…» e gli propongono un posto nel dipartimento
della nettezza urbana «Deve assolutamente presentarsi là al più presto…». Il Signor C. annuisce ma la severa signora lo avverte «io la registro, così la teniamo d’occhio e verifichiamo che non rimanga sulla cattiva strada». Ecco la presenza asfissiante dello Stato, il potere che lo tiene d’occhio, pronto a punirlo se non riga dritto perché chi non lavora e non pensa al futuro crea delle sgradevoli ripercussioni sociali. Se Le femmine gli apre la strada, Vecchio scorticatoio viene consacrato a testo centrale della sua poetica. Nell’incipit il narratore interno ricorda quando nell’autunno del 1989 era a passeggio nella terra desolata alla periferia della sua cittadina d’origine: «Mi sono ricordato un ruscello fuori città, un corso d’acqua di un’iridescenza strana, in certi giorni quasi latteo, che avevo seguito per chilometri un autunno intero o persino più a lungo, forse solo per evadere da un territorio che, ad ammetterlo una volta per tutte, era racchiuso nei confini della mia stanchezza». Al centro di questo territorio c’è il vecchio scorticatoio, un edificio nel quale si cuociono carcasse di animali per trasformarle in sapone. Si chiama Germania II ed è un chiaro riferimento al passato nazionalsocialista: ciò che conduce nelle profondità buie della terra porta il nome che Hitler voleva dare alla capitale mondiale del suo impero. I lavoratori del vecchio scorticatoio, il loro modo di maneggiare le carcasse, simboleggiano il rap-
porto del popolo tedesco con gli orrori commessi. Nella poetica di Hilbig divengono dunque centrali il tema della rimozione del passato e della memoria collettiva, con particolari riferimenti ad Auschwitz. Dicevo che per comprendere i suoi testi è necessario conoscere la sua vita. Per apprezzarli, invece, basta soffermarsi sulle immagini che sostanziano i suoi racconti affrescate con quella sua schizofrenica prosa poetica: «E via infine lungo rovine sommerse, lungo Germania II, dove tra i flutti giocano costellazioni di stelle, dove pascolano i minotauri». Come dice Roberta Gado «una delle sue grandi capacità è creare questi enormi scenari metaforici che però, come fa la poesia, non sciolgono la metafora, per cui ci sono i capelli, il marciume, gli animali scuoiati ma non c’è mai un punto in cui l’autore ti dice: questa è la metafora della DDR, del socialismo o del nazismo. Per questo i suoi testi risultano criptici e stranianti». Leggere Hilbig non è una passeggiata, la sua vita non lo è stata, ma proprio per questo le sue vertigini toccano profondità al contempo straordinarie e mostruose. Era figlio della sua epoca, ultimo tra gli ultimi, e il successo letterario non è bastato a liberarlo dai suoi fantasmi e dalle sue ossessioni. Dopo la Riunificazione vive a Berlino con la moglie Natascha Wodin. Muore alcolizzato a sessantasei anni.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Cultura e Spettacoli
«Gli artisti e il pubblico ci guadagnano» Politica culturale Migros Il Percento culturale Migros rimodella il suo sostegno alla cultura stanziando gli stessi
fondi, ma tenendo conto delle mutate esigenze degli artisti e delle abitudini del pubblico. In questa intervista Hedy Graber, responsabile della Direzione affari culturali e sociali della FCM, ci spiega in dettaglio cosa cambia
Signora Graber, Migros ridefinisce la sua promozione culturale. Perché vengono cambiate le varie forme di sostegno, benché finora abbiano dato buona prova di sé?
Innanzitutto vorrei dire che non abbiamo mai cessato di rinnovarci. Prendiamo ad esempio il festival della danza Steps, che organizziamo a cadenza biennale. Dalla sua istituzione, nel 1988, ha già subito parecchi cambiamenti. I cambiamenti che stiamo introducendo adesso sono legati all’odierna evoluzione della società. Vogliamo rispondere nel migliore dei modi ai nuovi bisogni di chi fa cultura. In concreto, come procederete?
Abbiamo sviluppato nuove forme di sostegno. Ad esempio, in aprile lanceremo un bando di concorso denominato «Nuove prospettive». In questo modo intendiamo partecipare alla realizzazione dei nuovi formati del futuro e seguirli nel loro sviluppo. Lo scopo è di incentivare le innovazioni, per renderle accessibili a un pubblico più vasto. Quali sono i vantaggi per la collettività di questo tipo di promozione culturale?
In quanto promotore culturale privato, Migros ha sviluppato forme di sostegno che, idealmente, vanno a integrare i sussidi statali. Prendiamo ad esempio una compagnia di danza. Sicuramente riceverà dei soldi pubblici per ideare una coreografia, la cui messa in scena però potrà essere eseguita forse solo una o due volte. Ora, grazie alla nostra nuova formula di aiuti chiamata «Diffusione», la compagnia potrà richiedere il nostro sostegno per produrre lo spettacolo più volte. E così ne approfittano sia gli artisti che il pubblico. Dunque, i vari attori culturali non sa-
Migros porterà avanti i suoi quattro grandi progetti: il Festival di danza Steps, il Migros Museum, i concerti di musica classica e il festival di musica pop «m4music». (migrosmuseum.ch /DR; m4music.ch/DR; Keystone)
Hedy Graber, responsabile Direzione affari culturali e sociali. (Vera Hartmann) ranno più sostenuti nel loro lavoro creativo?
Lo saranno, ma soprattutto nella fase preliminare del processo. Per questo abbiamo sviluppato il concetto denominato «Ideazione», che consente agli artisti di affinare le loro idee senza la pressione del tempo. Questa fase che precede il processo di produzione è spesso trascurata, mentre invece è fondamentale.
Comunque, alcuni tipi di aiuto spariranno. È il caso delle borse di studio per i giovani talenti, che permettono loro di intraprendere una formazione in condizioni ottimali. Perché interrompere questo aiuto finanziario?
Continueremo a sostenere le nuove leve, ma in un’altra forma. Anziché dare semplicemente dei soldi, chiederemo ai giovani artisti di cosa hanno bisogno esattamente e li seguiremo in altri modi nelle fasi iniziali della carriera. Vorrei aggiungere che finora queste borse di studio erano riservate a determinate discipline, come la danza, la musica e il teatro. Con il nuovo tipo di promozione culturale queste restrizioni scompaiono, poiché intendiamo rivolgerci a una cerchia più larga di
talenti. Ad esempio, un giovane che si dedica alle arti plastiche e che finora non aveva alcuna possibilità di richiedere un aiuto, ora potrà farlo. Non si tratta quindi di misure di risparmio?
Assolutamente no. La somma complessiva che Migros destina alla cultura resta invariata. Ma se vogliamo sviluppare nuovi progetti, è necessario creare spazio. Lei parla di nuovi progetti, quali sono?
Ad esempio, estenderemo il nostro sostegno per i giovani artisti a tematiche che i giovani d’oggi ritengono importanti. Stiamo già sviluppando nuovi progetti nel campo delle arti teatrali, delle belle arti e del film. Abbiamo inoltre istituito un sistema di mentoring e coaching in diverse discipline, come la danza, il teatro, la musica. Qui gli aiuti potranno assumere diverse forme, quali la consulenza artistica ma anche un’assistenza in campo amministrativo e di gestione delle finanze. Perché la vita di un artista è fatta anche di questi aspetti. Nel quadro della nuova politica culturale, puntate sui vostri quattro grandi progetti di lunga durata: i concerti di musica classica, il festival della danza Steps, il festival di musica pop «m4music» e il Migros Museum d’arte contemporanea. Com’è avvenuta questa scelta?
Questi progetti, che concepiamo e
realizziamo in proprio, ci distinguono dagli altri promotori culturali. Ad esempio, siamo gli unici in Svizzera a organizzare delle tournée con le grandi orchestre. Questi concerti ci permettono di dare l’opportunità ai giovani musicisti svizzeri di esibirsi in anteprima davanti a un folto pubblico e in auditori prestigiosi della Svizzera. Molti, però, percepiscono ancora la danza e l’arte contemporanea come tipi di arte elitari…
Può darsi, ma la nostra missione è anche quella di sensibilizzare il pubblico su qualcosa che forse non conoscono ancora. Ad esempio, nel campo dell’arte contemporanea invitiamo già oggi duecento classi all’anno a visitare il Migros Museum für Gegenwartskunst di Zurigo. E in-
tensificheremo ulteriormente questi aspetti della mediazione culturale. Inoltre, nell’ambito di Steps, stiamo istituendo dei corsi in cui gli scolari in tutta la Svizzera possono imparare qualche passo di una coreografia che sarà presentata durante il festival della danza.
Molti operatori culturali regionali sopravvivono grazie ai soldi del Percento culturale Migros. Devono iniziare a preoccuparsi?
Questo sviluppo della nostra politica culturale riguarda unicamente i progetti che sosteniamo a livello nazionale. Ognuna delle dieci cooperative continuerà a essere libera di sostenere chi vuole. Ed è qualcosa di molto positivo, perché esse conoscono molto bene il panorama culturale della loro regione. / Pierre Wuthrich
Un impegno che dura da 63 anni Il Percento culturale Migros è un impegno volontario a favore della collettività, ancorato negli statuti di Migros sin dal 1957. Nel 2018, le dieci cooperative regionali Migros e la Federazione delle cooperative Migros hanno investito 120 milioni di franchi a progetti culturali, sociali e istituzioni, come ad esempio le Scuole Club, l’Isti-
tuto Gottlieb Duttweiler, la Ferrovia del Monte Generoso o i quattro parchi Prato Verde di Rüschlikon, Münchenstein, Gurten e Signal de Bougy. Il Percento culturale Migros permette a una larga fetta della popolazione di accedere alla formazione e alle offerte culturali e sociali. www.percento-culturale-migros.ch
Il dolore dell’attesa e della fuga
In scena Al Sociale di Bellinzona la Giornata della Memoria è stata celebrata con Il dolore di Marguerite Duras;
al LAC la compagnia di Philippe Saire si è chinata sul mito di Atteone Giorgio Thoeni Raffinate qualità di interprete possono associarsi a diversi volti. Così un attore può essere al contempo autore e regista. Una sfida coraggiosa che è stata recentemente offerta a Margherita Saltamacchia chiamata a dar corpo e luce alla trasposizione scenica de Il dolore di Marguerite Duras. Un debutto che ha fatto da corollario alla Giornata della Memoria, un’iniziativa prodotta dal Teatro Sociale e dal suo direttore artistico Gianfranco Helbling che ha dato l’opportunità a tre giovani artisti del territorio di sottolineare quanto il teatro possa contribuire alle emozioni senza ricorrere a grandi mezzi ma lavorando sulla forza espressiva delle parole e sulle idee. La Saltamacchia ha così progettato la trasposizione del romanzo autobiografico della Duras grazie a un monologo reso con l’aiuto di Rocco
Schira (violino, voce e loopstation) e Raissa Avilés (voce e canto) in un gioco di suggestioni sonore per raccontare i tormenti della scrittrice francese in un momento particolarmente doloroso
Margherita Saltamacchia è la protagonista de Il dolore. (Teatro Sociale)
della sua vita: l’attesa per il ritorno del marito Robert L. dai campi di sterminio nazisti. Una lunga e disperata attesa testimoniata sulle pagine di un diario che in seguito diventerà un romanzo autobiografico. Nel compiere il passaggio dalla lettura scenica all’allestimento teatrale, Margherita Saltamacchia affronta l’esercizio nel rispetto dei livelli espressivi che la scrittura impone attraverso la duplice dimensione del tempo dell’attesa, cadenzata dal passare dei giorni e quello del presente, scandito dal momento in cui il marito ritorna, in uno stato pietoso ma sopravvissuto al campo Dachau appena liberato dagli americani. Il diario della Duras si articola così in due parti, tra pagine di riflessioni sulla vita, sull’essere, e il dramma di non riuscire a ricostruire e a vivere il presente. Questa versione teatrale, dopo le fortunate letture sceniche de Il fondo del sacco e
di Frankenstein, autoritratto d’autrice, permette alla Saltamacchia di trasformare le pagine della Duras in un adattamento agile, dinamico, efficace nella sua forza evocativa amministrata con delicata sensibilità recitativa. Una bella prova di maturità per l’attrice che si è impadronita del personaggio con naturalezza e passione, un’empatia e un messaggio trasmessi alla platea del Sociale, piena per l’occasione. Contribuiscono al successo dell’operazione i contributi di Rocco Schira con la splendida voce di Raissa Avilés: atmosfere sonore realizzate, va aggiunto, in stretta collaborazione. Caccia e allegoria alla corte di Philippe Saire
Il pregio di una coreografia è quello di riuscire a raccontare una storia attraverso i movimenti del corpo. Gli artisti contemporanei, quelli più affermati
e vivaci, si fanno spesso aiutare dalla dimensione multimediale. Philippe Saire, danzatore e coreografo svizzero, per il suo Actéon, andato in scena nella Sala Teatro del LAC, ha preferito affidare la sua vena creativa al corpo dei danzatori in uno spazio nudo raccontando un mito. Durante una battuta di caccia, Actéon si imbatte nella grotta in cui Diana e le sue compagne fanno il bagno. La dea, adirata per l’oltraggio, gli spruzza dell’acqua sul viso trasformandolo in un cervo che dovrà scappare, braccato dai suoi stessi cani. Nel fruscio della foresta e con (insoliti) inserti cantati, Saire si schiera col racconto della caccia con una danza fisica e coinvolgente, che usa la metamorfosi di Actéon per un’allegoria di grande efficacia per la bravura dei suoi interpreti: Gyula Cserepes, Pierre Piton, Denis Robert e David Zagari.
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Cultura e Spettacoli
Trenta che in realtà sono molti di più Fotografia I tre decenni della ConsArc
in una mostra celebrativa
Franco Cattaneo
Gian Franco Ragno
Banco 2.0, quando la musica è vera
Intervista A colloquio con Vittorio Nocenzi, da quarant’anni
la mente di una delle band storiche del pop italiano
Alessandro Zanoli Il Banco del Mutuo Soccorso al Teatro di Chiasso. Un’occasione irripetibile per incontrare Vittorio Nocenzi (a dest. nella foto), personalità tra le più importanti nella storia della musica italiana. All’altezza (senza esagerazione alcuna) di Battiato, Battisti, Fossati, solo per rimanere nel novero dei compositori. Detto questo, occorre essere realisti. I dischi più belli del Banco sono quelli degli anni 70. Poi l’epoca del «disimpegno», la rincorsa della melodia accattivante che trovasse ascolto nelle radio commerciali ha sicuramente diluito il carattere della band. Brani come Paolo Pa, Moby Dick, Grande Joe, per quanto ben curati e conosciuti, non rispecchiano completamente la caratura del gruppo. Che può essere ritrovata in pieno, invece, in uno dei più bei dischi del pop italiano, Banco... Di Terra del 1978.
Il Banco del Mutuo Soccorso è tornato sulla scena con un concept album, Transiberiana Mentre riflettiamo su tutte queste cose, arriviamo all’albergo chiassese in cui Nocenzi e compagni sono ospitati. I nuovi membri del gruppo sono tutti lì, con il Maestro. Vittorio, dall’alto della sua storia, con i suoi quasi 70 anni e con una barbetta bianca patriarcale, incute una certa soggezione. Di persona, invece, si dimostra assolutamente gioviale e affabile: l’intervista si trasforma in una chiacchiera informale, piacevole, entusiasmante persino, con tutta la band. Chi scrive chiede conferma a Nocenzi sul fatto che il termine «prog», etichetta che oggi classifica la musica del Banco, non esistesse negli anni in cui quella musica era in voga. Nocenzi è d’accordo: «Si chiamava pop-rock. I critici amano mettere etichette perché semplifica loro il compito». E qui Nocenzi si toglie un primo sassolino dalla scarpa. «Tutti i musicisti italiani soprattutto di rock-prog hanno subito delle angherie insopportabili dalla cosiddetta critica musicale italiana. All’epoca erano profondamente ignoranti, nel senso etimologico: ignoravano la musica, e consideravano il rock soltanto un’espressione di costume sociale.
Non l’hanno mai considerato una forma d’arte o una forma di produzione culturale, un momento di creatività come la letteratura». Non ci viene in mente di fargli notare che lo stesso forse è accaduto alla critica cinematografica. Ma tant’è: come cronisti siamo stati messi in guardia. (Va notato che qualcuno dei suoi musicisti non è stato così critico verso l’etichetta «Prog»: avrebbe il vantaggio, in fondo, di definire un genere in costante evoluzione, e questo non è male). Con Vittorio Nocenzi, evidentemente abbiamo voglia di parlare di Transiberiana, il recente disco di inediti che segna il ritorno del Banco sulle scene. Nocenzi ci spiega: «Se tu ascolti la Legacy edition del 2017 di Io sono nato libero, il nostro terzo album, nei trenta minuti di registrazioni inedite con la nuova band, ci trovi tutta Transiberiana: la scelta dei tempi, l’orchestrazione, certi suoni, l’approccio ritmico, la ripartizione condivisa di tutti gli elementi che ci caratterizzano». In effetti, negli scorsi anni Nocenzi ha curato per la Sony tre riedizioni, migliorate tecnologicamente e ampliate, dei primi tre dischi del banco. Il gruppo che suona oggi con lui (composto da Filippo Marcheggiani e Nicola di Già alle chitarre, Marco Capozi al basso, Fabio Moresco alla batteria e Tony D’Alessio al canto) si è riunito la prima volta nel 2017 per la riedizione del terzo album, forse il più complesso musicalmente e per contenuti tra i dischi «storici». «Lì è stata una nuova scommessa che miracolosamente abbiamo vinto... Ma se tu mi chiedi come, non so dirlo: posso soltanto raccontarti le fasi del lavoro. È stato un miracolo. Perché contemporaneamente dovevamo dare certezza di contenuti, e quindi una identità che fosse all’altezza di quella del vecchio Banco, ma parallelamente dovevamo rinnovare quell’identità». Dall’ascolto, di Transiberiana, oggi, pare di trovare un Banco un po’ più rock. «E questa impostazione rock cosa esprime?» incalza Nocenzi. Tocca a noi rispondere: rabbia? incazzatura? «Ma tu come staresti dopo che hai perso due compagni con cui hai vissuto una vita? È stata una reazione rabbiosa». Il musicista allude alla tragica scomparsa nel giro di pochi anni di due elementi fondanti del gruppo, il cantante Francesco Di Giacomo e il chitarrista Rodolfo Maltese. «Avevo bisogno forsennatamente del suono più rock e
più duro che sta dietro a Transiberiana. Non potevo fare la pastorale dell’Arcadia. Era successo uno tsunami devastante. La musica dev’essere vera. Poi se riesci a scriverla bella o brutta questo è un altro dato. Ma tu devi porti il problema di scrivere una cosa vera. Soprattutto per una storia come questa. Una storia vera, fatta di persone, di poesia, di arte, di creatività. E la devi rispettare mettendoti dei paletti seri. Io ho rotto le scatole ai ragazzi della band per tutto il tempo che sono stato in studio, cinque mesi di lavoro intensissimo. Dicevo “Ragazzi deve essere un disco vero... ragazzi deve essere un disco vero”. Un disco vero, autentico, non si deve “annusare” nessun calcolo di produzione discografica... Non dobbiamo fare il verso alla storia del Banco, a noi stessi. Dobbiamo essere il nuovo Banco!». Lui lo chiama Banco 2.0. Ed è una formazione speciale: uscito da tempo dalle file del gruppo il fratello di Nocenzi, Gianni, è ora entrato a collaborare il figlio di Vittorio. «Un’altra cosa che mi è tornata indietro, da parte del destino, è scoprire in mio figlio più piccolo Michelangelo, il terzo, un gran talento musicale. Ovviamente è qualcosa che fa parte del DNA. Lui è arrivato e mi ha fatto sentire delle cose. E ogni volta mi scattava sempre la stessa sensazione. Mi sembrava di averla scritta io, di persona. Questa cosa mi divertiva, mi sorprendeva e mi entusiasmava. Per cui istintivamente mi sono trovato a scrivere tutta Transiberiana con Michelangelo a quattro mani. Un piacere in più poi è stato quando la band si è appropriata del nuovo repertorio e l’ha fatto suo». Ma lei, Nocenzi, era sicuro, che il gruppo sarebbe riuscito a soddisfare le sue aspettative? «Certo che no. Infatti mi sono sentito tanto un sarto che disegna il modellino del vestito, sceglie le stoffe, le taglia, le cuce, ma finché la persona per cui è pensato quel vestito non lo indossa, non sai se hai fatto un errore. E io aspettavo il momento in cui la band dovesse indossarlo. Alle chitarre di Filippo e di Nico. Alla voce di Tony. Alla batteria di Fabio, al basso di Marco. Alla fine ho avuto la prova del nove. Avevo azzeccato modello e stoffa. E loro ci hanno messo il carico da dodici sopra. Perché l’interpretazione vocale, le parti del basso e della batteria, le chitarre erano quelle giuste: vedi che ti è arrivata questa rabbia, questa energia?».
Tra i primi spazi in Svizzera dedicati esclusivamente alla fotografia, la Galleria ConsArc di Chiasso compie trent’anni. La prima esposizione fu proprio quella dell’indimenticato grafico Max Huber, il quale presenziava negli orari della mostra mettendo in sottofondo i suoi amati brani jazz. Si tratta di un lungo periodo di attività, soprattutto per una galleria d’arte, durante il quale, con grande regolarità e inesausta passione, i due titolari Guido e Daniela Giudici hanno promosso la fotografia ma anche, e in parallelo, un laboratorio di conservazione e di cornici che d’ora in avanti sarà gestito dal fidato collaboratore degli ultimi anni, Andrea Longo. È difficile riassumere un così ricco e continuo percorso ma sicuramente si può dire qualcosa sui risultati: qui si è contribuito a sprovincializzare un’arte che veniva considerata pratica da amatore della domenica, senza un reale mercato. I titolari hanno sintonizzato le loro scelte su ciò che accadeva sul piano internazionale, anche qui pionieristicamente, come ad Arles ai Rencontres de la photographie oppure nella prima sede della Fotostiftung Schweiz, allora ancora al Kunsthaus di Zurigo, prima di approdare a Winterthur. In Ticino si sono mossi con una certa comunione d’intenti e anche collaborando con le realtà museali che per prime esposero la fotografia contemporanea quali il Museo Cantonale d’Arte (1987) e la Galleria Gottardo (1989). La collettiva Trenta è una piccola sintesi di tale percorso, tuttavia equilibrata e rappresentativa di alcune linee direttrici che hanno sempre avuto continuità sulle pareti della galleria: la scuola italiana di paesaggio (Gabriele Basilico, Massimo Vitali e Francesco Radino), artisti svizzeri scoperti ed esposti spesso in anteprima al sud delle Alpi (Andreas Siebert, Gérard Pétremand) e artisti dall’impronta concettuale al confine tra arti plastiche e fotografia (MariaPia Borgnini, Françoise e Daniel Cartier). Con qualche escursione fuori dai territori abituali, qui con delle immagini di Berlino di Cristof Klute – tedesco allievo dei coniugi Becher – e l’italiano Gabriele Jardini, autore di nature morte dal profondo senso compositivo, ricche di dettagli da leggere in successione. Naturalmente l’elenco degli autori avrebbe potuto essere più lungo: basti
pensare che nello spazio, ricavato da una piccola fabbrica di camicie, è passata, tranne poche eccezioni, la migliore fotografia italiana (Mimmo Jodice, Mario Cresci, Vittore Fossati, Pino Musi fino alle nuove generazioni ben rappresentate da Maurizio Montagna), numerosi svizzeri di qualità (Nicola Savary, Jean Marc Yersin, Luca Zannier), la migliore fotografia ticinese (Alberto Flammer, Stefania Beretta, Giovanni Luisoni e, per adozione, Flor Garduño) e altri giovani promettenti presentatisi al pubblico con una personale, oggi conosciuti meritatamente oltre i confini nazionali (Gian Paolo Minelli, Christian Tagliavini, Igor Ponti). Nella piccola cittadina di confine la Galleria ha anche promosso uno dei primi festival della fotografia svizzeri – la Biennale dell’Immagine – oggi più che ventenne. Una manifestazione che ha portato per la prima volta in Europa – nella cittadina di confine, che ha un cartellone culturale degno di una città assai più grande – un’autrice come Vivian Maier, oggi fra le fotografe più amate su scala mondiale, e persino un progetto site-specific di Beat Streuli, considerato da molti uno dei maggiori artisti svizzeri contemporanei. Sarebbero molte le storie, gli aneddoti, le scoperte che hanno avuto luogo tra queste pareti. Pur in una nuova forma, la Galleria ConsArc continuerà a proporre al suo affezionato pubblico quattro o cinque appuntamenti fotografici all’anno. Tra le molte storie, vale forse la pena di ricordare quella più incredibile, rappresentata dalla traiettoria di Massimo Vitali. Proprio qui nel 1995, ancora con qualche dubbio, il fotografo toscano iniziò a esporre la primissima serie di Spiagge italiane – immagini riprese dall’alto nelle tonalità high-tone, con la folla dei bagnanti spesso circondata da contesti non propriamente congrui, come fabbriche o centrali nucleari – che presto divennero un marchio di fabbrica conosciuto sulla scena artistica internazionale. Diventarono poi la copertina del catalogo dei Rencontres d’Arles del 1997, ebbero un largo riconoscimento internazionale e approdarono, traguardo definitivo per ogni artista, alla Biennale di Venezia nel 2001. Dove e quando
Trenta. Collettiva autori della galleria. Chiasso, Galleria ConsArc. Fino al 29 febbraio 2020. galleriaconsarc.ch
Gli interni di ConsArc, galleria in cui è allestita la mostra Trenta.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Cultura e Spettacoli
Ciak, si gira in Ticino
Location ticinesi/1 Il nostro Cantone è sempre stato un set molto amato
per la realizzazione di corto e lungometraggi
Con 1917 non ci si può identificare Cinema Il nuovo
film di Sam Mendes
Nicola Falcinella Da James Bond che si butta dalla diga della Val Verzasca fino ad Alessandro Siani che scorribanda a Lugano. Sono solo due delle immagini più note del cinema ambientato in Canton Ticino. Una storia lunga più di 100 anni, oggi ripercorribile sul sito OltreconfiniTi grazie allo schedario sviluppato in collaborazione con Ticino Film Commission, Cantone e Ticino Turismo, partendo dal corposo volume Backdrop Switzerland curato da Cornelius Schregle nel 2016. Alcuni di questi titoli sono stati oggetto di una mostra interattiva all’Expocentro di Bellinzona in occasione del recente festival Castellinaria. Si contano più di 130 opere di finzione realizzate dal 1915 in poi, girate per solo qualche scena o interamente sul territorio, con la presenza di tanti attori di nome e registi di vaglia. Il censimento parte da Ma l’amor mio non muore (1913) di Mario Camerini con la diva nascente Lyda Borelli e Mario Bonnard e una gita sul lago Maggiore. A quel decennio appartengono i cortometraggi, cominciando da Barriere umane, di Giovanni Zannini, veneziano di nascita e autore delle prime produzioni svizzero italiane. Nel 1926 sarà la volta di Violantha di Carl Froelich con protagonista il futuro regista Wilhelm (William) Dieterle (tra i tanti lavori Emile Zola e Vulcano) girato tra Airolo e il San Gottardo. A inizio anni 30 si intensificano le produzioni a opera di registi che diventeranno celebri: il musicale Das Lied einer Nacht di Anatole Litvak girato a Locarno e Lugano; Addio alle armi di Frank Borzage a Brissago; Das blaue Licht di Leni Riefenstahl e Bela Balazs alla cascata di Foroglio; Segreto ardente – Brennendes Geheimnis di Robert Siodmak (La scala a chiocciola, I gangsters, I topi) ad Ascona, località dove il regista si sarebbe poi ritirato in tarda età. In tempo di guerra il più importante è L’ultima speranza – Die letzte Chance (1945) di Leopold Lindtberg su un gruppo di persone che cerca di raggiungere la Svizzera e mettersi in salvo, girato a
Nicola Mazzi
Al Pacino e Marthe Keller in Bobby Deerfield (1977), girato anche in Ticino. (Keystone)
Gandria, Arcegno, Mergoscia, Caprino e Lamone, premiato a Cannes e ai Golden Globe. Negli anni 50 sono presenti produzioni tedesche, inglesi, francesi e svizzere, tra queste Madame de... del grande Max Ophüls. Del 1961 nella Leventina si gira Wilhelm Tell – La freccia del giustiziere, sull’eroe nazionale già protagonista nel 1924 di Die Entstehung der Eidgenossenschaft girato a Bellinzona. Negli anni a seguire il Ticino è nell’immaginario cinematografico ancora luogo di speranza, meta di viaggi esotici, di intrighi e polizieschi. A Lugano c’è clima di vacanze nella commedia musicale tedesca Conny und Peter machen Musik di Werner Jacobs del 1962. Del 1966 è Svegliati e uccidi di Carlo Lizzani sul bandito milanese Luciano Lutring, filmato anche a Vezia, Cadempino e il lungolago luganese. Nel decennio dei 70 si intensificano le produzioni, tra queste Storia di confine (1971) di Bruno Soldini, considerato il primo lungometraggio di finzione svizzero italiano e ambientato nel Mendrisiotto.
Il tema della frontiera è ripreso fin dai primi lavori di Villi Hermann, il più importante regista del Ticino, che esordisce in quegli anni: San Gottardo è presentato a Cannes e vince il Pardo d’argento a Locarno nel 1977. L’autore ambienta nella sua terra i tre film di finzione: Matlosa (1981, in concorso alla Mostra di Venezia) in Cento Valli, Val Verzasca, Rovio e Lugano con le memorabili scene del «senza patria» in centro città; Innocenza (1986) girato a Gandria, Figino, Lugano, sul Ceresio, a Mendrisio e Campione; Bankomatt (1989, in gara a Berlino) con un colpo in banca a Lugano. Parecchi sono gli inseguimenti, le fughe, i gialli e i polizieschi che arrivano a Chiasso: Il caso Venere privata (1970) di Yves Boisset con Bruno Cremer, Milano odia: la polizia non può sparare (1974) con Tomas Milian o Un posto ideale per uccidere (1971) con Ornella Muti, entrambi di Umberto Lenzi. Inizia alla dogana La più bella serata della mia vita (1972) di Ettore Scola, commedia nera tratta da La panne di Dürrenmatt, con Alberto Sordi che
deve depositare in banca una grossa cifra e si trova a inseguire una bella motociclista. Già nel 1964 Scola aveva fatto di Lugano la meta dei protagonisti de La congiuntura, Vittorio Gassman e Joan Collins nei panni di un principe e un’affascinante donna inglese. Set ticinese anche per Al Pacino pilota automobilistico in Bobby Deerfield – Un attimo, una vita (1977) di Sydney Pollack e per Michael Caine che fonda una banca a Lugano in Uomini d’argento di Ivan Passer. Sempre sul lago è Una notte in bianco (1979) di Clarisse Gabus con Jane Birkin, JeanLouis Trintignant e Jean-Luc Bideau, mentre sul Monte Brè è Un dramma borghese di Florestano Vancini con Franco Nero e Dalila Di Lazzaro. In Ticino per un equivoco sconfina il giovane militare interpretato da Enrico Montesano nel terzo episodio di Io tigro, tu tigri, egli tigra. Arriva a Lugano, all’Hotel Splendide, Paolo Villaggio in A tu per tu (1984) e l’anno dopo c’è ancora la città lacustre, la più cinematografica del cantone, in Sotto il vestito niente di Carlo Vanzina.
Douglas Sirk, maestro del melodramma Rassegne Grazie all’encomiabile lavoro dei Cineclub presenti sul territorio,
il pubblico può vedere sul grande schermo alcuni capolavori del regista Giovanni Medolago
Si concluderà in aprile la proposta più recente dei benemeriti Cineclub ticinesi, Un’introduzione al cinema di Douglas Sirk, il regista-globetrotter che rimbalzò dalle scene teatrali al set, di qua e di là dell’Atlantico; da Amburgo (dove nacque nel 1897 in una famiglia d’origine scandinava) a Copenaghen, Berlino, Monaco, Hollywood e infine a Castagnola, dove si spense nel 1987, a 90 anni. Sirk fece parte di quella formidabile pattuglia di cineasti europei (registi, attori, produttori) che furono chiamati a Hollywood – Ernst Lubitsch, già alla fine degli Anni 20 del secolo scorso – o che laggiù in California trovarono rifugio dopo l’avvento del nazismo. Sirk «resistette» sino a pochi mesi prima di quel fatale settembre 1939, quando la situazione si fece insostenibile soprattutto per sua moglie, di famiglia ebrea. Negli USA non ebbe vita facile e fu costretto a restare per anni inattivo. Ostinato e caparbio, Sirk non si diede per vinto nonostante i tanti progetti andati in fumo e i molti «no» incassati da produttori sovente inetti o perlomeno incapaci di cogliere il suo talento.
Da sin. Douglas Sirk, Rock Hudson, Jane Wyman e Ross Hunter sul set di Magnifica ossessione (1954). (Keystone)
Il successo cominciò a sorridergli alla fine degli Anni 50. Dapprima con Fiori nel fango, poi soprattutto con Magnifica ossessione, Secondo amore (All That Heaven Allows) e Imitation of Life (tradotto in modo meno pedestre con Lo specchio della vita). Una trilogia che rese Douglas Sirk un maestro del melodramma, idolatrato da R.W. Fassbinder e amato da Pedro Almodovar.
Melodramma, dal greco «canto, musica» e «finzione scenica», è diventato sinonimo di opera lirica. Le cose si complicano però quando si tratta di definire un «melodramma cinematografico». Storici e critici non sono mai giunti a un chiarimento definitivo, accontentandosi di precisare cosa deve avere un mélo per chiamarsi tale: un elenco andato ad allungarsi nel corso
dei decenni. Esaltazione dei conflitti e dei sentimenti; sottolineatura di fato e destino (e qui val la pena di ricordare che Sirk perse un figlio appena 19enne, caduto con la divisa della Wehrmacht sul fronte russo), forze profonde e ineluttabili che muovono i personaggi. Turbinio di passioni e accadimenti grazie ai quali si accende l’identificazione del pubblico in almeno uno dei personaggi. L’uso di una retorica ampia, aulica e codificata, sebbene non in termini perentori, sì da poter lasciare uno spiraglio al colpo di scena. Infine, gli atout precipui del cinema: l’esaltazione della scenografia, dei valori figurativi e simbolici della messa in scena; e un clamoroso uso del colore. «Tutte tinte forti e vivaci – scrive François Truffaut ne I film della mia vita a proposito di Sirk – verniciate e laccate da far urlare qualsiasi pittore. Ma sono questi i colori dell’America e del XX secolo, colori industriali che ci ricordano che viviamo nell’età delle materie plastiche». Dove e quando
Per date e orari di proiezione di Magnifica ossessione, Secondo amore e Lo specchio della vita: www.cicibi.ch
Dopo la vittoria, a sorpresa, del Golden Globes quale miglior film, 1917 potrebbe fare il bis con gli Oscar il 9 febbraio. Sono ben dieci le sue Nomination, come The Irishman e C’era una volta… a Hollywood, uno scalino sotto le undici di Joker. Siamo nel mezzo della Prima Guerra Mondiale e due giovani caporali britannici (Blake e Schofield), che stanno combattendo nel nord della Francia, sono incaricati di consegnare una lettera a un altro battaglione su un attacco a sorpresa dell’esercito tedesco. Per salvare 1600 commilitoni, tra cui il fratello di Blake , i due cominciano una corsa contro il tempo attraverso il fronte tedesco. Sam Mendes (autore di American Beauty, Era mio padre, Revolutionary Road e Skyfall) ha molto coraggio e utilizza un falso piano sequenza (senza raccordi apparenti, a eccezione di discreti «cerotti» digitali e una sola ellissi che permette di passare dal giorno alla notte) per descrivere la corsa dei due soldati. Questo modo di girare avvicina lo spettatore alla scena, lo fa sprofondare completamente nel fango, tra i topi e i corpi maciullati dalle granate. Una fluidità di immagini che ha il potere di immergerlo nelle brutture della guerra e di trasformarlo nel terzo soldato. E quindi vive, insieme a loro e in tempo reale, gli ostacoli che si presentano. Perciò, soprattutto si spaventa. Ecco, la vera e forte emozione che vive lo spettatore durante le quasi due ore del film è lo spavento. L’altra emozione, anzi la non emozione, è l’apatia. Mi spiego meglio: il viaggio di Blake e Schofield è costruito come un videogame di quelli semplici. C’è una missione da compiere e per raggiungere l’obiettivo occorre superare una serie di ostacoli. E come un videogame: emoziona, ma non identifica. Il personaggio che si usa per giocare resta uno strumento mosso dalla console. Non riesci mai a identificarti con lui. La guerra di trincea è stata rappresentata molte volte al cinema (anche se meno della Seconda Guerra Mondiale) ricordiamo per esempio La Grande Guerra di Monicelli e Operazione Crêpe Suzette di Blake Edwards, entrambi dal tono agrodolce. Ma il film più importante resta sicuramente Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick. Un riferimento sicuro per 1917 di Mendes (non è un caso che siano ambientati entrambi in Francia), soprattutto per il modo di girare. Le lunghe carrellate iniziali dentro le trincee che seguono Kirk Douglas (il colonnello Dax) sono state «copiate» da Mendes. Ma a differenza di 1917, Kubrick non costruì un videogame, realizzò un’opera complessa dove emerge tutta la gamma dei sentimenti umani: dalla lealtà all’ipocrisia. Sentimenti che contribuiscono a sovrapporre lo spettatore al personaggio, a creare la tanto cercata identificazione. La grande assente di 1917.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 febbraio 2020 • N. 06
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Cultura e Spettacoli
Cool, indisciplinate e aperte al futuro
Divertitevi con Mirko Musica Si è chiusa
Giornate di Soletta Si è appena conclusa la 55esima edizione della kermesse,
la fortunata (e bella) tournée di Rkomi
Muriel Del Don
Tommaso Naccari
La 55esima edizione delle Giornate di Soletta è stata un po’ diversa dalle altre, forse più giovane, decisamente aperta al futuro. Dopo nove edizioni alla testa della manifestazione, Seraina Rohrer ha lasciato il posto di direttrice alla carismatica Anita Hugi, una figura nota nel panorama culturale svizzero e internazionale (per molti anni direttrice della programmazione del Festival International du Film sur l’Art di Montreal). Poliglotta, determinata e senza peli sulla lingua, Anita Hugi ha affrontato con coraggio una sfida non certo facile: riprendere le redini di una manifestazione storica, considerata da molti (troppi forse) come intoccabile. Accolte tra le stupende mura di Soletta, annidate tra le sue stradine dove il tempo sembra essersi fermato, le Giornate di Soletta si impongono da ben 55 anni come l’appuntamento immancabile per il cinema svizzero. Difficile per la nuova direttrice imporre il proprio tocco, tanto la formula della manifestazione sembra immutabile. Anita Hugi, con la grinta che la caratterizza, c’è comunque riuscita, improntando la sua prima edizione sui giovani e sulle donne, due «categorie» troppo spesso dimenticate o peggio sottovalutate. Per questa nuova edizione, entrambe sono state spronate ad alzare la testa con fierezza spiccando in un universo che tende a lasciarle nell’ombra. La nuova direttrice ha saputo portare avanti le battaglie combattute da Seraina Rohrer, aggiungendo strada facendo, e forse involontariamente, la sua impronta personale: «non volevo cambiare tutto solo per fare in modo che tutti si rendessero conto che c’era una nuova direttrice. Per me l’importante è conoscere bene il festival per farlo poi evolvere». Anita Hugi vuole confrontarsi e abbattere gli ultimi cliché legati a una manifestazione che non ha (ancora) la fama del «cool». Austerità, intellettualismo e diciamolo pure (anche se purtroppo non è il caso solo di Soletta) dominazione maschile devono, sotto l’egida di Hugi, lasciare il posto a una brezza nuova che già si sente soffiare sull’Aar. La nuova edizione
Le date «di casa» dei live sono sempre un terreno al limite tra il giocare in casa, per l’appunto, e la montagna insormontabile da scalare. Nella propria città – tendenzialmente Milano – ci sono gli ospiti, i club più popolati, gli amici di sempre che ti guardano, i nemici di sempre che un po’ rosicano. La doppia data di Rkomi a Milano è stata la consacrazione di Mirko come artista altro, che trascende le etichette di genere e di tipo: da domenica intorno a mezzanotte – ovvero la fine dell’ultima tappa del suo tour – Rkomi è un artista. E basta. Coriste, un set di luci senza scopiazzare gli americani con wall led e visual, gli amici di sempre Ernia e Tedua che salgono sul palco e si stringono in un abbraccio fraterno, il primo producer «big» ad aver creduto in lui presenza quasi costante sul palco (parliamo di The Night Skinny, se non lo conoscete andate a sentirvi prima Sissignore poi Fuck Tomorrow per capire il legame che li unisce), i big della scena che hanno creduto in lui e che lo fanno tutt’ora, da Marracash che ha messo la propria firma sul primo disco ufficiale di Rkomi, a Fibra, Gué e Noyz che, come dice in una celebre canzone, ha spaccato il palco «co’ uno der ’94». Nel live al Fabrique di Rkomi c’è tutto, soprattutto c’è la gente – riuscire a passare dal bancone del bar al cortile per fumare era un’impresa tutt’altro che facile, visto che fan di ogni genere, di ogni età e di ogni tipo, dal ragazzino con il cappello retato e la tuta adidas allo studente Bocconiano in cappotto cantavano scalmanati a squarciagola. E anche sul palco c’è spazio per tutto: c’è Jovanotti che si palesa come una voce registrata, ma c’è anche Falco,
capitanata per la prima volta dalla carismatica Anita Hugi
Anche quest’anno Soletta ha visto il pubblico delle grandi occasioni. (moduleplus.ch)
è stata quindi marcata dalla volontà di festeggiare le giovani leve, le menti creative, la differenza e l’emancipazione, alla ricerca di un «tocco svizzero» ancora difficile da definire. La nuova direttrice vuole mostrarci che anche in Svizzera esiste una nuova generazione forte e disinibita che non ha paura di esprimere la propria unicità. Multiculturale, atipica e spesso provocante, questa muta di giovani leve ha saputo imporsi sulla scena svizzera e internazionale dimostrando che anche tra le nostre frontiere la terra trema. Klaudia Reynicke e il suo magnificamente almodovariano e gender free Love Me Tender, Basil Da Cunha con il suo thriller sociale O Fim do mundo, Karim Sayad che con Mon cousin anglais mette in scena con coraggio e eleganza le difficoltà dell’immigrazione o ancora il potente African Mirror di Mischa Hedinger, che parla dei luoghi comuni legati a una pericolosa visione colonialistica dell’Africa, l’esilarante e coraggioso manifesto queer Madame di Stéphane Reithauser, senza dimenticare il poetico L’île aux oiseaux di Maya Kosa e Sergio Da Costa sono solo alcuni esempi di questo cinema diverso, aperto al futuro e libero dalle convenzioni. Non è solo una questione di età ma anche e soprattutto di attitudine, di voglia di rimettersi in gioco per trovare quel qualcosa di indefinibile che trasforma il cinema in magia, in strumento di riflessione sul mondo.
Quest’omaggio ai «primi film» (reali prime opere o perenni rimesse in discussione) è culminato nella festa dedicata alle scuole di cinema svizzere: HEAD (Ginevra), ECAL (Losanna), ZHdK (Zurigo) e HSLU (Lucerna). Accolto nella suggestiva e molto «berlinese» zona industriale di Riedholz, alla periferia di Soletta, tra le mura dell’ex fabbrica Attisholz, l’avvenimento festivo ha permesso a realtà pedagogiche al contempo simili e distanti di incontrarsi. La serata è stata preceduta dall’attesa Upcoming Award Night, cerimonia di consegna del premio per la «relève» (assegnato a Dejan Barac per Mama Rosa) e l’annuncio ufficiale dei nominati per il «Best Swiss Video Clip». La sezione «Upcoming», interamente dedicata alla scoperta e all’incoraggiamento di giovani talenti attraverso la proiezione di cortometraggi, video clip e l’immancabile Upcoming Lab che vuole mettere in contatto studenti alla fine dei loro studi e professionisti del settore cinematografico (produttori, distributori, critici, programmatori di festival, ecc.) sono un esempio emblematico degli sforzi fatti per incoraggiare i giovani talenti. Anita Hugi ha voluto rinvigorire le Giornate di Soletta permettendo a giovani che forse alla manifestazione non ci sono nemmeno mai stati, di scoprire una realtà diversa e stimolante, festiva e aperta agli scambi. Altro motore di cambiamento di
questa nuova edizione sono state le registe donne. Grazie alla sezione «Histoires du cinéma suisse», dedicata a Christine Pascal, Paule Muret e Patricia Moraz, alla retrospettiva in onore della grandiosa documentarista Heidi Specogna e al record storico di parità per quanto riguarda i film selezionati (fino a 59 minuti), le donne sono state finalmente messe sotto i riflettori. Un piccolo passo certo, ma decisivo che permette di sperare in un futuro più equilibrato e giusto. Anita Hugi ha voluto, soprattutto attraverso la sezione «cinéma copines» dedicata a Christine Pascal, Paule Muret e Patricia Moraz, far riscoprire al pubblico delle artiste che, malgrado siano state troppo a lungo sottovalutate, hanno avuto un impatto decisivo sul cinema svizzero. «Sono molto felice che si parli sempre più del problema della parità nella creazione attuale. Penso che la storia del cinema, e nel caso specifico del cinema svizzero, sia stata fortemente marcata da celebri sconosciute» afferma Hugi, come a volerci ricordare che il cinema non è certo solo un mondo per uomini. L’atelier pubblico dedicato alla stesura di profili Wikipedia dedicati alle registe svizzere ha rappresentato la ciliegina sulla torta di questa necessaria rivalutazione. Una 55esima edizione audace e rinfrescante che dimostra che anche il cinema svizzero può essere «cool», indisciplinato e aperto verso il futuro.
Junior Cally e l’assenza dell’arte
Festival di Sanremo Il «cantante» rappresenta la fine dell’era del patriarcato Paolo Sortino Magari vivessimo in un mondo sempre più complesso. Soffochiamo invece in una rapida involuzione animica eppure anche nella morte certa cerchiamo conferme. L’ultima arriva dalla peggiore discografia di sempre i cui arcani maggiori sono Misoginia, Violenza, Bruttezza. I minori sono il festival di Sanremo, Amadeus e Junior Cally, uno di quei «little poets trying to sound like Charlie Manson», come li ha chiamati Leonard Cohen nel profetico The Future che è il nostro presente. Dispongo le carte sul tavolo per una visione d’insieme ma ne manca sempre qualcuna. Senza, ogni gesto della politica si trasforma in una mano truccata: la prima è il Patto sociale. Che senso ha leggere la realtà, dibattere se poi non ci assegniamo un compito, un’azione comune per la crescita nostra e dei nostri figli? Chi ne ha, sa che arginare le degenerazioni del pensiero è sempre più difficile. Quelle che
butti fuori dalla porta rientrano dalla finestra e si è soli in questo perché improvvisamente i nostri ragazzi hanno smesso di essere figli della collettività. Non resta che parlare con loro, affrontare insieme ogni questione e la sera ti
Junior Cally è lo pseudonimo di Antonio Signore. (YouTube)
addormenti domandandoti se sia sufficiente. E mentre ti rigiri nel letto senti qualcuno osare dire che quella di Cally è arte, e in quanto tale non deve essere censurata. Per essere arte deve possedere i tre principi inalienabili: il bello, il buono e il giusto. Mancano tutti. Quanto alla censura, l’unica forma che concepisco è quella autoindotta, che un artista conosce e applica, ma abbiamo appurato che di arte non c’è neppure l’ombra e dunque cacciarlo a calci nel sedere sarebbe solo un gesto di buon gusto. Poi senti un altro dire che però farlo sarebbe da moralisti. Ma credere che la morale cambi coi tempi e a seconda delle aree geografiche è un alibi che serve a diversificare i prodotti dell’industria, oggetti di consumo. La morale è la legge naturale e immutabile che regge tutti gli esseri intelligenti e liberi. È la coscienza scientificamente applicata che ci fa apprendere i nostri doveri e l’uso ragionevole dei nostri diritti. E con questo passiamo diretta-
mente agli altri arcani mancanti. Uno, mai pervenuto, è la coscienza dei direttori artistici; l’altra è la libertà di espressione. C’è infatti anche chi dice che Cally ne ha diritto. Ma la libertà è la facoltà di fare o non fare (vedi autocensura), ma affinché avvenga che l’uomo possa completamente godere della libertà è necessario che sparisca ogni influenza tirannica, che sia distrutto ogni vincolo che sottopone un essere umano alle dipendenze di un altro e non, come suggerisce Cally, di uccidere e violentare. Infine il più fantasioso arriva a dire che è un anarchico, ma un anarchico è colui che si dà delle regole prima che gliele diano gli altri. Insomma, chi è costui? Cally è il corpo morente del patriarcato. Uno degli ultimi esponenti di un sistema di potere che non ha mai saputo pensare quell’alleanza tra uomo e donna a cui siamo destinati e non accetta che questa alleanza, che già esiste nei desideri delle donne che neanche si degnano di guardarlo, possa fare a meno di lui.
Mirko Martorana, in arte Rkomi, nel video di Milano Bachata. (Youtube)
l’inizio, la piazza, con Dasein Sollen, il primo brano, a metà del quale si vede correre Tedua tutto trafelato per non perdersi il ritornello del brano – quello sì puramente rap – che ha definitivamente consacrato il suo amico, coinquilino e infine collega. Rkomi esce da queste due date – che vogliono dire circa 10’000 persone pronte a pendere dalle sua labbra – sicuramente più adulto. Ho avuto la fortuna di assistere ai primissimi live di Mirko, nei club infimi della provincia italiana, e vederlo tener banco su un palco grande, con la band, mentre scherza con i fan, riceve rose e dice che dovrebbe essere lui a regalarle a chi sta sotto e preoccuparsi dell’idratazione dei propri seguaci lo rende un one man show che capisce che comunque la squadra vince sempre, da Junior K (il suo dj) fino ad arrivare alle coriste. Purtroppo questo tour è finito, ma se dovesse tornare nelle vostre città, non perdete l’occasione di vedere il nuovo Mirko: vi divertirete voi e si divertirà lui.
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