Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Per un corretto sviluppo dei bambini è fondamentale dialogare con loro, perché conversando si cresce meglio
Ambiente e Benessere Neve, ghiaccio, vento e permafrost: l’istituto SLF di Davos non emette solo bollettini delle valanghe, ma studia anche l’influsso dei cambiamenti climatici in alta quota
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 10 febbraio 2020
Azione 07 Politica e Economia Coronavirus: le responsabilità cinesi in materia di trasparenza sono gravissime
Cultura e Spettacoli Un ritratto della vita e del pensiero di George Steiner, scomparso pochi giorni or sono
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di Gianluigi Bellei pagina 34
Olafur Eliasson Weather orb, 2020 (F. Candrian Courtesy of the artist; neugerriemschneider, Berlin; T. Bonakdar Gallery, New York / L.A. © 2020 Olafur Eliasson)
Olafur Eliasson, fiat lux
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Una Brexit da inventare di Peter Schiesser Di solito, un divorzio viene pronunciato dopo che le parti si sono accordate su come lasciarsi, su quanto e che cosa spartire. Con Brexit è l’opposto: gli accordi che legano la Gran Bretagna all’Unione Europea restano in vigore fino a quando non ci sarà stato il tempo di scioglierli ordinatamente o rinegoziarli, in vista della definizione del futuro assetto globale delle relazioni fra Londra e Bruxelles. Di sicuro non è quanto ci si immaginava con il termine «hard Brexit». Il vantaggio è che si è evitato il caos nelle comunicazioni, nei rifornimenti, nei contratti di lavoro e commerciali. Il divorzio è comunque valido: da Bruxelles i funzionari britannici sono partiti. L’Unione Europea perde un quinto della sua forza industriale, il 13 per cento della popolazione, un quarto della sua potenza militare e l’illusione che il progetto comunitario sia irreversibile; la Gran Bretagna perde il suo posto in Europa e mette a repentaglio la sua industria d’esportazione (che genera il 60 per cento del PIL) visto che la metà dei prodotti viene venduta nell’Unione Europea. Il premier Boris Johnson vuole ottenere il miglior accesso al mercato dell’UE,
ma non a scapito della sovranità nazionale; Bruxelles risponde nei termini che siamo abituati a sentire in Svizzera: se vuoi approfittare del mercato, segui le regole valide per tutti (altrimenti avresti un vantaggio concorrenziale rispetto agli stessi membri dell’UE); e se siamo in disaccordo, ci rivolgiamo ad una corte indipendente, ma se il dissidio riguarda il diritto dell’UE si deve per forza far capo alla Corte di giustizia europea. Il 2020 ci dirà che cosa sarà questa Brexit, che cosa il premier britannico riuscirà davvero a ottenere. Gli inglesi sono gli unici europei a essere convinti che da soli avranno più successo che in un concerto di nazioni, ha detto in un’intervista alla NZZ l’intellettuale liberale inglese Timothy Garton Ash. E questo in un contesto in cui si staglia una lotta per l’egemonia mondiale fra Cina e Stati Uniti, nei commerci e ancor di più nell’alta tecnologia e nell’intelligenza artificiale. Ci vuole molto coraggio e molta fiducia, o forse molta presunzione per credere di poter vivere come durante l’impero solo perché si ha ancora una regina, anzi un Boris Johnson come primo ministro. Ma ci vorrà molto tempo per capire che cosa sarà la Gran Bretagna del futuro. O forse dovremmo parlare solo di Inghilterra, visto che la Scozia scalpita per avere un
nuovo referendum sull’indipendenza e l’Irlanda del nord guarda con interesse (commerciale) alla repubblica d’Irlanda. Certo, l’Unione Europea avrebbe tutto l’interesse a non lasciar andare alla deriva l’Inghilterra, considerando che sarà sempre più compressa fra Cina e Stati Uniti (e con una Russia che non ha mai dimenticato le sue mire imperialiste). Ma per farlo dovrebbe trasformarsi in qualcosa di più simile a quando era solo una Comunità europea, come la conoscevamo prima del 1992. Un’opzione impensabile, che porterebbe con sé la sparizione della moneta comune e renderebbe l’Unione ancor più debole a livello mondiale. In sostanza, la Brexit è la manifestazione di una crisi di senso, da cui dovrà scaturire la ricerca di una nuova identità, sia per l’Inghilterra e il resto della Gran Bretagna, sia per l’Unione Europea. Tutto questo in un momento in cui alla guida della Gran Bretagna c’è un premier che condivide una massiccia dose di narcisismo con il presidente americano, ed è quindi incline a seguire i propri interessi egotici più che quelli del paese; mentre sul continente c’è un’Unione che fra un po’ sarà orfana di una leader forte e credibile come Angela Merkel, e non sa con chi sostituirla.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Attualità Migros
Una giornata sulla neve per tutti Famigros Ski Day 2020 È già partito il calendario di appuntamenti per le famiglie
dedicati agli sport invernali: cinque iscrizioni gratuite in palio per la giornata di Airolo dell’8 marzo Dall’inizio del 2020 sono già più di un migliaio le famiglie che hanno preso parte alle prime sei giornate sugli sci organizzate da Famigros nell’ambito del Famigros Ski Days. La manifestazione che vuole sollecitare l’interesse per gli sport invernali si sta quindi avviando ad una nuova annata di successo. La formula delle giornate è ormai conosciuta: in 15 delle più importanti stazioni sciistiche svizzere viene allestito un villaggio speciale in cui trovano posto varie attività ludiche e stand promozionali di vario genere. Tutto questo fa da contorno ad una competizione sulla neve a cui possono partecipare le famiglie. Condizione per l’iscrizione è che la famiglia sia composta da tre a cinque persone (di cui al massimo due adulti): la partecipazione alle gare è permessa su sci o su snowboard. Inoltre, almeno un bambino deve essere nato dal 2006 in poi. Ogni famiglia può prendere parte al massimo a tre eventi per stagione. La quota di iscrizione è particolarmente vantaggiosa: comprende una carta giornaliera per la stazione in cui si tiene la giornata, un buono per il pranzo, un regalo per ogni famiglia iscritta e una medaglia ricordo. Il costo del pacchetto è di 110 franchi per famiglia ma per i membri di Famigros, il club delle famiglie di Migros (adesioni gratuite su: www.famigros. ch/iscrizione) e di Swiss-Ski, il prezzo scende a 85.– franchi. Al Famigros Ski Day ci si può
Concorso «Azione» mette in palio per i suoi lettori cinque iscrizioni gratuite alla giornata di Airolo del prossimo 8 marzo 2020. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nella pagina web azione.ch/concorsi.
Giochi e premi in una gara sugli sci.
iscrivere facilmente e comodamente online. Il link per l’iscrizione è presente nella sottopagina del sito ufficiale che contiene l’elenco completo dei singoli eventi (www.famigros-ski-day. ch/it/events). Il numero dei partecipanti è limitato e il termine d’iscrizione è sempre fissato alle 18.00 del giovedì precedente la gara. L’iscrizione è possibile anche sul luogo della gara, a condizione che vi siano posti liberi. In quest’ultimo caso verrà riscossa una tassa d’iscrizione maggiorata di 10.– franchi. Allettante la dotazione di premi in palio: una carta regalo Migros del valore di fr. 100.– per la famiglia vincitrice; una carta regalo SportXX del valore di fr. 50.– per le famiglie secon-
da e terza classificata; un fornitura di Rivella per un anno intero del valore di fr. 200.– per la famiglia meno fortunata. Oltre a questi saranno estratti tra tutti i partecipanti presenti un ingresso all’Europa-Park per una famiglia, vari buoni per partecipare ad un altro Ski Day Famigros e un Bob BWT. Nel villaggio degli sponsor saranno presenti la tenda Famigros, che metterà a disposizione snack e bevande a soli 1 o 2 franchi. Chi ha buona mira potrà aggiudicarsi il nuovo berretto Ski Day Famigros o un altro bel premio immediato nel gioco dei Lilibiggs. Nelle tende Swiss-Ski e Rivella son previsti numerosi giochi con possibilità di vincere premi immediati. SportXX, dal canto suo, offrirà la pos-
sibilità di un check dell’ultimo minuto gratuito per sci e snowboard. Affinché la giornata sugli sci rimanga indimenticabile per le famiglie partecipanti, durante lo Ski Day Famigros saranno scattate fotografie della gara e le singole performance nello slalom gigante saranno filmate. Foto e video saranno pubblicati due giorni dopo l’evento su www.famigros.ch/ skiday. Per ciò che riguarda la data di Airolo del’8 marzo, i possessori della Ski Card Leventina potranno iscriversi a soli Fr. 55.– a famiglia. Il programma della giornata è pubblicato all’indirizzo web www. f a m i g r o s - s k i- d ay. c h /i t /e v e nt s / 20192020/airolo.
Famigros Ski Day, fino al 22 marzo 2020, nelle principali stazioni sciistiche svizzere.
Calendario 2020 15.02.2020 Sörenberg 16.02.2020 Sörenberg 22.02.2020 Lenk 23.02.2020 Marbachegg 01.03.2020 Arosa Lenzerheide 08.03.2020 Airolo 15.03.2020 Braunwald 22.03.2020 Stoos
Jazz di RETE DUE, seconda parte Concorso In palio i biglietti per la sedicesima ECM Session con Randalu-Monder-Ounaskari Trio,
secondo concerto della stagione 2020, sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino Dopo essersi aperta lo scorso 20 gennaio con il concerto del chitarrista americano Jeff Parker, la rassegna «Tra jazz e nuove musiche», proposta dalla RETE DUE RSI e coordinata da Paolo Keller, riprende il suo corso presentando sei appuntamenti con alcune delle più recenti proposte musicali in ambito jazzistico internazionale. Come di consueto la manifestazione gode del sostegno del Percento culturale di Migros Ticino. Il programma offrirà ampio spazio a musicisti provenienti dal Nord Europa in particolare con il concerto del trio Randalu-Monder-Ounaskari (mercoledì 12 febbraio), del trio del pianista Bobo Stenson (sabato 7 marzo), e del trombettista Nils Petter Molvaer , ospite dei ticinesi R.ED (Gabriele Pezzoli e Elia Anelli) mercoledì 22 aprile. Per ciò che riguarda i primi due
concerti occorre dire che rientrano nel novero delle ormai celebri serate dedicate alla casa discografica ECM. L’etichetta tedesca da tempo ha costituito uno stretto sodalizio con la RSI, scegliendo la sala dell’Auditorio Stelio Molo come luogo di registrazione di alcuni suoi album. E proprio Bobo Stenson sarà a Lugano nelle prossime settimane per incidere un nuovo disco. Da segnalare poi, tra gli ospiti europei nella rassegna RSI, la presenza di una delle stelle emergenti del jazz vocale internazionale. Di origine francese, anche se da tempo trapiantata negli USA, la cantante Cyrille Aimée, sarà presente lunedì 11 maggio al Teatro del Gatto di Ascona con il suo trio. Altro momento di sicuro interesse è il concerto del batterista americano Barry Altschul, che si presenterà a Jazz
Azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Il pianista estone Kristjan Randalu. (Kaupo Kikkas) Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
in Bess di Lugano il prossimo mercoledì 25 marzo con il suo 3Dom Factor, composto da Jon Irabagon al sassofono e Joe Fonda al contrabbasso. RETE DUE sarà presente peraltro con un ruolo particolare durante il XXIII Festival jazz di Chiasso, sostenendo la presenza «In Residence» del trombettista israeliano Avishai Cohen, il quale si esibirà nei tre giorni della manifestazione (12, 13 e 14 marzo) con tre formazioni diverse. Tornando al prossimo concerto in programma, la ECM Session n.16, mercoledì 12 febbraio nello Studio 2 RSI, ore 21.00, è prevista l’esibizione di una formazione molto interessante. Al pianoforte dell’artista estone Kristjan Randalu e alla batteria del filandese Markku Ounaskari si unisce la chitarra elettrica dell’americano Ben Monder,
importante esponente del jazz newyorkese, conosciuto tra l’altro per aver partecipato all’incisione dell’ultimo disco di David Bowie Black Star. Il concerto proporrà quindi il suono rarefatto e moderno di questa formazione che proprio nel 2018 ha realizzato con ECM l’album Absence. / Red.
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Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Biglietti in palio «Azione mette in palio tra i suoi lettori alcune coppie di biglietti per il concerto di mercoledì 12 febbraio. Per partecipare all’estrazione seguire le istruzioni contenute nel sito www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Società e Territorio Premio SIA Ticino 2020 È stato assegnato al Comune di Morbio Inferiore e all’architetto Jachen Könz per la nuova scuola dell’infanzia San Giorgio
Far conoscere il Ticino La promozione del Ticino come meta turistica passa anche attraverso il lavoro degli ambasciatori del territorio. Ne abbiamo incontrati alcuni pagina 11
USI, una Facoltà cambia nome Scienze della comunicazione si chiamerà Facoltà di comunicazione, cultura e società. Intervista al Decano Andrea Rocci pagina 12
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Ritagliarsi dei momenti tutti i giorni per farsi una chiacchierata è fondamentale per lo sviluppo del bambino. (Marka)
Crescere meglio con la conversazione Infanzia Studi recenti indicano che parlare poco e con scarsa attenzione ai bambini può avere conseguenze negative
sul lungo periodo. Per un corretto sviluppo è fondamentale dialogare, più volte al giorno, anche con i neonati Stefania Prandi Le ricerche più recenti, realizzate nei laboratori delle principali università americane, indicano che parlare poco e con scarsa attenzione ai bambini può avere conseguenze negative sul lungo periodo, dai risultati scolastici a quelli lavorativi. È importante interagire a parole, nel corso della giornata, anche con i neonati e i bimbi di pochi mesi, nonostante, in assenza di una risposta verbale, sembri non esserci un vero scambio. Si tratta di una percezione fuorviante: i bambini rispondono a loro modo, con sguardi, versi e gesti. Rachel Romeo, neuroscienziata e patologa del linguaggio al Boston Children’s Hospital, ha monitorato un campione di ottanta bambini, sottoponendoli a test, scanner cerebrali e registrazioni, per controllare la quantità di parole ascoltate quotidianamente. Per il suo studio ha considerato la celebre indagine degli anni Novanta, secondo la quale chi nasce e cresce in famiglie poco acculturate e con scarsa disponibilità economica sentirebbe, fino all’età di tre anni, trenta milioni di parole in meno di chi vive in ambienti più colti e ricchi. Romeo e il suo team hanno
verificato che il divario causato dallo status familiare è minore di quello ipotizzato in passato, dato che la differenza è tra le mille e le diecimila parole al giorno. La vera scoperta, però, è stata un’altra. In un’intervista all’istituto americano Child Trends, Romeo ha detto: «Abbiamo capito che non è la quantità di parole ascoltate a incidere sullo sviluppo cerebrale dei bambini, ma le conversazioni». A rivelarsi decisivo, quindi, è lo scambio che avviene tra genitori – oppure tra gli adulti incaricati della cura – e figli. Le interazioni create dalle conversazioni hanno benefici visibili e sono trasversali alle classi sociali. Chi è coinvolto in colloqui regolari dimostra, nel tempo, migliori capacità di comprensione e connessioni più forti nella sostanza bianca del cervello, nell’emisfero sinistro. «L’età cruciale per il linguaggio è tra gli zero e i cinque anni. I bambini sono come spugne, assorbono tutto, hanno milioni di sinapsi che si stanno creando. Nuove ricerche indicano, addirittura, che i primi due anni sono basilari. Questo, chiaramente, non significa che, quando si arriva ai tre o quattro anni, si può lasciare perdere. Il linguaggio è importante perché
è la base della comunicazione, rappresenta le nostre fondamenta come specie, è così che esprimiamo i nostri bisogni e i desideri». L’interazione è la chiave per assecondare lo sviluppo anche secondo le analisi del Princeton Baby Lab, in New Jersey. Attraverso scanner cerebrali, è stato rilevato che, mentre i bambini sono coinvolti in attività in compagnia di qualcuno, ad esempio leggere oppure cantare insieme, «i loro schemi di attivazione funzionale iniziano a convergere». In altre parole, per usare un’immagine dal mondo della musica, è come se i cervelli di chi svolge l’attività in compagnia si «accordassero». Quando le attività tornano separate, e i bimbi giocano da soli, la «sincronia neuronale» scompare. Elise Piazza, ricercatrice del Princeton Baby Lab, ha spiegato alla BBC che «si diventa così sintonizzati che non si funziona come due persone distinte, ma come una sola». Conversare con i figli è decisivo anche secondo Kathy Hirsh-Pasek, a capo dell’Infant Language Laboratory alla Temple University di Philadelphia, e autrice bestseller di diversi saggi. Il suo ultimo libro è Becoming Brilliant: What Science Tells Us About Raising
Successful Children (Diventare geniali: cosa ci dice la scienza per crescere bambini realizzati), pubblicato nel 2016 dall’Associazione degli psicologi americani. In un’intervista al Simms Mann Institute ha spiegato: «I neonati sono pronti al linguaggio. A due giorni dalla nascita sanno distinguere la voce della madre da quella degli altri. E possono imparare le prime parole già dai sei mesi. Per sviluppare il linguaggio, per costruire le connessioni di cui hanno bisogno per parlare e successivamente per leggere, devono sentire molte parole e partecipare a tante conversazioni. Esattamente nello stesso modo in cui hanno bisogno di cibo per crescere». È importante l’interazione dal vivo, perché non si ha la stessa risposta con i dispositivi elettronici e la televisione. Secondo Hirsh-Pasek il linguaggio è come una danza, la comunicazione è un ballo tra due persone. Non conta soltanto la quantità di parole, ma la complessità del senso dei discorsi, la fluidità della conversazione, fatta di gesti e parole, e la routine. Si può pensare al dialogo con i bimbi come se fosse una partita a pingpong: si parla, si attende che il piccolo risponda (anche con un verso oppure
un gesto) – magari bisogna aspettare un po’ senza perdere la pazienza e senza anticiparlo – e si deve rilanciare nei tempi consueti di una conversazione, quindi entro due secondi. Così per almeno quattro scambi. Basta qualche minuto al giorno in cui si focalizza sul bambino completamente, parlandogli come se fosse la persona più importante del mondo. Il consiglio di Hirsh-Pasek è di guardarsi attorno, anche quando si è presi dalla frenesia della giornata, lasciandosi stupire da qualcosa che dia avvio alla chiacchierata. Oppure, si può partire da quello che cattura l’interesse del bambino o della bambina. Le raccomandazioni sono di guardarlo negli occhi, senza lasciarsi continuamente distrarre dallo schermo del telefono o di qualche altro dispositivo elettronico. Consigli che sembrano banali, ma che forse non lo sono se, in Gran Bretagna, il governo ha lanciato un progetto online per incoraggiare i genitori a parlare di più ai figli. La campagna si intitola «Hungry Little Minds» (Piccole menti affamate) e intende sollecitare le famiglie «a intraprendere attività che supportino l’apprendimento fin dalla tenera età, per preparare alla scuola e oltre».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
La festa degli innamorati Attualità San Valentino si avvicina!
Dai classici fiori ai cioccolatini più golosi, dagli irresistibili dolci al sushi a forma di cuore… alcune idee per sorprendere la persona a cui si vuol bene
Puntualmente come ogni 14 febbraio, i reparti Florissimo Migros hanno allestito una ricca scelta di articoli dedicati a tutti gli innamorati e a chi si vuol bene. Che si tratti di bouquet di fiori recisi, piante, composizioni ad hoc, di rose, tulipani, crocus, primule, orchidee… ognuno troverà il fiore più adatto per sottolineare con stile e originalità questa ricorrenza. Inoltre i nostri specialisti dei fiori sono a vostra disposizione per domande o consigli, come pure per allestire arrangiamenti floreali regalo personalizzati. A pro-
posito, ecco alcune semplici regole che si dovrebbero tenere in considerazione quando si decide di regalare delle rose: le classiche rose rosse simboleggiano l’amore profondo verso la/il propria/o partner; mentre i fiori di color giallo stanno a significare che avete qualcosa da farvi perdonare. Le rose bianche sono sinonimo di innocenza e fedeltà; quelle arancioni stanno a comunicare che il vostro cuore batte forte per la persona che le riceve. Infine, scegliendo delle rose di color rosa, desiderate rivelare che sta nascendo l’amore.
L’olio per massaggi Kneipp Ylang-Ylang regala momenti esoticamente sensuali. Olio essenziale della pianta Ylang-Ylang, olio trattante di girasole, olio idratante di mandorle, come pure le importanti vitamine E e A nutrono la pelle e la rendono incredibilmente morbida e vellutata. Facile da applicare, si assorbe lentamente e sviluppa il suo irresistibile aroma durante il massaggio. Olio per massaggi Kneipp Ylang-Ylang 100 ml Fr. 11.80
Due dessert perfetti per la giornata degli innamorati: morbidi cuori di cioccolato fondente e cuori di macarons con meringa alle mandorle ripieni di lamponi o vaniglia. Lasciatevi tentare. Cuore di macarons lampone e vaniglia 90 g Fr. 4.90 Cuore di cioccolato fondente 180 g Fr. 3.90
Regalate momenti di dolcezza con i cioccolatini Giandor della Migros! Grazie al loro guscio croccante e al cuore fondente mandorlato queste praline sono un’esperienza gustativa unica. Con il loro imballaggio dal caratteristico colore rosso negli anni si sono fatte conoscere anche oltre i confini nazionali.
Per San Valentino anche il sushi si trasforma e diventa cuoriforme. Il Sushi Love è una deliziosa preparazione composta da Chu-Maki al salmone e tonno, fagioli edamame, salsa di soia, wasabi e zenzero. Perfetto come aperitivo o antipasto per aprire con originalità una cenetta romantica a casa. In vendita dall’11.2 fino ad esaurimento.
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Formentino bio svizzero
Attualità L’insalata invernale più amata questa settimana
in offerta speciale
Il formentino è un grande classico della stagione invernale. Il delicato sapore nocciolato delle sue tenere foglioline si sposa a meraviglia con uova, pancetta arrostita, crostini di pane e funghi. Anche se si gusta preferibilmente crudo, in insalata, il formentino può essere anche consumato cotto, saltato brevemente in padella con un po’ di burro. La stagione principale di questa insalata va da settembre ad aprile, anche se oggigiorno è ormai disponibile sugli scaffali dei negozi
tutto l’anno. Il suo tenore in vitamine e sali minerali è paragonabile a quello delle altre insalate verdi. Data la sua delicatezza, va consumato entro breve tempo dal suo acquisto. Prima del consumo lavare accuratamente le foglie sotto l’acqua corrente, in modo da eliminare eventuali residui di sabbia. Questa settimana alla vostra Migros il formentino bio svizzero – coltivato senza il ricorso a sostanze chimiche di sintesi – lo potete trovare ad un prezzo particolarmente vantaggioso.
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Anche al centro OBI di S. Antonino si celebra San Valentino. Per l’occasione il 14 febbraio dalle ore 9.00 alle 18.00 si potrà partecipare al gioco della ruota della fortuna e vincere fantastici e utili premi per la casa e il giardino.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Idee e acquisti per la settimana
Come fatte in casa
Attualità Le gustose zuppe fresche DimmidiSì sono l’ideale per deliziarsi
durante le fredde giornate invernali
Acqua frizzante vantaggiosa
Azione 35% su tutto l’assortimento di zuppe DimmidiSì, p. es. minestrone di verdure 620 g Fr. 3.25 invece di 5.– dall’11 al 17 febbraio Il segreto delle appetitose zuppe DimmidiSì sta nella freschezza degli ortaggi utilizzati e nella lenta preparazione delle ricette che conferisce alle pietanze la loro caratteristica cremosità e consistenza. Portare in tavola una prelibata specialità della cucina mediterranea non è mai stato così facile. L’invitante assortimento è in grado di accontentare qualsiasi palato, grazie alla variegata proposta di piatti: dal minestrone al passato di verdure, dalla zuppa toscana all’ortolana, dalla pasta e fagioli alle zuppe di zucca/carote e farro/verdure, fino alla vellutata di carciofi. Le zuppe sono 100% vegetali, a base di ingredienti italiani e non contengono glutammati, né conservanti, né coloranti. Una confezione da 620 g è ideale per due porzioni. Tutti i piatti possono essere preparati in pochi minuti, semplicemente riscaldandoli in pentola o nel microonde.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Società e Territorio La scuola dell’infanzia San Giorgio di Morbio Inferiore è stata inaugurata nel 2018. (Ti-Press)
Il diario dell’architetto Libri Gli articoli
di Paolo Fumagalli raccolti dall’editore Casagrande
Barbara Manzoni
Costruire con rispetto Architettura Assegnato al Comune di Morbio Inferiore e all’architetto Jachen Könz
per la nuova scuola dell’infanzia San Giorgio il Premio SIA Ticino 2020 che gratifica i committenti attenti alla qualità e all’inserimento territoriale Stefania Hubmann Riconoscere al committente un ruolo rilevante nella realizzazione di un’opera architettonica, ingegneristica o pianificatoria di qualità è l’obiettivo del Premio SIA Ticino, giunto quest’anno alla quinta edizione. Il Comune di Morbio Inferiore con il progetto della scuola dell’infanzia San Giorgio, firmato dall’architetto Jachen Könz e inaugurato nell’agosto 2018, è stato ricompensato venerdì scorso con questo riconoscimento: una targa in acciaio da apporre sull’edificio. Istituito dalla sezione Ticino della SIA (Società svizzera degli ingegneri e degli architetti), il premio viene attribuito ogni quattro anni alla rovescia. Sono infatti i progettisti riuniti nell’associazione di categoria a valorizzare competenza e sensibilità del committente che, tramite concorso o mandato diretto ad un professionista, privilegia la qualità, conscio dell’impatto del costruito sul territorio. La consapevolezza che una buona architettura scaturisce anche da una proficua collaborazione con il committente è un valore sul quale l’associazione intende sensibilizzare i giovani in formazione. Non a caso il Premio SIA Ticino 2020 si è spostato dall’abituale sede di Castelgrande al Palazzo Canavée presso l’Accademia di architettura – USI a Mendrisio, dove venerdì scorso si è svolta la cerimonia di assegnazione e dove i progetti partecipanti al concorso rimarranno esposti fino al 27 febbraio. L’attualità architettonica, ingegneristica e pianificatoria della Svizzera italiana degli ultimi quattro anni è stata rappresentata al concorso da 54 progetti. Benché dall’edizione 2016 il bando sia esplicitamente aperto alle tre discipline, le opere segnalate rilevano ancora in massima parte dell’architettura, settore all’origine del premio. «Oltre a consentire un’estensione del raggio d’azione degli interventi sul territorio, ponendo l’accento sull’interdisciplinarità, il concorso di quest’anno ha riservato un’attenzione particolare alla questione ambientale», spiega l’architetta Federica Botta, coordinatrice del premio. «La lista dei documenti richiesti dal bando prevedeva infatti anche una breve descrizione della componente relativa al fabbisogno e al consumo energetico, all’energia grigia e ai criteri di sviluppo sostenibile considerati». La posizione strategica della volu-
metria che ha permesso di trasformare la vecchia strada in uno spazio pubblico, un efficace sistema costruttivo grazie al quale è assicurato un generoso apporto di luce naturale, sono alcuni degli elementi che hanno portato la giuria ad identificare nella nuova scuola dell’infanzia di Morbio Inferiore il vincitore del Premio SIA Ticino 2020. Il progetto, scaturito da un concorso di architettura, dimostra l’importanza di questo strumento per stimolare il confronto di idee sulle necessità del committente. Nel caso specifico si tratta delle esigenze proprie di una scuola dell’infanzia con un programma predefinito. Imposizioni che non precludono comunque la realizzazione di un’architettura significativa e ben integrata nel contesto territoriale. Un altro aspetto solo all’apparenza limitante è quello finanziario. Anche con risorse contenute è possibile giungere a risultati di qualità, come dimostra la Casa Torre d’Angolo, realizzata a Mendrisio dalla Fondazione Torriani con l’architetto Otto Krausbeck a seguito di un concorso. Il progetto è uno dei cinque premiati con una menzione. Gli altri sono: il Centro scolastico Nosedo a Massagno (comunità di lavoro Durisch + Nolli e Giraudi Radczuweit), l’Atelier Stocker-Lee a Rancate (Stocker Lee Architetti), Casa a Mosogno, (Buchner Bründler Architekten) e la Casa Ex Parrocchiale a Monte Carasso (Guidotti Architetti). Si notino la presenza di un altro edificio scolastico, pure frutto di un concorso, e il suo inserimento in un contesto di preesistenze architettoniche, aspetto quest’ultimo rilevante anche negli ultimi due progetti. «Per quanto riguarda il rapporto committenti-pro-
gettisti – sottolinea al riguardo la coordinatrice Federica Botta – i premiati riuniscono diverse tipologie di collaborazione che vedono i committenti rappresentati da privati, enti pubblici e pure dagli architetti medesimi». La giuria, presieduta da Daniele Caverzasio in rappresentanza delle istituzioni politiche ticinesi (municipale della Città di Mendrisio e vicepresidente dell’Ufficio presidenziale del Gran Consiglio), era composta da esponenti delle discipline alle quali il concorso era destinato. Si tratta di Marie Claude Betrix (architetta, Zurigo), Gabriele Cappellato (architetto, Accademia di architetuutra – USI, Mendrisio), Jürg Conzett (ingegnere civile, Coira), Mercedes Daguerre (dottore in architettura e direttrice della rivista ARCHI, Lugano), Maresa Schumacher (architetta e urbanista, Zurigo), Charles Weinmann (ingegnere fisica della costruzione, Echallens). Provenienti dal settore privato e dal mondo accademico, i giurati sono professionisti che, pur conoscendo la realtà della nostra regione, operano al di fuori di essa, assicurando in tal modo uno sguardo competente ed imparziale. «Uno sguardo – testimonia il presidente – che conferma l’attrattiva dell’architettura ticinese arricchita anche dalla presenza dell’Accademia di architettura – USI. I colleghi di giuria hanno apprezzato la qualità dei progetti, rimanendo colpiti da alcune soluzioni presentate a livello architettonico e urbanistico». Come hanno lavorato i giurati? Risponde Daniele Caverzasio: «Abbiamo esaminato dapprima i disegni e visitato sul posto una quindicina di progetti. Le discussioni sono state interessanti
e le considero il vero valore aggiunto di questa esperienza, perché permettono di confrontarsi con categorie di giudizio diverse, ma sempre argomentate. Alcune visite hanno riservato particolare piacere ed entusiasmo nella scoperta di un progetto inaspettato». Il presidente aggiunge che, contrariamente ai concorsi per l’assegnazione di un mandato, il Premio SIA esamina opere già realizzate, permettendo un contatto diretto con le medesime. «Sul posto il pregio di alcune soluzioni nella definizione degli spazi e nella correlazione con il territorio è molto più evidente. Considero il Premio SIA Ticino un ottimo segnale verso gli enti pubblici chiamati, come il Comune di Morbio Inferiore, a realizzare strutture che durano nel tempo e con un forte impatto sulla vita quotidiana della popolazione, in questo caso ancora maggiore essendo l’edificio destinato ai bambini. Per quanto concerne l’inserimento nel territorio reputo importanti due fattori: da un lato la procedura del concorso quale stimolante confronto di idee e dall’altro l’attenzione del committente per la qualità. Un ente pubblico che opera secondo questi principi rappresenta un ottimo esempio anche per i committenti privati». Come per le edizioni precedenti i progetti vincitori sono riuniti e illustrati in una pubblicazione che quest’anno coincide con il nuovo numero delle Rivista ARCHI (Rivista svizzera di architettura, ingegneria e urbanistica), disponibile sul sito www.espazium.ch. Il vicedirettore Stefano Milan precisa che il numero speciale della rivista, arricchito da un contributo dell’architetto italiano Federico Tranfa, sarà presentato in marzo, unitamente ad una selezione dei progetti, presso l’Ordine degli architetti di Milano. Con l’edizione 2020 del Premio SIA Ticino si concretizza quindi anche la volontà di far conoscere il risultato del concorso al di fuori dei confini cantonali. Diffondere la cultura del costruito di qualità è d’altronde l’obiettivo del premio che sottolinea il ruolo svolto al riguardo dal committente. Ad incidere sul territorio sono sì i grandi progetti di enti pubblici o importanti aziende, ma anche le singole edificazioni private. Il Premio SIA Ticino richiama pertanto l’attenzione di tutti su opere che, scrive la SIA stessa, «si distinguono per uno sguardo attento, innovativo e valorizzante verso il territorio quale bene culturale dell’intera comunità».
È un diario da leggere e rileggere quello che raccoglie gli articoli dell’architetto Paolo Fumagalli pubblicati sulla rivista «Archi» dal 2003 al 2017. La scelta dei testi presenti nel volume edito da Casagrande con il titolo Cronache di architettura, territorio e paesaggio in Ticino, è stata fatta dallo stesso Fumagalli che, scomparso nel luglio scorso, ci lascia pagine che invitano alla riflessione, accompagnano alla scoperta, suggeriscono punti di vista originali. Tema centrale dell’attenzione di Fumagalli è certo l’architettura, vista anche attraverso i ritratti di alcuni protagonisti come Sergio Pagnamenta, Niki Piazzoli, Paolo Mariotta, Flora Ruchat, Peppo Brivio, Milo Navone, ma è soprattutto il territorio e il paesaggio, letto con gli occhi di chi questo paesaggio lo ha amato e l’avrebbe voluto più capito e considerato. Così scrive Fumagalli nella premessa: «quanto pubblicato in questo libro non è una storia di 15 anni di architettura – né del resto io stesso sono uno storico – ma piuttosto la cronaca di quanto successo e realizzato e dibattuto e discusso in quei 15 anni». E che cosa è successo in quei 15 anni nel nostro territorio? Di cosa si è parlato e di cosa invece si è parlato
troppo poco? L’elenco è lungo e lo spazio di questa segnalazione troppo limitato per riuscire anche solo a citare tutti i temi che hanno suscitato l’interesse di Fumagalli e che in certi casi rimangono di stretta attualità. Tra questi i cambiamenti che hanno investito i centri storici, i progetti urbanistici per il Luganese, i rapporti tra committente e architetto, la responsabilità dei Comuni e la Legge sullo sviluppo territoriale, le difficoltà dei giovani architetti, i limiti dei Piani regolatori, la necessità di progettare spazi urbani. L’allora direttore della rivista «Archi», Alberto Caruso, gli lasciò, con lungimiranza, la totale libertà nella scelta degli argomenti da trattare: «ciò mi ha permesso – scrive Fumagalli – di seguire da vicino le vicende di questo Cantone, che pur piccolo ha comunque avuto, e ha ancora oggi, molto da raccontare su tutto ciò che ruota attorno all’architettura, al territorio, al paesaggio... ciò che accade da queste parti non è poi molto diverso da ciò che capita altrove». La differenza la fa la sua voce, la grande capacità di analisi e lo spessore intellettuale di un architetto che sapeva parlare a tutti, che chiamava in causa tutti, dai politici ai cittadini, dai colleghi architetti alle imprese edilizie.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Società e Territorio
Un territorio da far conoscere
Turismo La promozione del Ticino come meta turistica passa attraverso diversi canali, oggi vanno curati
i contatti con giornalisti e produttori di trasmissioni televisive ma anche con influencer e blogger. Ecco le esperienze di alcuni dei nostri ambasciatori del territorio Nicola Mazzi Linea Verde, Geo, «Repubblica», Ansa, «Corriere della Sera», «Marie Claire», «Donna Moderna». Sono alcune delle trasmissioni e testate italiane che negli ultimi anni sono state ospitate nel nostro Cantone con lo scopo di promuovere la destinazione all’estero. Oltre al marketing classico (fiere, eventi, pubblicità), alla promozione online e al contatto con i vari Tour Operator, anche il lavoro con i media internazionali rientra nei compiti di Ticino Turismo. Ne abbiamo parlato con Cecilia Brenni, da quattro anni responsabile della comunicazione aziendale per il Ticino e l’Italia e con alcuni «ambasciatori» del territorio. «Per il nostro Cantone i mercati prioritari, oltre a quello interno, sono circa una decina. Io mi occupo di quello italiano che rappresenta il più importante subito dopo la Germania. L’aspetto interessante di questo tipo di promozione è che noi non paghiamo la testata, ma provvediamo unicamente ai costi vivi del viaggio. Spesso siamo noi stessi, con il supporto di Svizzera Turismo, a organizzare viaggi stampa di gruppo o a invitare singole testate. Capita anche che siano i giornalisti a scriverci direttamente». Un lavoro interessante al quale a volte si devono dire dei no. «Sì, spesso perché la testata non è sufficientemente conosciuta o non è in linea con il nostro target di riferimento. Mi è già capitato anche di dire di no a trasmissioni famose. Tempo fa siamo stati contattati dal programma “Uomini e Donne” in onda su Canale 5 che stava pensando al Ticino come destinazione per ospitare una puntata esterna. In questo caso ho dovuto ponderare vari elementi e alla fine ho preferito rinunciare». Un altro aspetto da non sottovalutare è il bagaglio culturale dei giornalisti. «Spesso sono molto preparati sulla storia e le novità del Cantone e dunque il lavoro diventa davvero stimolante. Mi è capitato di ospitare un giornalista che aveva letto tutti i libri di Herman Hesse prima di venire da noi e dunque le sue domande erano davvero molto specifiche. Però succede anche, soprattutto con chi proviene dai mercati lontani, che si debba spiegare perché parliamo italiano e non tedesco». Ma entriamo nel concreto sull’attività fatta nei mesi scorsi: «Di recente – sottolinea la nostra interlocutrice – la BBC si è interessata al progetto di albergo diffuso a Corippo. Il “New York Times”, invece, ha voluto riassumere
Marialuce Valtulini è una delle ambasciatrici di prodotti ticinesi, la sua specialità è lo zincarlin. (Luca Crivelli)
in un articolo “cosa fare a Lugano in 36 ore”. La tendenza del momento è comunque quella di intervistare personaggi ticinesi che hanno qualcosa di interessante da raccontare. Noi abbiamo la fortuna di avere molti ambasciatori del territorio che stuzzicano sempre l’attenzione dei giornalisti: produttori di formaggio, artigiani, agricoltori o esperti d’arte e storia con i quali collaboriamo spesso». E non dimentichiamo che le nuove tendenze tecnologiche stanno spostando i punti di riferimento della comunicazione. «Infatti, in linea con i cambiamenti che stanno avvenendo a livello di comunicazione globale abbiamo contattato degli “influencer”. Ma dietro la loro scelta c’è sempre una riflessione approfondita sul blog in questione, proprio come se si trattasse di una rivista. Da chi viene seguito? Quali messaggi vengono diffusi? Un paio di anni fa, ad esempio, ci siamo rivolti ad alcuni cosiddetti “micro-influencer” della Svizzera interna. Giovani che si rivolgevano a una nicchia interessante per noi. Naturalmente abbiamo ospitato anche personaggi noti come Chris Burkard o Vittorio Brumotti», conclude Brenni.
Tra gli ambasciatori scelti da Ticino Turismo c’è l’architetto Giovan Luigi Dazio, specializzato nel restauro di rustici, soprattutto in Vallemaggia. «Mi reputo particolarmente fortunato perché ho l’occasione di incontrare molte persone di cultura diversa dalla mia. Persone interessate magari alla chiesa di Mogno, ma spesso anche al territorio, alla nostra storia, quindi a quanto si nasconde dietro il semplice oggetto architettonico. E io cerco di trasmettere loro qualche emozione in questo senso. Devo dire – aggiunge Dazio – che sovente resto piacevolmente stupito dalle loro domande, dai loro punti di vista e dalle loro curiosità. Non di rado racconto della diga del Sambuco e di come prima ci fosse una valle abitata o altre vicende storiche che colpiscono i giornalisti in modo piacevole». L’architetto si mette volentieri a disposizione, anche perché «sono molto interessato alle nuove generazioni, a capire che cosa pensano, come vivono e se hanno interesse nella storia e nella cultura locale. Inoltre da noi sono arrivati anche personalità importanti come l’ex ministro francese Jack Lang o il consigliere federale Alain Berset». Dazio lancia un appello:
«Il Ticino deve aprirsi e guardare lontano perché ha risorse importanti, in vari ambiti, che chiedono solo di essere valorizzate». Anche Marialuce Valtulini è un’ambasciatrice di prodotti ticinesi: la sua specialità sono i formaggi e in particolare lo zincarlin. Un’antica tradizione della Valle di Muggio, che ha valorizzato con l’aiuto dell’Associazione dei comuni del Generoso e nel 2005 ha iniziato a produrre a Salorino il formaggio dal gusto intenso e dalla forma a cilindro. «Ho ricevuto diversi giornalisti provenienti dalla Francia, dalla Germania, fino alla Russia e agli USA. Ultimamente è arrivata anche una televisione brasiliana a filmare la nostra attività», sottolinea. Un’attività di nicchia ma molto apprezzata, non per nulla in media sono prodotti solo 40 formaggi la settimana e spesso e volentieri la cantina è vuota. Una prelibatezza apprezzata dai visitatori: «noi mettiamo in evidenza quello che facciamo e mostriamo ai giornalisti che usiamo ancora il vecchio modo di produrre i formaggi. E poi spieghiamo la loro origine, la storia e infine offriamo una degustazione che parte dal formaggio più giovane e arriva fino allo zincarlin, ab-
binandoli a vini della regione». Come rileva ancora Marialuce «è sempre interessante osservare le reazioni di chi prova i nostri prodotti. C’è chi apprezza i formaggi più freschi e chi, invece, va matto per lo zincarlin. Alla fine è una questione di gusto personale». Ma come conclude la stessa signora Valtulini «è fondamentale puntare sulla qualità del prodotto». Un’altra specialità del nostro territorio è sicuramente il pesce di lago. Lo sa bene Gabriella Manfredini-Rigiani, guida e appassionata di quello che offrono i nostri laghi. «Di solito mi affianca un pescatore e con lui facciamo vivere ai giornalisti un momento sul lago. Poi preparo un pranzo, una degustazione, o una cena con un menù a base di pesce di lago: lo faccio in carpione, affumicato o marinato. E lo accompagno con piatti tipici come la polenta». I turisti che ha accolto da dove arrivano? «Da tutte le parti del mondo. Dall’America, dall’India, ma anche dalla Svizzera interna o dall’Italia e nei mesi scorsi abbiamo accolto anche una troupe televisiva di ARTE che ha girato un film. E ho sempre osservato molto interesse verso i nostri prodotti e su come vengono preparati». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Società e Territorio
La Facoltà cambia nome
USI S cienze della comunicazione si chiamerà Facoltà di comunicazione, cultura e società,
un cambiamento che vuole mettere in evidenza la forte componente umanistica. Intervista al Decano Andrea Rocci Natascha Fioretti Se il mondo corre e si trasforma altrettanto devono fare le università se vogliono essere attrattive e formare giovani all’altezza del futuro che verrà. Di più, devono fungere anche da filtro verso le realtà professionali esterne, anticipare il corso delle innovazioni, riconoscendo prima e selezionando poi quegli elementi indispensabili e formativi da trasmettere alle nuove generazioni. Compito non facile considerando il ritmo vertiginoso con il quale il progresso tecnologico sta evolvendo modificando il nostro modo di relazionarci con gli altri ma, più profondamente, il nostro modo di essere e di vivere. Ecco allora che si può ben comprendere la scelta della Facoltà di scienze della comunicazione dell’Università della Svizzera italiana di cambiare nome in «Facoltà di comunicazione, cultura e società» (grazie all’approvazione del Gran Consiglio ticinese, nella seduta di lunedì 9 dicembre 2019).
«L’intreccio fra comunicazione, che è la matrice originaria, cultura e società esprime meglio la nostra identità» Il nuovo nome, si legge nel comunicato, risponde meglio alle attuali sfide della società, valorizza i punti di forza sviluppati negli anni dalla Facoltà ed è più aderente alla sua offerta formativa attuale. Dunque non solo un cambio di forma ma anche di sostanza. Per capire meglio di che cosa si tratta e quali strategie accompagneranno la Facoltà nata nel 1996 insieme all’USI abbiamo fatto qualche domanda al Decano Andrea Rocci. Professor Rocci, quali considerazioni vi hanno portato a cambiare nome?
«Negli ultimi anni, a fronte dei grandi cambiamenti in ambito tecnologico e digitale, al nostro interno abbiamo promosso una riflessione su chi siamo e chi vogliamo essere. Abbiamo deciso che l’intreccio tra comunicazione, che è la matrice originaria, cultura e società meglio esprime e connota la
nostra identità anche di fronte alle sfide future promuovendo al contempo una riflessione sulle tecnologie, sui media e sulla comunicazione ma con una forte componente umanistica».
Quando siete nati nel 1996 il Web era agli albori, oggi siamo nel bel mezzo di una rivoluzione di usi e costumi e occorrono strumenti specifici per sapersi orientare. Come e dove si sono spostati i vostri interessi?
«In quegli anni tanti nostri laureati sono andati ad occuparsi di comunicazione sul web, design di siti, c’era l’idea che potessero nascere dei nuovi professionisti della comunicazione. Oggi le nuove tecnologie entrano nella vita di tutti, professionisti e non. Sono diventate qualcosa di pervasivo cambiando i nostri rapporti sociali. La professoressa Katharina Lobinger dell’Istituto di tecnologie digitali per la comunicazione sta conducendo una ricerca finanziata dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica su tecnologie e relazioni interpersonali da un punto di vista antropologico, psicologico e anche etico. C’è da considerare tutto un aspetto di cambiamento della società, del modo di vivere e di trasmettere la cultura. La lettura per esempio. I giovani non leggono più? Leggono in un altro modo? Quali sono i modi con cui si può trasmettere la cultura oggi? Questo è un tema che vogliamo mettere a fuoco in una delle tre specializzazioni del nuovo bachelor di comunicazione che partirà l’anno prossimo, incentrata su cultura e tecnologie digitali». Il mondo del lavoro è in piena rivoluzione, non è difficile formare i giovani in questa condizione che offre poche certezze?
«Ci vuole il giusto equilibrio tra solidità dei contenuti e capacità di anticipare certe tendenze, lavorare sui settori più innovativi. Ci vuole l’attenzione a formare delle persone che usino la ragione in modo critico, che abbiano delle solide basi su dei quadri interpretativi fondamentali, su delle grandi linee culturali e che possano in futuro adattarsi ai cambiamenti del mercato del lavoro. È una caratteristica della formazione universitaria quella di puntare alla formazione della persona, delle sue capacità critiche, delle sue soft skills, che non passeranno di moda. Ci saranno nuove tecnologie, nuovi modi di rapportarsi ma certe capacità di valutazione critica, di decisione e anche di relazione
Qui sopra, il professor Andrea Rocci. (CdTGonnella) A fianco, la sede dell’USI a Lugano. (Keystone)
con gli altri muteranno contesto ma non cambieranno».
La vostra facoltà offre un Master in Digital fashion communication, significa che il settore della moda è in trasformazione?
«Pensiamo ai pacchi che arrivano a noi o ai nostri vicini grazie agli acquisti online, alle promozioni e al lancio di nuove tendenze da parte degli influencer, di cui si possono dire tante cose, ma che segnalano un cambiamento culturale molto importante. Le case di moda, grandi o piccole che siano, stanno vivendo una trasformazione digitale importante e hanno bisogno di persone competenti, profili capaci di comunicare la moda con tutta la sua dimensione emotiva ed esperienziale grazie ai media digitali». Quanto conta la sostenibilità nella moda?
«È sensato produrre grandi masse di vestiti a poco prezzo? Quante risorse naturali, quanta acqua si consuma per la produzione di certi capi? Il mondo della moda non è esente da domande su modalità di produzione e di consumo. Il master coniuga l’uso delle tecnologie più avanzate con un’attenzione per l’impatto ambientale e sociale e una comprensione più generale della moda intesa come fenomeno di costume, fenomeno storico e aspetto culturale nelle diverse società. La moda è spesso veicolo di trasmissione e ibridazione di simboli,
colori e forme che ci vengono da diverse parti del mondo».
Un’altra novità che si inserisce nell’offerta della vostra facoltà è il Master in marketing e trasformative economy. Che cos’è esattamente?
«Siamo passati da un’economia industriale incentrata sui prodotti ad una economia dei servizi; e ora siamo ad un’economia dell’esperienza in cui conta la dimensione delle emozioni, dell’immaginazione, e l’arte dello storytelling. Se da un lato c’è la tendenza a sfruttare l’irrazionalità delle persone, l’istintività, l’immediatezza dei social media per spingere all’acquisto, dall’altro c’è l’idea di pensare al marketing come qualche cosa che produce contenuti interessanti e informativi tenendo conto di una dimensione sociale e sostenibile. L’economia trasformativa, legata a nuove forme di scambio facilitate dai media digitali, non si ferma al consumo ma lascia delle tracce più solide e più stabili. Si può notare un’attenzione particolare alle ricadute sociali del marketing e alla sua sostenibilità. Pensiamo soltanto alle potenzialità anche positive di fenomeni come il crowdfunding online. Posso finanziare il nuovo disco di una band giovanile, ma anche chiedere fondi per portare in vacanza al mare un gruppo di anziani di un paese di montagna o, magari, le due cose insieme. È un mondo ibrido». Pensandoci anche la parola marketing sembra obsoleta, non crede?
«È nata in una società che ormai non c’è più: o acquisirà un nuovo significato, più consapevole delle sue ricadute, positive e negative, o si troverà un’altra parola».
Un importante ramo di tutte le Facoltà delle scienze della comunicazione è sempre stato quello dei media e del giornalismo. Come la mettiamo oggi, c’è ancora, guardando dal vostro osservatorio accademico, l’esigenza di un’informazione di qualità?
«Se pensiamo anche a quello che accade a livello internazionale, alle situazioni di conflitto, se pensiamo alla politica più in generale, credo che l’esigenza di informazione di qualità sia sentita oggi in modo ancora più acuto che dieci o vent’anni fa. Nell’era delle Fake News la domanda sociale di giornalismo e di professionisti capaci di fornire un’informazione fattualmente accurata, critica, comprensibile, che aiuti le persone a formarsi delle opinioni e a decidere sulle scelte importanti è più che mai cruciale. Il tema del giornalismo rimane centrale. Ciò che cambia sono le modalità di lavoro delle redazioni che sono in grande trasformazione, cambiano le piattaforme di distribuzione dei contenuti e c’è la questione del finanziamento: chi paga per la buona informazione? Abbiamo aperto un concorso per la posizione di professore di giornalismo digitale e abbiamo diversi importanti progetti in questo campo in rapida evoluzione».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Hugh Lofting, Il dottor Dolittle, FeltrinelliKids. Hugh Lofting, Il viaggio del dottor Dolittle, Mondadori. Hugh Lofting, La storia del dottor Dolittle, Il viaggio del dottor Dolittle, De Agostini. Da 10 anni Sconfigge terribili pirati, ammansisce pescecani, riesce a fuggire di prigione, viaggia intrepido per il mondo. Eppure non è Superman, anzi: è un tipetto piccolo e rotondetto, molto beneducato, che non si dimentica di ringraziare né di chiedere le cose per favore, che non sgomita per arrivare ma prende sempre le cose con calma. Un passo dopo l’altro, godendo dei piccoli doni del presente, modesto ma non vigliacco, tranquillo ma non indolente, inflessibile e tempestivo quando occorre. Tutto questo è John Dolittle, il famoso dottore che vive nella cittadina di Puddleby, protagonista delle avventure inventate negli anni Venti dallo scrittore Hugh Lofting. Nato in Inghilterra, Lofting fu ingegnere e soldato nella Prima Guerra Mondiale: le avventure del dottor Dolittle nacquero proprio in trincea, nelle
lettere che scriveva ai suoi bambini. La prima avventura, una delle più belle, è La storia del dottor Dolittle, dove si narra di come il nostro eroe, dapprima medico per umani, si converta in dottore di animali, imparandone alla perfezione il linguaggio. Le preoccupazioni economiche per il generoso Dolittle sono sempre in agguato, ma non gli impediranno di spingersi addirittura in Africa, per curare le scimmie colpite da una terribile epidemia. Con lui partiranno gli animali più fidati, vivaci allegorie di varia umanità: un cane, un maiale, un’anitra e una civetta. Ognuno con i suoi bravi difetti,
ma tutti impegnati, al meglio delle loro possibilità, a superare i problemi che via via si presentano. Partiranno con Dolittle anche un pappagallo, un coccodrillo e una scimmia, contenti sì di tornare in patria, eppure commossi al momento del congedo, quando la nave del dottore si staccherà dalla costa africana, «perché mai in vita loro si erano affezionati a qualcuno come al dottor John Dolittle di Puddleby». Capita anche a noi lettori: non si può non sentire affetto per Dolittle. Le sue avventure erano state a lungo nel catalogo Gli Istrici di Salani ed ora, grazie al recente film di Stephen Gaghan, tornano per fortuna ad essere pubblicate, in nuove traduzioni, da ben tre editori: De Agostini, Feltrinelli (con illustrazioni di Ole Könnecke), Mondadori (con illustrazioni originali dell’autore). Jasmine Arnold, Weltu. Illustrazioni di Alessandra Micheletti, Grafiche AZ. Da 4 anni Una piccolo giallo ambientato a Bosco Gurin, in un bosco di larici, dove il
folletto Weltu deve scoprire chi gli ha rubato la scorta di mirtilli che aveva preparato per l’inverno. Il metodo di Weltu è scientifico, pertanto parte dalle tracce di cacca («lunga, stretta e marrone») e dalle impronte, che però lo conducono dalla lepre (assolta, perché fa delle «palline») e poi dal tasso (assolto pure lui, perché ai mirtilli preferisce le larve di maggiolino). Ma quella che poteva sembrare una storia sulla falsariga del celebre Chi me l’ha fatta in testa? di Holzwarth-Erlbruch, si sviluppa poi invece come un’indagine naturalistica, perché gli animali via via incontrati da Weltu sono
presentati tratteggiandone abitudini e caratteristiche (poi riassunte anche nelle due pagine finali), e così i piccoli lettori, oltre a seguire l’avventura di Weltu sulle tracce dei suoi mirtilli spariti, potranno approfondire le particolarità di alcuni animali delle nostre montagne: lepre bianca, tasso, cervo, camoscio, ermellino, aquila reale, stambecco e... un altro che non vi diciamo perché sarà il «colpevole». Un colpevole tuttavia non punito, ma con cui ci sarà, in linea con l’ambientazione pacifica della storia, un bonario scambio di «doni» (anche se Weltu si riprometterà, per il futuro, di nascondere meglio i suoi mirtilli!). Oltre al lato naturalistico, il libro ha anche accenni alle antiche leggende Walser, che narrano del popolo boschivo dei Weltu, caratterizzato dai piedi girati all’indietro (caratteristica che però nel libro è fornita unicamente dalle illustrazioni, e da un fuggevole accenno del testo, ma solo verso la fine). Un contesto, quello di Bosco Gurin, molto caro all’autrice, la maestra d’asilo valmaggese Jasmine Arnold.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Il rogo delle vanità Sono certo ancora nella memoria degli accorti lettori di questa Rubrica le notizie relative alla distruzione delle antichità archeologiche conservate nei musei afghani ed iracheni, dei manoscritti antichi di Timbuctu, delle statue colossali del Buddha di Bamyan e avanti di questo passo che hanno caratterizzato l’espansione di varie forme di fondamentalismo islamico nelle ultime decadi. Gli eventi hanno avuto un impatto sull’opinione pubblica internazionale tanto più profondo per il fatto che oggi noi viviamo una sorta di culto laico «del Patrimonio dell’Umanità» negli archivi del quale figurano per la maggior parte le testimonianze di forme di civilizzazione architettonica, pittorica, letteraria e «religiosa» in genere prodotte in un passato Altro e da Altri. L’equazione fra «civiltà» e «cultura» tanto materiale quanto immateriale è consacrata in quel testo iconico della civiltà cosiddetta «Occidentale» che è Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953). Qui il Rogo dei Li-
bri diventa simbolo e monito di una barbarie prossima ventura – i roghi del nazismo memoria recente – di contro agli atteggiamenti liberali e libertari propri delle democrazie avanzate. Ma, come sempre, non è sempre stata colpa degli Altri. Le prime leggi che miravano a contenere la diffusione di atteggiamenti culturali non in linea con una mediana portatrice delle virtù civiche risalgono già alle forme di controllo collettivo del lusso nelle città della Grecia classica e «democratica» – famose fra tutte le Leggi Suntuarie di Solone (538-558 a.C.) che vietavano l’esibizione del lusso ed altre stravaganze. Nella Roma antica la Legge Oppia fu promulgata nel 215 e rimase in vigore fino al 195 a.C. In un tempo nel quale l’economia romana soffriva per gli effetti delle guerre puniche, veniva fatto divieto alle donne di vestire lussuosamente e spendere fortune per cosmetici preziosi. Fu alla fine abolita in seguito alle proteste della stessa popolazione femminile di Roma. Misure draconiane
individuato come vanitas vanitatum veniva condannato senza appello. A partire dal 1495 Savonarola inaugurò quelli che divennero famosi come Falò delle Vanità. Si tenevano il Martedì Grasso, ultimo giorno del Carnevale per onorare – ironia della sorte – la tradizione popolare che voleva il rogo come rito di espulsione del male e di purificazione dagli eccessi del Carnevale stesso. E così i seguaci di Savonarola, detti Piagnoni, scorrazzavano per la città mettendo le mani addosso ad ognichè potesse puzzare di lusso e ricchezza per ammassarlo in Piazza della Signoria fra lazzi, risate e schiamazzi di ogni sorta. Così descrive la scena il Vasari, autore del celebre Le vite de più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550): «il carnovale seguente, che era costume della de’ più città far sopra le piazze alcuni capannucci di stipa et altre legne, e la sera del martedì per antico costume arderle queste con balli amorosi… si condusse a quel luogo tante pitture e sculture ignude
molte di mano di Maestri eccellenti, e parimente libri, liuti e canzonieri che fu danno grandissimo, ma particolare della pittura, dove Baccio portò tutto lo studio de’ disegni che egli aveva fatto degli ignudi, e lo imitò anche Lorenzo di Credi e molti altri, che avevon nome di piagnoni». Il Baccio di Vasari altri non era che Botticelli. Fulminato dagli strali del Savonarola aveva abbandonato la pittura per un certo periodo ritenendola fonte di peccato e dannazione. Sappiamo che portò personalmente al rogo una serie di bozzetti di carattere mitologico ed altri dipinti. Finì in miseria. Almeno, così pare, fino al maggio dell’anno successivo. Passata à nuttata – così si dice a Napoli, scomunicato da Alessandro VI, Savonarola salì il patibolo il 13 maggio 1497 nella stessa Piazza della Signoria dove aveva tenuto i Falò delle Vanità. Fu prima impiccato per essere poi bruciato al rogo. Le ceneri cosparse in Arno per impedire che diventassero reliquie. Sic transit.
da secoli di civiltà eppure conserva una sua autonomia, tanto che si può presentare nei momenti meno opportuni: quando la donna non ha un partner, non ha terminato gli studi, sta cercando lavoro o le si prospetta un avanzamento di carriera. Eppure, nonostante condizioni avverse, quel desiderio è così forte e impellente da farsi quasi sempre ascoltare ed esaudire. La sua situazione sembrerebbe invece, da questo punto di vista, molto favorevole. Ha accanto a sé una mamma desiderosa di diventare nonna che, non solo la sprona ad avere un bambino, ma implicitamente si dimostra disponibile ad aiutarla. Forse le motivazioni che adduce non sono le più convincenti perché troppo basate sulla proprietà. Quando afferma: «è l’unica cosa veramente tua», sottovaluta il dilemma della maternità, che è soprattutto quello di rinunciare al possesso, di mollare la presa consentendo che il figlio appartenga a se stesso e divenga magari diverso, molto diverso, da come la madre lo aveva sognato, atteso ed educato. Inoltre il suo compagno, pronto ad affrontare gli impegni della
paternità e le responsabilità della famiglia, mi sembra meriti di essere esaudito e valorizzato. Ritengo che la prova d’amore più rilevante consista nel far propri i desideri dell’altro e nel sentirsi gratificati dall’esaudirli. Inoltre, tra le persone motivate alla realizzazione di un progetto generativo che unisca nonna, padre e madre, vorrei aggiungere il bambino che nascerà. Il neonato non è mai una presenza inerte ma, sin dal primo incontro, una personcina viva e attiva, capace di attrarre a sé, proprio nel senso di «se-durre», la madre. Proprio perché immaturo, fragile e dipendente il cucciolo umano sollecita l’attenzione, la dedizione, la sensibilità, l’empatia di chi lo ha messo al mondo, tanto che «quando nasce un bambino nasce una mamma». Ma non solo, credo che il rapporto madre-figlio si stabilisca ancor prima, durante l’attesa, se la gestante sa aspettare affettivamente oltre che fisiologicamente. Di tutto ciò ho dato testimonianza nel mio libro L’ospite più atteso. Vivere e rivivere le emozioni della maternità, Einaudi. Il sottotitolo intende sottolineare che la
generazione non è mai una impresa solitaria in quanto implica sempre una genealogia femminile: la catena delle donne – madre-nonna-bisnonna-antenate – che ci ha preceduto. Il «filo rosso dell’amore», che si è snodato per secoli nel racconto delle vicende di maternità, è stato interrotto dal prevalere dei problemi contingenti, dall’assillo delle preoccupazioni quotidiane, dall’ansia di autorealizzazione. Col rischio che «le cose più importanti della vita accadano mentre siamo intente a fare altro». Se posso sbilanciarmi, cara Fabiana, le confesso una sensazione di cui non ho prove obiettive ma che si è imposta alla mia riflessione: che lei stia lentamente, inconsapevolmente, aprendo le porte della mente e del cuore all’ospite più atteso.
quest’esperienza l’aveva profondamente segnato e si tradusse, nel corso degli anni, in un’incessante attenzione per la condizione dei bambini, fonte d’ispirazione letteraria e di denuncia giornalistica e politica. Nella Londra dell’era vittoriana, che esibiva con orgoglio le conquiste della tecnica e dell’industria, l’infanzia rappresentava una sorta di isola infelice. Proprio i ragazzini subirono le conseguenze deteriori dello sviluppo economico, sfruttati come manodopera sottopagata nelle fabbriche, costretti a respirare l’aria inquinata dalle ciminiere e, nelle scuole, a subire un insegnamento a suon di bacchettate e punizioni. Nel gennaio 1838, un annuncio pubblicitario, con cui un istituto privato nello Yorkshire vantava la prerogativa «qui niente vacanze», incuriosì il Dickens cronista. Si recò sul posto, dove scoprì
una situazione mostruosa: convittori picchiati, denutriti, persino accecati, con effetti fatali. Spesso morivano, e lo confermavano le tante tombe nel cimitero, visitato da Dickens: deciso, sono sue parole, «a sferrare il mio colpo più violento a favore di queste creature svantaggiate». Del resto anche a Londra, la metà dei funerali concerneva «persone al di sotto dei 10 anni». A contatto diretto con i minorenni nei cotonifici di Manchester e con le ragazzine nei bordelli londinesi, lo scrittore, accumulava un materiale prezioso, da sfruttare, sia da romanziere sia da giornalista e politico, sostenendo movimenti riformisti, come l’iniziativa delle «10 ore lavorative», promossa da Lord Ashley. Forte della sua popolarità, non risparmiava nessuno, neppure la curia. Lui, credente, denuncia il «baby farming», praticato dalle parrocchie responsabili
di maltrattamenti sui bambini affidati alle loro cure. Questa vena polemica l’accompagna fin negli ultimi anni, nella precoce vecchiaia di quei tempi, appena dopo i 40. E, infine, il ricordo delle sofferenze subite nell’infanzia si fa ossessivo e, fra i suoi fantasmi, compare la figura del bambino strambo, in cui si identifica. Difficile, da questa lettura, ricavare riferimenti con la nostra realtà, nell’era di un’infanzia al riparo da sofferenze, sfruttamenti, rigori educativi, favorita da un diffuso permissivismo. Con ciò, i giovanissimi si trovano ad affrontare altri disagi: da figli di genitori separati, da emigrati in una nuova patria poco accogliente, da piccoli consumatori esposti alle infinite tentazioni di un commercio, rivolto a loro. Anche le nostre cronache documentano i sintomi di un’infanzia sempre fragile, a dispetto delle apparenze.
volte a trarre le conseguenze pratiche da quel testo-chiave che era ed è l’Ecclesiaste o Qohelet si susseguono in tutta la storia dell’Occidente, segno che – appunto – servivano a poco o a niente. Nei Comuni italiani l’imposizione di leggi suntuarie variamente formulate (ma va da sé guarda caso che siano soprattutto le donne a farne da target) punteggia regolarmente situazioni di crisi tanto di natura economica quanto di natura morale. Il più celebre episodio di rivolta contro il lusso ed il consumismo è però forse quello che culminò nel Falò delle Vanità che segnò le celebrazioni del Giovedì Grasso a Firenze il 7 febbraio 1497. Girolamo Savonarola, il frate predicatore domenicano che Lorenzo de Medici aveva portato a Firenze nel 1490 per poi vedersi proprio da quello spodestato quattro anni dopo, era ormai padrone di Firenze. Nei suoi sermoni infuocati attaccava ogni forma di lusso – libri, opere d’arte, antichità, vestiti, ingredienti di cucina… ogni oggetto che potesse essere
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Desiderio di maternità Gentile Silvia, le scrivo perché come tante donne della mia età (38) non riesco a ritrovarmi, a trovare un vero desiderio, o che lo si voglia chiamare «istinto», verso la maternità. Da qualche anno ormai oscillo nervosamente e faticosamente tra «sì, lo voglio, sarò madre» e il «non è imprescindibile, potrei decidere e sentirmi completa anche senza». So bene che questo dilemma è figlio dei nostri tempi. Mi ero promessa di arrivare libera alla scelta se essere madre o meno, di seguire l’istinto e non farmi guidare dalle aspettative sociali di cui siamo ancora vittime quando facciamo delle scelte, tutte coraggiose e tutte con un prezzo che mi sembra troppo alto da pagare. È alto quando penso a mia madre che mi dice «Se non facessi un figlio sono sicura te ne pentiresti. Perché è l’unica cosa veramente tua. Tutto il resto va e viene, un figlio è per sempre tuo», e quando mi sembra già di sentire la morsa della desolazione per non aver saputo/voluto cogliere l’essenza della vita e della sua continuità che immagino un figlio possa portare. Ma il prezzo è alto anche quan-
do mi guardo e vedo una donna ancora e sempre tormentata, solo all’apparenza equilibrata, a cui un figlio stravolgerebbe forse ancora di più la vita, prelevando tutte le energie. Sicuramente il mio stile di vita, tra studio e lavoro, impegni e interessi, non mi predispone al sentire di un vero desiderio di maternità, semmai ci fosse. E un compagno amorevole e disposto ad affiancarmi nell’avventura genitoriale, non sembra bastare per dipanare le mie indecisioni. E intanto il tempo passa… Grazie mille per il suo ascolto. / Fabiana Cara Fabiana, grazie della sua lettera che dà voce al tormento di molte giovani donne divise da progetti di vita che appaiono inconciliabili. Ma forse, cercando una risposta razionale e cosciente al suo dilemma non sta percorrendo la strada giusta perché il desiderio di un bambino non nasce dal calcolo delle opportunità ma da un impulso vitale che viene da spazi interiori intermedi tra il corpo e la mente, tra il passato e il futuro. Quella richiesta istintuale è stata umanizzata
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Bambini di ieri e bambini di oggi Gli anniversari, ormai troppi e spesso destinati a celebrazioni superflue, hanno tuttavia un merito: quando concernono grandi scrittori, inducono a rileggerne le pagine, sotto una nuova luce, che consente di scoprire la loro persistente attualità. È il caso, adesso, di Charles Dickens a 150 dalla morte, il 9 giugno 1870, rievocato da Peter Ackroyd, in una biografia che è, a sua volta, un portentoso romanzo. Di cui è apparsa, recentemente, la traduzione italiana (Neri Pozza editore). Si deve parlare del fortunato incontro fra due talenti: un narratore del XIX secolo e uno storico contemporaneo, fra i quali s’instaura una sorta di complicità. Descrivendo la personalità contraddittoria, di un romanziere teatrale, ambizioso, persino avido di soldi e successo, il biografo ne rivela un aspetto che ce l’avvicina: la sensibilità nei confronti dell’infanzia. Sarà una presenza
centrale, sia nell’opera letteraria sia nel vissuto quotidiano di Dickens. Dal canto suo, Ackroyd la percepisce in chiave moderna, sottolineando quello che oggi si chiama impegno sociale a favore dei più deboli, di cui il romanziere fu, a modo suo, un anticipatore. Il bambino vittima, quasi predestinata, di sfruttamento, sofferenze fisiche e morali, esposto al rischio di malattie e morti precoci è qualcosa che Dickens vide intorno a sé e sperimentò personalmente. Dodicenne, per via del padre debitore cronico, fu tolto dalla scuola e mandato a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe, a 5 chilometri da casa, per 6 scellini la settimana. Da quest’infanzia interrotta che apparteneva, salvo poche eccezioni privilegiate, alla normalità, Dickens riuscì a ricavare gli stimoli della rivalsa: mobilitando le sue risorse di fantasia e intraprendenza. Tuttavia,
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Ambiente e Benessere Per un giardino originale È facile differenziarsi dalle mode: uno dei sistemi migliori è piantare un Acero grigio
L’amichevole Grandland X Hybrid4 L’automobilista dovrebbe solo pensare a guidare ed eventualmente attaccare una presa per caricare le batterie, così con il nuovo modello della Opel
Un vaso speciale Da Buenos Aires alla Patagonia, viaggio in Argentina seguendo un ricordo di famiglia pagina 19
Le erbe digestive La fitoterapia propone molte piante specifiche per lenire questo tipo di disturbi
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Davos: neve, ghiaccio, vento e molto altro Clima L’istituto SLF del WSL è un centro
di ricerca all’avanguardia che si occupa anche dell’influsso dei cambiamenti climatici in alta quota, non solo di valanghe
Elia Stampanoni Davos richiama la neve, le montagne o gli sport invernali ed è proprio nella località grigionese che dal 1945 opera l’Istituto per lo studio della neve e delle valanghe SLF, una delle sedi dell’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio WSL. Oltre a emettere i noti bollettini delle valanghe che si possono ascoltare o visualizzare durante il periodo dal tardo autunno alla primavera, la struttura è soprattutto un centro di ricerca conosciuto a livello mondiale. L’insegnamento e le relazioni pubbliche sono altri campi d’attività dello SLF, che ogni anno accoglie oltre 3mila visitatori presso la sua sede di Davos, mentre il sito internet registra 16 milioni di visite annue. I 140 dipendenti, tra cui anche circa 25 dottorandi e 10 studenti, sono impegnati giornalmente sui temi legati alla neve e alle valanghe, ma il tutto non è mirato solamente ai citati bollettini. A Davos si fa ricerca. Si studia per esempio in che modo reagiscono gli ecosistemi ai cambiamenti climatici, osservando come le specie si stanno diffondendo sempre più anche a quote maggiori, come illustra Christian Rixen, collaboratore scientifico dell’istituto SLF: «Abbiamo diversi progetti con i quali osserviamo la reazione delle specie vegetali a un rialzo della temperatura di 2°C, dati che contribuiscono a stabilire dei possibili scenari. In questi anni abbiamo potuto osservare come sempre più specie, a causa del riscaldamento climatico, si spostino e si adattino ad altitudini maggiori. Un rilievo realizzato nel 1835 sul Piz Linard (a 3411 metri s.l.m.) riportava per esempio di una sola specie esistente, mentre oggi ne possiamo trovare diciassette. Risultati simili giungono anche da ricerche effettuate in altri istituti con cui collaboriamo in tutto il mondo. Solo in Svizzera sono oltre 150 le vette in cui si è potuto documentare e osservare un’evoluzione analoga». Uno sviluppo costante che tuttavia solo negli ultimi 20-30 anni ha registrato una crescita più marcata: «Sì, quanto stiamo vivendo è qualcosa di straordi-
nario, – continua Rixen – con sempre più specie, prima limitate ad altitudini inferiori, che colonizzano alte quote con conseguente rischio per quelle più sensibili a una convivenza e, di riflesso, con un pericolo per la biodiversità. Avere più specie vegetali in alta quota può però anche avere degli effetti collaterali positivi, pensiamo per esempio alla prevenzione dell’erosione». Gli studi effettuati dall’istituto di Davos trovano poi anche un’applicazione nella pratica, come nell’elaborazione di linee guida o consigli per il rinverdimento in alta quota, informazioni che possono essere molto utili durante lavori di riforestazione, bonifica o altri interventi di miglioria sul territorio. Oltre allo studio degli ecosistemi naturali e dei loro mutamenti, l’istituto SLF si occupa chiaramente in modo intenso anche di neve, ghiaccio e vento, tutti elementi tipici e caratterizzanti dell’ambiente alpino. Proprio sulla base di queste ricerche, l’istituto sviluppa inoltre progetti, strategie e provvedimenti concreti volti a proteggere la popolazione dai pericoli naturali, in particolare dalle valanghe. Svariati gli strumenti a disposizione dei collaboratori del centro di ricerca grigionese, tra cui il sito sperimentale sul Weissfluhjoch, a 2540 metri di altitudine sopra a Davos. Fondato nel 1936, fornisce una serie di dati su altezza del manto nevoso, consistenza della neve fresca, così come profili stratigrafici. Dagli anni cinquanta l’istituto SLF gestisce inoltre l’osservatorio dello Stillberg, in una valle laterale di Davos, la Dischma, dove oggi vengono studiati anche gli effetti dei cambiamenti climatici sul limite del bosco. Nel 2016 è invece stato inaugurato un ulteriore luogo di sperimentazione nella zona di Davos Laret, dove attualmente vengono svolte misure soprattutto per rispondere alle questioni riguardanti il telerilevamento di neve e ghiaccio. Sul Weissfluhjoch, accanto agli strumenti d’osservazione, l’istituto SLF ha avuto fino al 1996 anche la sua sede principale. Con il passare del tempo, gli svantaggi del luogo, tra cui la difficile accessibilità e gli spazi limitati, hanno
L’ex edificio principale del WSL, l’Istituto per lo studio della neve e delle valanghe SLF sopra Davos. (Capricorn4049)
superato i privilegi offerti da un edificio situato in mezzo alle montagne. Un mutamento dovuto anche agli sviluppi tecnici, che hanno reso progressivamente sempre più obsolete attività come il «guardare fuori dalla finestra» e il raffreddamento naturale. I ricercatori si sono così trasferiti a valle, in Flüelastrasse 11, mentre la sede in vetta lo scorso ottobre è stata venduta alla società degli impianti di risalita Davos Klosters Bergbahnen. All’istituto, quindi, si lavora oggi anche con sofisticati strumenti che sfruttano le più moderne tecniche scientifiche. Per esempio un macchinario è in grado di produrre la neve come cade in natura e quindi in seguito simulare, in condizioni di laboratorio, come si comporterà per offrire valide informazioni sulla meccanica della neve e la formazione di valanghe.
Nella valle della Flüela si trova invece una galleria del vento che permette di studiare il comportamento e le proprietà di diversi fattori in determinate condizioni atmosferiche e climatiche. Informazioni che tornano utili anche per ottimizzare i bollettini sulla neve, per i quali l’istituto, insieme ai Cantoni, gestisce anche una fitta rete di stazioni automatiche di misurazione del vento e della neve ad altitudini elevate, in aggiunta ai dati delle oltre 200 osservazioni quotidiane. Non mancano gli studi sul permafrost (suolo perennemente ghiacciato) con l’obiettivo di comprendere meglio i processi e individuare tempestivamente eventuali pericoli. L’istituto SLF di Davos fa parte dal 1989 dell’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio WSL, il quale si occupa di problemi legati alla
strutturazione, utilizzo e protezione di habitat naturali e urbani. «Il WSL – leggiamo sul sito internet – elabora soluzioni per un utilizzo responsabile del paesaggio e delle foreste e per una gestione oculata dei pericoli naturali particolarmente frequenti nei paesi di montagna». Il WSL, che fa a sua volta parte del settore dei Politecnici federali e impiega circa 500 dipendenti, gestisce oggi oltre seimila aree di studio, tra cui impianti sperimentali per l’osservazione di cadute massi o di colate detritiche, esperimenti sugli effetti a livello forestale dei mutamenti climatici e studi sulla rigenerazione dei siti colpiti da eventi naturali come tempeste o incendi. Oltre alla sede di Davos, il WSL ha una sede principale anche a Birmensdorf (Zurigo) e altre antenne regionali a Losanna, Cadenazzo e Sion.
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Ambiente e Benessere
L’acero grigio che porta colore Mondoverde Un albero da giardino, a crescita lenta e molto decorativo
Dan Keck
Al momento dell’acquisto di un acero di solito si guardano le foglie e il portamento poiché negli ultimi decenni vanno di gran moda gli aceri giapponesi dalle foglie seghettate e dalla forma a ombrello. Chi invece desidera differenziarsi potrebbe recarsi in qualche vivaio di sua fiducia per dare un’occhiata a un bel esemplare di Acer griseum. Si tratta di un albero che raggiunge gli otto-dieci metri, che ha una crescita lenta e contemplativa per chi desidera ospitarlo in giardino. La sua chioma ha forma arrotondata, compatta e si allarga come un cappello fino a raggiungere sei metri di diametro. Tra le tante caratteristiche
che rendono l’Acero grigio un albero interessante vi è la corteccia che si presenta di un bel colore marrone cannella, e ha la particolarità di essere in grado di sfaldarsi in lamine sottili simili a vecchie pergamene, che rimangono attaccate al tronco e ai rami più grossi. Si avrà così naturalmente una doppia colorazione con lamine rossicce e corteccia chiara negli strati sottostanti, differenza che si evidenzia molto bene in questo periodo invernale. La scelta di questa pianta, originaria della Cina centrale, risulta essere ottimale per chi cerca di valorizzare un cortile a mezz’ombra, un corridoio verde sul retro dell’abitazione o anche per rendere più sfizioso il classico giardinetto delle case a schiera. Trascorso il periodo invernale,
con l’arrivo della stagione mite, Acer griseum, o se preferite acero grigio, si riempirà di piccole foglie dalla forma composta e dal colore bordeaux nelle prime settimane, per poi diventare verde scuro. Le foglie sono in realtà formate a loro volta da tre piccole foglioline dentate e hanno il lato inferiore biancastro; in autunno assumono una favolosa sfumatura arancio-rossastra. Sempre in primavera, tra aprile e maggio, compaiono i piccoli fiori gialli e poco vistosi, che daranno origine a samare (frutti secchi) autunnali dalle ali lunghe tre-quattro centimetri, contenenti semi grandi ma con un’alta percentuale di sterilità. Ciò comporta una certa difficoltà nel riuscire a riprodurre questi aceri per seme, visto che si stima che ben il 90 per cento dei semi prodotti non darà origine a una nuova pianta. Molto rustico, ama terreni freschi e ben drenati, leggermente acidi, con necessità di un buon drenaggio creato con uno strato di almeno dieci centimetri di ghiaia sul fondo della buca. Non è necessaria alcuna potatura, se non l’eliminazione di rami secchi o danneggiati a fine inverno. Essendo una pianta da ammirare e studiare in ogni stagione, grazie al suo aspetto che muta di mese in mese, vi consiglio di accompagnarla con delle erbacee perenni basse e da mezz’ombra, come della vinca blu o bianca, degli ellebori a fiore chiaro, un tappeto di mughetti o una bordura di pietre bianche con cuscini di Phlox tappezzanti.
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Ambiente e Benessere
Per una maggior familiarità tecnologica
Motori Opel presenta la sua prima vettura ibrida plug-in, la Grandland X Hybrid4, più facile da usare di tante altre Mario Alberto Cucchi Tutti nella nostra quotidianità abbiamo a che fare con le istruzioni di utilizzo di una miriade di oggetti di uso quotidiano. Dall’asciugacapelli alla lavapiatti, dal forno alla lavatrice, dal telefono cellulare al modem di casa. Ma anche lo spazzolino elettrico e persino il nuovo rubinetto della cucina. Tantissimi libricini spesso scritti almeno in sette lingue. Con caratteri piccoli piccoli e righe fitte fitte, in alcuni casi ci vorrebbe una lente d’ingrandimento. Ma chi le legge? Pochi, anzi pochissimi. Perché? La scusa è mancanza di tempo, la verità è che spesso non se ne sente la necessità.
Nonostante la rapida evoluzione, la tecnologia è sempre più user friendly, ovvero di semplice utilizzo Nonostante la rapida evoluzione, la tecnologia è sempre più user friendly, ovvero amichevole, facile da usare. L’automobile, che in molti utilizzano tutti i giorni, ha in dotazione da diversi anni alcuni tra i manuali di istruzioni e avvertenze più corposi in assoluto. Centinaia di pagine racchiuse in libri che spesso vediamo solo alla consegna del veicolo e poi non escono mai dal
cassetto portaoggetti. Una premessa va fatta: andrebbero letti! Almeno sfogliati. Giusto per non essere impreparati al primo inconveniente. Anche per scoprire alcune funzioni che altrimenti mai conosceremmo. Detto questo, per molti anni le automobili sono sempre state davvero simili: acceleratore, freno, volante, radio… Dal 2000 in avanti, prima con i navigatori satellitari, poi con gli apparati multimediali e ultimamente con i sistemi di assistenza alla guida, qualcuno il manuale ha iniziato a leggerlo. I costruttori automobilistici lo sanno e quindi cercano di facilitare l’utilizzo facendo ricorso alla tecnologia dei controlli vocali mutuata dai telefoni cellulari. «Hey Mercedes…», «Ciao Bmw…» e ci si scopre a parlare con la propria vettura. Ultimamente le cose si stanno facendo davvero difficili, anche per quanto riguarda i sistemi di alimentazione: mild hybrid, full hybrid, plugin hybrid ed elettrico puro. E allora gli automobilisti iniziano a parlare di kilowattore e ampère per cercare di calcolare un dato molto semplice, ma anche molto importante: quanta strada possiamo percorrere con l’energia immagazzinata nella nostra auto? A parte le conoscenze tecniche necessarie, in molti non hanno davvero voglia di mettersi di nuovo seduti sui banchi per usare la propria quattroruote. L’automobilista dovrebbe solo pen-
Il nuovo modello della Opel: Grandland X Hybrid4.
sare a guidare ed eventualmente attaccare una presa per caricare le batterie se ne ha la possibilità ma senza dover impazzire a cercarla. In questi giorni, tra Basilea e la Foresta nera, è stata testata su strada la prima vettura ibrida plug-in del costruttore tedesco Opel: la Grandland X Hybrid4. Un Suv a trazione integrale in grado di raggiungere una velocità massima di 235 chilometri orari e di scattare da fermo a 100 orari
in 6,1 secondi. Un Suv dotato di un motore termico tradizionale a cui si abbinano due propulsori elettrici, uno anteriore e uno posteriore, per una potenza sistema di 300 cavalli. Un Suv che può viaggiare in modalità esclusivamente elettrica, mista oppure solo a benzina. Il bello è che a bordo la differenza quasi non si percepisce grazie a un’elettronica evoluta che sovraintende alla
mobilità gestendo tutti i sistemi. Si può anche fare a meno del manuale d’istruzioni… Ed ecco che l’automobilista può rilassarsi e pensare solo a guidare. E l’ansia da autonomia? Viaggiando con il solo motore elettrico le batterie permettono di percorrere 60 km ma grazie al «tradizionale» propulsore a benzina si possono fare anche centinaia di chilometri senza preoccuparsi di dover trovare una presa di corrente. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Ambiente e Benessere
L’Argentina in cantina
Viaggiatori d’Occidente Una spedizione a Buenos Aires seguendo l’esile traccia di ricordi di famiglia
Punta Walichu; sul sito www. azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica. (Giulia Rognoni)
Chiara Angeli Il vaso è avvolto in carta da pacchi color ocra: nonostante la penombra della cantina è facile intuire la cura riservata alle cose preziose. Lo scarto: eleganti foglie d’edera decorano la ceramica bianca, alla base un marchio con una corona, una P e una M maiuscole, una scritta: Industria Argentina. Ho ereditato questa casa dai nonni; dei tanti oggetti ritrovati e appartenuti ad altre vite e ad altri tempi, cerco di dare significato. Questo vaso parla di un Paese lontano, e sembra mandarmi un invito... Nonna Alba aveva lasciato Cividale del Friuli nel giugno del 1952 per raggiungere suo marito a Buenos Aires e là aveva poi lavorato in una fabbrica di maioliche. Quante volte me l’ha raccontato. Cerco qualche informazione in più in rete, tra i friulani emigrati nella Parigi del Sudamerica, ma ne ricavo solo piste sbagliate, mail senza risposta, telefonate in altri fusi orari concluse con «No entiendo nada!». Finalmente, incrociando i libretti del lavoro e le pregunte nella Camera di Commercio di Buenos Aires, la sigla PM si lega a un nome e a un indirizzo: PM Porcelana Marquesa, in Ayachuco, Bernal. È ora di comprare un biglietto aereo. Può sembrare ridicolo partire per un viaggio così impegnativo mossi solo dalla curiosità per un vaso trovato in cantina, ma anche Bruce Chatwin, il santo protettore di tutti noi viaggiatori
d’Argentina, raccontava che fu un vecchio pezzo di pelle di brontosauro (o almeno così lui credeva), racchiuso in un armadietto nella stanza da pranzo della nonna, a spingere la sua immaginazione verso la Patagonia (In Patagonia, 1977). Buenos Aires a inizio gennaio (ma qui è piena estate) mi accoglie con «You got it» di Roy Orbison, che il tassista dall’aeroporto Pistarini canta battendo il ritmo con le dita sul volante. Tutta l’acqua che si vede all’orizzonte, a destra e sinistra della carreggiata, racconta, è sempre il Rio de la Plata, anche se sembra l’Atlantico. D’altronde nell’Argentina del 2020 restare a galla è l’obiettivo di tutti: il tasso di povertà è al 35%, l’inflazione supera il 50%. In Calle Florida le grida continue – «Cambio, cambio, cambio!» – dei cambiavaluta assordano le porteñe eleganti e i turisti del microcentro. Racconto dei miei nonni a Estéban, guida e videomaker ventisettenne. Mi risponde laconico: «Gli argentini scesero dalle barche». Manca una vera identità nazionale, un patriottismo all’europea: Buenos Aires scardina le costruzioni mentali e mescola le provenienze geografiche. Per adesso però mi dimentico del famoso vaso e la suggestione di Chatwin mi porta verso la Patagonia. Tre ore di volo più a sud, viaggio su un camion lungo il Lago Argentino, attraverso Estancia Anita. Con i suoi 74mila ettari è la più va-
Lo spettacolo di un Caracara in volo all’interno di Estancia Anita. (Giulia Rognoni)
La fabbrica Porcelana Marquesa a Bernal. (Giulia Rognoni)
sta fattoria della provincia di Santa Cruz e solo questi mezzi possono affrontare indenni le strade accidentate del latifondo. Ma, a parte qualche disagio, non ci sono altri problemi. Doveva essere ben diverso nel 1955, quando qui era ancora viva l’eco delle rivolte degli anarchici negli anni Venti e della repressione omicida dell’esercito, se durante una trasferta di lavoro di nonno Riccardo l’ufficio del personale della FAMAG-Industria Talleres Metalúrgicos si premurò di rassicurare la moglie Alba con una lettera «para su tranquilidad». L’aria è fresca, il sole limpido, l’o-
rizzonte infinito, da ogni lato della strada. Anche il Lago Argentino sembra un mare con il suo immenso bacino d’acqua gelida, quasi irreale nella sua bellezza. A El Calafate, avamposto per il ghiacciaio Perito Moreno, albeggia alle cinque di mattina e tramonta dopo le dieci di sera: in questa overdose di luce, dopo cena un padre rincorre il figlio nel roseto dell’ostello e un turista francese fa yoga nel prato, sotto gli occhi di un cane color miele. Invece duecento chilometri più a nord, nel nuovissimo ostello di El Chaltén, al cospetto del Fitz Roy, alle tre
Murale nei pressi dello stadio del Boca Juniors, la Bombonera. (Giulia Rognoni)
del mattino se non riesci a dormire senti solo il vento oltre la finestra e il suono di una sirena. Il clima cambia con velocità sorprendente in questa città fantasma, dove gli alberghi degli stranieri sono pieni ma per strada spesso non c’è nessuno. Un bus di linea ci porta all’aeroporto di El Calafate lungo la leggendaria Ruta 40, con una sosta nello storico Parador La Leona, dove avventori al bancone confrontano banconote vere e contraffatte. Poi il volo per la capitale. Dopo le temperature andine, l’umidità al risveglio a Buenos Aires toglie il fiato. Poi alle sei di un martedì pomeriggio, con tanti chilometri alle spalle, mi ritrovo finalmente davanti all’indirizzo che cercavo. Sergio, architetto di cantiere friulano giunto a Buenos Aires nel 1949, mi ha guidato qui con la sua vecchia Fiat Punto, oltrepassando San Telmo, gli edifici colorati della Boca e il comune di Avellaneda, fuori dalla città metropolitana. A Bernal, venti chilometri a sud della capitale, c’è ancora luce. Le chiavi le ha trovate lui. Invece della Porcelana Marquesa, l’ingresso conduce in un club sportivo: al bar un ragazzo con la maglia dell’Inter vende pizza, hamburguesos e medialunas. Dopo gli spogliatoi esterni, una scala di fortuna è l’unico mezzo per salire nel 1952. Vietato guardare in basso: si cade nel vuoto sull’erba sintetica del nuovissimo campo di calcio a cinque, un piano più sotto. Approdo su un basamento di cemento grezzo. Avanzo per una decina di metri ed entro nella fabbrica attraverso il varco di quella che fu una porta. Le matrici sono ovunque: sugli scaffali alle pareti, una incastrata nell’altra, sui ripiani da lavoro, ammassate negli angoli a formare pile. È una macchina del tempo. Nella stanza seguente due fori sul pavimento indicano la posizione dei forni. Da qualche parte, a cercarlo bene, ci dev’essere ancora il fatidico marchio «PM Industria Argentina». Mi ritrovo a fantasticare che, con una buona pulita e qualche riparazione, forse si potrebbe far ripartire la fabbrica e creare un vaso uguale a quello ritrovato in una cantina in Friuli, in un altro emisfero; si potrebbe chiudere il cerchio dei ricordi.
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Ambiente e Benessere
Dalle Città monastiche all’era moderna Vino nella storia Si conclude con questo articolo la serie dedicata
al tema «Lungo le rotte del vino»: 8a e ultima parte Davide Comoli Verso il X secolo, in alcune regioni europee – che ospitavano le cosiddette «città monastiche», molte delle quali fondate lungo il corso dei fiumi – resisteva una certa attività mercantile; questo valeva anche per il vino prodotto soprattutto in zone votate alla viticoltura. Considerate «città franche», queste realtà monastiche disponevano di vere e proprie vie commerciali, chiamate «strade dei mercanti». Proprio i mercanti – tornati timidamente in auge dopo la crisi che era concisa con la fine del mondo antico ai secoli del basso Medioevo – prima d’intraprendere un viaggio, sentivano il bisogno di associarsi in corporazioni o consorterie chiamate «gilde» o «confraternite». Queste corporazioni non si scioglievano al ritorno, ma cercavano invece di costituire corpi permanenti. Poiché l’interesse dei mercanti coincideva con quello dei loro concittadini, i componenti di ogni «gilda» locale ebbero carta bianca, identificatosi come una specie di amministrazione comunale (non riconosciuta ufficialmente) a partire dal XI sec. I vescovi che forzatamente risiedevano nelle loro sedi stabilite dal potere papale, avrebbero però voluto conser-
vare tutta la loro autorità, in parte per fare gli interessi della Chiesa, ma la maggior parte delle volte per il loro tornaconto e la paura di perdere il potere. Per questo motivo le «consorterie» erano viste con sospetto. La Chiesa nutriva una palese avversione e considerava «immorale» il mestiere dei mercanti, perché questi con la loro autonomia gestionale cominciarono a far nascere negli strati sociali più abbienti qualche rivendicazione. Proprio per salvaguardare i diritti acquisiti, le corporazioni mercantili nel corso del XIII secolo cercarono di consolidare sempre di più il loro potere. Grazie a queste corporazioni e a grandi professionisti del mercato, la bevanda bacchica ricomincerà dopo qualche secolo ad inebriare con i suoi profumi i mercati europei. Italiani, spagnoli, portoghesi e tedeschi saranno, pur con alti e bassi, causa di guerre e pestilenze varie, i possessori, anche se per breve tempo, del destino commerciale del vino del basso Medioevo. Dal XIV secolo, secondo alcuni scritti, pare che fossero state attivate delle «taberne mobili» che potevano facilmente spostarsi, composte forse quasi unicamente da contenitori per il vino. Poste sopra dei carri, queste «taberne» venivano trasportate in occa-
sione di feste campestri o in luoghi di qualche aggregamento di persone che necessitasse di essere ristorata. Come si nota, il vino in realtà era abbastanza diffuso, ma pochi erano i vini da denominazione particolare e spesso venivano, grazie a particolari «alchimie», trasformati con la pratica dell’annacquamento o con la più tradizionale «arte del taglio», usando vini mediocri, al limite della potabilità. Dall’inizio del XVI secolo, il vino, come pretesto per affari lucrosi, avrà un nuovo baricentro: il cuore dell’Europa nord occidentale. La grande spinta economica e commerciale di parte dell’Europa iniziò a scemare accusando una forte flessione. Il commercio in generale, compreso quello del vino, non era in grado di soddisfare e raggiungere la grande massa di potenziali consumatori. Il movimento mercantile non era in grado di dare continuità, per mancanza d’impeto nel superare certi ostacoli, tensioni, crisi che si manifestarono negli ultimi decenni del secolo. E a causa di varie bancarotte, vedi quelle della monarchia spagnola del 1557 e del 1597, che costituirono grattacapi profondi e scossero l’economia europea in profondità. Ci furono fallimenti totali, sia di singoli mercanti sia di molte compagnie mercantili. Anche in Italia, di-
XVI secolo: commercianti europei in viaggio. (Acquerello di Heins A., 1885)
menticato ormai da tempo il dominio di Roma, che aveva regnato sulle vie mercantili di terra e di mare, l’economia non decollava e si percepivano gravi sintomi d’invecchiamento: molta era la fatica per far fronte alle esigenze dei nuovi mercati. Il secolo XVII vede con l’avvento dell’internazionalizzazione dei mercati marittimi la nascita di grandi compagnie mercantili, come la Compagnia olandese delle Indie Orientali. Solo chi era competitivo nei traffici marittimi, terrestri e nel campo produttivo, poteva senza timore affrontare le nuove sfide che il mercato internazionale offriva. Pochi erano coloro che dominavano i mercati più importanti: la città di Amburgo, grazie al suo porto, aveva ad esempio l’esclusiva per mantenere rapporti commerciali tra il sud dell’Europa e i paesi Baltici. Amburgo fu anche il più attrezzato centro di smistamento di prodotti che arrivavano dall’area mediterranea, ma
soprattutto di alcune tipologie di vini dolci, tanto apprezzati al nord e di quelli che al di sopra di tutto resistevano al «travaglio» dei lunghi viaggi via mare. I vini italiani e quelli greci, in questo caso, tenevano bene il confronto degli altri vini provenienti da altre zone come Reno, Mosella, che per via fluviale rifornivano il mercato interno ed esportavano in Olanda. Alla fine del XVI secolo, l’Europa era ancora in larga misura autosufficiente e i Paese europei commerciavano principalmente tra di loro. Il nostro viaggio sulle rotte interne del Mediterraneo e sui fiumi europei si conclude qui. Il 1600 è il secolo delle grandi compagnie d’oltremare, le scoperte di nuovi mondi portarono ai conflitti coloniali e le grandi potenze inizieranno una lotta non priva di feroci colpi per il dominio dei mercati più importanti raggiungibili via mare. È l’inizio della storia moderna. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Ambiente e Benessere
Piatti per battere lo sconforto Quando sono un po’ sconfortato e malandato, mi disconnetto col mondo – è facile, basta spegnere il computer e staccare il telefono – e mi preparo piattoni unici, ricchi, super classici, un po’ trucidi, a base di ingredienti pronti, che mi rimettono a posto. Come questi quattro. Li faccio in dosi abbondanti: quello che avanza poi abbatto e conservo in frigorifero. Primo piatto fra tutti, polenta e fagioli: il massimo! (Ma attenzione: nella cottura della polenta, va da sé, bisogna aggiungere acqua bollente quando necessario: non c’è spazio per ripeterlo ogni volta…).
Il massimo della soddisfazione per tirarsi su un po’ di morale? Prepararsi un buon piatto di polenta e fagioli Polenta con fagioli e salsicce. Per 3 persone. In una casseruola stufate le salsicce spellate e tagliate ad anelli con una cipolla mondata e affettata finemente e con una manciatina di prezzemolo tritato. Sfumate con un bicchiere di vino bianco e unite un cucchiaio di concentrato di pomodoro stemperato in acqua e un barattolo di fagioli scolati. Coprite e cuocete a fuoco basso per 10’. Aggiungete 150 g di farina da polenta, coprite a filo di brodo di vitello o vegetale e cuocete per un’ora. Regolate di sale e di pepe e servite con grana grattugiato. Bordatino. Era anticamente preparato a bordo dei velieri, mettendo tutto quanto era disponibile fra legumi e pescetti piccoli, quelli poco vendibili, per ottenere di fatto una crema di pesce. Ecco la ricetta con gli ingredienti per 3 persone. Mondate un cavolo nero (o di un altro tipo), sbollentatelo per 4’, tagliatelo a listarelle e cuocetelo in una casseruola, coperto,
con un filo di olio, 1 spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato e 4 cucchiai di verdure da soffritto (quelle surgelate che si trovano al supermercato). Quando il cavolo è cotto unite 60 g di salsa di pomodoro e un barattolo di fagioli a piacere ben scolati. Aggiungete brodo vegetale fino ad avere circa ½ litro in tutto di brodo e portatelo a bollore. Versate a pioggia 150 g di farina gialla, mescolando con una frusta a mano, e cuocete per circa 1 ora continuando a mescolare: alla fine dovete avere una preparazione morbida, da mangiare col cucchiaio. Prima di servire: arricchite con una manciata di gamberetti piccoli, saltati per un attimo in padella con olio, oppure una manciata di qualsiasi pesce, tagliato a dadini (il baccalà bagnato è perfetto). Regolate di sale e di pepe. Servite il bordatino legato con 50 g di burro e profumato con prezzemolo tritato. Cazzagai. Per 3 persone. Sciogliete in una casseruola una noce di burro e rosolate 40 g di pancetta e una cipolla tritate insieme. Unite poi 200 g di pomodorini a dadi e un barattolo di fagioli scolati. Aggiungete ½ litro di brodo vegetale, versate a pioggia 150 g di farina gialla, mescolando con una frusta a mano, e cuocete per circa un’ora continuando a mescolare. Alla fine, regolate di sale e di pepe. Si serve calda ma non bollente. Jota. È una tipica minestra della Carnia (nella foto). Per 3 persone. Mettete in una pentola 100 g di carne di maiale fresco o affumicato tagliata a dadini, 4 cucchiai di verdure da soffritto, 150 g di farina da polenta, un barattolo di fagioli ben scolati, un ciuffo di salvia, un ciuffo di prezzemolo e uno spicchio d’aglio. Coprite a filo di brodo di vitello o vegetale e cuocete per un’ora. Fate insaporire in una padella con un filo di olio 100 g di crauti acidi ben scolati dal liquido di conservazione. Mescolate, regolate di sale e di pepe e servite. Potete sostituire la carne di maiale con 200 g di patate tagliate a dadini.
CSF (come si fa)
pxhere.com
Allan Bay
Jernej Furman
Gastronomia Le parole d’ordine sono abbondanza e tradizione antica
Vediamo come si fanno alcuni ghiotti budini dolci. Budino di zucca. Per 4 persone. Prendete 300 g di polpa di zucca e cuocetela in forno a 200° per 20’. Frullatela, mettetela in una casseruola con altrettanto zucchero e cuocete a fuoco basso, mescolando spesso, fino a quando lo zucchero si sarà sciolto. Aggiungete 2,5 dl di latte di cocco e un cucchiaino di cardamomo. Proseguite la cottura
sino a quando il composto si è addensato, versate il dolce in ciotoline individuali, lasciate intiepidire, passate in frigorifero e servitelo freddo. Budino di patate. Per 4 persone. Ammollate 100 g di uvetta in acqua tiepida per 20’, scolatela e strizzatela. Lessate 500 g di patate, passatele, mettetele in una casseruola e, su fuoco basso mescolando di continuo, amalgamate una noce abbondante di burro, un bicchiere di panna fresca, una cucchiaiata di farina, 80 g di zucchero e un pizzico di sale. Togliete dal fuoco e unite 3 tuorli, un pizzico di cannella e una grattugiata di noce moscata. Montate a neve ben soda gli albumi e amalgamateli al passato. Infine, aggiungete 70 g di pinoli e l’uvetta. Versate il composto in una tortiera imburrata e cuocete in forno a 180° per
40’. Spolverizzate di zucchero a velo e servite subito caldo. Budino di semolino. Per 4 persone. Portate a bollore mezzo litro di latte con 2 scorze di limone, eliminatele e aggiungete 80 g di zucchero, una noce di burro e un pizzico di sale. Alla ripresa del bollore versate a pioggia, mescolando di continuo con una frusta a mano, 100 g di semolino. Cuocete per 15’ senza smettere di mescolare. Lasciate intiepidire il composto, amalgamate 3 tuorli, un cucchiaio di brandy, 50 g di uvetta ammollata e strizzata, 30 g di cedro candito e 30 g di scorza d’arancia candita tagliati a dadini. Montate a neve i 3 albumi, amalgamateli delicatamente al composto e versatelo in uno stampo imburrato e spolverizzato di pangrattato. Cuocete a bagnomaria per circa 50’.
Ballando coi gusti Oggi, due piatti, semplici e veloci, che, messi insieme, sono un pasto o quasi
Pomodori al grill
Filetto alle erbe
Ingredienti per 4 persone: 8 pomodori rotondi · 100 g di pangrattato · 50 g di formaggio grattugiato · aglio · prezzemolo · olio di oliva · sale e peperoncino secco.
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Tagliate i pomodori a metà orizzontalmente, privateli dei semi, salateli leggermente, capovolgeteli e fate perdere loro l’acqua di vegetazione, acida, per almeno un’ora. Tritate l’aglio e il prezzemolo; aggiungete 70 g di pangrattato con olio, sale e peperoncino ed emulsionate bene. Poi mescolate il formaggio. Farcite i pomodori con questa emulsione, spolverizzateli con 30 g di pangrattato e cuoceteli sotto il grill per 5 minuti o fino a quando il pangrattato incomincia a scurire.
Spennellate il filetto con poco burro fuso. Mondate e tritate le erbe, salatele e pepatele, mettetele su un tagliere. Rotolatevi il filetto più volte, premendo bene con le mani in modo da rivestirlo completamente. Cuocete il filetto in una casseruola chiusa unta di burro per il tempo che volete: dipende da quanto lo volete cotto, io lo cuocio per 10 minuti solo. Spruzzatelo con poco vino mentre cuoce. Levate, lasciate riposare per 2 minuti, quindi affettate e servite, aggiungendo altro sale e pepe se necessario.
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Fitoterapia Dalla Camomilla all’Angelica,7 gli aiuti naturali all’uomo 8 9
Eliana Bernasconi La digestione è un processo fondamentale e indispensabile al funzionamento di quella macchina che è il nostro corpo. Mediante una concatenazione di processi chimici e meccanici, interagisce con il sistema nervoso centrale e con il mondo che ci circonda, elabora stimoli interni ed esterni. Non per niente se ne parla come di un «secondo cervello»: se qualcosa disturba questo delicato equilibrio lo avvertiamo immediatamente. Succede ad esempio quando il nostro stile di vita costringe a ritmi innaturali e troppi impegni impediscono di fermarsi. Quando gli stati d’ansia bloccano l’appetito oppure una preoccupazione o un dispiacere «restano sullo stomaco», possono farsi sentire allora senso di pesantezza o acidità di stomaco, crampi, sonnolenza o nausea, piccoli disturbi dei quali spesso non si riesce a identificare con chiarezza una vera causa organica. Sono moltissime le piante medicinali che leniscono una digestione difficile o troppo lenta, stimolano i succhi gastrici, rilassano le mucose interne, disinfiammano con dolcezza. Abbiamo chiesto al dottor Gabriele Peroni alcuni nomi di piante che maggiormente gli vengono richieste in questi casi o che lui consiglia. «Non sono le sole – spiega – ma fra le più usate abbiamo L’Angelica, la Genziana, il Carciofo, l’Alloro, lo Zenzero, il Boldo, l’Achillea, il Rosmarino, la Salvia, la Camomilla. Possiamo aggiungere che avendo ogni pianta azioni e caratteristiche diverse occorre identificare quella indicata proprio per noi». Vi è anche chi ricorre ai «rimedi
Giochi Cruciverba Se credi di essere troppo piccola per essere notata… Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 5, 1, 7, 3, 3, 7)
della nonna», ingerendo ad esempio acqua calda con succo o scorza di limone, bicarbonato di sodio e magari una punta di radice di liquirizia. Le classiche tisane, decotti o come infusi,15 12 in forma 13 di 14 sono conosciutissime: si va dall’infuso di semi di Finocchio, che dopo i pasti 17 18 combatte i gonfiori addominali, alla profumata Menta che stimola i succhi gastrici 19 dello stomaco, ai 20semplici infusi di foglie di Rosmarino, Basilico o Alloro, (tre foglie in una tazza di acqua 22 bollente da bersi dopo dieci minuti). Poi abbiamo l’Anice che combatte le 24 fermentazioni intestinali, i grani di Cumino, (eventualmente da masticare dopo un pranzo sovrabbondante), l’antico Coriandolo, una delle prime piante a essere usata dall’umanità (frutti di Coriandolo pare siano stati ritrovati nelle tombe egizie): originaria dell’Africa e delle coste3 del Mediterraneo, in4 1 2 infuso stimola l’appetito prima dei pasti ed è digestiva dopo. Abbiamo anco10 ra 9la radice di Zenzero, la cui origine in Oriente si perde nella notte dei tempi. È tonico-digestiva e antinausea; narra 11 12 la tradizione che Confucio la portasse sempre con sé. 14Ma potremmo 15 dimenticare la vecchia e cara Camomilla? Come tutti sanno, 17 oltre ad avere effetti gastroprotettivi su stomaco ed esofago è antispasmodica e tranquillante. Oppure 19 possiamo lasciare20sullo scaffale l’umile e preziosa Melissa? Poche come lei curano 22 l’apparato digerente e l’acidità di23 stomaco mentre tranquillizza e favorisce il buon funzionamento della memoria. E poi c’è 24 l’onnipresente25 Malva, dalle infinite indicazioni per tutti casi di 26 infiammazione e irritazione, non 27 solo dell’apparato digerente. Resta an-
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cora da citare la radice di Genziana con i suoi principi amari che attiva le secre11 zioni salivari e gastriche e accelera la digestione. Allontanandoci geograficamente 16 troviamo la Boswellia resinosa. Usata dalla medicina cinese e dalla tradizione ayurvedica, nell’aspetto è simile a grani di incenso. È originaria di India e Cina, e cura la colite ulcerosa 21 ma anche artrosi, reumatismi e dolori muscolari. Abbiamo poi il commestibile Carcio23 fo, pianta nota a Egizi ed Ebrei, il Boldo originario del Cile e Sudamerica, (secondo la25 leggenda i pastori andini si accorsero del suo potere digestivo osservando le capre), e la potente Achillea che oltre a essere una pianta digestiva curò le ferite dell’eroe greco Achille. Come si evince quasi tutte le piante medicinali hanno indicazioni multiple: grazie alla6 ricchezza del loro fitocom5 7 8 plesso una stessa pianta può curare disturbi molto diversi. Come per Angelica sylvestris L, della famiglia delle Ombrellifere, chiamata anche erba degli angeli 13 o erba dello spirito santo. Molto usata nella medicina popolare per i disturbi gastrointe16 stinali, ha pure ottime proprietà analgesiche e antinfiammatorie. È in grado di stimolare 18i succhi gastrici e il transito intestinale, favorendo la produzione della bile. 21Dell’erba degli angeli si utilizzano le radici, i frutti e i semi; ha fusti eretti verde violaceo e fiori giallo verdastri riuniti in ombrelli. Amata dalle api per il suo aroma simile alla liquirizia, cresce nei boschi umidi fino a 1600 m/sm; non si trova facilmente e viene coltivata. Racconta una leggenda nordica che venne donata agli uomini dall’Arcan-
T O T E M
I N E
A C D I U D E A
Si chiama Angelica sylvestris L, ma per molti è l’«erba degli angeli».
A S I A G O SUDOKU N F I PER A AZIO nel famoso gelo Raffaele M A (inI ebraico,N.angelo C A tevano N O A liquore Chartreuse. G 1 della FACILE Si racconta che sarebbe addirittura guarigione) che ne suggerì l’uso a un liquore di Anfrate che incessantemente pregava per afrodisiaco Pabitanti U del suo paese P colpito O dalla R gelica TSchema I un semplice I piante ottenuto con gliG steli delle gli peste; secondo altri testi a donarla fu il posti in acquavite e mescolati con ac1 Rcoman5 e zucchero;Tcome 9ArimedioL contro 6 bellissimo Michele, I NArcangelo G O D qua A dante supremo delle schiere angeliche. l’impotenza maschile si tramandava Angelica sylvestris L fiorisce 6 4Odel «Vino A R E Nproprio A invece laDricetta S tonico» I per nel periodo in cui negli antichi calen- ottenere il quale basta macerare per una settimana un litro di vino rosso dari ricorre la sua festa. 9 di in radice di Angelica e 20 A Per i sacerdoti E Druidi T era una A pianta7 30Cgrammi sacra alla luna, come il vischio lo era al grammi di radice di Genziana (bere un sole. Nel Medio Evo era un rimedio per bicchierino prima dei pasti). M U T I Q R la febbre, consigliato in Herbora sempli7 Ildegarda 3 di Bibiografia 8 6 4 ciorum, il prontuario dove B elencavaAle erbeCda coltivare E nei R Gabriele I Peroni, Trattato di FitoteraBingen conventi. I monaci benedettini4 la utiliz5 pia Driope, 1 Nuova Ipsa 2 editrice. 6 9 zavano per medicinali e liquori e la metU - Gennaio A 2020 N T A GiochiO per “Azione”
9 3 2 6 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi 2 1con il cruciverba e 1una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku (N. - Graziosa - Principessa) (N. 4 - ... prova a dormire con una zanzara) 7 3 9 4 1 1
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(N. 2 - Giulio Rapetti - Luca 23 24 Medici)
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32. Torna... se ora non c’è 34. Società per Azioni 35. Una di famiglia 36. Amato appassionatamente 37. La vedette degli studios VERTICALI 1. Oggetti in coppia 2. Si contendono il palio 3. Le iniziali dello scrittore Eco 4. Precetti 5. Vergogna, disonore 6. Diede i natali al Vasari (Sigla) 7. Cancrena 8. La friend italiana
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G A R A N T E E Z Soluzione: I P O R I Scoprire i 3 S A R S 4O numeri corretti C nelleI O A daPinserire caselle I Rcolorate. I S C 2I N E G A T I T M T O N O A E R A T O 9R
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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R A C R A E C N I G A A S I D
Stefania Sargentini
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ORIZZONTALI 1. Fende l’onda 4. La paura a tombola 9. Sono accanto alle cascine 10. Il Matteo di Terence Hill 11. Una nota... nobiliare 12. Giove la mutò in giovenca 13. Golfo e porto libico 14. Preposizione articolata 16. Maledizione, scomunica 18. Accessorio per auto 19. Indignate, risentite 20. Un possessivo 22. Si ricava da due date 23. Parte posteriore dello scheletro del piede 25. Quando muore si festeggia 27. Un Italo scrittore italiano 29. Signora dell’Olimpo 30. Attrezzo agricolo 31. Le iniziali del Malgioglio della tv
T R U M P
G I U A L I R O A P M I L U N E S T V E A I O
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N E C R 4 O S I
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SUDOKU PER AZIONE - GENNAIO 2020
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10. Si segue... a tavola 13. Quello d’animo... non ha confini 15.2Dodici orizzontale al contrario 1 3 4 5 6 7 17. Rimasto in secca 9 10 18. Una rotondità 1120. Scava gallerie 12 13 21. Nome femminile 14 15 16 23. In coppia con la bottiglia 24.17Misura per guantoni da18 box 1926. Termine 20 21 di paragone 27. Nei titoli di coda del film 22 23 28. Il nome dell’attore Sharif 24 25 33. Romanov ultimo zar (Iniz.) 2635. Consonanti 27 dell’ultima consonante...
P R U N. A 2 MEDIO N O A I E D O N R I N O I O S A9I O R P T S A 1 A N A T IE SA M A L L A E 6 I R A ET7 E N EG I TU RAA T I T 3I 2C C O N A A N NA LO R O R A T E 3 P E D E AA P EZC A T A T A M I N I M A TL UNN G A S C P RI I A M E S T A1 D I U A A D O R AS UT D O M F O V E A
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N. 3 DIFFICILE
Soluzione precedente C settimana I O I D E A P E Rdella
FONDALI MARINI – Per difendersi dai predatori il pesce palla... N. 1 FACILE Risposta risultante: SI GONFIA INGURGITANDO ACQUA. Soluzione Schema 8
A1 M P I
S A6 U N 7 A3 A 4 M U9 B 2 O U7
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O9 N F6 I A C N O A 4G P O9 T I G I 1 5T A L O R A E N8 D4 O S I 3 T A1 C2 6 9 I3 2 Q R 76 1 9 5 C E R I 8 A9 N4 T A1 5
N. 2 MEDIO I premi, cinque carte regalo Migros (N.Partecipazione online:con inserire la luzione, corredata da nome, cogno4 - ... prova a dormire una zanzara) 4 indirizzo, email9del partecipan7 3 del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku me, 2 3 4 5 6 7 8 teggiati tra i partecipanti che avranno 1 nell’apposito formulario pubblicato te 2 deve essere spedita a «Redazione P R T 9 U A 7 N O V A N6 11 fatto pervenire la soluzione corretta 9 sulla pagina 10del sito. Azione, Concorsi, C.P. 6315,R 6901 A I E D O N E 1 4 entro il venerdì seguente la pubblica- 12 Partecipazione postale: la lettera Lugano». 13 14 15 o I O S I R T E 9 7 6 4 zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- Non si intratterrà corrispondenzaCsuiO 16 17 18 A N A T E M5 A C R I
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8 legali7 sono9escluse. concorsi. Le vie 5 1 un 8 pagamento 6 9 2 in 7 con3 Non 4è possibile tanti dei premi. I vincitori saranno A 2 9 6 3 78 4 5 8 3 1 avvertiti per iscritto. Partecipazione M 8 3 7 1 5 2 6 9 4 riservata esclusivamente a lettori che Irisiedono 9 6 7 in 5 6 1 3 4 2 8 Svizzera. C 1 6 8 4 2 5 9 3 7
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Politica e Economia Settimana top per Trump Nei «caucus» dell’Iowa i democratici regalano punti a Trump e il Senato lo assolve da tutte le accuse pagina 28
Caracas schiacciato dalla povertà Una ricchezza immensa, una delle più grandi dell’America latina, si è volatizzata negli ultimi sei anni. Spaventosi i dati sul Venezuela diffusi dal Fondo monetario internazionale, sostenuti da analisi reali e dettagliate dell’economia del Paese pagina 29
Operai al lavoro sul cantiere del nuovo ospedale cinese di Wuhan. (AFP)
Effetto Chernobyl a Wuhan
Cina L’ospedale costruito in tempi record è sicuramente una delle vetrine di propaganda che la Cina userà
per mostrare i suoi sforzi nel contenere il contagio. Ma le sue responsabilità in tema di trasparenza sono gravissime
Giulia Pompili La Cina ha preso «sostanziali misure per ridurre il rischio di contagio, soprattutto nell’epicentro dell’epidemia», continua a ripetere l’Organizzazione mondiale della Sanità. È tutto sotto controllo, dice anche il presidente cinese Xi Jinping. Durante la riunione per la prevenzione del rischio del Comitato permanente dell’Ufficio politico del Comitato centrale del Partito, il presidente ha detto che chiunque disobbedisca agli ordini, in questa delicata fase, sarà punito. Bisogna salvaguardare l’economia e l’ordine sociale, l’educazione civica e la comunicazione, ha detto Xi. Del resto la Cina si trova ad affrontare il suo «cigno nero», il peggiore degli eventi immaginabili: la diffusione del nuovo coronavirus, che provoca una polmonite atipica e di cui ancora poco sanno perfino gli scienziati, ha messo in ginocchio la seconda economia del mondo nel suo momento di massima espansione e influenza, poche settimane dopo la firma della fase uno della tregua nella guerra commerciale con gli Stati Uniti. Nelle ultime settimane, e con un crescendo progressivo e inquietante, decine di paesi hanno bloccato i voli passeggeri ma anche cargo da e per la Cina. La globalizzazione
si è fermata per il rischio contagio. Per Pechino l’isolamento è preoccupante tanto quanto il contagio, e ha contrattaccato: gli Stati Uniti, e anche altri paesi, stanno esagerando, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese: «Non si può usare un’emergenza per colpire l’economia cinese», ha scritto il «Quotidiano del Popolo». Ma un virus non può essere trattato come un problema di politica interna, e soprattutto non dopo che i casi di pazienti affetti sono cresciuti esponenzialmente anche fuori dai confini cinesi. «Sebbene siano comprensibili alcune misure adottate da governi, gruppi e aziende per proteggersi dal virus, la Cina dovrebbe essere allarmata da eventuali azioni dannose e prepararsi ad adottare delle contromisure, se necessario», ha scritto in un editoriale pubblicato sul quotidiano cinese «Global Times» il giornalista Cong Wang: «È importante notare che il governo americano ha svolto un ruolo importante, se non il principale, nell’istigare certe azioni. Gli Stati Uniti sono stati i primi a vietare ai cittadini cinesi di entrare all’interno dei propri confini. Il governo americano non ha fornito aiuti alla Cina, e oltretutto alcuni funzionari americani hanno perfino aumentato la loro campagna anticinese in questo pe-
riodo di emergenza, seminando panico ovunque». Il contagio globale è diventato un’arma politica? Di certo lo è per il governo di Pechino. Il 23 gennaio scorso, con una misura draconiana che non ha precedenti nella storia, la Cina decide di isolare, di fatto, una megalopoli da undici milioni di abitanti: Wuhan, il centro dell’epidemia. È lì che sembra essersi diffuso il virus, nel mercato con animali selvatici che ora la Cina vorrebbe mettere al bando in tutto il Paese. Nel giro di pochi giorni la quarantena su scala metropolitana si estende anche ad altre città, tutte nella provincia dello Hubei, fino a coinvolgere cinquantasei milioni di persone. La macchina della propaganda si mette in moto: i media cinesi parlano di «un difficile sacrificio» da parte degli abitanti della regione, che però stanno dando «un enorme contributo per fermare l’epidemia». I diplomatici cinesi che usano Twitter – un social network bloccato in Cina – diffondono le immagini dei medici e degli infermieri di Wuhan che lavorano senza sosta, e indossano le mascherine per giorni interi, e si ammalano lo stesso dopo aver curato i contagiati. Il messaggio è quello della resilienza, della competenza e dello spirito collettivo cinese che farà superare l’emergenza.
Ma in brevissimo tempo il numero di pazienti affetti da coronavirus supera la capacità degli ospedali, sui social network e sui media locali iniziano a circolare le immagini di persone ammalate che fanno centinaia di metri di fila davanti agli ospedali per essere sottoposte al test – aumentando così il rischio di essere esposti al virus. La situazione d’emergenza si aggrava, ma il governo trova il modo di sfruttare la faccenda in modo positivo, e annuncia che Wuhan costruirà due ospedali «a tempo di record», per far accedere alle cure necessarie tutti i suoi cittadini. La notizia fa il giro del mondo e ovunque viene associata alla proverbiale efficienza e alla velocità cinese. Pechino sfrutta il sensazionalismo, e mette addirittura in piedi un live streaming della costruzione degli ospedali. L’ospedale Huoshenshan, che significa della Montagna di Dio del Fuoco, dovrà ospitare almeno mille posti letto, dicono le autorità locali. Il secondo, l’ospedale Leishenshan, della Montagna del Dio dei Fulmini, si estenderà per 79’700 metri quadrati, e potrà ospitare fino 1600 posti letto. Più di settemila persone, centinaia di ruspe e macchinari lavorano senza sosta giorno e notte. Dieci giorni dopo, il Huoshenshan si rivelerà per quello che è: un ospedale da campo.
I prefabbricati servono semplicemente a isolare i contagiati, anche perché finora il virus è trattato con farmaci antivirali, ma non c’è ancora una cura specifica. Quando i malati a Wuhan superano i ventimila, il governo locale adibisce ulteriori strutture – otto in totale – tra palasport e centri congressi, per trattare i pazienti meno gravi che non hanno bisogno di macchinari medici. Per gli scienziati internazionali il problema di questa emergenza riguarda due fattori: il primo è il rebus che si nasconde dietro al nuovo ceppo di coronavirus, di cui non conosciamo con esattezza la virulenza e il tasso di mortalità – sappiamo però che per il 96 per cento coincide con il virus trovato nei pipistrelli, dai quali potrebbe essere saltato fino ad attaccare l’essere umano. Il secondo problema riguarda la Cina, e il cosiddetto «effetto Chernobyl»: anche il governo di Pechino ha ammesso di aver ritardato, tra il 31 dicembre e il 20 gennaio, di comunicare tempestivamente cosa stava succedendo nello Hubei. Ma c’è da riflettere soprattutto sulla fiducia che la comunità internazionale ripone in un Paese autoritario che, come nel 2003 durante il contagio della Sars, ha ancora tutto l’interesse di minimizzare e risolvere a modo suo l’emergenza.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Politica e Economia Trump assolto da tutte le accuse gongola mostrando il giornale. (AFP)
Le anime della sinistra
Ideologie Da tempo è lotta fra due diverse
visioni del mondo progressista. Non solo in America Christian Rocca
Stati Uniti Assoluzione piena e caso impeachment chiuso
per The Donald dopo una battaglia durata mesi Federico Rampini Prima la débacle dei democratici in Iowa, brutto spettacolo di un partito diviso e disorganizzato. Poi un discorso sullo Stato dell’Unione dalla indubbia efficacia elettorale. Infine l’assoluzione dall’impeachment. La settimana positiva per Donald Trump include due segni più sul fronte economico: Pechino leva i dazi su 75 miliardi di importazioni made in Usa; e per la prima volta da anni scende il deficit bilaterale UsaCina. Le chance di rielezione del presidente sono in risalita. In ordine cronologico si comincia dal «disastro sistemico» del 3 febbraio, come lo definisce un dirigente del partito democratico nell’Iowa. Si apre male la lunga gara delle primarie per scegliere lo sfidante di Trump. Caos nello scrutinio dei voti, inefficienza, incompetenza e polemiche: era difficile immaginare una partenza peggiore per chi deve spodestare l’inquilino della Casa Bianca il 3 novembre. Il «caucus» nello Stato dell’Iowa – da sempre la tappa numero uno verso la nomination – è una metafora inquietante sullo stato del partito di opposizione. E la débacle organizzativa va di pari passo con la sconfitta di Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama, cioè il candidato che più di ogni altro viene identificato con l’establishment democratico. Solo 170’000 elettori (molti meno dei 240’000 del 2008, il primo anno di Barack Obama) si erano presentati nei luoghi pubblici – scuole, palestre, parrocchie, caserme dei pompieri – dove era previsto il confronto «assembleare», dibattiti dal vivo, quartiere per quartiere, al termine dei quali ci si conta. I dibattiti si erano svolti pacatamente, come da tradizione, dando prova di partecipazione e di senso civico. È l’organizzazione del partito democratico ad aver tradito i cittadini. I risultati, attesi verso le 22 locali, non erano completi neppure quattro giorni dopo. La spiegazione è più preoccupante: dilettantismo, incompetenza, improvvisazione. «Un disastro totale, proprio come quando governano i democratici», gongolava Trump. L’ultimo sondaggio lo dà al 49% dei consensi: sempre minoritario ma in crescita, e ai massimi degli ultimi tre anni. Dalla confusione dell’Iowa emergono altri due semi-vincitori. Il primo è Pete Buttigieg. Esulta questo protagonista di un exploit clamoroso: il più giovane di tutti i candidati (38 anni) già si vede come il nuovo Barack Obama, la rivelazione, l’outsider che può sconvolgere tutti i pronostici. Buttigieg è il candidato in crescita nell’ala moderata del partito. Non che sia «moderato» in senso classico, la sua agenda riformista per esempio è favorevole al Green New Deal. Non segue però l’anti-capitalismo di Sanders; né approva il progetto di sanità statale della Warren che ha un costo dichiarato di 20’000 miliardi
di dollari in un decennio. Buttigieg si vanta di essere «il più bravo a moltiplicare i numeri degli ex-repubblicani», conquistando una parte di coloro che votarono Trump. Da questo momento il dibattito sulla «eleggibilità» si sposta in suo favore. In fondo nessuno ha mai provato un entusiasmo folle per Biden, 77enne in evidente calo di energia. L’appeal di Biden era la convinzione – confermata dai sondaggi – che lui sia il più rassicurante per riportare all’ovile democratico frange di operai delusi; senza spaventare il ceto medio con le supertasse di Sanders e Warren. Buttigieg ora può argomentare di essere lui il centrista giusto: giovane, brillante, competente (parla sei lingue), ex ufficiale che ha servito in Afghanistan. Non tutti sono convinti che l’America sia «pronta» a eleggere presidente un gay dichiarato, sposato con un uomo (che appare sempre a fianco a lui nei comizi). Però, ribatte Buttigieg, «ricordatevi cosa dissero quando Obama osò dichiarare la sua candidatura nel 2007». Il limite vero di Pete è un altro. Buttigieg ha come unica esperienza un mandato di sindaco di una cittadina di centomila abitanti. Obama al suo debutto nel 2008 aveva dieci anni più di lui, e una legislatura al Senato di Washington. Bernie Sanders è l’altro vincitore dell’Iowa. Come nel 2016 ha un’ottima organizzazione territoriale, un esercito di giovani entusiasti, galvanizzati, iperattivi. Unico problema: molti di loro non voteranno nessun altro candidato che dovesse vincere le primarie. Martedì 4 febbraio, più che un discorso sullo Stato dell’Unione quello che Trump ha pronunciato davanti alle Camere riunite è stato l’avvio ufficiale della sua campagna per la rielezione. I temi su cui darà battaglia li ha espressi con chiarezza. Al primo posto c’è l’economia. Trump, esagerando i numeri e attribuendosi spesso meriti non suoi, si è appropriato la ripresa attuale. «Tre anni fa ho lanciato la rivincita dell’America, oggi il Paese prospera, è rinato, ho spazzato via la mentalità del declino». Si è attribuito un aggiustamento nei rapporti commerciali con la Cina e il Messico. Sono temi solidi, anche se con tante forzature. La crescita era cominciata fin dal secondo anno della presidenza Obama, e sugli undici anni di ripresa sette sono avvenuti sotto il suo predecessore. Ma il miglioramento del mercato del lavoro continua. Il nuovo trattato commerciale con Canada e Messico è stato approvato anche dai sindacati e dai parlamentari democratici. Salvo incidenti di percorso da qui al 3 novembre – e il coronavirus fa aleggiare nuovi rischi sull’economia globale – se si dovesse votare in queste condizioni l’economia lo aiuterebbe. L’attacco più diretto contro i suoi avversari democratici lo ha sferrato sulla sanità e sull’immigrazione. «Non permetterò – ha detto – che vi porti-
no via le vostre assicurazioni private». È un chiaro riferimento alle proposte di due candidati della sinistra, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, che vogliono creare un sistema sanitario nazionale all’europea, cioè unificato e statale. A suo tempo Barack Obama preferì una riforma sanitaria parziale – che Trump ha tentato di disfare senza riuscirci – proprio perché intuiva che l’abolizione delle assicurazioni private incontrerebbe resistenze diffuse. Sull’immigrazione, oltre a vantare la costruzione del Muro al confine col Messico (un centinaio di miglia), Trump ha attaccato le «città-santuario», quelle che proibiscono alle proprie polizie locali di collaborare con gli agenti federali nella lotta all’immigrazione clandestina. Il presidente ha citato casi come la città di New York e l’intero Stato della California, dove criminali recidivi senza permesso di soggiorno sono stati lasciati in libertà e hanno commesso nuovi reati. Ha reso omaggio a un ufficiale della polizia di frontiera di origine ispanica invitato in aula – Raul Ortiz – impegnato nella lotta ai narcotrafficanti. Anche qui il bersaglio del discorso era l’ala sinistra del partito democratico, che propone un referendum popolare per l’abolizione della polizia di frontiera. Terzo presidente ad essere incriminato in un procedimento d’impeachment in tutta la storia degli Stati Uniti, mercoledì 5 febbraio Trump è stato assolto dai due capi d’accusa nella votazione finale del Senato. Ha subito sì l’impeachment alla Camera, che funge da procura o pubblica accusa, ma non la condanna finale nell’altro ramo del Congresso che funge da tribunale giudicante; quindi Trump non viene destituito dal suo incarico. La votazione finale entra nella storia, Trump si affianca a Bill Clinton: pur diversissimo dallo scandalo sessuale di Monica Lewinski, il suo Kiev-gate si conclude come per Clinton nel 1998 con un «mezzo impeachment», incriminazione e poi assoluzione. Tutto come da copione, salvo un dettaglio scomodo per Trump. Il dettaglio fuori luogo si chiama Mitt Romney, senatore dello Utah, già candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 2012 quando sfidò Barack Obama (e perse). In un procedimento totalmente politicizzato (peraltro è la Costituzione stessa a prevedere l’impeachment come un processo squisitamente politico), le votazioni hanno seguito la demarcazione partitica. La disciplina è stata pressoché totale, alla Camera la maggioranza è democratica ed ha votato l’incriminazione; al Senato ha la maggioranza il partito del presidente che ha votato l’assoluzione. Salvo Romney. È l’unico senatore repubblicano ad aver avuto una crisi di coscienza. Almeno al 50%. Infatti ha scisso il suo voto in due. Si è schierato con i democratici votando l’impeachment del presidente «per abuso di potere».
AFP
Trump già in campagna
Pete Buttigieg e Bernie Sanders, dunque. Il giovane e il vecchio. Il moderato e il radicale. Il volontario in Afghanistan e l’antimilitarista filo sandinista. Il millennial gay, sposato con un uomo e amico della Silicon Valley e il simpatico burbero ebreo socialista di Brooklyn che piace alle star e detesta le corporation. Buttigieg è riformista, Sanders vuole tutto e subito. Ex sindaco l’uno, ex sindaco l’altro. La sfida delle primarie americane dopo l’Iowa non è ancora tra loro due, ma è da tempo tra due diverse visioni del mondo progressista. Non solo in America. Anche in Gran Bretagna, in Francia, in Italia. Ovunque. Progressisti moderati da una parte contro progressisti radicali dall’altra è la stessa identica partita che si gioca in tutto il mondo, proprio perché nessuno ha ancora trovato la formula politica del nostro tempo, dove non basta più ricordare che alle elezioni generali la sinistra vince solo se è moderata e immancabilmente perde se è radicale. Al momento è una contesa sentimentale, ancora più che ideologica: a chi affidarsi, in questi tempi impazziti di populismo e di demagogia, al riformatore innovatore o al caro socialista di una volta? La nuova stella della sinistra americana, Alexandria Ocasio-Cortez, ha detto che il Partito democratico non è di sinistra, ma di centro, anzi quasi conservatore. In fondo, la OcasioCortez, detta AOC, non ha tutti i torti, perché negli Stati Uniti né il socialismo reale né quello ideale hanno mai fatto davvero presa, se non in qualche ristretto circolo intellettuale di New York e in qualche comunità hippie dell’ovest, ma certamente non a livello di partito di governo. Non è un caso che i progressisti americani si chiamino tradizionalmente liberal, cioè liberali, e non comunisti o socialisti o rossi eccetera. Al «New York Magazine», qualche settimana fa, sempre la Ocasio-Cortez ha anche detto che trovava strano che lei e Joe Biden, il vicepresidente di Obama e tra i favoriti a sfidare Donald Trump alle presidenziali di novembre, si trovassero nello stesso partito, quando in qualsiasi altro posto del mondo sarebbero invece in due compagini diverse. Hillary Clinton ha detto più o meno la stessa cosa, ma dal fronte liberal e contro l’insorgenza socialista, arrivando a mettere in dubbio il sostegno al suo partito se per la sfida a Trump le primarie democratiche premiassero Bernie Sanders. Anche Hillary non ha torto, e non solo perché il radicalismo di Sanders è stata una delle numerose cause della sua sconfitta di tre anni e rotti mesi fa contro Trump, ma anche perché Sanders è l’unico senatore socialista al Congresso americano e fino
al 2015 non è stato nemmeno iscritto ai Democratici. Quando, qualche mese fa, Barack Obama se l’è presa con l’idea della purezza ideologica e del non fare mai compromessi, molto cara a una certa parte del mondo progressista, sostanzialmente ha confermato la grande divisione dentro la sinistra, o meglio tra i liberali e i socialisti dentro la sinistra americana, la stessa che oggi Clinton e Biden da una parte e Sanders e OcasioCortez (nella foto) dall’altra rappresentano molto bene. La grande differenza tra i due orientamenti, tra l’establishment liberal e gli insorgenti socialisti, è che i primi consentono e favoriscono la cosiddetta «grande tenda» sotto la quale accogliere tutte le anime progressiste, tanto da aver consentito a Sanders e a Ocasio-Cortez di candidarsi e di vincere, mentre i secondi esprimono il loro tradizionale tasso di massimalismo e tendono a escludere di poter avere rapporti politici con i moderati e i riformisti. È questo il senso delle parole di Alexandria Ocasio-Cortez, così come è stato questo l’atteggiamento di Sanders nel 2016 con il quale ha convinto molti dei suoi più giovani e più radicali elettori a non andare a votare per Hillary, salvo poi lamentarsi di essersi svegliati con Trump. La partita che si gioca nel Regno Unito non è molto diversa, ovviamente con le sue peculiarità locali, ma anche nell’isola britannica lo scontro in corso alle primarie del Labour è tra una candidata socialista e corbinista e, a questo punto, due o tre esponenti più moderati del partito. Con Corbyn, i laburisti hanno perso tre elezioni su tre in pochi anni, mentre solo il New Labour di Tony Blair è riuscito a interrompere una lunga sequenza di successi elettorali dei conservatori. Qualcosa vorrà dire, ma non più tutto. In Francia e in Italia non c’è il problema denunciato da Ocasio-Cortez, perché a Parigi e a Roma a chiunque è consentito fare il suo partitino, specialmente a sinistra della sinistra. In Francia i socialisti sono ormai inesistenti, la sinistra radicale è ininfluente, mentre il centrosinistra liberale sta all’Eliseo. In Italia la situazione è più frazionata: c’è il Partito democratico al governo, ma ci sono anche una mezza dozzina di partitini alla sua sinistra, senza contare le sardine e quelli che non si definiscono di sinistra ma che la sinistra-sinistra considera tali, i Cinque stelle, al punto da volerli inglobare in un’alleanza strategica. Alla destra del Pd, invece, ci sono Italia Viva di Matteo Renzi, Più Europa di Emma Bonino e Azione di Carlo Calenda, che marciano separati anche se cominciano a dialogare in nome di una specie di federazione del buonsenso. Il modello radicale inglese è perdente, quello americano della divisione tra liberal e socialisti non ha funzionato nel 2016 e non gode dei favori del pronostico in vista delle elezioni di novembre. Il modello francese della prevalenza dei liberali è al governo, anche se sotto pressione anche dei sindacati. Il modello italiano dell’alleanza tra antipopulisti e populisti da una parte e della scissione dei liberal-democratici dall’altra non sembra andare da nessuna parte, se non a sbattere contro un muro. Forse è arrivato il momento di darsi una calmata, di offrire soluzioni serie ai problemi del nostro tempo e di fermare i reazionari, i demagoghi e i populisti che, trovandosi di fronte concorrenti impegnati in battaglie intestine e ideologiche senza senso, trovano il terreno spianato. E, scusate lo spoiler, alla fine vincono.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Politica e Economia
Così ricco, così povero
Venezuela I dati recenti resi noti dal Fondo monetario internazionale mostrano che negli ultimi sei anni
è evaporato nel nulla il 65% della ricchezza di un Paese completamente in mano ai militari
Angela Nocioni Una ricchezza immensa, una delle più grandi d’America, si è volatizzata negli ultimi sei anni. Sono spaventosi i dati sul Venezuela diffusi dal Fondo monetario internazionale, attendibili perché sostenuti da analisi reali e dettagliate dell’economia del Paese. Un dato li riassume tutti: negli ultimi sei anni in Venezuela è evaporato nel nulla il 65% della ricchezza. Una cifra enorme in termini assoluti. Si tratta del Paese con le riserve di petrolio e di gas più ricche del mondo se si considera anche i giacimenti di petrolio sporco, o petrolio pesante, più costoso da utilizzare, ma utilizzato da molto tempo, per accaparrarsi il diritto di estrarre, per il quale, infatti, le grandi multinazionali del greggio hanno sempre fatto la fila, acconciandosi a sopportare di buon grado ore e ore di retorica di governo sulla Patria socialista, pur di riuscire a sedersi a trattare i contratti sulle royalties nei campi petroliferi durante la presidenza di Hugo Chavez, morto nel marzo del 2013. Per avere un’idea delle proporzioni della tragedia in corso, proviamo a confrontare la crisi venezuelana con quella greca considerando quanto ha perso Atene dal 2008 al 2013. In Grecia, economia europea ma piccola, senza materie prime, in un Paese che non galleggia su un mare di oro nero a differenza del Venezuela, si perse in quei sei anni un quarto del prodotto interno lordo. In Venezuela dal 2014 al 2019 sono andati bruciati addirittura i due terzi della ricchezza. Di una ricchezza enormemente superiore. Non ci sono precedenti di una perdita simile in un Paese non in guerra.
La manovra politica che ha portato alla ribalta Guaidó, autoproclamatosi in piazza presidente, è riuscita solo in parte Un dettaglio di solito trascurato, ma fondamentale per avere un’idea dell’immensità del disastro, riguarda la ricchezza del sottosuolo venezuelano al di là del petrolio e del gas. È una anomalia planetaria, il sottosuolo venezuelano. La sua disponibilità di minerali preziosi non ha paragoni possibili nel resto del pianeta. Nemmeno l’Amazzonia brasiliana è così ricca. In una fascia molto ampia del Venezuela sud orientale, il famoso Arco dell’Orinoco, c’è sottoterra una quantità e una varietà di materie preziose impossibili da trovare altrove. Minerali di ogni tipo. Basta scavare. Lì bivaccano attualmente vari gruppi criminali, molti dei quali legati a bande interne delle Forze armate venezuelane, che gestiscono il contrabbando del materiale
Nicolas Maduros, insieme a tutta la dirigenza del PSUV e alle Forze Armate, ricorda il tentativo di colpo di Stato fallito guidato da Hugo Chavez del 1992. (AFP)
estratto dalle miniere clandestine. Oro soprattutto. Nel frattempo l’esodo dei venezuelani – per fame o per totale assenza di prospettive – continua. Sono talmente tanti i venezuelani emigrati in Colombia che il loro apporto sta cambiando la geografia economica di alcune aree colombiane. A Buenos Aires si sente parlare sempre più spesso il castigliano d’America con la cadenza cantata tipica venezuelana. Ci sono alcuni quartieri di Città del Messico Distretto federale, la Condesa e Polanco innanzitutto, dove l’arrivo massiccio di borghesi venezuelani in fuga ha generato un nuovo mercato. E i più poveri tra i poveri a Caracas? Quelli che non possono nemmeno scappare? O quelli che economicamente potrebbero anche permettersi di emigrare, ma per le variabili individuali di cui è fatta la vita concreta delle persone in carne ed ossa decidono per diverse ragioni di non farlo? Vivono alla giornata in un ambiente surreale, investono giornate intere alla ricerca di prodotti scomparsi dai supermercati. Fanno carte false per procurarsi dollari. E se si ammalano, sono spacciati. Perché in Venezuela spesso non si trovano gli antibiotici. Gli ospedali sono senza garze, senza siringhe, hanno black out continui con conseguenze immaginabili sulle urgenze. Non è possibile vivere pagando in moneta nazionale in Venezue-
la. I beni anche di prima necessità si possono comprare solo al mercato nero, dove la divisa di riferimento sono sempre e solo i dollari. Le retate della polizia speciale in quei quartieri popolari dove ci sono state sommosse, la gente che sparisce, i piani anti-insurrezione affidati all’intelligence cubana sono davvero in corso. Il capitale privato è fuggito da tempo oltre confine. Sono svanite le riserve di valuta, ma non è vero che sono finite perché è crollato il prezzo del petrolio. Il Venezuela ha finito le sue riserve prima, molto prima, che crollasse il prezzo del petrolio. Perché i soldi sono stati rubati tutti e portati all’estero. Il Venezuela è completamente in mano ai militari. Loro controllano quel che rimane dell’apparato produttivo, a cominciare dall’industria pubblica del petrolio, Pdvsa. Loro si occupano della distribuzione di quel che resta dei prodotti di consumo. Sono quasi tutti occupati da militari i posti di comando politico, compresi i vertici dei governi degli Stati più importanti. La casta militare ha vuotato le casse statali, ipotecato le future estrazioni di petrolio per garantirsi iniezioni di denaro fresco dalla Cina. Tutto ciò che produce entrate in dollari in Venezuela è in mano a generali. Una delle maggiori fonti di profitti illeciti sta nel sovrapprezzo che molti di loro incassano gestendo in totale opacità gli approvvigionamenti statali. Fan-
no pagare il doppio o il triplo del reale prezzo e si intascano la differenza. Il potere di comandare sull’esercito è ancora in mano al governo chavista. In realtà sono alcuni alti gradi delle forze armate che hanno il potere di governare il governo, nel senso che tengono in ostaggio il presidente Nicolas Maduro, solo virtualmente loro capo. Il clima di propaganda interna e il disinteresse verso le reazioni internazionali sono tali che lo scorso 4 febbraio il regime non ha avuto esitazioni a far bloccare a Panama, da personale della Copa airlines, l’aerolinea panamense, l’intera delegazione della Commissione interamericana dei diritti umani che sarebbe dovuta arrivare a Caracas per una visita a ospedali e carceri. «Non entrate in aereo perché non siete autorizzati dal governo venezuelano a metter piede a Caracas» è stato detto loro. La manovra politica e diplomatica che l’anno scorso ha portato con un colpo di teatro sulla ribalta internazionale il giovane oppositore Juan Guaidó, autoproclamatosi in piazza presidente ad interim contro Maduro, è riuscita solo in parte. Il regime ha saputo intelligentemente resistere, ha saputo sfruttare tutte le rivalità interne e le incapacità strutturali dell’opposizione venezuelana. E Maduro non è caduto. È ancora lì. Mentre ogni giorno che passa indebolisce la posizione di Guaidò che appare sempre di più come quello che, fin dall’inizio, è sempre stato: una pedina dei falchi repubblicani statuni-
tensi di stanza a Miami che tentano di disarcionare Maduro, e con lui il regime cubano che lo guida, senza peraltro riuscirci. Nel litigio tra le varie anime dell’opposizione venezuelana che dura da vent’anni, una parte, quella che ha costruito il personaggio di Juan Guaidó e l’ha portato in strada il 23 gennaio a giurare fedeltà alla Costituzione con la mano su cuore, ha vinto sulle altre, contrarie alla autoproclamazione. Con quella mossa a sorpresa questo gruppo dell’opposizione, che fa capo a Leopoldo López, capo dell’antichavismo radicale, ha spiazzato la concorrenza. Questa fazione dell’opposizione, che è quella più a destra, s’è data da fare negli ultimi mesi. Ha saputo approfittare del cambiamento di clima politico in America latina e dell’esistenza dell’amministrazione Trump. Ha messo a frutto i rapporti che ha sempre avuto con i repubblicani della Florida e con il mondo politico che ruota attorno all’ex presidente colombiano Uribe. Gli abitanti delle baraccopoli che dominano Caracas dalle pendici delle montagne tutt’intorno, protagonisti insieme ai bassi gradi dell’esercito di tutte le insurrezioni di cui è fitta la storia del Venezuela, sono in gran parte diffidenti di quest’opposizione perché ne temono le radici politiche. Sospettano sia nelle mani di quelli che gli hanno sempre fatto sparare addosso. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Largo alle donne Con una votazione avvenuta nel giugno del 2019, il Consiglio degli Stati ha introdotto una quota indicativa del 30%, per i due sessi, nei consigli di amministrazione delle grandi aziende svizzere. Si tratta di un compromesso tra i due rami del parlamento che ha chiuso la lunga discussione sulle quote femminili nei consigli di amministrazione. Naturalmente la quota concerne soprattutto le donne che, per il momento, con il 21%, sono sottorappresentate. Vedremo ora come nella pratica delle assemblee generali si darà seguito a queste raccomandazioni. Intanto, naturalmente, le discussioni continuano. Ricordiamo che l’introduzione di una quota per le donne nei consigli di amministrazione e nei livelli di direzione delle aziende viene auspicata da molti anni invocando il
principio dell’eguaglianza dei sessi che, in Svizzera, è addirittura iscritto nella Costituzione federale. Il fatto che nella grande maggioranza dei consigli di amministrazione (per non parlare delle direzioni) delle nostre aziende le donne siano ancora rare viene oggi considerato come una discriminazione che deve cessare. A mio avviso nessuno si era finora domandato quale potrebbe essere l’influenza della presenza più numerosa delle donne nei consigli di amministrazione sui risultati economici e finanziari delle aziende. Ora anche questo aspetto è stato studiato. Di recente, infatti, la «Neue Zürcher Zeitung» ha dato notizia di una tesi di dottorato, presentata all’università di San Gallo nel 2016 da Christian Rioult, nella quale viene valutato il
possibile influsso della quota femminile nei consigli di amministrazione sui risultati aziendali. Attingendo alle informazioni provenienti da numerose ricerche empiriche, realizzate nel corso degli ultimi anni, l’autore di questa tesi dimostra che i risultati delle aziende nelle quali la quota di donne nelle sfere direttive è elevata sono migliori di quelli delle aziende guidate quasi esclusivamente da uomini. A conferma di questa tesi, il giornale zurighese ha pubblicato anche un grafico della sezione di ricerche del Credito svizzero che illustra l’evoluzione delle prestazioni delle aziende, nel corso del periodo 2010-2019, a seconda del livello della quota di donne negli organi di direzione, distinguendo tra quattro soglie: 15%, 25%, 33% 50%. Dall’evoluzione delle curve di questo grafico si
constata che, anche su un periodo di tempo relativamente corto, l’influenza della quota femminile è significativa. In effetti, maggiore è la quota di donne negli organi direttivi e migliore è stata la prestazione aziendale durante il periodo di tempo analizzato. Stando all’articolo della NZZ, che le questioni di gender non siano senza effetto sulle prestazioni economico-finanziarie delle aziende lo si deduce anche dal fatto che stanno nascendo sempre più fondi di investimento che concentrano le loro operazioni sulle aziende con quote femminili elevate nei consessi direttivi e nei consigli di amministrazione. Il messaggio che si deriva da queste informazioni è che per tutte le aziende sarebbe vantaggioso aumentare la presenza femminile negli organi direttivi.
Largo alle donne, quindi? Non vi è dubbio alcuno che il rispetto del principio di uguaglianza imponga di aumentare gli effettivi femminili nei consigli di amministrazione e nelle direzioni delle nostre aziende. Che questa misura, come dimostrano le informazioni riportate in questo articolo, sia poi tale da migliorare i risultati aziendali resta naturalmente da dimostrare. Comunque, da osservatori obiettivi di quanto sta succedendo nel microcosmo delle nostre aziende, prendiamo volentieri nota degli esempi che dimostrano che sembra esistere una correlazione positiva tra percentuale di donne con responsabilità direttive e livello elevato dei risultati aziendali. Penso che se, in generale, fosse così nessun azionista avrebbe qualcosa da ridire.
risolto i suoi problemi e quelli della nazione mi getta tuttora nello sconcerto. Ma nel frattempo era già scoppiato un altro amore: quello per Matteo Salvini, che alle europee del maggio 2019 ha superato il 34 per cento. Da allora, però, ha commesso almeno due errori gravi: il Papeete e il citofono; il tentativo estivo di portare l’Italia alle urne anticipate – finendo per far nascere il governo giallorosso detto anche Conte bis –, e il tentativo invernale di dare la spallata al centrosinistra in Emilia Romagna, anch’esso fallito perché il superomismo salviniano ha finito per mobilitare l’elettorato di centrosinistra. Molti emiliani e molti romagnoli stanchi, disillusi, un tempo tentati dai Cinque Stelle e ora dall’astensionismo, sono andati a votare anche per dire no a un Salvini estremista ed eccessivo. Così ora si parla parecchio di Giorgia Meloni. E ovviamente di questo nuovo movimento nato proprio durante la tempestosa campagna elettorale combattuta tra le nebbie di Piacenza e il mare di Rimini. Onestamente credo che il peso delle Sardine nella vicenda politica italia-
na sia un po’ sopravvalutato. Ero a Bologna la sera di novembre in cui per la prima volta quattro ragazzi in gamba – ma del tutto privi di preparazione politica, limite che nell’Italia di oggi è ormai considerato un vantaggio – convocarono gli emiliani in piazza. Secondo una tradizione (inventata, come molte tradizioni), sul «crescentone» di piazza Maggiore, vale a dire sullo zoccolo che ai bolognesi ricorda la loro focaccia alta e soffice, ci stanno seimila persone pigiate appunto come sardine. La sfida fu ampiamente vinta: fu riempito il crescentone e pure la piazza. Si trattava di bolognesi che mal sopportavano il carattere personalistico e fin troppo acceso che Salvini aveva impresso alla campagna per le regionali. Più che la tradizione rossa o l’amore per il Pd, è stata l’avversità alla Lega a rinfocolare giovani e vecchi che magari non si erano ancora avvicinati alla politica o se ne erano allontanati. Se fosse stato Zingaretti o lo stesso Bonaccini a chiamarli in piazza, probabilmente non avrebbero risposto. A mobilitarli è stato appunto Salvini. Se le Sardine dovessero presentarsi a un’elezione,
pescherebbero voti dal bacino ampio ma non sterminato del centrosinistra. In termini pratici, non cambierebbe molto. Avere dietro le spalle un movimento fresco e non contaminato da vecchi apparati è sempre un vantaggio. Però il vento che spazza il Paese non spira certo a sinistra. Qualcuno ha tentato un paragone con i Cinque Stelle. I quali però nascevano dal rancore verso le vecchie classi dirigenti e dalla frustrazione di un Paese che cresce poco e male da vent’anni. Com’era facilmente prevedibile, Grillo – per quanto uomo di genio e di talento – non era la soluzione; men che meno Casaleggio junior. Ora gli italiani cominciano a capirlo. Le Sardine hanno un altro linguaggio, si muovono in una logica opposta: meno insulti, meno social; più riflessione, più gentilezza. Ma si tratta di uno stato d’animo, più che di un programma. Di un metodo, più che di un obiettivo. Un metodo che dovrebbe essere adottato un po’ da tutti i partiti. Se si facessero partito loro stesse, le Sardine rischierebbero di finire sotto sale, e di venire divorate dal sistema.
Longoni) poi confermata ed eccentricamente affinata nelle innumerevoli successive carte disperse. A far nascere l’idea di parlare di questo libro è stata la scoperta che Flaiano continua a dirci qualcosa di stretta attualità. All’inizio me lo suggeriva un collegamento «cantonticinese», segnatamente con la crisi di appartenenza politica e di fedeltà identitaria ai partiti. In breve: alcuni scritti sono stati pubblicati su una rivista semi clandestina creata nella primavera del 1944 da Mario Pannunzio che aveva come titolo «Risorgimento liberale». Proprio questa intestazione deve avermi portato a pensare a quanto sarebbe utile una rivista come quella di Pannunzio per sostenere un risorgimento del liberalesimo ticinese, sempre più provato «dal molto traffico sulla via di Damasco» e dai «troppi Saul che si disarcionano al minimo scarto dei loro cavalli». La spinta aumentò scoprendo collegamenti anche con i più assordanti momenti della politica della vicina
Repubblica. Definirli «momenti» è inadeguato, visto che è da più di un decennio che l’Italia è costretta a subire continui sottosopra, con partiti e coalizioni populiste impegnate non a risolvere problemi e lacerazioni che si accumulano, ma soltanto a muoversi contro qualcuno o contro qualcosa. Abbinando il caos permanente del panorama sociopolitico italiano con il fatto che ormai pochissimi intellettuali riescono a tenere viva sui media una fiammella critica, l’attualità del Flaiano «che ferisce per risanare» mi è subito apparsa degna di essere riproposta. In particolare una serie di scritti pubblicati nella rubrica «Carta bianca», in cui lo stile pungente dello scrittore si sofferma su cronache minute, quasi banali rispetto a quanto sta avvenendo nell’Italia divisa (il nord con i nazisti in rotta e Mussolini avviato verso il tragico declino, il sud con gli Alleati che iniziavano la riconquista). Seguendo questa maestria nel mettere in luce «fatterelli», ci si tuffa
in brevi e a volte trascurabili cronache sulla gente e sulla vita quotidiana che spesso e improvvisamente diventano acutissime frecce in grado di vivisezionare anche le svolte sociali, morali e politiche del paese. Una prova della sua capacità di suggerire al lettore proiezioni (utili anche dopo tanti decenni) la fornisce in questo pezzo breve: «“Il fascismo è morto per sempre” dichiara signor Z alla moglie. “Però se fossi al governo farei attenzione lo stesso... Così, a occhio e croce mi sembra che la rivoluzione fascista sia stata rinviata a causa del cattivo tempo”. Poi ci ripensa e aggiunge: “Vedi, cara, il fascismo è il diabete di molti italiani, è una malattia del ricambio...”». Ecco quel che Flaiano torna a dirci dell’attualità con la sua straordinaria forza dell’ironia, la stessa con cui alcune pagine dopo tocca il capolavoro quando, in poche righe, traccia un perfetto riepilogo della parabola del Duce semplicemente elencando i cappelli da lui indossati durante il ventennio.
In&outlet di Aldo Cazzullo Il peso delle sardine il 40 per cento alle europee 2014 ma scese sotto il 20 alle politiche 2018. Nel frattempo erano apparsi i Cinque Stelle, che alle suddette politiche sono arrivati all’incredibile quota del 33 per cento; e il pensiero che un italiano su tre credesse davvero che Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio avrebbero
AFP
Il quadro politico e la situazione del Paese sono talmente miserevoli, che periodicamente gli italiani si persuadono di aver trovato i salvatori della patria. Nel 2002 i girotondi riempirono le piazze; ma si era allo zenit dell’era berlusconiana. Poi ci fu l’innamoramento per Matteo Renzi, che superò
Zig-Zag di Ovidio Biffi Quel che Flaiano torna a dirci Mia moglie un giorno dello scorso dicembre mi ha chiesto quale libro avrei gradito come regalo di Natale. Avuta una risposta evasiva, spinta forse dalla speranza di riuscire a distogliermi, almeno durante le festività, dagli schermi del Mac e dell’iPad, diventa più precisa: «Ho visto che è uscito un nuovo libro di Flaiano, quello non ti piacerebbe?». Provo a svicolare con una scusa abbastanza banale: «Non lo so... Ho paura che sia una raccolta di suoi lavori che posso trovare nei vari libri di Flaiano che ho già». La storia prosegue prima in una libreria in centro a Lugano, si interrompe un po’ dopo aver appreso che non hanno più il libro e devono ordinarlo, infine si conclude con l’arrivo e l’acquisto del nuovo L’occhiale indiscreto, titolo che riprende quello di una rubrica tenuta da Flaiano su «Il Secolo XX» dall’ottobre 1945. Bastano uno sguardo e un nome a fugare i miei timori: curatrice della raccolta è sempre Anna Longoni, quindi ho garanzia di testi inediti o
quantomeno difficili da reperire in edizioni recenti. Non è mia intenzione lanciarmi in una recensione di questo nuovo Adelphi. Anzitutto perché ritengo difficile far meglio di quanto propone la curatrice Longoni che con una postfazione chiude la raccolta. Una certezza che trova conferma in questi suoi giudizi sul giovane Flaiano: «La voce è quella di chi è spinto alla satira dall’indignazione (…) a trattare i vizi minori per alludere ai vizi maggiori (…) racconta il recente passato e osserva, tra speranze e delusioni, il confuso presente». Ad Anna Longoni tre pennellate bastano per raffigurare lo scrittore pescarese e io credo di poter aggiungere solo un’impressione personale: sin dai primi articoli, scritti per la rivista «Documento» in pieno regime fascista, quindi in tempi assai difficili per stampa e scrittori non genuflessi, si incontra un Flaiano già perfetto anche nel padroneggiare la verve satirica (che però «ferisce per risanare», precisa ancora la
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Cultura e Spettacoli Popoli perduti Un tributo alle popolazioni native americane grazie alle foto di Curtis, in mostra a Zurigo
Il Ticino è anche un set Da James Bond a Villi Hermann: sono molti – e spesso insospettabili – i film in cui il nostro Cantone ha fatto da scenografia
L’incredibile teatro di Punzo Un viaggio all’interno della Compagnia della Fortezza, dove i detenuti diventano attori
In ricordo di Steiner Se ne è andato il grande intellettuale e pensatore francese George Steiner pagina 38
Nature morte fiabesche
Correva il tenebroso anno 1246
dedicata a Filippo de Pisis
Narrativa Un antico
Mostre/2 Fino al 1. marzo il Museo del Novecento di Milano ospita una mostra
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Giovanni Gavazzeni
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Olafur Eliasson Escaped Light Landscape, 2020. (Photo: Alcuin Stevenson / Studio Olafur Eliasson Courtesy of the artist; ugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2020 Olafur Eliasson)
«Io osservo con un’attenzione, v’è chi direbbe patologica, e raccolgo di tanto in tanto con gusto questi caratteri locali indefinibili come chi venisse nuovo alla città, come un esploratore del basso Congo di passaggio per la “città dei Duchi”». Luigi Filippo Tibertelli (18961956), in arte Filippo De Pisis, passeggiando per le vie della sua città natale (Ferrara) racconta all’amico-scrittore Giovanni Comisso quella curiosità bramosa che non lo abbandonò mai, nelle città dove visse (Roma, Parigi, Milano), come fra le valli del Cadore o a Cervia, «di osservare certi caratteri, segnati con linee profonde e come dolorose, certe espressioni, quasi di maschere medianiche in plastilina, negli uomini che incontro». Occhio che lo porterà a fissare le epifanie della bellezza come i «caratteri» nella felice immediatezza dei suoi ritratti. A Ferrara si definisce la vocazione di De Pisis, quando nel 1916 giungono soldati Giorgio e Alberto De Chirico. I Dioscuri «mi deridono», scrive al padre nobile Ardengo Soffici, «quando sono alle prese con un codice del XV° e curano di rinnovarmi e mi àn già fatto del bene». Alle conversazioni riportate nella raffinata e notevole prosa d’arte del pittore, si aggiungerà un altro coscritto eccellente, Carlo Carrà. I suoi numi tutelari, Soffici «Papini, Apollinaire, Picasso», vengono evocati «in ispirito come Dio nelle caverne dei Santi Padri». Sa-
Filippo de Pisis, I pesci sacri, 1925, Milano, Pinacoteca di Brera. (© Filippo de Pisis by SIAE 2019)
ranno sempre i fratelli De Chirico ad accompagnare De Pisis nel decisivo e lungo soggiorno a Parigi, a partire dal 1925. Alberto (Savinio) lo porta al Cabaret Voltaire, dove entra in contatto con Tristan Tzara. Il Marchesino pittore (dal titolo di una sua prosa autobiografica) frequenta Braque, Picasso, Matisse, Joyce, Svevo, Cocteau ed espone con grande risposta alla Galerie Carmine in Rue de la Seine.
Qui nascono quelle nature morte che lasciano ammirato lo spettatore della retrospettiva che Milano, città in cui visse a riprese in simbiosi con artisti e scrittori, ha dedicato all’artista ferrarese, per la curatela di Pier Giovanni Castagnoli. «Nature morte» in mirabile equilibrio fra sospensione e antinaturalismo, infiammate da tocchi di materia viva, oppure fermate fra i simboli del «quadro nel quadro»: «un
gioco di rimandi e rispecchiamenti», precisa Castagnoli, «in cui l’arte» si professa «cosa mentale e la pittura finzione che si nutre di sé stessa e si rinnova». Conchiglie, fari, pesci assumono grandezze smisurate. «Ogni oggetto ordinario diminuisce la vastità del mare, riduce l’enorme quantità delle acque a questo rivo orlato di bava, a questo nastro di raso che solo per un’ultima e compiacente fedeltà narrativa rimane orizzontale; ci si aspetterebbe a volte di vederlo agitato in curve eleganti e sinuose come gli schemi ritmici segnati dai nastri volanti del Perugino». È Cesare Brandi che fissa il perenne meraviglioso pittorico di De Pisis; un po’ «geroglifico naturale», un po’ «offerta pagana». Uno spazio-tempo dove gli uomini sono «più piccoli dei vermi, più inafferrabili degli insetti». Il carattere fiabesco delle nature morte di De Pisis dipende «dalla forma improvvisamente rivelata, a noi che pure credevamo di conoscerla così bene, di una conchiglia marina. Misteriosa vita della terra. Misteriosa vita del mare che si presenta in forme così chiare e intelligibili eppure ermetiche». Dove e quando
mistero nel romanzo di Giovanni Casella Simona Sala È anzitutto un viaggio nel tempo, questa prova letteraria di Giovanni Casella Piazza. Già dopo poche pagine, Certamen 1246 ci risucchia in un mondo familiare per condivisione topografica, ma estraneo e lontano strutturalmente e per contenuti. Siamo a Como, ed è il 1268. Le rive del lago e qualche vicolo sono sicuramente somiglianti a quelli che conosciamo noi, ma la vita, quella è un’altra cosa. D’estate la zona è infestata dalle zanzare, e le vie di comunicazione sono precarie, basta una pioggia prolungata per creare scoscendimenti e strade bloccate. Nelle bettole, luoghi bui, forse pericolosi o addirittura promiscui, si discute, si mangia e si beve. Oppure, quando di mezzo ci sono gli affari, si litiga, come fanno i tessitori che lavorano nelle officine lungo il fiume (riconoscibili per i pannilani grezzi appesi ad asciugare) che, seduti gomito a gomito ai lunghi tavoli, bisticciano con i mercanti milanesi. L’ambientazione di questo romanzo, denso nei dialoghi e nelle informa-
De Pisis, Milano, Museo del Novecento. Orari: lu 14.30-19.30; ma-meve-do 9.30-19.30; gio e sa: 9.30-22.30; fino al 1. marzo 2020. La mostra si sposterà al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.
Curtis, l’uomo che cacciava le ombre
Noi siamo Gaia
Mostre/3 A Zurigo un’esposizione celebra il trasporto con cui Edward S. Curtis si dedicò
alle popolazioni native americane
Mostre/1 Olafur Eliasson al Kunsthaus di Zurigo Gianluigi Bellei Abbiamo scritto su queste colonne di Olafur Eliasson nel 2010 in occasione di una sua mostra al Martin-GropiusBau di Berlino intitolata Innen Stadt Außen (dentro la città e fuori). Lo abbiamo definito un artista visionario e fantastico, un mago della luce. Fino al 22 marzo presenta una nuova installazione al Kunsthaus di Zurigo. Quindi vicino a noi. Bisogna andare per forza. Anche perché Eliasson è uno dei più importanti e interessanti artisti contemporanei. Non lo dico io, che sarebbe risibile, ma le voci maggiormente autorevoli dell’arte. Se ancora non lo conoscete, prima di partire, potete leggere An Encyclopedia. Studio Olafur Eliasson, edizioni Taschen, del 2012; non proprio aggiornato, quindi, ma utilissimo. Da qui ho rapinato alcune suggestioni scritte da Philip Ursprung. Appena arrivati al Kunsthaus dovete acquistare, ho scritto dovete, un esemplare di Little Sun. Una splendida lampada a energia solare creata da Eliasson nel 2012 da distribuire nei paesi che non hanno accesso all’energia elettrica (per maggiori informazioni: littlesun.com). Personalmente ne ho comprate qualche anno fa una decina da regalare.
La prima cosa da sapere è che Eliasson, come tutti i grandi artisti, non lavora da solo. Se pensate che Tiziano, Michelangelo, Rubens e compagnia bella abbiano realizzato da soli tutti i loro innumerevoli dipinti vi sbagliate. Al loro servizio lavoravano decine di persone. Ognuna di esse con uno specifico compito: preparare i pennelli, pulirli, macinare i pigmenti, mesticarli, emulsionarli, bucherellare i disegni, farne lo spolvero, preparare le tavole con il gesso, dipingere gli sfondi, i mantelli. Insomma, fare la maggior parte del lavoro. D’altronde essere a bottega da un artista rinomato era una garanzia per il futuro. Nel Rinascimento il tirocinio iniziava con l’apprendistato per poi trasformarsi da tirocinante ad aiuto. Ma non tutti gli aiuti erano allievi. Arnold Hauser scriveva nella Storia sociale dell’arte che alcuni padroni di queste botteghe «sono impresari più che artisti e di solito assumono le ordinazioni per poi farle eseguire da un pittore adatto». Un miscuglio stilistico che rende difficile autografare una singola opera. Nelle botteghe degli artisti non uscivano solo quadri ma anche stemmi, bandiere, decorazioni per le feste, insegne… Insomma, c’era uno spirito collettivo e gerarchico tipico delle corporazioni. Gli
atelier sono sopravvissuti sino al termine dell’Ancien Régime. Poi una nuova ondata. Pensate alla fine del XIX secolo a quelli di Hans Makart o Wilhelm Lenbach a Monaco. Ritrattisti dell’alta borghesia che si definivano principi dei pittori e vivevano in ville lussuose. Nella società industrializzata basata sulla suddivisione del lavoro questi atelier rappresentavano un modello alternativo e compiuto di produzione. Negli anni Sessanta del secolo scorso Andy Warhol nella sua Factory crea una commistione fra privato e professionale. Lo studio di Eliasson è uno dei più grandi di questi decenni. Qui si lavora soltanto e non si fanno feste o ci si dorme. Vi operano una trentina di persone fra architetti, designer, ricercatori e operatori multimediali. Per la realizzazione del Weather Project nel 2003 alla Tate Modern di Londra, opera che rende Eliasson famoso in tutto il mondo, gli specialisti del museo hanno dovuto dare forfait, e l’artista ha dovuto costruirla per intero nel suo atelier in modo che alla Tate potesse essere unicamente montata. Tre, grosso modo, gli interessi in cui si suddivide il suo lavoro: la luce, la geometria e la natura. A Zurigo si possono vedere tutti. Da Escaped Light Landscape, con una sequenza di giochi di
Gian Franco Ragno
luce che si intersecano fra loro mutando colore e aspetto, a Weather Orb, quattro poliedri con un nucleo a forma di icosaedro e lo strato esterno composto da ottagoni, esagoni e quadrati. Alcune facce dei poliedri sono coperti da pannelli di plastica che interagiscono per produrre del colore che cambia con il movimento degli spettatori. Il più stupefacente è ovviamente Symbiotic Seeing creato appositamente per il museo e situato in una grande sala al centro del percorso. Qui una serie di laser nella stanza buia proiettano fasci di luce. In alto vortici colorati cambiano continuamente a seconda dello spostamento dei visitatori e del loro calore corporeo. Si può ammirare sdraiati o seduti per terra, immersi in una rada nebbiolina profumata. Insomma, il mondo circostante muta anche in rapporto alle nostre azioni e di questo dobbiamo essere consapevoli. Anche perché Eliasson sostiene che il nostro corpo contiene per esempio batteri e funghi come altre specie, animali o meno, e che la somma di tutto questo è il nostro mondo. L’artista è intrigato da personaggi come Donna Haraway, teorica del postumanesimo, e dal filosofo Timothy Morton. Ambedue chiedono una giustizia ambientale multispecie che tenga conto degli interessi degli umani e dei non umani.
Senza addentrarci in problematiche complesse come quelle relative all’ecologia – oggi ne parlano «tutti», con la voglia legittima di salvare il pianeta, come qualche anno fa «tutti» volevano la pace nel mondo – ci limitiamo unicamente a qualche suggerimento per un ulteriore approfondimento personale. D’altronde l’arte non cerca di dare risposte ma solo di porre delle domande. Ed Eliasson cita Lynn Margulis con la sua teoria endosimbiotica e l’«Ipotesi Gaia» secondo cui «la terra con tutto l’insieme dei suoi ecosistemi abbia le proprietà di un superorganismo e che, in quanto tale, sia capace di interagire e di regolare lo stato dell’atmosfera e del clima». Concludiamo proponendo le parole di Timothy Morton il quale, in un testo del 2010 riprodotto in catalogo, si chiede «se gli animali possano apprezzare l’arte». E la calotta polare?, aggiungiamo noi. Dove e quando
Olafur Eliasson: Symbiotic Seeing. A cura di Mirjam Varadinis. Kunsthaus, Zurigo. Fino al 22 marzo. Catalogo edizioni Snoeck-Verlag, fr. 39.–. eliasson.kunsthaus.ch
Quando si vedono riprodotte immagini degli Indiani d’America – nelle edicole e nei poster, nei libri o sul web – riportate più o meno fedelmente rispetto alla qualità originaria, o così ci parrebbe di intuire, molto probabilmente stiamo guardando, senza saperlo, un’immagine scattata ad inizio Novecento da Edward Sheriff Curtis (1868-1952). Fotografo a suo tempo di grande successo commerciale, Curtis lasciò la sua carriera ben avviata per inseguire un sogno: voleva realizzare un ideale affresco collettivo (con testi, registrazioni e un ricco apparecchio iconografico) delle popolazioni originarie dell’America del Nord. Una popolazione stremata, sconfitta e isolata a seguito dalla conquista del West, e che, nella sua enorme eterogeneità, andava dalle regioni vicine all’attuale Messico (ad esempio, gli Hopi nel sud-est) a quelle più a Nord, (Kwakiult, oggi Stato di Washington), fino in Alaska. Egli intuiva, alla stregua di molti altri, come queste popolazioni stavano scomparendo insieme alla loro cultura: si conta che prima della conquista europea la popolazione indigena arrivasse a un milione di individui, ma che nelle riserve ne erano rimaste poche decine di migliaia. Si trattò, come è facile intuire, di un disegno fin troppo ambizioso: un lavoro monumentale in un territorio
Tsawatenok Girl, Edward S. Curtis, photogravure, 1914. (McCormick Library of Special Collections, Northwestern University Libraries)
sterminato, un compito che andò subito a delinearsi come spaventosamente arduo e dispendioso. Bisognava infatti individuare i gruppi, fotografarli, studiarne le tradizioni e la lingua, i miti e il modo di vivere e, sul piano fotografico, inscenare dei ritratti singoli e collettivi per infine, cosa più difficile, trovare i finanziamenti e il sostegno per la pubblicazione. L’impresa approdò con mille difficoltà alla conclusione dopo un quarto di secolo. La pubblicazione prese il
titolo di The North American Indian, e possiamo considerarla come una sorta di enciclopedia a volumi pubblicata a tappe dal 1907 al 1930. L’edizione era rilegata e curata nel minimo dettaglio, nell’insieme contava venti volumi, più di 4000 pagine e 1500 photogravure. Alla base del lavoro molto materiale rimase inedito; si ipotizza che le registrazioni di canti e racconti, su cilindri di cera, fossero più di 10’000, e che il totale delle immagini degli ottanta gruppi indagati superasse i 40’000 scatti. L’esposizione zurighese al Museo NONAM (North American Native Museum, ora vicino alla stazione di Tiefenbrunnen), in estrema sintesi, ripercorre il mito con approccio didattico e divulgativo, cerca anche di puntare il dito verso certe contraddizioni dell’autore, che però non fu un antropologo, semmai uno straordinario raccoglitore di informazioni. Si mostrano le tappe, si presentano le registrazioni sonore, i film propagandistici e pubblicitari che montò per divulgare l’impresa e trovare sottoscrizioni per l’acquisto. Ma superate le sale con una finalità più pedagogiche, il momento più suggestivo rimane senza dubbio quello in cui ci confrontiamo direttamente con le sue photogravure – un procedimento artistico dai toni caldi del color seppia che si basa su negativo fotografico – ideate per la pubblicazione. Esse si presentano come immagini di una cura insuperata, perfettamen-
te bilanciate ed esteticamente superbe – studiate ed elaborate, con i mezzi dell’epoca, nel minimo dettaglio. Risvegliano un senso di magia ancestrale, rivelano un equilibrio tra uomo e natura, riportano in vita ciò che il tempo non solo ha cancellato, ma anche distrutto e calpestato. È questa la restituzione, in forma artistica, di un mondo scomparso – magari edulcorato, come ripetuto a più riprese nel percorso espositivo – ma con un’adesione estetica al soggetto che diventa essa stessa una forma di rispetto. Si potrebbe dire che Curtis restituì, seppur in minima parte, attraverso la sua arte fotografica, ciò che i nativi si videro portar via sul piano materiale. Si spense povero e in solitudine, abbandonato da parte della famiglia, Curtis – colui che veniva chiamato dai nativi «l’uomo che cacciava le ombre» oppure «l’uomo che non giocava mai» – a Los Angeles nel 1952, ma, ci piace pensare, consapevole di aver dato un contributo straordinario alla storia delle popolazioni native del mondo. Dove e quando
Edward S. Curtis. The North American Indian. A Photographer’s Legend. Zurigo (Seefeldstr. 317) NONAM. North American Native Museum, Zurigo. Orari: ma-sa 13.00-17.00; do 10.00-17.00. Fino al 1. marzo 2020. www.nonam.ch
zioni, e fedele alla lingua dell’epoca (grazie ai numerosi dettagli, pressoché a ogni pagina, si riconosce in filigrana la minuziosa ricerca storica di Casella), fa da ricco sfondo a una vicenda intricata, in cui non manca il mistero. La storia narrata è più complessa di quel che sembra: il notaio Aielli giunge insieme allo studente di legge Zirìolo a Como per incontrare l’abate Ariberto. Zirìolo, su ordine del patriarca di Aquileia, si ferma al monastero, dove scopre importanti fatti riguardanti una contesa avvenuta anni prima tra il soglio pontificio romano e Federico II di Svevia. Avvengono però a questo punto delle scomparse inspiegabili – dapprima di due monaci, e poi dello stesso Zirìolo – che costringeranno il notaio Aielli ad attivarsi, portandolo in ultima istanza a confrontarsi con un inatteso aspetto dell’abate Ariberto. Mistero, suspense e segreti politico/ecclesiastici non sono una novità per Giovanni Casella Piazza, che è stato anche produttore e cosceneggiatore del lungometraggio Oltre la nebbia. Il mistero di Rainer Merz, cui fa esplicito riferimento la copertina di Certamen 1246. Bibliografia
Certamen 1246, Giovanni Casella Piazza, Nardò, BESA, 2020, 572 pp.
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L’incredibile teatro di Punzo Un viaggio all’interno della Compagnia della Fortezza, dove i detenuti diventano attori
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Nature morte fiabesche
Correva il tenebroso anno 1246
dedicata a Filippo de Pisis
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Mostre/2 Fino al 1. marzo il Museo del Novecento di Milano ospita una mostra
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Olafur Eliasson Escaped Light Landscape, 2020. (Photo: Alcuin Stevenson / Studio Olafur Eliasson Courtesy of the artist; ugerriemschneider, Berlin; Tanya Bonakdar Gallery, New York / Los Angeles © 2020 Olafur Eliasson)
«Io osservo con un’attenzione, v’è chi direbbe patologica, e raccolgo di tanto in tanto con gusto questi caratteri locali indefinibili come chi venisse nuovo alla città, come un esploratore del basso Congo di passaggio per la “città dei Duchi”». Luigi Filippo Tibertelli (18961956), in arte Filippo De Pisis, passeggiando per le vie della sua città natale (Ferrara) racconta all’amico-scrittore Giovanni Comisso quella curiosità bramosa che non lo abbandonò mai, nelle città dove visse (Roma, Parigi, Milano), come fra le valli del Cadore o a Cervia, «di osservare certi caratteri, segnati con linee profonde e come dolorose, certe espressioni, quasi di maschere medianiche in plastilina, negli uomini che incontro». Occhio che lo porterà a fissare le epifanie della bellezza come i «caratteri» nella felice immediatezza dei suoi ritratti. A Ferrara si definisce la vocazione di De Pisis, quando nel 1916 giungono soldati Giorgio e Alberto De Chirico. I Dioscuri «mi deridono», scrive al padre nobile Ardengo Soffici, «quando sono alle prese con un codice del XV° e curano di rinnovarmi e mi àn già fatto del bene». Alle conversazioni riportate nella raffinata e notevole prosa d’arte del pittore, si aggiungerà un altro coscritto eccellente, Carlo Carrà. I suoi numi tutelari, Soffici «Papini, Apollinaire, Picasso», vengono evocati «in ispirito come Dio nelle caverne dei Santi Padri». Sa-
Filippo de Pisis, I pesci sacri, 1925, Milano, Pinacoteca di Brera. (© Filippo de Pisis by SIAE 2019)
ranno sempre i fratelli De Chirico ad accompagnare De Pisis nel decisivo e lungo soggiorno a Parigi, a partire dal 1925. Alberto (Savinio) lo porta al Cabaret Voltaire, dove entra in contatto con Tristan Tzara. Il Marchesino pittore (dal titolo di una sua prosa autobiografica) frequenta Braque, Picasso, Matisse, Joyce, Svevo, Cocteau ed espone con grande risposta alla Galerie Carmine in Rue de la Seine.
Qui nascono quelle nature morte che lasciano ammirato lo spettatore della retrospettiva che Milano, città in cui visse a riprese in simbiosi con artisti e scrittori, ha dedicato all’artista ferrarese, per la curatela di Pier Giovanni Castagnoli. «Nature morte» in mirabile equilibrio fra sospensione e antinaturalismo, infiammate da tocchi di materia viva, oppure fermate fra i simboli del «quadro nel quadro»: «un
gioco di rimandi e rispecchiamenti», precisa Castagnoli, «in cui l’arte» si professa «cosa mentale e la pittura finzione che si nutre di sé stessa e si rinnova». Conchiglie, fari, pesci assumono grandezze smisurate. «Ogni oggetto ordinario diminuisce la vastità del mare, riduce l’enorme quantità delle acque a questo rivo orlato di bava, a questo nastro di raso che solo per un’ultima e compiacente fedeltà narrativa rimane orizzontale; ci si aspetterebbe a volte di vederlo agitato in curve eleganti e sinuose come gli schemi ritmici segnati dai nastri volanti del Perugino». È Cesare Brandi che fissa il perenne meraviglioso pittorico di De Pisis; un po’ «geroglifico naturale», un po’ «offerta pagana». Uno spazio-tempo dove gli uomini sono «più piccoli dei vermi, più inafferrabili degli insetti». Il carattere fiabesco delle nature morte di De Pisis dipende «dalla forma improvvisamente rivelata, a noi che pure credevamo di conoscerla così bene, di una conchiglia marina. Misteriosa vita della terra. Misteriosa vita del mare che si presenta in forme così chiare e intelligibili eppure ermetiche». Dove e quando
mistero nel romanzo di Giovanni Casella Simona Sala È anzitutto un viaggio nel tempo, questa prova letteraria di Giovanni Casella Piazza. Già dopo poche pagine, Certamen 1246 ci risucchia in un mondo familiare per condivisione topografica, ma estraneo e lontano strutturalmente e per contenuti. Siamo a Como, ed è il 1268. Le rive del lago e qualche vicolo sono sicuramente somiglianti a quelli che conosciamo noi, ma la vita, quella è un’altra cosa. D’estate la zona è infestata dalle zanzare, e le vie di comunicazione sono precarie, basta una pioggia prolungata per creare scoscendimenti e strade bloccate. Nelle bettole, luoghi bui, forse pericolosi o addirittura promiscui, si discute, si mangia e si beve. Oppure, quando di mezzo ci sono gli affari, si litiga, come fanno i tessitori che lavorano nelle officine lungo il fiume (riconoscibili per i pannilani grezzi appesi ad asciugare) che, seduti gomito a gomito ai lunghi tavoli, bisticciano con i mercanti milanesi. L’ambientazione di questo romanzo, denso nei dialoghi e nelle informa-
De Pisis, Milano, Museo del Novecento. Orari: lu 14.30-19.30; ma-meve-do 9.30-19.30; gio e sa: 9.30-22.30; fino al 1. marzo 2020. La mostra si sposterà al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.
Curtis, l’uomo che cacciava le ombre
Noi siamo Gaia
Mostre/3 A Zurigo un’esposizione celebra il trasporto con cui Edward S. Curtis si dedicò
alle popolazioni native americane
Mostre/1 Olafur Eliasson al Kunsthaus di Zurigo Gianluigi Bellei Abbiamo scritto su queste colonne di Olafur Eliasson nel 2010 in occasione di una sua mostra al Martin-GropiusBau di Berlino intitolata Innen Stadt Außen (dentro la città e fuori). Lo abbiamo definito un artista visionario e fantastico, un mago della luce. Fino al 22 marzo presenta una nuova installazione al Kunsthaus di Zurigo. Quindi vicino a noi. Bisogna andare per forza. Anche perché Eliasson è uno dei più importanti e interessanti artisti contemporanei. Non lo dico io, che sarebbe risibile, ma le voci maggiormente autorevoli dell’arte. Se ancora non lo conoscete, prima di partire, potete leggere An Encyclopedia. Studio Olafur Eliasson, edizioni Taschen, del 2012; non proprio aggiornato, quindi, ma utilissimo. Da qui ho rapinato alcune suggestioni scritte da Philip Ursprung. Appena arrivati al Kunsthaus dovete acquistare, ho scritto dovete, un esemplare di Little Sun. Una splendida lampada a energia solare creata da Eliasson nel 2012 da distribuire nei paesi che non hanno accesso all’energia elettrica (per maggiori informazioni: littlesun.com). Personalmente ne ho comprate qualche anno fa una decina da regalare.
La prima cosa da sapere è che Eliasson, come tutti i grandi artisti, non lavora da solo. Se pensate che Tiziano, Michelangelo, Rubens e compagnia bella abbiano realizzato da soli tutti i loro innumerevoli dipinti vi sbagliate. Al loro servizio lavoravano decine di persone. Ognuna di esse con uno specifico compito: preparare i pennelli, pulirli, macinare i pigmenti, mesticarli, emulsionarli, bucherellare i disegni, farne lo spolvero, preparare le tavole con il gesso, dipingere gli sfondi, i mantelli. Insomma, fare la maggior parte del lavoro. D’altronde essere a bottega da un artista rinomato era una garanzia per il futuro. Nel Rinascimento il tirocinio iniziava con l’apprendistato per poi trasformarsi da tirocinante ad aiuto. Ma non tutti gli aiuti erano allievi. Arnold Hauser scriveva nella Storia sociale dell’arte che alcuni padroni di queste botteghe «sono impresari più che artisti e di solito assumono le ordinazioni per poi farle eseguire da un pittore adatto». Un miscuglio stilistico che rende difficile autografare una singola opera. Nelle botteghe degli artisti non uscivano solo quadri ma anche stemmi, bandiere, decorazioni per le feste, insegne… Insomma, c’era uno spirito collettivo e gerarchico tipico delle corporazioni. Gli
atelier sono sopravvissuti sino al termine dell’Ancien Régime. Poi una nuova ondata. Pensate alla fine del XIX secolo a quelli di Hans Makart o Wilhelm Lenbach a Monaco. Ritrattisti dell’alta borghesia che si definivano principi dei pittori e vivevano in ville lussuose. Nella società industrializzata basata sulla suddivisione del lavoro questi atelier rappresentavano un modello alternativo e compiuto di produzione. Negli anni Sessanta del secolo scorso Andy Warhol nella sua Factory crea una commistione fra privato e professionale. Lo studio di Eliasson è uno dei più grandi di questi decenni. Qui si lavora soltanto e non si fanno feste o ci si dorme. Vi operano una trentina di persone fra architetti, designer, ricercatori e operatori multimediali. Per la realizzazione del Weather Project nel 2003 alla Tate Modern di Londra, opera che rende Eliasson famoso in tutto il mondo, gli specialisti del museo hanno dovuto dare forfait, e l’artista ha dovuto costruirla per intero nel suo atelier in modo che alla Tate potesse essere unicamente montata. Tre, grosso modo, gli interessi in cui si suddivide il suo lavoro: la luce, la geometria e la natura. A Zurigo si possono vedere tutti. Da Escaped Light Landscape, con una sequenza di giochi di
Gian Franco Ragno
luce che si intersecano fra loro mutando colore e aspetto, a Weather Orb, quattro poliedri con un nucleo a forma di icosaedro e lo strato esterno composto da ottagoni, esagoni e quadrati. Alcune facce dei poliedri sono coperti da pannelli di plastica che interagiscono per produrre del colore che cambia con il movimento degli spettatori. Il più stupefacente è ovviamente Symbiotic Seeing creato appositamente per il museo e situato in una grande sala al centro del percorso. Qui una serie di laser nella stanza buia proiettano fasci di luce. In alto vortici colorati cambiano continuamente a seconda dello spostamento dei visitatori e del loro calore corporeo. Si può ammirare sdraiati o seduti per terra, immersi in una rada nebbiolina profumata. Insomma, il mondo circostante muta anche in rapporto alle nostre azioni e di questo dobbiamo essere consapevoli. Anche perché Eliasson sostiene che il nostro corpo contiene per esempio batteri e funghi come altre specie, animali o meno, e che la somma di tutto questo è il nostro mondo. L’artista è intrigato da personaggi come Donna Haraway, teorica del postumanesimo, e dal filosofo Timothy Morton. Ambedue chiedono una giustizia ambientale multispecie che tenga conto degli interessi degli umani e dei non umani.
Senza addentrarci in problematiche complesse come quelle relative all’ecologia – oggi ne parlano «tutti», con la voglia legittima di salvare il pianeta, come qualche anno fa «tutti» volevano la pace nel mondo – ci limitiamo unicamente a qualche suggerimento per un ulteriore approfondimento personale. D’altronde l’arte non cerca di dare risposte ma solo di porre delle domande. Ed Eliasson cita Lynn Margulis con la sua teoria endosimbiotica e l’«Ipotesi Gaia» secondo cui «la terra con tutto l’insieme dei suoi ecosistemi abbia le proprietà di un superorganismo e che, in quanto tale, sia capace di interagire e di regolare lo stato dell’atmosfera e del clima». Concludiamo proponendo le parole di Timothy Morton il quale, in un testo del 2010 riprodotto in catalogo, si chiede «se gli animali possano apprezzare l’arte». E la calotta polare?, aggiungiamo noi. Dove e quando
Olafur Eliasson: Symbiotic Seeing. A cura di Mirjam Varadinis. Kunsthaus, Zurigo. Fino al 22 marzo. Catalogo edizioni Snoeck-Verlag, fr. 39.–. eliasson.kunsthaus.ch
Quando si vedono riprodotte immagini degli Indiani d’America – nelle edicole e nei poster, nei libri o sul web – riportate più o meno fedelmente rispetto alla qualità originaria, o così ci parrebbe di intuire, molto probabilmente stiamo guardando, senza saperlo, un’immagine scattata ad inizio Novecento da Edward Sheriff Curtis (1868-1952). Fotografo a suo tempo di grande successo commerciale, Curtis lasciò la sua carriera ben avviata per inseguire un sogno: voleva realizzare un ideale affresco collettivo (con testi, registrazioni e un ricco apparecchio iconografico) delle popolazioni originarie dell’America del Nord. Una popolazione stremata, sconfitta e isolata a seguito dalla conquista del West, e che, nella sua enorme eterogeneità, andava dalle regioni vicine all’attuale Messico (ad esempio, gli Hopi nel sud-est) a quelle più a Nord, (Kwakiult, oggi Stato di Washington), fino in Alaska. Egli intuiva, alla stregua di molti altri, come queste popolazioni stavano scomparendo insieme alla loro cultura: si conta che prima della conquista europea la popolazione indigena arrivasse a un milione di individui, ma che nelle riserve ne erano rimaste poche decine di migliaia. Si trattò, come è facile intuire, di un disegno fin troppo ambizioso: un lavoro monumentale in un territorio
Tsawatenok Girl, Edward S. Curtis, photogravure, 1914. (McCormick Library of Special Collections, Northwestern University Libraries)
sterminato, un compito che andò subito a delinearsi come spaventosamente arduo e dispendioso. Bisognava infatti individuare i gruppi, fotografarli, studiarne le tradizioni e la lingua, i miti e il modo di vivere e, sul piano fotografico, inscenare dei ritratti singoli e collettivi per infine, cosa più difficile, trovare i finanziamenti e il sostegno per la pubblicazione. L’impresa approdò con mille difficoltà alla conclusione dopo un quarto di secolo. La pubblicazione prese il
titolo di The North American Indian, e possiamo considerarla come una sorta di enciclopedia a volumi pubblicata a tappe dal 1907 al 1930. L’edizione era rilegata e curata nel minimo dettaglio, nell’insieme contava venti volumi, più di 4000 pagine e 1500 photogravure. Alla base del lavoro molto materiale rimase inedito; si ipotizza che le registrazioni di canti e racconti, su cilindri di cera, fossero più di 10’000, e che il totale delle immagini degli ottanta gruppi indagati superasse i 40’000 scatti. L’esposizione zurighese al Museo NONAM (North American Native Museum, ora vicino alla stazione di Tiefenbrunnen), in estrema sintesi, ripercorre il mito con approccio didattico e divulgativo, cerca anche di puntare il dito verso certe contraddizioni dell’autore, che però non fu un antropologo, semmai uno straordinario raccoglitore di informazioni. Si mostrano le tappe, si presentano le registrazioni sonore, i film propagandistici e pubblicitari che montò per divulgare l’impresa e trovare sottoscrizioni per l’acquisto. Ma superate le sale con una finalità più pedagogiche, il momento più suggestivo rimane senza dubbio quello in cui ci confrontiamo direttamente con le sue photogravure – un procedimento artistico dai toni caldi del color seppia che si basa su negativo fotografico – ideate per la pubblicazione. Esse si presentano come immagini di una cura insuperata, perfettamen-
te bilanciate ed esteticamente superbe – studiate ed elaborate, con i mezzi dell’epoca, nel minimo dettaglio. Risvegliano un senso di magia ancestrale, rivelano un equilibrio tra uomo e natura, riportano in vita ciò che il tempo non solo ha cancellato, ma anche distrutto e calpestato. È questa la restituzione, in forma artistica, di un mondo scomparso – magari edulcorato, come ripetuto a più riprese nel percorso espositivo – ma con un’adesione estetica al soggetto che diventa essa stessa una forma di rispetto. Si potrebbe dire che Curtis restituì, seppur in minima parte, attraverso la sua arte fotografica, ciò che i nativi si videro portar via sul piano materiale. Si spense povero e in solitudine, abbandonato da parte della famiglia, Curtis – colui che veniva chiamato dai nativi «l’uomo che cacciava le ombre» oppure «l’uomo che non giocava mai» – a Los Angeles nel 1952, ma, ci piace pensare, consapevole di aver dato un contributo straordinario alla storia delle popolazioni native del mondo. Dove e quando
Edward S. Curtis. The North American Indian. A Photographer’s Legend. Zurigo (Seefeldstr. 317) NONAM. North American Native Museum, Zurigo. Orari: ma-sa 13.00-17.00; do 10.00-17.00. Fino al 1. marzo 2020. www.nonam.ch
zioni, e fedele alla lingua dell’epoca (grazie ai numerosi dettagli, pressoché a ogni pagina, si riconosce in filigrana la minuziosa ricerca storica di Casella), fa da ricco sfondo a una vicenda intricata, in cui non manca il mistero. La storia narrata è più complessa di quel che sembra: il notaio Aielli giunge insieme allo studente di legge Zirìolo a Como per incontrare l’abate Ariberto. Zirìolo, su ordine del patriarca di Aquileia, si ferma al monastero, dove scopre importanti fatti riguardanti una contesa avvenuta anni prima tra il soglio pontificio romano e Federico II di Svevia. Avvengono però a questo punto delle scomparse inspiegabili – dapprima di due monaci, e poi dello stesso Zirìolo – che costringeranno il notaio Aielli ad attivarsi, portandolo in ultima istanza a confrontarsi con un inatteso aspetto dell’abate Ariberto. Mistero, suspense e segreti politico/ecclesiastici non sono una novità per Giovanni Casella Piazza, che è stato anche produttore e cosceneggiatore del lungometraggio Oltre la nebbia. Il mistero di Rainer Merz, cui fa esplicito riferimento la copertina di Certamen 1246. Bibliografia
Certamen 1246, Giovanni Casella Piazza, Nardò, BESA, 2020, 572 pp.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Cultura e Spettacoli
Pronti all’accoglienza
Location ticinesi/2 S econda e ultima parte del nostro mini-viaggio alla scoperta dei set cinematografici
offerti dal nostro cantone Nicola Falcinella Riprendiamo il nostro viaggio attraverso i film girati in canton Ticino, un viaggio che inizia nel 1913 e conta più di 130 titoli fino al giorno d’oggi, anche con grandi nomi da Al Pacino a Vittorio Gassman e Ornella Muti venuti a interpretarli.
Molte iniziative cinematografiche sono nate dall’impegno di Villi Hermann, di Amka e Ventura Film Commedie, gialli e ricerche esistenziali sono il filo conduttore del periodo tra gli anni 80 e i 90, con l’aggiunta della pellicola storica Ulrico Zwingli e il finale dell’horror Opera di Dario Argento ambientato nella zona di Airolo. Tra i tanti, da citare Sotto il vestito niente, Chaos am Gotthard, Ti ho incontrata domani e L’assassina. Film premiato con l’Oscar è Il viaggio della speranza (1990) di Xavier Koller: si ferma a Chiasso il sogno di una famiglia curda, che riproverà a entrare dal passo dello Spluga con un epilogo tragico. Curioso è Remake (1987) di Ansano Giannarelli, un breve incontro sullo sfondo del Festival di Locarno: nella parte di loro stesse ci sono Sandra Milo, Ida di Benedetto e Marina Vlady. Passa da Lugano L’aria serena dell’ovest (1990), primo lungometrag-
gio del milanese-ticinese Silvio Soldini, e da Locarno Nouvelle vague di JeanLuc Godard. Si arriva ad Agente 007 GoldenEye (1995) di Martin Campbell con Pierce Brosnan nei panni di James Bond, che inizia acrobaticamente lanciandosi dalla diga della Verzasca, anche se nella finzione è in Russia. Il nuovo secolo si apre con Le conseguenze dell’amore (2004) che consacra Paolo Sorrentino: un dramma raffinato con Toni Servilo in gran parte ambientato tra Lugano, Mendrisio, Chiasso, Bellinzona e il piano di Magadino. Poco prima da ricordare L’amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci, anch’egli legato al Ticino, e I banchieri di Dio con scene a Lugano. Altra tappa Quale amore di Maurizio Sciarra con una scena in piazza Riforma e proiettato al Festival di Locarno. Tra cinema e televisione è intensa l’attività di Mohammed Soudani, del quale vanno citati Roulette (2007) e Oro verde (2014), girati a Lugano, e Lionel (2010) tra Locarno, Losone, la foce della Maggia e lo zoo di Magliaso. Ricordata qualche puntata di film di Bollywood e lo scorcio in Un’altra giovinezza (2007) di Francis Ford Coppola, è importante Requiem del tedesco Hans-Christian Schmid con il pellegrinaggio a Locarno e Biasca e curioso La sapienza di Eugène Green, che passa da Bissone, paese natale dell’architetto Francesco Borromini. L’ultimo decennio ha visto l’affermarsi del giovane cinema ticinese con la crescita di Fulvio Bernasconi
Still dal film Quello che non sai di me di Rolando Colla. (Youtube)
(La diga, Fuori dalle corde) e gli esordi di Erik Bernasconi, Niccolò Castelli, Mihály Györik (l’horror La valle delle ombre in Valle Maggia), Bindu De Stoppani, Klaudia Reynicke, Francesco Rizzi, Alberto Meroni e i recentissimi di Andreas Maciocci e Fabio Pellegrinelli. Dietro molti di questi c’è la mano produttiva di Hermann, che si è dedicato molto alla coltivazione di nuovi talenti con la sua Imago, ma anche i contributi di Amka e Ventura nel consolidare la scena locale. Tra Bellinzona, Locarno, Biasca,
Monte Tamaro e Val di Blenio è ambientato Sinestesia con Alessio Boni, Giorgia Würth e Leonardo Nigro, che ha fatto un po’ da apripista. Prevalentemente luganese è Tutti giù, storia di un gruppo di skateboarder, mentre nel Mendrisiotto si sviluppano le vicende de La Palmira e Frontaliers Disaster, in Centovalli è ambientato Jump e a Locarno e Losone Cercando Camille. Reynicke ha girato Il nido a Palagnedra e Centovalli e Love Me Tender a Chiasso. Cronofobia sta tra Mendrisiotto, Lugano e Leventina prima di spostarsi
in Svizzera interna, mentre Il segreto del mestiere di Maciocci è collocato tra Chiasso e Mendrisio e L’ombra del figlio di Pellegrinelli tocca tanti centri del cantone. Ticinese e girato in parecchie location – la Fabbrica del cioccolato di Cima Noma a Dangio-Torre, Bellinzona, Biasca, Collina d’Oro, Olivone e nei pressi del Gottardo – , è anche il thriller Oltre la nebbia (2018) del piemontese Giuseppe Varlotta. Produzioni nazionali del recente passato sono la commedia Vecchi pazzi di Sabine Boss nel Locarnese e nel Mendrisiotto e I fratelli neri di Xavier Koller in Valle Maggia, Brontallo e Lago Maggiore, cui si aggiunge il tedesco Halb so wild (2013) di Jeshua Dreyfus, vacanza di un gruppo di giovani in Val Onsernone, Bosco della Comunella e Isorno. Si arriva al recentissimo Quello che non sai di me dell’esperto Rolando Colla (Giochi d’estate), incontro complicato tra un immigrato del Mali e una donna europea, girato in gran parte a Bellinzona. L’ultima grossa produzione straniera è stata Mister Felicità di Alessandro Siani nel 2016, con la verve del comico napoletano trasportata a Lugano, tra il LAC e corso Pestalozzi. Già nei prossimi mesi giungeranno nuove pellicole, grazie anche alla crescita della Film Commission e delle case di produzione locali, per un Ticino sempre più terra di cinema, pronto ad accogliere le troupe provenienti da fuori e fertile per gli autori locali. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
La stanza dei miracoli di Armando Punzo
Teatro Un’immersione nella realtà della Compagnia della Fortezza, la compagnia teatrale creata nel carcere
di Volterra dal regista napoletano, al Teatro Sociale a Bellinzona dal 13 al 16 febbraio per condurre un laboratorio Matteo Bellinelli* Sono diciassette anni che mi chiedo come mai in prigione il caffè (rigorosamente preparato con la «napoletana») sia migliore di quelli che si bevono al bar. Me lo chiedo ogni volta che salgo il ripido acciottolato che porta alla Casa di reclusione di Volterra, detta «La Fortezza», e che penso al piacere che proverò, superati i controlli, le porte e i cancelli del carcere, a bermi un caffè in compagnia di un gruppo eterogeneo e affiatatissimo di detenuti, tutti ergastolani e lunghe pene: uomini discreti ma affettuosi, che affidano a un prolungato abbraccio il piacere di rivederci, a distanza di mesi ma nella costanza degli anni.
«Sono convinto che la grande partita di una vita cominci sempre dalla scontentezza di sé, il teatro nasce dal fatto che io non mi vado bene e cerco altro» Nessun dubbio, il miglior caffè dell’anno è sempre quello che preparano loro, con tutta la cura e la perizia necessarie. Non serve nemmeno essere napoletani, per prepararlo bene, basta aver avuto il tempo per impararne il segreto. E qui, il tempo è sospeso. Qui consumano i molti anni della loro pena uomini che provengono dal Sud di tutto il mondo (Africa e Nord Africa, Oriente e Medio Oriente, Sud America, Europa dell’est): e, soprattutto, dal sud dell’Italia. Le celle sono abitate in larga parte da campani, calabresi, siciliani, da uomini che prima di essere rinchiusi in questa prigione hanno conosciuto solo miseria e criminalità, discriminazione e ignoranza. Pochi i libri letti, nessun rapporto con arte, cultura, spiritualità: che certo non pensavano di trovare qui, varcando la soglia di un carcere antico che, per molti di essi, ora nasconde in sé una speranza, una chiave per il futuro. A offrirgliela è un altro napoletano, il napoletano più anomalo che abbia mai incontrato, il più discreto e riflessivo, il meno loquace e teatrale. Si chiama Armando Punzo e di professione fa il regista teatrale. Si è incamminato per la prima volta lungo la salita che porta alla fortezza nel 1988. Ha bussato alle porte del carcere per proporre alla direzione un’idea stramba: fare teatro con i detenuti. Non per offrire loro un’opportunità di ri-socializzazione: no, proprio per fare teatro. Un’eresia? Questo napoletano è un tipo tosto, non si è lasciato scoraggiare o intimidire dall’aria che tirava in prigione e, spalleggiato da un direttore illuminato (onore a Renzo Graziani), il teatro in carcere Punzo ha davvero iniziato a farlo. All’interno della fortezza medicea gli hanno attribuito uno spazio esiguo, un locale di tre metri per nove nel quale sono nati alcuni degli spettacoli più coraggiosi e originali del panorama teatrale italiano del dopoguerra, onorati con premi nazionali e internazionali che hanno fatto della sua «Compagnia della Fortezza» (come altro avrebbe potuto chiamarsi?) uno dei gruppi teatrali più affascinanti d’Europa. Compagnia sommamente instabile, proprio perché composta solo da detenuti: che possono essere trasferiti da un momento all’altro in un carcere diverso, o che, scontata la propria pena, ritrovano finalmente la libertà (concetto del tutto relativo, secondo Punzo: ci arriveremo). Abban-
Negli spettacoli odierni, le scenografie sono favolose e illogiche, abitate da figure extra-ordinarie, dai costumi eccentrici e coloratissimi. (Carlo Gattai)
donando la Fortezza lasciano sguarnito il gruppo di attori che il regista, novello Sisifo, deve ricominciare a modellare a sua immagine e somiglianza giorno dopo giorno, detenuto dopo detenuto. Per meritarsi la sala delle prove bisogna superare un pesantissimo portone che si apre rumorosamente su di una ripida scala di sasso: si varca un secondo portone, si raggiunge l’entrata vera e propria del carcere, dove si consegnano documenti e cellulare. Qui si schiude una porta di metallo cigolante, si percorre un piccolo cortile, si attraversa un cancello di sbarre, un secondo cortile e una terza porta, finché si è nel braccio del carcere che ospita il teatro. Ora mancano solo un cancello, due lunghi corridoi, un’ultima porta metallica e finalmente eccoci nella piccola stanza rossa dove tutto nasce. Un’isola che i detenuti che compongono la Compagnia (in numero variabile: ora sono una novantina, sui centocinquanta carcerati della fortezza) raggiungono scendendo dalle loro celle. Al mio arrivo i più «anziani» non nascondono il piacere di rivedermi, né la voglia di raccontarsi, sempre in modo discreto e riservato. Confesso che, seguendo la prassi di Punzo, a nessuno ho mai chiesto cosa li abbia portati qui, quale sia stato il loro reato e quale la pena. Nemmeno Armando lo sa, né mai lo chiede. O meglio, non viene subito a conoscenza dei loro segreti: poi la complicità, il legame personale e spesso affettivo che nasce tra regista e attori è tale da portarli ad aprirsi, a fidarsi e confidarsi. Anche a me alcuni detenuti, col
tempo, hanno parlato della loro «vita passata» (dicono proprio così): lo fanno perché quello è, appunto, il passato, e per quanto drammatico possa essere stato ora sono persone profondamente diverse, che il teatro ha contribuito a cambiare. Spesso non senza una dolorosa e impietosa resa dei conti con se stessi. A questi uomini in apparenza rudi Punzo propone un cammino fatto di disciplina, di un ulteriore spazio chiuso, di altro tempo sospeso. La prima impressione è che fare teatro in carcere aggiunga prigione alla prigione: ma il vero nemico, qui, è il «quotidiano», la presunta normalità. Negli spettacoli della Compagnia c’è finzione, ma non c’è illusione: il teatro di Punzo scava nel profondo dell’animo umano senza mai scendere a compromessi. I testi che a poco a poco inizia a leggere ad alta voce in sala prove li scova nei meandri di libri spesso dimenticati che racchiudono un senso di urgenza, che implicano la scelta faticosa di un ritorno alla rappresentazione teatrale vissuta come necessità espressiva insopprimibile. «Condannati, dice il regista, a fare un lavoro che sappiamo inutile». Sisifo, appunto. Dalla ricerca sui libri che regista e attori consumano tra le mani, giorno dopo giorno, nasce un mondo di letture condivise, di analisi polifonica di testi, emozioni e racconti: un momento di introspezione che, un poco alla volta, si espande e coinvolge le loro stesse esistenze. Punzo è preda di dubbi, crisi e interrogativi profondi: che non nasconde alla sua Compagnia, anzi, li esterna e
Una scena dallo spettacolo Beatitudo, nella corte del carcere. (Stefano Vaja)
li articola, mettendosi a nudo di fronte al compito che si è assegnato. Forse è proprio questo che seduce i suoi attori: lo sentono vicino, come loro fragile e bisognoso di risposte e di orizzonti inesplorati. Da ogni crisi nasce un nuovo spettacolo, ma la crisi non ne è mai il tema. Armando sostiene che gli interessa solo chi si sente libero in carcere, «chi riesce a passare come un pensiero attraverso le sbarre della prigione. Condivido con i detenuti-attori la loro sensazione, quella di sentirsi sempre fuori posto, spostati un po’ in qua o in là, che non c’è mai un posto dove posso veramente stare». Uomini solidi come querce, spesso tatuati all’inverosimile, si chinano silenziosi sulla Querelle o i Negri di Genet, sui tormenti di Pasolini, sull’inattendibilità dei racconti di Borges e li fanno intimamente loro. In giornate più luminose nella sala prove risuonano per voce degli attori frasi quali: «Non ho un solo capello bianco nell’anima», «Hanno di nuovo decapitato le stelle e insanguinato il cielo», «Se tu aspiri a giungere a questo mare, perché ti perdi in una goccia di rugiada?» Non importa chi ne siano gli autori: importa che la curiosità dei loro pensieri e le loro emozioni si integrino con le inquietudini del loro regista, che egli se ne possa nutrire per avanzare nella ricerca del tema e della drammaturgia dello spettacolo. Una ricerca che talora sembra arenarsi, giorni interi «buttati» alla ricerca di una via d’uscita da dubbi e incertezze che svuotano tutti di energia ed entusiasmo. Poi, improvvisamente, basta una sola frase letta o detta e il cammino riprende, il percorso si fa più chiaro, la luce si avvicina. Lo spettacolo che la Compagnia proporrà al pubblico (sull’arco di una sola settimana, a fine luglio: per palcoscenico il cortile sottratto all’ora d’aria degli altri detenuti del carcere) è, dunque, il risultato di una ricerca, di un «filo» da scoprire e inseguire con ostinazione e un po’ di follia condivisa. In realtà, anche se per anni Punzo ha affidato la scena solo agli attori, nei suoi spettacoli tutto è profondamente suo. Per anni i corpi dei detenuti sono stati un elemento fondamentale e dirompente della messa in scena: la nudità di corpi possenti e provocatori, la loro fisicità ferocemente esibita era
una delle caratteristiche delle sue regie. Ora i corpi degli attori sono velati: una ricercata originalità dei costumi ha sostituito la forza fisica, gli attori sono immersi in scenografie favolose e illogiche, abitate da figure extra-ordinarie dai costumi eccentrici e coloratissimi. Punzo si mette al centro della scena, è «deus ex-machina» anche sul palcoscenico di un’opera sì corale, ma profondamente ispirata dal suo universo artistico, nel quale le emozioni personali, il suo tormentato cammino interiore sono sempre più apparenti, quasi dichiarati. Negli anni il suo si è trasformato da teatro dei personaggi in teatro delle idee. Alla domanda «cosa fate durante le prove» Armando risponde: «Costruiamo un habitat mentale. Lavoriamo perché gli attori si lascino progressivamente attraversare da un’idea fino a sfuggire di mano a se stessi, per ritrovare fiamme d’istinto. Sono convinto che la grande partita di una vita cominci sempre dalla scontentezza di sé. Il teatro nasce dal fatto che io non mi vado bene e cerco altro». Quando mi capita di chiedergli se, di fronte a chi e quanto lo ostacola in mille modi, talora non si senta stanco e sfiduciato, Punzo risponde che a smettere non pensa proprio, ma che una paura ce l’ha: «Perdere la magia di un linguaggio. Per me sarebbe la morte». Confortato da queste parole, non vedo l’ora di risalire la china che porta alla Fortezza, di sentire richiudersi alle mie spalle porte e cancelli, di gustarmi di nuovo il vero caffè e i primi abbozzi dello spettacolo che sta nascendo. Rinchiuso nella sala che Armando chiama «la stanza dei miracoli», non ho idea di dove tutto questo mi trasporterà. So però che sarà un viaggio oscuro e profondo, ricco di incertezze e di stupore. Lo sentirò dirmi: «Non sono più sicuro di nulla, ma non vorrei assolutamente tornare indietro», e mi sentirò di nuovo a casa. * Matteo Bellinelli, regista e giornalista, nel 2003 ha realizzato un documentario sui primi quindici anni di vita della Compagnia della Fortezza, Nella tana del lupo, diffuso dalla rubrica «Storie» della RSI nel 2004.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 10 febbraio 2020 • N. 07
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Cultura e Spettacoli
George Steiner, una vita attraverso In memoriam L a scomparsa di uno dei più acuti lettori del Novecento Pietro Montorfani La parabola intellettuale ed esistenziale di George Steiner (1929-2020) potrebbe essere riassunta in una singola parola apparentemente inutile, inespressiva, innocua, la preposizione «tra». La sua è stata infatti una vita di attraversamenti, di lingue e di nazioni, dall’Austria da cui proveniva la sua famiglia alla Francia in cui è cresciuto, fino all’esilio forzato negli Stati Uniti a causa del nazismo e alle numerose tappe della sua brillante carriera universitaria (Princeton, Harvard, Oxford, Cambridge, Ginevra). Ebreo laico quasi perfettamente trilingue, lettore vorace e precoce, era innanzitutto un grande appassionato di letteratura (di musica, di arte), di cui sentiva dolorosamente tutte le implicazioni etiche, assieme ai limiti di una prassi accademica che aveva finito per soffocare l’effervescenza della creatività, la sua facoltà di parlare direttamente all’uomo, senza filtri né spiegazioni ulteriori. «Contro la cultura del commento», lo slogan che lo ha reso celebre, è insieme il suo principale lascito e una contraddizione in termini, data dal suo essere stato, a tutti gli effetti, uno dei massimi «commentatori» novecenteschi della tradizione occidentale. «Noi veniamo dopo. Sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz». Lungo una linea di pensiero per certi versi affine a quella di Max Picard, nei suoi saggi degli anni Sessanta su Linguaggio e
Il filosofo George Steiner insieme alla moglie davanti a casa (2005). (Keystone)
silenzio Steiner affrontò di petto temi cruciali come il rapporto tra la cultura e il male, la sopravvivenza della poesia dopo la barbarie (Adorno) e la possibilità per la letteratura di continuare a raccontare la realtà. Il basso continuo delle sue ricerche fu proprio questo dialogo continuo e ininterrotto tra il testo e il mondo, consapevole che non era più possibile, nel Novecento, leggere Eschilo o Shakespeare senza fare memoria
dell’Olocausto, ma anche che le teorizzazioni estreme dello strutturalismo e l’algido disincanto del decostruzionismo («le acrobazie retoriche di certe tecniche semiotiche» scriveva pensando a Derrida) avevano prodotto danni seri alla nostra concezione della letteratura, che non può né deve prescindere dalle questioni morali. Proprio su questi temi è incentrato il libro che, più di altri, mi sentirei
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di consigliare all’indomani della sua scomparsa: Vere presenze (1989), un appassionato elogio della «città primaria» della letteratura di contro alla «città secondaria» dei gravami accademici, della teoria-parassita che uccide il testo e lo allontana dal cuore dei lettori. Lo stile affascinante della sua prosa, le metafore ardite e i riferimenti cólti (a tratti approssimativi, figli della sua stessa erudizione) ne fanno un unicum del genere
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saggistico, il cui messaggio di fondo era già stato anticipato nel primo libro a sua firma (Tolstoj e Dostoevskij, 1960) e nella ferma convinzione che «la maggior parte della grande arte esige la fede». A distanza di trent’anni, con una consapevolezza accresciuta da innumerevoli letture, poteva ancora affermare che senza una prospettiva metafisica l’esercizio stesso della creazione artistica si svuoterebbe di senso, irrimediabilmente. I frutti del genio umano si impongono come «vere presenze», svettano sopra la banalità del linguaggio quotidiano (feroce fu la sua critica del giornalismo), a patto di considerarli però qualcosa di semidivino, un incontro «eucaristico» che contiene in se stesso tutto il significato di cui necessita. L’edizione italiana del libro, approntata da Garzanti nel 1991, seguiva di pochi mesi la scomparsa di Gianfranco Contini, alla cui lezione Steiner ammetteva di aver guardato con rispetto e riconoscenza. Ne sentiva affine il bisogno di intendere la filologia come interpretazione e approssimazione, un discorso aperto, dialogico e pedagogico, quasi un atto d’amore. A disagio con le categorie della critica letteraria, che pure esercitò per decenni sui più autorevoli giornali (per trent’anni sul «New Yorker»), avrebbe voluto essere ricordato soltanto con «lettore». Un lettore plurilingue che aveva riconosciuto nell’esercizio della traduzione uno dei massimi esiti dell’interpretazione. Non lost bensì found in translation è il motto che, da cantore della civiltà europea, meglio gli si attaglierebbe.
Iphigénie en Tauride, la tragédie lyrique in quattro atti di Christoph Willibald Gluck aveva avuto un esito trionfale al suo varo a Parigi nel 1779, e fu replicata per centocinquanta volte in tre anni, rimanendo in repertorio quasi sino a fine Ottocento. È stato un trionfo anche per la nuova produzione zurighese dell’opera gluckiana, decretato dai convinti applausi tributati dal pubblico premieristico soprattutto a Cecilia Bartoli. L’argomento del libretto di NicolasFrançois Guillard è tratto da Euripide, seppur elaborato attraverso opere più moderne, in particolare il dramma in prosa Iphigénie en Tauride del 1757 di Guimond de La Touche. Per i momenti fra i più lirici e toccanti del teatro di Gluck, il libretto può considerarsi il migliore da lui messo in musica. Questo suo ultimo lavoro per le scene è l’opera in cui meglio sono trasposte le teorie della riforma operistica di Gluck, rappresentando, visti i non pochi prestiti da sue opere precedenti, un sunto delle sue idee artistiche. Ma è nella configurazione musicale/melodica di Ifigenia che Gluck raggiunge l’apice: la giovane entra subito in scena come sacerdotessa di Diana, con il compito di assistere ai sacrifici umani in uso in Tauride.
I pregressi erano già stati trattati dal compositore in Iphigénie en Aulide. Una figura, quella di Ifigenia, irrazionalmente sopraffatta dagli accadimenti, e che regala fin dall’inizio attimi elegiaci e tenebrosi, drammatici e febbrili. La produzione è certo da annoverare fra le migliori degli ultimi tempi, in specie per la prestazione dell’Orchestra La Scintilla (con strumenti storici) diretta dal maestro milanese Gianluca Capuano, preciso e trascinante. E per Cecilia Bartoli, sempre in grado di adattare la sua mirabile voce differenziata alle esigenze del personaggio: una Ifigenia disperata e consapevole della maledizione che pesa sulla sua famiglia, e quasi persa nella fatalità degli eventi quando supplica Diana perché le conceda la morte nel I Atto, più convulsa in altri momenti. Bravi anche Stéphane Degout nei panni di Oreste, notevole nel II Atto con «La calme rentre dans mon coeur», e Frédéric Antoun in quelli di Pylade, un timbro caldo per un personaggio permeato di sentimenti d’affetto e amicizia per Oreste. Ottimo Jean-François Lapointe nel ruolo di Thoas, re degli Sciti in Tauride, ora duro, ora in preda ai più tetri presentimenti come nell’aria del I Atto «De noirs pressentiments mon âme intimidée». Lodevole anche il Chor der Oper Zürich diretto da Janko Kastelic. Oltre che sul confitto famigliare e su quello fra famiglia e società, la raffinata regia statica di Homoki propone una lettura incentrata sulla protagonista. Un vero coup de théâtre, inoltre, è quello di confondere Thoas con l’Agamennone del sogno di Ifigenia, e Clitemnestra con la dea (ex machina) Diana. Eleganti le scene di Michael Levine su cupi toni di nero e blu.
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Evviva l’ipocondria Lorenzo Marone pubblica da Einaudi l’Inventario di un cuore in allarme dove compie una disanima, molto divertente, delle varie forme che nella sua vita assume l’ipocondria. Non solo i neuroni-specchio, esistono anche i librispecchio: leggendoli, le nostre emozioni respirano in sincrono con quelle dell’autore. Se il lettore è a sua volta un ipocondriaco, emergono i ricordi delle tante volte in cui ha dovuto fare i conti con questa sindrome. La più impegnativa per me è la claustrofobia, per cui non prendo mai l’ascensore e salgo le scale a piedi anche se devo portare una valigia. Qualche rara volta succede che io mi venga a trovare davanti alla porta di un ascensore con persone che non voglio che scoprano questa mia debolezza. Entro nella cabina con gli altri e trattengo il fiato fino a quando non arriviamo al piano e le porte si aprono. Chiudo gli occhi ed è tale la concentrazione che, con la sola forza del mio pensiero, talvolta riesco a far bloccare la cabina fra un piano
e l’altro. Le forme che assume l’ipocondria sono pressoché infinite. Marone prova a stenderne un catalogo, per forza di cose parziale. Analizzandolo, deduco che sono un checkers, in pratica verifico le chiusure più volte in un breve arco temporale. Alla sera, quando in casa ci siamo tutti, chiudo con tre mandate la porta d’ingresso. Salvo essere già a letto, sotto le coperte, dopo aver posato sul comodino il libro e aver spento la luce, chiedermi se la porta è stata chiusa o no. Visto che nel dubbio non riuscirei a dormire, mi alzo vado nell’ingresso e naturalmente scopro che le tre mandate alla chiave erano già state date ore fa. Sono anche un orders, uno che ama mettere ordine nel caos. Non posso mettermi a letto e dormire se la cucina non è in perfetto ordine. I miei famigliari lo sanno e biecamente ne approfittano nelle sere in cui esco per andare a teatro o ai concerti. Rientro quando tutti gli altri dormono già, cosciente del fatto che se riesco a non vedere il caos che regna in
cucina sono salvo. Mi ricordo che devo assumere una medicina e per prendere un bicchiere d’acqua dal frigo entro in cucina al buio. Apro lo sportello del frigo e quella maledetta luce del suo interno è fioca ma sufficiente a illuminare il caos. Indosso il grembiule e mi metto a pulire. Volete sapere come trascorro i giorni successivi al Natale quando il tempo si ferma e non succede nulla? Svuoto uno per uno per uno i cassetti di tutta la casa e li metto in ordine. Non c’è piacere più grande. Secondo Lorenzo Marone l’ipocondriaco è un anticipatorio cronico. Verissimo, se devo prendere un treno esco di casa molto prima dell’orario di partenza così che se alla stazione dei taxi non ci sono macchine faccio in tempo ad arrivare a piedi. Sono più di quaranta anni che abito in questa casa e mai una volta ho visto la stazione dei taxi deserta di auto, ma non è detto, può sempre succedere. Esco e scopro che di taxi fermi ce ne sono sei e così arrivo in stazione quando ancora non è
indicato il binario di partenza del mio treno. O meglio del «nostro», perché da qualche anno mia moglie mi accompagna nei viaggi e vi lascio immaginare la sua faccia quando la costringo a sostare per ore in stazione. Nel libro un capitolo è dedicato ai grandi ipocondriaci della storia, primo dei quali Alessandro Manzoni, un autore da me amatissimo anche per questo motivo. Un paio di ipocondriaci famosi li ho visti da vicino. Paolo Conte se sfiora lo spigolo di un tavolo deve subito toccare gli altri tre. Cerca di farlo con disinvoltura e i presenti fanno finta di non accorgersene. Quando esce sul pianerottolo e deve chiudere la porta d’ingresso vuole farlo non con le mani ma con il gomito. Non è una manovra semplice e talvolta tocca inavvertitamente la maniglia. In quel caso sente la necessità di correre su e giù per la scale della casa per toccare, questa volta con le mani, tutte le altre porte. Guai se in sua presenza qualcuno canta o fischietta Lilì Marlene. Quanto
ad Adriano Celentano era per me una pacchia andare al ristorante con lui. Il titolare, lusingato, gli proponeva carne o pesce. Adriano rispondeva pesce e i cuochi gli cucinavano del pesce stupendo. Il padrone arrivava con un enorme piatto di portata, lo posava davanti a lui e si esibiva nella delicata operazione di spinarlo. La parti pregiate finivano in un piatto destinato a Celentano che lo punzecchiava con la forchetta e poi, andato via il titolare, me lo passava per paura che una lisca gli finisse in gola. E il rapporto con il cibo? «Ipocondriaci e salutisti sono un ossimoro»: noi mangiamo di tutto per calmare l’ansia. Il mio nome di battaglia è «la volpe del dessert». L’Inventario si conclude con una consolatoria lezione di vita. Dopo avere citato Philip Roth («la vita è solo un breve periodo di tempo in cui siamo vivi») contrappone la rassegnazione all’accettazione. Non dobbiamo mai rassegnarci ma accettarci con tutti i nostri difetti e tutte le nostre ipocondrie.
per rispetto alla tradizione, manterranno il titolo di sicari, distinti in sicari di prima, seconda o terza fascia, ma di fatto saranno amministratori locali, che non ammazzeranno nessuno avendo la fiducia della popolazione. Infame sarà chiunque non paga il pizzo, preponendo il tornaconto privato al bene della mafia; o chi agisca per delegittimare l’autorità della mafia costituita. Nelle questioni terminologiche resterà intatta la tradizione, e un articolo della legge mafiosa avrà questo motto: «tutti i quaquaraquà sono uguali di fronte alla mafia». Sarà infame anche chi dalla società mafiosa passerà alla militanza nel sistema occulto partitico. Come avviso di garanzia gli sarà recapitata una testa di pecora avvolta in un giornale, in modo che l’infame possa giustificarsi con una memoria difensiva. In caso contrario subirà la pena prevista: l’incendio del negozio, il danneggiamento dell’auto, cioè subirà un danno economico (equivalente all’ammenda); nei casi più gravi la
perdita del lavoro e la latitanza, cioè l’infame per non essere preso, si nasconderà in una cantina o in una celletta ricavata sotto il pavimento, dove dovrà restare anche per anni, il che equivale al carcere nel vecchio sistema partitico, con la differenza che sarà volontario e più umano. Nel frattempo in clandestinità i partiti delinquono. La mafia cerca di individuare i segretari, i comitati centrali, il loro parlamento, dove i capi partito si incontrano, per spartirsi i proventi delle attività criminose. Ma come si diventa funzionari di partito? Beh, bisogna mettersi in vista, con l’attivismo, una dose notevole di sfrontatezza, capacità di mentire, in certi casi partecipare a cortei dove si gridano slogan; nel caso danneggino auto, la mafia interviene; ma nei partiti è una benemerenza essere stati repressi, ad esempio col taglio di un orecchio o di un dito. I capi partito spesso si tradiscono con il colore blu delle auto, che sembra avere un significato iniziatico. Perché un individuo
qualunque militerà in un partito? invece che essere un mafioso d’onore, rispettoso, pronto a pagare le dovute tangenti, ligio all’omertà? Beh – dice lo studioso – è una questione di testosterone; sembra che i capi partito giunti a un certo grado possano disporre di più femmine oltre la moglie, anche femmine prezzolate e consenzienti. La mafia cerca di reprimere questo fenomeno criminale del sistema partitico, radicato in una mentalità, nell’idea che ci si debba raggruppare per opinione e dare battaglia alle altre opinioni, e non essere tutti uguali di fronte al padrino che provvede per il bene di tutti, senza pubblicità, senza ostentazione, non ce n’è bisogno, non è il padrino che si impone, è la folla degli uomini che crede in lui. La debolezza dei partiti sta nella guerra interna per quella cosa che chiamano nel loro gergo «poltrona». L’uomo è una pianta storta, neppure la mafia riuscirà a raddrizzarla, ha detto lo studioso (che dicono appartenente alla cupola).
e a chi vendere», «come saper vendere se stessi», «come superare timidezza, paura, insicurezza», «come vincere le paure per diventare imprenditore e lasciare il posto fisso», «come vendere al telefono, come vendere con il corpo». Prezzo del corso: 5250 euro, ma solo 499 per i primi duecento iscritti. Con mille euro si impara anche «come rialzarsi dopo un fallimento». (1 a prescindere, da dividere per due: si rialzeranno dal fallimento?). 3. Almeno 14 bambini sono morti nella calca in una scuola elementare di Kakamega, Kenya occidentale. Altri 40 sono stati feriti. Si trovavano su una scalinata che è crollata. Alcuni sarebbero caduti dal terzo piano dell’edificio. (Scuola di legno e lamiera: ma non dovevamo aiutarli a casa loro?). 4. Scritta apparsa in un condominio di Norwich: «Qui da oggi si parla solo inglese». (Solo inglese, esattamente come nell’Unione Europea?). 5. Le ricercatrici dell’Istituto Spallanzani, impegnate nell’emergenza Coronavirus, hanno declinato l’invito al
Festival, sollecitato da diversi esponenti politici. (Possibile che avessero cose più urgenti da fare che incontrare Amadeus? 6+). 6. Niente più ricreazione all’aperto: un preside di Treviso ha vietato l’accesso al cortile durante la pausa agli alunni della scuola dell’infanzia per un eccesso di smog. (Divieto di circolazione alle auto la domenica, divieto di circolazione ai bambini durante la settimana: 2 alle autorità comunali). 7. Martedì scorso Cristiano Ronaldo ha raggiunto Sanremo per cenare con la compagna Georgina Rodriguez, che giovedì sera sarebbe salita sul palco dell’Ariston: il calciatore ha prenotato un ristorante libero da clienti perché fosse interamente a loro disposizione. (Avrà preteso che anche l’Ariston venisse sgombrato, durante la performance della fidanzata, per godersela in solitudine? Non ci sarebbe da meravigliarsi se tra poco, nella sua immensa megalomania, CR7 chiederà di liberare il campo per poter giocare da solo… Voto: –7).
8. La vera notizia (terribile, –8) delle due giornate e forse della settimana e forse del mese è che Cecilia Bembibre, ricercatrice dell’Institute for Sustainable Heritage di Londra, sta provando a creare una biblioteca degli odori antichi, quelli che rischiano di scomparire o sono già scomparsi. Odore dei libri, odore del potpourri, odore dei vecchi guanti di pelle, odore delle muffe nei palazzi storici o nei giardini. Dopo il ritorno di Romina e Al Bano, dopo il restauro della brunetta dei Ricchi e Poveri, ci mancava il rilancio degli odori del tempo che fu: pure la madeleine proustiana diventerà notizia ordinaria. Niente più ricerca del tempo perduto, visto che il tempo perduto sarà irrimediabilmente ritrovato e visitabile in archivio. Bisognerà fare di tutto per riperderlo perché non diventi ordinario come una polemica sulla legge elettorale, come una bugia di Trump, come un rigore alla Juve, come alla cafonata di Ronaldo, o come una standing ovation a Sanremo.
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni Lo studioso della mafia dice Come sconfiggere la mafia? Il problema – ha detto un rinomato studioso di Palermo – è mal posto. La mafia è un sistema affaristico e di potere alternativo allo Stato parlamentare. Un giorno semplicemente la mafia si potrebbe sostituire allo Stato e ai partiti come sistema sociale legittimo. Sarebbe peggio? Non credo, ha scritto lo studioso. Per prima cosa la mafia si ammorbidirebbe, non sarebbe più un sistema delinquenziale ma l’organizzazione accettata della pubblica amministrazione; abbandonerebbe il commercio di stupefacenti, che passerebbe in mano ai partiti, i quali, non avendo più finanziamenti statali, dovrebbero trovare il modo di sopravvivere; agirebbero nell’illegalità, i soldi li dovrebbero estorcere in cambio di promesse su un futuro migliore, con lo slogan «droga per tutti»; i partiti si spartirebbero il territorio per delinquere meglio, e fare proseliti. Non avendo più la televisione e i giornali come strumento di affermazione, passerebbero alle
intimidazioni, e tutta la violenza verbale che si vede oggi, diventerebbe violenza fisica. La mafia intanto si sarebbe spostata dalla minaccia alla persuasione: se ognuno paga il pizzo dovuto possiamo garantire più facilmente la sicurezza, la protezione, la viabilità, il decoro urbano, il verde pubblico, le scuole e così via. Ma i padrini intelligenti cercherebbero di farne una questione etica; direbbero: ognuno deve sentire la tangente o il pizzo come un dovere; infatti sarebbe meno costoso, niente sicari, armi, personale per la riscossione forzata, e quindi il pizzo sarebbe minore, l’economia crescerebbe. Dell’apparato mafioso non si può fare a meno – direbbe il padrino – perché garantisce la convivenza civile, giudica torti e ragioni, emette sentenze, il che ha un costo. Il padrino stesso viene a costare, è necessario un appannaggio, per il suo ruolo di rappresentanza davanti agli altri sistemi mafiosi, per il decoro della famiglia, la sua funzione di legislatore ecc. I sicari di un tempo,
Voti d’aria di Paolo Di Stefano La perdita del tempo ritrovato Chiedo aiuto ad Anteprima, la «spremuta» dei giornali di Giorgio dell’Arti, che mi arriva ogni mattina sull’Ipad (5½), per cercare di cogliere il succo aspro delle nostre giornate (di certe nostre giornate). Lasciamo perdere gli ordinari litigi all’interno del governo italiano sulla prescrizione e su quasi tutto; lasciamo perdere gli ordinari attacchi di Salvini a Conte e le ordinarie risposte di Conte a Salvini; lasciamo perdere l’ordinaria psicosi isterica da Coronavirus; lasciamo perdere l’ordinario calo del Movimento 5Stelle; lasciamo perdere le ordinarie polemiche sulla legge elettorale (il Germanicum dopo il Porcellum? Uhau! 2); lasciamo perdere l’ordinaria opposizione di Renzi al governo di cui fa parte; lasciamo perdere l’ordinario superamento delle soglie di inquinamento nelle città; lasciamo perdere l’ordinario commovente spettacolo nazional-popolare sanremese (4–); lasciamo perdere l’ordinaria felicità di Romina e Al Bano (3) e le ordinarie standing ovation al Teatro Ariston per
Al Bano e per i Ricchi e Poveri formato revenant (4+). Lasciamo perdere l’ordinarietà dell’ordinario, tipo il rigore dubbio concesso alla Juventus e l’ordinarietà delle conseguenti ordinarie polemiche. Che cosa rimane? Al netto delle mille ordinarietà, prendendo un paio di «spremute» a caso, supponiamo quelle del 4 e del 5 febbraio scorso, rimangono notizie che sembrano arrivate da un altro mondo, come se tra l’ovvietà e l’assurdo ci sia il vuoto pneumatico (o vuoto d’aria). Qualche esempio? 1. Gianmarco Lorito, di anni 44, agente della Polizia locale del Bresciano, parcheggiò l’auto davanti al comando di Polizia di Palazzolo sull’Oglio dove lavorava da anni, estrasse la pistola d’ordinanza e si sparò in testa. Era stato attaccato sui social per aver parcheggiato in un posteggio per disabili. Aveva chiesto scusa e s’era automultato di 100 euro. 2. Wanna Marchi e sua figlia Stefania Nobili promettono di insegnare, a chi si iscrive ai loro corsi di marketing, «cosa
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20% Pasta Anna's Best in confezioni multiple gnocchi alla caprese, fiori ai funghi e ricotta o spätzli alle verdure, per es. gnocchi alla caprese in conf. da 2, 2 x 400 g, 7.90 invece di 9.90
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Mezza panna UHT Valflora in conf. da 2 2 x 500 ml
5.–
Tutte le praline in scatola Frey e le praline Adoro invece di 7.50 Frey, UTZ Petit Beurre con cioccolato in conf. da 3 (confezioni multiple escluse), per es. palline Adoro al latte o fondente, per es. al latte, 3 x 150 g al latte, 200 g, 6.30 invece di 7.90
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Tutti i brodi Knorr in barattolo Mandorle, gherigli di noci o albicocche secche a partire da 2 pezzi, 2.– di riduzione l'uno, Sun Queen in conf. da 2 per es. estratto di verdure, 250 g, 6.40 invece di 8.40 per es. mandorle, 2 x 200 g, 4.80 invece di 6.–
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di riduzione Tutti i tipi di pasta M-Classic a partire da 2 pezzi, –.30 di riduzione l'uno, per es. pipe, 500 g, 1.15 invece di 1.45
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20% Tutto l'assortimento di prodotti per la cura delle labbra (Bellena, Kneipp e cosmesi decorativa esclusi), per es. Labello Original, 2 pezzi, 2.55 invece di 3.20, offerta valida fino al 24.2.2020
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20% Tutti i prodotti pH Balance in confezioni multiple per es. gel doccia in busta di ricarica, conf. da 2, 2 x 500 ml, 8.30 invece di 10.40, offerta valida fino al 24.2.2020
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Tutti i detersivi Total Carta igienica Hakle in confezioni speciali a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione, per es. verwöhnende Sauberkeit, FSC, 24 rotoli, 15.80 invece di 26.40, offerta valida fino al 24.2.2020 offerta valida fino al 17.2.2020
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Tutti i tutti i fazzoletti di carta o le salviettine cosmetiche Kleenex in conf. multiple per es. salviettine cosmetiche Collection in scatola quadrata in conf. da 3, 3 x 48 pezzi, 5.25 invece di 6.60, offerta valida fino al 24.2.2020
40% Tutto l'assortimento di set da tavola, tovaglie e strisce centrotavola Cucina & Tavola per es. tovaglia con gufi, 140 x 180 cm, il pezzo, 8.95 invece di 14.95, offerta valida fino al 24.2.2020
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7.40 invece di 9.30 Manella in conf. da 3 per es. Balsam, 3 x 500 ml, offerta valida fino al 24.2.2020
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Slip da donna Basic+ Midi Sloggi in conf. da 3 disponibili in nero o bianco, taglie 38–48, per es. bianchi, taglia 38, offerta valida fino al 24.2.2020
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Appendiabiti in conf. da 12, nero valido fino al 24.2.2020
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