Azione 08 del 17 febbraio 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Il progetto di educazione musicale gratuita per bambini e ragazzi Superar Suisse ha festeggiato i suoi primi 5 anni a Lugano

Ambiente e Benessere La dottoressa Natalie Marcoli, reumatologa all’Ospedale Regionale di Lugano, parla delle malattie infiammatorie autoimmuni e delle nuove terapie

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 17 febbraio 2020

Azione 08 Politica e Economia In Germania la lunga stagione del Dopoguerra è finita, ne sta per cominciare una nuova all’insegna dell’incertezza

Cultura e Spettacoli Riflettere sulla vita, la memoria, il perdono e la storia, insieme a Wlodek Goldkorn

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Banco di prova per la via bilaterale

Mono e dualsci, maestri speciali del circo bianco

di Peter Schiesser

di Davide Bogiani

ASP

La campagna per il voto del 17 maggio è cominciata, e il Consiglio federale non lascia dubbi riguardo la sua posizione: come dichiarato da Karin Keller-Sutter nella conferenza stampa dell’11 febbraio, questa sull’iniziativa popolare dell’UDC per una limitazione dell’immigrazione «è forse la più importante votazione di questa legislatura, il popolo decide sul futuro della via bilaterale con l’Europa». Sì, perché l’iniziativa, se accolta, non avrebbe soltanto l’effetto di abrogare la libera circolazione, ma farebbe decadere anche gli altri sei accordi del primo pacchetto, rendendo anche molto improbabile la prosecuzione degli accordi di Schengen e di Dublino. Il primo pacchetto contiene infatti la «clausola ghigliottina», ossia l’articolo 25 capoverso 4 secondo cui i sette accordi cessano automaticamente di applicarsi dopo sei mesi dal ricevimento della notifica relativa alla denuncia anche di un solo accordo. L’iniziativa è figlia di quella del 9 febbraio 2014 contro l’immigrazione di massa, accolta con il 50,3 per cento di voti. A suo tempo i fautori dell’iniziativa sostenevano che i tre anni di tempo per concretizzarla avrebbero permesso al Consiglio federale di rinegoziare con Bruxelles la politica d’immigrazione, in caso contrario avrebbe dovuto reintrodurre i contingenti per la manodopera straniera. Invece, la Commissione europea si rifiutò di rinegoziare la libera circolazione, il Consiglio federale non cavò un ragno dal buco e il 16 dicembre 2016 le Camere federali approvarono una legge di applicazione che tolse tutti i denti all’iniziativa, evitando sia l’abolizione della libera circolazione, sia l’introduzione dei contingenti, accontentandosi di una «preferenza indigena light». L’ambiguità del testo dell’iniziativa (non si citava espressamente l’abolizione della libera circolazione) aveva permesso dei contorsionismi politico-giuridici, l’UDC ha quindi voluto lanciare una nuova iniziativa che chiedesse senza mezzi termini l’abolizione della libera circolazione – su questa voteremo appunto il 17 maggio. Tatticamente, i fautori della nuova iniziativa sostengono ancora che gli altri accordi bilaterali non sono in pericolo, che l’Unione Europea ha interesse a mantenere buoni rapporti economici con la Svizzera, che comunque è più importante la nostra sovranità. Tuttavia, oggi i sondaggi sembrano indicare che Oltralpe una maggioranza è invece ben consapevole che in gioco ci sono tutti gli accordi, che si tratta di una scelta chiara fra via bilaterale e isolazionismo. Ma anche all’interno della stessa UDC, in particolare fra chi è vicino all’economia, l’iniziativa non fa l’unanimità. Si è consapevoli che per la Svizzera perdere tutti gli accordi avrebbe conseguenze troppo negative. Da quanto saputo da una fonte vicina al Consiglio federale, persino i due consiglieri federali UDC Ueli Maurer e Guy Parmelin sono contrari all’iniziativa, e così l’ha lasciato intendere anche Karin Keller-Sutter nella sua conferenza stampa: «Tutti i membri del Consiglio federale si impegneranno in favore della libera circolazione». In successive interviste la consigliera federale ha sottolineato che questa volta il fronte favorevole agli accordi bilaterali con l’UE non intende farsi cogliere impreparato: il 9 febbraio 2014, sia i fautori sia gli oppositori dell’iniziativa erano rimasti sorpresi (i primi pensavano di perdere, i secondi di vincere); oggi fra i contrari non ci si accontenta di sondaggi favorevoli, ci si conta e si serrano le fila. Va intesa in questo senso la rendita ponte per disoccupati sessantenni concordata da imprenditori e sindacati, patrocinata da Keller-Sutter: serve per riportare i sindacati sulla barca europeista dopo la crisi di fiducia dell’estate 2018, in seguito alle avventate dichiarazioni di Schneider-Ammann e Cassis sulle misure di protezione dei lavoratori. Non si è ancora al punto da aver trovato una posizione comune sull’accordo quadro negoziato con l’Unione Europea, ma per la campagna del 17 maggio si è d’accordo di voler difendere insieme la libera circolazione, per salvare i Bilaterali. Ma chi farà campagna contro l’iniziativa dovrà dirlo e riconoscerlo: la libera circolazione non è solo rose, ci sono anche spine. Le rose sono la manodopera specializzata di cui l’industria svizzera ha bisogno: essendo di dimensioni sproporzionate rispetto alle esigenze della popolazione poiché rivolta all’esportazione, non ne troverà mai abbastanza in Svizzera, per una pura questione numerica. Le spine sono le difficoltà che vivono regioni di frontiera come il Ticino, con una pressione dall’Italia che può creare dei problemi di concorrenza e di pressione sui salari (benché le statistiche non lo evidenzino). Tuttavia, persino il Ticino potrebbe un giorno rimpiangere l’abbondanza di manodopera qualificata, poiché nei prossimi decenni in Europa ci sarà una dura lotta per accaparrarsi i migliori professionisti, visto che sul Vecchio Continente la popolazione sta calando. E una mentalità antiimmigrazione potrebbe scoraggiarli dal venire in Ticino.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Idee e acquisti per la settimana

Merluzzo selvatico norvegese

Attualità Lo skrei è di nuovo disponibile per un periodo limitato

presso i banchi del pesce Migros

Azione 20% Filetto dorsale di merluzzo Skrei MSC, Norvegia 100 g Fr. 3.80 invece di 4.80 dal 18 al 22.02

Lo skrei è un pregiato merluzzo dalle carni saporite e tenere. È pescato solamente tra gennaio e aprile nei freddi mari delle isole Lofoten, nel nord della Norvegia. Qui, ogni anno, interi banchi di pesci giungono dal mare di Barents per deporre le uova, percorrendo oltre 1000 km. Ed è proprio durante questo lungo tragitto che i merluzzi sviluppano le loro pregiate proprietà culinarie: una carne soda, gustosa e delicata.

La pesca dello skrei avviene con metodi tradizionali ed è scrupolosamente regolamentata dalle autorità norvegesi alfine di preservarne gli stock. Una ricetta semplice ma gustosa a base di questo merluzzo? Per 4 persone: tagliare una verza da 500 g a striscioline. In una padella soffriggere a fuoco vivo per 5 minuti 1 scalogno e 2 spicchi d’aglio tritati, 100 g di pancetta da arrostire a pezzetti e la verza.

Unire 2 dl di panna, incoperchiare e cuocere a fuoco medio per altri 5 minuti. Salare e pepare. Condire 4 filetti di merluzzo da circa 200 g l’uno con sale e pepe e rosolarli da entrambi i lati in un po’ d’olio per circa 5 minuti. Distribuire sui piatti la verza alla pancetta e adagiarvi sopra i filetti di merluzzo. Cospargere i piatti con un trito di erbe aromatiche (per esempio aneto o prezzemolo) e servire subito.

Carnevale per tutti i palati

Attualità I Pettegolezzi di Colombina, i Galani dei Dogi e le Lattughe senza glutine e latte colorano la festa più allegra

dell’anno di nuovi sapori

Lattughe senza glutine e senza latte 100 g Fr. 4.30 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Pettegolezzi di Colombina 125 g Fr. 2.80 Galani dei Dogi 200 g Fr. 3.50

Nel suo assortimento carnascialesco Migros propone due classici dolci della tradizione italiana: i Pettegolezzi di Colombina e i Galani dei Dogi. Sono preparati con un impasto tanto semplice quanto genuino a base di farina di frumento, zucchero, uova e tanto burro. La delicata friggitura in olio di girasole assicura un dolcetto

croccante e dorato al punto giusto. Entrambi i prodotti sono preparati in Veneto da un’azienda con una lunga esperienza alle spalle nella produzione di dolci di carnevale. D’altronde non è certo un caso che questa regione italiana possa vantare tra le sue specialità diversi prodotti carnevaleschi, dal momento che ospita uno

degli eventi festaioli più famosi al mondo: il Carnevale di Venezia. Tra questi, oltre ai già citati, si possono per esempio menzionare le frittelle. Una delizia per celiaci

Anche gli intolleranti alle farine convenzionali e al latte non devono certo rinunciare al piacere di trascorrere

un carnevale all’insegna della bontà e della tradizione. Per loro abbiamo introdotto nell’assortimento le Lattughe senza glutine e latte, sviluppate specificamente per i celiaci. Sono realizzate da un’azienda specializzata nei prodotti senza glutine di alta qualità. Golosamente croccanti e friabili, spolverate con zucchero a

velo, sono perfette da gustare tra una baldoria e l’altra. La ricetta originale delle Lattughe è composta da una miscela di vari ingredienti certificati senza glutine e latte, tra cui amido di mais, farina di riso, fecola di patate, grassi vegetali e uova. Non contengono altri allergeni, né olio di palma.

Il gustoso prosciutto cotto Puccini Attualità Carne svizzera selezionata e una perfetta lavorazione artigianale per un prodotto di alta qualità Tra i diversi prosciutti cotti dell’assortimento Migros, spicca sicuramente il prosciutto Puccini. Questa specialità dal gusto pieno e delicato viene preparata con cosce di maiali allevati in Svizzera nel rispetto delle esigenze della specie. La lavorazione artigianale è affidata ai Mastri Salumieri della Rapelli di Stabio. Le cosce, una volta accuratamente selezionate, vengono disossate e rifilate, al fine di escludere le parti più dure, e quindi insaporite con una salamoia composta da spezie e erbe aromatiche segrete. I prosciutti vengono poi cotti lentamente nel forno a vapore, procedimento che consente di esaltare la delicatezza e l’aroma del prodotto finito, come pure la caratteristica colorazione rosa. Il prosciutto cotto Puccini è un prodotto naturale, privo di polifosfati aggiunti, di glutammato e senza derivati del latte e glutine. Una vera finezza che promette un’esperienza gustativa incomparabile in ogni momento della giornata.

Azione 30% Prosciutto cotto Puccini Rapelli prodotto in Ticino affettato fine in vaschetta per 100 g Fr. 2.75 invece di 3.95 dal 18 al 24.02


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Idee e acquisti per la settimana

Plastica addio! Nel corso del 2020 l’intero assortimento di stoviglie in plastica usa e getta sparirà dall’assortimento Migros. Si punterà su prodotti in cartone, legno, foglie di palma, bambù e bioplastica, molti dei quali già disponibili. Con questa modifica, per la fine dell’anno Migros risparmierà ca. 560 tonnellate di rifiuti di plastica.

cati FSC. La carta proviene da una gestione delle risorse boschive rispettosa dell’ambiente. Consiglio: per le feste di compleanno o altre occasioni, sui bicchieri si possono scrivere i nomi degli invitati oppure possono essere decorati con fantasia, contrariamente ai bicchieri di plastica.

Piatti in foglie di palma

Conosciuto anche con l’abbreviazione di CPLA, questo materiale è costituito da plastica biodegradabile ottenuta a partire principalmente da acido polilattico cristallizzato. Consiglio: queste posate possono essere lavate e riutilizzate più volte. Una volta usurate, si possono gettare nei rifiuti domestici.

Coltelli e forchette in bioplastica

Sono prodotti a partire da foglie che si staccano da sole durante la crescita della palma. Questi piatti sono neutri rispetto al sapore e resistono al calore fino a 220°C. Consiglio: si possono gettare nel compostaggio domestico o negli scarti vegetali. Stesso principio vale per i bastoncini di legno per mescolare.

Calici da spumante

Per il momento Migros non ha ancora trovato un’alternativa ecologica ai calici monouso. Se entro la fine del 2020 non verrà trovata una soluzione, quest’ultimi verranno eliminati dall’assortimento. Consiglio: non c’è niente di meglio di un bicchiere di vetro per brindare con lo spumante, non credete?

Bastoncini di legno per mescolare

Fabbricati in legno di betulla certificato FSC, provengono da una gestione forestale sostenibile. Consiglio: dopo l’uso, questi bastoncini possono per esempio essere utilizzati per accendere il fuoco. Bicchieri in carta

Questi bicchieri da 35 cl sono certifi-

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Società e Territorio Disoccupazione giovanile L’impegno della Fondazione ch e dell’Ufficio misure attive del Cantone per aiutare i giovani ad entrare nel mondo del lavoro pagina 5

Formazione e nuove tecnologie Un nuovo corso di bachelor della SUPSI mira a formare figure professionali negli ambiti dell’Intelligenza Artificiale e dei Big Data pagina 9

Peace Force In alcune scuole medie del Cantone è attivo un programma di mediazione tra pari che aiuta i ragazzi a risolvere i conflitti pagina 11

Crescere con la musica Superar Il progetto sociale di didattica

musicale nato negli anni Settanta in Venezuela è oggi una realtà anche in Svizzera e a Lugano dove ha festeggiato i 5 anni di attività con un concerto al LAC

Valentina Grignoli Strumenti musicali che abbattono le barriere sociali, permettendo a tanti giovani di diventare musicisti. Un’arte che unisce, segna una via, permette di crescere, e superare le difficoltà, un’arte per tutti. Questo è quanto si propone di fare Superar, un progetto di respiro europeo che dà la possibilità a bambini e adolescenti di avvicinarsi e appassionarsi alla musica d’insieme offrendo didattica, strumenti e vita d’orchestra. Ad un’unica condizione: prendere l’esperienza sul serio. L’iniziativa Superar è nata a Vienna nel 2009 dal Konzerthaus insieme al Vienna Boys Choir e la Caritas dell’Arcidiocesi della capitale austriaca. Tre anni dopo prende via Superar Suisse, e da cinque è attiva un’orchestra anche a Lugano. Bacino d’utenza gli allievi delle scuole Viganello, Besso, Breganzona, Barbengo, Bozzoreda, Pregassona, Cassarate, Gerra, Paradiso e Molino Nuovo tra gli 8 e i 14 anni di età. L’educazione musicale è di alta qualità, sia nella formazione della voce e del canto, che in quella strumentale orchestrale, ed è per tutti, a prescindere da origine famigliare e situazione economica. Domenica 9 febbraio il concerto al LAC di Lugano per festeggiare il lustro di attività di Superar ha visto insieme sul palco ben 200 tra bambini e ragazzi di diverse orchestre, diretti dal Maestro Carlo Taffuri. «Il messaggio primario è fare musica tutti insieme. Ma è anche un discorso educativo, si studia e si riceve uno strumento, conquistandosi un piccolo tesoro, l’accesso alla musica e la scoperta delle proprie capacità artistiche» ci racconta il Direttore dell’Orchestra Superar, composta a Lugano solo da archi. Un discorso che parte da lontano, esattamente dal Venezuela nel 1975, quando José Antonio Abreu, musicista, attivista politico, educatore e accademico, creò «El sistema», una fondazione per la promozione sociale dell’infanzia e della gioventù attraverso un percorso innovativo di didattica musicale. Certo, la Svizzera non è il Sudamerica, ma a volte le difficoltà da superare (dallo spagnolo Superar: superare, an-

dare oltre i limiti, vincere, crescere) sono le stesse che ci sono negli altri paesi. «In Venezuela si cercava di aiutare quella parte di popolazione che non aveva niente, di dargli stimoli – dice Taffuri. Chi nasce in un barrio ci muore, purtroppo. Si vuole far emergere l’eccellenza, nei ragazzi. Anche a Lugano ci sono problemi, famiglie che fanno fatica, che non si sarebbero mai avvicinate alla musica altrimenti. Anche qui l’importante è far emergere le molte eccellenze nascoste. L’immigrazione è una realtà, parte della società, trovo giusto integrare attraverso la musica. Crediamo in questo progetto sociale». La musica può essere sotto diversi aspetti elitaria, sia da fare – si pensi anche solo al costo di lezioni e strumento –, che da fruire. Superar, in collaborazione con Lugano Musica, propone a prezzi ridotti anche alcuni appuntamenti della stagione: «Il LAC si riempie di famiglie che altrimenti non entrerebbero in un teatro», ci racconta Taffuri descrivendo un percorso educativo e sociale che non si limita quindi ai ragazzi ma si estende alla cerchia famigliare, per scoprire che «la vita è fatta di altro». Si tratta comunque di un progetto che richiede grande impegno da parte dei ragazzi, questo va sottolineato, ma «l’importante è imparare a dare qualcosa per il gruppo. Sono due lezioni di circa 3 ore a settimana, qualcosa di più, ma con la passione si riesce a far tutto. Alcuni si fermeranno qui, soddisfatti dall’esperienza, altri, più appassionati, si avvicineranno al conservatorio per intraprendere un percorso professionale». La musica aiuta poi a affrontare il disagio sociale, in diversi modi: c’è la forza del gruppo, il fare parte di un insieme e dovervi contribuire con il proprio strumento, ma c’è anche un sostegno pratico. «È un’arte che aiuta la dislessia, per esempio, o la balbuzie, studi scientifici lo confermano. I balbuzienti, quando cantano, è come se non lo fossero, e i violinisti dislessici hanno una qualità di suono diversa, più bella. Parlando di disagio sociale invece, stare nell’orchestra per tutto questo tempo dà qualcosa da fare ai ragazzi, e molto banalmente, c’è meno tempo per fare sciocchezze».

Superar propone a bambini tra gli 8 e i 14 anni sia una formazione strumentale orchestrale sia corale. (Samuele Schalch)

Anche per chi ci lavora, come il Maestro Taffuri, è una scuola: «Torno a casa dalle prove con nuova energia, imparo dalle situazioni cui Superar mi confronta. Un’esperienza che porto con me anche in altri lavori. Come violinista ho cambiato modo di affrontare la musica, sono più sicuro di me. L’obiettivo di far crescere questo gruppo negli anni mi motiva ad andare sempre più avanti». Un gruppo composto oggi da coro, 35 ragazzi diretti dal Maestro Pino Randazzo, e orchestra, i 70 che suonano violino, viola, violoncello e contrabbasso. Tra questi spicca l’esperienza di Dafina, una quattordicenne violinsita che ha fatto, a parere di Carlo Taffuri, un bellissimo percorso. «È iniziato tutto con un doposcuola – ci racconta la ragazza – avevamo visto i ragazzi di Zurigo e il Maestro Taffuri ci aveva

spiegato di che si trattava. Io ho iniziato un po’ per caso: non ero particolarmente interessata alla musica, i miei non erano nemmeno d’accordo, anche se a casa nostra la musica è sempre stata importante, era impegnativo. Poi mio fratello mi ha convinta e dalle semplici lezioni di ritmica e solfeggio mi sono ritrovata in mano un violino, e direttamente concerti al LAC, a Zurigo, in scuole e case anziani». Uno strumento che ha «chiamato» Dafina direttamente dall’orchestra per non lasciarla più, tanto che ora a fine medie punta a liceo musicale e conservatorio. «La musica mi dà tanto, amicizie, viaggi, conoscenza, l’aiuto reciproco e la comprensione dell’altro attraverso le note. Sono cresciuta insieme alla musica in questi anni, l’orchestra è diventata la mia seconda famiglia. Certo, ho molto meno tempo per fare tutto, tra scuola, orche-

stra e amici, ma mi prendo più responsabilità per quello che faccio». Un arricchimento e una maturità sentiti anche da Ilaria, mamma di due musiciste dell’orchestra, in maniera tangibile: «Il far parte di un’orchestra è anche una scuola di vita poiché si acquisisce la consapevolezza di doversi relazionare ed armonizzare con altri, sentendo la responsabilità, ma assumendola senza imposizioni formali ed insensate, per un obbiettivo condiviso e gratificante. Le mie figlie, tra i diversi vantaggi che hanno acquisito negli anni a livello musicale, hanno potuto allargare gli orizzonti e vedere altre realtà oltre a quella nella quale vivono». Superar quindi, in una parola. Informazioni

www.superarsuisse.org


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Agognato primo impiego

Giovani e lavoro La disoccupazione giovanile è una piaga, ma vi sono programmi per offrire occasioni

di formazione a chi non trova lavoro. Fra questi «Piaget – Primo impiego» gestito dalla Fondazione ch

Fabio Dozio I giovani disoccupati ticinesi si danno da fare e vanno volentieri a imparare il tedesco o il francese nella Svizzera interna. Chi ha concluso una formazione e non trova subito un lavoro può approfittare di un periodo di pratica professionale nel resto della Svizzera. Si tratta del programma di stage «Piaget – Primo impiego», organizzato dalla Fondazione ch su mandato della Segreteria di Stato dell’economia (SECO). È un progetto nazionale, in vigore dagli anni Novanta, e i ticinesi sono tra i più assidui frequentatori: rappresentano l’80% dei giovani che scelgono questa opportunità. La disoccupazione giovanile in Svizzera è piuttosto contenuta. Bisogna chiarire che vi sono due dati: quello della SECO, che registra i disoccupati iscritti agli Uffici di collocamento, e quelli dell’Ufficio federale di statistica, i dati ILO, che indicano – sulla base di sondaggi – il numero di chi è in cerca di lavoro. Anche per quanto riguarda la realtà giovanile vi è una discrepanza fra i due dati: il tasso ILO è circa tre volte quello SECO. Per dare un’idea del fenomeno, facciamo riferimento ai più recenti dati SECO. Alla fine di dicembre i disoccupati in Svizzera erano 117’277, di questi 2590 avevano tra i 15 e i 19 anni; 9800 tra i 20 e i 24 anni. Il tasso di disoccupazione medio era al 2,3%. Un dato incoraggiante se confrontato con altri paesi a noi vicini. «Benché il contesto economico sia favorevole – scrive la SECO – la lotta alla disoccupazione giovanile rimane prioritaria, perché per le persone colpite e per la società le conseguenze sono particolarmente gravi».

L’Ufficio misure attive del Cantone organizza per i giovani dei periodi di pratica professionale (PPP) nelle aziende private o pubbliche I cambiamenti nel mondo del lavoro degli ultimi anni condizionano anche il primo impiego dei giovani. Le situazioni di precariato e di insicurezza si moltiplicano e i tempi per inserire i giovani nel mondo del lavoro si allungano. L’Ufficio misure attive del Cantone offre opportunità ai giovani organizzando periodi di pratica professionale nelle aziende, private o pubbliche, del Canton Ticino. «Il Parlamento ticinese – spiega il Dipartimento delle finanze e dell’economia – si è impegnato a far fronte al problema della disoccupazione giovanile causata dalla carenza di esperienza lavorativa delle persone al primo impiego. Il Canton Ticino, con la Legge sul rilancio dell’occupazione e sul sostegno

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Per la SECO la lotta alla disoccupazione giovanile rimane prioritaria perché per le persone colpite le conseguenze sono particolarmente gravi. (Keystone)

ai disoccupati (L-Rilocc), si assume il 50% della partecipazione finanziaria a carico del datore di lavoro che svolge il periodo di pratica professionale». Lo scorso anno, dall’ottobre del 2018 al settembre del 2019, in Ticino 120 persone hanno beneficiato dei periodi di pratica professionale (PPP) organizzati dall’Ufficio misure attive. In quel periodo sei giovani su dieci hanno trovato un impiego grazie al programma. «I periodi di pratica professionale (PPP) – ci spiega la responsabile della Sezione Lavoro del DFE Claudia Sassi – sono una misura di reintegrazione professionale indirizzata a coloro che necessitano di approfondire conoscenze professionali, di acquisire esperienze professionali e di allacciare contatti nell’ambito della propria professione o di un’attività affine. In passato si sono rivelati una misura molto utile soprattutto per i giovani al primo impiego, perché hanno permesso loro di acquisire esperienza professionale e di rendersi visibili a potenziali datori di lavoro». Il Programma Piaget della Fondazione ch è rivolto a tutti i giovani disoccupati che hanno concluso una formazione professionale o universitaria, senza o con poca esperienza lavorativa. Unica condizione: devono essere iscritti agli Uffici di collocamento cantonale (URC). Questi gio-

vani hanno la possibilità di effettuare sei mesi di pratica professionale in un’altra regione linguistica della Svizzera. Lavorano all’80% in un’azienda e ricevono mensilmente le indennità della propria cassa di disoccupazione. Un giorno alla settimana partecipano a un corso di lingua, finanziato dalla Fondazione ch fino a un importo di duemila franchi. Naturalmente questo avviene grazie al trasferimento nella regione linguistica dove svolgono lo stage professionale e per questo ricevono un finanziamento di 300 franchi al mese per l’alloggio. L’obiettivo del programma è offrire al giovane la possibilità di migliorare le proprie conoscenze linguistiche e acquisire nuova esperienza professionale ai fini di aumentare la possibilità di trovare un’occupazione. La Fondazione ch, che gestisce questo programma su mandato della SECO, è nata nel 1967 e ha come obiettivo principale quello di difendere la coesione nazionale e di sviluppare e rafforzare il federalismo. Per questo la cooperazione intercantonale è importante e lo scambio di giovani fra le regioni linguistiche rappresenta un’opportunità. «Negli ultimi anni abbiamo avuto in media tra 100 e 150 iscrizioni l’anno. – ci dice Silvia Mitteregger, responsabile di Fondazione ch per il programma – Il numero di

stage realizzati varia da anno in anno, a seconda della situazione della disoccupazione giovanile e del mercato del lavoro. Negli ultimi cinque anni avevamo in media tra i 70 e i 100 stage. Dalla Svizzera italiana nel 2018 i partecipanti erano 84, lo scorso anno gli stagisti erano 58». I ticinesi sono i giovani più motivati a seguire il programma Piaget: il nome è un omaggio al grande psicologo ed epistemologo romando morto quaranta anni fa. Come mai i giovani della Svizzera interna non sono interessati, o lo sono poco? «Abbiamo poche informazioni riguardo ai motivi per i quali la partecipazione di giovani della Svizzera tedesca è molto ridotta. – precisa Mitteregger – Presumiamo che l’importanza di conoscenze di un’altra lingua nazionale non sia così spiccata. Uno stage in un’altra regione linguistica presuppone inoltre che questo periodo di pratica sia un vero vantaggio per il proprio percorso professionale. Essendo il mercato del lavoro nella Svizzera tedesca più vasto, l’idea è forse meno presente in questa parte del Paese». Dal vostro punto di vista qual è il bilancio di questo programma? «I partecipanti fanno grandi progressi in un’altra lingua nazionale, utilizzando la lingua sul lavoro e nel tempo libero e frequentando, in parallelo, dei corsi

di lingua. Devono dare prova di motivazione ed impegno personale. Oltre a ciò accumulano ulteriore esperienza lavorativa, magari in campi che ancora non conoscevano. Svolgendo uno stage in un’altra regione della Svizzera sono confrontati con la realtà lavorativa e della vita di tutti i giorni, della mentalità, del modo di interagire, delle tradizioni, ecc. Devono adattarsi a nuove situazioni e gestire la vita quotidiana in modo indipendente sviluppando così competenze personali che saranno utili per il loro percorso professionale e personale», spiega la responsabile di Piaget – Primo impiego. La disoccupazione giovanile è una piaga che un paese ricco come la Svizzera dovrebbe riuscire a estirpare. Questo programma di formazione e pratica professionale invita i giovani che lo frequentano ad aprirsi verso il resto della Svizzera: un’occasione di scambio che rafforza il federalismo e la coesione nazionale. Scegliere di frequentare un periodo di lavoro e di studio nel resto della Svizzera può anche essere utile per trovare uno sbocco occupazionale. Infatti, degli stagisti ticinesi e romandi che hanno terminato il loro programma di sei mesi nel 2019, 19 hanno trovato lavoro nell’altra regione linguistica. Un ulteriore esito positivo del programma intercantonale Piaget.

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 101’634 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Società e Territorio

Tecnologia e senso critico

Formazione Intelligenza Artificiale e Big Data in un nuovo corso di bachelor della SUPSI, anche così

la Svizzera italiana risponde alle richieste di una società che cambia. A colloquio con Luca Maria Gambardella, direttore dell’Istituto Dalle Molle Loris Fedele Dal prossimo mese di settembre il Dipartimento Tecnologie Innovative della nostra Scuola Universitaria Professionale proporrà un nuovo corso di laurea che mira a formare figure professionali in grado di utilizzare tecniche e metodi dell’intelligenza artificiale e di gestire e valorizzare al meglio grandi quantità di dati. «Data Science and Artificial Intelligence» è il nome del nuovo corso triennale di bachelor, che si terrà quasi tutto in inglese. La gente sa che l’Intelligenza Artificiale è legata, tra l’altro, a quelle macchine che hanno la capacità di imparare in maniera autonoma, interagendo col mondo e con i dati. Un’applicazione moderna sta nelle nostre case, nei nostri computer. Ho incontrato Luca Maria Gambardella, direttore dell’Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale (IDSIA), una delle anime del nuovo corso di studi. «Siamo immersi sempre di più in grosse quantità di dati – mi dice Gambardella – e all’interno di questi, che chiamiamo big data, dobbiamo cercare una sintesi. Abbiamo bisogno di capire se con poche informazioni possiamo riassumerli tutti. In medicina, per esempio, se vogliamo utilizzare i dati dei pazienti per capire se una cura funziona o meno dobbiamo analizzarli tutti, per poi poter dire sì o no. È questa la scienza dei dati: si parte da molti dati, che chiamiamo non strutturati, che non sono per forza negli archivi informatici ma provengono dalle fonti più disparate, per poi elaborarli fino a trovare delle informazioni di sintesi».

«In Ticino e in Svizzera sono sempre più richieste figure professionali con competenze di elaborazione di dati e di studio di sistemi intelligenti» Nella nostra società con una tecnologia in rapida evoluzione c’è chi è spaventato dalle macchine intelligenti. Si dice che la rivoluzione digitale stia toglien-

Siamo sempre più immersi in grosse quantità di dati, la sfida è cercare una sintesi.

do posti di lavoro, che le macchine sostituiranno sempre più l’uomo. La rivoluzione industriale di due secoli fa si era basata su una forza lavoro che oggi serve meno. Si creerà più disoccupazione. «È chiaro che stiamo cambiando la tipologia del lavoro – annota Gambardella – ma non vedo un futuro tragico. Ci sono nuove professionalità per nuovi mestieri. Se un tempo c’erano i facchini adesso ci sono i trolley: allora abbiamo messo della tecnologia e tolto dei posti di lavoro, che però nessuno rimpiange. La tecnologia fa progredire. In questa fase di transizione, in cui non abbiamo ancora sviluppato completamente questi metodi, ci saranno anche persone che devono riqualificarsi su certe tecnologie e ci vorrà la formazione continua oltre a quella di base tradizionale.» Quanto ai posti di lavoro, Gambardella cita l’esempio degli smartphone, i telefonini che oggi quasi tutti usano. Una tecnologia nuova, che in poco più di dieci anni ha fatto passi da gigante: ci

sono le aziende che li producono, altre che producono hardware, poi quelle che fanno applicazioni di tutti i tipi. Un sacco di posti di lavoro sono nati intorno a quel tipo di tecnologia. Intorno all’intelligenza artificiale e alla robotica si prevede un percorso simile, quindi con nuove tendenze e nuove tecnologie. «Se vogliamo vivere la digitalizzazione e questi metodi, non solo come utenti ma con un poco più di conoscenza, e applicarli anche nel nostro mondo del lavoro, dobbiamo far capo alla scolarizzazione e all’apprendimento. Di sicuro la nostra SUPSI risponde bene a questi bisogni». Nell’usare le tecnologie innovative come utile strumento, senza conoscerle veramente, c’è il rischio di lasciarci sopraffare, senza prepararci al loro impatto. Penso all’uso sempre più diffuso degli smartphone, per esempio... «Come tecnologo sono un poco in controtendenza. Io sono un informatico, però mi rendo conto che il rischio di quel tipo di tecnologia non sia

un rischio tecnologico ma piuttosto un rischio di approccio. Rischiamo oggi di perdere un po’ di senso critico, di farci guidare e consigliare troppo spesso dalle macchine e in qualche modo di diventare pigri. Chi non ha sentito dire: “l’ho letto su Internet, me lo ha detto Internet”. Qui si nasconde un importante problema di fondo. Soprattutto i giovani devono imparare a sviluppare il proprio senso critico che, secondo me, non si ottiene solo con le materie tecnologiche ma anche studiando la storia, la filosofia, le lingue. In questo senso il ruolo delle persone di cultura è importante, soprattutto nella scuola. Il mondo del futuro sarà ibrido, dove in una stanza ci saremo io, lei e una intelligenza artificiale che ci fornisce opinioni e risposte. Su temi specifici le macchine saranno probabilmente più brave di noi, però non sanno generalizzare. Dovremo esser capaci di interagire con gli umani e con le macchine». Tornando ai nostri telefonini e alle

navigazioni su internet sappiamo bene che utilizzando queste tecnologie diamo al mercato tantissime informazioni su di noi e quindi il mercato stesso potrà, con l’uso di questi dati, guidarci o condizionarci. È un pericolo reale e, purtroppo, probabilmente inevitabile. «Questo è un tema delicato – ribatte Gambardella – perché dietro a queste cose non ci sono gli scienziati, c’è gente che fa i soldi. Quindi si tratta di un tema che è uscito dalle università ed è entrato nel business. Non è facile pensare come regolarlo ma, per prima cosa, dobbiamo acquisire la consapevolezza di questa situazione. Sapere che in tanti casi siamo stati noi a dare il consenso sulla divulgazione dei nostri dati. Magari inconsciamente, pigiando troppo spesso il tasto yes. Ti propongono un’applicazione? Yes. Un’altra? Yes e così via: yes, sì, sì, sì! Quasi istintivamente. Così i nostri dati volano e se finiscono in mano a chi ha poco rispetto per la privacy non siamo protetti. Dobbiamo davvero aumentare il nostro senso critico, esser capaci di giudicare anche quella fase iniziale dove diamo il consenso. D’altra parte tutte queste cose vanno regolamentate a livello di istituzioni, regolamentate dall’alto e dal basso perché il tema non ci invada». Il nuovo corso di studio proposto dalla SUPSI risponde a una precisa richiesta delle aziende. SUPSI, DTI e Istituto Dalle Molle hanno la fortuna di lavorare tantissimo con le aziende e quindi di tastare veramente il polso dell’economia che cerca di innovare e di diventare più competitiva. In questo mercato, non solo in Ticino ma anche in Svizzera e internazionalmente, sono sempre più richieste figure professionali con capacità e competenze di elaborazione dei dati e di studio di sistemi intelligenti. Ne approfitteranno grosse, piccole e medie aziende, anche in campo finanziario. Poi settori come il turismo, la moda, e tutti quelli che hanno bisogno di dati freschi e aggiornati per essere competitivi. «Anche la sanità e l’ente pubblico sono un tema cruciale – conclude Gambardella – Noi abbiamo stretto un accordo con l’Ente Ospedaliero Cantonale per fare intelligenza artificiale con loro. Il nostro nuovo corso di bachelor è un ulteriore tassello in un ricco ventaglio di proposte già consolidate della SUPSI e dell’USI». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Società e Territorio

I ragazzi risolvono i conflitti Peace Force In alcune scuole medie del Cantone è attivo un programma

di mediazione tra pari elaborato dallo psicopedagogista Roland Gerber. Ce lo spiega la formatrice Magda Ramadan

Alessandra Ostini Sutto Litigi e conflitti a scuola fanno parte della quotidianità. Per risolverli i ragazzi sono stati abituati a rivolgersi ad un adulto di riferimento. Ma cosa succederebbe se cercassero di venirne a capo tra di loro, in presenza di un coetaneo nel ruolo di mediatore? «Rivolgersi al docente vuol dire delegare, non essere cioè parte della soluzione. Se invece un ragazzo sperimenta che è possibile dare il proprio contributo per risolvere un problema, acquisisce una competenza sociale che sarà un bagaglio per la vita. Dal canto suo, il mediatore impara a fare un passo indietro rispetto alla propria impulsività e ad essere rigoroso, competenze anche queste che potrà applicare in svariati ambiti», afferma Magda Ramadan, psicopedagogista specializzata in mediazione familiare e comunitaria. L’approccio descritto è quello del programma di mediazione scolastica tra pari Peace-Force®, elaborato nel 2000 dallo psicopedagogista Roland Gerber con lo scopo di fornire agli allievi di un istituto di Basilea gli strumenti per gestire i conflitti a scuola. Dopo due anni di sperimentazione, il progetto è entrato a pieno titolo a far parte del programma educativo dell’istituto basilese, frequentato da ragazzi del quinto, sesto e settimo anno di scuola dell’obbligo. Nel 2006, lo psicopedagogista sistematizza la sua metodologia e pubblica il manuale Schüler schlichten Streit («I ragazzi dirimono i conflitti»), il cui successo porta Peace-Force a oltrepassare i confini elvetici. «Il sistema elaborato da Gerber può essere adattato a varie fasce d’età. Nella Svizzera interna degli allievi, formatisi al metodo durante le scuole medie, lo hanno riproposto al proprio datore di lavoro; esso è inoltre applicato in alcune scuole elementari e suscita l’interesse delle professionali», aggiunge Magda Ramadan. Peace-Force® si inserisce nel filone dei progetti di «peer-mediation», ossia progetti mediativi tra pari che, è dimostrato, a medio/lungo termine possono influenzare il clima scolastico, sviluppando apertura e tolleranza, sgravando il corpo insegnante dalla gestione di conflitti ordinari e fornendo agli allievi competenze sociali che li aiuteranno nelle relazioni con i pari. Fondamentali sono però il coinvolgimento delle parti in causa, allievi ed insegnanti, e la disponibilità a «tenere» nel tempo. «In Ticino, nel 2012, è partita una sperimentazione del progetto presso la scuola media di Chiasso», spiega Ramadan, che ha svolto una formazione in mediazione scolastica, redigendo la relativa tesi su Peace Force®. Il fatto che nella cittadina il progetto sia tuttora attivo, dimostra come questa prima esperienza sia stata positiva. «Nel nostro Cantone attualmente Peace Force® è presente pure nelle scuole medie di Massagno, Tesserete, Barbengo, Camignolo e Gravesano», continua. Il programma di mediazione scolastica ha dunque trovato terreno e, da qualche anno, il DFA della SUPSI propone un corso di formazione destinato ai docenti di scuola media ad esso interessati. Strumento di risoluzione di conflitti, la mediazione rappresenta la volontaria interazione tra due parti che, per superare l’impasse, vogliono sviluppare una soluzione condivisa, coadiuvati da una terza parte neutrale, che si incarica, in maniera qualificata, della conduzione del colloquio. In ambito scolastico, obiettivo della mediazione è rendere i ragazzi capaci di cooperare e responsabili della ricerca di soluzioni. «Una delle peculiarità del progetto di Gerber è quella di sollevare gli adul-

Con Peace Force® i ragazzi danno il loro contributo per risolvere le liti imparando a non delegare tutto al docente. (Marka)

ti dal dover intervenire per sedare liti e piccole conflittualità, mentre spesso gli allievi tendono a cercare nell’insegnante il ruolo di mediatore, non assumendosi di fatto le responsabilità di essere parte nel conflitto», commenta Magda Ramadan, attiva alla Supsi come responsabile della formazione di base e Master presso il Dipartimento formazione e apprendimento. Gli insegnanti responsabili di Peace Force® dapprima formano gli allievi; successivamente li accompagnano attraverso dei colloqui di supervisione. «Di ogni mediazione viene redatto un verbale che i docenti responsabili possono visionare per capire se vi sono state delle difficoltà. Ci sono poi degli incontri regolari con il gruppo dei mediatori durante i quali si discute e vengono, per esempio, analizzate delle situazioni critiche – spiega Magda Ramadan – Va puntualizzato che i mediatori sono scelti dagli allievi». Ogni anno, infatti, per ogni di fascia di classe, vengono identificati quattro ragazzi, in genere due femmine e due maschi, che, secondo i loro compagni, hanno le potenzialità e le caratteristiche per diventare mediatori. Questo è importante anche perché, qualora decidessero di tentare la via della mediazione, saranno gli allievi a scegliere a quali mediatori rivolgersi. Unico vincolo, i mediatori non possono appartenere alla stessa classe dei litiganti e nemmeno essere troppo prossimi a loro, per amicizia, parentela o perché si praticano le stesse attività extra scolastiche. «Gli allievi così scelti, se ricevono l’autorizzazione dei genitori, cominciano la formazione, che dura una decina di ore», aggiunge Magda Ramadan. Durante gli incontri formativi si ricorre spesso alle simulazioni, che consentono ai ragazzi di sperimentare diverse situazioni ed esercitarsi nella gestione

della mediazione, con i suoi strumenti e le sue regole, e nella redazione dei verbali. «I ragazzi che decidono di formarsi sottoscrivono un contratto, per cui si impegnano ad attenersi ad un codice deontologico, e restano in carica fino alla conclusione delle medie. C’è quindi un investimento da parte di questi giovani – aggiunge la formatrice Peace Force® – d’altra parte, essi ricevono un attestato, che potranno aggiungere al proprio curriculum». Uno strumento caratterizzante del progetto di mediazione di Roland Gerber è il «sistema delle carte». Sulle carte Peace Force® sono elencate le domande che i mediatori devono porre alle parti e sono esplicitate le regole da rispettare durante la mediazione. Essendo numerate, esse permettono poi ai mediatori di verificare costantemente in quale fase del processo ci si trovi. In questo modo lo psicopedagogista basilese evita volutamente ai ragazzi un approfondimento delle proprie motivazioni, e dei sentimenti ad esse connessi, perché questo, secondo l’autore, rischierebbe di rallentare, quando non di inibire, la ricerca di una soluzione. Le carte, guidando il processo mediativo, ne determinano una forte ritualità e linearità. «Se lo svantaggio può apparire la rigidità, il vantaggio è che il mediatore non rischia di essere tentato di dare il proprio contributo», commenta Magda Ramadan. Il suo compito è infatti di stare nel mezzo e rendere possibile la connessione tra i soggetti. «Dando di volta in volta la parola a uno e all’altro, permette ai litiganti di trovare uno spazio di espressione», aggiunge la docente senior. I mediatori vengono così formati ad una cultura mediativa, con ricadute sugli allievi che fruiscono del loro aiuto e ripercussioni, a monte, sui docenti formatisi secondo il metodo Peace Force®. «Nell’epoca dell’appren-

dimento per competenze e della formazione di competenze trasversali, ritengo che il progetto Peace Force® rappresenti un ottimo strumento», commenta Magda Ramadan. Ma a quale tipo di problema si applica questo strumento? «C’è una regola secondo cui la mediazione può avvenire quando “non è stato versato del sangue”; detto in altri termini, se c’è stata della violenza fisica è giusto che intervenga un adulto. Lo stesso vale se ci sono dei danni pecuniari importanti», spiega la formatrice Peace Force®: «in genere i ragazzi si rivolgono ai mediatori per conflitti avvenuti durante la ricreazione o il tragitto scuola-casa. Si tratta di problemi che a noi adulti possono apparire banali, ma che per chi li vive sono importanti». Del resto, per Peace Force® non è il contenuto quello che conta. «Il nostro approccio, bagaglio della società in cui viviamo, è quello di andare alla radice dei problemi. Questo però ci porta nel passato e spesso richiede dei tempi lunghi di elaborazione», spiega Magda Ramadan, «se invece mi dico “adesso sto male ma voglio stare meglio”, guardo avanti, ed è qui che la mediazione tra pari diventa interessante: io permetto a te di capire come mai sono stato male e tu permetti a me di capire perché sei stato male e questo consente di trovare un accordo, anche semplice, ma che porta ad allentare le tensioni e stare meglio. A volte basta davvero poco». Alla base della mediazione, come detto, c’è un atto volontario e condiviso. «Si tratta di un primo, importantissimo, passo, che può venir suggerito dagli adulti – genitori o insegnanti – i quali devono imparare a non voler essere sempre al centro della soluzione ma piuttosto ad aiutare i ragazzi ad acquisire uno strumento di autonomia», conclude Magda Ramadan.

Notizie brevi L’utilizzo di Internet in Svizzera In Svizzera, il numero di internauti adulti continua ad aumentare. Secondo l’Ufficio federale di statistica nel 2019 ha infatti raggiunto il 93% contro il 90% del 2017 e l’84% del 2014. Prendendo in considerazione l’età degli utenti, la quasi totalità delle persone tra i 15 e i 55 anni utilizza Internet e il 95% lo fa quotidianamente. Le persone tra i 65 e i 74 anni che utilizzano Internet attualmente sono l’88% (+11 punti percentuali rispetto al 2017). Per la fascia di età dai 75 anni in su la quota è invece del 58% (+13 punti). L’utilizzo mobile di Internet è diventato la norma, poiché 8 persone su 10 ricorrono a uno smartphone per connettersi alla rete fuori dalle mura di casa o dell’ufficio. Solo il 7% della popolazione dichiara di non fare uso di alcun dispositivo mobile; nel 2017 tale quota era ancora del 25%. Parallelamente alla mobilità, anche la durata di utilizzo di Internet continua ad aumentare. Nel 2019 i due terzi della popolazione adulta utilizzano Internet per più di 5 ore a settimana. Tra le attività svolte online a fini privati, la comunicazione rimane la più importante: la posta elettronica mantiene la prima posizione con una quota dell’87% della popolazione che ne fa uso, seguono i sistemi di messaggistica istantanea utilizzati dall’80% della popolazione. Sono sempre più diffuse anche la videochiamata o la telefonata via Internet. Invece, la partecipazione a un social network ristagna. Nel 2019 in Svizzera, l’87% delle persone attive al lavoro utilizza un computer o apparecchiature informatizzate. Un quarto delle persone occupate afferma che la natura del suo lavoro è cambiata nell’arco degli ultimi 12 mesi in seguito all’introduzione di nuovi software o di apparecchiature informatizzate. Quattro persone attive su dieci dichiarano di aver dovuto imparare ad utilizzare nuovi software o apparecchiature nell’ambito del loro lavoro. Indagine sulle famiglie I giovani adulti svizzeri, pensando al numero di figli che vorrebbero, sono fortemente influenzati dal modello dei due figli. Tra desiderio e realtà rimane tuttavia un grande divario: tra le persone di età compresa tra i 50 e i 59 anni, solo uno scarso 40% ha due figli, circa un quarto non ha figli e quasi un sesto ne ha uno. Chi più spesso rimane senza figli sono le donne con un titolo di grado terziario (30%). La difficile conciliabilità tra figli e carriera potrebbe essere uno dei motivi per cui le laureate hanno più raramente figli. Tre quarti di queste temono che la nascita di un figlio possa avere ripercussioni negative sulle loro prospettive professionali. Poco più di due terzi delle famiglie usufruiscono regolarmente della custodia di bambini complementare alla famiglia. I genitori si rivolgono perlopiù alla propria cerchia di parenti, conoscenti e vicini, in particolare ai nonni. Nella Svizzera romanda, quasi la metà dei genitori ricorre a un asilo nido o una struttura di custodia parascolastica. Questo è quanto emerge dai primi risultati dell’Indagine sulle famiglie e sulle generazioni 2018 dell’Ufficio federale di statistica, che evidenzia anche come in oltre due terzi delle economie domestiche con figli, sono principalmente le mamme a occuparsi dei lavori domestici. Solo nel 5% dei casi sono principalmente gli uomini a farsene carico. Anche nella custodia dei figli la responsabilità è assunta in primo luogo dalle mamme. In tre quarti delle economie domestiche con figli è la mamma che rimane a casa quando i bambini sono malati.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Il Maestro offline Nelle scorse settimane la Commissione formazione e cultura del Gran Consiglio ha proposto di bandire l’uso degli smartphone dalla scuola. Il tema sta suscitando commenti di natura diversa. Ci si interroga sul senso della proibizione, sull’effetto controproducente di ciò che potrebbe essere percepito come punizione. Altre voci sembrano invece riconoscere il valore di questa misura che servirebbe a relativizzare una presenza ormai preoccupante nella vita dei giovani, e non solo. Gli interrogativi, pur suscitando risposte diverse, a me paiono alimentati da uno sguardo comune sul senso della scuola. Succede sempre quando interroghiamo la realtà per comprenderla: per porle domande che abbiano un senso dobbiamo averne già un’idea. Interroghiamo la realtà, insomma, a partire dal nostro sguardo. Questo rapporto tra il nostro sguardo e la conoscenza della realtà è ben visibile

nella storia della scienza. Aristotele, che ha nutrito quasi duemila anni di pensiero scientifico, vedeva l’universo come un grande organismo con sue finalità intrinseche: «La natura non fa nulla invano». E così, per comprendere davvero, era necessario interrogarsi sulla causa finale: qual è il fine per cui tutto accade? Galileo, guardando la stessa natura, vedrà un «grande libro scritto in lingua matematica». A partire da questo nuovo sguardo, la conoscenza richiederà altre domande. La ricerca della causa finale perderà il suo valore scientifico poiché in questo universo matematico le cause di ciò che accade non hanno più nulla a che vedere con i fini. C’è dunque sempre uno sguardo da cui nascono le nostre domande. Lo sguardo sulla scuola che alimenta oggi i nostri interrogativi mette in evidenza la sua utilità: la scuola deve essere uno strumento utile che sappia rispondere ai bisogni della società.

E ciò non stupisce. L’utilità sembra oggi il criterio assoluto per stabilire il valore di ogni cosa e di ogni esperienza. In realtà, però, le cose utili sono solo mezzi per qualcos’altro, non trattengono in sé alcun valore. Il valore, il senso intrinseco delle cose, scivola via in una catena infinita di mezzi che impoveriscono la nostra esperienza, senza permetterci di percepire il vero significato di ciò che stiamo vivendo. Questo sguardo fortemente utilitaristico rischia di offuscare anche il senso della scuola. Proviamo allora ad aprire un altro possibile sguardo. Proviamo a guardare la scuola come un luogo di progettualità, magari anche come un luogo di resistenza, capace di stare anche un po’ altrove rispetto al mondo esterno e ai suoi bisogni più urgenti. È forse soprattutto questo il suo significato e il suo valore, in ogni epoca. Penso al Giardino di Epicuro, una scuola in cui imparare a vivere bene, in

cui curare le malattie provocate dalla società. La celebre lettera a Meneceo parla ancora anche a noi, delle sofferenze di oggi, delle nostre paure, delle nostre prigioni morali e materiali. Poi penso ad un’altra esperienza educativa come forma di resistenza ai mali della società: l’educazione di Emilio raccontata da Rousseau. Emilio viene educato lontano dal mondo, in un altrove incontaminato, nella natura e nella naturalezza del suo lento sbocciare. Ecco allora emergere la figura del Maestro, di colui che indica il cammino per una vera libertà interiore, di colui che desidera accompagnarti in un progetto di umanità. Perché la scuola deve insegnarti a vivere. E «insegnare a vivere» è proprio il titolo di un recente saggio di Edgar Morin. Bello sarebbe correggere il nostro sguardo utilitaristico per vedere e per chiedere altro alla scuola. Per ritrovare e per valorizzare, innan-

zitutto, la figura del Maestro, figura dimenticata purtroppo sempre più sullo sfondo di aule tecnologicamente arredate in modo sempre più performante, perché ciò che conta, a quanto pare, è stare al passo con i tempi. Proviamo a correggere il nostro sguardo utilitaristico per vedere la bellezza di un’esperienza condivisa della conoscenza: esperienza di sé, da vivere con calma, da condividere nelle sue emozioni e nei valori che ci offre, liberati dall’urgenza di acquisire conoscenze utili, immediatamente spendibili. E per vedere la bellezza anche nella fisicità dei suoi spazi, e delle sue presenze: una fisicità a rischio nel nostro abitare un mondo sempre più virtuale. In queste atmosfere di bellezza, forse, lo smartphone te lo puoi anche dimenticare per un po’, conquistato dal piacere di viverle e dal desiderio di poterle condividere con gli altri, in quello che impari a riconoscere come il viaggio verso te stesso.

Ciäsa Granda a Stampa: pietre di fiume. Gian Tumasch Appenzeller mi conferma la provenienza fluviale dei ciottoli e intuisce al volo quello che mi passa per la testa dicendomi: «È un’opera d’arte in sé, vero?». Magnetica, appoggiata sui ciottoli dell’En e illuminata dal neon, una montagna nera schiaffeggiata di bianco, emerge da pennellate di bruma. C’è qualcosa, in questa naturalezza sanguigna del gesto, della meditata precisione di un calligrafo giapponese. Pochi, oggi, sanno dipingere così il sublime del paesaggio, ritraendo senza tante romantizzazioni, la verità selvaggia della cima di una montagna elevata quando cambia il tempo. Uno è lì fuori con due airedale terrier al guinzaglio, occhiali da sole a goccia blu trasparenti, cappellino da baseball rosso degli Hiroshima Carp, la moglie giapponese armata di cassa di birre appenzellesi. È lui Godly, il Francis Bacon delle montagne. Sul tavolo c’è un articolo della «Neue Zürcher Zeitung» su di lui, un libro in tela dei suoi lavori, e un foglio dove oltre ai prezzi, scopro il titolo della serie vista prima di sopra: Dark is light. Altro titolo

degno di nota è To see is not to speak tratto da un verso di Kobayashi Hideo: «To see is not to speak because words could distract your eyes». L’occhio, nel terzo spazio giù di sotto, una cantina a volta con ancora gli anelli per gli animali, cade sull’impagabile verde della muffa sulle mura dove sono esposti i bei bassorilievi cubisti in ottone e piombo di Kazuyo Okushiba, moglie ikebanista di Godly. Dietro l’angolo i trentadue scalini della S-chala (2017) di Not Vital, maculati da isole di neve, rispecchiano l’immagine oblunga dello spettatore e strappano un sorriso anche alla donna alle mie spalle. Il buon odore insperato di letame in giro, ai primi di febbraio in Alta Engadina, rincuora e preserva questo paesino dall’artefatto e dal lusso miserevole, ricollegandosi così all’ex stalla omonima. Ultimo sguardo agli spiragli rituali tra le assi che meriterebbero una peregrinazione specifica, per determinare se cambiano da paese a paese come gli stemmi. E se tra clessidre, assi di quadri, birilli, diamanti, punte di lancia, lacrime capovolte, ci sia una loro simbologia segreta.

sempre operare in favore della realizzazione dell’autonomia dell’uomo e mai riducendola. Peccato che quanto contenuto in questo codice non sia vincolante, trattasi infatti di raccomandazioni o linee guida alle quali aderire liberamente. Dunque dicevo, un’innovazione tira l’altra e in tempi rapidi. Questo ci riporta al discorso di Sundar Pichai a Davos e a quello che lui ha definito il prossimo passo avanti: il computer quantistico, una macchina che sfrutta le leggi della meccanica quantistica e della fisica in grado di processare una quantità di dati ad una velocità infinitamente superiore rispetto ai computer tradizionali e questo perché non funziona secondo calcoli sequenziali. Insomma è in grado di calcolare e fornire più soluzioni ad un problema complesso compiendo una sola operazione e in minor tempo. Spiegato con un titolo dell’Ansa: «Il

computer quantistico è reale. In tre minuti test da 10’000 anni». Detto in parole semplici, il computer quantistico, in grado anche di simulare la natura e la sua struttura molecolare, è capace di un multitasking mostruoso. Per aggiungere un po’ di concretezza e ricordarci di Sibylle Berg, tra qualche anno il computer quantistico associato all’intelligenza artificiale sarà in grado di violare la crittografia che oggi assicura i nostri dati, le nostre comunicazioni e le nostre operazioni bancarie. Ergo serviranno nuove tecniche di protezione dati a prova di quanti. Ma non illudetevi che ci sia tempo, basta guardarsi in giro per accorgersi che la nostra privacy è già tangibilmente a rischio. Come e perché ve lo racconterò nella prossima puntata, intanto vi lascio rinnovando l’invito di Sibylle Berg: informiamoci o i cambiamenti ci coglieranno impreparati.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Stalla Madulain La casa engadinese antica incanta per la strombatura delle finestre, la loro irregolarità di grandezza, l’asimmetria nella distribuzione, gli sgraffiti. I fienili e le stalle di un tempo hanno un solo elemento che fa sognare: lo spazio vuoto, geometrico, tra le assi di legno. Segate in modo ondivago, accostate, creano così, in verticale, un motivo decorativo arioso che potrebbe anche sfuggire ai viaggiatori sbrigativi. Ma è un dettaglio che vale il viaggio e mi ricorda una clessidra intercalata dall’asso di quadri, in questo caso. Una stalla del 1488 diventata, qualche anno fa, galleria d’arte sulla via principale di Madulain. Duecentodieci abitanti sulla sponda sinistra dell’En, tra La Punt e Zuoz, campanile a cipolla che rallegra appena lo si incontra a tinte pastello verde pistacchio e rosa fragola con in cima alla colonnina della bifora, un mascherone con occhi da gufo. A tutto sesto, come la grande porta d’entrata, l’arco delle due finestre di Stalla Madulain (1689 m) schermate ognuna con sei assi di larice imbrunito dai secoli. Gli spiragli bui tra il legno, strizzando gli occhi, potrebbe-

ro richiamare anche dei birilli. Colpisce pure la facciata della cinquecentesca Chesa Andrea, ristrutturata a regola d’arte nel 1999 da Ruch & Partner, dove nell’asimmetria tra le undici finestre strombate di diversa grandezza, si legge un’armonia profonda, totale, esoterica. Sgraffiti solo per una finestrina, mentre nella casa a fianco dell’ex stalla-fienile, a sgraffito, trovate due draghi. Nello spazio stretto, tra questa casa e Stalla Madulain, scende la luccicante scala in acciaio cromato di Not Vital: artista di fama internazionale nato a Sent nel 1948 con atelier a Pechino e castello a Tarasp. Dentro, il gioco di falegnameria artigiana, è capolavoro assoluto: all’interno, le assi in controluce, provocano la resa perfetta del luminoso ricamo. Qui dove si metteva il fieno, altri due finestroni a tutto sesto a valle e due sul lato est. Al contempo, a loro volta dentro si stagliano meglio le assi come gambe tornite di mobili che fanno anche venire in mente dei macinapepe, eppure è la parte vuota che cattura di più. Le steli di luce, in contrasto con le assi scure, oggi sono bianche per via di neve e cielo.

S’intonano con i colori dei quadri contro le graziose mura grezze. Non sono per niente male, anzi, le quattro tele paesaggistiche al confine con l’astratto di un nero luminoso di Conrad Jon Godly: pittore di Davos classe 1962 che ha appena fatto furore a Londra con le sue portentose cime di montagne innevate. Mari avvolti da nebbia sembrano però queste ultime opere che ammiro l’ultimo giorno della mostra. Riconciliato un po’ con il mondo dell’arte contemporanea, esco dallo spazio espositivo in via Principela quindici nato nel 2014. Idea, sull’onda delle tante gallerie spuntate in Engadina – il cui volume d’affari in tre mesi di alta stagione dicono sia come quello di un anno a Londra, Parigi, New York – a partire da quella di Bruno Bischofberger del 1963, di Gian Tumasch Appenzeller e il cugino Chasper Linard Schmidlin. Giovane architetto che ha ristrutturato la stalla quattrocentesca di Madulain con tocco leggero, lasciando intatta la sua bellezza. Qualche passo nella neve ed entro nel piano sotto dove il pavimento sembra essere come quello di

La società connessa di Natascha Fioretti Informiamoci sulle nuove tecnologie Fresca del Gran Prix Literatur consegnatole settimana scorsa, intervistata sul suo ultimo romanzo distopico e anche un po’ inquietante (GRM. Brainfuck) ambientato nel prossimo futuro in cui ai cittadini londinesi viene impiantato un microchip sottopelle e molti di loro vivono con il reddito di cittadinanza, l’autrice svizzera Sibylle Berg ci invita ad informarci con coscienza e competenza sulle nuove tecnologie e le loro implicazioni sulle nostre vite: senza conoscenza non potremo difendere la nostra privacy e la nostra sicurezza. Ecco allora che mi sono venute in mente le parole di Sundar Pichai, CEO di Google, a Davos: «L’intelligenza artificiale vale più di fuoco e elettricità». Magari qualcuno di voi penserà che sono le solite cose, l’intelligenza artificiale cambierà le nostre vite, avrà un forte impatto sociale, arriveranno i robot

e le macchine a sostituirci nei lavori ripetitivi, le automobili si guideranno da sole, certo c’è la questione etica ma anche di questo se ne parla di continuo, migliorerà la nostra qualità di vita, le diagnosi mediche saranno più veloci ed accurate in particolare per malattie come i tumori... Insomma sarà una grande rivoluzione. Ma non è tutto qui e non è così semplice. Viviamo in un’epoca in cui un’invenzione tira l’altra e non si fa in tempo ad abituarsi ad una previsione che subito ne arriva una seconda a coglierci impreparati. Per questo le parole di Sibylle Berg non vanno sottovalutate e dobbiamo essere in chiaro sulle nostre responsabilità umane e sociali se non vogliamo che la rivoluzione ci travolga. Richard Socher, 35 anni, di Dresda, soprannominato il bambino prodigio della Silicon Valley, esperto di intelligenza artificiale e ottimista tecnologico ci dice

che è fondamentale regolamentare la tecnologia, Sundar Pichai in proposito usa parole più eloquenti «la tecnologia deve essere imbrigliata» non basta che venga realizzata con i migliori propositi. Richard Socher sottolinea la responsabilità della politica e delle aziende nell’aiutare le persone a prepararsi e ad adattarsi per tempo perché i cambiamenti sociali saranno enormi. In proposito è utile ricordare che c’è la normativa europea in materia di protezione dei dati e anche un codice etico per l’intelligenza artificiale redatto da 52 esperti selezionati dal mondo accademico, dell’industria e della società civile che vi hanno lavorato per conto della Commissione europea. Centrale, in questo documento, è il ruolo della dignità umana per cui l’intelligenza artificiale non dovrà mai danneggiare gli esseri umani, gli animali o la natura e le macchine intelligenti dovranno


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Ambiente e Benessere La signora della terra La talpa è accanitamente combattuta anche con esche velenose, altamente tossiche

Monosci e dualsci Anche in Ticino è oggi possibile formarsi come maestri di sci speciali

Dolce e piccante Il pollo al forno, con ananas, peperoni e patate dolci, ha una nota esotica, che stupirà il palato pagina 23

Grandi cambiamenti Le due guerre mondiali hanno azzerato i viaggi; il cambiamento climatico non ha effetti inferiori pagina 21

pagina 17

pagina 20

Malattie infiammatorie autoimmuni Medicina Passi da gigante nella ricerca

delle nuove terapie di queste patologie rare

Maria Grazia Buletti Quando parliamo del nostro sistema immunitario, iniziamo a pensare a tanti soldatini chiamati alla guerra contro l’intrusione di un nemico che sta attentando alla nostra salute. Questa visione semplicistica, ma efficace, corrisponde in effetti appieno a quello che è il nostro scudo naturale contro le aggressioni esterne: il sistema immunitario che, con le sue cellule diverse e ciascuna con funzioni specifiche, ci assicura un’eccellente protezione. «Come sappiamo, il sistema immunitario è un efficiente sistema di difesa dagli agenti patogeni estranei all’organismo come ad esempio batteri, parassiti, funghi e virus, come pure cellule infettate da agenti patogeni e cellule tumorali». Queste le parole della dottoressa Natalie Marcoli, reumatologa all’Ospedale Regionale di Lugano. Le nostre difese immunitarie sono naturalmente vigili e pronte a intervenire in caso di emergenza, mettendo in pratica contromisure per difendere il nostro organismo e mantenerlo sano. Però talvolta potrebbero agire anche contro quel corpo che tanto vogliono difendere: «Questo sistema non è sempre così perfetto e in certi casi le sue cellule di difesa sbagliano mira: invece di attaccare o riconoscere questi agenti patogeni, cominciano a rincorrere certe parti delle nostre cellule, sviluppando degli anticorpi, e attaccano il nostro stesso corpo». La reumatologa ci parla di malattie infiammatorie autoimmuni, malattie cosiddette rare ma che vanno individuate e curate perché in seconda battuta potrebbero arrivare a favorire a loro volta altre patologie secondarie. «Una teoria accettata dalla comunità scientifica porta a pensare che le malattie autoimmuni siano un’ipotesi di «doppio colpo», vale a dire con una componente di predisposizione genetica accompagnata da un evento scatenante normalmente di origine ambientale; ma ancora non si sa bene come questi fenomeni si realizzino». La dottoressa Marcoli si riferisce a un insieme di geni che rende la persona più suscettibile a sviluppare

la malattia non individuabile («almeno per ora») attraverso un test genetico. Vi sono almeno un’ottantina di tipi di malattie autoimmuni conosciute e si sa che quasi tutte le parti dell’organismo possono esserne coinvolte: «Fra le malattie reumatiche, le artriti sono quelle a maggiore incidenza, anche se negli ultimi 20 anni sono tutte piuttosto stabili. A parte, la gotta che ha registrato un aumento dell’incidenza negli ultimi 10-15 anni a causa del cambio di stile di vita; inoltre, oggi più di un tempo, a un sospetto seguono immediatamente le indagini diagnostiche votate a individuare il più precocemente queste patologie, il che ne permette quanto prima una presa a carico con l’obiettivo di rallentarne il più possibile l’evoluzione». A questa famiglia appartengono anche altre patologie: «Il lupus (ricorrente nella storia famigliare) che può essere scatenato da infezioni o altri fattori ambientali; mentre alcune patologie comuni generalmente considerate di eziologia autoimmune includono la celiachia, il diabete mellito di tipo 1, la malattia di Graves, le malattie infiammatorie intestinali, la sclerosi multipla, la psoriasi, l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso sistemico». Malattie che insorgono in età adulta e purtroppo sono più frequenti nelle donne che negli uomini: «Alcune ipotesi scientifiche le mettono in correlazione allo stato ormonale delle persone e questo potrebbe spiegare la divergenza di queste patologie nei due sessi». I sintomi più comuni sono diversificati: «Possono includere febbre e una sensazione di stanchezza e malessere, dolori articolari ma spesso si tratta di disturbi vaghi che rendono la diagnosi difficile da determinare. Le artriti ad esempio possono causare dolori alle mani, ginocchia, anca, ed è raro che la persona non presenti sintomi accompagnatori: ha difficoltà nell’uso delle mani perché sono gonfie, rigide, ha la sensazione di essere bloccata a riposo e presenta altre limitazioni». Come abbiamo accennato, le cause rimangono ancora pressoché sconosciute: «Prendiamo ad esempio l’artrite

La dottoressa Natalie Marcoli, reumatologa all’Ospedale Regionale di Lugano. (Stefano Spinelli)

reumatoide: alcune variazioni nel patrimonio genetico rendono la persona più suscettibile a sviluppare la malattia; oggi sappiamo pure che i fumatori hanno certi anticorpi nel sangue che rendono la prognosi più sfavorevole. Questo fattore ambientale e di stile di vita è perciò un elemento che aumenta il rischio di ammalarsi in chi è geneticamente predisposto a sviluppare la malattia». Malattia che, nel caso delle artriti, una volta diagnosticata è trattata al più presto possibile nella cosiddetta «finestra di opportunità». Qui la reumatologa ribadisce il concetto di poter visitare il paziente prima possibile per confermare la diagnosi: «Ci permette di iniziare la terapia con la speranza di interrompere il processo infiammatorio e mettere quanto prima in remissione la malattia, evitando così danni progressivi a livello articolare». Nelle terapie parliamo di «percorso di cura integrato», con una

presa a carico multidisciplinare secondo la patologia da trattare e le sue manifestazioni. Il trattamento dipende dal tipo e dalla gravità della condizione: «Spesso si usano farmaci non steroidei e immunosoppressori, ad esempio». La cura passa però pure attraverso un’igiene di vita che mette in primo piano le normali regole di prevenzione: «Accanto alle componenti farmacologiche, ai fisioterapisti, agli ergoterapisti e al medico di famiglia (che ha il compito di seguire da vicino il proprio paziente secondo le indicazioni del reumatologo), ricordo ai miei pazienti l’importanza di mantenere una certa attività fisica perché lo sport praticato in modo equilibrato permette di conservare un buon condizionamento fisico e allevia la stanchezza; consiglio un’alimentazione equilibrata evitando il sovrappeso, anche perché l’uso di alcuni farmaci ad esempio il cortisone potrebbero favo-

rirlo, portando a conseguenze come il diabete e malattie cardiocircolatorie». Il movimento è dunque essenziale a livello di prevenzione («siamo purtroppo sempre più sedentari, ma basterebbero 30 minuti di attività fisica al giorno per restare in salute»), il fumo manco a dirlo andrebbe dimenticato («è nocivo anche a livello cardiovascolare»), lo stress andrebbe gestito («meditazione, attività sportiva, hobby creativo…»). Il futuro delle cure di queste malattie risiede nella ricerca: «In reumatologia le possibilità terapeutiche stanno vivendo una vera e propria era di rinascita, perché grazie alla ricerca ve ne sono più che 15-20 anni fa. Le nuove terapie a livello svizzero e internazionale danno speranza ai nostri pazienti che forse un giorno includeranno anche quel 20-30 per cento per i quali oggi ancora non abbiamo una soluzione adeguata senza saperne le ragioni».


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Ambiente e Benessere

Sarcococca Winter Gem

Mondoverde Tra le tante specie della famiglia delle Buxaceae, un ibrido che fiorisce fra gennaio e aprile Anita Negretti Chi segue questa rubrica sa ormai che anche nel periodo più freddo dell’anno è possibile deliziare occhi e naso con fioriture invernali. Tra queste ecco le sarcococche, della famiglia delle Buxaceae, che comprendono diverse specie e varietà. Sarcococca confusa ad esempio si presenta come un cespuglio rustico, a portamento espanso e compatto, dalle foglie verde scuro, lucide e luminose per tutto l’anno. In inverno ci offre una fioritura dal profumo dolce e molto intenso, con fiori candidi seguiti in primavera da frutti piccoli, rotondi e neri. Di facile coltivazione ha il pregio di avere dimensioni contenute e ha un aspetto denso, che raggiunge il metro e mezzo di altezza e di diametro in una decina di anni. I fiori che fanno capolino da novembre fino a gennaio, si sviluppano all’ascella delle fronde e accompagnano le foglie alterne, cuoiose e lunghe fino a cinque centimetri. Pianta molto rustica, non presenta quasi mai attacchi di insetti o di funghi e ama posizioni all’ombra piena o a mezz’ombra, divenendo così un’ottima soluzione per decorare zone infelici, come ad esempio il retro delle abitazioni, dove spesso si incontrano corridoi ombrosi. Abbinate a ellebori o a callune ed eriche, è possibile mettere in risalto il colore intenso delle sue foglie e valorizzare le altre fioriture. Se S. confusa ha fiori piccoli e bianchi, la S. orientalis, dalle stesse iden-

Un bell’esemplare di Sarcococca Winter Gem. (Globeplanter.it)

tiche esigenze, presenta fiori bianchi pennellati di rosa-rosso. In S. ruscifolia ritroviamo invece la stessa tinta di rosso non nei fiori ma nelle bacche; in questo caso però presenta una dimensione minore delle altre specie, raggiungendo a fatica il metro di altezza. Le foglie della ruscifolia sono più piccole ma in compenso i fiori sono maggiormente profumati. Per tutte le sarcococche la potatura risulta essere non necessaria visto che tendono ad assumere un comportamento naturalmente tondeggiante, ma si può intervenire durante la primavera con tagli decisi per togliere i rami

danneggiati durante l’inverno. Facili da moltiplicare, si riproducono per talea tra luglio e agosto, interrando brevi rami apicali lunghi una decina di centimetri in terra leggera mista a sabbia. Nel mondo del vivaismo gli ibridatori sono sempre all’opera e uno degli ultimi ibridi proposti sul mercato è legato alla Sarcococca Winter Gem. Derivante dall’incrocio tra S. digyna «Purple Gem» e S. humilis, ha dimensioni contenute, intorno al metro sia per quanto riguarda l’altezza che il diametro, fiori inebrianti di profumo da gennaio ad aprile, bacche rosse che a maturazione diventano nero lucido. Annuncio pubblicitario

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Miss Talpa e i suoi inquilini

Ambiente e Benessere

Ecosistema Si dice sia un animale cieco, ma non è vero

Monticoli di terra creati da talpe. (Pxhere.com)

Alessandro Focarile Siamo in inverno, e le belle giornate invogliano a una passeggiata festiva in campagna. In un prato può capitare di scoprire tutta una serie di monticoli di terra bruna frescamente rimossa, e che contrasta cromaticamente con il manto erboso, più o meno rinsecchito circostante. È all’incirca noto al cittadino, che questi monticoli sono il risultato del lavorio sotterraneo della talpa, che si dà da fare all’incessante ricerca di cibo, costituito soprattutto di lombrichi, lumache, insetti, e non disdegnando nemmeno i neonati dei minuscoli topi campagnoli.

La vita della talpa si svolge nel terreno, il suo comportamento legato alla ricerca del cibo fa sì che essa non abbia predatori La terra, che osserviamo in superficie, è la «discarica» risultante dallo scavo delle gallerie di caccia e di circolazione. Essa viene ributtata all’esterno, costellando qua e là il prato eseguendo un percorso capriccioso ai nostri occhi, e non ben definito. Tra i vari monticoli di terra, talvolta ne risulta uno di maggiori dimensioni – discarica di vecchia data – spesso ricoperto di vegetazione. È molto probabile, ma non sempre, che esso contenga il nido della talpa (la talpiera): un ammasso rotondeggiante di cospicue dimensioni (20-30 centimetri di diametro) formato con detriti vegetali, come fogliame e fieno, ma anche con pezzi di carta e di plastica, vale a dire con tutto quanto la talpa riesce a trovare e utilizzare per la costruzione della sua dimora. Alla cavità, contenente il nido, confluiscono più sistemi di gallerie: di circolazione, di fuga e di aerazione. E quanto osserviamo in superficie, dà

solo una modesta idea della complessità che esiste in profondità. Le talpe (genere Talpa) sono mammiferi zoofagi (predatori) diffusi nella regione euro-asiatica. Nell’Europa occidentale sono note: la europaea, che è quella più diffusa. La caeca con una frammentata e discontinua diffusione euro-meridionale. Infine, la romana presente nell’Italia centro-meridionale e in Macedonia. In Svizzera sono conosciute le prime due specie. Le talpe sono elusivi animaletti, con i loro 12-16 centimetri di statura fanno figura di giganti in confronto di alcuni topolini, come il Suncus etruscus lungo soltanto 35 millimetri, il più piccolo mammifero del mondo, che pesa appena 2-3 grammi! II terreno di caccia delle talpe nostrane è piuttosto limitato, dai 200 ai 2000 metri quadrati, secondo gli esperti che si sono occupati dell’argomento, e a seconda delle caratteristiche del terreno, che deve essere soffice e facilmente scavabile, non sassoso. Inoltre, il terreno stesso non deve essere inondabile, né eccessivamente ricco di apporti nutritivi, come lo sono i prati pingui concimati. Con questi presupposti ecologici, l’animaletto popola una vasta fascia altitudinale, dalla pianura fino a 2000 metri in montagna. È attivo durante tutto l’anno, non va in letargo, e sembra suddividere molto giudiziosamente il suo tempo, considerato che la sua attività di scavo richiede un notevole dispendio di energie. Tre ore di lavoro sono alternate ad altrettante di riposo nell’arco delle 24 ore. Non si concede ferie, e ignora la cassa-malati. La vita della talpa si svolge essenzialmente nel suolo, e questa sua caratteristica comportamentale, legata alla ricerca del cibo, fa sì che essa non abbia predatori. Un tempo comune ovunque e fino in montagna, cacciata per la sua delicata pelliccia di un colore nero-antracite, la talpa ha nell’uomo un temibile nemico. I monticelli di terra, disseminati sulle superfici agricole, sono un elemento di disturbo per le tecniche

meccanizzate di coltivazione. La talpa è accanitamente combattuta anche con esche velenose, altamente tossiche. Queste pratiche hanno causato in tempi recenti una sensibile rarefazione dell’animaletto il quale, durante lo scavo delle sue gallerie, può danneggiare le radici della vegetazione erbacea, anche se questa non fa parte della sua alimentazione. Nei piccoli appezzamenti di terreno, come sono gli orti, i danni maggiori sono provocati dal grillotalpa, un insetto ortòttero prossimo parente di grilli e cavallette, e non della talpa. Infatti, il grillo-talpa si ciba principalmente di radici, a differenza del nostro amico.

La pulce della talpa (Istricopsylla talpae) è la più fedele accompagnatrice del piccolo mammifero. (Alessandro Focarile)

II leptino seriato (Leptinus seriatus) e la coleva agile (Choleva agilis), due tipici coleotteri delle talpiere. (Disegni originali di Roberto Pace)

Una bella e lucida pelliccia, le zampe anteriori ben equipaggiate per lo scavo, il muso pronunziato, il codino ritto come il trolley di un tram, sono le caratteristiche salienti della talpa. Nella ricerca del cibo, essa è guidata dalle vibrazioni del suolo prodotte dai lombrichi, dall’odorato e dal tatto. Tutti sensi molto sofisticati ed efficienti, che suppliscono al modesto apparato visivo costituito dai due occhietti semi-nascosti tra i peli delle sopracciglia. Madre Natura ha ottimamente attrezzato il nostro animaletto sotterraneo, che si muove con grande velocità e disinvoltura, mantenendo il codino ritto, che scorre come un «trolley» sulla volta dei cunicoli, captando segnali tattili, e sfatando certe dicerie sulla sua presunta lentezza di movimenti. Alle nostre latitudini, la gestazione dura tre mesi: dalla fine di gennaio a quella di aprile. A un mese di età, si lascia la mamma, e ognuno se ne va per i fatti propri. La talpiera ospita però anche altri inquilini. Sempre alla ricerca selettiva di «nicchie ecologiche» non occupate, gli insetti non potevano mancare nei nidi di talpa. Questi ambienti sono popolati da una fauna di insetti strettamente legata (infeudata) alla presenza di un ben definito «padrone di casa»: talpa, marmotta, riccio, volpe, e tasso. Le ricerche specializzate hanno permesso di individuare una quarantina di specie di coleotteri, di oltre 200 specie di ditteri (mosche e moscerini), e dell’immancabile enorme pulce della talpa (foto): l’istricopsilla che, con i suoi 5 millimetri di statura, è la più grande specie europea. Analizzando le caratteristiche di queste popolazioni di insetti, peculiari del micro-ambiente «talpiera», si può rilevare la marcata eterogeneità dei suoi componenti. La talpa stessa gode dei servigi di un minuscolo coleottero: il leptino seriato (disegno), cieco e piatto, che si incarica di fare pulizia tra i peli. Gli ammassi vegetali che formano il nido sono la sede ideale per la formazione di micro-funghi utilizzati dai ditteri e da alcune specie di coleotte-

ri, come la coleva agile. Non mancano inoltre i predatori delle larve (come i coleotteri stafilinidi). Infine, e per completare il quadro, vi sono numerose vespe, microscopiche parassite che depongono le loro uova su adulti, larve e uova. Intorno, e sulla talpa, vive e prospera tutto un mondo di utilizzatori a vari livelli. E questo microcosmo può essere racchiuso in una minuscola palla di fieno e di fogliame, a portata di mano della nostra eventuale curiosità. E poi c’è la talpa archeologa. Circa un secolo fa, erano in gran voga nella regione pedemontana dell’Insubria, gli scavi alla ricerca e allo studio di preistorici insediamenti umani su palafitte. Furono individuati diversi agglomerati di capanne tra il Varesotto e il Veneto, e i ritrovamenti furono oggetto di dotti studi da parte di valenti scienziati lombardi. Questi insediamenti di nostri lontani antenati vennero attribuiti a un periodo storico dopo la ritirata dei ghiacciai, quando i metalli non erano ancora conosciuti, e l’uomo produceva rozzi ma funzionali manufatti di selce calcarea: punte di frecce, raschiatoi per le pelli, falcetti. Gli abbondanti rifiuti della lavorazione della selce venivano abbandonati in gran numero, e sono giunti fino ai nostri giorni grazie anche agli scavi delle talpe. Le discariche delle loro gallerie, i monticoli così evidenti durante i mesi invernali, possono contenere innumerevoli piccole schegge di selce, come fu recentemente osservato presso i Padenghe sulle rive del lago di Garda. Bibliografia

Alessandro Fossati & Marco Salvioni, I Mammiferi del Cantone Ticino. Note sulla distribuzione, Lega Svizzera Protezione della Natura (Lugano, 1992), 103 pp. Giuseppe Osella & Adriano Zanetti, La coleotterofauna dei nidi di talpa nell’Italia settentrionale a Nord del fiume Po, Bollettino dell’Istituto di zoologia Agraria (Università di Milano, 1967), serie Ila, vol. 12:43-200.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Ambiente e Benessere

Sciare, seduti sugli sci con maestri formati in Ticino Inclusione Di nuovo sulle piste in sella al monosci e al dualsci

Davide Bogiani Li si vedono sfrecciare sempre più spesso anche sulle piste da sci in Ticino. Stiamo alludendo al monosci e al dualsci, due attrezzi di scivolamento che permettono a persone in condizione di paraplegia, rispettivamente di tetraplegia, di godersi appieno le giornate di sci sulla neve. Per saperne di più su questi due attrezzi, abbiamo incontrato Luca Vidotto, direttore, ed Ezio Previtera, presidente della Scuola Svizzera di Sci Lugano (SSSL), i quali con la loro scuola stanno portando avanti da alcuni anni un progetto, già diventato programma, di inclusione di persone con andicap all’insegnamento dello sci. Il sogno della SSSL ha inizio circa tre anni fa. Durante una chiacchierata, direttore e presidente si chiedono come includere nei corsi di sci persone con disabilità motorie.

La stazione sciistica di Airolo, da tre anni si è impegnata per abbattere le barriere architettoniche, rendendo possibile lo svolgimento dei Campionati svizzeri paralimpici «Nei primi mesi non sapevamo in che direzione muoverci – spiega Vidotto. Ci siamo poi rivolti all’Associazione svizzera dei paraplegici con sede a Nottwil per saperne di più». Ed ecco le prime risposte. L’attrezzo che avrebbe portato a sciare persone con difficoltà motorie agli arti inferiori sarebbe stato il monosci; per i clienti invece con difficoltà motorie anche agli arti superiori, il dualsci. «Il monosci – aggiunge Vidotto – si compone di un sedile regolabile con tanto di cinture, il quale è fissato su una struttura in alluminio, a sua volta agganciata su uno sci. Il sedile in un certo senso sostituisce la funzione dello scar-

Nadia, sciatrice ticinese, e Stefano, maestro in formazione, durante una discesa in dualsci. (Davide Bogiani)

pone, quindi deve essere ben regolato per ciascun sciatore. Al posto dei bastoni si impugnano due piccole stampelle (stabilizzatori) alle cui estremità sono fissati due sci molto corti. Lo sciatore è attivo e le curve vengono impostate con il movimento della parte superiore del corpo e controllate grazie all’aiuto di questi stabilizzatori». Una spiegazione che ci porta alla mente l’atleta ticinese Murat Pelit, il quale è da alcuni anni balzato alla cronaca per i grandi successi raggiunti a livello internazionale proprio nelle gare di monosci. Meno conosciuto è invece il dualsci. «È vero – aggiunge Previtera, specialista in questa disciplina – si tratta di un attrezzo ancora poco diffuso in Ticino». In questo caso il sedile tipo rally, compreso di cinture a tre punti, con uno schienale più alto rispetto al monosci che funge da protettore per la testa, è fissato su una struttura in acciaio, la quale appoggia su due sci. A condurre l’attrezzo, come se fosse una

sorta di passeggino, è un maestro di sci. «Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, il cliente è tutt’altro che passivo nella seggiola e può influenzare la sciata muovendo lateralmente la testa oppure, in caso di residua mobilità degli arti superiori, con lo spostamento delle braccia. Nell’utilizzo di questo attrezzo vi è inoltre una componente molto importante, ovvero quella dell’interazione stretta fra il cliente e il maestro di sci». Maestro di sci che per poter insegnare l’utilizzo del monosci oppure così come per condurre i clienti con il dualsci, è tenuto a seguire una formazione specifica. «In effetti – spiega Vidotto, specialista in entrambe le discipline – si tratta di due formazioni ben distinte che iniziano con una giornata teorica organizzata dall’Associazione svizzera dei paraplegici di Nottwil sul tema della paraplegia». Se i requisiti della tecnica di base dello sci sono soddisfatti, si ha accesso

quindi alla formazione del monosci, rispettivamente del dualsci, ognuna della durata di tre giorni. I corsi si svolgono nella località sciistica di Sörenberg e sono condotti da maestri di sci dell’Associazione svizzera dei paraplegici. Alla formazione tecnica segue uno stage pratico di cinque giorni, a cui se ne aggiungono due di esame finale. A questo proposito va sottolineato che a inizio febbraio ha avuto luogo ad Airolo Pesciüm l’esame del dualsci che ha permesso a due candidati ticinesi di diventare specialisti in questa specialità. L’esame ha avuto luogo durante il weekend di insegnamento di monosci e dualsci organizzata in Ticino dall’Associazione svizzera dei paraplegici e a cui hanno partecipato come guide i maestri di sci dell’Associazione svizzera dei paraplegici in collaborazione con i maestri della Scuola Svizzera di Sci Lugano. Due giorni in cui la meteo ha fatto le bizze, ma che hanno tuttavia regalato grandi emozioni ai parteci-

panti, come ci riferisce uno dei cinque componenti: «Dopo l’incidente avevo abbandonato l’idea di sciare. Poi, improvvisamente, il sogno si è riacceso e realizzato. Sono di nuovo andato a sciare con la mia famiglia e questo è stato un regalo incredibile sia per me, ma anche per mia moglie e i miei figli». Tutto questo ad Airolo, stazione sciistica che negli ultimi tre anni si è impegnata per abbattere le barriere architettoniche, rendendo possibile addirittura lo svolgimento dei Campionati svizzeri paralimpici. Un evento che ha attirato molti sciatori svizzeri con andicap fisici o sensoriali (ipovedenti o ciechi) e che, grazie alla partecipazione (e vittorie) dell’atleta di casa nostra Murat Pelit, è stato fortemente mediatizzato in Ticino. E se l’inverno nelle prossime settimane non perde l’orientamento, ci saranno ancora molti giorni da dedicare alla neve, e perché no, per provare l’ebbrezza di una discesa in mono o dualsci.

Giocando, si fa sul serio

Grand Prix Migros È in corso l’edizione 2020 della maggiore competizione sciistica svizzera per giovani

appassionati; raggiungerà Airolo il prossimo 7 marzo L’opinione di alcuni atleti attivi oggi sul circuito internazionale di sci chiarisce esattamente il valore dell’evento. Corinne Suter, medaglia d’argento nella discesa libera ai campionati mondiali 2019 ricorda: «Il Gran Prix Migros è sempre stato per me il momento più importante dell’inverno. Mi piacevano moltissimo i giochi organizzati all’interno del Villaggio di gara». Luca Aerni, campione del mondo della combinata, dice dal canto suo: «Da bambino il Grand Prix Migros è stata la mia prima gara. Ho imparato a incassare le sconfitte, a tener duro e a non mollare». Mélanie Meillard, medaglia d’oro olimpionica, ha anche lei qualcosa da raccontare: «Ricordo che tutti ci impegnavamo per ottenere un buon risultato che ci permettesse di qualificarci per la finale». Queste testimonianze spiegano l’entusiasmo che ogni anno suscita la più importante gara di sci per i giovani tra gli 8 e i 16 anni. Lo scorso anno

Piccole promesse sugli sci.

sono stati più di 6500 i ragazzi che si sono iscritti in tutta la Svizzera e hanno preso parte a una delle 10 gare eliminatorie del leggendario Grand Prix Migros. Organizzato dal lontano 1972, il

GPM è il fiore all’occhiello della stagione sportiva alpina, e segna la proficua collaborazione tra Migros e Swiss-Ski. Come di consueto, le iscrizioni alle gare sono aperte sul web, all’indirizzo: www.gp-migros.ch (pagine in france-

se). L’iscrizione darà modo ai giovani atleti di partecipare alla gara ma anche di accedere al divertente villaggio sportivo dove sono presenti numerosi attività di animazione e di ristoro. Migros, che è da tempo sponsor della manifestazione, è presente al villaggio della gara con un luogo di ristoro M-Globe e con un gioco di abilità gratuito, che permette a tutti di vincere divertenti premi. Sul sito www.gp-migros.ch sono disponibili tra l’altro numerose brochure da scaricare con i consigli per iniziare l’allenamento e per prepararsi in modo adatto alla competizione. Da notare, che alla gara principale si affianca anche la tradizionale Minirace, gara non competitiva per piccoli nati nel 2013-2014. Il calendario annuale conta 10 gare sul territorio nazionale, più una finale che riunirà i primi 4 classificati di ogni tappa regionale. Le prossime in programma: sono domenica 23.2 Adel-

boden; sabato 29.2 Arosa Lenzerheide; sabato 7.3 Airolo; domenica 15.3 Wengen-Grindelwald; sabato 21.3 Nendaz. Dal 26 al 29 marzo si terrà poi la finale a Obersaxen. La giornata ticinese è sicuramente molto attesa nel nostro cantone: sulle piste della stazione sciistica leventinese si inizierà alle 10.00. Tutte le informazioni di dettaglio sono scaricabili qui: www.gp-migros.ch/fr/courses/informations-sur-la-course/airolo. Va ricordato che il giorno seguente, 8 marzo, si terrà nella stessa cornice il Famigros Ski Day, con giochi e attività sportive sulla neve (info su www.famigros.ch) L’invito a tutti giovani appassionati di non mancare a un appuntamento unico, che molti attuali campioni, in passato, non si sono lasciati scappare.

Grand Prix Migros, 7 marzo 2020, Airolo


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Ambiente e Benessere

Coi piedi per terra

Alle terme per la cultura

Viaggiatori d’Occidente Le compagnie low cost hanno ancora un futuro?

Bussole Inviti a

letture per viaggiare

Qualche giorno fa, l’organismo di autocontrollo dei pubblicitari inglesi (Advertising Standards Authority – ASA), a seguito di numerose proteste, ha bloccato una pubblicità di Ryanair giudicata ingannevole. Nei suoi spot alla radio e in televisione sosteneva infatti di essere la «compagnia aerea europea con le più basse emissioni di CO2». L’ASA ha contestato l’utilizzo di dati non abbastanza recenti per la comparazione, ma la questione è molto più complessa (e interessante). Tutti hanno ragione, tutti hanno torto. Ryanair si è difesa con energia, proponendo due argomenti inoppugnabili: rispetto ai concorrenti la sua flotta di aerei è più nuova ed efficiente (in media solo quattro anni di utilizzo), dunque inquina meno (66 grammi di CO2 per ogni chilometro volato da ciascun passeggero). Inoltre, il tasso di riempimento medio dei suoi aerei è molto elevato (97%); niente inutili posti vuoti. Per questo il loro portavoce ha dichiarato provocatoriamente a «The Independent»: «La scelta più importante che un consumatore può fare per dimezzare la propria impronta di carbonio è passare a Ryanair». La sostanziale correttezza di questi dati è confermata dai risultati simili del suo maggior rivale, easyJet, con 75 grammi di CO2 per km/passeggero. Il confronto con le compagnie aeree tradizionali è impietoso; Korean Air (tra le più inquinanti insieme ad Air China, China Southern, Singapore Airlines e Turkish Airlines) emette 172 grammi di CO2 per km/passeggero. Basta però cambiare punto di vista per giungere a conclusioni opposte. Lo scorso aprile per esempio la stessa Ryanair è finita nella lista dei peggiori inquinatori d’Europa, al decimo posto, sulla base dei dati raccolti dal Gruppo trasporti e ambiente dell’Unione europea. Per capire l’impatto ambientale basti ricordare che tutte le aziende che la precedono nella classifica gestiscono centrali elettriche a carbone (!). Il vero problema delle compagnie

Raimond Spekking

Claudio Visentin

low cost è il loro stesso modello di funzionamento. Proprio grazie all’efficienza, all’abilità nello scaricare i costi sui territori e nel tagliare senza pietà tutti i servizi e le spese inutili, hanno reso il volo alla portata di tutti. È cresciuta così una generazione di viaggiatori che usa l’aereo con estrema disinvoltura. Il numero di passeggeri cresce continuamente: i 310 milioni di passeggeri del 1970 sono diventati 1 miliardo nel 1990, 3,5 miliardi nel 2016, già 4,5 nel 2019. Ovunque vi troviate in questo momento un milione di persone stanno volando sopra le vostre teste. Senza interventi, le emissioni di CO2 prodotte dal trasporto aereo aumenteranno del 300% entro il 2050, mentre l’Unione europea, entro quella stessa data, vorrebbe dimezzarle. Gli altri rimedi funzionano poco e male, per esempio creare nuove foreste con il contributo dei viaggiatori per compensare le emissioni prodotte dal proprio volo. E anche i tentativi di autoregolazione del settore appaiono velleitari. L’aviazione è responsabile del 2% delle emissioni globali, il 12% di quelle prodotte dai mezzi di trasporto (dati London School of Economics); le compagnie vorrebbero congelarle al livello del 2020 e dimezzarle entro il 2050, ma l’intero progetto, costruito su base volontaria, appare poco credibile. A meno di fondamentali progressi tecnologici (per esempio sono allo

studio aerei elettrici) l’aviazione dovrà probabilmente essere ripensata dalle fondamenta, a cominciare proprio dalle compagnie low cost, per poi estendersi a tutte le altre. Non a caso Ryanair, avvertendo il pericolo, ha avviato importanti campagne di comunicazione, proponendo una migliore immagine di sé (il nuovo slogan è «More Choice. Lower Fares. Great Care» – «Più scelta. Tariffe inferiori. Grande cura»), anche sul versante della sostenibilità ambientale. In passato la compagnia non si era mai curata più di tanto del giudizio dei propri clienti, incurante delle critiche, puntando solo sulla convenienza delle proprie offerte. E così per sei anni consecutivi è stata la compagnia aerea meno amata del Regno Unito nel voto del gruppo di consumatori «Which?». Quando in marzo Ryanair ha deriso su Twitter British Airways per un volo finito per errore a Edimburgo invece che Düsseldorf, offrendo in regalo alla rivale un manuale di geografia, il pubblico ha inaspettatamente difeso British Airways, rimproverando Ryanair per i suoi pessimi contratti di lavoro, la richiesta di denaro per qualunque servizio, gli aeroporti lontani dalla destinazione proposta (Parigi Beauvais per esempio è a cento chilometri da Parigi). A questo punto però non si tratta di introdurre qualche aggiustamento

d’immagine, quanto di cambiare tutte le regole del gioco: bisogna volare meno pagando molto di più, volare solo se necessario, su lunghe distanze, e preferire il treno in ogni altra circostanza. Le grandi compagnie potrebbero adattarsi, magari con qualche aiuto di Stato, ma le low cost vedrebbero messo in discussione proprio il loro modello di funzionamento. Non è la prima volta del resto che grandi cambiamenti investono improvvisamente un settore dell’economia. Nel secolo scorso per esempio le due guerre mondiali azzerarono per anni i movimenti turistici; e la sfida posta dal cambiamento climatico non è certo inferiore a una guerra. Le compagnie low cost non hanno colpe particolari, in un certo senso anzi pagano proprio il loro successo, ma non possono sottrarsi a responsabilità globali. Naturalmente lo stesso taglio di emissioni andrà imposto anche alle altre attività umane: produzione di elettricità e calore, combustione di carbone, gas naturali o petrolio (25%), estrazione di combustibili fossili, raffinazione del petrolio, sua lavorazione e trasporto (10%), agricoltura e allevamento (24%), industria (21%), trasporti (14%), consumo di combustibili fossili per uso residenziale e commerciale (6%, dati IPCC, il comitato sul cambiamento climatico dell’ONU). Prima che sia troppo tardi.

«Il gentiluomo russo Nikolaj Karamsim stava seguendo un’antica tradizione quando decise di fermarsi a passare le acque a Baden, in Svizzera, durante un lungo Grand Tour attraverso l’Europa centrale e occidentale nel 1799: quella di recarsi in una rinomata stazione di acque minerali per curare i propri malanni, socializzare con gli altri ospiti e godere di alcuni vivaci svaghi culturali. Il venerato rituale a cui Karamsin si stava sottoponendo, le cui origini risalivano addirittura all’epoca classica greca e romana, era ritornato di moda da poco tempo dopo essere caduto nell’oblio per secoli…». La seconda vita delle terme, raccontata in questo avvincente volume, si distende lungo tutto l’Ottocento. Dopo aver trascorso l’inverno nella Riviera francese (a Nizza ancora si passeggia lungo la Promenade des Anglais), i potenti, i ricchi e gli intellettuali si trasferivano in massa nelle stazioni termali dell’Europa centrale. Baden-Baden era considerata la «capitale estiva d’Europa». Nelle grandi stazioni come Wiesbaden, Karlsbad e Marienbad, l’originario fine curativo lasciò presto spazio a cultura, divertimento e parecchia trasgressione. Anche la grande politica intrecciò qui molti dei suoi fili: per esempio alle terme – ben collegate da strade, poste e telegrafo – si consumò l’inutile tentativo di evitare la Prima Guerra mondiale e Vichy fu la capitale della Francia «libera» alleata ai nazisti. La fortuna delle terme sembrò declinare nel secondo dopoguerra con la nuova passione per il mare, la vita di spiaggia e l’abbronzatura. L’invenzione dell’estate riportò le terme alla loro originaria funzione curativa, ma era solo una parentesi. Negli ultimi anni si avverte prepotente un nuovo interesse per il benessere e le spa si sono moltiplicate in questa terza, e certo non ultima, vita delle stazioni balneari. / CV Bibliografia

David Clay Large, L’Europa alle terme. Una storia di intrighi, politica, arte e cura del corpo, EDT, 2019, pp. 492, € 28.–.

Una vagonata di vitamina C La nutrizionista Serve davvero per evitare i raffreddori? Laura Botticelli Gentile Laura, ho letto del fatto che il latte non peggiora il catarro ma mi piacerebbe sapere se la vitamina C previene i raffreddori, perché ne sono sempre troppo colpita e una mia amica mi ha consigliato di prendere un integratore molto forte di vitamina C su internet dall’America. Ma prima di fare la spesa desidero sapere se è vero che previene i raffreddori. Grazie. / Elsa Gentile Elsa, non so dirle da dove arrivi o quando abbia preso forma e consistenza la convinzione che la vitamina C sia un rimedio naturale al freddo e ai raffreddori, anche se è molto radicata nella nostra società. Mi piace pensare che vi sia tutta una serie di «regole» ancorate nel nostro modo di conciliare l’alimentazione allo stile di vita, e che questa nasca dalle semplici «osservazioni sul campo» («mangio carote per migliorare la vista», «mangio spinaci perché mi fanno diventare forte», eccetera). Alcune di esse hanno sicuramente un fondo di verità, mentre altre sono semplicemente errate, ma non per questo più facili da smontare. Nel caso della Vitamina C, un motivo, sicuramente valido, può essere dovuto al fatto che questa vitamina:

■ partecipa al funzionamento ottimale del sistema immunitario; ■ contribuisce alla formazione del collagene, che ha un effetto positivo sulla pelle, sui vasi sanguigni, sulle ossa, sulla cartilagine, sulle gengive e sui denti; ■ aiuta a proteggere le cellule dallo stress ossidativo; ■ aumenta l’assorbimento del ferro. La Vitamina C non è prodotta dal nostro corpo e per questo la dobbiamo assumere con gli alimenti: di solito le fonti principali sono gli agrumi, le fragole, le verdure verdi, i pomodori e i peperoni. La quantità raccomandata dal *DACH 2015 per gli uomini è di 110 milligrammi (mg) al giorno, e per le donne 95 mg. È vero che previene i raffreddori? Le ultime ricerche hanno scoperto che tra le persone estremamente attive, come i maratoneti, gli sciatori e le truppe dell’esercito che fanno esercizio fisico pesante in condizioni subartiche, l’assunzione di 200 mg di vitamina C ogni giorno sembra ridurre della metà il rischio di procurarsi un raffreddore. Per la popolazione generale, invece, la stessa assunzione giornaliera non l’ha ridotto. È però incoraggiante il dato emerso che assumendo almeno 200 mg di vitamina C al giorno, la durata dei sintomi del

raffreddore sembra diminuire in media dell’8 per cento negli adulti e del 14 per cento nei bambini, che si traduce in circa un giorno in meno di malattia. Questo potrebbe essere importante per lei, visto che dice di ammalarsi spesso e anche, ovviamente, per chi ne soffre. Detto ciò, se si desiderano ottenere i benefici della vitamina C, è necessario consumarla ogni giorno, e non solo all’inizio dei sintomi del raffreddore. Cosa dirle riguardo all’integratore? Non ho idea di quanto sia concentrato, ma alcuni studi hanno suggerito che si può prevenire il raffreddore con addirittura 8000 mg al giorno, ma dal momento che a dosi superiori a 400 mg, la vitamina C viene espulsa nelle urine e una dose giornaliera di 2000 mg o più può causare nausea, diarrea, dolore addominale e può interferire con i test per la glicemia mi sento di sconsigliarglielo. Il mio approccio penso sia ormai noto, e secondo me è meglio ottenere la vitamina C dal cibo, perché si ottengono anche altri nutrienti importanti. Se si mangiano le cinque porzioni raccomandate di frutta e verdura al giorno per la salute generale si otterrà abbastanza vitamina C. Buona spremuta a tutti!

Agli integratori è meglio preferire una buona spremuta di frutta. (Pxhere.com) Nota

* DACH: valori di riferimento per l’assunzione di nutrienti. Sigle equivalenti sono quelle della società tedesca per la nutrizione (Deutsche Gesellschaft für Ernährung e.V., DGE); della società austriaca per la nutrizione (Österreichische Gesellschaft für Ernährung, ÖGE), della società svizzera per la ricerca nutrizionale (Schweizerische Gesellschaft für Ernährungsforschung, SGE) e

dell’associazione svizzera per la nutrizione (Schweizerische Vereinigung für Ernährung, SVE). Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Ambiente e Benessere

Pollo con ananas e patate dolci

Migusto La ricetta della settimana

Piatto unico Ingredienti per 4 persone: 1 pollo di ca. 1,3 kg · 1,5 dl di succo d’ananas · 1 c di miele liquido · ½ cc di sale · ½ cc di zenzero in polvere · 1 presa di pepe di Cayenna · 500 g d’ananas · 2 peperoni rossi · 500 g di patate dolci · 3 c d’olio di colza.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Sciacquate il pollo e asciugatelo. 2. Fate ridurre il succo d’ananas con il miele della metà, poi conditelo con il sale, lo zenzero e il pepe di Cayenna. Spennellate il pollo con la marinata, conservandone un poco da usare in seguito. Accomodate il pollo su una grande teglia. 3. Scaldate il forno a 180 °C. 4. Tagliate l’ananas con la buccia per il lungo a fette di 3 cm. Dividete i peperoni in quattro e privateli dei semi. Tagliate le patate dolci per il lungo a pezzi grossi. Ungete tutto con l’olio e salate. 5. Distribuite gli ingredienti intorno al pollo e cuocete al centro del forno per 50-60 minuti. Durante la cottura ungete il pollo 2-3 volte con la marinata messa da parte. 6. Prima di tagliare il pollo, fatelo riposare per 10 minuti. Preparazione: circa 20 minuti. Cottura in forno 50-60 minuti. Per persona: circa 37 g di proteine, 25 g di grassi, 51 g di carboidrati, 580 kcal/

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Ambiente e Benessere

La next generation deve attendere Sport Roger, Rafa e Nole, in 16 anni si sono spazzolati 56 Grandi Slam su 65. Mai, nella storia del tennis,

si era assistito a un dominio così «devastante»

Giancarlo Dionisio Fino a pochi anni fa si parlava di «Fab Four», poiché il quarto della banda era il britannico Andy Murray. L’analogia con i quattro geniali baronetti di Liverpool ci stava, anche se stiracchiata. In fondo, pure Stan Wawrinka, l’unico, oltre a Murray ad aggiudicarsi tre tornei del Grande Slam, avrebbe potuto rivendicare la presenza nel quartetto. Ad ogni modo, Andy e Stan con i loro tre sigilli, così come, a maggior ragione, l’argentino Juan Martin del Potro, il russo Marat Safin, ed il croato Marin Cilic, tutti fermi a quota uno, sono semplicemente delle straordinarie comparse, invitate, di tanto in tanto, al gran ballo dei Re. In passato non si era mai visto uno scollamento così netto fra tre dominatori, e tutti gli altri mille professionisti del circuito ATP. Non era accaduto nell’era Rod Laver, negli anni Sessanta, durante i quali si presero le loro soddisfazioni anche Roy Emerson, Arthur Ashe, Ken Rosewall, Manuel Santana e parecchi altri. I due decenni successivi videro avvicendarsi ai vertici i vari Jimmy Connors, John McEnroe, Björn Borg, Guillermo Vilas, Ilie Nastase, Roscoe Tanner, Vitas Gerulaitis, Johan Kriek e Patrick Rafter. Infine, Mats Wilander e Stefan Edberg – colui che più di altri, nel passato, ha proposto un tennis che avvicinava quello di Federer – hanno aperto le porte a una folta nuova generazione di campioni, comprendente Ivan Lendl, Boris Becker, Jim Courier, Andre Agassi, Evgenij Kafel’nikov, Sergi Bruguera e Pete Sam-

Chi sarà il nuovo re del tennis? (Piqsels.com)

pras. Quest’ultimo, con i suoi 14 allori nei Tornei del Grande Slam, sembrava irraggiungibile. Poi, sulla scena sono arrivati loro: Roger, Rafa, Nole. Tre fenomeni, tre giganti, tre campioni extra galattici, diversissimi fra di loro per stile, personalità e carattere. King Roger, il più vincente con i suoi 20 trionfi nei Majors, è convinto che presto o tardi i due rivali lo affiancheranno e lo supereranno. Chissà se lo dice per scaramanzia o se lo crede veramente? Nadal, fermo a

Giochi

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porre che siano in grado di minacciare la leadership planetaria del Basilese. Certo serviranno, un fisico integro, e in questo senso entrambi hanno avuto in passato alcune battute d’arresto; concentrazione e determinazione allo zenith, facoltà che i due posseggono in quantità invidiabili; e soprattutto la speranza che i ragazzi della New e della Next Generation non maturino troppo in fretta. Sui Social Media, i fan di Roger Federer si stanno scatenando nel sostene-

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Una coppia è al tavolo di un ristorante, lui rivolto a lei: «Amore, dimmi qualcosa che mi faccia battere il cuore». Scopri la risposta risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 1, 6, 7, 3 6)

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quota 19, ha fallito l’aggancio, uscendo nei quarti di finale ai recenti Australian Open. Dal canto suo Djokovic, muscoli e mente d’acciaio, ha frustrato le velleità dell’austriaco Dominic Thiem, probabilmente il più forte tennista, almeno finora, della New Generation, ed è salito a 17 successi. Roger è del 1981. Riuscirà a imporsi ancora? Data la sua classe immensa non lo possiamo escludere. Sarebbe l’ennesima epica impresa. Rafael è del 1986, Novak del 1987. Tutto lascia sup-

re qualsiasi giovane in grado di fermare l’avanzata di Nadal e Djokovic. Allo stesso tempo molti osservatori accreditati sostengono che i due riusciranno probabilmente a scavalcare il sovrano, per numero di Grandi Slam vinti, ma che Roger rimarrà comunque il Re, the King, il Numero 1 di sempre, in virtù della sua classe e del suo tennis che sconfina nell’arte. Si ripresenta una situazione analoga a quella del ciclismo, in cui Eddy Merckx è universalmente riconosciuto come il più forte della storia, le cifre non mentono, ma Fausto Coppi, viene considerato il più grande, per la bellezza del suo stile e l’epos di alcune sue imprese. Attualmente, nella top dieci della classifica mondiale, ci sono cinque ragazzi appartenenti alla New Generation. Dominc Thiem, 26 anni, due volte finalista al Roland Garros, una agli Australian Open, è il più attrezzato. È quello che finora ha sferrato le picconate più robuste al castello dei tre sovrani. Ma anche gli altri promettono di affrontare questa stagione, e le prossime, con intenzioni rivoluzionarie: il russo Daniil Medvedev, 23 anni; il tedesco Alexander Zverev, 22; il greco Stefanos Tsitsipas, 21; e il 23enne italiano Matteo Berrettini. Tutti hanno nelle mani una porzione importantissima della storia del tennis mondiale di tutti i tempi. Saranno l’ago della bilancia, in grado di dirci chi, fra pochissimi anni, sarà il più vincente della storia, fra Roger, Rafa e Nole. Senza dimenticare questi ultimi due, si daranno battaglia fra di loro, con grande soddisfazione del primo.

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

ORIZZONTALI 1. Mezzo... 5. Un animale nella fattoria 10. Nome inglese 12. Simbolo chimico del sodio 13. Le iniziali del campione di tuffi Rinaldi 15. La cantante Zilli 17. Pronome personale 19. Accessorio per auto 21. Opera di scultura 24. Noto profeta d’Israele 26. Reparto di una mostra 27. Il politico Salvini (Iniz.) 29. Le iniziali del tenore Caruso 30. Onda all’asciutto... 32. Tutto per gli inglesi 34. Capitale della Lettonia 36. Rendono gentile la gente... 37. Attributo che qualifica il nome VERTICALI 1. La pena nel cuore... 3. Nome femminile 4. Turiddu li invita a bere 6. Due quarti dell’anno 7. Negli gnocchi 8. Un Ricky regista (Iniz.) 9. Un mammifero corazzato... 11. Preposizione francese 14. Si trasportano sulle spalle... 16. Le iniziali di una Sandrelli attrice 18. L’isola di Nessuno 20. Le iniziali dell’attore Scamarcio 22. Le iniziali dell’attore Selleck 23. Articolo 25. Fa battere il cuore 28. Un pezzo del bikini 31. Un anagramma di gai 33. Il letto dei wagons 35. Lo... rendono alto Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

Sudoku Soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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6 Soluzione della settimana precedente

L’AFORISMA – Se credi di essere troppo piccola per essere notata… Resto della frase: … PROVA A DORMIRE CON UNA ZANZARA. P R U A A I E D I O S I A N A T E I R A T N E T A A N N O Z D E A I T N A D O R A

N O R M E C A S T

O V A N T N R E T E C O A C R I T U O T A R S O A L V I N P P A C P A Z I O S T A

A M I C A O M A R

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Politica e Economia Svolta storica in Irlanda I nazionalisti di sinistra dello Sinn Féin, ex ramo politico dell’IRA, sono diventati la seconda forza nel parlamento

Reportage dall’Iraq Francesca Mannocchi racconta chi sono i giovani che stanno combattendo il regime iracheno, accusato di corruzione e di praticare ingiustizie sociali. La loro è soprattutto una protesta laica, contro l’Iran e contro gli americani

Il prezzo del pane Forte aumento del prezzo del grano in questi mesi. In alcuni paesi le conseguenze potrebbero essere drammatiche

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Brexit e la Svizzera Con la fuoriuscita del Regno Unito dall’UE i rapporti con la Svizzera non cambiano, ma per Berna sarà importante vedere che cosa Bruxelles concederà o no a Londra

Più divisa che mai

Germania Il caos scatenato dall’accordo tra CDU e destra nazionalista in Turingia e la crisi economica

dimostrano che dopo trent’anni il solco fra le due Germanie non è mai stato così profondo Lucio Caracciolo La Germania sta entrando in una crisi strutturale che investe tutte le dimensioni strategiche: politica, economia, società, identità. La lunga stagione del Dopoguerra è finita, ne sta per cominciare una nuova, all’insegna dell’incertezza. In questa fase di passaggio, assistiamo ad alcuni mutamenti di notevole rilievo. Il più evidente, non il più importante, riguarda il cambiamento del sistema politico. La crisi in Turingia, dove la CDU locale ha deciso di votare insieme all’AFD (destra nazionalista) un presidente liberale del Land, ha evidenziato la fine dell’èra Merkel. La cancelliera ha dimostrato di non avere il controllo del suo partito, almeno nella ex DDR. Tanto che è dovuta intervenire a cose fatte, costringendo alle dimissioni Annegret Kramp-Karrenbauer, AKK (nella foto con la Merkel), da lei posta alla testa del partito, oltre che lanciata quale candidata alla

sua successione alla guida del governo. La lezione del caso Turingia, tutt’altro che chiuso, è la seguente. Esistono oggi in Germania due sistemi politici. Quello dell’ex BRD occidentale, dove vige ancora per la CDU il veto alla coalizione con la destra nazionalista (e con i comunisti) e dove un partito liberale di sinistra, allegramente poststorico, quello dei Verdi, sta affermandosi quale forza determinante a scapito della socialdemocrazia e della stessa formazione cristiano-democratica. E quello dell’ex DDR, dove Linke e AFD rappresentano una quota significativa, talvolta maggioritaria dell’elettorato e quindi partecipano (Linke) o pretendono di partecipare (AFD) alla gestione dei relativi Länder. Così rompendo il tabù storico, valido dalla nascita della Bundesrepublik, per cui non vi devono essere intese fra il centro cristianodemocratico e formazioni di estrema destra, nelle quali allignano tendenze xenofobe – l’AFD, oggi.

Quale che sia l’esito della vicenda in Turingia, s’è aperto un dibattito pubblico interno alla CDU – e alla consorella bavarese, la CSU – sull’opportunità/convenienza di legittimare l’AFD come possibile partner di governo. Oggi a livello di Land, domani di Stato federale. Il più probabile candidato a succedere ad AKK, e nel 2021 alla stessa Merkel (se non sarà costretta a lasciare prima) è Friedrich Merz, capo della corrente più conservatrice del partito, che sta lavorando all’apertura di questa svolta politica. In ogni caso, il vecchio sistema di alleanze, che ruotava intorno al trittico CDU/SPD/FDP, poi allargato ai Verdi, è finito per sempre. A livello locale, forse presto su scala federale. La crisi economica verte invece sulla fine del modello basato sull’enorme surplus commerciale con il resto del mondo, partner europei inclusi. Finora centrato sul circuito esportazione di merci-importazione di liquidità dai paesi dove si esporta-riesportazione di

deflazione. Per tre ragioni di fondo: la difficoltà di reggere il sistema economico sull’export nella stagione dei dazi e delle barriere; la difficoltà dei mercati esterni, europei in testa, a continuare ad acquistare merci tedesche in fase di stagnazione/recessione; l’arretratezza tecnologica nella manifattura, a cominciare dal settore automobilistico, e nella Rete (5G e dintorni). Dalla combinazione delle difficoltà politiche ed economiche potranno scaturire presto serie conseguenze di ordine sociale. Accentuate dalla crescente disaffezione dei cittadini dell’ex DDR verso la Bundesrepublik che li ha annessi nel 1990, con molte promesse e risultati decisamente inferiori, o quanto meno non troppo apprezzati dai concittadini appena usciti da quarant’anni di regime comunista. Il solco fra le due Germanie non è mai stato così profondo – nei cuori e nelle menti, prima che nei portafogli – dall’epoca esaltante dell’unificazione.

Infine, e per effetto della combinazione dei fattori politico, economico e sociale, i tedeschi sono alle prese con una delle loro ricorrenti crisi di identità. Torna a risuonare un antico dubbio germanico: Was ist deutsch? Che cosa è tedesco? Qual è il posto della Germania in Europa e nel mondo, considerando anche il tradizionale dissidio con gli Stati Uniti, portato in tutta evidenza da Trump? Fino a che punto può Berlino vincolarsi in settori strategici (energia, telecomunicazioni, infrastrutture) a Pechino e a Mosca, senza pagare dazio, non solo virtuale, a Washington? La risposta a queste domande dovrà aspettare qualche anno. Nel frattempo, fa impressione osservare il tramonto della stella di Angela Merkel, fino a ieri considerata, con una certa enfasi, la leader effettiva dell’Europa comunitaria. Consumato quel crepuscolo, di quale luce s’accenderà la Germania?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Politica e Economia

Irlanda, Sinn Féin il più votato

Risulto storico Il partito di sinistra nazionalista, ex braccio politico dell’Irish Republican Army (IRA), ha cavalcato

il sentimento anti austerità ottenendo il maggior numero di voti alle legislative dell’8 febbraio sui due partiti centristi

Cristina Marconi Da partito di lotta, Sinn Féin ha fatto irruzione sulla scena irlandese come possibile, imprescindibile partito di governo. O almeno, dopo il successo travolgente e storico alle elezioni di sabato 8 febbraio, sarà difficile evitare di fare i conti con la leader Mary Lou McDonald, che da pallida delfina dello storico, controverso, carismatico Gerry Adams è riuscita a portare il partito a uno straordinario risultato presso un elettorato giovane, urbano, desideroso di vedere la robusta crescita economica dell’Irlanda finalmente rispecchiata in un miglioramento dei servizi pubblici, a partire dalla sanità, e in un approccio pragmatico alla crisi abitativa che vede da una parte gli affitti alle stelle per via di una mancanza cronica di case e dall’altra un numero enorme di senzatetto. Dalle urne è uscito un risultato relativamente inatteso per il partito nazionalista, tanto che erano stati presentati candidati solo in 42 seggi su 160 e che qualcuno, convinto che non ci fossero speranze, se n’era addirittura andato in vacanza durante la campagna elettorale. E invece grazie all’energica leadership di McDonald, cinquantenne borghese laureata al Trinity College, lontana dal profilo militante di un partito che per decenni è stato percepito soprattutto come il braccio politico dell’esercito repubblicano irlandese, si è arrivati alla valanga di voti. «Potrei benissimo essere il prossimo «taoiseach», ha detto la McDonald con il sorriso di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico. Ha preso il 24% dei voti, più dei due partiti storici di centro-destra, il Fianna Fail e il Fine Gael del premier uscente Leo Varadkar, che nonostante la brillantissima gestione del dossier Brexit e con un’economia che va a gonfie vele, tra piena occupazione e crescita più alta della zona euro, è stato snobbato da un elettorato desideroso d’altro. Perché il piano internazionale, all’Irlanda con-

temporanea, sembra interessare fino a un certo punto e sono stati soprattutto i problemi interni, quotidiani, a preoccupare un Paese che vuole cambiamento, giustizia sociale e più spesa pubblica. E quindi Fianna Fail ha avuto 38 seggi, Sinn Féin 37 e Fine Gael solo 35. A seguire gli Indipendenti con 19 eletti, i verdi del Green Party a 12, il Labour Party e i Social Democratici con 6 seggi ciascuno. La formazione Solidarity-People Before Profit ha ottenuto 5 poltrone, mentre Aontu e gli Independents 4 Change saranno rappresentati da un solo deputato. Per avere una maggioranza per governare ci vogliono 80 seggi al Dáil, il parlamento irlandese, e nessuno dei partiti ci si avvicina. Sulla carta un’alleanza fra perdenti Fine Gael-Fianna Fail resta la soluzione più semplice, magari con qualche sponda da indipendenti e forze minori. Ma Michael Martin e Leo Varadkar, che in campagna elettorale avevano promesso ostracismo assoluto verso lo Sinn Féin, appaiono quanto mai indeboliti: in discussione nella loro stessa leadership e costretti anche a livello personale a umilianti ripescaggi per essere rieletti nelle rispettive circoscrizioni di Cork e Dublino, dove invece la McDonald ha stravinto. Sul piano pratico significa che le complesse trattative tra i vari leader per formare un governo potrebbero protrarsi molto a lungo, del resto come già successo nel 2016 quando ci vollero 70 giorni per trovare una soluzione. Le elezioni europee e comunali del maggio scorso non avevano lasciato intravedere un risultato del genere per lo Sinn Féin, al contrario: il partito nazionalista aveva perso due eurodeputati ed era passato da 159 seggi a 81 nei consigli comunali. E la leadership della McDonald, giudicata incolore e senza mordente, ai tempi sembrava vacillare pericolosamente. Certo, sembra difficile votare per lo Sinn Féin ignorandone il retroterra storico e la missione principale, che è quella della riunificazione

Mary Lou McDonald (a sinistra) con la sua vice Michelle O’Neill. (AFP)

dell’isola celtica. E non è un caso che solo gli over-65, memori degli anni dei «Troubles», non abbiano ceduto al messaggio assai suadente del partito, che tra i vari punti in programma aveva anche l’abolizione della riforma che innalza l’età pensionabile da 65 a 68 anni, lasciando un considerevole numero di «esodati» per i quali non è stata ancora trovata una soluzione. Il partito è già al governo a Stormont, il parlamento dell’Irlanda del Nord, insieme agli unionisti del DUP, ed è sempre stato forte in Ulster, ma per Dublino (e per Londra) l’idea che potesse andare al governo è stata per molto tempo un tabù. «La gente vuole una politica diversa, delle politiche diverse e un governo migliore, nuovo, e penso che Sinn Féin sarà al centro di questo», ha spiegato la McDonald, mentre la sua vice Michelle O’Neill ha fatto presente che nei negoziati per la formazione di un governo ci saranno «richieste in direzione del progetto repubblicano». Ma non è stato questo il principale fattore di fascinazione verso il messaggio dello Sinn Féin, che si è proposto come un

partito di sinistra non ideologico con risposte alle preoccupazioni pratiche di un Paese i cui servizi e investimenti pubblici non rispecchiano sempre la ruggente crescita economica degli ultimi decenni, interrotta da una grave crisi che molti elettori ancora attribuiscono all’allora governo di Fianna Fail, e poi ripresa con forza. Il Fine Gael del premier Leo Varadkar, partito liberale di centrodestra molto aperto sulle questioni sociali – il Paese ha legalizzato le unioni omosessuali nel 2015 e l’aborto nel 2018 – è al potere dal 2011 e dal 2016 ha governato con l’appoggio esterno del più conservatore Fianna Fail. Radicale su temi come il welfare o la spesa pubblica, ma abile a stemperare gli istinti euroscettici del suo partito e al contempo a rinviare di 5 anni il sogno di un referendum sull’unificazione, McDonald sembra del resto già a suo agio in una (ipotetica) nuova dimensione più istituzionale. Mentre su Twitter il vecchio Adams si gode il terremoto scatenato dalla sua delfina. E in un fotomontaggio mostra Varadkar e Martin in vesti di neonati tenuti saldamente fra

le braccia di Mary Lou, con tanto di didascalia irridente in gaelico ed inglese: «È tempo di mettere a nanna i pupi». Per Londra, il «sisma» irlandese rimane, inevitabilmente, fonte di nervosismo sebbene il governo tory di Boris Johnson abbia fatto sapere di essere deciso a mantenere «strette relazioni» con chiunque sia destinato ad andare al potere a Dublino. Lo Sinn Féin è un’organizzazione talmente invisa ai britannici che prima degli accordi di pace le dichiarazioni dei suoi rappresentanti venivano doppiate da attori per essere trasmesse dalla BBC, anche se ormai a Belfast è diventato un interlocutore. E ai primi di marzo, nell’ambito di una charm offensive appena mascherata, verranno inviati William e Kate in visita ufficiale, la prima dopo la Brexit e dopo le elezioni sull’isola. La regina Elisabetta fece la prima, storica, visita nel 2011, seguita poi varie volte da Carlo e Camilla. Per William e Kate ha un forte valore simbolico: il loro terzogenito, Louis, ha preso il nome da un trisavolo, Lord Mountbatten, assassinato dall’IRA.

Sorella d’Italia

Giorgia Meloni Ha avuto l’abilità di vestire a nuovo il vecchio programma della destra sociale Alfio Caruso L’eterna ragazza della destra italiana è ormai una signora di quarantatré anni, che della propria intransigenza ha fatto la bandiera vincente. Dietro il paravento di un terzo millennio lontano dai totalitarismi del ventesimo secolo, benché sul fascismo e su Mussolini conservi un atteggiamento ambiguo e si guardi bene dal profferire giudizi netti, Giorgia Meloni ha ridestato tante parole d’ordine assai care alle viscere autoritarie del Paese. Il fascismo, che fu soprattutto il mussolinismo, è irripetibile, ma le sue pulsioni si conservano intatte e su di esse punta l’ex fanciulla prodigio per incentivare la propria base elettorale. Partita pochi anni addietro

dal 2% scarso, oggi veleggia abbondantemente sopra il 10: alle prossime elezioni regionali potrebbe addirittura surclassare l’arrancante Forza Italia di Berlusconi. Meloni ha avuto l’abilità di vestire a nuovo il vecchio programma della destra sociale come, per altro, testimonia la presenza di parecchi luogotenenti dell’estinta Alleanza Nazionale, da cui anche lei proviene. Con una storia alle spalle di rapporti parentali difficili, il padre l’abbandonò dodicenne assieme alla madre, e cresciuta in uno dei quartieri più proletari di Roma (Garbatella), Meloni ha puntato sulla famiglia. Il suo Fratelli d’Italia è una diretta filiazione di quei Figli d’Italia, con la cui lista divenne la prima donna a presiedere un’organiz-

Giorgia Meloni, contraria agli immigrati e ai gay. (Marka)

zazione giovanile di destra. Costituì il perfetto trampolino di lancio: nel 2008 appena trentunenne fu promossa ministra per la Gioventù, dopo esser stata, nel 2006, la più giovane di quel parlamento. Da subito cercò una differenziazione in grado di regalarle visibilità e autonomia sia dal mentore Fini travolto dagli affari immobiliari del cognato, sia dall’ingombrante Berlusconi. Cominciò con l’invito alla selezione italiana di boicottare le Olimpiadi di Pechino per il comportamento oppressivo della Cina in Tibet. Il governo di Berlusconi faticò a trarsi d’impaccio. I rapporti tra i due s’incrinarono fino alla rottura del 2012: causa ufficiale l’annullamento delle primarie dentro Partito della Libertà. In realtà Meloni aveva captato la persistenza di una consistente base di nostalgici, sui quali puntare. Tuttavia la formazione di un partito sulla falsariga dell’antico Movimento Sociale sembrava un azzardo. I risultati, invece, l’hanno premiata al di là di ogni previsione. Gli slogan sempre pronti a evocare paure e intolleranze incontrano il favore di quanti inseguono un capro espiatorio d’insoddisfazioni, malesseri, affanni. L’immigrato diventa, dunque, il bersaglio più facile fino a evocare un blocco navale nel Mediterraneo. Miele per le orecchie di quell’Italia, che giura di non essere razzista, ma di volersi soltanto difendere dai malfattori tutti di pelle

scura. Così di esagerazione in esagerazione, durante la campagna elettorale del 2018 Meloni ha indetto una protesta contro il museo egizio di Torino, accusato di aver organizzato una campagna propagandistica rivolta alle persone di lingua araba. Tranne poi scoprire che l’iniziativa non aveva una connotazione anti-italiana, bensì si trattava di una semplice promozione della cultura egizia tra le persone di lingua araba. Meglio, allora, dedicarsi alla ribollente insoddisfazione di Roma nei confronti della sindaca Raggi: le posizioni della Meloni si sono radicalizzate, molto vicine a quelle dei circoli dell’estrema destra. Salvini ha sperato di sbarazzarsene appoggiando la sua ricandidatura a primo cittadino, ma le ambizioni della sorella d’Italia sono ben più spesse. A differenza di Salvini non ambisce a una legittimazione internazionale: ha di recente partecipato – unico leader italiano – alla due giorni di Washington della «National Prayer Breakfast», promosso dalle comunità religiose americane. Lei stessa ha raccontato di esser stata ignorata da Trump e di aver scambiato una stretta di mano e «solo due parole di saluto» con il Segretario di Stato, Mike Pompeo. Le è bastato, però, aver ricevuto la conferma che la sua personale trinità – Dio, Patria, Famiglia – rappresenta la base del programma elettorale del presidente statunitense. D’altronde è pure

il leitmotiv di un video, che da mesi le regala un’intensa popolarità. Tratto dal suo intervento durante la manifestazione dello scorso ottobre a Roma, «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana» ha ricevuto sul web oltre sei milioni di visualizzazioni. E a nessuno pare interessare che simile appassionata professione di appartenenza sia stata poi seguita dalla dura battaglia per bocciare il milione di finanziamento proposto dal Pd alla Casa internazionale delle donne. Contraria all’eutanasia, alla scelta personale di vivere o morire, alla surrogazione di maternità all’estero, Meloni si compiace di apparire spietata nel negare qualsiasi diritto a ogni forma di diversità sessuale. È addirittura convinta che esista un piano per diffondere la teoria del gender: sarebbe dimostrato dalle politiche di sensibilizzazione scolastica sulle discriminazioni verso gay e lesbiche colpevoli di dare ai più giovani «un’interpretazione fuorviante della propria identità sessuale». Di conseguenza si è battuta allo stremo per negare qualsiasi riconoscimento alle coppie omosessuali. «Le Monde» ha scritto che Meloni incarna ormai l’alternativa più concreta alla supremazia di Salvini nel centrodestra. Berlusconi è sempre più convinto che i due riusciranno nell’impresa di farlo rimpiangere.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Morire per un nuovo Iraq

Politica e Economia

Reportage Da mesi migliaia di persone, giovani, sono scese in piazza per manifestare contro le ingiustizie

economico-sociali del governo, contro gli americani e contro l’Iran. Una protesta che ha superato le divisioni settarie

Francesca Mannocchi Per raggiungere l’ultimo piano del Turkish Restaurant, a Baghdad, bisogna salire a piedi quattordici piani di scale buie, facendo attenzione alle pareti diroccate di un palazzo che è stato per anni un punto di ritrovo commerciale della capitale irachena. Danneggiato da una bomba, nel 2003, anno dell’invasione statunitense è stato evacuato e abbandonato. Da allora è stato poco più di una carcassa vuota, decine di metri di cemento a dominare piazza Tahrir e le vie limitrofe.

La protesta di questa nuova generazione di giovani iracheni non ha leader, soprattutto non ha bandiere religiose All’inizio di ottobre, il Turkish Restaurant è tornato a vivere, la sua vista panoramica che un tempo era un’attrazione turistica è stata per quattro mesi una prospettiva strategica sulla città per i manifestanti che l’hanno occupato e che, dal tetto, hanno monitorato le vie delle proteste, il fiume Tigri, e sulla sponda opposta la Green Zone, l’area super protetta di Baghdad, sede del Parlamento, dei ministeri e delle ambasciate. Nei primi giorni di scontri, le forze governative hanno usato il tetto del palazzo per posizionare cecchini a sparare sulla folla, e dopo giorni di scontri i manifestanti l’hanno occupato, trasformandolo in quartier generale. Ad animare la torre non ci sono più famiglie e bambini come negli anni Ottanta, ma migliaia di giovani scesi in strada a chiedere un Paese più equo, libero dalla corruzione e dalle politiche settarie e clientelari, un Paese sollevato soprattutto dalla violenza delle milizie, dalle forze paramilitari che sostengono il governo. L’edificio per un po’ ha cambiato volto, ha cambiato identità e cambiato nome. Per quattro mesi, per tutti, è stato la «Stalingrado di Baghdad» o il «Monte Uhud di Piazza Tahrir», in riferimento a una montagna a nord di Medina, in Arabia Saudita, sede di una storica battaglia condotta dai primi musulmani nel 625 d.C. Le forze musulmane persero la battaglia del Monte Uhud appena abbandonarono la propria roccaforte, e benché sembri una contraddizione aver assegnato questo nome al sito simbolo della nuova rivoluzione irachena, per chi la vive quel nome più che una suggestione alla lotta, è un monito alla resistenza. «Lo chiamiamo Monte Uhud perché ci ricordi di essere vigili – dice Othman, venticinque anni, che per settimane è stato addetto alla sicurezza del sesto piano – dobbiamo cercare di mantenere le posizioni e non accontentarci delle misere concessioni del governo, non dobbiamo illuderci». Lungo le scale malmesse della Stalingrado di Baghdad, hanno lottato e vissuto i volti della nuova rivoluzione irachena: ragazzi e ragazze, giovani e giovanissime che hanno reso questo edificio il simbolo dell’azione politica. Ma anche i loro genitori, spinti alla piazza dall’urgenza di sostenere la generazione post-2003, perché la recente ondata di proteste in Iraq è soprattutto questo. Un movimento di giovani nati a cavallo (e cresciuti durante) i 17 anni che separano l’oggi dall’invasione statunitense iniziata per spodestare Saddam Hussein accusato di essere dotato

Vista panoramica dal Turkish Restaurant occupato dagli oppositori al governo. (AFP)

di armi di distruzione di massa, appoggiare il terrorismo islamista, di appropriarsi delle ricchezze petrolifere e di opprimere i cittadini iracheni con una dittatura sanguinaria. Per tutti, il 2003 è l’anno spartiacque. Umm Ahmed ha poco più di cinquant’anni, è una donna dal fisico robusto, mescola chili di riso in un’ampia pentola all’ultimo piano del palazzo, la chiamano «la regina dei pasti» perché prepara per tutti, ogni giorno, colazione, pranzo e cena. È la madre di Ahmed, ventunenne, ma dice di sé che si sente la madre di tutti, e considera ogni ragazza e ogni ragazzo figli suoi. «Manifesto con mio figlio perché gli studenti, ma anche i lavoratori, sanno che per loro in questo Paese non c’è futuro – dice senza lasciare mai il suo mestolo in legno. Mio figlio torna a casa la sera e mi dice: Mamma, perché dovrei studiare, se so che non avrò lavoro se non piegandomi alle milizie e alla corruzione? Perché, da madre, devo rassegnarmi a questa ingiustizia e pensare che il Paese sia destinato a non cambiare? Viviamo sul petrolio e i nostri figli hanno vite miserabili. Condividiamo con loro un destino di ingiustizia e iniquità, per questo siamo qui». Sulle facciate esterne per mesi i manifestanti hanno esposto un cartellone con le richieste della piazza: la fine di un sistema politico, quello istituito dopo l’invasione, che ha permesso alle élite di arricchirsi e ha consegnato la maggioranza della popolazione all’indigenza. La contraddizione di un Paese ricchissimo, tra i primi produttori di petrolio nella lista dei paesi Opec, e contemporaneamente in cima alle classifiche mondiali della corruzione. La settimana scorsa, dopo quattro mesi e numerose avvisaglie di una frattura interna al movimento, la piazza si è spaccata. Dopo la nomina di Mohammed Tawfiq Allawi a nuovo primo ministro, Muqtada al Sadr, religioso sciita, ha ritirato il suo sostegno alla piazza. I suoi sostenitori noti come Blue Hats (Cappelli Blu) hanno conquistato il Turkish Restaurant, sostituendo

i manifesti con le richieste apartitiche dei giovani di Tahrir con slogan antiamericani e pro Sadr. I membri del gruppo Blue Hats per giustificarsi, affermano di aver liberato l’edificio da tossicodipendenti e vandali, ma l’azione dei gruppi sadristi arriva alla fine di giorni in cui le forze governative hanno pesantemente represso le proteste rioccupando alcuni ponti chiave e spazi pubblici e liberandoli dalle tende e le cliniche da campo. I sadristi hanno voltato la faccia alla piazza, dicono i ragazzi di Tahrir, ma i manifestanti non vogliono arrendersi, affermano che i sostenitori di Mustada al Sadr sono inaffidabili e sono parte di quell’establishment corrotto che è precisamente la ragione che li ha spinti alla piazza e a contare centinaia di morti tra le loro fila: il desiderio di un Paese equo, della ricchezza distribuita per tutti.

I manifestanti non vogliono arrendersi nonostante i morti fra le loro fila. Continuano a combattere il regime che considerano corrotto e ingiusto La piazza vuole un nuovo premier, svincolato dalle dinamiche settarie, un iracheno per gli iracheni, libero dalle influenze di potenze straniere che combattono nel Paese una guerra per procura. «Non assisteremo un’altra volta – spiegano in piazza – all’Iraq che diventa territorio di una guerra tra occupanti che hanno agende contrapposte». Per questo i giovani di Tahrir gridano contemporaneamente «No alle ingerenze statunitensi» e «No all’Iran», slogan che si ripetono da ottobre e la cui eco continua, con rinnovata forza, dopo l’uccisione del generale iraniano Kassem Soleimani, ucciso da una bomba americana la notte tra il 2 e il 3 genna-

io scorsi, sulla strada dell’aeroporto di Baghdad. Soleimani era il capo delle forze al Quds, l’unità delle Guardie Rivoluzionarie responsabile di diffondere l’ideologia khomeinista fuori dai confini della repubblica islamica iraniana. Era la vera politica estera di Khamenei, era soprattutto l’anima delle milizie per procura che ha gestito, organizzato, finanziato e diretto in tutta l’area per due decadi: in Libano, Siria e Iraq, naturalmente. Proprio in Iraq, la milizia emanazione di Soleimani, katib Hezbollah – che oggi grida alla vendetta crudele contro gli Stati Uniti colpevoli di aver assassinato il leader carismatico – si è resa protagonista, con altre milizie sciite filoiraniane, delle dure azioni di repressione contro i manifestanti. A oggi le vittime sono più di 500, la stima dei feriti arriva a 15 mila, secondo l’Alta Commissione indipendente per i diritti umani in Iraq. La maggior parte dei manifestanti uccisi e feriti a Baghdad era composta da giovani nati alla fine degli anni Novanta, tanti venivano dalla baraccopoli di Sadr City, la zona più povera e disagiata della capitale. Mentre cammina lungo le vie che circondano Tahrir, Abdul Hamdani, medico venticinquenne che in piazza si occupa delle cliniche mobili per stabilizzare i feriti degli scontri, mostra le fotografie degli amici uccisi a ottobre, «i martiri della rivoluzione» li chiamano già. Sono volti di ragazzini, poco più che adolescenti, giovani uomini, e giovani coppie: «Loro sono due medici – dice indicando una fotografia, in una cornice a forma di cuore – hanno protestato dal primo giorno, curato decine di feriti. Le milizie li hanno seguiti la prima sera che hanno fatto ritorno a casa per riposarsi dai turni nelle cliniche mobili. Li hanno aspettati sull’uscio e uccisi senza pietà. La loro colpa? Chiedere un Paese più giusto». La fotografia accanto alla loro è di Ismail, aveva ventitré anni e guidava il tuktuk, uno dei simboli della povertà in

Iraq, guidati dagli umili, spesso illegalmente. Ucciso alla fine di ottobre. Ancora accanto Muntabar, quattordici anni. Il padre torna a Tahrir ogni giorno, porta un fiore, visitare gli amici del ragazzo e guarda la sua fotografia. Ha lasciato lì gli abiti di Muntabar, e i suoi amici hanno sistemato a terra una candela vicino alla cartuccia di gas lacrimogeno che l’ha colpito alla testa, uccidendolo. «Queste strade per lui erano diventate una comunità», dice battendosi la mano sul petto. «Due giorni prima di morire mi aveva detto che avrebbe voluto lasciare la scuola. Diceva: “Papà non possiamo permetterci le medicine, come puoi permetterti di farmi studiare?”. Lui non era come i figli dei politici, lui era come tanti qui un figlio della strada». Una piazza divisa dalla distribuzione della ricchezza, ma non dalle appartenenze settarie, muoiono sunniti e sciiti, quello che li accomuna è la povertà, è la sensazione di sentirsi privati delle opportunità. «Il mondo ha più a cuore il nostro petrolio che le nostre sorti – dice Ali, un giovane venditore ambulante che porta sul busto i segni delle torture delle milizie sciite – vogliono le nostre ricchezze e guardano morire noi e i nostri fratelli. Ci guardino allora, non lasceremo la piazza e non siamo disposti ad accettare le influenze di nessuno, né americani, né ayatollah. Vogliamo una sola bandiera, la nostra, e acqua, elettricità, diritto di studiare e di avere un lavoro senza il ricatto delle milizie». Una rivoluzione che non ha avuto inizio dalla chiamata di leader politici, né religiosi, ma dalla necessità che la richiesta di giustizia sociale venisse, finalmente, ascoltata. La rivoluzione di una generazione, quella post 2003, che si sente trasparente per il potere ma che, forgiata sull’esperienza della guerra, non ha paura di sacrificare tempo, energie, la vita stessa per un nuovo Iraq, perché dicono tutti «morire non spaventa, se pensi di non aver mai davvero vissuto».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Politica e Economia

Ehsanullah Ehsan e lo spettro della dittatura

Pakistan È evaso il terrorista talebano responsabile dell’attentato al premio Nobel per la pace Malala Yousafzai

del 2012 e del mortale attacco alla Peshawar Army School nel 2014 in cui morirono 132 studenti Francesca Marino La notizia è stata data via social media, un post su Facebook rilanciato poi su Twitter: Ehsanullah Ehsan, nome di guerra dell’ex-portavoce del movimento armato dei talebani del Pakistan (Tehrik-i-Taliban Pakistan), annunciava la lieta novella della sua fuga dalla «prigione» pakistana in cui si trovava da circa tre anni, e prometteva ulteriori dettagli il giorno seguente. «Prigione» perché, come si è saputo fin da subito e come i soliti ben informati sapevano da tempo, il responsabile dell’attentato ai danni di Malala Yousafzai, a cui è stato in seguito attribuito il premio Nobel per la pace, e dell’eccidio di centotrenta bambini in una scuola per figli di militari di Peshawar, non si trovava in prigione ma in una cosiddetta «safe house», una casa protetta gestita dai servizi segreti e dai militari. In compagnia di moglie e figli, compreso l’ultimo nato mentre Ehsanullah era già in galera. La signora e i bambini avevano a quanto pare abbandonato la prigione alcuni giorni prima, ufficialmente per recarsi in visita dai parenti. La notizia della fuga di Ehsan, secondo l’analista Faran Jeffrey, è stata data da un account Facebook creato nel 2016, e l’account risulta essere stato attivo durante tutto il tempo della permanenza di Ehsanullah in galera. La notizia, che non è ancora stata commentata ufficialmente

dall’esercito o dal governo pakistano, ha suscitato nel Paese un’ondata di indignazione. Sembra chiaro, difatti, che la cosiddetta «fuga» di Ehsanullah non è stata affatto una fuga. Il «buon» terrorista ha difatti comunicato che si trova in Turchia, e che ha deciso di abbandonare il Pakistan quando si è reso conto che, dopo tre anni, i militari non rispettavano gli accordi presi. Accordi che prevedevano a quanto pare il pagamento di una consistente somma di denaro all’ex-talebano in cambio di informazioni ma non solo. Ehsanullah Ehsan è stato difatti indotto a dichiarare dinanzi alle telecamere che il TTP è finanziato dalla RAW, l’intelligence militare indiana, ed è stato adoperato dall’esercito pakistano come teste-chiave nel processo contro la presunta spia indiana Kulbushan Yadav, in prigione a Islamabad. Si tratta quindi di «un assetto strategico di particolare importanza» per l’intelligence pakistana, come ha dichiarato in TV un colonnello in pensione dell’esercito. Specialmente in un momento in cui, come denunciano da mesi gli abitanti della regione del Waziristan, i talebani sono stati reinsediati dall’esercito nelle loro vecchie aree di controllo nelle regioni di confine e hanno perfino pubblicamente manifestato in piazza, lo scorso 5 febbraio, in solidarietà con il Kashmir su invito del premier Imran Khan. L’esercito e i servizi segreti non

per chiedere che vengano rispettati i loro diritti costituzionali e che vengono invece arrestati per «sedizione» e tradimento, come è successo ultimamente al loro leader Manzoor Pashteen, o che, semplicemente, spariscono nel nulla. Mentre Ehsanullah arrivava in Turchia con tanto di regolare passaporto, difatti, e mentre il fiancheggiatore e addestratore di terroristi Maulana Abdul Aziz occupava la Moschea Rossa di Islamabad ottenendo poi un vantaggioso accordo con l’amministrazione cittadina per il possesso di un pezzo di terra, il governo emetteva un mandato di cattura per la giornalista e attivista Gul Bukhari, accusata di terrorismo. Da quello stesso Stato, dicono i pakistani, che i terroristi non soltanto li lascia liberi ma gli fornisce anche denaro, case protette, passaporti, armi. I parenti delle vittime della strage di Peshawar, centotrenta bambini massacrati da Ehsanullah e compagni, sono in piazza a chiedere giustizia e a chiedere che il governo faccia luce sull’accaduto. Ma sanno già che è inutile. Le loro proteste andranno a unirsi a quelle di tanti, di troppi, che nel «Nuovo» Pakistan di Imran Khan vedono ormai soltanto una ripetizione, sempre più buia, del vecchio Pakistan. Il Pakistan della dittatura militare, non dichiarata questa volta e perciò mille volte più insidiosa e più difficile sia da denunciare che da sconfiggere.

Malala Yousafzai. (AFP)

hanno alcuna intenzione di rinunciare ai loro «assetti strategici», dicono nella zona, e soprattutto a usare tutto il loro potere per costringere gli americani a ritirarsi con un accordo-farsa che lasci

il Pakistan, ancora una volta, in controllo dell’Afghanistan. A farne le spese sono gli abitanti delle regioni di confine, i pashtun, che ormai da un anno portano in piazza migliaia di persone

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Politica e Economia

Il pane quotidiano

Materie prime Il prezzo del grano sale e in soli cinque mesi è aumentato del 30%. I fattori sono molteplici,

così come le pericolose conseguenze di un aumento eccessivo Marzio Minoli Visto con gli occhi di chi vive tutto sommato nell’abbondanza, il prezzo del grano è uno di quei temi che sicuramente non scaldano gli animi. In fondo, se il prezzo del pane aumenta o diminuisce di 10 centesimi non ce se ne accorge nemmeno. Ma se la dieta giornaliera è per il 60-70% basata su prodotti derivanti dalla farina, ecco che le variazioni di prezzo del frumento hanno sicuramente un effetto più pregnante. In questo momento dunque vi è apprensione per la crescita del prezzo del grano, che sul mercato di Parigi è arrivato a toccare i 200 euro a tonnellata, con un aumento del 30% rispetto al mese di settembre. E non è di meno la borsa di Chicago, la principale piazza finanziaria mondiale per quel che concerne le materie prime, dove per un bushel di grano (circa 27 chili) si è arrivati a quasi 6 dollari, livelli mai visti dal 2015. A questi aumenti del prezzo del grano dobbiamo aggiungere il fatto che l’indice dei prezzi degli alimentari pubblicato dalla FAO, l’agenzia dell’ONU per l’alimentazione e l’agricoltura, è ai massimi storici. In altre parole, il prezzo delle materie prime agricole sta raggiungendo picchi molto alti, ai massimi degli ultimi cinque anni. E le conseguenze potrebbero essere esiziali per molte persone. Ma non solo il grano, anche riso,

zucchero, latticini e olio vegetale non sono da meno in quanto ad aumento di prezzi, sempre guardando le tabelle della FAO. È vero, non siamo ancora ai livelli di qualche anno fa quando vi fu una vera e propria crisi alimentare a livello mondiale, ma i segnali non sono incoraggianti. Ma quali sono le cause che stanno portando in alto i prezzi? Le materie prime sono regolate dalle stesse leggi di mercato che coinvolgono altri beni, quindi si tratta di domanda ed offerta. In questo caso a giocare un ruolo molto importante è l’offerta, la quale, a causa di diversi fattori, è diminuita. E si sa, se la domanda rimane stabile, oppure aumenta, mentre l’offerta diminuisce, il prezzo sale. Vediamo quali sono i fattori che fanno diminuire l’offerta. Uno dei principali è lo sciopero che in Francia sta condizionando i trasporti da diverso tempo. Il grano accumulato rimane fermo nei magazzini, con porti e ferrovie parzialmente bloccati. Si stima che nei terminal marittimi siano fermi 450 mila tonnellate di grano. Si potrebbero usare i camion per spostarle, dicono dall’associazione di settore Intercéréales, ma il costo per tonnellata aumenterebbe di 5-6 euro. Un altro elemento che sta condizionando l’offerta di grano sono le misure annunciate dalla Russia, ovvero quelle di mettere un tetto di 20 milioni di tonnellate alle sue esportazioni. La Russia è il terzo produttore mondiale

di grano, dopo Cina e India, ma è il primo paese esportatore. La misura russa dovrebbe durare da gennaio a giugno di quest’anno, ma tanto basta per farne aumentare il prezzo. Il motivo per il quale la Russia vuole limitare le sue esportazioni è semplice: il grano dovrebbe servire per il consumo interno. Queste sono le due principali motivazioni che stanno condizionando il mercato del grano, alle quali se ne può aggiungere un’altra, meno incisiva ma importante, ovvero gli incendi in Australia, la quale è il nono paese produttore a livello mondiale. Come abbiamo accennato all’inizio, alle nostre latitudini se aumenta il prezzo del grano (ma vale anche per altri tipi di prodotti agricoli) e quindi di tutti i suoi derivati, possiamo anche farcene una ragione e non preoccuparci molto. Ma pensiamo a paesi che vivono di questo. Le tensioni sociali causate dalla scarsità e dal conseguente aumento dei prezzi delle derrate alimentari sono sempre state parte della società civile. Le «rivolte del pane» fanno parte della storia, ma senza scomodare tempi troppo remoti basta tornare indietro di qualche anno. Prima tra il 2007 e il 2008, con il prezzo del grano aumentato del 136%, e poi ancora tra il 2010 e il 2011 si vissero due crisi alimentari dovute proprio all’aumento dei prezzi. In molti paesi ci furono disordini e rivolte. Soprattutto in Africa, dove l’aumento dei prezzi dei generi ali-

Campo di grano in Francia: gli scioperi nel settore dei trasporti sono uno dei motivi per cui il prezzo è salito. (Keystone)

mentari scatenò l’ira della popolazione in 14 paesi, tra i quali anche il ricco Sudafrica dove nel 2012 si contarono 37 morti. Possiamo citare anche il Mozambico. Il prezzo del pane aumentò del 30% e le proteste costarono la vita a 13 persone nel 2010. Fuori dall’Africa, si possono citare anche i casi di Argentina e Venezuela che hanno vissuto forti tensioni, sempre a causa dei prezzi degli alimentari. Come abbiamo detto all’inizio, visto con gli occhi di chi ha a disposizione cibo in abbondanza, il problema del prezzo delle materie prime agricole può sembrare banale. Ma il concetto di

«sicurezza alimentare», uno dei cardini del vivere civile, è ben lungi dall’essere diventato un problema del passato, e gli esempi citati ne sono la prova. Oggi la situazione si presenta con molte analogie. I prezzi stanno aumentando e gli esperti escludono che si tratti di speculazioni finanziarie, visto come si muovono i suddetti prezzi. E se dopo tutto questo qualcuno avesse ancora dei dubbi sull’importanza del grano basterebbe solo ricordare una cosa molto banale: uno dei sinonimi utilizzati in modo colloquiale per definire i soldi è… grana. Un motivo ci sarà. Annuncio pubblicitario


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Politica e Economia

Spettatori interessati

Brexit e la Svizzera Non si prevedono ripercussioni negative sui rapporti fra Berna e Londra, gli accordi restano

in vigore o verranno rinnovati. Ma quanto Bruxelles concederà o no a Londra avrà il suo peso anche a Berna Marzio Rigonalli L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea ha provocato un ampio dibattito sulle sue conseguenze, sui possibili nuovi equilibri internazionali, sul futuro dell’Unione europea e sui rapporti che Londra e Bruxelles riusciranno a stabilire. Anche la Svizzera è coinvolta ed interessata, seppur in maniera meno importante. Lo è per due ragioni: per le nuove relazioni che riuscirà a concordare con la Gran Bretagna e per i contraccolpi che il futuro negoziato tra il Regno Unito e l’Unione europea avrà sul negoziato bilaterale tra Berna e Bruxelles. Un negoziato che è in corso da anni e che tende a definire un accordo istituzionale suscettibile di dare un’ampia base giuridica, e quindi la necessaria sicurezza, ai trattati bilaterali. Con la partenza del Regno Unito è iniziato un periodo di transizione che si concluderà il 31 dicembre 2020, entro la quale Londra e Bruxelles dovrebbero raggiungere un nuovo accordo. La transizione potrebbe venir prolungata, ma il condizionale è di rigore, perché il primo ministro britannico Boris Johnson ha già dichiarato che vuole concludere la trattativa con l’UE entro la fine di quest’anno, anche se non verrà raggiunta un’intesa. Durante questa fase transitoria le relazioni tra la Svizzera e la Gran Bretagna non cambieranno. Gli accordi bilaterali conclusi tra Berna e Bruxelles continueranno ad essere applicati anche al Regno Unito, che fa sempre parte del mercato interno europeo e dell’unione doganale, ma che non possiede più alcun diritto di codecisione. Non ci saranno dunque cambiamenti né per le aziende, né per i cittadini elvetici. Dopo la fine del periodo di transizione, le relazioni tra Berna e Londra avranno un nuovo volto. Si fonderanno in parte su alcuni accordi bilaterali che le due capitali hanno già concordato negli ultimi due anni, e in parte su nuove intese bilaterali che verranno definite più tardi. Le relazioni tra la Svizzera e la

Gran Bretagna hanno una certa rilevanza. Il Regno Unito rappresenta il sesto partner commerciale della Svizzera. È il sesto mercato d’esportazione per le merci svizzere e l’ottavo mercato di provenienza delle importazioni nella Confederazione. Anche il turismo, gli scambi nei servizi e nel settore della ricerca, nonché gli investimenti diretti, sono significativi. Per di più, ben 43’000 cittadini britannici vivono in Svizzera e 34’500 svizzeri risiedono nel Regno Unito. Cosciente dell’importanza di queste relazioni e dell’opportunità di preservarle, il Consiglio federale si è mosso già nel 2016, poco tempo dopo il voto popolare britannico che ha sancito la Brexit, ed ha definito quella che è poi stata definita la strategia «Mind the gap». I risultati concreti di questa strategia sono stati i cinque accordi bilaterali firmati con Londra tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Il primo accordo è di natura commerciale. Comprende una parte dell’intesa e delle regole che caratterizzano gli accordi commerciali tra la Svizzera e l’UE e verrà probabilmente esteso a settori che non sono stati ancora presi in considerazione. Il secondo accordo riguarda il trasporto delle merci su strada, con l’accesso libero a tutta la rete stradale, ed il terzo è centrato sul trasporto aereo e protegge i diritti esistenti nel settore. Il quarto accordo è dedicato al settore delle assicurazioni ed il quinto, infine, prende in considerazione i diritti dei cittadini, in particolare le possibilità di soggiorno, l’accesso alle assicurazioni sociali ed il riconoscimento delle qualifiche professionali che vengono loro garantiti. Più incerte e forse anche più insidiose per la Svizzera, risulteranno le conseguenze del negoziato che il governo britannico e la commissione europea inizieranno a marzo, quando i governi dei 27 Stati membri avranno approvato il mandato negoziale di Michel Barnier. Le due parti sono su posizioni molto diverse e lontane, e non lasciano intravvedere la possibilità di un compromesso, di una soluzione senza strascichi conflittuali.

L’ora è scoccata: la Brexit diventa realtà. (Keystone)

Boris Johnson vuole un trattato di libero scambio simile a quello che l’Unione europea ha firmato con il Canada nel 2016 (CETA), dopo sette anni di trattativa, ma che non è ancora entrato in vigore. Non vuole più sentire parlare di libera circolazione delle persone e rifiuta di accettare le regole che sono in vigore nell’Unione europea e che riguardano la concorrenza, gli aiuti statali, l’ambiente, la sanità e la protezione sociale. In realtà vuole poter accedere liberamente al mercato unico europeo e detenere la più grossa fetta possibile di sovranità nazionale. Si presenta al negoziato forte di alcuni interessanti dati oggettivi economici, politici e militari. La Gran Bretagna è la seconda più grande economia europea dopo la Germania, è l’unico paese europeo, oltre alla Francia, a far parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ed è una potenza nucleare, presente nella strategia militare europea. Sono dati non determinanti, ma che possono incidere sugli sviluppi della trattativa. La commissione europea, con in testa il capo negoziatore Michel Barnier, gioca una partita molto delicata.

Non può lasciar sorgere alla sua frontiera un possibile concorrente sleale, che non rispetterà le principali regole in vigore nell’Unione. È costretta a tener conto di tutti gli Stati membri. Deve tener accesa la fiamma della solidarietà fra i 27 governi e mostrare che l’uscita dall’Unione non è vantaggiosa per chi fosse tentato dal compiere questo passo. Non può, quindi, fare molte concessioni, ma non può nemmeno respingere tutte le principali richieste del governo britannico, senza correre il rischio di scatenare una guerra economica e commerciale con un paese che, in futuro, potrebbe rimanere un partner importante. La commissione può contare sulla forza del grande mercato europeo e sul fatto che il 47% delle esportazioni britanniche finisce nei paesi dell’UE, mentre soltanto il 7% delle esportazioni dell’UE arriva in Gran Bretagna. Infine, però, non può dimenticare che la Brexit è stato un insuccesso per l’Unione, che ha così dovuto abbandonare una parte del suo potenziale politico, demografico, economico e militare. Il negoziato tra la Svizzera e l’UE

su un possibile accordo istituzionale non ha molto in comune con la trattativa che sta per iniziare tra la Gran Bretagna e l’UE. Nel caso svizzero si tratta di un piccolo paese al centro del continente europeo che cerca di consolidare la sua posizione in Europa, centrata sulla via bilaterale con l’UE. Nel caso britannico, siamo di fronte ad un’isola che vuole voltare definitivamente le spalle al vecchio continente, all’Europa come si è costituita e si è sviluppata negli ultimi decenni. Il negoziato tra Londra e Bruxelles ed il suo divenire, però, possono avere degli effetti anche sulla posizione dell’UE nei confronti della Svizzera, in particolare nei confronti delle richieste che Berna non ha ancora formalizzato, sui tre punti del progetto d’accordo che toccano la protezione dei salari, gli aiuti statali e la direttiva sui cittadini dell’Unione. Sono effetti difficilmente intuibili, almeno per ora, e che possono tradursi in rifiuti imbarazzanti, oppure in piccole concessioni ed altrettanti piccoli passi verso l’intesa. I prossimi mesi ci sveleranno le prime mosse di questa importante partita.

Tassazione delle multinazionali, prime difficoltà Fiscalità Ancora lontano nell’OCSE l’accordo per la scelta del metodo e sul tipo di imposta da ridistribuire.

La Svizzera con molte multinazionali e un mercato interno piccolo segue con attenzione Ignazio Bonoli Le discussioni in seno all’OCSE per la tassazione delle grandi multinazionali incontrano le prime critiche, soprattutto da parte degli Stati Uniti. Il principio che sta alla base di tutti i sistemi fiscali dice che le imposte vanno pagate nel luogo di domicilio del contribuente. Ora – come ricordavamo in un nostro precedente articolo («Azione 37» del 9.9.2019) – per quanto concerne le imprese multinazionali, si vorrebbe che le imposte sull’utile venissero pagate nel luogo in cui questo utile viene prodotto. Una riforma fiscale in base a questo

principio è in gran parte collegata con la crescente informatizzazione delle attività economiche. Questa situazione rende più facile anche il trasferimento degli utili imponibili nel paese sede, oppure in quello che offre i maggiori vantaggi fiscali. Già all’inizio dei lavori vi erano comunque opinioni diverse. Per questo l’OCSE ha ritenuto opportuno convocare una riunione plenaria alla quale hanno partecipato i rappresentanti di 120 paesi, durante due giornate a Parigi. C’è infatti il pericolo che la mancanza di un accordo possa portare a una guerra commerciale, dalla quale ogni

Nestlé sarebbe fra le aziende svizzere più colpite dal nuovo sistema di tassazione in discussione all’OCSE. (Keystone)

paese cercherebbe di trarre il massimo vantaggio. Se ne è visto un anticipo nella disputa fra Parigi e Washington, che è rientrata, per il momento, dopo l’incontro avuto al WEF di Davos. Qui si è deciso di tenere aperte le discussioni sul progetto americano sulla tassazione delle transazioni elettroniche, che prevede una ripartizione internazionale, come avviene del resto già oggi, ma da contrapporre al nuovo metodo che verrà proposto dall’OCSE, lasciando libertà di scelta. Questo significa in pratica la morte del sistema OCSE non ancora nato, per cui la maggior parte dei paesi vi si sono opposti. Gli ostacoli da superare sono quindi importanti. Dapprima si vorrebbe trovare un accordo per le imprese «digitali», che non sono presenti in un paese, ma vi operano sul mercato, realizzando utili. Il principio andrebbe poi esteso anche ad altre imprese, che vendono beni di consumo e che dovrebbero versare maggiori imposte nel paese in cui hanno un mercato. Tema importante per la Svizzera, che è sede di molte multinazionali, ma dispone di un mercato interno piccolo. L’OCSE cita comunque già i settori in cui intervenire: per esempio il «software», la telefonia mobile, apparecchi

domestici, vestiti, cosmetici, beni di lusso, beni di consumo di marca, automobili. Si può subito constatare che imprese svizzere come Nestlé o Swatch sarebbero colpite, ma anche i produttori tedeschi di automobili. Per il momento non si parla di industria farmaceutica, con utili elevati, e quindi tali da far gola a molti mercati. Una nota di interesse per la Svizzera può essere l’intenzione di escludere per il momento la finanza, cioè banche e assicurazioni. I rapporti commerciali fra ditte non sono in discussione, ma vi sono attività dirette ai consumatori che, per principio, dovrebbero essere tassate sul posto. Secondo l’OCSE, questo mercato è già molto regolato e gli utili tassati in loco. Anche le forniture di semilavorati non dovrebbero sottostare al nuovo regime. Per la Svizzera si tratterebbe – per esempio – di pezzi usati per l’industria automobilistica. Infine, per principio, tutte le materie prime sarebbero escluse dal nuovo sistema. Un problema che rimane aperto è quello della «quantità» di imposte da trasferire. Si parla in ogni caso di imposte su «utili eccedenti», ma il loro ammontare è difficile da definire. La Svizzera e anche altri piccoli paesi restano

ancorati al principio della tassazione dell’utile (o del valore aggiunto) laddove avviene la produzione e la ricerca. Il prolungarsi della discussione e la ponderazione dei vari aspetti lascia sperare ai negoziatori elvetici che la soluzione finale non sarà troppo penalizzante. Sul tavolo delle trattative figura però anche il metodo dell’imposta minima. Questo permetterebbe di limitare di molto la concorrenza fiscale che potrebbe nascere. Anche in questo caso sono però sorte parecchie questioni. Si tratterebbe di un’imposta minima per tutta la multinazionale o per ogni paese in cui opera? Sono previste eccezioni per i brevetti? Una simile imposta sarebbe comunque difficile da accettare per la Svizzera, tanto più che i paesi più forti chiederebbero continui aumenti del tasso minimo di imposta. Rispetto alle idee iniziali verranno probabilmente introdotti alcuni correttivi che ridurranno il «costo» per paesi come la Svizzera, che comunque dovranno cedere parti di gettito fiscale anche sulle imprese nazionali. L’idea è quella di mettere a punto un progetto entro la fine dell’anno. Per questo è prevista una nuova riunione a Berlino in luglio per definire almeno i punti principali del futuro accordo.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Politica e Economia

All’insegna delle elezioni presidenziali La consulenza della Banca Migros

Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Altri quattro anni con Donald Trump? O la Casa Bianca sarà conquistata da un presidente democratico? Negli Stati Uniti il 3 novembre si terranno le elezioni presidenziali. Anche se al momento non è noto chi sarà in competizione con Trump tra circa nove mesi, le elezioni statunitensi sono già un argomento di discussione sui mercati finanziari. In genere i repubblicani sono considerati più favorevoli agli interessi commerciali e quindi più vantaggiosi per i mercati azionari. In realtà, nel lungo periodo, i presidenti democratici degli Stati Uniti sono stati migliori per il mercato azionario statunitense. Dal 1900, secondo la rivista economica statunitense «Kiplinger», il Dow Jones Industrial è aumentato in media di quasi il 9% all’anno quando un democratico aveva il controllo della Casa Bianca. Se era in carica un repubblicano, l’aumento era di «solo» circa il 6% all’anno. Durante il suo mandato, Trump ha ripetutamente richiamato l’attenzione sul mercato azionario come uno dei modi migliori per misurare le politiche del suo governo. «Nuovo record di borsa», ha twittato più volte. Dal suo insediamento nel gennaio 2017 fino al 22 gennaio 2020, il Dow Jones Indu-

strial ha effettivamente guadagnato un impressionante 58% in termini di total return. Quanto credito tragga Trump da questi forti guadagni rimane comunque un acceso punto di discussione. Tuttavia, le elezioni sono sempre connesse a fattori imponderabili. Nei prossimi mesi il mercato azionario statunitense sarà quindi probabilmente soggetto a oscillazioni. Due promettenti candidati presidenziali democratici – Elizabeth Warren e Bernie Sanders – sono considerati piuttosto ostili alle attività commerciali. Una gara tra Warren e Trump in particolare potrebbe spaventare gli investitori. Tuttavia, gli anni delle elezioni sono di solito buoni per gli investitori. Ad esempio, dal 1928 i mercati azionari statunitensi hanno chiuso l’anno elettorale solo quattro volte con una perdita (cfr. tabella). Le prospettive per un altro anno positivo per le azioni sono quindi intatte, anche se le azioni americane sono già in forte crescita. La Banca Migros prevede ulteriori progressi nei corsi per la borsa statunitense, ma in misura moderata rispetto al 2019: con il sostegno di un continuo allentamento della politica monetaria statunitense, contiamo che l’indice S&P 500 aumenterà di circa il 4-5% entro la fine dell’anno.

Gli anni delle elezioni sono in prevalenza buoni per gli investitori Anno ele orale 2016 2012 2008 2004 2000 1996 1992 1988 1984 1980 1976 1972 1968 1964 1960 1956 1952 1948 1944 1940 1936 1932 1928

Presidente in carica Obama Obama Bush W. Bush W. Clinton Clinton Bush H.W. Reagan Reagan Carter Ford Nixon Johnson Johnson Eisenhower Eisenhower Truman Truman Roosevelt Roosevelt Roosevelt Hoover Coolidge

Vincitore delle elezioni Indice S&P 500 Total Return (in %) Trump 12,0 Obama 16,0 Obama -37,0 Bush W. 10,9 Bush W. -9,1 Clinton 22,9 Clinton 7,6 Bush H.W. 16,6 Reagan 6,3 Reagan 32,5 Carter 23,9 Nixon 19,0 Nixon 11,0 Johnson 16,4 Kennedy 0,5 Eisenhower 6,5 Eisenhower 18,2 Truman 5,4 Roosevelt 19,5 Roosevelt -9,6 Roosevelt 33,7 Roosevelt -14,8 Hoover 37,9

Fonte: UBS

Thomas Pentsy

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Politica federale sempre meno di milizia Se c’è un principio nella politica svizzera, che è tabù da non infrangere, è quello di non fare come gli altri. Così il nostro paese ha il governo più piccolo del mondo e non riuscirà mai a dare il peso necessario ai saggi argomenti che consigliano di portarlo da 7 a 9 membri. Così la politica dei nostri parlamenti – dal federale al comunale – è politica di milizia e sia messo al bando chi predica che sarebbe meglio affidarla a politici professionisti. Anzi, nel corso degli ultimi anni, con l’affermarsi di un altro principio, quello di devolvere tutte le decisioni al popolo, c’è chi ha suggerito, in più di un Cantone, di sciogliere i consigli comunali e ritornare alle assemblee. Questo dibattito in favore della milizia in politica (che esiste, è bene sottolinearlo, solo in Svizzera) illustra un lato dello sviluppo in corso. L’altro lato lo descrivono invece i dati che misurano il grado di

professionalizzazione della politica nei parlamenti elvetici. Quest’ultimi mostrano che, da una legislatura all’altra il carico di lavoro per i parlamentari aumenta e che parallelamente aumentano anche le loro retribuzioni sicché non è lontano il giorno in cui anche i nostri parlamenti – quello federale in primis – ospiteranno solo politici professionisti. È una delle conclusioni che si possono dedurre dalla lettura di Milizia e professionismo nella politica svizzera, un volume di saggi sulla situazione a livello federale, cantonale e comunale, pubblicati a cura di Andrea Pilotti e Oscar Mazzoleni, in versione italiana, presso Dadò. Nella versione francese, quella che è capitata sul mio tavolo di lavoro, lo studio curato dai due ricercatori ticinesi dell’università di Losanna, si divide in 6 capitoli. Il primo, di Karim Lasseb e Andrea Pilotti, è dedicato a un riassunto empi-

rico della situazione. Oscar Mazzoleni ha invece scritto l’ultimo capitolo che posiziona il tema trattato nel dibattito sulla politica svizzera. Ai potenziali lettori di questa interessantissima indagine consiglierei di iniziare a leggere questi due capitoli, cominciando magari dall’ultimo. In seguito, a seconda dei loro interessi e delle loro inclinazioni potranno proseguire con la lettura dei capitoli da 2 a 5 dedicati al problema della professionalizzazione della politica nei parlamenti federale e cantonali, in generale, oppure ad aspetti particolari come il crescere secolare delle remunerazioni dei municipali delle città di Losanna o la selezione degli eletti nei parlamenti comunali di Losanna e Zurigo, dal 1946 al 2016. Ricordiamo, ancora una volta, la conclusione principale di quest’analisi: la professionalizzazione della politica

non si ferma. Questo almeno a livello federale. È possibile invece che l’attività politica nei parlamenti cantonali e comunali continui a restare, anche in futuro un’attività di milizia. A questa conclusione fanno da corollario due altre tesi. Le remunerazioni per i politici eletti nei parlamenti e negli esecutivi della Svizzera continuano ad aumentare. Aumentano sia i montanti che loro vengono assegnati in funzione dell’attività svolta, sia le somme per il rimborso delle spese da loro sostenute, sia, almeno a livello federale, i contributi agli istituti di previdenza che finanziano le loro rendite pensionistiche. In seguito a questi aumenti oggi un deputato all’Assemblea federale può svolgere il suo mandato da professionista ossia senza dover lavorare in una professione complementare. L’argomento principale nei frequenti dibattiti sull’aumento delle remune-

razioni dei politici (dei rappresentanti negli esecutivi come di quelli eletti nei legislativi) è che il carico di lavoro per i politici continua ad aumentare. I pochi dati a disposizione testimoniano la fondatezza di questa affermazione. Ma, apparentemente non bastano per trasformare la politica in attività per professionisti. L’altro corollario indica però che il professionismo sta introducendosi nel nostro mondo politico anche per una via diversa e cioè attraverso la selezione degli eletti. Tra gli eletti nei nostri consessi parlamentari (anche a livello comunale) è aumentata la quota degli universitari e si è invece ridotta quella degli operai e quella degli artigiani. In particolare sono aumentati i deputati che hanno studiato scienze politiche, il che sembrerebbe indicare che oggi esiste una specie di via privilegiata per far carriera in politica.

Per questo Johnson ha caricato questo progetto di tutta l’enfasi di cui è capace, arrivando a dire che «il governo deve avere le palle e la lungimiranza di andare avanti, nonostante le critiche». L’HS2 prevede la costruzione di un collegamento ad alta velocità tra Londra e le grandi città del nord – Leeds, Birmingham e Manchester – e una razionalizzazione della circolazione dei treni su tutta la rete, che non viene toccata in modo consistente da quasi cent’anni. Secondo un report commissionato dal governo, l’investimento è necessario perché entro il 2030 l’attuale rete raggiungerà una saturazione e diventerà inevitabile metterci le mani, tanto vale cominciare subito con un piano onnicomprensivo. I costi però sono altissimi (circa 80 miliardi di sterline), e sulla prima parte, quella che collega Londra a Birmingham non è più vantaggioso fare un contenimento perché ormai costerebbe di più, mentre sul resto del progetto è in corso una valutazione che dovrebbe portare a un consistente taglio dei costi (si allungherebbero i tempi, però, e forse l’alta velocità non sarebbe più così veloce

in alcune tratte: insomma, l’impatto finale non è chiaro). Ma la ribellione non ha soltanto a che fare con i costi. La realizzazione dell’HS2 è stata già ribattezzata «la nuova Brexit» (l’allarmismo nel Regno Unito è diventato invincibile) e ha portato alla rivolta di circa settanta parlamentari conservatori (il Labour corbyniano era a favore dell’investimento, anzi voleva allungare la rete ferroviaria fino alla Scozia), tra i quali ci sono anche molti dei nuovi eletti, che hanno dato una sfumatura più compassionevole al blu dei Tory e che però oggi vogliono mantenere le promesse fatte alle loro comunità. Tra i ribelli ci sono quelli che temono di dover annunciare entro breve aumenti nella tassazione, l’unico modo per poter ripagare un progetto tanto costoso e dai tempi così lunghi da non poter nemmeno dire quando sarà possibile sollevare i cittadini da quest’onere. Poi ci sono anche quelli che pongono la questione ambientale, un grande classico dell’alta velocità, che piace molto finché non passa di fianco a casa propria: nel caso inglese, si stima che dovranno essere abbattuti 53 ettari di

boschi, un danno considerato eccessivo considerando che quelle terre fanno parte dell’identità e della storia inglese. Lo stesso superconsigliere di Johnson, Dominic Cummings, è scettico: vede il vantaggio dei posti di lavoro che si creerebbero, ma continua a considerare «disastroso» l’impatto sulle comunità più care, quelle del famoso «muro blu» appena nato alle elezioni di dicembre, che non fanno parte delle grandi città e che quindi rimarrebbero escluse dalla modernizzazione. Johnson però non vuole fermarsi. A chi gli dice che andrebbe riformato il trasporto via terra risponde con 5 miliardi di sterline stanziate per la rete di autobus (con quattromila veicoli a zero emissioni da introdurre) e per le ciclabili nelle città. A chi gli dice che dovrebbe moderare la sua ossessione per le grandi infrastrutture, risponde rilanciando. Ricordate il famoso ponte con cui Johnson voleva risolvere la Brexit e il problema del confine nordirlandese? Ecco, Johnson lo vuole costruire: deve collegare l’Irlanda del nord e la Scozia, costerà 20 miliardi di sterline e c’è già un team al lavoro sui calcoli di fattibilità.

presentato dal dispotismo, un uomo solo al comando che non tollera né critiche al suo operato né dissensi. Nella storia del Canton Ticino non si è mai giunti a questi comportamenti estremi. Non sono però mancate le tentazioni autoritarie, e comunque le personalità forti e volitive hanno spesso fatto valere le loro idee con modi bruschi e senza tante cerimonie. Non per nulla Guglielmo Canevascini era soprannominato il «padreterno» e non solo per via della sua longevità politica. Ma la lista sarebbe lunghissima: nelle file dei conservatori si distinsero in questo ruolo Giuseppe Motta e Giuseppe Lepori; tra i liberali, Brenno Galli e Nello Celio. In tempi meno remoti si diceva che fosse «Il Dovere» a indicare al partito di maggioranza relativa la strada da seguire. Le direttive si potevano dedurre dagli editoriali redatti da Plinio Verda e Giuseppe Buffi. D’altronde era in questa cornice,

l’organo di partito, che si facevano le ossa i futuri dirigenti, figure ibride, avvocati-giornalisti-deputati in Gran Consiglio. Erano anche personaggi «carismatici», ossia dotati di un ascendente e di un talento oratorio che i rivali non avevano. Il timone era nelle mani di pochi, i cosiddetti «tenori», i più annuivano e ubbidivano. Ora le coordinate sono mutate. Le testate di partito, trasformate in settimanali, sopravvivono a stento e comunque hanno accantonato le ambizioni di un tempo. L’orizzonte politico oscilla tra la nostalgia dell’uomo forte e un movimentismo alimentato dalla grande Rete. La destra, per dire, preferisce affidarsi ad un leader unico, possibilmente ricco di suo. Solo sotto la guida di Blocher l’Udc è diventato il primo partito nazionale; anche la Lega dei ticinesi deve le sue fortune elettorali al patrimonio del suo fondatore, l’imprenditore Giulia-

no Bignasca. A sinistra prevale invece la mentalità collegiale, il processo decisionale condiviso, le liturgie partecipative. Ma anche questo metodo cela insidie, come il frazionismo e le scissioni, tare ereditarie di questa famiglia politica. Dove, verso quali sbocchi porterà il cammino della Rete non è possibile prevedere. Gli sviluppi che vediamo scorrere sotto i nostri occhi paiono dar luogo a due tendenze opposte, l’una verticale, controllata da un’oligarchia tecnocratica, l’altra orizzontale, ancorata ai princìpi della democrazia diretta. Insomma, siamo alle solite: sembra proprio che il «partito digitale» (il nuovo) si ritrovi ad affrontare gli stessi scogli del «partito analogico» (il vecchio). Ovvero un’oggettiva carenza non di strumenti tecnologici, ma di «teste», di risorse umane; un capitale fatto di idee, impegno, dedizione disinteressata alla causa.

Affari Esteri di Paola Peduzzi L’alta velocità scompiglia i Tories Gli investimenti in treni ad alta velocità finiscono sempre per creare spaccature negli elettori, nei Parlamenti, nei governi. È quel che sta sperimentando il Regno Unito di Boris Johnson che ha dato «la luce verde» all’HS2 (sta per High Speed 2), che è il più grande progetto in infrastrutture d’Europa, e che si è ritrovato in mezzo a una ribellione dei suoi stessi parlamentari conservatori. In realtà di luci verdi ne sono arrivate in passato già molte – la prima risale al 2009, la prima sezione costava sette miliardi e avrebbe dovuto essere comple-

tata entro quest’anno – a dimostrazione del fatto che incagliarsi su progetti come questi è un attimo. Johnson ha dalla sua parte una solida maggioranza ai Comuni conquistata alle elezioni di dicembre, una promessa elettorale di sostegno e inclusione per le regioni centrali e del nord dell’Inghilterra che sono passate ai Tory e una predisposizione antica agli investimenti in infrastrutture, che nella sua visione sono lo strumento più utile per creare crescita e allo stesso tempo soddisfare un’esigenza sempre più sentita dalle persone: guadagnare tempo.

Boris Johnson ha dato luce verde all’ HS2. (Keystone)

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Partiti politici da rianimare Che i partiti politici siano in apnea non è una novità. Per guidarli occorre un cospicuo corredo di doti: energia fisica e mentale, tempo, capacità di mediazione, resistenza; bisogna saper incassare i colpi bassi, deglutire le delusioni, assorbire i tradimenti. È un lavoro improbo, che riserva più oneri che onori. Inoltre i candidati che meglio potrebbero assumere questa funzione sono spesso persone già oberate di mille impegni, soprattutto sul fronte dell’attività professionale. Forse una volta bastava il sacro fuoco della passione, l’attaccamento alla bandiera in ossequio allo spirito di milizia. Oggi no, il dilettantismo non è più sufficiente per sbrogliare matasse sempre più intricate. Come venirne a capo? Alcune formazioni (Verdi, socialisti) hanno deciso di optare per una presidenza collegiale, possibilmente composta di uomini e donne in egual misura. Altri invece

preferiscono proseguire sui binari tradizionali, ovvero la leadership unica. Entrambi i modelli presentano vantaggi e svantaggi. La co-leadership permette di alleviare il fardello distribuendo in misura equa gli incarichi. Finisce però fatalmente per rallentare le decisioni, e sappiamo quanto conta il fattoretempo nell’era della politica accelerata. Inoltre può ingenerare incertezza e disorientamento negli iscritti, specie nei passaggi in cui emergono divergenze o dissapori all’interno del gruppo dirigente. La direzione monocratica funziona in modo più semplice e lineare: c’è un capo unico, riconosciuto dalla maggioranza dei tesserati (almeno in teoria). A lui spetta «dare la linea» al partito e agli eletti presenti nei consessi comunali e cantonali. Tuttavia anche questa soluzione non è al riparo da rischi, il peggiore dei quali è rap-


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Cultura e Spettacoli La melanconia oggi Pochi hanno le doti di Massimo Recalcati quando si tratta di analizzare i tempi presenti

Il filo della memoria A colloquio con il giornalista e scrittore Wlodek Goldkorn, autore di due densi memoir pagina 37

In the name of Tom Waits Chi l’ha detto che le donne non possono cantare le canzoni del grande maestro? Un omaggio a Tom Waits tutto al femminile

Linguaggi particolari Il foglietto illustrativo o bugiardino sotto la lente: ambiguità e incomprensioni

pagina 38

pagina 36

pagina 39 Le Tre Grazie di Thorvaldsen e di Canova accolgono i visitatori alle Gallerie d’Italia di Milano. (T. Stiano)

Titani della bellezza a confronto, Canova vs Thorvaldsen

Mostre Fino al 15 marzo sono sul palcoscenico delle Gallerie d’Italia le più belle statue del neoclassicismo europeo

che attirano folle affascinate Tommaso Stiano Le Gallerie d’Italia, nate dal «Progetto Cultura» in via d’espansione della Banca Intesa Sanpaolo, hanno già diverse sedi nella vicina Penisola e sono riconosciute a livello europeo per le prestigiose esposizioni che realizzano da alcuni decenni. Nella sede milanese di Piazza della Scala, fino al 15 marzo 2020, mettono in scena l’«Olimpo di marmo», una lunga carrellata di opere contrassegnate da un’unica caratteristica: la bellezza incarnata nella pietra. È una bellezza di antica memoria reinterpretata magistralmente dalla verve neoclassica dai massimi esponenti della scultura vissuti tra Sette e Ottocento: l’italiano Antonio Canova (1757-1822) e il danese Albert Bertel Thorvaldsen (1770-1844). Con un anglicismo, oggi li chiameremmo archistar dello scalpello ma erano già celebri e celebrati nella loro epoca quando si confrontavano dal vivo a Roma, dove il veneto Canova si era trasferito nel 1781 e dove

Thorvaldsen era giunto nel 1797 direttamente da Copenaghen. Proprio nell’Urbe laziale i due artisti avevano messo a dimora i loro immensi studi con uno stuolo di aiutanti documentati in mostra dai quadri esposti tra le statue. Oggi la competizione tra i due maestri non è più così vivace come allora, il confronto è più statico, ma non meno estatico, è la prima volta che alcuni loro capolavori vengono presentati appaiati per una gara estetica volta a raccontare somiglianze, affinità, differenze dentro un’aura di armonia che affascina il visitatore. «Questa mostra ci dà l’occasione irripetibile di vedere assieme opere che furono concepite insieme a Roma ma poi lasciarono la Città eterna, la sede delle arti tra Settecento e Ottocento, per raggiungere le loro illustri destinazioni internazionali: le corti o le collezioni di tutta Europa» (Stefano Grandesso, curatore mostra), e infatti, l’allestimento è frutto della collaborazione con il Thorvaldsens Museum di Copenaghen e il Museo Statale Er-

mitage di San Pietroburgo oltreché di vari prestiti concessi dai musei italiani, esteri e da collezioni private: nelle 17 sale, sotto i riflettori, ci sono 160 opere tra statue e quadri. Canova e Thorvaldsen hanno affrontato spesso i medesimi soggetti della mitologia greca e romana: il primo – dicono gli esperti – con una finezza e una sensibilità latina, il secondo con un approccio più rigoroso e rispettoso della classicità; entrambi hanno dato inizio alla scultura moderna, come esplicita il sottotitolo della mostra, guadagnandosi l’appellativo di «classici moderni» che hanno regalato ai posteri capolavori immortali. Canova lavorava con tanti collaboratori che però non erano artisti, erano piuttosto degli sbozzatori delle opere che lui progettava; finita la forma grezza, il maestro si isolava in una stanza al riparo da sguardi indiscreti e trasformava il marmo in vera opera d’arte dando al soggetto quell’eleganza e quella leggerezza che in mostra si ap-

prezza, ad esempio, nel vestito di Ebe divinità greca della gioventù, oppure nei volti e nella farfalla degli amanti adolescenti Amore e Psiche. L’atelier romano di Thorvaldsen era invece animato da aiutanti-allievi che con le mani in pasta (anzi nella pietra) imparavano l’arte della scultura, ecco perché tra le opere del loro maestro sono presenti a Milano anche alcuni lavori di pari bellezza dei suoi discepoli, come Flora e il Fauno in atto di suonare di Pietro Tenerani. Nel prolifico ventennio di lavoro a Roma i due protagonisti dell’esposizione, prendendo spunto dall’antichità, hanno saputo reinterpretare, ognuno con la propria originalità, quei temi universali dell’esistenza come la vita e la morte, le ansie e le gioie dell’innamoramento, la breve fase della giovinezza innocente, il fascino della bellezza che non muta solo negli dei e argomenti storici come le gesta di Alessandro Magno. Tutti temi che si materializzano davanti ai nostri occhi meravigliati nei due gruppi delle Tre Grazie (Bellezza,

Intelligenza e Abbondanza), nel Pastorello di Thorvaldsen e nel Pastore dormiente di Gibson, nei vari Amorini e Cupìdo, nella Venere del Canova, nei Ganimede e in molte altre opere compresi alcuni bassorilievi, busti e opere pittoriche. Ce n’è quanto basta per uscire dalle sale meravigliati da tanta bellezza in mostra. E per chi non è sazio, al Museo di Roma in Trastevere, fino al 15 marzo c’è Canova. Eterna bellezza con 170 lavori dello scultore veneto e di altri autori, presentato nel numero 03 di «Azione». Dove e quando

Canova/Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna, Milano, Gallerie d’Italia, Piazza della Scala 6. Fino al 15 marzo 2020. Orari: ma-do, 9.3019.30 (gio. fino alle 22.30; lu. chiuso). Costo: 10 € (mostra + collezione permanente). Info: www.gallerieditalia.com


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Cultura e Spettacoli

Dal vuoto al muro

Pubblicazioni Nel suo ultimo saggio, Massimo Recalcati indaga le oscillazioni

del desiderio ipermoderno Sebastiano Caroni Negli ultimi decenni, molti sono stati i cambiamenti che hanno ridefinito i nostri punti di riferimento culturali. La caduta del muro di Berlino e il conseguente tramonto del duello ideologico fra comunismo e capitalismo; la globalizzazione e la deregolamentazione dell’economia; l’avvento della società dell’informazione e della comunicazione, di Internet e delle nuove tecnologie che, bene o male, oggi ci portiamo tutti in tasca. Sull’onda di questo (presunto) boom tecnologico, abbiamo assistito anche al considerevole sviluppo dell’intelligenza artificiale, di biotecnologie di punta e, recentemente, all’entrata in scena di algoritmi capaci di anticipare e dirigere i nostri slanci consumistici. Questa metamorfosi della sensibilità ha dato modo a una schiera di nuovi chiromanti del digitale di annunciare un futuro al di là di ogni previsione. D’altra parte, diverse voci autorevoli hanno sviluppato un discorso critico, basato non tanto sul progresso tecnologico, quanto piuttosto sulla consapevolezza dell’erosione di valori come la solidarietà, lo stato sociale, il lavoro, la privacy, e l’introspezione. In nome di una visione etica del genere umano, pensatori del calibro di Zygmunt Bauman (società liquida), Ulrich Beck (società del rischio) e Gilles Lipovetsky (ipermodernità), hanno svolto un sapiente lavoro di analisi, di critica, e di monitoraggio coscienzioso dei tempi attuali. Sulla scia di questi illustri pensatori si inserisce, nel nostro contesto, anche lo psicanalista e filosofo italiano Massimo Recalcati. Un autore che negli anni ha prodotto saggi che, all’incrocio fra il collettivo e l’individuale, si inter-

Lo psicanalista italiano. (Marka)

rogano sull’intreccio fra le tendenze socio-culturali figlie degli sconvolgimenti della globalizzazione, e i sintomi psicopatologici di cui gli individui contemporanei si fanno portatori. Con Le nuove melanconie, l’ultimo suo saggio uscito di recente, Recalcati coglie l’occasione per aggiornare il suo sguardo, e per completare una riflessione che, se facciamo astrazione per i suoi lavori più divulgativi, ha preso avvio dall’analisi delle configurazioni anoressico-bulimiche descritte nella Clinica del vuoto (2002), ha attraversato le turbolenze esistenziali della ricerca spasmodica del piacere consumistico

ne L’uomo senza inconscio (2010) per approdare, ora, ai disagi palesati dalle nuove forme della melanconia con, appunto, Le nuove melanconie (2019). Sull’arco di circa vent’anni, quelli che intercorrono fra il primo e il terzo saggio, Recalcati sostiene che si sia passati dall’esperienza di un vuoto angosciante prodotto dall’imperativo di un piacere narcisistico costantemente rilanciato perché, in fondo, mai veramente soddisfatto, a un atteggiamento radicalmente opposto: un ripiegamento su sé stessi, un rifiuto di prendere parte alla vita attiva (si veda, su tutti, l’esempio degli hikikomori), un divor-

zio fra il sé e l’Altro; e, a livello politico, un atteggiamento reazionario che trova nel muro (in questo caso, l’esempio di Trump è il più lampante) il suo segno più eloquente. Qual è quindi il nesso fra questo ripiegamento reazionario e la più comune definizione del termine melanconia? Come sosteneva Freud, da cui Recalcati riprende l’analisi, la melanconia risiede in un’incapacità cronica di elaborare il lutto simbolico nei confronti della perdita di un importante oggetto affettivo. Secondo Recalcati, il soggetto melanconico contemporaneo tende a trincerarsi in sé stesso; co-

struendo una barriera, un muro che lo separa dal mondo esterno. Ecco perché questo muro, trasformato in oggetto pulsionale, in àncora patologica, diventa l’emblema della nuova condizione del soggetto e della collettività che, avversi all’eterogeneità della vita e al commercio simbolico con l’Altro, sono inesorabilmente condannati allo scacco della pulsione di morte. Dagli slanci reiterati di un turboconsumatore (il termine è di Lipovetsky) assuefatto alla continua ricerca di stimoli in un mondo di piaceri estemporanei, si è dunque passati alla cristallizzazione del segno opposto: chiusura, isolamento, rifiuto e, in ultima analisi, pulsione di morte. Esisterebbe, quindi, un’alternanza fra la spinta consumistica del libero mercato e il ritiro autistico e mortifero insito nel rifiuto di aprirsi alla vita e all’Altro. Chi segue Recalcati da qualche anno, avrà certo notato l’impasto di innovazione e continuità che fa da sfondo al suo percorso autoriale. A chi invece è abituato soprattutto all’immagine mediatica dello psicanalista, ma volesse comunque avventurarsi nella lettura del suo ultimo saggio, diciamo di munirsi di pazienza, consci che il testo è impegnativo dal punto di vista teorico e concettuale. Ma, in un caso come nell’altro, c’è sempre l’allettante prospettiva di una ricompensa per aver intravisto, lungo pagine fitte che riconducono Freud e Lacan alle problematiche dei giorni nostri, un barlume di saggezza. Perché, come direbbero i poeti, il barlume rimane, oggi come ieri, l’unica forma di saggezza veramente possibile. Bibliografia

Massimo Recalcati, Le nuove melanconie, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2019.

Gladiatore, giù il casco!

Mostre Esposizione romana all’Antikenmuseum di Basilea Marco Horat «Sposata con un senatore, Eppia ha seguito una squadra di gladiatori fino all’isola di Faro, sul Nilo e sui bastioni malfamati di Alessandria. Essa ha dimenticato la sua casa, il marito, la sorella; si fa beffe della sua patria, abbandona i figlioletti piangenti». Così racconta Giovenale nelle Satire, capitolo VI. Ma di quale bellezza Eppia si era tanto invaghita da essere soprannominata «la gladiatrice»? «È Sergino; ha il viso coperto di sfregi, un gran bernoccolo sul naso, il ciuffo spelacchiato per l’attrito dell’elmo e un occhio sempre lacrimoso. Ma è un gladiatore!». A parte che forse le cose non erano proprio come le racconta Giovenale, resta il fatto che molte matrone romane fossero attirate dal fascino del gladiatore (eros e tanathos, amore e morte); ma non solo le dame romane, come testimoniano le innumerevoli rappresentazioni di scene gladiatorie su mosaici, pitture e oggetti di uso quotidiano. Nel suo I bassifondi dell’antichità la storica Catherine Salles spiega che per i Romani il godimento era intimamente legato alla morte. «Sono belli i “morituri” quando sfilano nell’arena, al suono di marce guerresche: i sanniti con le loro corazze scintillanti stupendamente cesellate, i reziari armati di rete e tridente, i mirmilloni gallici, i traci con la loro sciabola ricurva, gli andabati che combattono alla cieca con un casco senza aperture o gli essedari sui loro carri. Tutti, nel loro manto di morte, esercitano sullo spet-

tatore una fascino sadico e voluttuoso». Come per altri versi succedeva nei confronti delle prostitute, ricercate... ma anche disprezzate, non diversamente da quanto avviene ancora ai nostri giorni. Le cronache raccontano anche di gladiatori e aurighi che guadagnavano montagne di denaro, a prova della loro popolarità, simile a quella dei calciatori o dei cantanti moderni; pagati per divertire i potenti e il popolo sulle gradinate. Un capitolo della storia romana complesso quanto affascinante che la mostra di Basilea cerca di illustrare principalmente attraverso una serie di reperti eccezionali provenienti dal Museo archeologico nazionale di Napoli, con la collaborazione della città romana di Augusta Raurica e museo. Significativo il titolo scelto dal Direttore Andrea Bignasca e da Esaù Dozio curatore della mostra: Gladiator, die Wahre Geschichte; tutta la verità insomma, al di là dei luoghi comuni e degli stereotipi nonché delle immagini hollywoodiane che tutti abbiamo negli occhi grazie ai grandi Kirk Douglas e Russell Crowe. Molte le domande che nascono spontanee: parliamo di arene insanguinate con massacri di massa o ci sono anche aspetti storici politici ed etici da tener presenti? I gladiatori erano schiavi e prigionieri condannati a morte o coraggiosi combattenti? Da quando e perché presero piede gli spettacoli gladiatori a Roma e in tutte le più grandi città dell’Impero? Andrea Bignasca racconta come la

prima testimonianza di giochi gladiatori risalga al 264 a.C ad opera di Tito Livio, che scrive di un combattimento fra 3 coppie di gladiatori chiamati dai figli per omaggiare il padre defunto. Un costume che viene dalla Grecia antica (VII-VIII secolo a.C.) come racconta Omero a proposito di Achille che organizza per l’amico Patroclo, ucciso da Ettore, anche un duello tra gli eroi Diomede e Aiace. Una ritualità che prese piede a tal punto a Roma che nel 65 a.C. Cesare organizzò, ufficialmente per ricordare i venti anni della morte di suo padre ma in effetti per lanciare la sua carriera politica, uno spettacolo con ben 320 coppie di duellanti che portavano armi d’argento. Uno spreco enorme di risorse che costrinse più tardi l’imperatore Augusto a regolamentare la materia, introducendo limiti e regole precise. Se all’inizio si trattava di prigionieri e schiavi vestiti come soldati in lotta tra di loro (si parla di «gladiatura etnica») in fondo con lo scopo di affermare la superiorità di Roma sul mondo, più tardi si passò alla «gladiatura tecnica» con combattenti specializzati che nel 25 per cento dei casi proveniva da un ambito locale; cittadini di bassa estrazione sociale che si offrivano volontari in cambio di uno stipendio, di vitto alloggio e cure mediche, con un contratto di lavoro che durava cinque anni. Se sopravvivevano potevano diventare allenatori a loro volta in una delle caserme dove venivano addestrati i gladiatori; vere e proprie scuderie che andavano

Dettaglio di mosaico con gladiatori ad Augusta Raurica. (© AugustaRaurica, H. Grauwiler)

a combattere in altre arene del mondo romano, come oggi una squadra sportiva va in trasferta. I duelli erano giocati alla pari, nel senso che si fronteggiavano atleti dello stesso calibro con armature diverse ma complementari: il reziario ad esempio aveva un tridente e una rete senza altra protezione, mentre il mirmillone che lo fronteggiava era maggiormente protetto ma per questo meno agile. Da una villa di Pompei proviene in mostra un dipinto che ritrae un episodio citato anche dalle fonti secondo il quale durante un derby tra Pompei e Nocera nacque una rissa tra gli spettatori con morti e feriti dentro e fuori lo stadio; una tragedia che Nerone punì con un divieto di celebrare giochi gladiatori per dieci anni (!) nel celebre anfiteatro campano. Interessante il grande mosaico di Augst recentemente restaurato che decorava una villa cittadina con scene di duelli, qui presentato con una ricostruzione e visita virtuale dell’edifico in tre

dimensioni. E poi ci sono le armi da parata o da combattimento, gli schinieri e gli elmi in bronzo e ferro, le ricostruzioni di come era organizzato un anfiteatro con i suoi sotterranei e gli ascensori che portavano in superficie uomini e animali. Da un cimitero di gladiatori trovato a York in Gran Bretagna provengono invece gli scheletri di alcuni uomini giovani e robusti (ca 500) che recano ferite e fratture varie; tutti decapitati e scomposti o a pancia in giù, per scongiurare la paura che potessero rinascere e tornare a colpire i viventi; da analisi del Dna si è scoperto che uno di questi proveniva dalle nostre regioni, forse a sud dell Alpi! Dove e quando

Gladiator. Die wahre Geschichte. Basilea, Antikenmuseum. Orari: ma, me, gio, sa, do 11.00-17.00; ve 11.0022.00; lu chiuso. www.antikenmuseumbasel.ch


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Elogio della memoria

Cultura e Spettacoli

Incontri A colloquio con Wlodek Goldkorn, per molti anni responsabile delle pagine culturali

de «L’Espresso» e autore di due incredibili memoir

Simona Sala «Sono un devoto, di più, un fanatico della memoria degli sconfitti e rivendico con tutte le mie forze la dignità della disfatta». La frase riportata sul retro di copertina di L’asino del Messia, di una potenza e una forza inequivocabili, riassume in poche parole una dichiarazione di intenti rivolta a tutti i perdenti della storia, della vita e del destino, inserendosi alla perfezione nel solco di un pensiero che vuole l’umanità, in senso lato, al centro. Questo è tipico del suo autore, Wlodek Goldkorn, moderno apolide che in realtà è un cittadino del mondo, acuto osservatore di percorsi umani spesso tortuosi e ingiusti. Wlodek Goldkorn è nato a Katowice, in Polonia. Di religione ebraica, insieme alla famiglia riuscì a evitare le deportazioni (a differenza di molti parenti) riparando in Russia, e fece ritorno in patria dopo la guerra, solo per ritrovarsi nuovamente costretto a lasciare la Polonia nel 1968, emigrando in Israele. In Medio Oriente Goldkorn trova un Paese diametralmente opposto alla Polonia (infatti parla della terra dei popoli del deserto, in contrapposizione con la terra dei popoli dei boschi), uscito da poco dalla Guerra dei Sei Giorni, in cui la costruzione di una nazione di appena vent’anni è in piena realizzazione, e vede protagonisti alcuni personaggi destinati a entrare nella storia, come Amos Oz. Gli studi riporteranno Goldkorn in Europa, dapprima in Germania, e poi in Italia, dove vive tuttora. Lo abbiamo incontrato alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano. Wlodek Goldkorn, le sue prime lingue materne sono state il polacco e lo yiddish, seguite dall’ebraico. In che lingua ha scritto i suoi due libri?

In italiano, poiché è la mia lingua di lavoro. Molti scrittori scrivono letteratura in una lingua appresa da adulti, scelta che comporta alcuni privilegi importanti. È un procedimento spontaneo che assomiglia alla psicanalisi: scrivere in una lingua imparata da adulti dà una libertà impossibile nella propria lingua materna. Il rapporto con la parola è meno gravato dalle associazioni o dalle cose che riportano all’infanzia, c’è una maggiore distanza con la parola. La parola non è immediata, ma mediata. Si dice che Joseph Conrad sul letto di morte parlasse polacco, perché non mediava ormai più. Scrivendo in una lingua che non è quella materna si hanno anche degli obblighi: la lingua diventa classica, e non si può usare lo slang o storpiare le parole, perché il lettore sentirebbe immediatamente che

si tratta di un artefatto. Se da un lato si ha la libertà psicologica, dall’altro si è incatenati a uno stile letterario da cui è impossibile uscire, ma a me non dispiace.

In questi tempi, in relazione alle commemorazioni dell’Olocausto, sentiamo parlare spesso di memoria, concetto che attraversa anche i suoi libri. Ne L’asino e il Messia riporta le parole di una donna tedesca che sostiene di preferire l’eccesso di memoria alla sottrazione, poiché l’eccesso prevede l’assunzione di responsabilità. Qual è il suo rapporto con la memoria?

Io sono contro l’eccesso di memoria. Riallacciandomi alle parole della donna del libro, credo che la situazione italiana non sia paragonabile al contesto tedesco. In Italia i conti con il fascismo li hanno fatti i partigiani e la costituzione, che è antifascista. Resta comunque l’elaborazione intellettuale, che è tutta da discutere, tenendo conto dei partigiani. I tedeschi hanno dovuto fare i conti in modo molto più radicale con la memoria, anche perché la Shoah è «roba loro». La Germania è stata convertita alla democrazia quasi per forza, mentre l’Italia l’ha conquistata, e questa è una differenza enorme. E allora qual è secondo lei la dose giusta di memoria?

Non lo so. So solo che per vivere bisogna dimenticare molte cose. Non c’è memoria senza oblìo, e questo è un concetto che ribadisco ne Il bambino nella neve. Vado ad Auschwitz perché voglio imparare a memoria la mia tomba di famiglia, il mio cimitero di famiglia, che purtroppo non ha tomba, ma quando esco lo voglio dimenticare. Questa non è una contraddizione: non posso ricordare sempre, se lo facessi finirei per diventare rancoroso e incapace di sognare. Ma il sogno comporta l’oblìo.

Durante un viaggio in Polonia racconta di essere finito in una manifestazione nazionalista. Come vive il rafforzarsi di queste ideologie?

È un fenomeno in crescita, forse in Polonia più che altrove. Credo che il risorgere dei fascismi o dei nazionalismi radicali si debba combattere soprattutto con mezzi politici, cioè contrastando la narrazione del futuro di queste persone con un altro tipo di narrazione.

Da molti anni in Italia, Wlodek Goldkorn. (© Leonardo Cendamo)

della non accettazione, del restare critici e dalla parte degli oppressi, sempre.

Lei infatti parla della «dignità della disfatta».

Certo, ma ciò non vuol dire che gli oppressi siano buoni, anzi, quando prendono il potere a volte diventano ancora più cattivi degli altri. Però bisogna stare dalla loro parte. Penso che parlare della Shoah serva a dire «guardate quanto è fragile la vostra civiltà», poiché la Shoah è il crollo totale della civiltà occidentale, il rovesciamento dei valori. Come ho scritto su «Repubblica» in occasione della Giornata della Memoria, la Shoah è il rovesciamento della rivelazione del Sinai.

La memoria è legata soprattutto al tempo, che lei definisce circolare. Ci parla della circolarità del tempo?

Allora significa che noi democratici non siamo stati abbastanza bravi. È molto importante raccontare la Shoah, poiché può servire per insegnare il linguaggio della rivolta contro l’esistente,

Nel deserto si capisce che esiste qualcosa di eterno. Questa era anche l’idea di Amos Oz; egli raccontava che quando la mattina passeggiava nel deserto, dove regna una realtà immutabile, capiva che quando i politici usano parole come «mai» o «eternità», in realtà dicono sciocchezze. È una cosa che va oltre le nostre percezioni. Il passato non torna, perché è dentro di noi, e il ruolo della memoria è importante quando pensiamo al futuro. Non ci sono memorie morte, a meno non si stermini un intero popolo, come è successo a certe tribù in America. Il tempo o la memo-

Poiché, se c’è una cosa che Goldkorn rifiuta, è la vendetta: «penso che la memoria non serva a rivendicare i torti patiti, a chiudersi in un recinto della propria comunità. Penso che della memoria vada fatto un uso politico». Se da una parte i memoir sono stati per il loro autore l’occasione per ripercorrere un’esistenza ricca e a modo suo travagliata, contrassegnata da incontri indimenticabili e imperdibili, da continue sfide e nuove realtà, da una serie di viaggi nei luoghi dove si sono svolte atrocità inenarrabili, ma anche da puntuali excursus politici, essi sono comunque anche uno spazio di riflessione condivisa (perché offerta al lettore, pagina dopo pagina) su ciò che, storicamente, moralmente ed esteticamente ha rappresentato e

portato una delle maggiori tragedie del 900, la Shoah. Goldkorn definisce la Shoah «un vuoto» di cui ha paura e dunque, i libri si trasformano nel «tentativo di far fronte all’angoscia», con il dovere di riconoscere però il vuoto in quanto tale, e la rinuncia a volerlo riempire con messaggi positivi e di speranza, poiché non possiamo, né dobbiamo, negare quanto il Male sia «radicato dentro ognuno di noi». Sorprendentemente, al termine della lettura, il lettore non si ritrova amareggiato, quanto più contagiato dall’instancabile desiderio di Goldkorn di comprendere a fondo il mondo in cui viviamo e, se non di trovare delle risposte alle grandi domande dell’umanità, di porre almeno le domande giuste.

E se lo Stato non attua questo contrasto?

Il bisogno di capire Non è semplice parlare dei due libri che hanno dato celebrità all’editor senior de «l’Espresso», Il bambino nella neve e, appunto, L’asino del Messia, poiché il lettore si trova confrontato con dei memoir a tratti spiazzanti, strazianti, ma poi di nuovo consolatori e pacificatori, attraversati dal prezioso e delicato fil rouge della riflessione e delle domande interiori.

ria lineare sono una convenzione che comprende unicamente la memoria dei vincitori, e poiché c’è stata una vittoria, la storia va avanti. Ma c’è anche una storia degli sconfitti, che non ha fatto la storia, e credo che si tratti di memorie che devono essere ripescate, curate, e trattate con molto amore, perché sono fatte dei desideri e dei sogni più interessanti quando ci si immagina il futuro. Ma dunque cos’è il futuro?

Il futuro è solo la nostra immaginazione sommata a un’azione collettiva. Quando facciamo un’azione collettiva per avere un futuro, dobbiamo mettere gli elementi di quelle memorie nei nostri sogni di un futuro migliore. Il desiderio della redenzione e del ritorno a una situazione diciamo di fine esilio, per quanto possa essere ingenuo e immaturo, è importante, perché in fondo siamo tutti esuli. L’esilio è una condizione esistenziale che sovviene nel momento in cui usciamo dal ventre materno.

Torniamo a parlare di Amos Oz, che citava prima e con cui aveva un profondo rapporto di amicizia. Egli dichiarava che una delle straordinarietà di Israele risiede nel fatto che la nazione è nata come frutto di un sogno, e come tutti i sogni, una volta realizzati, non corrispondono più a quanto sognato: è d’accordo?

Sì, molto. Da Oz ho imparato tante cose… Oz parlava sempre del compromesso e mi trovavo d’accordo con lui. Prima di arrivare al compromesso però, è necessaria un’idea radicale. Solo quando ci si rende conto che la vita è diversa dall’idea radicale o dal sogno che si avevano, si scende, o sale, al compromesso.

Oz suggeriva una definizione diversa del concetto di pace, che secondo lui non andava confuso con l’idea di stima o affetto. In fondo anche ignorarsi è una forma di pace.

Se è per questo anche non eccedere nell’idealismo è una forma di pace. Vi sono molti idealismi cui non dobbiamo cedere, ad esempio riguardo alla questione delle vittime. Tendiamo a credere che la vittima sia buona per definizione, ma non lo deve essere per forza. Il fatto è che una vittima va aiutata in quanto tale, perché in quel momento è vittima. Una volta che è stata aiutata, ci si può confrontare con essa, anche per comprendere l’idea che ha del mondo; aiutare qualcuno infatti non significa accettare tutto quello che questa persona rappresenta, ma è una

discussione che deve avvenire in un secondo momento.

Le dispiace venire sempre riportato alla questione israeliana in quanto ebreo?

Non mi pone problemi, infatti mi sento responsabile per quello che succede là. Ho il passaporto israeliano e sento un legame molto profondo, per quanto non fattivo, con la sinistra israeliana. Per me il problema di Israele oggi è l’occupazione, che reputo un problema prepolitico: quando c’è un’occupazione militare significa che ci sono due categorie di persone, una che gode di pieni diritti, e un’altra che non ne ha. È una situazione nociva per entrambe le parti, certamente per chi non ha diritti, ma poi finisce per corrompere anche chi ce li ha. Lei ha affermato a più riprese di amare molto la letteratura israeliana. Cosa la rende tanto speciale?

La letteratura israeliana ancora racconta delle storie, come si faceva una volta. Poi amo molto la lingua ebraica, che ha una grande ricchezza di espressioni in cui la lingua biblica si mescola allo slang.

Nella brevità della nostra vita abbiamo sempre l’idea che lo status quo sia la misura di ogni cosa.

È un problema politico. Abbiamo parlato dei democratici, della sinistra. Una delle cose che la sinistra ha completamente abbandonato, sono i desideri del passato, Faccio un esempio molto primitivo, la sinistra aveva una mitologia, di cui facevano parte i comunardi, la comune di Parigi. Ma una figura come Louise Michelle, comunarda protofemminista, anarchica e poetessa, chi se la ricorda ancora? Quando ai primi del 900 morì a Marsiglia c’era una folla a salutarla, ma perché l’abbiamo abbandonata? In nome di che cosa? Perché abbiamo lasciato perdere quella memoria? Ricordarla non significa essere comunisti, ma riconoscerne il valore. Il capitalismo non può essere la fine della storia, e questo non perché il capitalismo sia cattivo, ma perché la storia non ha un punto di arrivo. Purtroppo chi è stato sconfitto viene dimenticato. Ciò riguarda anche la memoria del movimento socialista ebraico del Bund, sconfitto dai nazisti. I militanti del Bund sono morti nelle camere a gas, e da qui è partita l’idea che siccome sono stati sconfitti, la loro memoria non vale niente. Invece la loro memoria per me è estremamente interessante.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Cultura e Spettacoli

So long, Tom

Musica Tom Waits visto dalle donne: un nuovo album tributo permette di offrire

un’eccellente rilettura «al femminile» del repertorio di un grande maestro

Benedicta Froelich Sebbene lo statunitense Tom Waits sia senza dubbio da annoverarsi tra i grandi storytellers del rock internazionale degli ultimi quarant’anni, non si può negare come il particolarissimo timbro vocale da lui prescelto (di fatto una forzatura non da poco delle corde vocali dell’artista) abbia allontanato molti potenziali ascoltatori dalle meraviglie di cui il californiano è stato finora capace. Fortunatamente, ciò non ha comunque impedito al pubblico casuale di apprezzarne profondamente le composizioni qualora esse vengano interpretate da artisti dalla voce più malleabile e convenzionale; il che spiega la pubblicazione di questo nuovo album tributo, Come On Up To The House, il cui sottotitolo – Women Sing Waits – conferma una volta di più come l’intenso repertorio di Tom sia sempre più apprezzato dalla sensibilità artistica femminile. Certo, chiunque abbia familiarità con le incisioni di Waits potrà forse rimanere perplesso davanti all’idea di utilizzare voci femminili per un songbook che, da molti anni a questa parte, è stato dal suo autore gestito con tono roco e volutamente alterato fin quasi al parossismo; tanto più che il CD compie la scelta tutt’altro che scontata di indugiare su un album in particolare della discografia di Tom, ovvero il relativamente tardivo Mule Variations, pubblicato nel 1999. E in effetti, a parte classici assoluti come la celeberrima Downtown Train, la maggior parte dei brani selezionati proviene dai lavori per certi versi più «cantautorali» nella carriera di Waits – nonché i più riusciti ed emotivamente coinvolgenti, in cui il musicista ha messo in secondo piano l’abituale enfasi interpretativa a favore di una particolare attenzione alle sfumature emozionali e intimiste offerte dalle liriche.

Forse è proprio per questo che i brani di Mule Variations sono tanto adatti a una rivisitazione da parte di voci senz’altro più aggraziate e delicate di quella di Tom – e la dimostrazione la si ha fin dall’indiscusso capolavoro di songwriting che costituisce l’ispirata title track del CD, appassionato incitamento a non lasciarsi travolgere dalle brutture della vita e dall’autocommiserazione che ne deriva; peccato che la versione qui presente, interpretata dalle Joseph (nome dietro il quale si nascondono tre sorelle originarie dell’Oregon) sia così edulcorata e priva di nerbo da vanificare completamente lo spirito originale del pezzo. Va invece molto meglio con lo struggente lento romantico-esistenzialista Take It With Me, forse anche grazie al fatto che la natura stessa del suo arrangiamento si presta perfettamente a un’interpretazione delicata ed eterea quanto quella di Angie McMahon, in grado di indugiare in modo davvero toccante sul finale. Allo stesso modo, una sorpresa inaspettata è costituita da Ol’ 55, canzone quasi dimenticata appartenente all’album d’esordio di Waits (Closing Time, del ’73) e qui affrontata in modo particolarmente efficace dalle voci intrecciate di Shelby Lynne e Allison Moorer. In effetti, anche per quel che concerne i brani cosiddetti «inevitabili», ovvero praticamente immancabili da un qualsiasi tributo dedicato al vecchio Tom, la qualità risulta piuttosto altalenante: ad esempio, la versione di Downtown Train offerta da Courtney Marie Andrews non riesce ad aggiungere nulla di nuovo alla dolente poesia dell’originale – forse anche perché, dopo l’ispirata versione di Rod Stewart (non a caso un altro artista dal timbro aggressivo e praticamente inconfondibile), qualsiasi altra rivisitazione finisce per suonare piuttosto insipida o, come nel caso della Andrews, quantomeno scolastica. Per fortuna,

Come On Up To The House: quando le donne omaggiano Tom Waits.

l’eterogenea tracklist offre anche vocalist più esperte e determinate, la cui comprovata esperienza salva a tutti gli effetti la situazione: su tutte, Rosanne Cash (la cui voce magistrale è al servizio della sempre commovente ballata Time) e l’ispirata e rispettosa Patty Griffin, qui presente con una versione davvero coinvolgente del delicato Ruby’s Arms. E se Corinne Bailey Rae, da sempre maestra nell’intessere atmosfere da puro soul afroamericano, finisce per infondere di accenti forse un po’ zuccherosi lo scanzonato Jersey Girl, i fan più affezionati dell’opera di Waits non potranno evitare di sorridere nel vedere una cantautrice delicata ed elegante quale Aimee Mann cimentarsi con una ballatona ruvida

e inequivocabilmente maschile come Hold On, il tutto rendendo giustizia allo spirito allo stesso tempo straziante e speranzoso del brano. Così, sebbene non si possa affermare che ogni traccia di quest’album rappresenti un centro perfetto, Come On Up to the House raggiunge pienamente i suoi obiettivi, non solo costituendo un sentito omaggio al Maestro, ma anche dando la possibilità ai fruitori occasionali di apprezzarne davvero l’arte; e soddisfando inoltre pienamente la dichiarata (e legittima) necessità di ricordare al grande pubblico l’influenza che il magistrale repertorio del vecchio Tom ha avuto sulle successive generazioni di cantautori – e cantautrici – statunitensi.

Personaggi Settantacinque anni or sono in questo periodo ancora ci si interrogava

su cosa ne fosse stato di Glenn Miller

In quei giorni di metà dicembre del 1944, su nord e centro Europa le condizioni metereologiche erano pessime. Il 15 dicembre la nebbia avvolse le coste inglesi e si estese lungo il Canale della Manica, ma il «Norseman» Noorduyn UC-64 monomotore decollò lo stesso per Parigi, destinazione che avrebbe raggiunto poco meno di due ore più tardi attraversando una rotta sicura. A bordo del velivolo militare, il Pilota J. Morgan, il Tenente Colonnello N.F. Baesell e il Maggiore Anton Glenn Miller incaricato dell’intrattenimento delle truppe alleate in Inghilterra e a capo della Air Force band. Miller avrebbe dovuto esibirsi con la sua grande orchestra nella Capitale francese da poco liberata dai tedeschi, ma non ci arrivò mai. Del Norseman si persero le tracce. La scomparsa del Maggiore, annunciata solo alla vigilia di Natale, ebbe un notevole impatto mediatico: nell’era dello swing, durante la grande depressione, Glenn Miller, arrangiatore, trombonista e soprattutto capofila della più famosa big band di quei tempi, era svanito nel nulla, lasciando il silenzio nelle sale da ballo frequentate dai soldati che avevano smarrito uno dei simboli della loro generazione. Che fine aveva fatto

Alton Glenn Miller in divisa da soldato. (Wikipedia)

l’artista che tra 1939 e il 1942 aveva venduto più dischi di tutti? La nebbia aveva inghiottito il compositore per il quale era stato ideato il disco d’oro, premio assegnatogli nel 1942 per aver raggiunto, in soli 3 mesi, il milione di copie venute del 78 giri di Chattanooga Choo Choo e I Know Why. A quei tempi ottenere tale risultato costava fatica. Il talento non bastava e bisognava perseverare. Nato il 1° marzo del 1904 a Clarinda, in Iowa (USA), Miller aveva manifestato l’in-

Personaggi

L’incredibile performance di Achille Lauro Simona Sala

Quello swing perduto Enza Di Santo

Nessun genere, solo grazia

teresse per la musica sin da bambino suonando mandolino e cornetta. La sua famiglia si era spostata molto attraverso gli USA; in Missouri, nel 1915 aveva comprato il suo primo trombone e, una volta in Colorado, ha coltivato la sua passione per musica e balli. Nel ’23 entrò alla Colorado University, ma non si applicava: passava il tempo a caccia di audizioni e piccoli concerti, così abbandonò gli studi e decise diventare un musicista professionista. Sotto la guida di Joseph Schillinger compose il tema distintivo di Moonlight Serenade (1939), la sua swing ballad più nota e pezzo forte della pellicola musicale Sun Valley Serenade (1941), anche se il suo primo brano fu Room 1411 del 1928. Dal 1926, emerse come solista tra le fila delle orchestre di Ben Pollak e Victor Young, ma l’arrivo di Jack Teagarden nel 1928 lo eclissò. Non rimase in ombra: accolse la sua vocazione, arrangiare e comporre, pubblicò un libro, Glenn Miller 125 Jazz Breaks for Trombone, e sposò Helen Burger, con la quale adottò due bambini. Stabilitosi a New York, grazie all’ingaggio del 1930 nell’orchestra di Red Nichols, suonò nelle pit band di due spettacoli di Broadway. La strada, nella prima metà degli anni 30, era in salita e sebbene affiancasse Tommy Dorsey, Benny Goodman e Joe Venuti, non ri-

usciva a distinguersi. Alla fine nel ’37, formò la sua prima band e svoltò: trovò il sassofonista Wilbur Schwartz, gli fece suonare il clarinetto e rese la sezione dei fiati molto più corposa. Innovazioni che fecero culminare il suo successo con l’esibizione alla Carnegie Hall del ’39. Il suo stile unico e la sua creatività si rivelano nella direzione della Glenn Miller Orchestra, con ance e ottoni muniti di sordina come protagonisti. Il suo jazz addolcito, il suo swing trascinante e i suoi energici boogie woogie, lontani dal blues, erano irresistibilmente pop, commerciali, orecchiabili e raffinati. Ogni brano era un successo e il suo arrangiamento rese celebre In the mood di Joe Gerland e Louis Armstrong. Nel ’42 quando si arruolò volontario nell’Esercito, credeva sinceramente che bisognasse porre fine alla Seconda guerra mondiale. Certo sapeva di non essere abbastanza giovane per il fronte, ma era convinto che la sua musica potesse sollevare l’umore dei soldati e portare alla pace che propagandava alla radio. L’ultimo viaggio di questo straordinario personaggio è ancora avvolto nel mistero. Le ipotesi si sono susseguite, ma ancora non è stata svelata la verità. Forse con le nuove tecnologie in un prossimo futuro, si saprà cosa successe il 15 dicembre del 1944.

«Ogni tanto qualcuno mi dice: ma che ti è successo? Io rispondo “Sono diventato una signorina”». In tempi in cui quasi più nessuna donna apprezza la distinzione tra «signora» e «signorina» (anche perché nella peggiore delle ipotesi «signorina» sapeva un po’ di chiuso), Lauro de Marinis, in arte Achille Lauro, è riuscito a dare nuovo lustro – e forse addirittura un nuovo significato – a questa parola. E lo ha fatto dando una definizione di femminilità (su Instagram, e dove altrimenti?) in cui è riuscito a riconoscersi un esercito di donne, e forse anche qualche uomo: «voglio essere mortalmente contagiato dalla femminilità, che per me significa delicatezza, eleganza, candore». Alzi la mano, chi non apprezza questa descrizione di genere, ne alzi due chi non apprezza il fatto che queste parole siano state pronunciate proprio da uno che fino a ieri sembrava perfettamente a proprio agio nel duro e testosteronico mondo del rap, della trap e dei maschi in genere. Sembrava, appunto, perché il recente Festival di Sanremo, che per l’Italia ha più o meno lo stesso valore del Super Bowl negli USA, ha avuto il pregio indiscusso di ospitare in gara una performance che con la musica spesso prefabbricata e stereotipata della kermesse ligure aveva poco a che fare. Il discorso di Achille Lauro infatti, spalmato su quattro serate attraverso performance della durata di poco più di quattro minuti l’una, è riuscito non solo ad aprire uno squarcio su una serie di tabù fino a ieri tali per la società (e poco importa che prima di lui ci siano stati Bowie o Renato Zero, l’intolleranza e il sospetto nei confronti di chi non è omologato e chiaramente assegnato a un genere sono sempre vivi e vegeti), ma anche a ripescare dalla storia personaggi che, a modo loro, la storia l’hanno fatta, e con un certo anticonformismo. La parola d’ordine era «libertà» e quindi, sul fil rouge della canzone in gara, Me ne frego, Lauro è partito con il personaggio di San Francesco, libero dopo la spoliazione di ogni bene materiale, vestiti compresi (qui sostituiti da una tutina color carne glitterata, cult dopo nemmeno tre secondi). Sono seguite le interpretazioni di libertà di Ziggy Stardust e della marchesa Casati Stampa, spregiudicata mecenate del secolo scorso, per finire con l’attesissima apoteosi dell’ultima sera, in cui Lauro ha vestito (grazie alla sapienza di Alessandro Michele) i panni della regina Elisabetta I. A quel punto però, Lauro era già entrato a sua volta nella storia e nei cuori. Lo raccontano le centinaia di migliaia di entusiasti sui social, la critica e gli intellettuali, per una volta unanimi nell’affermare che qualcosa nella nostra percezione del genere e dei rapporti di forza sta finalmente cambiando. Grazie Achille.

Achille Lauro è la regina Elisabetta I, sul palco con lui anche l’irrinunciabile Boss Doms. (Instagram)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 febbraio 2020 • N. 08

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Cultura e Spettacoli

Foglietti bugiardi

Dietro le apparenze

Linguistica La lingua dei foglietti illustrativi medici e farmacologici,

tra esigenze di precisione e comprensibilità

Racconti Il lavoro di indagine interiore

nei racconti di Lorenza Noseda Eliana Bernasconi

«Leggere attentamente il bugiardino». (Keystone)

Stefano Vassere Sembra che l’italiano sia l’unica lingua, nel contesto circostante, che ha una parola più rilassata e colloquiale per definire il foglietto illustrativo farmacologico. Che poi questa parola sia bugiardino, con quell’ingloriosa etimologia apparente, è un fatto critico, che si presta a interpretazioni che dal piano linguistico potrebbero rinviare a una ben più urgente realtà sociale. In altre parole, se è vero, come afferma Lucia di Pace in questo suo bel La lingua del bugiardino, che «nelle altre principali lingue europee non sono attestati termini alternativi a quelli corrispondenti a foglio illustrativo» e che «il “bugiardino” è solo italiano», allora questo fatto in apparenza solo linguistico potrebbe secondo alcuni dire molto sulla serietà con cui il milieu sociale tratta o considera un ambito cruciale per la nostra vita come quello della prescrizione dei medicinali. Il linguaggio della medicina è terreno linguistico affollato; perché vi si incontrano le esigenze primarie del cittadino-paziente e quelle del codice di una scienza che non è come tutte le altre, perché consiste in un sapere che deve essere trasmesso e spiegato con un processo di divulgazione non scontato. Un medico non può accontentarsi di parlare per i colleghi e per il mondo della ricerca, e deve tenere viva una voce con il paziente, che è il più delle

volte il suo interlocutore esemplare. Un po’ quello che accade per la lingua del diritto, che, nella sua dimensione quotidiana, «entra prepotentemente nella lingua di tutti i giorni»; una lingua che deve essere precisa e tecnica e insieme coinvolgere il profano. Così è per il foglietto illustrativo, che vive la stessa tensione tra esigenza di precisione e completezza di qua e intento comunicativo e misura nelle informazioni fornite di là. In alcuni casi in gioco non ci sarebbe solo la garanzia di un passaggio «cognitivo» dell’informazione ma anche la discesa fino a un piano quasi affettivo, che renda più famigliare l’ente che prescrive il farmaco, sia esso il medico o l’azienda produttrice (sarà bene dire che di «piano affettivo» parla proprio qualche studio sul tema dell’Agenzia italiana del farmaco). Il libro di Lucia di Pace ha molte pagine di descrizione degli sforzi anche legislativi che l’Italia e l’Europa hanno compiuto per stabilire norme che rendano leggibile e «onestamente rigoroso» il foglietto illustrativo, in nome di alcuni principi e suggerimenti primari e di buon senso. A partire dalle esigenze tipografiche (il corpo del testo, la sua strutturazione, addirittura le dimensioni del foglio), all’uso di formattazioni come il grassetto e il corsivo, alle questioni linguistiche riguardanti la frase e il lessico, all’opportunità di ponderare i tecnicismi di

fronte ai toni più colloquiali. Un problema non da poco, cui si dedicano qui pagine su pagine, riguarda il destinatario del foglietto, che non è sempre univoco e puntualmente identificabile: esso si rivolge via via al medico, al farmacista, al paziente, tanto da disegnare ogni tanto un vero e proprio «equivoco del destinatario». E, enfin, il significato etimologico di bugiardino, parola come visto solo italiana. Luca Serianni, che anni fa scrisse un bel libro sul linguaggio della medicina, sostiene con saggezza che «la motivazione dell’espressione bugiardino risiede non tanto nel fatto che il foglietto illustrativo menta, facendo illudere l’acquirente/paziente, quanto piuttosto nel suo essere poco chiaro e comprensibile». E per chiudere, nel capitolo sugli effetti indesiderati dell’assunzione di farmaci colpisce l’autrice (e noi) quanto poco rilievo riceva la circostanza di grado massimo, la morte, la cui evocazione non si guadagna mai una sottolineatura, un grassetto, un corpo più grande. E anzi spesso è affidata all’effetto obliquo di aggettivi che qualificano l’esito dell’abuso di farmaci: fatale, letale, mortale.

Se il desiderio e il piacere di scrivere è sempre più avvertito da molte persone, l’approdo all’autentica scrittura letteraria, a quel prodotto di un lavoro per la creazione di un universo dove il lettore si può riconoscere, è certo un lungo percorso che non ha mai termine. Abbiamo chiesto come ci si arriva a Lorenza Noseda, che con Gente di Frontiera ha vinto la decima edizione del Premio Chiara per una raccolta di racconti inediti. Con l’Associazione «Amici di Piero Chiara» il premio tiene viva la memoria dello scrittore, della cultura e dei luoghi di Varese e del Canton Ticino, spazi amati da Chiara e celebrati nelle sue opere. Scrivere, ci ha risposto Lorenza Noseda, è un esercizio di precisione, è immaginare dell’altro dietro le cose manifeste, ed è anche, aggiungiamo noi, restituire e condensare in una narrazione di grande leggerezza e attraente lettura come lei ha fatto, l’esperienza della complessità delle cose. Le hanno ulteriormente aperto una porta per la comprensione del mondo e il desiderio di rappresentarlo la serie di incontri che ha potuto avere con personalità della cultura umanistica, scientifica e politica del nostro tempo, con registi e sociologi, curando una serie di lezioni e serate per gli Amici dell’Accademia di Architettura di Mendrisio, dove ha potuto avvicinare personaggi pure noti e di grande fama, percependo come essi celassero anche difficoltà, esperienze dolorose, sconfitte personali. Il genere letterario del racconto, preferito da Chiara di cui il Premio tiene viva la memoria, ha leggi interne ben

Bibliografia

Lucia di Pace, La lingua del bugiardino. Il foglietto illustrativo tra linguaggio specialistico e linguaggio comune, Firenze, Franco Cesari Editore, 2019.

precise, occorre condensare in uno spazio ristretto il tempo lungo della narrazione che si addice al romanzo, dare vita credibile a personaggi collocati in un ben definito ambiente geopolitico, sociale, psicologico. Operazione riuscita perfettamente a Lorenza Noseda, che in questo libro sa osservare e restituirci con totale realismo e visione minimalista l’area sociale quotidiana della media borghesia, tra Svizzera italiana e oltre Gottardo, tra sale d’aspetto di un ospedale e aule di un istituto scolastico, tra disuguaglianze sociali e vicende nascoste all’interno della famiglia, tra frontiere, mondi della legge e degli affari, tra carriere universitarie, banche, fiduciarie. I protagonisti dei racconti abitano questo sistema, sono mondi del lavoro dove ruoli e percorsi sono tracciati. Li vediamo confrontarsi con l’irrompere di una grande quantità di denaro che stordisce, con la competitività della scalata al potere o la presenza di patrimoni immobiliari da gestire, tra rassicuranti ambienti domestici e violenze nascoste, tra etica borghese e avidità di possesso. Sono questi avvenimenti che Lorenza Noseda osserva e ci restituisce con rara potenza di osservazione oggettiva, non priva a volte di discreta ma graffiante ironia, ed è uno sguardo quasi clinico e privo di coinvolgimento emotivo quello con il quale improvvisamente avvicina i suoi personaggi svelandoci il mondo interno delle loro reazioni. Attraverso dettagli insignificanti, in bilico tra passato e presente, può succedere che al centro di un racconto un evento riaffiori prepotente nella quotidianità, un accadimento casuale lo riproponga alla memoria carico di significato, un torto causato o subito si affermi nel qui e ora del protagonista, chiedendo riparazione. Emerge allora l’esiguo ed estremo spazio di libertà che il personaggio vuole salvare nell’imprevedibilità dell’esistere e nel procedere degli avvenimenti, si evidenzia una parte inseparabilmente connessa all’ambiente che l’ha provocata, ma che appartiene comunque a lui solo, e il prenderne consapevolezza può dare pace o felicità. I racconti di Lorenza Noseda segnalano la possibilità di un riscatto possibile nella storia di chiunque, pongono in luce gli aspetti nascosti nelle apparenze della vita. Bibliografia

Lorenza Noseda, Gente di frontiera, Varese, Macchione Editore, 2019.

Spunta un fiore nel vocabolario La lingua batte Evviva la biodiversità, pardon, la lessicodiversità Laila Meroni Petrantoni La Terra è un pianeta da salvare, o forse sarebbe meglio dire che il genere umano si è accorto di essere in pericolo e vuole mettere in salvo sé stesso. L’homo sapiens, trasformatosi in homo technologicus con propaggini oltre le ultime falangi della mano sotto forma di tastiere varie, si è svegliato da un brutto sogno con il rischio di cadere in un incubo. «Non parliamo di cambiamento climatico, dobbiamo finalmente parlare di emergenza climatica», ha dichiarato lo scrittore americano Jonathan Safran Foer in occasione del lancio del suo ultimo libro Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché questa premessa? Che c’entra con questa rubrica? C’entra, perché anche la lingua batte, batte un colpo perché è viva e vuole restarlo: non ci pensa neanche a volersi estinguere e darla vinta ai codici da singhiozzo che imperano nel regno di Whatsapp e compagnia bella. Prendiamo l’italia-

no, che di strada già ne ha fatta tanta. Oggi si tende più spesso a concentrare l’attenzione sui neologismi, sulle parole moderne e di tendenza. In Italia però c’è una storica casa editrice che ha lanciato a suo modo un «allarme estinzione», una discreta emergenza linguistica. Lo Zingarelli 2020, infatti, è uscito recentemente con una precisa missione nuova da compiere: non si tratta solo di dare dignità filologica a circa mil-

Uno dei mega dizionari apparsi in alcune città italiane. (zanichelli.it)

le nuove parole o nuovi significati (da «ciclofattorino» a «pinsa»), soprattutto i prodi cavalieri in Zanichelli vogliono ridare onore a (precisamente) 3126 «parole da salvare», a torto già con un piede nella fossa. Sono ad esempio «obsoleto», «ingente», «diatriba», «leccornia», «ledere» o «perorare», che vengono ora coccolate spiegando all’italofono che sono «preferibili ai loro sinonimi più comuni ma meno espressivi». Ed ecco

che ognuna delle voci in questione viene contrassegnata nel vocabolario da un fiorellino, così che possa facilmente attirare l’attenzione e ricordare a tutti «ehi! ci sono anch’io!» È una trovata geniale: cosa più di un piccolo fiore può trasmettere un messaggio di fragilità ma allo stesso tempo di bellezza? E poi, ecco servito su un piatto d’argento un accostamento subliminale tra natura in pericolo e parola in via di estinzione. La casa editrice ha voluto fare anche di più: nelle principali città italiane ha piazzato un vocabolario gigante in cui ogni passante poteva scegliere la parola da salvare preferita e ridarle slancio attraverso gli immancabili canali social con l’immancabile hashtag #paroledasalvare. «Largo ai giovani, diamo spazio alle parole nuove», potrebbe obiettare qualcuno. Ma certo, nessuno ama camminare all’indietro. «Largo alla semplicità, promuoviamo una lingua comprensibile a tutti», potrebbe gridare qualcun altro. Assolutamente sì, in

quanto il primo obiettivo resta la chiarezza nella trasmissione del messaggio. Eppure, perché non trasformare una comune (o mediocre) esperienza comunicativa in una sfida? In un’esperienza personale da condividere con gli altri? In una creazione? Insomma, in qualcosa di bello? Oltre a scacciare la monotonia, riuscire a esprimersi grazie a un proprio bagaglio di termini che vada oltre il minimo utile alla sopravvivenza aiuta a trasmettere un’idea più precisa del nostro pensiero, senza per questo dover scadere in un aulico che suona cafone e che farebbe scappare buona parte dei nostri interlocutori. Mi piace l’idea di salvare questi fragili fiorellini linguistici. A un prato inglese – perfetto, simmetrico, rigoroso, freddo e decisamente troppo verde – preferisco una distesa di erbe varie e fiori di campo – colorata, simpaticamente anarchica, che non teme di spettinarsi con il vento. Viva la bio-diversità, e viva anche la lessico-diversità.


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