6 minute read

La presenza galvanizzante di Stefano Massini

Teatro

◆ Unico

Blanche Greco

italiano premiato con il Tony Award nel 2022, il drammaturgo torna in scena con L’interpretazione dei sogni

Quando è sulla scena con gli occhi fissi in quelli dello spettatore, con quello sguardo limpido che ricorda i santi delle chiese di paese, il viso spigoloso disegnato dalle luci, la mascella ossuta e l’ombra di un sorriso, quasi un’anticipazione di ciò che verrà, Stefano Massini (nella foto), che si trovi in un’arena televisiva, o sul palcoscenico di un teatro, galvanizza l’attenzione del pubblico che tiene avvinto alle sue parole per tutto il tempo necessario al racconto. Laureato in papirologia sulla statuaria di Iside, grazie all’incontro con Luca Ronconi e il teatro, è diventato il drammaturgo italiano più famoso al mondo, l’unico premiato con il prestigioso Tony Award per la sua Lehman Trilogy, lavoro teatrale che racconta la storia epica dell’omonima famiglia di banchieri e che ha girato il mondo con successo.

Quest’anno come «autore e performer», come si definisce lui stesso, Massini porta in tournée: L’interpretazione dei sogni, suo spettacolo liberamente ispirato e tratto dagli scritti di Sigmund Freud sui quali ha già pubblicato un libro (L’interpretatore dei sogni 2017), e riempie i teatri tra applausi scroscianti e ampi consensi. Noi eravamo tra il pubblico della prima nazionale nella Sala Grande del Teatro della Pergola a Firenze, una splendida «bomboniera» da anni mai così affollata e, per l’occasione, percorsa da una palpabile eccitazione per il fatto che Stefano Massini, figlio ormai famoso di questa città, vi tornava a calcare il palcoscenico in veste di narratore, prima di portare le sue storie altrove. Un atto di fiducia che era motivo di orgoglio, anche se tra il pubblico serpeggiava una certa perplessità: cosa poteva esserci di così spettacolare nel racconto dei sogni altrui, nelle sciarade intime delle persone incontrate da

Sigmund Freud e delle quali questi aveva scritto nel 1899?

Poi Massini è arrivato sul palcoscenico e in maniche di camicia, perlopiù in piedi davanti a una scenografia essenziale dove troneggiava il disegno di un grande occhio che a tratti sembrava un vortice, o un labirinto, ha iniziato a narrare: evocando personaggi, situazioni, sogni, descrivendo vicende che s’intrecciano dentro e fuori dallo Studio del Dottor Freud, che sotto- lineano le intuizioni del medico austriaco, ma anche le sue esitazioni e le incredulità che suscitava con le sue tesi. Uno spettacolo che spazia dai libri, ai diari di Freud, al suo carteggio con Einstein sulla guerra e la pulsione di morte, e che Massini orchestra in una serie di storie che si «sgranano» come capitoli inframmezzati dalle musiche di Enrico Fink, eseguite dal trio Whisky Trail, scanditi dalla voce del Narratore che a tratti si eclissa per dare la parola a Freud stesso, che poi lascia il posto a Massini che, in prima persona, parla di vite altrui e nasconde i propri sogni all’interno di una sua «drammaturgia onirica».

Così prende vita sul palcoscenico, nei racconti di Stefano Massini, una sorta di caleidoscopio umano dove facciamo la conoscenza tra gli altri, «della signora che muore ogni tre giorni, del bambino col nome di un cane, della giovane cameriera sempre

Miu, una crudele Peter Pan in tuta blu

Cinema ◆ La serie Netflix Copenhagen Cowboy stravolge le regole del formato seriale

Giorgia Del Don

La nuova serie Netflix del geniale regista danese Nicolas Winding Refn (alias NWR), Copenhagen Cowboy (nella foto un’immagine del trailer), ci invita al confronto con la parte oscura che sonnecchia in ognuno di noi. Esploratore della violenza fino al puro estetismo, Refn non ha paura di mostrarla in modo frontale obbligando lo spettatore a vivere sentimenti contrastanti: il rigetto ma anche, e soprattutto, il fascino. Sebbene ne sia capace (a confermarcelo sono il suo capolavoro Drive ma anche la sua serie per Amazon Prime Too Old to Die Young), il provocatorio regista danese sceglie questa volta di non mostrare le scene di violenza in maniera esplicita ma di mantenerle fuori campo o di suggerirle attraverso il suono: magnifiche le partizioni sonore del suo compositore feticcio Cliff Martinez che regalano alle immagini un’inquietante sensazione di leggerezza. La tetra atmosfera in cui sono immersi i personaggi, popolata da mafiosi albanesi, organizzazioni criminali cinesi e una famiglia di sadici e ricchi allevatori di maiali (che ricorda il cinico Porcile di Pasolini), sembra non lasciare spazio ad altre forme di violenza. Sin dalla prima puntata lo spettatore viene calato in uno stato di allarme, assalito da una crudeltà palpabile che non è necessario mostrare, che esiste in quanto onnipresente virtualità.

Copenhagen Cowboy è capitanato dalla misteriosa Miu (fantastica Angela Bundalovic), un personaggio inafferrabile che sfida ogni categoria. Né umana né aliena, né adulta né bambina, l’antieroina della serie sfida il mondo guidata da una potentissima sete di vendetta di cui non si conoscono tutte le ragioni (a parte il fatto che sin da piccola è stata venduta e ricomprata come un qualsiasi oggetto) ma che divora tutto con perversa lucidità. Niente può fermare questa creatura fragile che nella sua tuta blu ricorda un crudele Peter Pan e vive in un’inquietante fattoria della campagna danese gestita dal crimine organizzato albanese che – tra le sue mura – nasconde un bordello. La tenutaria è una donna violenta che ingaggia Miu come porta fortuna nella speranza di riuscire a rimanere incinta. La protagonista infatti ha dei poteri sovrannaturali che molti vogliono sfruttare. Sin dall’inizio, NWR ci scaraventa in un universo distopico che striscia nelle viscere della capitale danese, un universo fatto di violenza e perversioni, illuminato solo dalle luci a neon rosse e blu (una passione del regista) che impregnano tutto fino alla saturazione.

Da questo universo distopico trapelano una grazia e un rigore estetico che ci riportano a serie culto de- gli anni Novanta come Twin Peaks e la sua Red Room (le cui tappezzerie continuano ad ossessionarci), ma anche a film emblematici come Suspiria di Dario Argento. La grazia narcotica dell’impassibile Miu, il suo fisico asciutto da ballerina classica associato a un taglio di capelli alla garçonne che gli conferiscono un’aria da mimo, infonde ai luoghi un non so che spaventata, della signorina che non ride mai» in un crescendo avvincente che ci tocca nel profondo (proprio lì, dove abbiamo nascosto i nostri sogni e le nostre paure), e ci coinvolge, ci intriga, ci spiega, sottolineando quel senso di stupore, di sofferenza e allo stesso tempo di frustrazione e inadeguatezza che prova ogni protagonista che cerca di capire sé stesso, di ritrovarsi e riconoscersi anche nei sogni, in quelle immagini bislacche che lo «visitano» ogni notte. Il quesito al quale Freud tentava di rispondere e che viene enunciato sin dall’inizio dello spettacolo è: «Perché questo teatro ogni notte, quando chiudo gli occhi, apre il sipario?» e nei suoi scritti e nell’Interpretazione dei sogni affronta e analizza la questione nelle sue infinite possibilità e, per il quarantasettenne Massini, quelle pagine sono diventate una magnifica «ossessione» perché sono così ricche di materiale, di potenzialità teatrali, di spunti e di metafore da riempire molte vite. di prezioso trasformando l’orrore in astrazione.

La magia di questo spettacolo dura quasi due ore, e non è un caso che il pubblico si senta partecipe nel discorso e allo stesso tempo protagonista tanto da applaudire spesso, quasi a scena aperta, intervenendo qua e là bisbigliando, o lasciandosi sfuggire una risatina liberatoria prima del lungo, caloroso applauso finale. L’ennesimo exploit di Stefano Massini non finisce qui, infatti con L’interpretazione dei sogni tornerà al Teatro della Pergola e poi di nuovo in tournée, nella prossima stagione 2023/2024. Molto probabilmente sarà uno spettacolo ancora diverso, una nuova esplorazione dei testi di Freud con la creazione di nuovi personaggi, protagonisti del teatro del sogno, di un mondo sfuggente che diventa reale nella passione dei racconti romanzati di Stefano Massini.

Se di primo acchito tutti gli elementi sembrano riuniti per creare una serie di forte impatto in perfetto stile Kill Bill, ciò che divide la critica è il rifiuto di NWR di appoggiarsi sulla narrazione, come fanno invece la stragrande maggioranza delle serie, trasformandola in perno attorno al quale far evolvere i personaggi. Con i suoi audaci movimenti di camera: le sue vertiginose riprese dall’alto, i piani sequenza infiniti, l’immobilismo delle azioni e i dialoghi scarni e taglienti, così come la sovrastilizzazione di ogni piano (concepito come un quadro), il regista danese sfida tutte le regole invitandoci a lasciarci andare ad una lasciva deambulazione sensoriale. Non è allora più la linearità della narrazione a guidarci ma piuttosto l’incanto d’immagini crudeli e bellissime che si insinuano sotto pelle, come un veleno. Che lo si ami o lo si odi, Refn ha il coraggio di esplorare narrazioni diverse che nascono dal mezzo cinematografico non più utilizzato come semplice supporto ma come strumento per decostruire senza paura il concetto stesso di opera filmica.

This article is from: