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Carmelo Bene e il suo non-rapporto con i media
Intervista ◆ Luca Buoncristiano e Federico Primosig hanno curato una corposa antologia sull’attore e i suoi colloqui con la stampa
Daniele Bernardi
Nel percorso di Carmelo Bene (Campi Salentina, 1937 – Roma, 2002) il rapporto coi media – anche se sarebbe più consono dire il «non-rapporto» – non fu marginale e, in un certo senso, stabilì caratteristiche assimilabili e opposte alla relazione che Pier Paolo Pasolini ebbe con gli stessi. Entrambi gli artisti avevano infatti la capacità di mettere in crisi i mezzi di comunicazione attraverso una sorta di scardinamento che piegava strutturalmente il dispositivo – giornalistico o televisivo che fosse – al proprio discorso. Ma se il primo era «sempre didattico nonostante l’arditezza delle sue posizioni», il secondo lasciava l’interlocutore «nella condizione di fare i conti con il suo linguaggio e il suo pensiero».
Ciò detto, l’interesse attorno a questa parte del lavoro di Bene è sempre stato presente, poiché con essa egli espresse – seppure in modo residuale – il proprio progetto esistenziale-filosofico-artistico non differentemente che col suo «togliere di scena» i capolavori o con la sua programmatica, ossessiva ricerca sull’oralità. Se però negli anni sono proliferati, o semplicemente apparsi, più libelli dediti a raccogliere l’inventario beniano delle formule provocatorie o pochi inediti posti in cornice da un curioso inquadramento editoriale (si veda, ad esempio, Ho sognato di vivere. Poesie giovanili, pubblicato nel 2021 da Bompiani e a suo tempo recensito su queste pagine) ad oggi mancava un’iniziativa degna delle operazioni che caratterizzarono il rigore con cui il diretto interessato pianificò la pubblicazione della propria opera omnia. Con la monumentale antologia Si può solo dire nulla. Interviste edita da Il Saggiatore, Luca Buoncristiano e Federico Primosig vanno ora ad attraversare questa faglia, consegnando finalmente al lettore una raccolta all’altezza di quel «troppo» che la figura e il fantasma di Carmelo Bene incarnano e dalla cui fisionomia subito emerge l’accuratezza dell’importante operazione. Abbiamo incontrato i due curatori.
Millesettecentotrentasei pagine, nelle quali viene scrupolosamente passato al vaglio un lasso di tempo che va dai primi anni ’60 al 2001. Un lavoro che cronologicamente abbraccia tutta la vita scenica del personaggio. Come nasce un progetto così vasto?
LB: Il progetto ha una sua origine antica, in via Aventina 30, residenza romana di Carmelo Bene. Per conto della Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene oltre alla catalogazione del lascito artistico, mi occupai della curatela del numero monografico su Bene della rivista «PANTA» della Bompiani. Il «PANTA» è una raccolta delle migliori interviste all’attore. Per arrivare a quella sintesi passai a setaccio la rassegna stampa presente in casa, ne feci una catalogazione che crebbe poi negli anni attraverso un lavoro di ricerca il più accurato possibile, terminato con Federico per la realizzazione di questo volume.
FP: Nella mia mente questo è stato per molti anni il libro che avrei voluto possedere ma che nessuno aveva fatto. Poi le interlocuzioni tra l’associazione L’orecchio mancante, di cui sia Luca che io facciamo parte assieme a molti studiosi e collaboratori di Bene, e l’editore Il Saggiatore hanno portato ad un punto di svolta che ha messo in moto l’operazione. La catalogazione di Luca è stata imprescindibile, integrata da elementi che avevo raccolto io in maniera più casuale nel tempo e soprattutto dal lavoro di scavo di quest’ultimo anno che ha fatto emergere altre perle.
A quanto è dato sapere, Carmelo Bene stabilì i criteri di gestione della propria eredità culturale. Come vi siete orientati, in questo senso?
LB: Bene con l’idea della Fondazione si era reso erede di sé stesso. L’oblio che aveva cercato in vita l’aveva cercato per sé, voleva sì dimenticarsi ma non essere dimenticato. Ecco allora che Bene con l’idea della Fondazione diviene un ente pubblico, formato oltre che da fidati collaboratori, anche dalle istituzioni. Poi le cose sono andate diversamente ma il punto centrale è il concetto di archivio vivente e cioè che l’eredità artistica di Bene da qualsiasi parte la si voglia considerare è sempre «parlante».
FP: Bene è un grande maestro di rigore quindi il primo parametro è stato quello di muoversi con l’idea di realizzare qualcosa che lui non avrebbe disapprovato. Organizzando il primo archivio consultabile delle sue interviste abbiamo voluto solidificare un tassello del suo lascito.
Nell’introduzione al testo, presentando l’opera si parla di «un nucleo teorico» originario che non manifesta una progressione o uno sviluppo – e in questo Bene si dimostra strutturalmente all’antitesi della civiltà dei consumi – ma «un modo d’essere». Se doveste tratteggiare l’essenza di tale posizione, come la descrivereste?
LB: Carmelo Bene dice: «Io sono il vortice insensato della trottola, il movimento e la sua negazione, sono l’antiumanesimo, Lorenzaccio che decapita le statue, Aguirre che si firma il traditore. Carmelo Bene, perché, soggetto alla necessità del nome, come rassegnazione al destino». Poiché il centro del lavoro di Bene è egli stesso, non c’è un andare avanti, un progredire, ma solo infiniti modi «diversi di morire in versi». Ecco il tornare sempre ad Amleto, Pinocchio, Majakovskij, ecc., al fine di annullarsi in questa perpetua ripeti- zione. L’inevitabilità di un destino. Ciò che muta, semmai, è l’approccio formale per cui assistiamo a un processo di espoliazione, di rarefazione.
Dal caos iniziale arriviamo al rigore estremo degli ultimi spettacoli, diverse modalità di togliersi di scena.
FP: Bene vive un’adesione totale alla che spesso usava riferendosi a sé stesso) era una sorta di crocevia vivente ed a-storico di una serie di esperienze umane, da quelle cronologicamente collocabili ad un periodo a lui antecedente come il teatro greco, la mistica, il barocco, la letteratura dell’Ottocento a quelle a lui contemporanee come le svolte nella filosofia e la psicoanalisi, la fisica del ventesimo secolo, la crisi di alcune forme d’arte ecc. Il volume contiene davvero centinaia di brani. Fra questi ce n’è uno che reputate particolarmente significativo e volete riportare? sua poetica, la sua vita è un tutt’uno col suo lavoro artistico e la sua riflessione. Nel breve spazio di un’intervista la citazione di Luca è un’utile suggestione, Bene condensava spesso in fulminanti flash la sua posizione alla stampa. Posso aggiungere, per contestualizzare, che CB (acronimo
LB: Impossibile arrivare a una sintesi, personalmente amo molto l’ultima intervista, quando Bene parla di Elvis Presley, nel riconoscere la grandezza del mito, riconosce l’inevitabilità del proprio destino. Non si sfugge mai alla grandezza.
FP: Più che un brano vorrei menzionare l’intervista di Gigi Livio e Ruggero Bianchi, la più lunga intervista a Bene mai realizzata. La qualità degli interlocutori unita a questa volontà di approfondimento la rende unica. Non era mai stata ristampata dalla prima pubblicazione del 1976.
Bibliografia
Luca Buoncristiano e Federico Primosig, Si può solo dire nulla Il Saggiatore, Milano, 2022.