Azione 10 del 4 marzo 2025

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edizione 10

MONDO MIGROS

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SOCIETÀ Pagina 3

A Zurigo la mostra Wasser riunisce idee e soluzioni di diversi ambiti per affrontare la crisi idrica globale

Dalla malattia di papa Francesco alla riflessione sulla fine di ogni pontificato al giorno d’oggi

ATTUALITÀ Pagina 16

Al cinema sempre più biografie dei grandi protagonisti della musica del 900 – ora tocca a Bob Dylan

CULTURA Pagina 19

Esercito, l’ora dell’imbarazzo

Sci fuori pista, ma non solo: come proteggere la fauna selvatica durante le attività invernali?

TEMPO LIBERO Pagina 31

Parità di genere: la storia si può cambiare

Gira da trent’anni ma rimane poco conosciuta e applicata. Stiamo parlando della Legge federale sulla parità dei sessi (LPar) che «mira a promuovere l’uguaglianza effettiva fra donna e uomo» nel mondo del lavoro, vietando ogni forma di discriminazione basata sul genere. Una norma approvata nel 1995, appunto, ed entrata in vigore il 1° luglio 1996. Ma in Ticino le azioni giudiziarie promosse annualmente sulla base della LPar si contano sulle dita di una mano e, in tanti altri Cantoni, la situazione è simile. Secondo un’inchiesta della Conferenza svizzera degli Uffici di conciliazione dedicati, a livello nazionale sono state promosse 97 procedure nel 2021, 72 nel 2022 e 39 nel primo semestre del 2023. Nel nostro Cantone rispettivamente nessuna, 2 e 2. Questi dati non sono di certo dovuti all’idilliaca situazione delle lavoratrici elvetiche. Lo affermano le addette ai lavori, ad esempio le avvocate di Equi-Lab, un servizio di consulenza

in materia di conciliabilità e pari opportunità (www.equi-lab.ch). I licenziamenti al rientro dal congedo maternità sono «uno sport piuttosto diffuso» alle nostre latitudini, come anche le molestie sessuali. Per non parlare delle discriminazioni al momento dell’assunzione o in caso di promozione, e delle differenze di salario… Se si guardano le Cifre della parità online dell’Ufficio cantonale di statistica si scopre che, nel 2022, le donne nel settore privato guadagnavano 719 franchi in meno al mese rispetto agli uomini; nell’ambito pubblico circa 577 franchi. Tutti casi contemplati dalla legge ormai trentenne che, come detto, spesso e volentieri non si traducono in procedimenti giudiziari. Nonostante la LPar abbia introdotto delle «facilitazioni» che avrebbero dovuto favorire questa evoluzione. Ad esempio l’alleggerimento dell’onere della prova (fatta eccezione per i casi di discriminazione al momento dell’assunzione e di molestie sessuali): la/il dipendente deve rende-

re verosimile l’esistenza di una discriminazione, mentre spetta al datore o alla datrice di lavoro dimostrare il contrario. Oppure la possibilità di proporre un’azione collettiva: i sindacati e le organizzazioni che promuovono la parità possono intentare una causa, se questa ha ripercussioni su un certo numero di rapporti di lavoro. È prevista anche la protezione dal licenziamento durante tutta la procedura (reclamo, conciliazione, procedura giudiziaria) e nei sei mesi successivi. I motivi, dunque, di questo «silenzio giudiziario»? In primo luogo la scarsa conoscenza della LPar stessa, e non solo da parte del grande pubblico. Addirittura taluni/e avvocati/e e giudici dei Tribunali tendono a non applicarla, riferendosi prioritariamente ad altre, più generiche normative. Poi la reticenza delle lavoratrici a imbarcarsi in un’enorme fatica, nel grosso impegno emotivo che una causa può comportare, richiedendo tempi lunghi, magari in momenti delicati della vita come una neo-maternità. E

forse – sempre da parte delle donne – anche l’adeguarsi a dannosi stereotipi di genere, come quello della figura gentile, accogliente, remissiva, fragile e laboriosa, che non chiede nulla o quasi in cambio. Mentre si tratta di entrare nell’ambito dello scontro con datore di lavoro, capo oppure collega. Altro elemento da considerare: capita che, alzando la voce, si finisca messe all’angolo o si venga giudicate male. Ma la storia si cambia. Non solo in occasione di questo 8 marzo gli schemi si possono forzare, abbracciando il lato combattivo dell’esistenza, anche per chi viene dopo. Per questo è necessario studiare, conoscere in dettaglio i propri diritti, imparare sempre più a parlare di soldi e gestirli in autonomia (la prima fonte di indipendenza), chiedere salari adeguati e promozioni. Far sentire la propria voce in caso di abusi, mostrare il proprio dissenso, le proprie ragioni. Anche davanti a un/a giudice. La LPar esiste proprio per tutelarci.

Roberto Porta Pagina 13

«Mi riesce bene collegare persone e idee»

Impegno Migros ◆ Mira Song, la nuova responsabile Società e cultura della Federazione Cooperative Migros gestisce un budget di svariati milioni e ci racconta come ne dispone e cosa significhi per lei qualità della vita

Mira Song (52, nella foto) è a capo della Direzione Società e cultura della FCM dal settembre 2024 ed è quindi responsabile dell’orientamento nazionale dei progetti e delle istituzioni sociali e culturali del Percento culturale Migros, delle iniziative di partecipazione e del Fondo pionieristico Migros. Ha studiato biochimica all’ETH e ha lavorato a lungo nel settore delle sponsorizzazioni presso il Credit Suisse.

Mira Song, c’è un ricordo particolare che la lega alla Migros?

Da bambina ho sempre voluto fare la cassiera della Migros perché mi divertivo a calcolare a mente conti e resti. Ma un segno ben più consistente del destino è che i miei genitori si siano conosciuti alla Migros. Mia madre lavorava alla cooperativa Migros di Zurigo dove si occupava tra le altre cose anche delle visite guidate, mentre mio padre accompagnava come guida turistica gruppi di turisti anche alla Migros. È così che è avvenuto il loro primo incontro.

Dall’autunno del 2024 è responsabile della Direzione Società e cultu-

140 milioni per la cultura e la società

La Migros si impegna a favore della società investendo 140 milioni di franchi all’anno. Propone numerose offerte e dà forti impulsi negli ambiti della convivenza, della cultura, della formazione, della salute, della tecnologia e dell’etica nonché del clima e delle risorse. Con la varietà, l’indipendenza e la costanza che lo contraddistinguono, l’Impegno Migros è unico in tutto il mondo. Ne fanno parte dal 1979 anche il Fondo di sviluppo Migros e dal 2012 il Fondo pionieristico Migros.

Informazioni engagement.migros.ch/it

ra della Federazione delle cooperative Migros. Cosa la ha predestinata a questo lavoro?

Non c’è stata proprio una predestinazione diretta (ride). Ho studiato biochimica all’ETH e volevo diventare una scienziata. Già prima di terminare gli studi, mi sono però resa conto che in laboratorio stavo perdendo il contatto con le persone. E così, per un qualche caso della vita, sono entrata in Credit Suisse grazie a un programma universitario e ho potuto collaborare all’Expo.02. In banca ho poi lavorato per oltre 20 anni nel settore delle sponsorizzazioni, prima di entrare nel 2023 alla Federazione delle cooperative Migros come responsabile Cultura.

Può dire in una frase cosa le riesce particolarmente bene?

La mia famiglia direbbe che nessuno della mia età corre veloce come me per prendere il treno. Parlando seriamente invece, mi riesce molto bene collegare persone e idee.

Fermarsi non è un’opzione per lei? No, il movimento è vita. Mi piace molto lavorare con persone che vogliono mettere qualcosa in moto, e in meglio. È questa la mia motivazione.

La sua direzione dispone di un budget di decine di milioni per promuovere progetti culturali e sociali. Un lavoro da sogno?

È un privilegio potersi impegnare per questioni sociali e culturali. Allo stesso tempo è anche una sfida, perché lo si deve fare con molta efficienza e spesso pragmatismo, proprio come in una PMI. È importante notare che la Direzione è responsabile solo di una parte del budget del Percento culturale Migros; di una buona parte di esso sono direttamente responsabili le dieci cooperative e il loro impegno nelle regioni, nonché altre organizzazioni partner.

Come si svolge una sua giornata lavorativa tipo?

Il tratto tipico è che non esiste una giornata lavorativa tipo (ride). Perlopiù partecipo a molte riunioni e call con

colleghi e colleghe dei vari team. Lo spettro degli argomenti è molto ampio: si va dalle questioni strategiche e contenutistiche con la co-direzione del Migros Museum für Gegenwartskunst alla selezione di progetti da sovvenzionare per il Fondo pionieristico Migros, passando per il personale, l’informatica e le finanze.

Dove e come ricarica le sue energie? Mi piace farlo stando nella natura, facendo escursioni e viaggi con la mia famiglia, partecipando a eventi culturali e a volte semplicemente stando a casa sul divano a leggere.

La Migros sta attraversando una fase di profondo cambiamento. Anche il Percento culturale e il suo orientamento sono sul banco di prova? Con il Percento culturale la Migros ha saldamente radicato nel proprio DNA l’impegno sociale sin dal 1957. Lo statuto prevede che una percentuale del fatturato della Migros sia destinata a scopi di politica sociale, culturale ed economica. Il calcolo di tale percentuale si basa sul fatturato del commercio al dettaglio di tutte le cooperative Migros aderenti e sul fatturato del commercio al dettaglio online della FCM.

Alla sua direzione compete la responsabilità su manifestazioni affermate come il festival M4music, il festival di danza Steps, la rassegna

Mira Song durante i lavori per la nuova mostra al Migros Museum für Gegenwartskunst. (Lucas Ziegler)

Migros Percento culturale Classics. Ci sono cambiamenti all’orizzonte?

Sottoponiamo regolarmente a verifica ognuno di questi formati. Non dobbiamo necessariamente essere presenti dove già operano altri attori o il settore pubblico. Dei cambiamenti ci saranno sempre, ma si tratterà più di aggiustamenti che di un nuovo orientamento.

I critici dicono che le offerte e i progetti culturali di Migros sono troppo «di nicchia» e si rivolgono solo a un pubblico ristretto. Come risponde?

Al contrario. La rassegna Migros Percento culturale Classics, ad esempio, con la sua politica di biglietti a prezzi accessibili, democratizza la musica classica dal 1948. Nel sociale poi proponiamo alla gente offerte alle quali si riesce a partecipare senza complicazioni, come ritrovi conviviali per gli anziani o caffè narrativi, o con le quali rafforziamo l’impegno nel volontariato. Allo stesso tempo le cooperative utilizzano la propria quota del Percento culturale per promuovere e sostenere nelle regioni offerte accessibili, come le Casse delle chiacchiere o il Gran ballo notturno estivo alla Stazione centrale di Zurigo.

Il Fondo pionieristico Migros sostiene inoltre start-up e progetti nella loro fase iniziale. Quali criteri vengono utilizzati per selezionarli?

L’obiettivo del Fondo pionieristico Migros è preservare la qualità della vita in Svizzera attraverso l’innovazione. I nostri progetti devono quindi fornire una risposta efficace a un problema sociale urgente, come la crisi energetica o la carenza di personale qualificato. E devono avere il potenziale per affermarsi sul mercato.

Sul sito web si legge che il Percento culturale si impegna per la coesione sociale. È un concetto un po’ vago. Lei che interpretazione ne dà?

Il nostro compito io lo intendo così: se diamo al maggior numero possibile di persone l’accesso all’istruzione, alla cultura, alle attività ricreative e alle comunità, rafforziamo la società nel suo insieme e la sua coesione.

Può fare qualche esempio concreto? Si tratta spesso di piccole iniziative locali che nascono dove c’è un bisogno concreto: orti comunitari, ritrovi di quartiere, caffè linguistici, serate comunitarie di cucina o di cinema. Attività in cui ci si incontra di persona e si può discutere insieme. Spesso ciò è reso possibile dalle tante persone che vi si impegnano facendo volontariato. Riconoscere e sostenere questo impegno è di grande importanza per noi.

Cos’altro fa il Percento culturale? Finanzia anche le Scuole Club Migros con i loro numerosi corsi di lingua come pure i Park im Grünen, i parchi Prato Verde. E in più abbiamo anche strumenti molto concreti, come le nostre iniziative di partecipazione attiva, nelle quali invitiamo ogni singola persona interessata a presentare un progetto. Quest’anno si sono cercate idee che rafforzassero la diversità. Dal 24 febbraio, la popolazione può votare i progetti da sostenere.

Per concludere, un’ultima domanda che non può mancare: qual è il suo prodotto Migros preferito? La borsa di carta della Migros! È pratica, iconica; e naturalmente le mie preferite sono le versioni realizzate da importanti artiste o artisti.

Do it + Garden e micasa, conclusa la cessione

Negozi specializzati Migros ◆ Completato il complesso e articolato processo di vendita per micasa e Do it + Garden

Il marchio micasa resta: nell’ambito di un’operazione di management buyout, 30 filiali micasa e micasa home, tra cui quella di S. Antonino, vengono rilevate da Philipp Agustoni, attuale responsabile di micasa, e Manuel Landolt, CEO di Migros Fachmarkt AG. I due imprenditori sono supportati dalla società Rethink, nota per la sua esperienza nella realizzazione di progetti innovativi e di crescita sostenibile.

Dal 1° settembre 2025, la neofonda-

azione Settimanale edito da Migros Ticino

Fondato nel 1938

Abbonamenti e cambio indirizzi

tel +41 91 850 82 31

lu–ve 9.00–11.00 / 14.00–16.00 registro.soci@migrosticino.ch

ta micasa AG rileverà completamente l’attività. Tutti i collaboratori e gli apprendisti saranno assunti dai nuovi proprietari e manterranno il loro posto di lavoro. La cessione di micasa non ha alcun impatto sui clienti. L’attività continuerà senza interruzioni: i servizi di assistenza e garanzia saranno rilevati da micasa AG. Purtroppo, nonostante gli intensi sforzi, non è stato possibile trovare un acquirente per le 33 filiali Do it + Gar-

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

Simona Sala

Barbara Manzoni

Manuela Mazzi

Romina Borla

Ivan Leoni

den. Sono stati avviati colloqui con numerose parti interessate, ma nessuna ha dimostrato il potenziale necessario per portare avanti con successo l’attività a livello nazionale. Come già annunciato, le filiali Do it + Garden di Agno 2, Carouge e Nyon saranno trasferite a OBI. Per alcune singole sedi di Do it + Garden, tra cui Losone, sono ancora in corso trattative a livello regionale con diverse potenziali parti interessate provenienti dal settore del fai da te. Le se-

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI)

Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89

Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano

di rimanenti saranno chiuse al più tardi entro la fine di giugno 2025 e il marchio «Do it + Garden» verrà dismesso al più tardi dal 1° luglio 2025. Garantiamo che tutti gli apprendisti Do it + Garden continueranno e completeranno la loro formazione all’interno o all’esterno di Migros. I clienti possono continuare a fare acquisti presso Do it + Garden fino alla fine di giugno 2025. Dopo questa data, Migros si assume tutti gli obblighi di garanzia e

Posta elettronica info@azione.ch

Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità

CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

assistenza. I clienti potranno rivolgersi al servizio clienti delle filiali Migros. Ci stiamo impegnando per trovare le migliori soluzioni possibili per i collaboratori Do it + Garden interessati dalle chiusure. Ove non sarà possibile, sarà messo in atto il piano sociale della Migros. Un supporto è dato dalla conversione del Do it + Garden Migros di Agno 2 in OBI, operazione che comporta la creazione in Ticino di 27 nuovi posti di lavoro nel settore del fai da te.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano

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Tiratura 88’000 copie

SOCIETÀ

Mobilità elettrica: tutto passa dalle batterie L’Europa si sta impegnando per produrre un numero di celle per batterie che soddisfi la propria domanda promuovendo il riciclaggio delle materie prime

Le forme future dell’acqua

La natura «fiorisce» se tagliamo meno l’erba Ha preso il via a Bellinzona un progetto pilota per una diversa gestione dei prati nelle zone urbane, a favore della biodiversità e non solo

Ambiente ◆ A Zurigo è in corso una mostra multidisciplinare sulle possibili soluzioni alle crisi idriche del nostro tempo

Architettura, design, ingegneria dei materiali ma anche videoart e fotografia d’arte. Il Museum für Gestaltung di Zurigo, nella sede Toni-Areal propone una mostra interdisclipinare per fare il punto sul nostro rapporto con l’acqua e per proporre soluzioni innovative alle sfide che ci attendono nel prossimo futuro. Climatologi e ricercatori ci avvertono da anni sulle conseguenze dei cambiamenti climatici: lunghi periodi di siccità, desertificazione, inquinamento stanno mettendo in pericolo l’approvvigionamento idrico in molte parti del mondo. L’acqua è fonte di vita, ma abbiamo imparato a conoscere anche la sua forza distruttiva sottoforma di precipitazioni e inondazioni, fenomeni sempre più frequenti e sempre più violenti, senza contare la minaccia rappresentata dall’innalzamento dei livelli del mare che già inghiotte atolli nel Pacifico (terre destinate a esistere soltanto nel metaverso, come l’isola nazione di Tuvalu che i visitatori possono visitare virtualmente a una postazione PC).

La mostra, articolata in grandi capitoli tematici, presenta 65 progetti e lavori che costituiscono un unico grande viaggio che ha il suo punto di partenza nella storia, con una ricognizione dei rapporti intercorsi tra civiltà di tutto il mondo e l’acqua: dagli acquedotti degli antichi romani all’India del (nostro) basso Medioevo con le sue stupefacenti fontane a gradini in forma di piramidi rovesciate destinate alla raccolta dell’acqua piovana – sistema oggi rivalutato – fino alle imponenti soluzioni architettoniche e ingegneristiche adottate dalle grandi capitali europee per smaltire le acque reflue nel XIX secolo. Rivoluzione industriale, colonialismo e commercializzazione dell’acqua cambiano per sempre gli equilibri: da risorsa da tutelare per i suoi aspetti simbolici, psicologici e fisiologici (ce lo ricordano i reportage fotografici sui bagni collettivi nel Gange o i flaconi di acqua di Lourdes), l’acqua diventa risorsa da sfruttare.

Capitalismo e globalizzazione hanno avuto conseguenze disastrose per gli ecosistemi nel Novecento: possiamo ripercorrere la tragica sequenza delle catastrofi causate dai naufragi delle grandi petroliere fino alla scoperta delle dimensioni preoccupanti dell’inquinamento dei mari; nel 1997 si scopriva l’esistenza del Great Pacific Garbage Patch, oltre 1,6 milioni di kmq di residui plastici galleggianti tra le Hawaii e la California.

Nella mostra emergono statistiche e numeri a cui non si può restare indifferenti – l’85 per cento dell’acqua dolce destinato all’agricoltura e allevamento e ai settori della produzione industriale. Un dato che si traduce visivamente nel reportage fotografico

di Tom Hegen con le vedute dall’alto delle serre nella regione spagnola di Almeria, che possiedono anche una strana bellezza compositiva di quadri astratti. Entro il 2050 il consumo di acqua globale aumenterà del 25 per cento e il fabbisogno di cibo del 50 per cento e tra pochi decenni il 70 per cento della popolazione mondiale si concentrerà nelle città.

Di fronte a tali prospettive la scienza – dalla botanica alla chimica dei materiali alla microbiologia – si unisce all’arte, al design e all’architettura, in una feconda ibridazione che è in grado di fornire sguardi nuovi sul rapporto con un elemento con cui siamo intimamente connessi fin dalla nascita per immaginare soluzioni sostenibili. Già disponibili e sperimentate: come le Jellyfish Barges, progetto italiano di serre galleggianti per culture idroponiche. In Danimarca è stato testato con successo il Climate Tile, un sistema di pavimentazio-

ne urbana in grado di assorbire parte dell’acqua piovana, per alleggerire il sistema fognario e per irrigare nuovi spazi verdi. Per le metropoli del sud del mondo, come Lagos, la sfida è ancora più grande; e la soluzione ai gravi problemi di inquinamento, di erosione della costa, della mancanza di acqua potabile e canalizzazioni inadeguate, può partire da una semplice tecnica edilizia che recupera sistemi e materiali tradizionali per realizzare edifici galleggianti; sono i principi alla base della Makoko Floating School progettata dall’architetto e urbanista nigeriano Kunlé Adeyemi, promotore dei così detti «waterscrapers », convinto che sia necessario «imparare a convivere con l’acqua, non a combatterla». Architetti, designer e ricercatori in chimica dei materiali immaginano facciate di edifici intelligenti e reti di distribuzioni idriche organiche, simili a un sistema arterioso, per la città di Londra. In molti casi

si tratta di interventi minimi e puntuali, ma dal grande impatto: i «frangiflutti viventi» al largo della costa di Staten Island devastata dall’uragano Sandy nel 2012 per aumentare la resistenza delle coste, un nuovo modello di una toilette a secco nel progetto finlandese Huussi o di un (poetico) collettore di nebbia che produce minuscole gocce d’acqua. L’obiettivo comune è costruire futuri resilienti, un termine che ricorre in tutto il percorso espositivo come un filo conduttore; la mostra pone infatti continuamente domande ai visitatori attraverso postazioni interattive («Il futuro diventerà più sostenibile promuovendo la paura e la morale?», «Come sviluppare una cultura della cura?»). Ma presenta anche lavori di artisti come la fotografa americana Rose-Lynn Fischer, autrice di una sorprendente topografia delle lacrime che include una serie di ingrandimenti di immagini al microscopio di lacrime

scaturite da emozioni diverse, come il rimpianto, la rabbia o la tristezza. I disegni in acrilico e i murales della slovena Marjetica Potrč si ispirano a importanti battaglie giuridiche per i diritti dell’acqua e alla recente decisione della Slovenia di inserire nella propria Costituzione il diritto fondamentale di accesso all’acqua potabile; in uno dei disegni che integrano testo e figure in una composizione fluida il fiume Soča prende la parola rivendicando la sua identità di essere vivente, statuto che implica anche un rinnovato patto tra esseri umani e natura perché in fondo «abitiamo una casa comune».

Dove e quando Wasser. Gestaltung für die Zukunft, Museum für Gestaltung, Zürich, Toni-Areal, fino al 6 aprile 2025, orari: ma-do 10.00-17.00, gio 10.00-20.00, lu chiuso. www.museum-gestaltung.ch

Tom Hegen, The Greenhouse Series II_N°°TGSII10, Almeria, Spagna, 2021 (© Tom Hegen)
Emanuela Burgazzoli
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Raffinati sapori di mare

Attualità ◆ Il tonno fresco è apprezzato dai buongustai per la sua delicatezza e tenerezza. Questa settimana alla Migros vi aspetta un’offerta imperdibile per il filetto

Tenero, succoso e delicatamente dolce: il tonno fresco conquista il palato degli amanti del pesce grazie alle sue inconfondibili caratteristiche, trasformandosi in grande protagonista della tavola. Con una consistenza della carne che ricorda quella del vitello, è consumato in una varietà di preparazioni culinarie e, previa abbattitura, anche crudo in sushi, sashimi o come tartare. Il filetto o la bistecca di tonno sono ideali per la cottura breve in padella o sulla griglia, anche solo conditi con un filo d’olio, limone, pepe e qualche erbetta aromatica. Affinché rimangano teneri e succosi al punto giusto, non devono essere cucinati troppo, sono sufficienti due minuti di cottura per lato, mentre al suo interno la carne può rimanere rosata. Le carni di tonno hanno un tenore medio di grassi e i tagli quali il filetto e la bistecca sono privi di lische, pertanto subito pronti per la padella.

Azione 20%

Filetto di tonno pinne gialle, Oceano Indiano occidentale per 100 g, al banco Fr. 4.40 invece di 5.50 dal 4.3

Un prosciutto di pregio

Attualità ◆ Il crudo San Pietro della Rapelli è un prodotto di qualità fatto in Ticino con carni svizzere

La ricetta

Filetto di tonno al pepe e all’arancia

Ingredienti per 4 persone

• 4 filetti di tonno di ca. 160 g ciascuno

• 2 arance sanguigne non trattate

• 20 g di zenzero

• 1 cucchiaino di pepe

• fleur de sel

• 250 g d’edamame sgusciati surgelati

• 3 cucchiai d’olio di colza

• 2 cucchiai di senape granulosa

• olio per rosolare

• 50 g di portulaca, rucola o spinacino

Preparazione

Grattugiate la scorza delle arance, lo zenzero e mescolateli con il pepe e la fleur de sel. Sfregate il tonno con la miscela, copritelo e lasciatelo riposare per ca. 30 minuti. Nel frattempo, lessate gli edamame in acqua per ca. 5 minuti. Scolateli e passateli sotto l’acqua fredda.

Pelate a vivo le arance. Con un coltello affilato, estraete gli spicchi d’arancia dalle pellicine raccogliendo il succo. Mettete da parte gli spicchi.

Emulsionate il succo d’arancia raccolto con l’olio e la senape e condite con sale.

Levate la marinata dal pesce. Scaldate l’olio e rosolate il pesce a fuoco medio 2 minuti circa per lato. Al suo interno, il tonno può restare rosa.

Sistematelo nei piatti con gli edamame, gli spicchi d’arancia e la portulaca (o rucola o spinacino). Irrorate con la salsa.

Ispirato alla lunga tradizione di casa Rapelli, che risale fino al lontano 1929, il prosciutto crudo San Pietro deve il suo gusto unico allo speciale trattamento a cui vengono sottoposte le cosce, le quali sono massaggiate meticolosamente a mano con sale marino e null’altro, prima di essere appese per la successiva maturazione. È un prodotto che non contiene lattosio, glutine né tantomeno additivi come i nitrati.

L’affinamento del prosciutto crudo San Pietro può durare dai 12 ai 18 mesi, in ambienti a temperatura e umidità controllate, in modo che possa sprigionare tutti i suoi sapori e aromi caratteristici e l’inconfondibile morbidezza. Durante la stagionatura, la qualità dei prosciutti viene costantemente controllata dalle mani esperte dei mastri salumieri Rapelli.

Prosciutto crudo San Pietro prodotto in Ticino, per 100 g Fr. 5.95 invece di 7.70 dal 4.3 al 10.3.2025

Se gustato da solo, ma si accosta perfettamente anche a qualche fetta di melone, asparagi, verdure grigliate o qualche fettina di pane rustico. Naturalmente, non può mancare su un tagliere di affettati misti e formaggi della nostra regione.

Il San Pietro viene prodotto esclusivamente con l’utilizzo di cosce di suini nati e allevati in Svizzera all’aperto nel rispetto di alti standard relativi al benessere animale.

Il formaggio di Noè Ponti

Attualità ◆ Da questa settimana alla Migros è in vendita un gustoso prodotto firmato dal pluricampione ticinese

Creato in onore del nuotatore di successo Noè Ponti, il formaggio «El Noè» è prodotto dal Caseificio del Gottardo utilizzando esclusivamente latte ticinese. Si caratterizza per la sua consistenza cremosa, il sapore delicato, tendente al dolce, con una lieve punta aromatica. La pasta morbida ed elastica ha un colore bianco avorio e un’occhiatura piccola e pronunciata, mentre l’affinamento è di una deci-

na di giorni. È un formaggio a crosta fiorita commestibile, con muffe bianche che le danno il suo tipico aspetto vellutato.

«Sono veramente orgoglioso di essere stato accostato a un formaggio locale di elevata qualità. Arrivare nelle case dei ticinesi anche tramite un canale diverso dal solito, mi rende particolarmente felice», ci ha rivelato il giovane sportivo nostrano.

Che forza a Riazzino!

NUOVA APERTURA – 14 FEBBRAIO 2025

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Viaggi da vivere!

Il nuovo programma vacanze è disponibile sul sito internet www.prosenectute.org oppure ottenibile in formato cartaceo telefonando allo 091 912 17 17 o richiedendolo via e-mail: vacanze@prosenectute.org

Numerose destinazioni ideali per rilassarsi in compagnia, ampliare i propri orizzonti attraverso gite culturali e partecipare ad attività di movimento. Tutte le vacanze prevedono la presenza di due volontari accompagnatori che coordinano le attività e gestiscono l’organizzazione in loco. Non è prevista assistenza sanitaria.

– Tour Abano Terme, mini crociera sul fiume Brenta e visita a Padova

Hotel La Residence ****

Dal 19 al 24 maggio 2025

– Alassio (Liguria)

Hotel Aida***

Dal 3 al 10 giugno 2025

– Follonica (Toscana)

Hotel Parrini***

Dall’ 8 al 15 giugno 2025

– Cesenatico (Riviera Adriatica)

Hotel Venere***

Dal 14 al 21 giugno 2025

– Torre Pedrera di Rimini (Riviera Adriatica)

Hotel Graziella***

Dal 27 luglio 2025 al 6 agosto 2025

– Gabicce Mare (Marche)

Hotel Miramare****

Dal 14 al 21 giugno e dall’ 8 al 15 settembre

– Sirmione (Lago di Garda)

Hotel Fonte Bojola***

Dal 28 settembre al 5 ottobre2024

Contatto

Pro Senectute Ticino e Moesano Via Chiosso 17, 6948 Porza Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org www.prosenectute.org

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Dal vecchio serbatoio al pacco batterie

Motori ◆ L’Europa potrebbe produrre un numero di celle per batterie sufficiente a soddisfare la propria domanda già nel 2026, alla base c’è la capacità di riciclaggio e riutilizzo delle materie prime

Mario Alberto Cucchi

Da quando le automobili sono nate ai primi del 900 e sino ad oggi si è sempre parlato di potenze, cilindrate, dimensioni ma mai di serbatoi. Eppure sono sempre esistiti, altrimenti dove si sarebbe mai messa la benzina? I costruttori li realizzavano e posizionavano all’interno dei loro mezzi, senza una regola ben precisa, ma come risultava a loro più comodo. Tutt’oggi alcune vetture hanno il bocchettone di rifornimento sulla destra, altre sulla sinistra, le Porsche addirittura davanti. Possono contenere 40 litri oppure 50, la maggior parte 60 o 70. Pochi sanno che un serbatoio di carburante può costare intorno ai 1000 chf. Perché questa informazione non è diffusa? Semplice, quasi nessuno si trova a dover sostituire il serbatoio della propria auto. Sono infatti costruiti per durare una vita e questo fa sì che nessuno ci faccia caso.

Per sostenere lo sviluppo della mobilità elettrica si punta a un’economia circolare efficace e sostenibile

Le cose stanno cambiando con le auto elettriche. Il serbatoio diventa protagonista anche se effettivamente non si chiama più serbatoio ma pacco batterie. D’altronde le batterie servono per «fare il pieno» di energia che consente all’auto di muoversi come i «vecchi» serbatoi servono per fare il pieno di carburante che consente all’auto di muoversi. Allora cos’è cambiato? Tutto!

Oggi chi si avvicina al mondo dell’elettrico si informa bene sulla capacità del pacco batterie, cosa che non aveva mai fatto con il serbatoio di carburante. Il pacco batterie può essere da 50, 60, 70, 80, 90 o anche 100 kWh. Tutti sanno che nel caso in cui debba essere sostituito costa ben più di 1000 chf. Per questo motivo molte persone

hanno paura che non duri quanto l’auto. Eppure il pacco batterie come detto poc’anzi non corrisponde all’energia che fa muovere l’auto, è solo un contenitore. Così, proprio sulle batterie si sta giocando forse la partita più importante di questa transizione energetica. I costruttori di automobili investono cifre enormi per costruire giga factory dedicate soltanto alla realizzazione di pacchi batterie. Li si vuole sempre più leggeri, meno costosi, capaci di immagazzinare più energia. Insomma c’è tanta tecnologia. Anche perché non sono realizzati in plastica come i «vecchi serbatoi». Oltre al litio, a cui devono il proprio nome, queste batterie contengono anche numerosi altri materiali. In una batteria da 60 kWh di nuova concezione si trovano 5 kg di litio, 5 kg di cobalto, 39 kg di nichel, 5 kg di manganese, 45 kg di grafite, 30 kg di alluminio, 20 kg di rame e 20 kg di acciaio. Se le auto elettriche non emettono gas di scarico va detto che l’estrazione di queste materie lascia un’impronta ecologica e sociale. Ad esempio l’estrazione del litio causa un elevato consumo di acqua in regioni già aride. Quando si parla dei materiali che servono per realizzare le auto elettriche si citano spesso le terre rare. Un nome che fa pensare ad elementi di difficile reperimento ma non è così. Secondo la definizione dell’Unione Internazionale di Chimica Pura Applicata – International Union of Pure and Applied Chemistry (IUPAC) – con il termine terre rare si fa riferimento a 17 elementi chimici precisi che sono ben presenti sul nostro pianeta ma la cui estrazione non è semplicissima. Secondo le stime della US Geological Survey al mondo esiste una riserva di circa 40 milioni di tonnellate di litio, il 65% del quale si trova nel sottosuolo di Bolivia, Cile e Argentina. A queste big tre si è aggiunta poi la Cina. La febbre della Mobilità elettrica sta facendo la fortuna di questo settore.

Secondo un’analisi di Transport and Environment, organizzazione ambientalista indipendente europea, le case automobilistiche che operano nel mercato del vecchio continente non si sono assicurate forniture sufficienti dei metalli chiave per la produzione di auto elettriche di cui avranno bisogno da qui al 2030. Ecco allora che con il continuo sviluppo della mobilità elettrica il riciclaggio delle batterie ad alta tensione è sempre più al centro dell’attenzione. Dopo il successo del sistema di riciclaggio a circuito chiuso per il riutilizzo delle materie prime delle batterie ad alta tensione, sviluppato nel 2022 grazie alla joint venture BMW Brilliance Automotive (BBA) in Cina, il BMW Group ha ora raggiunto un altro importante traguardo. Il 1° novembre 2024 ha avviato una partnership paneuropea con SK tes, fornitore leader di soluzioni innovative per il ciclo di vita tecnologico. Lo speciale processo di riciclaggio permette di recuperare cobalto, nichel e litio dalle batterie usate, reintegrandoli successivamente nella catena del valore per la produzione di nuove batterie. Il primo passo, secondo BMW, verso un’economia circolare efficace e sostenibile per le batterie. Transport & Environment (T&E) sostiene che, in base agli attuali piani di produzione, l’Europa potrebbe produrre un numero di celle per batterie sufficiente a soddisfare la propria domanda già nel 2026. Da qui al 2030, la capacità di produzione potrebbe raggiungere 1,7 TWh, guidata dagli impianti in Germania, Ungheria, Spagna, Francia e Regno Unito. Un ecosistema industriale alternativo alla Cina e parallelo agli USA. D’altronde lo si studiava a scuola: i giacimenti petroliferi un giorno si sarebbero esauriti. E così la partita ora si gioca su un altro campo. L’autonomia, e non solo quella delle auto, è strategica.

BMW Group ha messo a punto uno speciale processo di riciclaggio che permette di recuperare cobalto, nichel e litio dalle batterie usate

Spazi verdi, fare meno per avere di più

Territorio ◆ Parte da Bellinzona un progetto pilota per una diversa gestione dei prati in ambito urbano, a favore della biodiversità e non solo. Quattro per ora le zone coinvolte

Prati e giardini possono trasformarsi in luoghi particolarmente ricchi di biodiversità, con anche un’importante fonte di nutrimento per animali o insetti. Questo è quanto si vuole mostrare e avvalorare a Bellinzona, grazie a un progetto per la gestione estensiva delle superfici verdi, dove si rinuncia a tagli frequenti dell’erba e si esclude l’uso di fertilizzanti o, ancor peggio, di prodotti fitosanitari. Una strategia «minimale» che si trasforma in un’opportunità per la natura, con una serie di benefici per l’ambiente e pure per chi in questi ambienti vive, quindi anche l’essere umano. Promotore dell’iniziativa è il Dipartimento del territorio (DT), che lo scorso autunno ha lanciato in collaborazione con la Città di Bellinzo-

Ritardare lo sfalcio

La ricerca, intitolata Regimi di falciatura alternativi per favorire la biodiversità delle praterie (Des régimes de fauche alternatifs pour favoriser la biodiversité des prairies, Humbert et al., 2018), ha dimostrato come uno sfalcio ritardato di un mese (da metà giugno a metà luglio) porta a un aumento massiccio di invertebrati sulle superfici oggetto dello studio. Un risultato che si ottiene anche lasciando una zona non falciata sul 10–20% della superficie del prato. Lo studio si occupa anche delle modalità di taglio che migliorano la ricchezza di specie sulle superfici per la promozione della biodiversità: queste ultime rappresentano il 15% circa della superficie agricola utile in Svizzera.

In conclusione, come riferito nel riassunto dello studio, «la ricerca dimostra il ruolo benefico a volte a corto termine e cumulativo, cioè da un anno all’altro, del taglio posticipato e dei rifugi per la biodiversità».

Viale dei ciliegi

Julia Donaldson- Lydia Monks La fatina dei denti e il coccodrillo Gribaudo (Da 4 anni)

Julia Donaldson è una narratrice di grande classe, perché crea storie in cui - pur nella semplicità che nel rivolgersi ai più piccoli è necessariac’è azione, accadono cose. Ed è molto difficile costruire un buon intreccio in storie piccole per i più piccoli. Inoltre, padroneggia perfettamente i meccanismi narratologici che meglio funzionano con la prima infanzia, ossia l’accumulo; la ripresa nel finale di ciascun elemento citato in precedenza, che viene quindi ad acquisire ulteriore senso; la struttura iterativa-progressiva, in cui ad ogni pagina si ripete uno schema (così il bambino è rassicurato e può fare ipotesi narrative pertinenti), nel quale però ogni volta si inserisce una novità (così il bambino è sorpreso e la soglia di attenzione rimane alta). Le sue sono sempre storie convincenti, anche quando non realizzate in coppia con Axel Scheffler, il suo partner artistico più consueto (quello del Gruffalò, per intenderci). Così, ad esempio, ne La fatina dei denti e il coccodrillo, le illustrazioni

na il progetto «Lasciami crescere, la natura ti ringrazia». «Lo scopo principale – spiega Luca Veronese, Capo dell’Ufficio dell’educazione ambientale del DT – è quello di informare e coinvolgere la popolazione, incoraggiando una gestione estensiva nei giardini e negli spazi verdi, con un invito particolare a voler rinunciare a tagli frequenti dell’erba». La campagna, come indicato nel comunicato stampa di presentazione, prende spunto dal movimento nato in Inghilterra nel 2019 No mow may («maggio senza sfalcio») e si appoggia anche su uno studio condotto qualche anno fa dall’Università di Berna (vedi riquadro). Uno studio cofinanziato dal Fondo nazionale svizzero, dall’Ufficio federale dell’agricoltura, dall’Ufficio federale dell’ambiente e da alcuni cantoni (Berna, Vaud, Neuchâtel, Argovia, Basilea Campagne e Friborgo), da cui emerge come il mantenimento di una zona non falciata con possibilità di rifugio, ha effetti positivi sia sull’abbondanza sia sulla ricchezza specifica di vari gruppi di invertebrati: «Per esempio, nel contesto di un prato non falciato in cui erano state create possibilità di rifugio pari al 10-20% della superficie, il numero di ortotteri era raddoppiato», riporta il comunicato.

Perché dunque non provare a cambiare la modalità di gestione dei prati e proporre una nuova tendenza? Il progetto pilota è iniziato in collaborazione con il Comune di Bellinzona, sul cui territorio sono state scelte quattro aree dove si è per ora principalmente rinunciato ai tagli frequenti, mentre in futuro si applicheranno ulteriori accorgimenti. Oltre a evitare i tagli precoci e regolari, la campagna del Dipartimento del territorio invita infatti anche ad astenersi dai tagli «a zero» dell’erba (mantenendo un’altezza di taglio sopra gli otto centimetri), a non utilizzare pesticidi e diserbanti e a usare dei fertilizzanti solo se necessario. Un ulteriore passo ver-

so ambienti più ricchi si possono poi raggiungere creando ambienti di vita per animali con mucchi di sassi e legna, oppure allestendo gli «hotel» per gli insetti. Si vuole inoltre sensibilizzare sull’uso di tagliaerba elettrici o con decibel bassi per evitare i rumori eccessivi, così come sull’uso parsimonioso dell’acqua per l’irrigazione, per esempio raccogliendo la pioggia e innaffiando la sera o la mattina. Interventi (o non interventi) che si tramutano anche in un risparmio finanziario, dovuto alla minor manodopera necessaria. E i vantaggi non si limitano all’aumento e al miglioramento della biodiversità, dato che le superfici verdi, come noto, riducono il calore cittadino e assorbono grandi quantità d’acqua, mitigando così gli effetti delle isole di calore: «Effetti che sono maggiori in un prato gestito in modo estensivo, rispetto a un prato rasato ininterrottamente “a zero”», aggiunge Veronese, sottolineando l’ottima collaborazione con la città di Bellinzona. Le quattro superfici selezionate per l’avvio della campagna «Lasciami crescere, la natura ti rin-

grazia», sono sorvegliate dal Dipartimento del territorio, raccogliendo i dati sull’evoluzione della diversità, sul tipo di gestione, sulle risorse impiegate o risparmiate, ma anche prestando attenzione ad altri parametri da non sottovalutare, come la possibile proliferazione di erbe o piante indesiderate: «Certo, non tutte le specie che troviamo nei giardini e nei prati sono autoctone, alcune hanno un carattere invasivo e vanno pertanto monitorate ed eventualmente regolate, dato che alcune di esse soppiantano quelle locali e possono avere conseguenze negative, sia per la biodiversità sia per la salute dell’essere umano», precisa Luca Veronese. Il progetto cerca quindi di portare una gestione estensiva in città e nelle aree pubbliche, spesso trattate in modo intensivo. Si vogliono insomma creare delle oasi di biodiversità all’interno dello spazio urbano, grazie a una strategia diversa e adattata all’utilizzo previsto delle superfici. Se per esempio il prato è una zona di svago frequentata, si può optare per dei tagli più frequenti nella parte centrale con

dei bordi più «incolti» dove si lasciano crescere le piante spontanee. Le quattro zone sono state scelte in posizioni abbastanza centrali e visibili dalla popolazione, proprio per sensibilizzare e informare il maggior numero di persone che, passeggiando, noteranno i cartelli informativi abbinati a un piccolo sondaggio. Si trovano davanti al Castello di Montebello, tra Piazza Teatro e Piazza Governo, all’ex campo d’aviazione nei pressi del Parco urbano e a Sementina, lungo il fiume che scende da Albagno. In attesa dei primi risultati di questo progetto pilota, l’invito per tutti i proprietari di giardini e i gestori di spazi verdi è quello di provare a non tagliare troppo spesso l’erba, soprattutto durante il mese di maggio, favorendo la biodiversità e risparmiando nel contempo tempo e risorse.

Informazioni

https://www4.ti.ch/dt/dstm/ sst/unp/biodiversita-naturae-paesaggio/biodiversitanatura-e-paesaggio/lasciamicrescere-la-natura-ti-ringrazia

sono di Lydia Monks, ma è sulla forza e il ritmo della trama che si regge la bellezza del libro. Dentolina è una fatina dei denti, incaricata dalla sua regina di occuparsi degli animali anziché dei bambini. Quindi parte, con i regali nella borsa, da lasciare, al posto del dente caduto, a tre animali: un vasetto di miele per l’orso, una banana per la scimmia e un mango per l’elefante. Dentolina compie la sua missione, ma quando sta per tornare a casa, e sono ormai spuntate le prime luci dell’alba, scorge un coccodrillo addormentato, e anche lui ha perso un dente. Dentolina ha buon cuore

ma non ha più regali, e mentre è lì a chiedersi cosa potrebbe lasciargli in dono, il coccodrillo si sveglia rivelando la sua indole tutt’altro che gentile. Dentolina si mette in fuga ma il coccodrillo le strappa un’ala e le rompe la bacchetta, Dentolina non può più volare, il coccodrillo la insegue, ma ecco che qui tornano in scena gli animali a cui lei ha fatto un dono, e tornano in scena gli stessi doni, con una nuova funzione salvifica per la povera fatina. La storia si farà ancora più ricca di colpi di scena, e anche qui avremo il rilancio di un ulteriore colpo di scena finale, quando anche a Dentolina dondolerà un dentino... e anche lei si meriterà dei regalini!

Julia Donaldson

Un serpente per ospite Sinnos (Da 6 anni)

I giganti e i Jones

Einaudi Ragazzi (Da 8 anni)

Accogliamo con piacere la ripubblicazione da Sinnos, dopo dieci anni, di un racconto di Julia Donaldson (sempre con illustrazioni di Francesca Carabelli). La piccola e intraprendente Polly ha messo su una pensione per

animali in casa sua. Peccato che la casa non sia solo sua, e che la mamma abbia voce in capitolo: «Ho già detto sì a due porcellini d’India, a un uccello e a un mucchio di pesciolini rossi. Ma non muoio dalla voglia di avere un serpente dentro casa». Il serpente però arriverà e la storia si movimenterà parecchio!

Colgo l’occasione per segnalarvi un altro bel libro di Julia Donaldson, un romanzo per ragazzi più grandi. Purtroppo, come spesso capita, è fuori catalogo (e questa cosa, dei bei libri che finiscono fuori catalogo per fare spazio a novità prodotte a spron battente e non sempre imprescindibili, meriterebbe una riflessione a parte); spero che lo possiate trovare nelle ottime biblioteche per ragazzi di cui la Svizzera Italiana si può fregiare. Si tratta de I giganti e i Jones, un romanzo avventuroso e poetico, sperimentale nella scrittura e originale nello spunto narrativo. Una bambina gigante, Jumbelia, ama collezionare cose piccole (piccole per lei, s’intende), e finirà per collezionare anche i tre fratellini Jones, raccogliendoli con la sua manona mentre, ignari, giocano in giardino. Così comincia l’odissea dei tre bambini nel mondo dei giganti: verranno messi nella casa delle bambole di Jumbelia, minacciati dal suo gatto, sottoposti agli scherzi crudeli del pestifero fratellone. E dovranno cercare strenuamente di fuggire, per tornare nel nostro mondo. Un precisissimo gioco di punti di vista, in cui i capitoli sono vere e proprie «soggettive» o dei bambini o dei giganti, una scrittura originale e plurilinguistica, perché il testo è contaminato da inserti in groil, ossia la lingua dei giganti. E se con il groil non si ha ancora molta dimestichezza, c’è un dizionarietto in fondo al libro.

di Letizia
Bolzani ●
Uno dei cartelli informativi presenti a Bellinzona abbinati anche a un sondaggio (www.ti.ch/dt)

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Approdi e derive

Lavori in corso

Esco di casa al volo per fuggire dai rumori assordanti del trapano, da buchi e calcinacci che, per lavori urgenti, si sono impossessati del mio appartamento. Esco al volo per cercare di riprendermi, ma anche il panorama che mi viene incontro è quello di una città-cantiere: un cantiere diffuso e imponente che occupa il mio sguardo in 3D.

Capisco di essere in una condizione diversa dal consueto chiudere la porta di casa alla ricerca di una bellezza che so di incontrare sempre sul mio cammino, nei luoghi a me più cari. Forse per questo mio stato d’animo, non proprio sereno e accogliente, la città mi sta mostrando, in modo inatteso, la bruttezza di interminabili lavori in corso, la bruttezza di tutto il grigiore senza profumo di spazi opachi, capaci solo di frantumare ogni prospettiva, di interrompere ogni scorcio di bellezza.

Quello che mi sta succedendo è ben

Terre Rare

spiegato dal noto esempio dell’immagine ambivalente di anatra/coniglio (o quella di vecchia/giovane) per cui se tu guardi tante anatre prima di vedere l’immagine, certamente non avrai dubbi a riconoscervi un’anatra e a lasciare sullo sfondo, informe e invisibile, il coniglio che pure vi è raffigurato. Ecco che allora, mentre cammino, queste «anatre» si fanno potenti luoghi della memoria, immagini e visioni altre volte trascurate o prontamente rimosse.

Vedo innanzitutto quella casa sventrata che per settimane ha mostrato senza pudore storie di intimità appese a resti di muri, esibite dentro frammenti di cose, un mestolo forse, o un asciugamano dimenticato tra quello che resta di una cucina. Una casa sventrata senza pudore, nel confondersi di pareti infragilite, ti lascia addosso una percezione straniante e inquietante di dimora, e forse anche di umanità. Mi era proprio rimasta negli occhi questa

La sindrome del Tom-Tom

Quando, tempo fa, con i colleghi della Redazione abbiamo pensato di avviare questa rubrica, intendevamo offrire ai nostri lettori uno spazio in cui riflettere su mondo delle tecnologie digitali, con l’intento di fondo di fornire consigli utili e anche pratici, per comprenderne e abbordare meglio le varie implicazioni (e complicazioni) nell’uso delle nuove pratiche informatiche che influenzano la nostra vita. Si è dimostrato oggi che quell’intuizione era ragionevole. Ciò viene confermato ad esempio dalle numerose iniziative sul territorio, promosse da istituzioni e da privati, che vanno nella stessa direzione. Col passare del tempo però a chi scrive si è reso chiaro il pensiero che i problemi tecnologici di fondo siano tutto sommato facilmente risolvibili. Quello che sembra più importante colmare è un gap psicologico e, se vogliamo, anche filosofico rispetto a questo argomen-

to. Senza voler sconfinare nel campo della preziosa rubrica soprastante, ci sembra che agli utenti di oggi occorra seriamente riflettere sulla distanza da prendere dai ritrovati della tecnologia, i quali come la mitica scopa dell’apprendista stregone, sembrano catturarci in un gioco perverso che ci indebolisce invece di rafforzarci, che ci schiavizza invece di liberarci. Un elemento su cui vorremmo richiamare la vostra attenzione, ad esempio, è la «sindrome del Tom-Tom». Un fenomeno relativamente pernicioso, crediamo, che si applica a vari aspetti dell’uso della tecnologia digitale tascabile, e forse con inquietanti risvolti anche psicologico-sociali. Come riflettevamo qualche giorno fa con alcuni amici, l’uso dei navigatori digitali sta modificando sottilmente il nostro modo di pensare. Prima del suo avvento i viaggi si preparavano artigianalmente a tavolino, con

Le parole dei figli

«A nessuno piacciono gli snitch!», sentenziano in coro l’11enne Enea e la 16enne Clotilde, fratelli coltelli, che quando sono d’accordo su qualcosa in famiglia è già un evento. Il significato è semplice perché basta tradurlo letteralmente dall’inglese: snitch significa spia. È uno snitch chi fa lo spione. Cosa che comporta un marchio d’infamia. L’interessante ne Le parole dei figli è capire per quali comportamenti viene apposta tale lettera scarlatta; e questi cambiano a seconda del contesto e delle età. Il termine arriva in Italia perché, neanche a dirlo, fa parte del gergo dei rapper (utilizzato anche in titoli di canzoni come No Snitch Freestyle del 2017 di Tedua o Snitch e impicci del 2020 di DrefGold e FSK Satellite). Per loro uno snitch è su tutto chi è amico della polizia. L’informatore. Chi tradisce la gang. A tal proposito il mondo del rap ha anche lo

immagine così vivida anche se oggi, a pochi mesi di distanza, non posso che vedere un altro palazzo, nuovo, imponente e luminoso, ignaro di aver inghiottito il tempo di tante vite vissute. Penso che in esperienze come questa si mostri il volto più lacerante, più tragico anche, del nostro vivere e convivere nel cosiddetto tempo reale, che è un’opportunità, certo, ma a volte può anche diventare sorgente di dolorose smemoratezze. L’«anatra» mi mostra in seguito anche un lungolago continuamente interrotto da lavori, per me spesso indecifrabili, che sembrano volersi prendere gioco della geometria delle piante (e dei ritmi dei tanti che lo attraversano correndo) tra buchi misteriosi in cui si frantuma e si spegne il riverbero del lago. Poi mi viene alla mente la doccia che un gentile operaio mi ha magicamente risparmiata mentre bagnava con getto impetuoso i calcinacci impazziti di una rapida e grandiosa demolizione, lasciandomi invece

assaporare solo l’improvviso, stupefacente, apparire del lago. Case rialzate, case ristrutturate, case abbattute, come l’ultima chicca di un palazzo di recente costruzione, e in buona salute, ora in procinto di essere demolito per lasciare spazio a un altro, più grande e più alto. Mentre mi accingo a rientrare da questa inconsueta escursione, ritrovo infine il silenzio. Ma è un silenzio rumoroso che racconta la sofferenza delle vie pedonali del centro, addobbate con carta da pacco a oscurare vetrine abbandonate e a nascondere funerali di oggetti, presto dimenticati ma presto rimpiazzati da nuovi addobbi. La presenza di lavori in corso, ovunque e sempre, ci ricorda però che questa espressione può anche essere una bella metafora della vita, capace di esprimersi in ogni nostro piccolo gesto quotidiano, custodita nella continuità dei battiti del nostro vivere, quando il desiderio di camminare oltre si

intreccia e si alimenta con la memoria del passato. I lavori in corso fotografati in questo breve racconto, sempre più pervasivi e invadenti dentro gli spazi comuni del nostro vivere, sembrano invece suggerire un’altra percezione del tempo. Ci proiettano in un tempo fermo, pur nel suo continuo agitarsi, e immobile, pur nel suo farsi e disfarsi. Ci consegnano ad un tempo frantumato e senza profondità, al suo frenetico movimento sulla superficie del presente, che non sa più riconoscere, né tantomeno desiderare, la possibilità di un un senso ulteriore. Dentro questi tempi dell’interruzione, della frammentazione, della provvisorietà, dentro queste atmosfere che si impadroniscono sempre più dei nostri vissuti, che ne è del dialogo con il nostro mondo interiore? Che ne è di quel tempo intimo che ci fa sentire e sperimentare la vita nel suo lento dipanarsi e nel desiderio di sempre camminare oltre?

cartine geografiche più o meno dettagliate, con indicazioni mai definitive ma piuttosto generiche. E si arrivava comunque dove si voleva andare (magari scoprendo lungo la strada interessanti spunti di curiosità non previsti). Oggi, per viaggiare, esiste solo «la strada giusta»: quella che indica il navigatore. «Accidenti, abbiamo sbagliato strada!» è la frase più frequente che sentiamo pronunciare nel corso del viaggio. E tutto l’itinerario sembra diventare un ansioso rosario di maledizioni e di preoccupazioni, che ci toglie ogni attenzione al paesaggio, al viaggio stesso, in fondo. Rilassiamoci. Di fatto, l’«unica» strada giusta non esiste: non è un’evidenziazione azzurra su un piccolo schermo a definire la realtà. Eppure questo oggetto, il navigatore digitale, che dovrebbe nelle sue premesse (e promesse), occuparsi di togliere da noi una fonte di ansia, diventa una non indifferente occasione

di litigio e di preoccupazione. Stiamo scherzando, naturalmente. Ma nemmeno troppo. E soprattutto, se estendiamo la «sindrome del Tom-Tom» a tutti gli aspetti della nostra interazione con gli oggetti digitali che ci circondano, ci rendiamo conto che sono proprio questi strumenti a generare in noi un’ansia da prestazione. «Starò facendo la cosa giusta? È così che si deve fare? Sarò all’altezza di compilare questo formulario, di avviare questa pratica digitale?». Come se l’esperienza vitale fosse tutta filtrata da prove e da difficilissimi tranelli tecnologici a cui noi, come Bilbo Baggins, dobbiamo sfuggire, ingannando il temibile Drago rosso. Secondo noi è molto importante, terapeutico persino, imparare a non aderire a quel modello digitale, quel «sì-no» su cui si basano le tecnologie moderne, che sono appunto digitali, non analogiche, cioè senza discerni-

mento, senza zone grigie. Il grosso rischio è che senza accorgerci si cominci anche a ragionare in questo modo, in un percorso di «sì-no» che può finire a dividere i buoni dai cattivi, i meritevoli di attenzione dai trascurabili, le «verità assolute» dalle «bugie assolute», le informazioni «giuste» da quelle «sbagliate», in un gioco pericoloso alla semplificazione, se non altro, piuttosto diseducativo.

Non sarà un problema di tutti, ma il consiglio è di tener conto delle sfumature «analogiche» e di non farsi prendere dall’ansia, dalla «sindrome del Tom-Tom». Per informarci, per trovare buone ricette di cucina, per scoprire nuovi sentieri in montagna, per leggere buoni libri, per conoscere nuove persone e iniziare nuovi viaggi non ci son strade giuste. Ci sono strade. Sono queste le vere «Terre rare», altrettanto preziose di quelle che fanno funzionare i nostri smartphone

snitch più grande della storia dell’hip-hop: è Tekashi da Brooklyn, arrestato dall’Fbi il 18 novembre 2018 per appartenenza alla gang criminale Nine Trey Gangsta Bloods, rapina a mano armata e traffico di droga (per riportare solo i principali capi d’accusa).

Che cosa fa Tekashi per non rischiare 47 anni di carcere ma farsi ridurre la pena con un patteggiamento? Ebbene, il rapper testimonia per ore in un tribunale di Manhattan contro gli altri membri della gang. Apriti cielo, il dissing (l’insulto pubblico in musica) è assicurato. Altro mondo, stessa parola. Per i bambini della Generazione Alpha, i nati dal 2010, uno snitch è chi fa lo spione con i prof. Chi ha l’età di Enea il termine lo usa infatti prevalentemente in ambito scolastico dove la massima autorità sono gli insegnanti e uno snitch è, dunque, un amico dei prof. Chi gli ricorda che non ha da-

to i compiti se l’insegnate sta uscendo dall’aula dopo essersi dimenticato di assegnarli. Chi gli fa presente che oggi è giornata di interrogazione. Chi fa la spia sulle manchevolezze dei compagni di classe che magari hanno dimenticato il libro o il quaderno a casa. Il codice di onore, che in linea di massima prevede di farsi i fatti propri per non rischiare di essere considerato uno spione, ammette però la possibilità di fare differenze: se due bambini della stessa età si menano spifferare al prof equivale a snitchare; ma se uno più grande picchia uno più piccolo, e considerato indifeso, beh in quel caso (per fortuna!) scatta un campanello d’allarme e allora va anche bene rivolgersi agli insegnanti. A ogni età, il suo significato. Per gli Gen Z, per i quali la lealtà in amicizia è un valore assoluto, uno snitch è soprattutto chi tradisce gli amici. Ossia

chi parla male alle loro spalle oppure racconta in giro i fatti loro. Comportamenti imperdonabili! In questo caso snitch diventa più che mai sinonimo di infame. Gli snitch non piacciono perché si muovono per tornaconto personale. A noi boomer, a mio avviso, è bello che il significato di snitch riporti a un film magistrale che è Profumo di donna (1992). Al Pacino interpreta Frank Slade, un tenente colonnello cieco che trova un’inaspettata ragione di vita nell’amicizia con Charlie Simms, studente della prestigiosa Baird School pur senza essere figlio di una famiglia agiata. Sopra la testa del preside viene fatto scoppiare un palloncino di liquido colorato che lo sporca tutto insieme alla sua nuova auto. Viene aperta un’inchiesta sui colpevoli e Charlie è uno dei due testimoni chiamati a fare la spia. Ma Charlie non è uno spione. A costo di pagar-

ne le conseguenze con l’espulsione da scuola e il sogno di andare ad Harvard mandato in frantumi. Al Pacino-Frank Slade prende la parola davanti a tutta la scuola riunita nell’aula magna per una sorta di processo pubblico: «Ma che significa, qual è il vostro motto qui: basta denunciare i propri compagni per salvarsi il culo? […] Alla Baird state forgiando dei serpenti, una razza di viscidi conigli spioni […]. L’anima di questo ragazzo è intatta, non è negoziabile, e sapete come lo so? Qualcuno qui, e non starò a dirvi chi, lo voleva comprare. Ma il nostro Charlie non vendeva. […]. Io non so se il silenzio di Charlie in questa sede sia giusto o sbagliato, non sono giudice né giurato, ma vi dico una cosa: quest’uomo non venderà mai nessuno per comprarsi un futuro!». In questo senso, gli snitch non piacciono neppure a noi.

di Lina Bertola
di Alessandro Zanoli
di Simona Ravizza Snitch

1.70

ATTUALITÀ

Reportage dal Sud Sudan

Nel Paese domina l’incertezza, milioni di persone vivono in condizioni di estrema povertà e le rivalità etniche non sono risolte

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Se un pontificato volge al termine

La Chiesa cattolica dovrebbe accettare di affrontare senza falsi pudori il tema della vecchiaia di un Papa

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Dentro la crisi tedesca

La Germania, in recessione da tre anni, è divisa a metà e sceglie un cancelliere debole, Friedrich Merz, mentre l’estrema destra avanza

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Esercito, il disordine regna da tempo

Svizzera ◆ Proprio quando il Parlamento accoglie la richiesta di accrescere gli investimenti nella Difesa, i vertici del Dipartimento si fanno risucchiare in un prolungato corto-circuito costellato da una lunga serie di passi falsi. Ma in passato si è fatto anche peggio

Questa volta prendiamo la rincorsa e partiamo un po’ da lontano. Nel corso degli ultimi venticinque anni il nostro Paese è stato segnato da diverse crisi di natura finanziaria: il grounding di Swissair, il salvataggio per il rotto della cuffia di UBS e una quindicina di anni dopo il tracollo di Credit Suisse, assorbita dalla stessa UBS. Scossoni a cui vanno aggiunti la fine del segreto bancario e pure l’onda d’urto che si è abbattuta sulle banche e sull’intero Paese per la vicenda degli averi ebraici alla fine degli anni Novanta del secolo scorso.

Nei decenni che avevano preceduto questa fase, gli scandali più gravi furono invece legati soprattutto all’esercito: negli anni Sessanta vi fu il cosiddetto «affaire» dei Mirage, che portò anche all’istituzione della prima Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) nella storia del nostro Paese. Condotta dal futuro consigliere federale Kurt Fürgler, questa indagine mise in evidenza come l’allora Dipartimento militare avesse mentito all’intero Consiglio federale e al Parlamento, in relazione all’acquisto di quei Mirage e al loro costo. Il responsabile politico dell’esercito, il ministro vodese Paul Chaudet, venne da più parti sollecitato a presentare le sue dimissioni. Non lo fece, ma decise di non ripresentarsi alle successive elezioni del Governo nel 1966.

Negli anni Sessanta vi fu il cosiddetto «affaire» dei Mirage mentre alla fine degli Ottanta scoppiò il doppio scandalo delle «schedature»

Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso scoppiò invece un doppio scandalo, quello comunemente chiamato delle «schedature». La polizia federale, inserita nel Dipartimento di giustizia e polizia, aveva proceduto a spiare oltre 700mila persone, soprattutto di sinistra, creando un immenso archivio segreto. Un anno più tardi, nel 1990, una successiva Commissione parlamentare d’inchiesta permise di scoprire pratiche simili anche all’interno del Dipartimento militare, come pure l’esistenza di un esercito segreto, composto da circa 400 graduati e che portava la sigla P-26. Uno scandalo di ampie dimensioni e un brutto colpo per le forze armate elvetiche, che proprio nel 1989 avevano dovuto confrontarsi con un’iniziativa popolare che chiedeva la loro abolizione, chiamata «Per una Svizzera senza esercito». Venne bocciata, ma la percentuale a favore dell’iniziativa, quasi il 36 per cento, rappresentò una sorta di doccia fred-

da per il Dipartimento militare. Un cittadino su tre avrebbe voluto abolire il grigioverde elvetico, una realtà minoritaria, certo, ma che non poteva essere ignorata.

La caduta del muro di Berlino, la fine della Guerra fredda, gli scandali interni e il risultato di quella votazione aprirono un nuovo capitolo nella storia del nostro esercito, chiamato ad adattarsi al nuovo contesto geopolitico internazionale e a tener conto anche del fronte contrario al grigioverde. Da qui le diverse riforme portate avanti dai consiglieri federali che si sono succeduti alla guida di quel Dipartimento, che negli anni ha poi cambiato anche il nome, passando da «militare» a Dipartimento della difesa, della popolazione e dello sport. Un modo anche per far capire che il raggio d’azione di questo settore non si sarebbe più limitato alle sole caserme.

Nel corso di questo lungo periodo, che si è protratto dal 1989 fino ai nostri giorni, i fondi accordati dal Parlamento all’esercito sono diminuiti gradualmente, per scendere al di sotto dell’1% rispetto al Prodotto interno lordo (Pil). Un continente in pace e un Paese circondato da Stati democratici hanno portato a questo

ridimensionamento delle forze armate e dei loro costi. L’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato improvvisamente le carte in tavola e il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca ha di fatto aperto una nuova fase, in cui la sicurezza in Europa sarà sempre più a carico dei Paesi del Vecchio continente, Svizzera compresa. E, proprio quando il Parlamento elvetico ha accolto la richiesta di accrescere gli investimenti nell’esercito, con un piano di intervento per i prossimi cinque anni pari a quasi 30 miliardi di franchi, ecco che i vertici del Dipartimento si sono fatti risucchiare in un prolungato corto-circuito, costellato da una lunga serie di clamorosi passi falsi.

In partenza c’è la capa del Dipartimento, il numero uno dell’esercito Thomas Süssli, il responsabile dei servizi segreti Christian Dussey

Un quadro definito da più parti desolante e che di certo non è passato inosservato neppure nei Paesi a noi vicini, che da tempo chiedono a Berna di accrescere la capacità di intervento del

nostro esercito. Certo, lo sconquasso non ha finora raggiunto la dimensione degli scandali militari del passato. I cantieri aperti sono comunque parecchi e diversi di loro sono finiti fuori controllo. Ci sono problemi ad esempio per l’acquisto dei Droni Hermes 900, di fabbricazione israeliana, e per le migliorie che l’esercito svizzero intende apportare a questi velivoli. Un rompicapo che dura ormai da anni, dai tempi di Ueli Maurer alla guida della Difesa, e che costringe i primi cinque droni acquistati dalle nostre forze aeree a rimanere a terra. Problemi di costi superiori al previsto si stagliano all’orizzonte anche per l’acquisto dei nuovi caccia F-35, ordinati negli Stati Uniti. Non va meglio per sette progetti informatici dell’esercito, di importanza strategica. Una matassa dai costi milionari di cui però nessuno è finora riuscito a trovare il bandolo. La lista potrebbe continuare, aggiungiamo soltanto un ultimo esempio, quello della RUAG, l’azienda d’armamenti di proprietà della Confederazione. Proprio la settimana scorsa sono emersi nuovi casi di possibili raggiri e di scarso controllo da parte proprio del Dipartimento della difesa, diretto ancora per un mese da Viola Amherd.

E qui si arriva alle questioni legate al personale, viste la catena di dimissioni che hanno caratterizzato queste prime settimane dell’anno. In partenza c’è la capa del Dipartimento, il numero uno dell’esercito Thomas Süssli, il responsabile dei servizi segreti Christian Dussey. In questi ultimi due casi c’è pure stata una fuga di notizie, con il Parlamento e il Consiglio federale che sono stati presi in contropiede. Il Dipartimento della difesa ha aperto un’inchiesta contro ignoti e Viola Amherd non ha nascosto la sua irritazione davanti alla stampa. Attorno ai grandi cantieri dell’esercito la tensione è palpabile. Un nervosismo che con ogni probabilità si farà sentire anche fra una settimana, quando il Parlamento dovrà scegliere un nuovo consigliere federale al posto della dimissionaria Amherd. In lizza ci sono due candidati del Centro, Martin Pfister e Markus Ritter. A uno dei loro due sembra destinata la guida del Dipartimento della difesa. Ma anche su questo punto non si escludono sorprese, con il Governo che potrebbe procedere a una rotazione dei dipartimenti, anche per assicurare all’esercito una guida esperta, davvero capace di fare ordine. Finalmente!

Viola Amherd e il capo dell’esercito
Thomas Süssli. (Keystone)
Roberto Porta

Sud Sudan, qui le ferite di guerra

Reportage ◆ Dalla capitale Juba ai villaggi del nord domina l’incertezza,

«Vedi, noi non siamo solo il Paese più giovane dell’Africa, ma siamo anche la democrazia più giovane. E proprio per questo posso assicurarti che non è certo una democrazia matura». Sono queste le parole di Abraham, un piccolo commerciante di Juba, la capitale del Sud Sudan, che danno una fotografia abbastanza precisa dell’attuale situazione politica e sociale nel Paese. Nato nel 2011, dopo una lunga e sanguinosa guerra civile per separarsi dal Sudan, all’inizio si respirava fiducia e speranza per una nuova era, ma invece la storia ha continuato ad essere segnata da conflitti, sfide politiche, catastrofi umanitarie. Perché non sono passati che pochi anni dall’indipendenza dal Sudan che nel 2013 nell’appena nato Sud Sudan scoppia una nuova guerra civile interna, una lotta di potere tra il presidente Salva Kiir Mayardit e il suo vice Riek Machar. Entrambi erano stati leader nel movimento armato dell’Spla (Sudan people's liberation movement) che aveva lottato per l’indipendenza da Kartoum e ora i due si combattevano tra loro non solo per un’egemonia politica, ma anche per un’egemonia etnica e culturale. Infatti il primo appartiene all’etnia Dinka tradizionalmente pastori, mentre il secondo all’etnia Nuer che sono agricolto-

ri, e sono le due principali comunità del Paese. Una guerra civile durata 5 anni, fino al 2018, che ha devastato la regione e provocato centinaia di migliaia di morti, feriti e un milione almeno di rifugiati sia interni sia nei Paesi vicini, soprattutto Uganda ed Etiopia. Un conflitto che ha avuto un costo umano enorme, dove violenze, massacri, stupri, reclutamento di bambini e distruzione di villaggi sono stati perpetrati da entrambe le parti e giustificati dalla folle ideologia dell’appartenenza etnica.

Durante la guerra civile (2013-2018) violenze, massacri, stupri, reclutamento di bambini e distruzione di villaggi sono stati perpetrati da entrambe le parti

In un gioco beffardo del destino la conclusione della guerra civile ha fatto ritrovare di nuovo, nella stessa posizione ai vertici della politica del Sudan meridionale, in un Governo di unità nazionale, Salva Kiir Mayardit come presidente e Riek Machar vice. In ogni caso le divisioni etniche rimangono fortissime e gli ambiziosi leader non si fidano l’uno dell’altro.

Questa voglia di egemonia tra i due ancora oggi mette in mostra e definisce chiaramente gli schieramenti politici del Sud Sudan e nel Paese si

continua a respirare aria di instabilità politica.

La dimostrazione è stata il rinvio di due anni delle elezioni, le prime dal 2011, che dovevano svolgersi a dicembre 2024. Il motivo: preparazione dell’organizzazione e progressi su alcuni punti dell’accordo di pace del 2018. In particolare l’unificazione delle forze armate e una Costituzione permanente per il Paese. «Sono passati 14 anni dall’indipendenza e tanti dalla fine della guerra civile –mi dice Mary, una venditrice di chapati (tipo di pane senza lievito, simile a una piadina) – ma noi dobbiamo

ancora risollevarci». Mary è dietro al suo bancone, all’angolo di una strada polverosa, vicino alle sedi di alcune Ong internazionali. Avvolta in una tunica azzurra, i capelli raccolti in un foulard, due occhi neri circondati da un viso dolce, impasta farina e acqua mentre sua figlia serve i pochi clienti. «Certo, continua Mary, i mercati sono pieni di gente, le strade piene di auto, ma le cicatrici lasciate dalla guerra sono ancora evidenti. La maggior parte della gente non ha soldi, i giovani non hanno lavoro, scuole e ospedali sono insufficienti». In un Paese con poche infrastrutture, un ac-

Luigi Baldelli, testo e fotografie

non si sono rimarginate

ogni genere di infrastruttura, i giovani non trovano lavoro. Inoltre le rivalità etniche sono lontane dall’essere risolte

cesso limitato all’istruzione e alle cure sanitarie, milioni di persone vivono in condizioni di estrema povertà. Le Nazioni Unite calcolano che più del 70% della popolazione sud sudanese ha bisogno di assistenza umanitaria, mentre l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, calcola che nel Paese ci sono più di 2 milioni di persone che vivono nei campi profughi. Eppure il Sud Sudan è potenzialmente un Paese ricco, grazie agli immensi giacimenti di petrolio. Quasi il 100% delle entrate statali sono legate all’oro nero. Ma anche qui ci sono degli ostacoli che limitano la crescita della Nazione: gli impianti per l’estrazione e il trasporto del petrolio sono inadeguati, mentre praticamente non esistono raffinerie interne. Il petrolio, se da un lato è la risorsa, dall’altro è un cappio al collo perché la sua economia si basa sulle fluttuazioni dei mercati internazionali. In più la forte corruzione, le diffidenze tra etnie e il nepotismo che ha concentrato tutti i punti nodali dell’e-

conomia nelle mani di pochi, non aiutano a far risollevare il Paese in tempi brevi. E intanto poliziotti, insegnanti e impiegati statali non ricevono lo stipendio da mesi. «Questa mancanza di soldi e insicurezza sociale non si vede ma sta creando tensioni, anche se per adesso sono sommerse», mi dice Abraham, occhi profondi e mani nodose, seduto all’interno del suo negozietto, punto di vista privilegiato sugli umori dei sud sudanesi.

Mi immergo in uno dei più grandi mercati di alimenti della città. Le bancarelle con le varie mercanzie sono allineate una dopo l’altra e la luce filtra dai teli che fanno da tetto. La verdura la fa da padrone. Lungo i piccoli spazzi, tra una bancarella e l’altra, donne con bambini sulla schiena rovistano cercando di trovare il prodotto migliore mentre uomini madidi di sudore trasportano sulle spalle enormi e pesanti sacchi di vegetali. «Khawaja, khawaja» (termine che qui usano per identificare l’uomo bianco,

anche se il vero significato della parola araba è maestro) gridano le venditrici per attirare la mia attenzione e riuscire a piazzare qualcosa. Nelle strade polverose intorno al mercato si ripete il via vai continuo di auto seguito dagli inevitabili ingorghi, così come l’incessante e continuo cammino delle persone. Nelle vie alberate e asfaltate intorno alla residenza del presidente invece le auto corrono veloci, la presenza della polizia è a ogni incrocio, ville residenziali si alternano a scuole missionarie con curati campi di calcio o di basket. Visto da qui il Sud Sudan sembra tutto meno che uno dei Pa-

Un Paese vulnerabile sotto il profilo ambientale

«Sì, siamo in difficoltà», dice Amer, un anziano di un villaggio nel nord del Paese. «Siamo stanchi di tutti questi anni di guerra». Si ferma un attimo, si gratta il mento ispido, gli occhi sono vispi e le rughe segnano il viso sulle guance e intorno agli occhi. Poi riprende a parlare: «Siamo stanchi di questa povertà, di questa insicurezza e di questa mancanza di cibo. Siamo stanchi». Non è difficile empatizzare con Amer e domandarsi quante ne ha viste nella sua lunga vita. E non poteva certo non provare sulla sua pelle anche gli effetti dei cambiamenti climatici che colpiscono il Sud Sudan. Perché questo giovane Paese, in base ad una ricerca dell’università americana di Notre Dame, è stato classificato come uno tra i dieci al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici.

Negli ultimi anni, durante la stagione delle piogge, le inondazioni del Nilo Bianco e dei suoi affluenti che attraversano tutto il Paese hanno messo sott’acqua grandi parti del Sud Sudan e causato migliaia di sfollati interni, colpito le zone dei profughi della guerra, distrutto raccolti, ucciso bestiame, abbattuto case, inquinato falde acquifere. E così malattie come malaria e colera si diffondono ancora più rapidamente, aggravando i già precari servizi sanitari, che dipendono principalmente dalle Ong e

dai finanziamenti internazionali che però stanno diminuendo a causa delle emergenze globali più recenti. La Banca mondiale alla fine del 2024 ha dichiarato: «Le inondazioni peggiorano una situazione umanitaria già critica, segnata da grave insicurezza alimentare, declino economico, conflitto permanente, epidemie e ripercussioni del conflitto in Sudan». Non parla molto Amer, mentre siamo seduti su due vecchie sedie di plastica, accanto a casa sua. Con la punta del bastone che lo sostiene e lo aiuta a camminare, disegna scara-

bocchi sulla terra rossa. Poco lontano un cane si gratta la testa. Poi esce dal suo silenzio: «Nel nostro villaggio, da quando mi ricordo io, non si era mai vista così tanta acqua che allagava le strade e le case. Io ho perso cinque vacche e metà del raccolto di miglio». Si ammutolisce di nuovo e torna a fare disegni con il suo bastone sulla terra rossa. Durante il lungo viaggio di ritorno nella capitale nelle piatte e immense distese di campi ai lati della strada ogni tanto si vedono gruppi di bestiame. Sono le vacche dei pastori dinka che si spostano in cerca di pascoli per le loro mandrie. Al calare del sole la temperatura si fa più tenue ed è uno spettacolo ammirare il Nilo Bianco al tramonto.

esi più poveri del Continente africano. Ma bisogna uscire dalla capitale e inoltrarsi nel nord del Paese, a cinque sei ore di auto da Juba, per scoprire un altro Sud Sudan. È qui che si percepiscono in maniera netta le condizioni di povertà e insicurezza sociale di questa realtà. Piccoli villaggi che sopravvivono con l’agricoltura, nessuna

infrastruttura, zero scuole o ospedali, ragazzini che già all’età di 8 o 10 anni lavorano nei campi, giovani che fanno passare il tempo seduti all’ombra di un baobab, venditori di carbone (ancora oggi il principale combustibile fuori dalla capitale), donne circondate da una moltitudine di bambini che cucinano un porridge di miglio.

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Da un bar lungo le rive esce la musica a tutto volume di un’orchestra locale, un misto di canzoni pop inglesi e africane. Mentre su un muro un vecchio cartellone scolorito ricorda la visita di Papa Francesco a inizio 2023. Una visita che aveva riportato il Sud Sudan sotto i riflettori del mondo. Una visita che aveva ridato energia alla speranza del cambiamento, a una popolazione stanca di conflitti. E mi torna in mente il suo incontro con i due leader del Paese, il presidente Salva Kiir Mayardit e il vice Riek Machar, e le sue parole. «Il tempo della guerra deve finire, lasciate spazio alla pace».

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La fine di un Papa: è necessario parlarne

Chiesa cattolica ◆ In un contesto così complesso c’è ancora posto per un successore di Pietro fragile, costretto a dosare le forze?

Le telecamere sono puntate sul Policlinico Gemelli. Ogni sera i notiziari soppesano con cura le parole dei bollettini medici sulle condizioni di salute di papa Francesco, ricoverato all’ultimo piano del grande ospedale dal 14 febbraio. Nell’anno che richiama a Roma milioni di pellegrini per il Giubileo, il pontefice ottantottenne fa i conti con una polmonite bilaterale; e lo stesso entourage vaticano non fa nulla per nascondere la gravità delle sue condizioni. Al momento di mandare in stampa Azione, la salute del Papa risultava stazionaria, ma con prognosi riservata.

In molti anche nel mondo laico oggi confessano apertamente il timore di perdere un punto di riferimento come il Papa

All’improvviso il Papa delle interviste tv e dei viaggi in capo al mondo anche sulla sedia a rotelle, è costretto a stare chiuso in una stanza d’ospedale. E le lancette dell’orologio tornano indietro ai due precedenti della storia recente: la lunga agonia di Giovanni Paolo II vent’anni fa e la scelta dirompente di Benedetto XVI che nel 2013 decise di percorrere un’altra strada, con il gesto delle sue dimissioni.

Scriviamo in un momento in cui

dai medici sembra trapelare un po’ più di ottimismo sul decorso della malattia, anche se le incognite sono tante e la prognosi rimane riservata. Le Chiese cattoliche di tutto il mondo – e anche tanti uomini e don-

ne di altre religioni – pregano per la salute del Papa che ha voluto mettere al primo posto la fratellanza umana e che negli ultimi anni ha alzato la voce per denunciare la deriva delle guerre tornate prepotentemente a

ferire il mondo. Non più di un paio di settimane fa, poi, con un gesto forte, ha scritto una lettera ai vescovi cattolici degli Stati Uniti suonata come una condanna diretta a uno dei punti chiave del trumpismo: le espulsioni in catene dagli Stati Uniti dei migranti irregolari, dipinti indiscriminatamente come criminali. Si capisce perché in molti, anche nel mondo laico, oggi confessino apertamente il loro timore di perdere un punto di riferimento come papa Francesco proprio nel momento in cui sulla scena globale ogni cosa pare tornata in discussione.

Da una polmonite bilaterale si può guarire, anche a ottantotto anni. Ma la domanda inevitabile che questa situazione porta con sé è: che cosa può succedere ora? E, in una Chiesa cattolica dove con lui la figura del Papa è diventata quasi un mondo a sé, spesso schierata in aperta rottura con la tradizione e il suo «apparato», che cosa succederà dopo? In un cattolicesimo dove il pontefice ci ha abituato a parlare soprattutto a braccio, senza misurare le parole e buttando avanti il suo carisma personale, c’è ancora posto per un successore di Pietro fragile, costretto a dosare le forze?

Più volte in questi anni papa Francesco ha fatto intendere di guardare alle dimissioni come a un’ipotesi lontana: l’ha legata sostanzialmente a un’impossibilità di guidare la Chiesa con lucidità più che a una menomazione fisica. Ha tante volte ironizzato sui cardinali che dietro le quinte discutono del prossimo conclave o su quanti «pregano non a favore, ma contro di lui» (pare lo abbia fatto anche con Giorgia Meloni quando è andata a visitalo al Gemelli). La questione, però, adesso si fa concreta: può un Papa di oggi governare una Chiesa tutt’altro che compatta dietro di lui da una stanza chiusa, lontano dai fedeli?

Molto dipende evidentemente dal decorso della sua malattia. Di certo, rispetto al passato, ha alcuni strumenti in più a disposizione: proprio il modo molto più diretto con cui ha utilizzato in questi anni i media, per esempio, potrebbe rivelarsi una risorsa per portare avanti il suo rapporto senza filtri con la gente, anche

in condizioni di salute molto più precarie rispetto a quelle in cui lo abbiamo visto fino ad oggi. Se supererà la fase acuta della malattia, il suo potrebbe diventare un pontificato che privilegia le apparizioni televisive rispetto alle lunghe liturgie in mezzo alla folla. Ma è questo ciò che i cattolici si aspettano da un Papa? Sono le domande vere che sono aleggiate in queste settimane intorno al Policlinico Gemelli. Domande su cui nella Chiesa cattolica si parla sottovoce: la questione della fase finale di un pontificato, infatti, resta un grande tabù. Anche quando, come oggi, il Papa ha 88 anni prevale la retorica del «pastore che non si risparmia», si esalta il fatto che sta in piazza San Pietro al freddo fino all’ultimo nonostante gli evidenti disturbi respiratori, mette in cantiere un viaggio in Turchia che avrebbe dovuto svolgersi nel mese di maggio se non fosse diventato ormai fisicamente impossibile. Persino nei bollettini che arrivano dal Policlinico Gemelli ci si è affrettati a precisare che il Papa «lavora» anche nella sua stanza d’ospedale. Viene alla mente Giovanni Paolo II che ai suoi collaboratori negli ultimi anni ripeteva che «Cristo non può scendere dalla croce» e che, drammaticamente, arrivò addirittura ad affacciarsi alla finestra di piazza San Pietro senza riuscire a far uscire delle parole dalla sua bocca.

Anche quando, come oggi, il pontefice ha 88 anni prevale la retorica del «pastore che non si risparmia»

Joseph Ratzinger – che questo travaglio nel 2005 lo aveva vissuto dalle stanze vaticane – scelse un’uscita di scena diversa, confermandosi in questo un uomo molto più moderno di quanto si pensi. La vita si allunga, anche per i pontefici. Ma le nuove frontiere della vecchiaia sono compatibili con l’icona del Papa supereroe, che incontra tutti, è aggiornato su tutto e dice la sua con l’ambizione di orientare il cammino del mondo? Sono domande a cui la Chiesa fatica a dare una risposta, perché richiederebbero un ulteriore passo nell’umanizzazione della figura del pontefice che – nonostante la «vicinanza» di papa Francesco alla gente e la sua allergia per i rituali di corte – resta comunque per i cattolici il «grande condottiero» (o in termini teologici «il vicario di Cristo in terra»). Lo stesso «spirito dei tempi», del resto, non è incline a riflessioni di questo tipo, con leadership politiche che da un capo all’altro del mondo si ritraggono come personalità insostituibili.

Forse proprio per questo – però – la Chiesa cattolica oggi dovrebbe avere il coraggio di affrontare questo tema. Un’istituzione che esiste da Duemila anni e che, nella sua autocomprensione, mette al centro l’azione dello Spirito Santo, potrebbe dare una testimonianza importante se accettasse di affrontare senza falsi pudori il tema della vecchiaia di un Papa, non lasciando le decisioni all’arbitrio del singolo successore di Pietro. Benedetto XVI ha indicato una strada: quella del ritiro in un silenzio durato quasi dieci anni; non è detto che sia l’unica. Ma quella Sinodalità su cui proprio papa Francesco insiste tanto oggi passa anche da qui.

Nella crisi politica ed economica tedesca

L’analisi ◆ Il risultato delle ultime elezioni ci racconta di un Paese diviso a metà, in recessione da tre anni, che sceglie un cancelliere debole, Friedrich Merz, mentre avanza l’estrema destra di Alternative für Deutschland

La Germania vive la sua più grave crisi dalla cosiddetta unificazione del 1990. Tutto nasce infatti da quell’evento imprevisto, non preparato e in fondo non voluto dai tedeschi occidentali. Causato dal crollo del regime di Berlino est, a sua volta dovuto alla decisione sovietica di sbarazzarsi della «zavorra» imperiale in Europa centrale e orientale, che trovò la classe dirigente di Bonn completamente spiazzata. Tanto che all’epoca molti nemmeno troppo segretamente speravano che Erich Honecker, l’anziano leader della DDR, potesse resistere alla marea di proteste nel suo Paese. Trentacinque anni dopo, la distanza fra l’ex Germania est e quella ovest non diminuisce. Anzi, continua a crescere. Come conferma clamorosamente il voto del 25 febbraio.

Nella Germania orientale, che ospita il 20 per cento dell’elettorato, l’AfD stravince in quasi tutti gli Stati

La carta elettorale mostra due Germanie che più diverse non potrebbero essere. In quella orientale, che ospita il 20% dell’elettorato, l’Alternativa per la Germania (AfD), partito nazionalista con punte neonaziste soprattutto in Turingia e nella sua organizzazione giovanile, stravince in quasi tutti gli Stati, con l’eccezione di Berlino dove si afferma la Linke (Sinistra). In quella parte di Germania i principali partiti sono quelli che nell’altra Germania sono considerati intoccabili. Nel senso di non essere abilitati a formare coalizioni di Governo con i partiti tradizionali, storicamente sinonimo di CDU-CSU e SPD, senza considerare la FDP (liberali) in crisi finale. A questi si sommano i più recenti Verdi, in rapida marcia dalla sinistra al centro. Inoltre, l’AfD ha conseguito importanti successi anche all’ovest, dove si colloca intorno al 18%, poco meno del risultato nazionale (20,8%). Quindi avremo quasi certamente un Governo di «grande coalizione» CDU-CSU più SPD, ridotta ormai a percentuali quasi dimezzate rispetto ai suoi periodi alti. La più piccola delle grandi coalizioni della storia tedesca. Questo risultato ci dice il fallimen-

to del Brandmauer, il muro tagliafuoco eretto dai partiti stabiliti per contenere la crescita dell’AfD, trattata come partito di appestati. Come quasi sempre in questi casi, la demonizzazione favorisce il demonizzato. Rispetto alle ultime elezioni non solo il partito guidato da Alice Weidel ha raddoppiato i voti, ma si è affermato per la prima volta come forza nazionale. Soprattutto in provincia, nelle campagne, nelle città medio-piccole. Sotto questo profilo il discorso del vicepresidente americano J. D. Vance alla conferenza di Monaco, che invitava ad abbattere quella barriera e a misurarsi senza tabù con la destra

estrema, si è rivelato profetico. Questo non vuol dire che la AfD sia oggi cooptabile nel sistema. Significa però che l’idea di metterla fuori legge, coltivata da una parte dell’opinione pubblica e dei partiti tradizionali, appare tramontata. Anche perché dichiarare anticostituzionale una forza che rappresenta un elettore su cinque apparirebbe una scelta poco giustificabile in democrazia.

Avremo dunque un cancelliere debole, il cristiano-democratico Friedrich Merz, nemesi di Angela Merkel (i due si detestano) ed esponente della destra della CDU, con una socialdemocrazia dimezzata a sostener-

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Il partito guidato da Alice Weidel – nella foto insieme al co-presidente di AfD, Tino Chrupalla – ha raddoppiato i voti e si è affermato per la prima volta come forza nazionale. (Keystone)

Gli aspetti strutturali della crisi tedesca sono particolarmente scoraggianti. La massima economia europea è al terzo anno consecutivo di recessione. Le forniture di gas russo a basso costo sono ferme, il mercato cinese, fondamentale per l’industria tedesca, si è contratto sensibilmente, causa soprattutto il disastro del settore automobilistico. La Germania ha dovuto riprendere a usare il carbone in quantità notevoli, mentre valuta il ritorno al nucleare. Civile. Il che però non esclude per il futuro l’opzione militare, visto il clima di totale incertezza che circonda Berlino.

I tedeschi – tra le altre cose – sanno di non poter più fare affidamento sugli americani per la propria sicurezza

lo. Ma l’aspetto più interessante è la radicalizzazione del centro. In omaggio alla teoria del muro tagliafuoco, Merz ha cercato di posizionarsi sulla destra per sottrarre voti all’AfD. Secondo un’analisi della «Neue Zürcher Zeitung», il programma della CDU è uguale o simile a quello dell’AfD nel 76% delle materie. Soprattutto nel decisivo dossier migratorio. D’altronde, il 57% dei tedeschi è favorevole a respingere alla frontiera i richiedenti asilo. Le loro domande di ingresso dovrebbero essere valutate al di fuori dei confini nazionali, con severità molto maggiore di quanto finora accaduto.

Lo shock geopolitico si esprime nello scontro aperto con gli Stati Uniti. I dazi del 25% contro gli europei annunciati da Trump possono accelerare la caduta del Prodotto interno lordo, anche se forse saranno ridotti. Più grave ancora, i tedeschi sanno di non poter più fare affidamento sugli americani per la propria sicurezza. Ciò proprio mentre l’Ucraina pare pronta a firmare, su pressione americana, un cessate-il-fuoco con la Russia a condizioni particolarmente sfavorevoli. Il che apre un problema di stabilità permanente nello spazio intermedio fra Germania e Russia, da gestire senza, se non contro, l’America. Infine è evidente che in questo caos tutti gli europei guardano prima alle emergenze di casa propria, solo poi alla cooperazione in ambito Ue. Sterilizzato di fatto l’asse con la Francia, Berlino si trova piuttosto isolata, come d’altronde tutti gli europei, che faticano a trovare un minimo comune denominatore in quasi ogni campo. Pessime notizie per gli altri europei e per il mondo. Tutti sanno che cosa significa per la nostra sicurezza e il nostro benessere una malattia della Germania. E non è detto che si tratti di parentesi legata all’avvento di Trump. Ma di questo cominceremo a renderci conto solo fra qualche mese. Sempre che la velocità della storia in diretta non ci sorprenda ancora scoperti, con la guardia bassa.

CULTURA

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Rockstar, una seconda vita sullo schermo

Biopic ◆ Il film dedicato alla straordinaria carriera di Bob Dylan è solo l’ultimo di una lunga e fortunata serie

A Complete Unknown, un perfetto sconosciuto. Il film biografico sull’ascesa al successo di Bob Dylan ha come titolo un verso di Like a Rolling Stone, una delle sue canzoni più celebri. Il brano in realtà era rivolto a una ragazza viziata e non aveva riferimenti autobiografici, ma quell’espressione ben si riferisce agli esordi di Robert Zimmerman, arrivato a New York con una chitarra e tanti sogni e destinato a diventare, con un nome preso in prestito dal poeta Dylan Thomas e forse suo malgrado, voce di una generazione. Nella finzione cinematografica diretta da James Mangold, Dylan ha il volto dell’attore Timothée Chalamet, anch’egli un’icona generazionale. Nonostante Dylan non sia mai stato un artista particolarmente affezionato alla fama, la sua biografia al cinema ha avuto un successo oltre le previsioni e A Complete Unknown non solo sta raggiungendo i cento milioni di dollari di incasso nel mondo, ma ha ottenuto ben otto candidature all’Oscar.

La storia degli esordi del menestrello del Minnesota e della sua controversa, ma epocale svolta verso il rock è sicuramente unica e degna di un trattamento hollywoodiano. Al trionfo del film ha però contribuito anche la crescente passione che il pubblico sta dimostrando per quelli biografici dedicati ai protagonisti della musica, i cosiddetti biopic

Per loro natura le vite delle rockstar contengono spesso molti materiali pregiati per gli sceneggiatori

La storia delle star del mondo della canzone è in realtà da sempre materiale pregiato per gli sceneggiatori. Le loro carriere sono scandite da inizi difficili, successi travolgenti, scandali imbarazzanti, rovinose cadute e, in qualche caso, grandi ritorni. Il tutto, ovviamente, accompagnato dalla musica, che riesce a essere anima della rappresentazione e valore aggiunto della messa in scena. Così è stato per Bohemian Rhapsody, celebrazione dell’epopea dei Queen, dagli esordi fino all’apoteosi della loro esibizione a Live Aid. La pellicola del 2018 diretta da Bryan Singer è stata un vero apice per il genere, diventando il film biografico con il maggior incasso mai registrato. Da tempo si parla di un possibile sequel, preannunciato dal chitarrista della band Brian May, tuttavia i tempi di realizzazione sono ancora ignoti.

L’attesa è quasi finita per Deliver Me from Nowhere che porterà sullo schermo un altro gigante della musica, Bruce Springsteen. Il film è scritto e diretto da Scott Cooper e ha come interprete nel ruolo del Boss Jeremy

Allen White (protagonista della serie The Bear). Bisognerà invece aspettare fino al 2027 per il kolossal biografico sui Beatles a cui sta lavorando il regista Sam Mendes. Per la band più importante della storia del rock si è voluto esagerare: l’avventura dei Fab Four verrà raccontata in ben quattro film, non in sequenza, ma realizzati secondo il punto di vista di ognuno dei protagonisti. Più che una tetralogia, un quadro visto da quattro punti cardinali. Paul, John, George e Ringo avranno così tutti un loro biopic

Attenzione però a non strafare. È quello che è accaduto a Robbie Williams al centro di una delle più curiose, ma sfortunate operazioni bio-

grafico-cinematografiche. Il film a lui dedicato, e a cui l’ex Take That ha partecipato direttamente, è Better Man, costosissima ricostruzione di una vita musicale tra eccessi e continui ritorni e riconciliazioni. L’originalità del film sta nel fatto che nei panni di Williams non compare un attore, bensì una scimmia realizzata in computer graphic. Una trovata forse rivoluzionaria, ma che il pubblico non ha apprezzato. Gli incassi del film, uscito nel periodo natalizio, sono stati irrisori rispetto a un costo di produzione di 110 milioni di dollari. Uno scivolone per un genere che negli ultimi anni ha inanellato successi a ripetizione. Basti pensare a

Rocketman, basato sulla vita di Elton John o a Straight Outta Compton, la tempestosa storia del gruppo gangsta-rap losangelino N.W.A.: entrambe le pellicole hanno incassato più di 200 milioni di dollari. Ancora meglio ha fatto Elvis del 2022, scatenata rappresentazione della carriera del re del rock’n’roll diretta da Baz Luhrmann che ha sfiorato i 300 milioni al box office. Ha avuto un ottimo successo anche One Love, la storia di Bob Marley firmata dal regista Reinaldo Marcus Green. Il film è stato bocciato dai critici e da molti fan del padre del reggae, ma è stato tra i più visti del 2024. La fortuna del filone ha creato inevitabilmente una serie di produzioni

dedicate alla musica italiana. Recentissimo è il clamoroso seguito, forse a sorpresa, della serie tv Hanno ucciso l’Uomo Ragno che racconta il successo per caso del duo di Pavia 883; da riscoprire Io sono Mia, film del 2019 che rievoca la classe e il dramma umano di Mia Martini. In molti hanno storto il naso di fronte a Sei nell’anima, produzione Netflix un po’ troppo anestetizzata sulla storia di Gianna Nannini e Fabrizio De André – Principe libero, film (poi diventato una serie) in cui Luca Marinelli interpreta con una imperdonabile cadenza romana il cantautore genovese. Ma il successo dei biopic musicali dovrebbe essere l’occasione per recuperare qualche titolo del passato.

Vista la fortuna del filone, l’Italia non è rimasta a guardare e negli anni ha omaggiato anche le vite di Martini, De André e Nannini

Chi ha amato A Complete Unknown deve vedere Questa terra è la mia terra del ’76 del regista Hal Ashby, premiato con l’Oscar per la fotografia. È la storia di Woody Guthrie, qui interpretato da David Carradine. Ray del 2004 di Taylor Hackford è valso un Oscar come miglior attore a Jamie Foxx nei panni di Ray Charles. Dennis Quaid è l’irrefrenabile pioniere del rock Jerry Lee Lewis nel riuscitissimo Great Balls of Fire! del 1989. Solo per l’interpretazione di Diana Ross nei panni di Billie Holiday merita la visione Lady Sings the Blues, film datato 1972.

Grandi interpretazioni anche quelle di Angela Bassett nel ruolo di Tina Turner in What’s Love Got to Do With It? del ’93 e di Joaquin Phoenix negli abiti country di Johnny Cash in Walk the Line del 2005. Non sempre i migliori biopic raccontano star di prima grandezza. È il caso di La Bamba che nel 1987 riscoprì la meteora Richie Valens, oppure Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen, ispirato al dimenticato cantautore newyorkese Dave Van Ronk o Sex & Drugs & Rock & Roll del 2010 in cui uno strepitoso Andy Serkis è il tormentato punk rocker inglese Ian Dury. L’era del punk ha regalato due tra i migliori titoli del genere. Control del 2007 è il debutto cinematografico alla regia del fotografo Anton Corbijn, sulla breve vita di un artista che egli stesso contribuì a rendere celebre, Ian Curtis dei Joy Division. Sid & Nancy di Alex Cox del 1986 racconta l’autodistruzione dell’antieroe punk Sid Vicious, ma va visto soprattutto perché segna l’esordio da protagonista di uno dei più camaleontici attori del cinema di oggi, Gary Oldman.

Timothée Chalamet sulla locandina del poster dedicato alla vita di Bob Dylan.
Guido Mariani

L’imprevedibile come cifra dell’arte

Pubblicazioni ◆ Nel suo libro il pianista Ramin Bahrami racconta la grande passione per Johann Sebastian Bach

Se è un pianista a scrivere un libro dal titolo Come Bach mi ha salvato la vita, vien spontaneo pensare a concetti filosofici e ambiti spirituali, magari ipotizzando la musica come soluzione a tormenti interiori che facilmente vengono immaginati da chi fantastica sul privato degli artisti. Ed è stato proprio così per Ramin Bahrami, ma in parte. Perché il sommo Johann Sebastian è da sempre il riferimento ideale e spirituale del pianista iraniano, non a caso assurto a fama planetaria proprio come interprete e appassionato apostolo della sua musica; ma allo stesso tempo è stato il compagno di vita, della vita vissuta in modo a tratti avventuroso e anche pericoloso.

Con poche e semplici melodie, Bach crea un dialogo armonioso, ricordandoci che la pace non passa dal chiasso

Ed è unendo i due ambiti, l’arte praticata e la vita vissuta, che Bahrami arriva a giudicare la situazione contemporanea, che vede sempre più il suo Paese d’origine coinvolto nella guerra mediorientale. «E posso dire che la guerra di oggi mi suscita più rabbia di quella che vissi 45 anni fa, e non perché allora ero un bambino – fu la causa della morte di mio padre – ma perché quella odierna è figlia di interessi

economici, del pervicace tentativo da parte di poteri interni ed esterni, anche, se non soprattutto, economici, di mantenere lo status quo, evitando quei cambiamenti e impedendo quelle condizioni per cui tanti giovani iraniani diedero la vita».

Bahrami nacque a Teheran il 27

dicembre 1979: «Proprio il periodo in cui prendeva il potere il regime degli ayatollah con Khomeyni; mio padre Paviz era ingegnere dello scià e come tale venne considerato nemico e cospiratore, e quindi incarcerato. Nelle vie della città in quegli anni si sentivano grida ed esplosioni: era una guer-

ra diversa, ma una guerra». E mentre fuori impazzava la bruttezza del male, in casa il giradischi diffondeva la grande bellezza di Bach. «Me lo aveva fatto conoscere un’amica tornata da Parigi, quando avevo cinque anni e mezzo. In casa nostra la musica c’era sempre, ma quella fu una autentica folgorazione. Confesso che la prima cosa che mi colpì del disco regalatomi dall’amica fu la copertina: c’era Glenn Gould, il geniale pianista canadese che era un’icona dell’esecuzione bachiana, col basco in testa che guardava l’orizzonte dalla sponda di un lago vicino a Toronto. Mi parve che spingesse lo sguardo verso l’infinito, esattamente la stessa sensazione che provavo ascoltando la musica riprodotta da quel vinile. A sei anni, ascoltando invece le Partite, mi resi meglio conto che quell’infinito quasi “geografico” rappresentato dalla natura, era una dimensione spirituale, un anelito verso qualcosa di misterioso che poi ho scoperto essere il Dio cristiano». Una scoperta avvenuta a qualche migliaio di chilometri da quel lago riportato sulla copertina del disco: «Avevo vent’anni, ormai la carriera era avviata, ma ero entrato in crisi, schiacciato da una sorta di ansia da prestazione. Su invito del fratello di Claudio Abbado, Marcello, allora direttore del conservatorio di Milano, feci una tournée messicana: sempre più gente, anche cinquemila, ma ero sempre più nervoso, in panico, non volevo più suonare. Tornato in Italia, dovevo tenere un recital in una chiesa veneta e non volevo farlo, tanto che confessai agli organizzatori l’intenzione di rinunciare. Nella sagrestia, usata come camerino, trovai un santino con su un Cristo che diceva “Amami così come sei”, e sotto: “Potevo fare di te il diamante più prezioso, ma ti voglio così come sei, con le tue imperfezioni”. Fu la svolta, per la mia fede e la mia carriera». Bahrami, dopo l’affondo sulla sua illuminazione religiosa, torna a quei primissimi anni di vita a Teheran: «Quando mio padre venne incarcerato, mia madre decise di andarsene con me e mio fratello. Dovevamo andare in Germania – mio padre era mezzo iraniano e mezzo prussiano, mia madre invece è turco-russa – passando dall’Italia, ma lì ci fermammo; dap-

prima accolti come rifugiati, quindi col sostegno di una borsa di studio privata che mi permise di continuare con la musica, poi grazie a Piero Rattalino, docente di pianoforte al conservatorio di Milano. Fu una sorta di secondo padre, primo a intuire un talento e credere in me»

Da allora la musica ha accompagnato e sostenuto tutti i momenti della sua vita, o quasi. «Nel 1991 mi telefonò mio fratello; capii subito dal tono che cosa fosse successo e non volli che me lo dicesse esplicitamente: papà era morto. Per una settimana mi abbandonai alla musica, in particolare l’Improvviso in la bemolle di Schubert, perché aveva in sé un dolore e una malinconia abissali, ma proprio nel più profondo come rischiarate da un’indefettibile luce di speranza, quella di cui avevo bisogno in quel momento». Impossibile ironizzare trattando di una circostanza simile, ma è singolare che proprio in un momento così al suo fianco ci fu Schubert e non Bach. «Ma poi Bach è tornato, subito. D’altronde l’ultima cosa che ricevemmo da papà fu una lettera, una sorta di testamento spirituale, in cui ci invitava a frequentare tutti i grandi padri della cultura europea occidentale, ma sopra tutti Bach». In questi mesi sta portando in tournée le Invenzioni a due e tre voci: «Composizioni apparentemente – e tecnicamente lo sono, in effetti – semplicissime. Eppure, sono la manifestazione più sublime dell’essenzialità bachiana: con poche, semplici melodie crea un dialogo perfettamente armonioso tra due o tre voci, ricordandoci a tutti che l’armonia e la pace passano dal dialogo e non dal chiasso». Un miracolo di semplicità e profondità che nessuna macchina potrà mai raggiungere: tra i poteri forti d’oggi, Bahrami include l’Intelligenza Artificiale: «Se ne magnificano le potenzialità, ma ad esempio in Germania hanno provato a completare gli abbozzi della decima sinfonia di Beethoven con l’AI: il risultato è stato un buon compito di un diligente studente di conservatorio, ma mancava – e sempre mancherà – l’imprevedibile, il totalmente nuovo, che è la cifra nell’arte del genio e nella vita di tutti i giorni anche dell’uomo qualunque».

Ramin Bahrami ha dedicato più di un libro ai suoi compositori preferiti. Qui la copertina di quello su Bach.
Un ritratto di Johann Sebastian Bach (1685-1750). (Wikipedia)
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Inno ai fotoromanzi e alla narrativa popolare

«Soltanto la verità» ◆ È iniziato con la presentazione dell’ultimo libro di Domenico Dara, Liberata, il nuovo ciclo di incontri della Casa della Letteratura di Lugano, la cui direzione artistica è ora nelle mani di Mara Travella

Parte all’insegna della difesa dell’editoria popolare il programma della Casa della letteratura della Svizzera italiana che quest’anno ha per tema «Soltanto la verità». Nella cornice di Villa Saroli di Lugano, il ciclo di incontri è stato inaugurato con la presentazione dell’ultimo romanzo di Domenico Dara, Liberata (Feltrinelli, 2024), un’opera che esplora quanto verità e letteratura popolare possano intrecciarsi. Il primo appuntamento ha anche segnato il passaggio di consegne nella direzione creativa della Casa della Letteratura da Fabiano Alborghetti a Mara Travella, che ne ha ereditato il ruolo di guida culturale. Il romanzo di Domenico Dara ha dunque fornito l’occasione per esplorare il valore intrinseco della letteratura popolare, ricordando come essa contribuisca non solo ad allietare molti lettori, ma anche a stimolare la riflessione su temi sociali e culturali. Entrando nel vivo di quella che è a tutti gli effetti una storia di formazione, ci troviamo in una piccola realtà del sud d’Italia, in Calabria, nella prima metà degli anni Settanta, un periodo segnato da violenze politiche e sociali. Qui vive Liberata, una ragazza che si rifugia nella lettura di fotoromanzi, fin quando la vita non irrompe nella sua realtà, portando nuove esperienze, sfide e trasformazioni.

«Questa storia – ha spiegato l’autore – nasce dalla mia infanzia: a casa, al posto dei libri, c’erano tantissimi fotoromanzi, che sono i veri protagonisti della narrazione. Mia madre non se ne perdeva uno e, come Liberata, aveva una passione per Franco Gasparri. Il fotoromanzo era per me un oggetto molto consueto, familiare, che leggevo, tanto da diventare una delle letture che mi hanno avvicinato alla storia della letteratura».

Un mondo all’interno del quale probabilmente era bello straniarsi: «Quando parliamo degli anni Settanta in Italia parliamo di terrorismo, di attentati, di manifestazioni, di scontri, di un’Italia che si trovava nel mezzo di un cambiamento profondo. Eppure, proprio in quegli anni i fotoromanzi vendevano più di cinque milioni di copie (e avevano dunque presumibilmente almeno venticinque milioni di lettori); un dato statistico che contrastava con la mia idea dell’Italia impegnata: non tutti scendevano in piazza, alcuni guardavano quello che accadeva dalla finestra. E spesso questa era una parte dell’Italia che coincideva con la provincia italiana, con chi sta in periferia, con chi viene messo da parte. I fotoromanzi, per questa parte di Italia, sono diventati un simbolo di disimpegno, di volontà di uscire da quella realtà, di evasione, grazie ai quali crearsi una dimensione, anche per poco tempo, una dimensione di sogno, parallela, in cui dimenticarsi quello che ci sta intorno». Nonostante il suo valore evocativo, il fotoromanzo è stato però sistematicamente bistrattato da tutti; andava comprato e letto di nascosto, come fosse un oggetto del peccato: «A me – ribadisce l’autore – non è mai piaciuto il modo in cui è stata e ancora in parte viene squalificata la letteratura popolare, e in particolare il fotoromanzo che aveva fatto compagnia a tante persone, là dove non c’erano altri modi per divertirsi, rappresentando a volte l’unica maniera per evadere da quella quotidianità; per questo ho voluto scrivere una storia che li rivalutasse».

Un riconoscimento che è stato assunto anche da altri intellettuali, negli ultimi anni, i quali hanno saputo attribuire al fotoromanzo meriti specifici, come quello linguistico: «Quando il fotoromanzo comincia a diffondersi, l’Italia si sta creando una lingua. In molte province si parla solo in dialetto: il fotoromanzo ha fornito un nuovo linguaggio, semplice, ma uniforme». Nondimeno questa letteratura popolare ha contribuito all’emancipazione della donna: «È così: può sembrare paradossale perché spesso molti movimenti femministi si sono scagliati contro il fotoromanzo che a loro dire dava della donna un’idea molto superficiale, eppure sono stati proprio i fotoromanzi a favorire in maniera importante l’emancipazione femminile. Proprio in quegli anni la donna comincia finalmente a vedere riconosciuto il proprio ruolo in una società (le leggi sull’aborto e quelle sul divorzio sono fondamentali). In questo percorso, il fotoromanzo, ripeto paradossalmente, ha una funzione direi rivoluzionaria, perché mette al centro della propria narrazione la donna, una figura femminile autonoma, indipendente. Vorrà pur dire qualcosa, infatti, se all’epoca il fotoromanzo era odiato e contrastato dal Partito Comunista Italiano, dalla democrazia cristiana e da tutto il mondo cattolico; il vescovo di Genova arrivò persino a minacciare la scomunica delle fedeli che leggevano i fotoromanzi. Cosa faceva paura in quelle storie lacrimevoli e romantiche, in quelle storie apertamente innocue? Per il mondo di allora, la figura femminile aveva importanza solo in funzione della figura maschile. La donna di quegli anni doveva essere o madre o moglie».

I fotoromanzi, nel libro di Domenico Dara, hanno però un ruolo che va oltre l’immaginazione, e che accompagna Liberata in una sorta di risveglio personale, perché anche in queste storie, come nei romanzi Harmony, considerati di serie B, si trovano verità, verità sulle emozioni, sull’essere umano, sui particolari che stanno ai margini… al di là del mero bisogno di rifugiarsi in un mondo immaginario: «Sì, queste letture le danno degli strumenti per vivere e per osservare, elemento fondamentale nel romanzo. Liberata è una ragazza particolare, nel senso che, come si dice sin dalle prime righe, crede a tutto ciò che non si vede, che è invisibile. E quindi è una donna un po’ distaccata dalla realtà, che vive in queste storie d’amore, grazie a Franco Gasparri che con la sua presenza riempie i vuoti del suo cuore, anche perché

non c’è nessuno in paese che possa essere bello tanto quanto lui».

Tuttavia, a un certo punto arriva per tutti il momento di fare i conti con il principio di realtà: «Non possiamo vivere sempre e solo di sogni o di fantasticazioni». Giubbotto di pelle, moto, ciuffo che gli cade sulla fronte come a Franco Gasparri, a trascinare nella realtà Liberata sarà un estraneo di nome Luvio, ed è qui che si fa interessante: «È il centro della storia. Vedere quan-

to la fantasia protegga le persone nella realtà, quant’è la distanza tra il mondo che ci portiamo dentro e il mondo reale, a quali compromessi dobbiamo arrivare perché queste due dimensioni trovino un punto di equilibrio. È la grande domanda del romanzo».

La stessa attorno alla quale ruotava anche la storia di Emma Bovary che, non di meno, racchiude un nucleo di desiderio e fuga: «Con Liberata, infatti, si pone lo stesso dilemma, cioè

questa contrapposizione tra la vita reale e la vita immaginaria, tra quello che siamo e quello che dovremmo essere. Madame Bovary è una donna semplice, di campagna, che, per colpa o grazie ai romanzi romantici, fallisce il suo sogno di poter vivere quel mondo straordinario. E quindi, sì, Liberata Macrì è una Madame Bovary degli anni Settanta nella provincia medievale italiana che invece di costruire la propria fantasia sui romanzi di Walter Scott lo fa sui fotoromanzi». Non per caso Liberata leggerà anche il capolavoro di Flaubert, che viene citato e riecheggia a più riprese nel romanzo di Dara. Romanzo che stimola però anche altre grandi curiosità e parallelismi («…gli insetti sono quasi coprotagonisti della storia insieme ai fotoromanzi»), e che parla di questioni misteriose, come quelle che nascono attorno a delle madonne decapitate, di politica e paura se consideriamo la comparsa della stella delle Brigate Rosse disegnate sul muro di una farmacia, e di tanta altra materia narrativa che promette una lettura ad alta tensione.

Bibliografia e info

Domenico Dara, Liberata Feltrinelli, 2024 Link nuovo programma: www.casadellaletteratura. ch/programma.html

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Da sinistra: Mara Travella, Maria Ferro (moderatrice), l’autore Domenico Dara, e Fabiano Alborghetti.

ATTUALITÀ

100 anni Migros

Nostalgia su ruote

I negozi Migros su ruote sono ormai storia dal 2007, ma per molta gente restano indimenticabili. Alcuni clienti Migros li ricordano

Testo: Michael West, Pierre Wuthrich

«Sognavo un cervelat tutto per me».

Verena Keller, 78 anni, Oerlikon: «Sono cresciuta a Zurigo Schwamendingen con tre fratelli. Negli anni ’50 questo quartiere periferico era ancora molto rurale e non ancora ben servito. Eravamo quindi molto contenti che una volta alla settimana passasse il camion di vendita Migros e si fermasse all’incrocio.

I miei genitori non avevano molti soldi e per questo apprezzavano i prodotti economici e di buona qualità che trovavano nel negozio Migros itinerante. A ogni sosta l’autista apriva un lato del camion ed estraeva i cassetti metallici in cui erano riposti i prodotti in numerosi scomparti. Ne rimanevo incantata ogni volta. Quando mia madre portava a casa i cervelat, spesso ognuno di noi figli ne riceveva solo metà, perché dovevamo risparmiare. Un giorno osai dire: «Quando sarò grande, vorrei un cervelat tutto per me!» Allora i sogni dei bambini erano davvero modesti!

«Per noi il camion della Migros voleva dire cioccolato»

Sara Waldmeier, 44 anni, Fehraltorf (ZH):

«Sono cresciuta a Männedorf (ZH) in un bellissimo quartiere con tanti bambini. Quando il camion della Migros svoltava nella nostra via, esultavamo e gli correvamo incontro gridando: «Il camion della Migros! Il camion del cioccolato! Il camion della Migros! Il camion del cioccolato!» Allora mi piacevano moltissimo le Branches di Chocolat Frey, che amo tutt’ora».

Sara Waldmeier

«Sul camion facevo la spesa per i soldati»

Rita Mollet, 50 anni, Eglisau (ZH):

«Quando avevo sei anni, durante un’esercitazione i militari furono alloggiati nel nostro condominio. Sul camion della Migros feci acquisti per loro e li aiutai a fare la guardia con un bastone in mano anziché un fucile. Per ringraziarmi, alla fine mi regalarono un coniglietto di cioccolato gigante».

In particolare nelle zone rurali, il camion Migros era una vera attrazione. Qui, nel 1946.
Verena Keller

ATTUALITÀ

100 anni Migros

«Rimasi incastrata nella porta del camion»

Brigitte Tschamper, 57 anni, Hombrechtikon (ZH):

«Una volta da piccola decisi all’ultimo secondo di comprare un gelato sul camion della Migros. La porta posteriore era già chiusa per partire. Quando salii di corsa dalla porta anteriore, rimasi incastrata per un attimo tra gli sportelli mentre il camion si stava già muovendo. Non andai lontano però, perché le casalinghe che avevano appena fatto la spesa gli corsero dietro. Me la cavai con un grosso spavento e una leggera contusione. E il gelato mi venne offerto».

«Ai miei occhi il camion di vendita era come un grande giocattolo».

Anne Piguet, 66 anni, Losanna

«Sono cresciuta a Montavon, un paesino del Giura. Da bambina giocavo spesso con un piccolo negozio di legno. Un giorno mia madre mi portò con sé sul camion della Migros, che faceva sosta davanti alla nostra cappella. A me il camion di vendita verde sembrava una versione molto più grande del mio negozio giocattolo. Amavo fare la spesa lì per la mia famiglia. Ricordo ancora lo stretto corridoio lungo tutto il camion. Bisognava rimanere molti concentrati, perché se dietro di te c’erano altri clienti non potevi tornare indietro. La proprietaria del negozio del paese non vedeva il camion della Migros di buon occhio ed era scortese con la clientela del camion. Con il tempo però tutti si erano abituati ad andare a fare la spesa sul camion della Migros, perché la merce costava meno.»

Come si è evoluto il camion di vendita

1925

Nell’anno di fondazione la Migros inizia con cinque veicoli Ford TT. I camion convertiti in negozio erano molto piccoli rispetto ai modelli di oggi. Inizialmente si potevano acquistare solo sei prodotti: pasta, riso, grasso di cocco, zucchero, caffè e sapone.

1940

«Stavamo in giro tutto il giorno»

Durante la Seconda Guerra Mondiale il carburante scarseggiava. La Migros dotò quindi una parte della sua flotta di carburatori a legna. Spesso al volante c’erano donne, perché molti uomini servivano nell’esercito.

1960

Negli anni ’60 i camion di vendita si trasformarono in supermercati self-service su ruote. Dagli anni ’80 tuttavia la clientela si ridusse a seguito della progressiva crescita della rete di filiali Migros. Gli ultimi due camion rimasti hanno percorso le strade vallesane fino al 2007.

Il ritorno del camion di vendita Migros

Per il 100esimo anniversario della Migros il negozio Migros itinerante torna sulle strade svizzere. Con il «tour di ringraziamento», il veicolo farà tappa in 100 località, da Avenches a Zumikon, fino a Mendrisio, e proporrà in vendita 100 prodotti. A ogni tappa verrà regalato un prodotto particolarmente amato nel posto visitato dal camion. Inoltre verranno offerti caffè e sciroppo nonché mele e torte. Attenzione però, perché il camion di vendita si fermerà solo poche ore in ogni luogo. Informazioni e date:

Anita Bruppacher, 62 anni, Bienne «Dopo un apprendistato di commessa di generi alimentari, ho lavorato dal 1982 al 1987 su un camion di vendita Migros in giro per il Canton Berna. Il mio compito era quello di riempire la merce al mattino e di stare alla cassa durante le soste. Prima di partire dovevamo prevedere almeno un’ora per rifornire gli scaffali. Poi mangiavamo la colazione che ci preparava il nostro capo. E poi stavamo tutta la giornata in giro per la strada. Il percorso era diverso ogni volta. E la clientela era sempre gentile. Ricordo anche una signora che ci portava il caffè ogni volta. Ho ricordi molto belli di quel periodo. Quando ho scoperto che il camion di vendita si era rimesso in strada (vedere riquadro), ho subito chiesto al mio capo se c’era bisogno di una mano in alcune date. Sarò a Ipsach (BE) il 27 giugno. Spero di poter aggiungere altre date. Non vedo l’ora di tornare al mio vecchio posto di lavoro.»

Merci Bus
Rita Mollet
Brigitte Tschamper
Anita Bruppacher (al centro)
Uno dei leggendari camion Migros sarà nuovamente in tour in 100 località
Anne Piguet

La sottrazione del dolore

Pubblicazione ◆ Il distacco come misura della verità in un racconto che indaga – con esattezza di stile – i rapporti famigliari, al centro de L’anniversario, ultimo romanzo di Andrea Bajani

Angelo Ferracuti

È senza dubbio lo stile della scrittura, ciò che colpisce più di ogni altra cosa dell’ultimo libro di Andrea Bajani L’anniversario (Feltrinelli, 2025), in corsa per lo Strega. Una storia che poteva riempirsi sin da subito e fino all’inverosimile di pathos, una vicenda drammatica e, purtroppo, molto comune e nostra contemporanea – quella di un figlio, nella fattispecie l’autore io narrante, che decide unilateralmente a 41 anni di non vedere più i suoi genitori naturali e sfuggire così al potere paranoico del padre e della famiglia – è raccontata spegnendo ogni furore espressivo, spogliata da ogni enfasi drammatica, come coglie alla perfezione Emmanuel Carrère nella fascetta, scrivendo «un libro scandalosamente calmo».

In un’epoca dove media e romanzi fanno uso spettacolare dei sentimenti, lo scarto linguistico, e aggiungerei etico, è proprio questo, scrivere per sottrazione, paradossalmente raffreddare la materia incandescente della storia. Un altro elemento che caratterizza questo lungo e intenso racconto, che è anche un apice della maturità di uno scrittore in grande stato di grazia, infatti è l’esattezza del fraseggio, una misura che calibra alla perfezione azioni e rarefatti dialoghi con una lingua semplice, francescana, ridotta ai minimi termini e in virtù di questa sua nudità ancora più espressiva.

Una storia di memoria da dissezionare, di rinuncia e di frattura raccontata con precisione chirurgica volta a privarla di pathos

Bajani è scientifico, usa la materia dei rapporti umani come un entomologo, quella «attitudine chirurgica specifica» che gli serve per scorporare la madre dal padre che la ingloba e di cui è diventata una «emanazione», compie una indagine dall’interno della sua condizione umana e diventa il detective, il reporter che indaga su quella che immagina come «una famiglia sventurata», la sua, colta nella normalità del male, stretta tra «amore e paura» che «insieme producevano solo distruzione».

Bajani ricorda con ragionevolezza, senza rabbia, la memoria e i suoi vuoti, una memoria che inventa nel tempo e che sottrae sequenze diventando romanzesca, oppure – come ha detto qualcuno – è davvero più potente quando cancella interi pezzi di vita. Bajani esamina i reperti con il distacco di chi non sembra più toccato da quello che la memoria riporta alla luce, come se tutto l’agone di quella sofferenza fosse ormai altrove, non lo riguardi più o lo riguardi come lo spettatore che ne registra l’ineffabile, al pari di quanto

accade in un libro come questo, piccolo ma di una intensità travolgente, Infelicità senza desideri di Peter Handke, dove la vita si fa miracolosamente letteratura in tutta la sua necessità.

Centrale anche qui il racconto della madre, la reclusa che «stava dentro un potere assoluto in cui il marito era la voce, e il braccio, della legge» in quella che viene chiamata «la giurisdizione», la madre vittima «dell’assolutismo del tiranno», privata di socialità, persino delle poche ritenute da lui «pericolose» amiche, privata per molto tempo del telefono, umiliata a una condizione di serva: «Mio padre teneva i conti», scrive l’autore in un passo, «guidava l’auto, stabiliva le linee dell’educazione di noi figli, si occupava della nostra istruzione, e a lei restava la gestione spicciola del cambio letti, cucina e pulizie». Il ritratto che Bajani fa di questa donna che rinuncia alla vita, «malata di timidezza» e con una «vaga zoppia», è struggente, e il racconto è sempre mirato sul corpo di lei, sulle azioni che compie, sugli atti mancati, su di lei si spinge l’indagine psicologica, mentre il padre, il perturbante, risulta fisicamente più sfumato ma è il detonatore che fa esplodere la paura, «il tragico protagonista» di questo romanzo famigliare, quello che ricattatorio e folle attraverso la violenza «pretendeva amore». Lei, una donna che diventa sempre più distratta e indifferente. «Per lei la morte non contava nulla, esattamente come non contava niente la vita» scri-

Idillio e

sangue

PlaySuisse ◆ Ricordi e riflessioni sulla violenza nella Svizzera italiana di ieri e di oggi, nel documentario Nitroglicerina di Christoph Kühn

Daniele Bernardi

Immagine della copertina del libro

L’anniversario di Andrea Bajani.

ve Bajani, «La sua, quella dei suoi figli, quella di suo marito, quella di tutti». Poi, dopo i tempi del telefono seguiti dai tremori, il distacco per dieci lunghi anni con la scena dell’ultimo incontro che apre in maniera fulminante il libro: «Quel giorno ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita». Ma ci si può sottrarre veramente ai propri genitori con un abbandono «semplicemente togliendo il proprio corpo di mezzo con un gesto netto e definitivo? E condannando a vivere il resto dei propri giorni, per così dire, con un arto fantasma?», si chiede l’autore e questo libro.

Alla fine, Bajani scrive dalla sua nuova vita, l’ultima è una pagina di congedo, forse l’impossibilità di chiudere un romanzo che come una ferita resta aperto, perché la vita al contrario dei libri continua con le sue infinite trame, con il suo caos. Adesso è diventato padre e quando, guidando in auto verso la scuola del figlio, incrocia il suo sguardo, scrive: «Ogni tanto sul suo viso vedo il viso di mia madre, è quello il posto dove la incontro da due anni a questa parte. Di solito è un istante poi sparisce. E non fa bene, e non fa male».

Bibliografia

Andrea Bajani, L’anniversario, Feltrinelli, 2025.

La Svizzera italiana, ai miei occhi, non è mai stata il paradiso. Certo è paradossale a dirsi. Anzi, a chi è cresciuto nelle periferie di Milano o di Roma l’affermazione sembrerà comprensibilmente ridicola: «Paese di ricchi in cui trovare una cartaccia per terra è un’impresa», si pensa. Ma nell’aria della Svizzera italiana, chissà come mai, nella mia memoria c’è sempre stata una strana violenza di fondo.

Ricordo chiaramente i rientri a ora tarda, a metà anni Novanta, con l’ultima corsa che portava in valle e il conducente inquieto per l’incalzare della ferocia che lo raggiungeva dal fondo dell’autopostale: non era tranquillizzante sapere un adulto spaventato di fronte a dei giovani. Così come ricordo, quando ero ancora più piccolo, l’ambiente avvelenato degli spogliatoi di hockey, dove i ragazzi si aizzavano a vicenda ben oltre il limite. Può sembrare esagerato, ma lo ricordo.

Così come ricordo, ancora negli anni Novanta, una nota strage a mano armata, accoltellamenti in centro città e, successivamente, nel primo decennio del 2000, la tragedia di Damiano Tamagni, durante il Carnevale di Locarno, quando il ragazzo fu pestato a morte da dei coetanei. Il tutto lo ricordo, bene o male, condito dall’avvento dell’ecstasy, dei canapai e del consumo incontrollato di stupefacenti (ai quali andrebbero aggiunti i ricoveri coatti e i suicidi). Lo ripeto: la Svizzera italiana non mi è mai sembrata il paradiso. Ma, in fondo, quale posto lo è?

L’aggressività umana è un fatto connaturato col quale occorre fare i conti. Negarla non serve. Parlarne, darle forma in modi altri, capaci di confinarne la spinta, è il solo modo –seppure limitato – di cercare di tenerle testa. La visione di Nitroglicerina, documentario con parti drammatizzate di Christoph Kühn che, prendendo le

mosse dal romanzo Breve trattato sui picchiatori nella Svizzera italiana degli anni Ottanta (Laurana Editore, 2021) di Manuela Mazzi (la quale ha pure collaborato alla scrittura del film), racconta del fenomeno della violenza di gruppo, è certo utile per chinarsi sulla questione della nostra purtroppo sostanziale porzione di autodistruttività. Un modo di stare sul pezzo, come si suol dire; di investire di significato le cose brute.

A fare da filo rosso troviamo la storia dell’ex-pugile e allenatore Roger Brunschweiler, intrecciata a quella di Rolando, per ragioni di privacy qui ottimamente interpretato da Nicola Stravalaci, e di Cristina – il cui ruolo, come per il caso di Rolando, è affidato a un’attrice: Maria Ariis – e di alcuni di quelli che, nell’epoca della simbolica pubblicazione, in Italia, di Ranxerox (fumetto underground, oggi considerato un classico, che vede come protagonista il celebre robot «coatto» realizzato coi pezzi di una fotocopiatrice) si menavano in banda nell’apparentemente pacifica Locarno.

A queste voci si aggiungono quella di Jean Claude Rothenbühler, dal quale veniamo a conoscenza sia delle pratiche sadiche di queste torme sia dei nomi di chi, allora, si investiva del ruolo di giustiziere difendendo i più deboli; quella dell’ex magistrato dei minorenni Reto Medici, che ci riporta all’attualità, dove il medesimo tema è intriso dalla tossicità della digitalizzazione di massa; quella dello psicoanalista Luigi Zoja, le cui riflessioni mettono in evidenza la perenne necessità, nell’individuo, di una messa in forma di conflitti ritualizzati (come nel caso della boxe); quella di Tanino Liberatore, autore del sopraccitato Ranxerox e, infine, quella di Purple Dom, giovane rapper luganese che, oggi, racconta il malessere e la rabbia della sua generazione. Se, come asseriva la psicoanalista Françoise Dolto, la violenza inizia quando finiscono le parole, ecco che con Nitroglicerina Christoph Kühn cerca di mettere parole proprio laddove queste sono considerate secondarie, «roba da pappamolla», ribadendo la necessità per ogni civiltà che si consideri degna di questo nome dell’assunzione della responsabilità dei fatti attraverso la realizzazione di un discorso e di una presa di posizione. Come si sarà capito, la visione è consigliata.

Filmografia

Christoph Kühn, Nitroglicerina, Ventura Film e RSI, disponibile su Play Suisse fino al 23 luglio 25 Informazioni https://venturafilm.ch/ movies/nitroglicerina

alleAccanto
Leukerbaddi
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Immagine della locandina, con Roger Brunschweiler. (Ventura Film/Rsi)

Mille e uno spazio indipendenti

Cultura ◆ L’Associazione Idra invita a una riflessione intorno alla necessità di spazi per una scena culturale indipendente

Chi l’ha detto che la divulgazione culturale debba avvenire solo all’interno di spazi (per quanto ammirevoli) perennemente istituzionalizzati? In altre parole, perché abbiamo una concezione di cultura tale per cui ogni organizzazione che si muova in questo ambito debba proporre un’offerta verticale, ossia che proviene dall’alto, e in cui la dinamica finisce per diventare unilaterale?

È una delle domande che fanno da fil rouge agli appuntamenti 10, 100, 1000 SPAZI #2, organizzati dall’Associazione Idra, il cui scopo primario è quello di innescare un dibattito propositivo intorno al tema della cultura indipendente. Forse, anche in considerazione del discutibile epilogo dell’esperienza occupazionale in quel di Lugano, che ha portato a fare sì che vi sia ancora chi, davanti al binomio cultura-indipendenza, nella migliore delle ipotesi storca il naso.

In Ticino, pur essendoci una scena culturale indipendente, resta ancora molto da fare per la realizzazione di spazi adeguati

Eppure, e questo è un altro dei punti forti dell’iniziativa, è fondamentale mostrare come il Ticino sia, in questo, un’anomalia sistemica, laddove nel resto della Svizzera le esperienze di cogestione culturale abbondano. E non è (più) necessario scomodare le grandi realtà che hanno fatto la storia (spesso una storia di città messe a ferro e fuoco) e da apripista per le generazioni successive, come la Rote Fabrik di Zurigo o l’Usine di Ginevra. Oggi, infatti, gli esempi più virtuosi – e ce ne sono tanti – li troviamo proprio in quelle cittadine che, per dimensioni e struttura, ricordano molto Lugano, Bellinzona o Locarno. Sono molteplici le realtà Oltre Gottardo che hanno stipulato una sorta di patto tra cittadine/ cittadini e istituzioni, grazie al quale i primi si vedono assegnati uno spazio e riconosciuta l’autodeterminazione delle scelte culturali, mentre le seconde hanno fatto un giusto passo nella direzione di una maggiore coesione sociale, oggi più importante che mai. Ed è così – come si è sottolineato nella cornice dell’incontro Parliamo di spazi che non ci sono ancora, andato in scena il primo marzo a Villa Saro-

li – che a Bienne, a disposizione della popolazione, è stato messo addirittura uno stadio. Al Terrain Gurzelen, infatti, non ci si ritrova più per tifare o controtifare una squadra, ma per organizzare concerti, mercatini delle pulci, orti comunitari, perfino un campo di mais, per creare, insomma, quei momenti aggregativi che in una società iperdigitalizzata come la nostra, ma in cui ci sente sempre più soli, sono ormai indispensabili. A Friborgo, invece, si lavora a una nuova destinazione per il Quartiere Poya, i cui massicci e imponenti edifici un tempo fungevano da caserma militare e oggi… oggi sono diventati un foglio bianco, un’idea, la superficie di proiezione di una collettività che è stata chiamata a progettare e organizzare qualcosa di nuovo, di non istituzionalizzato e di non elitario, e proprio per questo, per tutti. (Un poco come succede nelle più moderne cooperative abitative, dove gli inquilini dicono la propria già in fase progettuale).

E da noi? Sorge a questo punto spontanea la domanda: alle nostre latitudini, come siamo messi con la cultura indipendente? Bene, ma non benissimo, verrebbe da rispondere. Bene, perché anche in Ticino vi è una massa critica che chiede spazi di questo tipo, riuscendo nel tempo anche a dimostrarne l’efficacia. Non benissimo, perché i municipi, spesso adducendo come motivazione anche quella economica, sembrano avere deciso di fare orecchie da mercante, e si impegnano troppo poco per l’individuazione di spazi consoni e utili alla cultura indipendente. Che il lavoro sia ancora molto ce lo conferma Noah Sartori dell’Associazione Idra (di cui fanno parte operatori e operatrici culturali provenienti da varie discipline), fra i redattori della Carta della Gerra, documento programmatico in cinque punti stilato nel 2024. In esso si chiedono nuovi spazi per la cultura indipendente, un ripensamento delle modalità di assegnazione degli spazi, finanziamenti per i progetti indipendenti, un quadro legislativo aggiornato, e da ultimo – anche se sta alla base di tutti i punti che lo precedono – un riconoscimento della cultura indipendente.

La consapevolezza dell’importanza di una scena indipendente anche nel nostro Cantone, spiega Sartori, è stata rafforzata dall’esperienza della Straordinaria – Tour Vagabonde (fine dicembre 2022-marzo 2023), che ha attirato oltre 30’000 spettatori in

67 giorni, impiegato venti dipendenti, presentato 135 progetti socio-culturali, coinvolto 270 artiste/i, il tutto partendo da un contributo economico minimo con cui si è riusciti ad autofinanziare buona parte del progetto. Che la voglia di autonomia aggregativa sia grande, non lo prova solamente la Carta della Gerra, che al 30

gennaio 2024 poteva contare su oltre 700 sottoscrizioni da parte di persone private, associazioni, gruppi e collettivi, ma anche l’accoglienza riservata agli appuntamenti di 10, 100, 1000 SPAZI #2. Fino al 22 marzo alla Limonaia di Villa Saroli, si potranno visionare 14 progetti nati dalle tesi di Bachelor 2024 del Corso di Laurea in

Architettura d’Interni della SUPSI in collaborazione con l’Istituto Internazionale di architettura (i2a.ch) e con la curatela di Victoria Pham. Alle studenti e agli studenti è stato chiesto di immaginare uno spazio per la cultura indipendente a Lugano, con un’attenzione specifica allo stabile delle ARL (Autolinee Regionali Luganesi) di Viganello, costruito nel 1910 dall’architetto Giuseppe Ferla e recentemente tutelato come bene culturale. L’8 marzo si discuterà invece delle risorse legate alla cultura indipendente con il sociologo ginevrino Sandro Cattacin. Un dialogo che non può e non deve spegnersi e, si auspica, possa includere e coinvolgere anche chi non vede la necessità di una forma aggregativa che, per sua natura è sinonimo di una società matura, seria, e capace di autodeterminarsi attraverso processi democratici.

Dove e quando Mostra: Spazio libero – Uno spazio per la cultura indipendente, Lugano, Limonaia di Villa Saroli (Via S. Franscini). Fino al 22 marzo 2025. Orari: me-gio-ve 12.00-18.00; sa 14.00-18.00. Conferenza: Cultura indipendente: quale risorsa per le città? con Sandro Cattacin e Ilenia Caleo, sabato 8 marzo ore 16.00, Lugano, Villa Saroli www.associazioneidra.ch

GUSTO

Vaniglia

La regina delle spezie

Coltivarla richiede tempo, raccoglierla è impegnativo e il suo aroma è molto richiesto: la vaniglia è una della spezie più amate e costose al mondo. La storia di un successo

Testo: Edita Dizdar

Cos’è la vaniglia?

La vaniglia è una spezia. Dal punto di vista botanico, il genere «Vaniglia» appartiene alla famiglia delle orchidee, alcune delle quali producono capsule aromatiche, popolarmente note con il termine di baccelli. Questa pianta rampicante sempreverde ama l’ombra e il caldo e si arrampica sui tronchi di altre piante o su bacchette. La varietà più conosciuta è la vaniglia Bourbon, che cresce tra l’altro sulle isole del Madagascar e de La Réunion (un tempo nota come Île Bourbon) nell’Oceano Indiano.

Perché ci piace tanto il profumo della vaniglia?

Dai dessert alle bevande, dai gel doccia alle candele, la regina delle spezie è sempre presente e spesso associata al lusso e al piacere.

Per molti di noi il profumo caldo e dolce della vaniglia evoca ricordi dell’infanzia e ci avvolge in un delicato velo che sa di protezione.

Da dove proviene?

La vaniglia è originaria del Messico e dell’America Centrale. Gli aztechi, popolo indigeno del Messico (dal XIV al XVI secolo), amavano molto la vaniglia, soprattutto nel cacao. Gli spagnoli la portarono in Europa e fino all’indipendenza del Messico nel 1810 ebbero il monopolio del commercio della vaniglia. Le talee arrivarono nei giardini botanici, ad esempio ad Anversa o a Parigi, solo più tardi. I Paesi Bassi e la Francia, allora potenze coloniali, iniziarono a coltivare la vaniglia nelle loro colonie tropicali, tra cui il Madagascar.

I fiori della pianta di vaniglia si aprono solo per un giorno e, se non vengono impollinati, non producono baccelli.

GUSTO

Dove viene coltivata oggi la vaniglia?

Oggi, fino all’80% della vaniglia commercializzata in tutto il mondo proviene dal Madagascar. Altre coltivazioni si trovano in Indonesia, Messico, Comore, La Réunion, Mauritius, Seychelles, Tahiti, Zanzibar e Uganda.

Come avviene l’impollinazione?

Al di fuori del Messico e dell’America Centrale, dove la vaniglia viene impollinata naturalmente dalle api Melipona e dai colibrì, l’impollinazione deve essere effettuata a mano.

In media i coltivatori di vaniglia effettuano da 6’000 a 10’000 impollinazioni manuali durante il periodo di fioritura tra ottobre e novembre.

Perché i coltivatori dormono sul posto nelle piantagioni?

Poiché la vaniglia è una pianta che richiede molta cura ed è preziosa, durante la raccolta molti coltivatori rimangono nei campi per occuparsi delle coltivazioni e proteggerle dai furti.

Come si coltiva la vaniglia?

Dalla messa a dimora al primo raccolto trascorrono circa tre o quattro anni. Essendo sensibile alle malattie fungine, la pianta di vaniglia richiede cure pressoché quotidiane. Dato che il fiore sboccia un solo giorno all’anno, deve essere per forza impollinato durante questo periodo, altrimenti va perso. Dopo l’impollinazione manuale bisogna attendere altri nove mesi prima che i baccelli giungano a maturazione e possano essere raccolti.

Cosa avviene dopo il raccolto?

Dopo aver raccolto a mano i baccelli, che possono raggiungere una lunghezza di 30 centimetri, vengono trattati con acqua calda o vapore acqueo. In seguito vengono lasciati fermentare in contenitori ermetici affinché il tipico aroma di vaniglia possa svilupparsi. Questa fase richiede fino a quattro settimane. Successivamente i baccelli vengono messi a essiccare secondo precise indicazioni, alternando sole e ombra, finché si avvizziscono assumendo il caratteristico aspetto marrone. Tutto il processo richiede molta manodopera e può durare fino a cinque mesi. Solo a questo punto la vaniglia è pronta per essere esportata.

Cos’è la vanillina?

La vanillina è l’aroma nonché componente principale del baccello di vaniglia. Può essere ottenuta naturalmente o artificialmente. Per la vanillina naturale, i baccelli di vaniglia vengono immersi in un liquido per estrarne l’aroma. Il prodotto finale è detto estratto di vaniglia. «La vanillina naturale si ottiene però anche da altre fonti, come la polpa di barbabietola da zucchero», spiega Micha Moser, manager Gruppi di articoli per le sostanze aromatiche presso Migros Industrie. La vanillina artificiale viene invece prodotta in laboratorio riproducendo l’aroma naturale. Oltre il 90% della vanillina usata mondialmente è prodotta artificialmente. Si tratta di un’alternativa economica all’estratto di vaniglia.

Quanto sono sostenibili i baccelli di vaniglia in vendita alla Migros?

I baccelli di vaniglia venduti nelle filiali Migros provengono dal Madagascar. Sebbene l’informazione non sia visibile sulla confezione, recano la certificazione «Fair for Life». «Grazie alla certificazione controlliamo come viene coltivata la vaniglia, se la foresta pluviale viene tutelata e se i rapporti commerciali tra coltivatori e acquirenti sono equi», spiega André Radlinsky, specialista per la sostenibilità alla Migros.

Come stanno i coltivatori del Madagascar?

«I coltivatori e le loro famiglie vivono in condizioni molto precarie», afferma Eva Meier, che ha visitato i produttori del Madagascar per la Migros nel 2024. «I coltivatori di vaniglia apprezzano molto il rapporto commerciale equo e solidale basato sul partenariato e il fatto di essere sostenuti nella creazione di ulteriori opportunità di reddito».

Perché la vaniglia è così costosa?

«Il prezzo è alto perché le piante richiedono molta cura e manodopera e la raccolta è impegnativa», spiega Elena Potenza, acquirente di vaniglia della Migros. Dopo lo zafferano, la vaniglia è la spezia più costosa al mondo.

I baccelli, che possono raggiungere
30 centimetri di lunghezza, vengono raccolti a mano.
PREZZO BASSO
Per un gusto dolce
Baccelli di vaniglia
x 2 g, Madagascar Fr. 5.95

Battibecchi

Assolutamente esageratamente snob

Suona il telefono. Rispondo. «Buongiorno, signor Mozzi», dice una voce beneducata.

«Buongiorno», dico. «Con chi ho il piacere di parlare?».

«Non sarà un piacere», dice la voce beneducata.

«Questo lo vedremo», dico. «Ma comunque: con chi ho il non-piacere di parlare?».

«Sono Osvaldo Rotundo», dice Osvaldo Rotundo, «e devo farle una domanda».

«Deve», dico.

«Devo», dice Osvaldo Rotundo.

«Dunque non me la farà perché ne ha voglia, questa domanda, o perché può esserle utile», dico. «Me la farà perché deve».

«A volte un uomo ha dei doveri», dice Osvaldo Rotundo.

«E una donna?», dico.

«Anche loro», dice Osvaldo Rotundo. «E che tipi di doveri?», dico.

«Doveri morali», dice Osvaldo Rotundo.

«E dunque», dico, «che domanda ritiene di avere il dovere morale di farmi?». «Lei, signor Mozzi, come editore», di-

Pop Cult

ce Osvaldo Rotundo, «è snob?».

«Sì», dico.

«Ma quanto snob?», dice Osvaldo Rotundo. «Un poco snob, abbastanza snob, molto snob, o esageratamente snob?».

«Sono esageratamente snob», dico.

«Quindi quelli come me lei li schifa», dice Osvaldo Rotundo.

«Ma non lo so», dico. «Lei come è?».

«Non sono snob», dice Osvaldo Rotundo.

«Questo va benissimo», dico. «Gli snob sono insopportabili».

«Lei è insopportabile?», dice Osvaldo Rotundo.

«Secondo lei?», dico. «Mi dica: le sembro un poco insopportabile, abbastanza insopportabile, molto insopportabile, o esageratamente insopportabile?». «Lei mi sembra abbastanza insopportabile», dice Osvaldo Rotundo. «Sicuro di non sottovalutarmi?», dico.

«Ecco… Forse lei è molto insopportabile», dice Osvaldo Rotundo. «E dunque», dico, «per quale ragione lei sta sopportando questa telefonata con una persona molto insopportabile?».

«Per interesse», dice Osvaldo Rotundo. «Cioè?», dico.

«Ho scritto un romanzo», dice Osvaldo Rotundo.

«E vuole pubblicarlo?», dico. «Voglio pubblicarlo con lei», dice Osvaldo Rotundo, «con la sua casa editrice».

«Mi dica per quali ragioni vuole pubblicarlo proprio con la mia casa editrice», dico.

«Non lo ha voluto nessun altro», dice Osvaldo Rotundo.

«Quindi io sarei l’ultima spiaggia», dico.

«Sì», dice Osvaldo Rotundo. «Se le avessero risposto positivamente», dico, «editori come A, B, C—». «Col fischio che avrei telefonato a lei», dice Osvaldo Rotundo.

«Bene», dico. «La reciproca stima è un buon fondamento per l’avvio di una relazione positivamente orientata al successo».

«Ma che scemenze dice?», dice Osvaldo Rotundo. «Niente», dico, «avevo qui sottomano un manuale di motivazione, self-help e ginnastica posturale».

«E la dieta?», dice Osvaldo Rotundo. «Nel secondo volume», dico. «E allora, signor Mozzi», dice Osvaldo Rotundo, «il mio romanzo?». «Me lo mandi e le farò sapere», dico. «Guardi che è un romanzo per niente snob», dice Osvaldo Rotundo. «Me lo riassuma», dico. «È la storia di un pescatore che se ne sta sulla riva del mare», dice Osvaldo Rotundo, «e all’improvviso arriva lì un giovanotto che ha fame e sete, e il pescatore gli dà da mangiare e da bere, poi il giovanotto se ne va e più tardi passano di lì i carabinieri a cavallo e chiedono al pescatore se hanno visto un giovanotto così e così, e fanno una descrizione che corrisponde proprio al giovanotto che aveva fame e sete, e il pescatore dice no, qui non si è visto nessuno, e i carabinieri a cavallo lo salutano e gli dicono faccia attenzione, che è un criminale pericoloso». «Mmm», dico.

«Non le piace?», dice Osvaldo Rotundo. «Mi ricorda una canzone di De André», dico.

L’archeologia postmoderna degli esploratori urbani

Sebbene sia fin troppo facile imporre una connotazione negativa a qualsiasi fenomeno di cultura popolare direttamente riconducibile alla diffusione dei social network, ci sono casi in cui le tendenze in questione sono davvero meritevoli di genuino interesse, in quanto rivelatrici di pulsioni antropologiche quantomeno intriganti. Uno dei casi forse più rappresentativi è quello del cosiddetto «Urbex», termine che sta per urban exploration, ovvero «esplorazione urbana» — in poche parole, l’abitudine, per alcuni una vera e propria missione, di intrufolarsi in case ed edifici abbandonati per documentarne l’interno prima che questi vengano svuotati o demoliti; un’attività che vede tali sortite prendere la forma di postmoderne spedizioni archeologiche, in cui i valorosi esploratori portano alla luce, in modo perlopiù inaspettato, testimonianze

Xenia

materiali della storia di chi ha abitato quei luoghi, spesso lasciandosi ogni cosa alle spalle. Gli stabili abbandonati divengono così una sorta di capsula temporale contenente un sunto dell’intera vita degli abitanti di un tempo, a noi disvelata tramite vecchie fotografie, oggetti personali di ogni tipo e veri e propri ’reperti’ del passaggio di chi sembra, in effetti, svanito nel nulla; per non parlare dei casi più drammatici, in cui si rinvengono prove concrete di antichi delitti, o indizi che mostrano inequivocabilmente come qualcosa di grave sia avvenuto tra quelle mura ormai neglette. Del resto, ben lungi dall’essere semplici ficcanaso, i veri esploratori urbani seguono un’etica professionale dalle ferree regole — su tutte, quella di non sottrarre nulla dai luoghi visitati, e non lasciare alcuna traccia del pro-

prio passaggio, «se non le impronte sul terreno». L’unica attività collaterale consiste infatti nel filmare tutto quanto ci si trovi davanti, così da farne ricercatissimi video reportage, postati sui vari social network per la gioia degli appassionati del genere — i quali fanno la fortuna di molti esploratori, ormai assurti a status quasi mitico. E dal momento che i professionisti dell’Urbex condannano qualsiasi forma di vandalismo, la «cerca del Graal» consiste, infine, nel rinvenire luoghi il più incontaminati possibile, non ancora intaccati dal passaggio di ladri o malintenzionati, così da poter godere a fondo delle atmosfere di un tempo. Come nel caso degli innumerevoli edifici pubblici che ancora custodiscono al loro interno, alla stregua di scrigni vagamente ammuffiti, documenti e archivi di ogni tipo, quasi chi li occupava fosse fuggito frettolo-

samente per non fare mai più ritorno. Ecco quindi come quest’attività, che porta i suoi devoti a rischiare ogni tipo di conseguenza (dall’arresto per violazione di proprietà, fino a incidenti più o meno gravi all’interno di strutture pericolanti) assume un’accezione romantica, caratterizzata da momenti a tratti strazianti, che ne fanno una metafora del vivere quotidiano — dell’impermanenza e natura effimera del nostro passaggio su questa terra, nonché del fatto che siamo venuti al mondo senza possedere nulla, e, allo stesso modo, nulla porteremo con noi al momento di andarcene. Il che fa pensare come, al di là dell’effetto pittoresco di tali incursioni, l’innegabile richiamo esercitato dall’esplorazione urbana poggi, in realtà, su ben altre motivazioni — su tutte, lo struggimento che risulta dal rendersi conto della propria mortalità

Melania Mazzucco

La vendetta di Lorenzo Alì sotto il segno di Fantomas

Lo chiamavano Lorenzo Alì. Era nato in Sudan intorno al 1897. Non sappiamo come fosse arrivato a Roma (ma fra il 1894 e il 97 una parte del Paese era stata occupata dagli italiani). L’unica ragione per cui rimane una labile traccia della sua esistenza è il colore della sua pelle. Era «un negro autentico» – come scrive un giornalista anonimo de «La Tribuna», quotidiano della capitale, nel reportage pubblicato il 21 agosto 1917 col titolo Un Fantomas originale La vendetta del nero. Con l’aggettivo «autentico» sembra suggerire che esistano negri «falsi»: probabilmente intende mulatti, o dall’epidermide appena brunita. Lorenzo Alì invece aveva la «pelle più nera dell’ebano». Era un uomo «di bella statura, intelligente,

sveltissimo, ma di carattere alquanto ribelle». Lavorava nella numerosa schiera di domestici al servizio di S.E. James Rennell Rodd, dal 1908 ambasciatore d’Inghilterra nel Regno d’Italia. Il palazzo sorgeva in fondo a via XX Settembre, alle spalle di Porta Pia, ed era fornito di un grandioso parco, che si estendeva fino a via Palestro. Rennell Rodd, barone, era entrato in diplomazia per consiglio del pittore Burne-Jones, suo amico. Era amico anche di Oscar Wilde, che lo aveva aiutato a pubblicare un volume di poesie (ma dopo lo scandalo e il processo per omosessualità, quando Wilde cadde in disgrazia, il barone, ormai rappresentante della corona, dovette rinnegarlo); corrispondeva anche con D’Annunzio. Sposato con Lilia

Guthrie, aveva sei figli. Di qualunque ribellione, indocilità o insubordinazione il «negro» si fosse macchiato, nel maggio del 1917 l’ambasciatore lo licenziò. Lorenzo Alì non riuscì a trovare un altro lavoro. Tre mesi dopo, nella notte di venerdì 17 agosto, scavalcò il muro della proprietà e sgattaiolò fra le piante del parco. Si nascose in un villino adiacente al fabbricato dell’ambasciata, e poi nella cantina dell’edificio principale; infine, nel primo pomeriggio di sabato, approfittando del riposo generale nelle ore di calura, si insinuò, silenzioso «come un felino», nella soffitta sopra lo studio dell’ambasciatore. Era pratico dei luoghi e conosceva le abitudini del barone: paziente, entrò in azione soltanto alle otto di sera, quando quello

«De André chi?», dice Osvaldo Rotundo. «Fabrizio De André, il cantautore», dico. «Mai sentito», dice Osvaldo Rotundo. «All’ombra dell’ultimo sole», canto, «s’era assopito un pescatore, e aveva un solco lungo il viso, come una specie di sorriso». «Mai sentita, proprio», dice Osvaldo Rotundo. «Mi pare strano», dico. «È una delle canzoni più famose di sempre. L’hanno cantata anche all’ultimo Sanremo». «Sanremo?», dice Osvaldo Rotundo. «Sanremo», dico. «L’ultimo Festival di Sanremo. Nella serata dei duetti». «È un festival letterario?», dice Osvaldo Rotundo. «Tipo Premio Strega?». «Lei non ha mai sentito nominare il Festival di Sanremo?», dico. «No», dice Osvaldo Rotundo. «Che cos’è?». «Voglio assolutamente pubblicare il suo romanzo», dico.

«Ma perché?», dice Osvaldo Rotundo. «Non l’ha neanche letto». «Sarà il romanzo più snob del secolo», dico. «Me lo sento».

e, soprattutto, di una dura verità: ovvero, di come tutti i beni materiali che tanto duramente ci siamo impegnati ad accumulare nella nostra vita non conteranno assolutamente nulla dopo la nostra dipartita. Perché, come i video degli esploratori mostrano anche troppo chiaramente, perfino le abitazioni in cui abbiamo vissuto diverranno semplicemente vestigia della nostra storia — resti a cui, il più delle volte, nemmeno i discendenti saranno interessati.

Un dettaglio che, per quanto doloroso, ci spinge a riflettere su come sia più che mai indispensabile, per noi tutti, riuscire a lasciarsi alle spalle anche qualcosa di meno concreto, eppure ben più imprescindibile: in fondo, nulla di più di tutti gli immateriali e vitali aneliti emotivi grazie ai quali possiamo ancora, nonostante tutto, definirci umani.

uscì per la cena. «Pensò che qualcuno sarebbe potuto entrare nella stanza», chiosa il giornalista. «E allora? Un maglione tutto nero come quello di Fantomas o dei famosi ladri d’albergo a lui non era necessario per occultarsi (…): lui aveva la pelle tutta nera e così pensò di svestirsi, rimanendo completamente nudo; anche se qualcuno fosse entrato egli si sarebbe nascosto in un angolo oscuro del salone e sarebbe rimasto sicuramente invisibile». Il riferimento a Fantomas esige una spiegazione. Il ladro che indossava il maglione nero era l’anti-eroe dell’omonima saga di romanzi polizieschi di Pierre Souvestre e Marcel Allain, pubblicati a puntate in Francia dal 1911. Il cinema si era subito appropriato del personaggio, e Louis Feuillade aveva

realizzato già nel 1913 il primo film di una serie in cinque episodi che divenne rapidamente popolare in tutto il mondo, Italia compresa. Ambientata in un contesto urbano e moderno, la serie –prototipo del genere noir – ha generato un’infinità di imitazioni. Ma soprattutto aveva rovesciato il punto di vista consueto: il pubblico non parteggiava per il poliziotto, l’ispettore Juve, che gli dava la caccia, ma per il criminale – diabolico, geniale nei travestimenti e spietato nelle azioni. (Nel quarto episodio, che circolava ancora nelle nostre sale, Fantomas arriva a liberare l’ispettore, accusato di essere proprio Fantomas, per dimostrare l’incapacità della polizia). Il paragone di Lorenzo Alì con Fantomas dunque è più ambiguo di quanto sembri. (continua)

di Giulio Mozzi
di Benedicta Froelich
di

1

Cuocere correttamente i ravioli

I ravioli precotti vanno immersi in acqua bollente solo per poco tempo. Segui le istruzioni riportate sulla confezione e ricorda che è meglio togliere la pasta dall’acqua troppo presto piuttosto che troppo tardi. Così sarà al dente.

2

Aggiungere una salsa ai ravioli

La salsa più semplice è costituita da 2-3 cucchiai di olio; preferibilmente un buon olio d’oliva, magari aromatizzato al tartufo o al limone. A seconda della stagione, sono adatti l’olio o il pesto all’aglio orsino. Una salsa più elaborata consiste in un po’ di burro leggermente rosolato in padella con foglie di salvia fresca. Con un po’ di olio, scalogno, noce moscata e panna si crea una salsa raffinata. Se vuoi, puoi aggiungere un goccio di vino bianco; in questo caso, lascia sobbollire la salsa per qualche minuto.

3

Aggiungere un topping ai ravioli

Una guarnizione sulla pasta non è solo bella da vedere, ma fornisce anche più sapore e consistenza, per esempio se triti finemente varie erbe aromatiche fresche come basilico, prezzemolo o timo e cospargi il tutto sui ravioli. Oppure trita delle noci e tostale brevemente in padella (senza olio!). Renderanno la pasta più croccante.

GUSTO

Ravioli con verdure fresche

Aggiungi alla pasta delle verdure fresche, come spinaci in foglia o asparagi. Salta brevemente in padella la verdura con un po’ di olio e sale e servila come contorno o direttamente

Invece di cuocere i ravioli in acqua, puoi prepararli al forno come uno sformato. Disponi i ravioli in una teglia, coprili con una salsa a piacimento – fatta in casa o già pronta – e cospargili di formaggio forno finché il formaggio non sarà leggermente dorato. Questa variante funziona bene anche con i ravioli in

Ravioli pronti come al ristorante

La preparazione della pasta pronta richiede solo pochi minuti. Con qualche consiglio, mangerai come al ristorante.

Testo: Dinah Leuenberger

Affinare i ravioli con umami e acidità Il parmigiano contiene molto umami, il quinto sapore. Il limone apporta acidità.

Entrambi gli ingredienti conferiscono un sapore più vario al piatto di pasta. Grattugia il parmigiano e la scorza di limone e aggiungi entrambi ai ravioli.

Quasi come quelli
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Fiori agli asparagi Anna’s Best 250

TEMPO LIBERO

Un dessert veramente prelibato

Il segreto per rendere ancora più appetitose le tortine sta nell’abbraccio tra la pasta di vaniglia, arricchita di burro e zucchero, e l’irresistibile crema al limone

Pagina 33

La primavera è il gioco più antico del mondo

Con mosse imprevedibili, la stagione rinnova ogni anno l’incanto della natura, sorprendendo non solo i poeti ma anche tutti quei giocatori attenti ai suoi ritmi

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Sciare al fianco di cervi, camosci e galli cedroni

Adrenalina ◆ La passione per gli sport invernali può convivere con la fauna selvatica, basta rispettare alcune semplici regole per proteggere gli ecosistemi montani

Moreno Invernizzi

Sci ai piedi e idee ben chiare in testa (oltre, possibilmente, al casco). Si potrebbe anche intitolare così questa puntata di «Adrenalina», che parla sì di sci e di attività adrenaliniche sulle nevi, ma che lo fa con un taglio più didattico, puntando i riflettori sull’altro lato della medaglia: quello delle aree che fanno da sfondo agli sport invernali.

Mentre gli appassionati di sport invernali fanno festa di fronte a grandi quantitativi di coltre bianca, un inverno particolarmente generoso di neve rappresenta una grande sfida per gli animali selvatici. Ciò rende ancora più importante il rispetto di alcune semplici regole, affinché cervi, camosci, galli cedroni e altri animali selvatici possano trovare pace e tranquillità e superare la stagione fredda in sicurezza. Per loro, in inverno il cibo è scarso e di solito povero di sostanze nutritive.

Quel che serve: sci ai piedi e idee chiare in testa, oltre a un casco ben allacciato, e totale rispetto per la natura circostante

Anche le giornate brevi, per alcuni animali (in particolare quelli che non si cibano al crepuscolo o di notte) offrono poche opportunità di mangiare. Muoversi nella neve pesante è difficile e prosciuga le forze. Per sopravvivere ai lunghi mesi invernali, il risparmio energetico è quindi la priorità assoluta. Ecco perché ogni forma di stress può metterne in pericolo la vita. Classe 2002, Martino Conedera conosce bene la problematica. Al suo terzo anno sul circuito di Coppa del mondo di freestyle Moguls (gobbe), il 22enne di Gnosca è molto sensibile alla causa della fauna selvatica. «Con gli sci ai piedi ci sono praticamente nato: la mia prima volta sulle nevi avrò avuto 3-4 anni, con i miei genitori» racconta lo stesso Martino Conedera. «Oggi, oltre al freestyle, che rappresenta il “pane quotidiano” delle mie attività con gli sci ai piedi, pratico anche il fuori pista e lo sci alpinismo. Anche se finora non ho mai avuto “incontri ravvicinati”, credo che sia importante che le due realtà trovino un punto d’incontro per una convivenza ideale. Gli sport invernali, se non gestiti correttamente, possono arrecare disturbo alle specie di montagna, danneggiando ecosistemi e compromettendo la biodiversità. Penso che con pochi piccoli accorgimenti, evitando ad esempio le zone protette, sia possibile vivere in sintonia, garantendo il futuro di queste specie». Rispettare le zone di tranquillità e i siti di protezione della fauna selvatica (dove ama rifugiarsi), nel bosco utilizzare solo i sentieri e i percorsi segnalati (la fauna può così abituarsi alla presenza delle persone), evitare i margini boschivi e le superfici non innevate (sono le aree più apprezzate dagli animali selvatici) e, ancora, tenersi i cani al guinzaglio, specialmente nel

bosco (i selvatici fuggono alla presenza di cani liberi). Eccola, la guida di Nature-Loisirs. Quattro semplici, ma fondamentali, regole per garantire a tutti, persone e animali, lo spazio necessario durante i mesi più freddi dell’anno. Per divertirsi i primi, per sopravvivere gli altri. Perché se per noi umani i prati e i pendii innevati sono una delle opzioni più gettonate per trascorrere qualche ora in mezzo alla natura praticando uno sport – anche estremo se si pensa allo sci fuori pista o al sempre più in voga heli ski – per la fauna selvatica quegli stessi spazi sono la casa e il mondo tutto.

«Gli sport all’aria aperta sono molto di tendenza, così come le escursioni con le ciaspole, il fuoripista e l’heli ski in inverno» conferma Vanda Ciotti, responsabile per il Ticino della campagna Sport invernali e rispetto di Nature-Loisirs. Beninteso, non siamo contro gli sport sulla neve, ci mancherebbe, ma sensibilizzando sul comportamento responsabile, vogliamo fare in modo che le attività sulla neve fuori pista possano continuare

in futuro, nel rispetto della natura e della fauna selvatica. Perché nel mondo della fauna selvatica ci sono delle regole che vanno rispettate al fine di stabilire una sana e duratura convivenza. Regole semplici ma fondamentali, dato che per questi animali possono fare la differenza tra la sopravvivenza e la morte: troppo stress, infatti, potrebbe metterne in serio pericolo la vita».

In particolare, Nature-Loisirs ha individuato sette specie di animali selvatici presenti in boschi e terreni innevati in cui ci si può imbattere durante un’escursione con le racchette ai piedi o sciando al di fuori delle piste demarcate, a forte rischio in caso di accresciuto stress. E sono: il gallo cedrone (che dispone di limitate riserve di grasso), il fagiano di monte (che pure dispone di limitate riserve di grasso), la pernice bianca (completamente sprovvista di riserve di grasso), il cervo, la lepre variabile, lo stambecco e il camoscio.

Proprio per garantire una certa protezione a queste specie sono state istituite le cosiddette «zone di tran-

quillità della fauna selvatica», con l’obiettivo di ridurre l’uso di queste aree da parte dell’essere umano. Nelle zone di tranquillità della fauna selvatica giuridicamente vincolanti, le esigenze degli animali hanno la priorità. «All’interno di queste zone, le attività ricreative sono consentite solo in misura limitata in inverno. Ci sono poi le zone vincolanti, iscritte tramite iter legislativo, e quelle raccomandate». In Svizzera le prime, riconosciute dall’Ufficio federale dell’ambiente, sono 784, e 14 nel Liechtenstein, a cui se ne aggiungono 243 raccomandate. E in Ticino? «In Ticino le zone vincolanti sono 34 e 3 quelle raccomandate».

Informazioni

Consultare il sito www.naturfreizeit.ch/sport-invernali-erispetto, dove si può pure ordinare il relativo materiale informativo. Grazie alla collaborazione con gli operatori del settore, è reperibile anche in diversi negozi di attrezzatura invernale e nelle principali stazioni sciistiche.

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Ricetta della settimana - Tortine al limone

Ingredienti

Ingredienti per 4 persone per 4 stampi per tartellette di ca. 10 cm Ø

burro e farina per gli stampi

1 confezione di legumi secchi per la cottura in bianco

3 limoni

3 uova

120 g di zucchero

100 g di crème fraîche

Pasta

130 g di farina

50 g di zucchero

1 presa di sale

1 punta di coltello di pasta di vaniglia

60 g di burro, freddo

2 c d’acqua

Preparazione

1. Per la pasta, mescolate la farina con lo zucchero in una scodella. Unite il sale, la pasta di vaniglia e il burro tagliato a pezzettini. Sfregate gli ingredienti con le dita fino a ottenere un impasto granuloso. Aggiungete l’acqua e impastate velocemente. Se necessario, aggiungete ancora un po’ d’acqua. Appiattite la pasta, copritela con la pellicola e mettetela in frigo per circa 30 minuti.

2. Imburrate e infarinate gli stampi. Scaldate il forno statico a 180 °C.

3. Dividete la pasta in quattro e spianate ogni pezzo di pasta in un disco di circa 12 cm Ø. Accomodate i dischi negli stampi, premete bene la pasta contro i bordi degli stampi in modo che fuoriesca di poco. Bucherellate i fondi con una forchetta e copriteli con un disco di carta da forno.

4. Appesantite con i legumi e cuocete a vuoto al centro del forno per circa 20 minuti. Togliete la carta e i legumi.

5. Per la crema, grattugiate finemente la scorza dei limoni. Spremete un terzo dei limoni. Mescolate le uova con lo zucchero. Incorporate la crème fraîche, la scorza e il succo di limone. Distribuite la crema nelle tartellette e infornate per circa 30 minuti. Sfornate e lasciate intiepidire.

Preparazione: circa 40 minuti; refrigerazione: circa 30 minuti; cottura in forno: circa 50 minuti

Per porzione: circa 10 g di proteine, 27 g di grassi, 69 g di carboidrati, 560 kcal

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La mossa vincente della primavera

Colpo critico ◆ Come le stagioni giocano le loro mosse impreviste, anche alcuni giochi da tavolo celebrano i ritmi della natura

Andrea Fazioli

Le regole sono sempre le stesse, ma ogni volta vengo colto di sorpresa. La mia parte razionale e (più o meno) civilizzata è consapevole che, alla fine dell’inverno, tornerà la primavera. Ma nel profondo dei mesi oscuri sorge dentro di me un sentimento atavico, radicato nel profondo. E se le giornate restassero corte e buie? E se la crosta del terreno rimanesse dura e fredda? Nel corso dell’evoluzione gli esseri umani hanno di certo provato questo terrore. Il giro dell’anno è come il percorso di un gioco dell’oca, con i suoi rallentamenti, le sue svolte improvvise, ma con molta più raffinatezza. Devo confessare che non c’è un solo anno in cui sia riuscito ad anticipare l’avvenimento. Con astuzia ineffabile, la primavera arriva sempre nel giorno in cui non me l’aspetto: il primo indugio della luce serale, la prima gazzarra di uccelli nel fitto di un albero, il primo desiderio di togliersi la giacca camminando lungo una strada assolata.

La primavera vince sempre. Per quanto uno cerchi di anticiparla, lei riesce a escogitare una mossa imprevista. Infatti da sempre affascina i poeti, che amano venire colti alla sprovvista nella quotidianità. Un esempio illustre è Mario Luzi (1914-2005) – ndr. ricorre quest’anno il ventesimo dalla sua dipartita –, un autore che amo fin da ragazzo e

sul quale ho scritto la mia tesi di laurea. Uno dei suoi motivi ricorrenti è proprio la mirabile, soffusa perfezione non della stagione piena, bensì di quel momento «prima di primavera, ma poco», quando «si diffonde la sua acquosa luminescenza / e quel chiaro e quell’alone sui monti, / quel trepidare dell’aria, quel vibrare delle immagini» (Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, 1985).

Piccoli ma ineluttabili cambiamenti che non concedono appigli, come un imprevisto in una partita appena iniziata

Per accompagnare questa sensazione suggerisco, oltre che di leggere Luzi, di prendere in mano un gioco leggero e divertente: Blätterrauschen (Kosmos, 2020), dell’autore italiano Paolo Mori. Il titolo significa «Il mormorio delle foglie» ed è indipendente dalla lingua (c’è un’edizione francese e una spagnola, ma si trovano su internet anche le regole in italiano). È un cosiddetto «roll and write », cioè un gioco in cui i partecipanti – da 1 a 6 a partire dagli otto anni – lanciano dei dadi e scrivono il risultato con una penna in un apposito foglietto. A seconda della combinazione, potranno segnare con una X diverse specie di piante e di animali

Giochi e passatempi

Cruciverba Come era soprannominato

Goffredo V d’Angiò? Qual era il suo emblema? Scopritelo a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 2, 5 – 2, 4, 2, 8)

ORIZZONTALI

1. Screanzato, maleducato

7. Strumento musicale

8. Le prime delle ultime...

9. Un letto a Parigi

10. Preposizione articolata

11. Le iniziali dello pseudonimo dell’attore Sperandeo

12. Lo è l’oro a 24 carati

13. Regola, precetto

17. Frutto del gelso

18. Se è fissa ossessiona

19. Assistono i ladri

21. Termine da tennista

22. Suddivisioni territoriali di una Nazione

24. È sempre in partenza

26. Un figlio di Adamo

27. Guasto meccanico

28. Gioiosa

VERTICALI

1. C ’è anche quella celeste

2. Era sacro agli egizi

3. Un fiume francese che sfocia

nella Garonna

4. Le iniziali del noto Elkann

5. Può esserlo solo la donna sposata

Immagine della confezione del gioco Blätterrauschen.

che variano al mutare delle stagioni. L’ideale è intavolare questo Mormorio di foglie ogni due o tre mesi. Ci sono foglietti diversi per ogni periodo: pettirossi, agrifogli e abeti innevati d’inverno; fiori, farfalle, alberi verdeggianti in primavera; frutta, margherite, lucciole e (ahimè) anche zanzare d’estate; funghi, scoiattoli, foglie colorate d’autunno.

A chi ama indugiare sui piccoli, impercettibili cambiamenti del tem-

po consiglio anche di provare l’Hanafuda, un mazzo di carte tradizionale giapponese risalente al XVI secolo. Si trova in edizioni moderne con immagini molto evocative. Fra le varie versioni consiglio quella della Robin Red Games, pubblicata per la prima volta nel 2013 con le illustrazioni di Pascal Boucher. Il mazzo è composto da quarantotto carte divise in dodici semi secondo i mesi dell’anno. Anche qui, le immagini mostra-

no soprattutto piante o animali legate alle stagioni in Giappone (lievemente diverse dalle nostre): in febbraio per esempio ci sono il pruno e l’usignolo; in marzo il ciliegio e la tenda, perché si usava accamparsi insieme a parenti e amici per assistere alla fioritura dei ciliegi; in aprile il glicine e il cuculo. Lo stesso mazzo consente di fare giochi diversi: il più interessante è il Koï-Koï, che è la variante più diffusa in Giappone e che richiede ai partecipanti di comporre delle serie di carte legate fra di loro. Ma non c’è nemmeno bisogno di fare una partita: talvolta prendo il mio mazzo di Hanafuda e mi limito a guardare le carte, pensando al tempo che passa, al ritorno nel mio giardino degli stessi fiori, che sono misteriosamente sempre diversi.

Come scrive Giuseppe Ungaretti ne Il taccuino del vecchio (Mondadori 1960): «Ogni anno, mentre scopro che febbraio / È sensitivo e, per pudore, torbido, / Con minuto fiorire, gialla irrompe, / La mimosa. S’inquadra alla finestra / Di quella mia dimora d’una volta, / Di questa dove passo gli anni vecchi». La primavera insomma è una giocatrice accanita, che sfida i poeti sul loro stesso terreno. Per quanto Ungaretti o Luzi provino a spiarne i segni, a rassicurarsi dicendo che si ripetono uguali ogni anno, la primavera vince sempre. Per fortuna.

6. C’è anche quello solare

10. È una ficcanaso

12. Prefisso indicante molteplicità

13. In coppia con la nanna

14. Operetta poetica

15. Si versa al collegio

16. Precede il se

17. Personaggio delle fiabe

19. Sanzione

20. Due nel bicchiere

22. Si assicurano alla giustizia

23. Una preposizione

25. Le iniziali dell’attore Redford

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano . Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non

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LO SAPEVI?

Skrei: questo merluzzo invernale norvegese vive nel Mare di Barents, sopra il circolo polare artico, ed è disponibile solo dalla fine di gennaio all'inizio di aprile. Skrei è una parola norvegese e significa «vagabondo». Per riprodursi questo pesce compie infatti ogni anno un viaggio di 1000 chilometri, e ciò fa sì che abbia più carne muscolare e meno grasso. Per questo è considerato il merluzzo più pregiato.

Consiglio: farcisci il ventre con limone e timo

9.95

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Gamberetti Torpedo Anna's Best, ASC d'allevamento, Vietnam, per 100 g, in self-service 45%

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M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordorientale, 2 pezzi, 300 g, in self-service, (100 g = 2.98)

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Per addolcire il caffè in compagnia

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Tortina al pistacchio

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Migros Ticino

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Lasagne Anna's Best, refrigerate alla bolognese o alla fiorentina, in confezioni multiple, per es. alla bolognese, 3 x 400 g, 7.90 invece di 11.85, (100 g = 0.66)

Ripieni di formaggio fresco e albicocche secche

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Migros Ticino

Le marche del cuore a prezzi convenienti

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Tutto l'assortimento di cereali Nestlé per es. Cini Minis, 500 g, 3.47 invece di 4.95, (100 g = 0.69)

16.50 invece di 22.–Mini pizze Piccolinis Buitoni prodotto surgelato, in confezione speciale, al prosciutto o alla mozzarella, 40 pezzi, 1,2 kg, (1 kg = 13.75) 25%

Tuto l'assortimento Felix, Vital Balance, Gourmet, Matzinger e Adventuros per es. Vital Balance Senior al pollo, 4 x 85 g, 3.22 invece di 4.60, (100 g = 0.95)

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Tutto l'assortimento di alimenti per bebè Nestlé (latte Pre, latte di tipo 1, latte Comfort e confezioni multiple esclusi), per es. Beba Optipro Junior 18+, 800 g, 17.56 invece di 21.95, (100 g = 2.20)

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Acqua minerale San Pellegrino 6 x 1,25 litri, (100 ml = 0.06)

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Tutti i tipi di caffè istantaneo Nescafé per es. Gold De Luxe, in vasetto, 100 g, 5.53 invece di 8.25

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Contrex e Perrier 6 x 1,5 litri e 6 x 1 litro, per es. Contrex, 6 x 1,5 litri, 5.03 invece di 7.50, (100 ml = 0.06) conf. da 6

Sanbittèr San Pellegrino 10 x 100 ml, (100 ml = 0.64) conf. da 10 23%

6.35 invece di 8.25

Scorte ottime e abbondanti

Conitalianipomodori

Passata, sugo e pesto, Alnatura, bio disponibili in diverse varietà, per es. passata, 690 g, 1.16 invece di 1.45, (100 g = 0.17) 20%

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Tutti i tipi di pasta M-Classic per es. reginette, 500 g, 1.60 invece di 1.90, (100 g = 0.32) a partire da 2 pezzi –.30 di riduzione

Pratiche quando si ha poco tempo

Tutte le salse per arrosto per es. Knorr, in tubetto, 150 g, 3.36 invece di 4.20, (100 g = 2.24) a partire da 2 pezzi 20% 16.65 invece di 22.20 Ravioli Napoli M-Classic 6 x 870 g, (100 g = 0.32)

Conserve di verdura svizzera o purea di mele, M-Classic disponibili in diverse varietà, per es. piselli e carote, fini, 4 x 260 g, 5.40 invece di 6.80, (100 g = 0.52) conf. da 4 20%

Tutte le gallette di riso, di lenticchie e di mais, Alnatura per es. gallette di riso al miele, 3 x 32 g, 1.48 invece di 1.85, (100 g = 1.54)

Tutti i cereali bio Alnatura per es. crunchy di avena ai frutti di bosco, 375 g, 2.56 invece di 3.20, (100 g = 0.68)

Chips Zweifel 175 g e 280 g, per es. Paprica, 280 g, 4.95 invece di 5.95, (100 g = 1.77) a partire da 2 pezzi 1.–di riduzione

Composte e succhi freschi a partire da 75 cl, Andros, refrigerati disponibili in diverse varietà, per es. succo d'arancia, 1 litro, 4.64 invece di 5.80, (100 ml = 0.46)

Croccantezza che si scioglie in bocca

Tutte le tavolette di cioccolato Frey (prodotti Sélection e confezioni multiple esclusi), per es. al latte finissimo, 100 g, 1.96 invece di 2.45

Kägi des Alpes Milk o Dark, in conf. speciale, per es. Milk, 180 g, 6.55 invece di 9.12, (100 g = 3.64)

a partire da 2 pezzi

Fiori per dare colore alla vita

Per far sì che le rose fioriscano a lungo, il vaso va collocato in un luogo luminoso ma non esposto alla luce solare diretta. Ogni 4 giorni i fiori vanno messi in un contenitore con circa 4 cm di acqua tiepida. Dopo 30 minuti, se la pianta non ha assorbito tutto, eliminare il liquido rimanente. Ogni 14 giorni va mescolata all'acqua l'apposita sostanza nutriente per piante (per il dosaggio vedere la confezione).

Rose nobili Fairtrade disponibili
mazzo
stelo 60 cm, il mazzo
CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

L’ideale per il corpo

a partire da 2 pezzi 25%

Collutori Listerine (confezioni multiple e da viaggio escluse), per es. protezione gengive Total Care, 500 ml, 4.88 invece di 6.50, (100 ml = 0.98)

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Prodotti per la doccia Le Petit Marseillais per es. fiori d'arancio, 3 x 250 ml, (100 ml = 0.93)

da 2 25%

8.90

invece di 11.90

conf. da 2 25%

Collutori Listerine per es. Cool Mint gusto delicato, 2 x 500 ml, 7.95 invece di 10.70, (100 ml = 0.80)

a partire da 2 pezzi 25%

Tutto l'assortimento M-Plast (confezioni da viaggio escluse), per es. cerotti Comfort, 10 pezzi, 2.21 invece di 2.95

conf. da 2 25%

Creme per le mani Neutrogena o Le Petit Marseillais per es. non profumata, 2 x 50 ml, 6.95 invece di 9.30, (10 ml = 0.70)

conf. da 2 25%

Gel doccia High Tolerance Le Petit Marseillais Fleur D'Amandier o Aloe Vera, 2 x 400 ml, (100 ml = 1.11)

8.25 invece di 11.–

Deodoranti Borotalco per es. roll-on Original, 2 x 50 ml, (100 ml = 8.25)

a partire da 2 pezzi 25%

Tutto l'assortimento per la depilazione Veet e I am incl. Veet Men (confezioni multiple escluse), per es. crema depilatoria Sensitive, 150 ml, 6.38 invece di 8.50, (100 ml = 4.25)

a partire da 2 pezzi 25%

Tutto l'assortimento di shampoo secco Batiste per es. Original, 200 ml, 4.46 invece di 5.95, (100 ml = 2.23)

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Per un corpo vellutato e curato

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Olio per capelli Ultra Doux all'avocado oppure shampoo al miele in conf. di ricarica per es. olio, 120 ml, 12.95, (100 g = 10.79)

20x CUMULUS

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1.80

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4.20 Shampoo Elseve in conf. di ricarica Colour Vive, Dream Lengths o Hyaluron, 250 ml, (100 ml = 1.68)

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Gel doccia I am Cherry Berry 250 ml, (100 ml = 0.72)

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L'Oréal Paris Serie Expert per es. Shampoo Inforcer, 300 ml, 15.95, (100 ml = 5.32)

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Novità

Fiber Booster Elseve shampoo, balsamo e siero, per es. shampoo, 200 ml, 8.95, (100 ml = 4.48)

Tutto l’occorrente per la casa

Tutti i coltelli da cucina e le forbici, Kitchen & Co. e Victorinox per es. coltello da verdura Victorinox, set da 2, 6.97 invece di 9.95 a partire da 2 pezzi

Tutto l'assortimento di valigie e borse da viaggio nonché di accessori da viaggio (articoli Hit esclusi), per es. trolley Voyager, misura XS, il pezzo, 47.96 invece di 59.95 20% 19.95 Ciabatte Comfort unisex Essentials disponibili in beige o blu marino, tg. 36–45, il paio

Per far brillare gli occhi dei bambini, riempilo di dolci pasquali

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Cestino di bambù con paglia Home disponibile in diversi colori, il pezzo

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Candele profumate in vaso di vetro Home disponibili in diverse profumazioni, il pezzo

Verso la primavera freschi di bucato

Sacchetti e nastri regalo, Paper & Co. per es. nastro per pacchi regalo, set da 10, 6.60 invece di 9.90 33%

Sacchetti regalo Paper & Co. in polipropilene, 11 x 19 cm oppure 14,5 x 23,5 cm, assortiti, per es. 11 x 19 cm, 30 pezzi, 6.– invece di 7.50

Prodotti per disegnare e fare bricolage Paper & Co. per es. Carta da disegno e da bricolage A4, pastello, 130 g/m2, 60 fogli, 6.– invece di 9.–

Tutti i detersivi Elan (confezioni multiple e speciali escluse), per es. Spring Time, in conf. di ricarica, 2 litri, 6.48 invece di 12.95, (1 l = 3.24) a partire da 2 pezzi

Il risveglio primaverile per la casa

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