Azione 12 del 16 marzo 2020

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Il Caffè delle mamme si interroga su cosa e come raccontare ai figli dell’emergenza Covid-19

Ambiente e Benessere Michele Mattia, psichiatra e psicoterapeuta, ci parla di «Sessualità e ansia da prestazione», tema di un seminario aperto al pubblico che avrà luogo a ottobre

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 16 marzo 2020

Azione 12 Politica e Economia L’America reagisce al Covid-19 e le borse tracollano

Cultura e Spettacoli Il senso di un abbraccio ai tempi cupi del virus invisibile

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di Alfredo Venturi pagina 29

Luigi Baldelli

L’Italia resta a casa

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La grande assente di Peter Schiesser «In questa situazione, la grande assente è la psiche. Si parla di dati, di numeri, di fatti oggettivi, ma della psiche nessuno», mi dice un analista e psicoterapeuta. Provo a ricostruire il suo ragionamento con la memoria che mi ritrovo e un po’ di libertà giornalistica: «L’io dell’individuo vive una fragilità innata nel suo rapporto con la natura, con l’ambiente esterno, la paura del contagio è atavica, poiché una minaccia alla sua integrità, (...) di fronte a un io debole, poco strutturato e poco consapevole, che si definisce in forme collettive, la paura diventa collettiva, poiché è nel collettivo che proiettiamo le nostre paure individuali, se il nostro io non è abbastanza solido». Mi scuserò con l’analista se ho interpretato in modo insufficiente il suo pensiero, ma nell’ipotesi di aver capito bene, quanto mi ha detto aiuta a capire che, sì, anche se il virus non è ancora nei nostri corpi è ben saldo nella nostra mente e immagino anche nel nostro corpo, come emozione. È il motivo per cui continuiamo a pensare al coronavirus. I contagi sono ovviamente in crescita, secondo quanto afferma il Consiglio federale e i dati scientifici cui si affida (sennò non inaspri-

va le misure e le raccomandazioni), per cui la dimensione psichica assumerà un valore ancora più importante. Ciò significa che ognuno di noi, oltre alla dimensione clinica, sociale e professionale di questo Covid-19, deve integrare nella propria quotidianità quella dell’equilibrio mentale. Essere consapevoli che il nostro modo di reagire è figlio di un’eredità psichica dell’essere umano (sia con l’ansia, sia con la rimozione di una forte paura inconscia), può darci la possibilità di trascendere la dimensione collettiva e di trovare un equilibrio personale, che poi si estende alla collettività se sappiamo trasmetterlo al prossimo. Certo, la cascata di notizie allarmanti o comunque inquietanti non si arresterà nelle prossime settimane, e qualcuno dirà che i media (e i social media) amplificano oltre misura i pericoli e l’ansia. Ma i media sono semplicemente lo strumento delle nostre proiezioni, sono le specchio delle nostre brame, con le cose più belle del reame e le cose più brutte. Vediamo quel che proiettiamo: crediamo di vedere rappresentata nel mondo esterno quella che in realtà è un’immagine nostra, interiore. Basta saperlo, per prendere le misure e capire come funzioniamo, anche nel nostro rapporto con i media e i social media,

con le informazioni che ci giungono dal mondo esterno. E certo, questa epidemia, ormai dichiarata pandemia, sarà una grande lezione per tutti. Non essendo che agli inizi, è impossibile immaginarsi quel che accadrà. Dobbiamo accontentarci di capire quel che giorno per giorno ci arriva sul piatto. Per esempio: che cosa significa vivere confinati nelle proprie mura di casa, come capita oggi ai nostri vicini lombardi e presto potrebbe capitare a noi? Ci sarà tempo. Ci distrarremo tuffandoci nello specchio delle nostre brame: lo smartphone. Ma emergeranno cose nuove, e remote: una semplicità di vita, quel fare i conti con noi stessi e chi ci sta attorno, magari anche sotto forma di conflitti con chi ci attornia e con noi stessi – «sarà comunque utile», mi dice l’analista citato all’inizio. Su scala globale, l’umanità farà i conti con una fragilità della globalizzazione di cui non eravamo consapevoli. L’economia può incepparsi per un nonnulla, quando le rotelle dell’ingranaggio si allontanano tanto da non incastrarsi più; i virus viaggiano in business in aereo o sulle navi da crociera, e se in passato ci volevano anni per diffondere il contagio, oggi bastano pochi giorni o settimane. Giusto il tempo per poter ragionare su come proteggersi.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Attualità Migros

La Ferrovia viaggia su un nuovo binario Lavori in corso Un cantiere tecnologicamente avanzato si occupa della sostituzione della linea

su cui sale il treno della Ferrovia Monte Generoso Pierre Wüthrich La ferrovia del Monte Generoso è stata inaugurata nel 1890. Nei 130 anni trascorsi fino a oggi i binari non sono mai stati sostituiti. Ciò si deve da un lato alla eccezionale qualità del lavoro compiuto all’epoca, dall’altro al fatto che i treni, dalla frequenza relativamente limitata, viaggiano ad una velocità ridotta, toccando al massimo i 25 km/ora. Malgrado tutto questo, però, una perizia compiuta nel 2014 ha mostrato la necessità di un rinnovo che si protrarrà fino al 2027, al più tardi. Il cantiere si è aperto nel novembre del 2019 (vedi «Azione 46» dell’11 novembre scorso) e terminerà nel marzo del 2023. Gli operai lavorano soltanto nei mesi invernali, quando la linea non è utilizzata. Nel corso dei lavori vengono sostituiti all’incirca tra 30 e 40 metri di binari al giorno. La linea, della lunghezza di 9 km, viene poi aperta al transito dalla primavera all’autunno. Le équipe che si occupano dei lavori sono due e sono impegnate sei giorni su sette. Il lavoro chiede un grosso impegno fisico ai 12 operai di ognuno dei gruppi di lavoro. Infatti gran parte delle manovre sono effettuate a mano. Questo ad esempio quando occorre piegare i nuovi binari, utilizzando dei cric idraulici. Il costo dell’intervento, che è stato affidato ad aziende locali, è stimato attorno ai 22 milioni. I lavori non si limitano alla sostituzione della linea ferroviaria, ma anche alla ristrutturazione delle due stazioni intermedie, in modo

Un sopralluogo sul cantiere per valutare l’avanzamento dei lavori. (Ferrovia Monte Generoso)

da migliorare l’offerta ai passeggeri. La totalità dei costi è assunta dal Percento culturale di Migros. È quest’ultimo, infatti, che finanzia la compagnia ferroviaria dal 1941, momento in cui il fondatore di Migros, Gottlieb Duttweiler, l’aveva salvata dal fallimento, acquistandola.

La maggiore difficoltà del cantiere è di ordine logistico. Avviare sulle pendici della montagna 2000 tonnellate di acciaio, che comprendono binari, cremagliera e le 13’500 nuove traversine, è un lavoro che va accuratamente pianificato. Il trasporto dei 10’000 metri cubi di nuova massicciata è anch’esso un

Attenzione: apertura posticipata al 25 aprile L’apertura della stagione turistica sul Monte Generoso era prevista dal 28 marzo fino all’8 novembre. A causa però dell’attuale situazione relativa al Coronavirus in Ticino e nei paesi limitrofi, la Ferrovia Monte Generoso SA ha deciso di posticipare di quattro settimane l’inizio. L’apertura è dunque prevista per il 25-26 aprile (si veda sul nostro sito, www.azione.ch, il comunicato stampa ufficiale). Da allora il treno circolerà normalmente per permettere lo svolgersi di

una nuova stagione al Fiore di Pietra di Mario Botta e nei due ristoranti che vi sono ospitati. Gli oltre 50 km di sentieri e il panorama mozzafiato attendono i visitatori offrendo inoltre numerose attività.Il Fiore di Pietra organizzerà regolarmente dei pranzi gastronomici con accompagnamento musicale. In alcune serate, inoltre, sarà proposto un menu ticinese che valorizza il patrimonio culinario locale. Altri momenti speciali, nel corso

dell’anno, saranno gli aperitivi al tramonto e le sedute di yoga all’aria aperta. Il 21 giugno, in occasione del solstizio d’estate, sarà organizzato un treno speciale alle 04.15 per permettere ai passeggeri di ammirare l’alba dalla vetta. Nei mesi estivi, inoltre, sarà rimessa in attività la più vecchia locomotiva a vapore svizzera ancora in funzione (prenotazione obbligatoria). Programma dettagliato e orari sul sito www.montegeneroso.ch.

impegno gravoso, in particolare perché ogni convoglio non può caricare più di 4 metri cubi alla volta. Precisiamo inoltre che, lungo la linea, gli operai hanno uno spazio di lavoro relativamente limitato: tre metri tra pendici della montagna e precipizio. Per depositare i materiali necessari al lavoro occorre quindi dare prova di ingegnosità e di precisione. Tra l’altro è utile sapere che la sostituzione dei binari è legata ad un’azione di sponsorizzazione (https:// www.montegeneroso.ch/it/montegeneroso/130-anni) a cui tutti possono partecipare, sostenendo il costo di sostituzione di uno dei 441 elementi della cremagliera, al prezzo di 130 franchi l’uno. La somma raccolta servirà al restauro della piccola cappella che sorge a fianco del Fiore di Pietra di Mario Botta. Al momento attuale, già oltre il 30% degli elementi hanno trovato uno sponsor. Il nome di tutti i donatori sarà inciso su una lapide commemorativa prevista alla stazione di Capolago. A causa di problemi legati alle

La storica cremagliera. (M. Generoso)

condizioni meteorologiche del mese di novembre i lavori del cantiere sono iniziati con un certo ritardo: la neve ha infatti ostacolato la programmazione. Da gennaio, per contro, il bel tempo ha permesso di procedere più rapidamente del previsto. In questo modo, alla fine del primo inverno di lavoro la sostituzione del primo quarto dei binari, ossia circa 2 km, sarà realizzato come previsto.

Lo spirito del Monte Verità

Attività 2020 Pubblicato il programma annuale della Fondazione,

ma la situazione sanitaria generale ne modifica il calendario

È stato divulgato nelle scorse settimane il nuovo calendario annuale della Fondazione Monte Verità di Ascona. Come di consueto, il cartellone degli eventi,

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

sostenuti anche dal Percento culturale di Migros Ticino, propone al pubblico ticinese per il 2020 un’ampia panoramica di manifestazioni che rispecchiano l’impostazione pluridisciplinare della Fondazione stessa. Purtroppo, la complicata situazione legata alla diffusione del Coronavirus ha convinto gli organizzatori a sospendere le attività previste nei due mesi di marzo e aprile. Continuando ad approfondire una propria linea di pensiero, che vuole ri-

collegarsi alla ricerca spirituale e filosofica iniziata con la nascita di questa comunità nel primo 900, il programma generale appena pubblicato mette ora al centro dell’attenzione ventuno appuntamenti che spaziano dall’attività speculativa della Eranos Foundation, all’eredità lasciata dal lavoro del coreografo Rudolf Von Laban, per poi toccare altri campi dell’espressione intellettuale, come l’attività artistica (da segnalare in particolare in questo contesto la mostra in programma dal 28

maggio «Gli Arp al Ronco dei Fiori», che ripercorre l’epoca della permanenza ticinese di Jean Arp e Marguerite Arp-Hagenbach), e vari aspetti dell’attività cinematografica, vista come pretesto per la conoscenza e l’approfondimento di temi sociali e storici. Anche teatro, musica e letteratura fanno parte naturalmente della proposta culturale del Monte Verità: da ricordare in questo contesto l’opera teatrale Straordinaria tu, dedicata a tre donne speciali della storia della letteratura, il

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

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La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

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Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Concerto al buio di Sandro Schneebeli e Max Pizio, e gli Eventi letterari (posticipati al 29 ottobre). Informazioni generali

Il programma aggiornato è sul sito www.monteverità.org In collaborazione con

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Società e Territorio Progettare coinvolgendo L’architettura partecipata è un nuovo modo di progettare che coinvolge architetto, committente e utente finale

I benefici del «dolce far niente» Perdere tempo, avere tempi morti: una grande risorsa, soprattutto per i più piccoli, che non va demonizzata pagina 12

La separazione dei genitori Due matrimoni su cinque in Svizzera finiscono in divorzio, un’esperienza spesso dolorosa per i figli. Intervista alla psicologa e psicoterapeuta Angela Nardella pagina 13

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Come raccontare il Covid-19 ai figli

Il caffè delle mamme L’importante è dire la verità senza alimentare paure per evitare il «contagio psichico»

Simona Ravizza «Diciamogli la verità, ma senza alimentare paure». In tempi di Coronavirus voglio portare a Il Caffè delle mamme, che in questi giorni difficili si svolge via Whatsapp, l’esortazione dello psicoterapeuta Federico Bianchi di Castelbianco che guida la task force di esperti del ministero dell’Istruzione italiano inviati a scuola per aiutare i bambini nelle emergenze. La convinzione è che imparare a essere sinceri con i propri figli senza trasmettere ansia è un insegnamento che ci può essere utile anche nelle altre circostanze che la vita ci può riservare. Vediamo cosa bisogna dire e cosa no per il Covid-19. Capito il paradigma lo possiamo poi replicare al momento del bisogno. La prima raccomandazione di Federico Bianchi di Castelbianco, intervistato da «Azione»: «Se, come nel caso del Coronavirus, non sono loro il bersaglio bisogna dirlo subito chiaramente. Vanno messe le distanze tra quel che può accadere a loro e quello che può

accadere ad altri. Vanno dunque informati, ma chiarendo bene che non è successo a loro». Siccome però il Coronavirus spaventa per primi mamme e papà, dobbiamo innanzitutto essere convinti noi che i bambini sono al riparo da problemi gravi. È bene, dunque, che conosciamo le statistiche: «Da uno studio pubblicato sul China CDC Weekly il 17 febbraio da parte del “The novel coronavirus Pneumonia Emergency Response Epidemiology Team” emerge che su un totale di 72’314 pazienti, di cui 44’672 casi confermati di Covid-19, gli ammalati di età inferiore ai 19 anni sono solo 965 e tra questi si è registrato appena un caso di decesso tra i 10 e i 19 anni – ci spiega Gian Vincenzo Zuccotti, primario di Pediatria all’Ospedale dei Bambini V. Buzzi di Milano –. Da ciò si stima che solo il 2% di questa coorte appartiene alla popolazione pediatrica e che il tasso di mortalità in tale popolazione è del 1‰, di gran lunga inferiore rispetto a quello calcolato su tutta la popolazione coinvolta in que-

sta analisi, che risulta essere del 2,3%». La paura viene alimentata da tutto ciò che non conosciamo, ma va messa da parte quando comunichiamo con i bambini, lasciando il posto all’informazione veritiera e cercando di dare un messaggio di speranza e coraggio. «La chiave vincente della comunicazione è la semplicità – sottolinea Zuccotti –. Nel caso del Coronavirus possiamo spiegare che è un virus con una sintomatologia simile all’influenza e comporta tosse, febbre, raffreddore. Molte persone si sono infettate senza presentare a sintomi, quindi stanno bene. Ma, come per altre malattie, ci sono delle persone più deboli che possono avere sintomi importanti e che le persone più a rischio possono essere ricoverate e possono anche morire. Ma non i bambini». Per lo psicoterapeuta Bianchi di Castelbianco è meglio non fare vedere ai più piccoli il disegno del Coronavirus: «Non bisogna alimentare il mostro!». Prima di dettare ai bambini le regole da seguire per non restare conta-

giati e non trasmettere il virus agli altri, mamme e papà devono alimentare la voglia di reazione con frasi del tipo: «Quando andiamo fuori non dobbiamo prenderlo né passarlo agli altri, dunque non bisogna stare troppo vicino alla gente né portare alla bocca le mani che vanno sempre lavate o disinfettate bene». Ribadisce Bianchi di Castelbianco: «La chiave, in questo caso come in altri, è trasformare i bambini da soggetti che subiscono a persone che invece agiscono per proteggere se stessi e gli altri». Vanno osservate delle regole: bisogna cercare di evitare la diffusione del virus che si trasmette con le goccioline di saliva, per cui ci si deve lavare frequentemente le mani, starnutire utilizzando il fazzoletto, non portare alla bocca oggetti, magari passati tra le mani o la bocca dei compagni di classe o di gioco. «Ma le regole non devono diventare un’ossessione per i genitori anche in casa dove non ci sono pericoli», scandisce lo psicoterapeuta. Non possiamo, poi, rinunciare a

trasmettere un messaggio di speranza: «Non dobbiamo nascondere ai bambini che il Covid-19 è un virus nuovo che prima non si conosceva e che per questo motivo non possediamo né il vaccino né una terapia mirata come per l’influenza – spiega Zuccotti –. Ma va messo ben in risalto anche che gli scienziati di tutto il mondo stanno studiando nuove terapie e un vaccino e in questo modo, come è già successo tante altre volte nella storia, si troverà una soluzione per prevenire e curare anche questa infezione». Insomma, il Coronavirus può essere il banco di prova per noi mamme e papà per imparare a essere chiari e convincenti con i nostri figli senza trasmettere loro quello che Bianchi di Castelbianco definisce contagio psichico. Per i bambini allo stesso tempo da questa brutta storia può arrivare un importante insegnamento sulla responsabilità civile: «Ciascuno deve fare il suo per aiutare le autorità a contenere l’epidemia». Entrambi i messaggi resteranno dopo il Covid-19.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Idee e acquisti per la settimana

Buon compleanno Micasa e SportXX S. Antonino!

Per spuntini sfiziosi

Novità Due morbidissimi pani senza crosta

per preparare ricette veloci e gustose

Attualità I due negozi specializzati festeggiano il 10° anniversario

Tresol Group/Däwis Pulga

dalla loro inaugurazione. In occasione dell’apertura straordinaria del 19 marzo, San Giuseppe, è previsto il 10% di riduzione su tutto l’assortimento

Pan Piuma Pocket ai cereali o al grano duro 150 g Fr. 2.–

Per poter gustare un panino imbottito ad arte bisogna scegliere un pane di qualità, come lo sono per esempio i due nuovi PanPiuma disponibili nel pratico formato pocket, perfetti per le piccole economie domestiche o da portare sempre con sé. Soffici e senza crosta, prodotti con pochi e semplici ingredienti, sono adatti non solo a preparare gustosissimi sandwich, ma anche per tramezzini, toast, stuzzichini per l’aperitivo e tante altre bon-

tà secondo la propria fantasia e gusto. PanPiuma grano duro, dal sapore deciso, è preparato con 7 ingredienti genuini quali semola, acqua, farina, olio di oliva, lievito naturale, sale marino e farina di frumento; mentre PanPiuma fiocchi di cereali, ricco di fibre, contiene i 5 saporiti cereali: farro, avena, orzo, segale e frumento. Entrambi sono Vegan ok e privi di additivi, conservanti, zuccheri, olio di palma o derivati animali.

L’aglio orsino nostrano Attualità L’aromatica pianta

primaverile è tornata

Giovedì 25 marzo 2010, presso il Centro S. Antonino, al secondo piano dello stabile adiacente al supermercato, aprivano i battenti i due negozi specializzati Migros Micasa e SportXX. Su una superficie di vendita totale di 4502 metri quadrati (di cui 3275 destinati a Micasa e 1227 a SportXX), essi offrono ancora oggi una delle più vaste selezioni del Sopraceneri di articoli per appassionati di ogni tipo di sport e per chi nell’arredo e negli accessori per la casa predilige sempre qualità e convenienza. Naturalmente, già 10 anni fa nello sviluppo dei due punti vendita Migros Ticino aveva prestato particolare attenzione all’aspetto ecologico e al

risparmio energetico, grazie per esempio a soluzioni tecniche che tenessero in considerazione la riduzione delle emissioni di CO2 e a un sistema di illuminazione più efficiente, con corrente elettrica proveniente al 100% da fonti rinnovabili. Due negozi al passo coi tempi

Fin dalla loro nascita, Micasa e SportXX si sono sempre contraddistinti per l’elevata qualità dei prodotti e servizi offerti, nonché per l’affidabilità e la competenza dei suoi collaboratori. Per SportXX lo sport è un divertimento a cui nessuno dovrebbe rinunciare. Il suo vasto assortimento negli ambiti sportivi più disparati include numerosi marchi leader internazionali, come pure articoli a marca propria dall’ottimo rapporto qualità-prezzo. Attualmente potrete per esempio scoprire tutti i nuovi modelli di biciclette, sia tradizionali che elettriche, per accogliere la

primavera all’insegna del movimento. Fresco, funzionale, accogliente, contemporaneo, raffinato, vantaggioso… l’arredamento di Micasa si distingue per l’offerta specializzata che rende l’utilizzo un vero spasso in ogni angolo della casa. L’attenzione per i dettagli e la sostenibilità dei materiali impiegati sono punti chiave dell’assortimento di mobili e accessori. Da Micasa ognuno troverà l’ispirazione giusta in grado di sorprendere. Attività per il giubileo

Per festeggiare degnamente il 10° compleanno di Micasa e SportXX S. Antonino, sono previste alcune allettanti attività rivolte alla clientela, in occasione dell’apertura straordinaria di giovedì 19 marzo, San Giuseppe, dalle ore 10 alle 18. Durante questa giornata speciale vi aspetta infatti il 10% di riduzione su tutto l’assortimento dei due negozi specializzati.

Con l’arrivo della primavera, ritorna anche il profumatissimo aglio orsino. Questa pianta aromatica di un bel colore verde brillante conferisce a molte ricette quel tocco di sapore in più. Dal pesto ai sughi, dalle zuppe al burro aromatizzato, oppure impiegato per condire carni, pesci, paste o riso, non c’è praticamente limite alla fantasia nell’utilizzo dell’aglio orsino in cucina. Siccome la sua stagione è di breve durata, si può anche congelare per diversi mesi senza che il suo aro-

ma ne risenta particolarmente. Oltre ad essere una delicatezza culinaria, l’aglio orsino contiene anche preziose sostanze benefiche per l’organismo, come vitamina C, potassio, calcio e ferro. Nei reparti verdura Migros, attualmente potete trovare l’aglio orsino di coltivazione ticinese: da provare assolutamente. Aglio orsino mazzo da 100 g Fr. 2.95 In vendita nelle maggiori filiali Migros


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Idee e acquisti per la settimana

Aspettando la Pasqua

Attualità Gustando l’ottima colomba pasquale della Jowa ci si immerge già nell’atmosfera della nuova stagione

I supermercati di Migros Ticino già sfoggiano un colorato look primaverile e il ricco assortimento dedicato all’importante ricorrenza della Pasqua ha fatto capolino sugli scaffali di tutto il cantone. Della partita fa naturalmente parte la colomba, il dolce per eccellenza della festività, disponibile in decine di varietà per la felicità di grandi e piccoli golosoni. Chi predilige i prodotti del nostro territorio, da ben 40 anni apprezza la colomba San Antonio, confezionata con grande cura dalla Jowa di S. Antonino. Il soffice dolce è ottenibile in diverse varianti al fine di soddisfare le molteplici richieste da parte della clientela: dalla colombella da 120 g per i piccoli languorini a quella artigianale particolarmente ricca di burro e canditi; dalla Colomba Classica in vari formati e grammature fino a quella senza frutta candita per chi non apprezza questo tipo di ingrediente. Denominatore comune di tutte le specialità: sono preparate a partire da pregiato lievito madre, elemento che contribuisce in modo determinante alla qualità organolettica del prodotto finale. Altri punti chiave per ottenere un dolce di qualità sono altresì l’utilizzo di un’alta percentuale di burro, la lunga lievitazione naturale dell’impasto che può durare fino a 35 ore e, chiaramente,

l’esperta manualità artigianale degli addetti Jowa alla produzione del tipico dolce festivo. Origini e simbologia

Nella religione cristiana, la colomba è simbolo di pace, salvezza e resurrezione. Tra le diverse leggende legate all’origine del dolce, una narra che esso sia nato a Pavia, durante l’assedio della città da parte dei Longobardi guidati da Re Alboino, nella seconda metà del 500. Per evitare che la città venisse distrutta, un panettiere ebbe l’idea di confezionare un pane dolce a forma di colomba da regalare al re in segno di pace e clemenza verso la popolazione.

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Società e Territorio Nel 2017 si sono svolti dei laboratori di urbanismo partecipativo con i bambini dei quartieri di Pregassona e Molino Nuovo. (www.studioits.ch)

Lo stupore è una grande risorsa Emozioni La storia della scienza ma anche

della filosofia e dell’arte si è svolta attorno a questa attitudine umana Massimo Negrotti

L’architettura diventa partecipativa

Incontri Un modo di progettare che coinvolga anche l’utente finale:

ce ne parla l’architetta Sophie Maffioli

Valentina Grignoli «La libertà non è star sopra un albero, non è neanche un gesto o un’invenzione, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione». Così cantava Giorgio Gaber in Libertà, bellissima canzone scritta nel 1972 con Luporini. Si parlava di democrazia, di libertà intesa come partecipazione sociale, e per una qualche ragione osmotica, continuo a canticchiarla da quando ho iniziato ad interessarmi a questo nuovo mondo in evoluzione che è l’architettura partecipata. Di che cosa si tratta? Le parole parlano da sole: un modo di progettare che coinvolga, oltre all’architetto e al committente, l’utente finale, colui che beneficerà realmente del progetto e che soprattutto conosce meglio di chiunque altro i propri bisogni. Sembra scontato, idealmente, ma sulla carta sappiamo benissimo che non è così. Accade infatti che l’architettura appaia fredda e distante, come se tra l’estetica e la comodità ci fosse un abisso, se non incolmabile di sicuro valicabile solo muniti di compromessi ed elasticità. In generale si può affermare che l’architettura partecipata sia una maniera di approcciarsi al tema dello spazio che preveda un coinvolgimento attivo dei partecipanti portatori di interesse e che questa inclusione nel processo favorisca lo sviluppo di spazi più adatti ai reali bisogni, funzionali ed estetici. Gli utenti finali diventano così specialisti dei loro bisogni e invitati ad avere un rapporto di scambio equo con i progettisti e i committenti, anche se questo comporta inevitabilmente una redifinizione di ruoli. Sarà necessario e fondamentale trovare un linguaggio comune comprensibile a tutti, e soprattutto avvalersi di strumenti per gestire processi democratici che coinvolgano i numeri e… il gusto. Insomma, significa per gli architetti imbarcarsi in un viaggio per nulla scontato e in continua evoluzione. Ma la meta è sicuramente attrattiva: oltre a garantire infatti la qualità spaziale, l’architettura partecipata avrà un impatto positivo sulla socialità dei partecipanti, sulla loro educazione civica e sulla loro educazione allo spazio, all’estetica. Quasi una missione quindi per i professionisti. Ho incontrato l’architetta Sophie Maffioli, che nel 2016 ha fondato insieme a Paola Tallarico lo studio It’s a Lugano, che si occupa anche di architettura partecipata e mediazione di progetto. Sul

nostro territorio è una delle poche realtà di questo tipo. Come mai si è interessata a questo ambito particolare?

Seguivo i corsi di Architettura d’Interni alla Supsi quando abbiamo affrontato un progetto che consisteva nel riattivare il tessuto urbano attraverso degli interventi micro-architettonici, installazioni effimere: ho scoperto la dimensione sociale del mio mestiere! Ho capito che fare architettura è anche pensare uno spazio pubblico, con una dimensione sociale forte. Ho quindi deciso di fare un master che andasse in quella direzione, a Basilea. In Svizzera per ora non c’è un master specifico in architettura partecipata, anche se le scuole di architettura si interessano al tema dedicandogli degli approfondimenti. Quali sono i punti forti di questo tipo di approccio?

Trovo di interessante il fatto che si riesca a garantire uno spazio che corrisponde al desiderio di chi poi lo userà. L’architetto deve mettersi un po’ da parte, essere meno dominante. Questo tipo di processo è un esercizio democratico e utilissimo. È concreto: non solo un dialogo, ma anche il prodotto di un processo partecipato, è tangibile perché lo costruisci. C’è infatti da parte di tutti una presa di coscienza: come si prendono decisioni insieme? In architettura c’è però sempre il problema dell’estetica: è difficile da discutere, non è qualcosa che si può cambiare. Non bisogna quindi dimenticarsi la questione qualitativa, e qui rientrano le conoscenze e l’esperienza dell’architetto. Arriviamo quindi a scoprire i limiti…

Il nostro rischio è arrivare a una scelta in cui nessuno è felice. Il gusto è importante. Un altro è il tempo, l’investimento. È un processo molto più lento, quando inizi il progetto ci sono delle condizioni che col tempo possono cambiare. Insomma, parti e non sai dove arriverai, questa cosa non è facile da spiegare e da accettare, soprattutto per il committente! Anche se è indispensabile che alcune cose siano già decise a priori, altrimenti senza limiti non si va da nessuna parte. E in realtà, come architetto, sai benissimo dove vuoi andare. Com’è la situazione nel mondo e in Svizzera?

Le realtà attive nei campi dell’architettura partecipativa in Europa e nel mondo sono davvero tante e molto diverse tra loro. Posso citare come esempio molto valido Die Baupiloten a Berlino. In

Svizzera mi sembra meno sviluppato, forse per una questione di numeri, perché l’esercizio democratico qui è già presente, o perché le città sono piccole e quindi anche i progetti. L’architettura partecipata è spesso un metodo per informare un grande pubblico riguardo grandi progetti. Da noi le problematiche sociali sono inoltre piuttosto contenute, e spesso questo tipo di architettura è volto a contribuire alla socialità e al vivere insieme. In Ticino l’approccio partecipativo è praticamente inesistente, forse anche per mancanza di conoscenza della pratica. In quest’ambito nel 2017 abbiamo realizzato per la Città di Lugano dei laboratori di urbanismo partecipativo con i bambini dei quartieri di Pregassona e Molino Nuovo. Attualmente ci stiamo occupando della «Casa di Progetto», promossa dall’Università della Svizzera italiana e dalla Città, un accompagnamento per la popolazione alla creazione del nuovo campus Usi Supsi, che inaugura in Ticino un nuovo modo di affrontare i grandi progetti urbanistici (www.studioits.ch). Come altra esperienza simile in Ticino scopro il progetto con-i-cittadini di Lugano promosso dallo studio consultati SA in vista del nuovo piano regolatore per Lugano Brè e Aldesago. In Svizzera, a Ginevra, sono diverse le realtà di questo tipo, segnalo una su tutte Aidec (www.aidec.ch). Si tratta di un’associazione che riunisce diverse competenze, un geografo urbanista – Diego Rigamonti, un architetto, un carpentiere antropologo, con lo scopo di sviluppare pratiche partecipative sul territorio, lavorando coi cittadini per sviluppare il mobilio urbano e gli spazi pubblici in maniera intelligente. I progetti sono vari, molto interessante quello web di cartografia partecipativa. «A Ginevra ci sono dei progetti, con associazioni piccole, – ci racconta Diego Rigamonti – bisogna trovarsi le occasioni, crearsi gli spazi per progetti del genere, basta volerlo. Con l’architettura partecipata si scoprono delle piccole nuances nei progetti che li rendono interessanti e piacciono alla gente. Ci si incontra, e lavorare insieme offre un’intelligenza collettiva. Certo, è una sorta di militantismo, per riuscire a farsi finanziare, ma è una realtà che prende sempre più piede». Del resto, scriveva già l’architetto teorico Giancarlo De Carlo: «l’architettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti» (L’architettura della partecipazione, 1972).

Nonostante in medicina il termine stupore abbia un significato poco rassicurante e si riferisca a stati di torpore, nel linguaggio ordinario esso ha invece un chiaro riferimento alla sorpresa, alla meraviglia, talvolta persino all’incanto. Quasi sempre la parola in questione è associata ad emozioni positive anche se, non raramente, si pone come premessa dello spavento o persino del terrore. In ogni caso, ciò che sta alla base dello stupore è la constatazione, spesso improvvisa, di un fatto o un evento inattesi, un fenomeno che, insomma, non si colloca agevolmente nella «normalità» probabile delle cose. Definita in questo modo, la capacità di provare stupore può essere attribuita anche agli animali poiché, per loro, la normalità è assai più rigida e rilevante che non per l’uomo. D’altra parte, quando un animale si stupisce di qualcosa, pressoché inevitabilmente reagisce con la fuga proprio perché ogni novità disturba la mappa delle sue abitudini. Per l’uomo la risposta allo stupore prende invece forme appartenenti ad uno spettro molto più vasto, che vanno dal timore all’entusiasmo, dal tentativo di approfondire la conoscenza sul fatto che ci ha stupito alla tentazione di imitarlo e riprodurlo, senza escludere la pura contemplazione e l’attribuzione all’evento di caratteri trascendentali. In tutti i casi, lo stupore si presenta come la prima reazione posta in essere dalla rottura di un andamento lineare e prevedibile. Ricordo che mia nonna raccontava del giorno in cui, ragazzina, uscendo in strada vide per la prima volta un’automobile. Spaventata, ma forse anche in parte divertita, corse in casa gridando alla madre di aver visto muoversi una «carrozza senza cavalli», ossia diversa e nuova rispetto ai veicoli che normalmente si vedevano muovere lungo le strade della città. Naturalmente il processo di classificazione e normalizzazione delle percezioni si sviluppa dalla nascita fino all’età adulta. Per un bambino tutto è novità e dunque tutto stupisce ma la sua relazione con le cose quotidiane non è affatto dettata dalla paura. Anzi, come tutti i genitori sanno, uno dei pericoli più grandi sta proprio nella tendenza di ogni bambino a mettere le mani in ogni luogo, in ogni cassetto e ovunque egli creda si possa celare qualcosa di nuovo. Poi si sbarazza rapidamente dell’esperienza appena vissuta e passa ad altro, testimoniando, con ciò, quanto sia elevata la frequenza con la quale l’essere umano, nei primi anni di crescita, ha un bisogno congenito di variazioni, cioè di rottura della continuità. Tuttavia, se il bambino cerca costantemente eventi e cose che generino stupore, diversa è la condizione dell’adulto poiché la continuità prende gradatamente il posto della variazione e il concetto di «normalità» assume il valore preponderante. Allo stupore l’adulto riserva però una duplice funzione. Da un lato, poiché lo stupore positivo rimane pur sempre, di tanto in tanto, un

I bambini cercano costantemente eventi e cose che generino stupore. (Maessive)

retaggio attraente, lo vuole programmare, cosa che viene realizzata con la visione di un film o un viaggio in terre lontane, con l’acquisto di un bene innovativo, la visione, prevista, di un’eclissi o magari assistendo allo spettacolo di un prestigiatore. Dall’altro, cerca e spera di evitare lo stupore negativo, quello, cioè, che proverrebbe da fatti che si presenterebbero sicuramente sorprendenti ma che includano dinamiche o conseguenze altrettanto sicuramente pericolose, come correre a 200 km/h su strade urbane, puntare un laser di alta potenza su un serbatoio di gas o mettere insieme prodotti chimici diversi e sconosciuti. Ovviamente, a questa categoria di eventi appartiene anche tutta la classe dei fenomeni non controllabili dall’uomo, come terremoti , inondazioni o epidemie, durante i quali lo stupore si trasforma rapidamente in panico. In questo quadro, i mille volti dello stupore lasciano però scorgere una sorta di area speciale che si può individuare nella scienza poiché essa è il luogo specifico in cui lo stupore svolge un ruolo motivante. Dato che la scienza, per definizione, lavora sull’ignoto da decifrare, essa è la sede in cui gli uomini guardano alla realtà come contesto dietro o sotto il quale si nascondo fatti inaspettati e possibili novità da portare alla luce. Non si tratta solo di lasciarsi affascinare da fenomeni noti e magari ancora in attesa di spiegazione, come accade in medicina, ma anche, se non soprattutto, di accedere a nuovi modi di guardare alla stessa realtà, quella che viene assunta come ovvia e scontata nella vita quotidiana di ogni epoca. In fondo, tutta la storia della scienza – ma anche, in termini diversi, della filosofia e dell’arte – si è svolta attorno a questa attitudine umana, non molto diffusa ma strategica. Einstein ha scritto che «Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti» e, di conseguenza, dovremmo forse tornare o rimanere tutti un po’ bambini. In effetti, per lo scienziato, quello teorico in particolare, l’individuazione di un problema nuovo, con lo stupore che l’accompagna, è il motore fondamentale ed esso entra in azione, paradossalmente, persino nei confronti di fenomeni apparentemente normali, che, cioè, non destano alcuna pubblica meraviglia. È nata così, per esempio, la fisica quantistica quando uomini come Werner Heisenberg si sono chiesti «…perché, nel mondo della materia, vi sono forme e qualità che ricorrono continuamente» ossia secondo le modalità che ogni giorno constatiamo senza vedervi alcun problema degno di nota. Anche qui, la lezione che ci arriva dalla scienza consiste nell’invito a guardare al mondo come un pozzo inesauribile di problemi potenziali, fatto di discrepanze, asimmetrie o incongruenze. Senza lo stupore, e lo stimolo che ne deriva, per cose di questa natura non vi sarebbe stato alcuno sviluppo né spirituale né materiale per l’umanità né sussisterebbe alcuna speranza per un ulteriore avanzamento.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Società e Territorio

Le virtù del «dolce far niente»

Elogio della lentezza I benefici del «perdere tempo» sono molteplici, soprattutto per i più piccoli. Le giornate

incastrate tra internet e attività continue danneggiano la creatività, l’autonomia e la crescita

Stefania Prandi Sognare a occhi aperti, perdendo tempo, dovrebbe essere parte della nostra routine. Patricia Hampl, educatrice e scrittrice, in The Art of the Wasted Day (L’arte del giorno perso), pubblicato da Viking, scrive che «il dolce far niente» andrebbe valorizzato e non demonizzato. Le grandi menti del passato indugiavano nei loro pensieri senza sensi di colpa né ansia. Come ricorda Hampl, il filosofo francese Michel de Montaigne si ritirò, a trentasette anni, in una torre, per avere intere giornate per sé. Lo scrittore Andrew Santella sostiene che rimandare le scadenze faccia bene alla creatività. In An Overdue History of Procrastination, from Leonardo and Darwin to You and Me (Una storia tardiva della procrastinazione, da Leonardo e Darwin a te e me), edito da Dey Street Books, racconta che Leonardo da Vinci faticava a rispettare le deadline.

Il dolce far niente non andrebbe demonizzato: le grandi menti del passato, infatti, indugiavano nei loro pensieri e procrastinavano le scadenze senza sensi di colpa né ansia Ad esempio, il famoso dipinto La vergine delle rocce sarebbe dovuto essere pronto in sette mesi e invece venne consegnato dopo venticinque anni. Il culto dell’efficienza di oggi è sopravvalutato: la vita diventa molto più interessante e divertente quando la si prende con calma. «In un’epoca di accelerazione, non c’è niente di più esilarante che andare piano. In un’epoca di distrazioni, non c’è niente di più lussuoso del prestare attenzione. In un’epoca di movimento costante, niente è più urgente dello stare fermi», ha detto Pico Iyer, saggista e romanziere – tra i suoi libri L’arte della quiete. Come viaggiare stando fermi (Mondadori) – in un «Ted talk» con oltre tre milioni di visite, sottotitolato in trentuno lingue. La situazione di crisi sanitaria attuale, causata dalla diffusione del coronavirus COVID-19, sta costringendo molte e molti a rallentare. Anche i bambini, spesso coinvolti nella frenesia,

Ai bambini serve anche la noia e il momento «morto» per mettersi in moto e sviluppare la creatività. (Marka)

con le vite iper-connesse e incastrate tra scuola e attività varie, sono portati a un cambio drastico che, nonostante tutto, può portare benefici. Secondo Nicoletta Ballabio, insegnante, ed Elena Pucci, psicologa, autrici del saggio A passo lento. Pensieri, idee, proposte per educare alla lentezza nel tempo della velocità (Il Ciliegio), «solo nella lentezza si conquistano tappe indispensabili, si consolidano stili di relazione e di vita, si costruisce, si può lasciare spazio a ciò che conta. Solo scoprendo la lentezza ci si può prendere cura, solo senza fretta si può vedere in un seme il frutto che sarà. Vale allora la pena di spendere energie e rilanciare una sfida educativa che faccia del tempo lento uno dei suoi obiettivi». Troppe attività creano un ritmo convulso: stimoli eccessivi generano caos e di riflesso confusione. Paradossalmente, riempiendo le giornate di corsi, si ottiene l’effetto contrario a quello sperato. «I bambini e le bambine troppo impegnate raggiungono un numero minore di obiettivi in autonomia, rispetto ai coetanei lasciati liberi di giocare, spe-

rimentare e dilettarsi in attività meno strutturate e di auto esplorazione, tra cui spicca sicuramente il gioco libero da soli o con gli amici». Le loro riflessioni si ispirano all’«educazione lenta», un apprendimento in risposta alla velocità che toglie il senso delle cose, spingendo verso una società nevrotica e spersonalizzata. Tra i loro testi di riferimento, Elogio dell’educazione lenta (La Scuola) dell’educatore Joan Domènech Fransesch e La pedagogia della lumaca, per una scuola lenta e non violenta (EMI) del maestro Gianfranco Zavalloni. «Le attività extrascolastiche positive sono quelle basate sulle esperienze. È l’esperienza in sé che serve, che dà modo di apprendere competenze. Il momento “morto” consente di capire cosa piace e porta le bambine e i bambini a mettersi in moto» spiega ad «Azione» Nicoletta Ballabio. E aggiunge: «Se non si dà spazio alla noia sicuramente i piccoli perdono la voglia di imparare e non riescono a diventare creativi. Io constato di persona a scuola quanto sia difficile gestire delle vite troppo piene.

Durante l’intervallo per i miei alunni diventa quasi difficile giocare, talmente sono abituati ad avere il tempo organizzato dagli adulti». Dice Elena Pucci: «I genitori hanno una forte responsabilità perché devono filtrare le richieste dei bambini che, essendo iperstimolati, chiedono di fare molte attività. E devono anche fare i conti con le pressioni di una società competitiva: ai propri figli si vogliono offrire sempre più opportunità, ma si deve capire che è necessario pensare con la propria testa e andare in controtendenza. Non si può fare tutto e non si può essere perfetti. Una bambina di nove anni che seguo come psicologa, che ha la settimana sempre piena di cose, mi ha detto: la domenica io non voglio far niente perché ogni tanto proprio ci vuole». Un altro compito degli adulti è aiutare a decelerare la crescita. Le pressioni sociali, dovute anche alle molte informazioni e stimoli che circolano su internet, portano all’«adultizzazione», al bruciare le tappe, che poi non sono più percorribili una volta passate.

«Dall’abbigliamento, agli atteggiamenti, al tipo di musica che si ascolta, dobbiamo sapere dire: non sei abbastanza grande per questo, non è ancora il momento. Solo così possiamo ridare ai piccoli la loro vera età». Altri consigli per recuperare una dimensione più adatta ai ritmi umani, validi per adulti e piccini: riservare dei momenti, nell’arco della giornata, per raccontarsi cosa si è fatto; ritagliarsi la possibilità di fare qualcosa per bene, come ad esempio apparecchiare una bella tavola, almeno una volta la settimana; in generale soffermarsi sui piccoli impegni che costringono a rallentare. E ancora: recuperare riti che danno un ritmo, un senso alle stagioni. Le due autrici suggeriscono di rispolverare i vecchi giochi di società. «I videogame non sono dannosi, perché hanno una loro utilità, ma non possono rappresentare l’unica dimensione ludica perché costringono, di per sé, alla velocità. Crediamo che vadano recuperati gli spazi in cui si coltiva il pensiero riflessivo». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Società e Territorio

Se i genitori si separano

Famiglia Due matrimoni su cinque in Svizzera finiscono in divorzio, un’esperienza spesso dolorosa per i figli.

Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta Angela Nardella Alessandra Ostini Sutto In Svizzera due matrimoni su cinque finiscono in divorzio. Questa non prevista interruzione dell’unione coincide in genere con un periodo duro per i coniugi, e non solo. Nel caso in cui siano presenti dei figli, essi subiscono infatti, per forza di cose, la decisione dei propri genitori di separarsi, che è per loro fonte di fatica e sofferenza. «I figli si aspettano che i loro genitori stiano insieme per sempre. Questa idea nasce dal fatto che con loro da subito viene creato un profondo rapporto fatto di ricerca, amore e idealizzazione. I bambini danno per scontato la presenza e la cura parentale e sanno che la loro vita dipende dagli adulti di riferimento», afferma Angela Nardella, psicologa e psicoterapeuta, attiva presso la Clinica Psiche di Lugano. Di conseguenza per fare in modo che i figli elaborino la separazione nel modo meno gravoso possibile è necessario che sia la mamma sia il papà li rassicurino sul piano genitoriale. «La separazione avviene nella coppia affettiva e non in quella parentale e i bambini hanno bisogno di essere rassicurati sull’idea che, nonostante tutto, i loro genitori ci saranno sempre per loro», continua Nardella. Anche il clima emotivo tra i genitori durante, e subito dopo, la separazione è un elemento importante. «I genitori devono avere la maturità necessaria per non coinvolgere i figli nelle loro eventuali conflittualità e per parlare con loro a proposito di emozioni, rasserenando, come detto, i bambini. Se necessario, è bene rivolgersi ad uno psicologo psicoterapeuta che aiuti il figlio a estrinsecare le proprie paure e difficoltà», spiega Angela Nardella. Il ricorso ad un esperto è particolarmente auspicabile nei casi in cui la separazione sia eccessivamente conflittuale oppure possa mettere uno dei genitori in un profondo disagio psicologico. «La sofferenza del genitore abbandonato o tradito non deve entrare nel mondo affettivo e psicologico del figlio – commenta la psicoterapeuta – una presa a carico può anche aiutare nel caso in cui un bambino viva un’alienazione parentale derivante dall’idea che un genitore sia colpevole della rottura». Mantenere un buon rapporto con entrambi i genitori mitiga gli effetti negativi del divorzio sui figli, sui quali, comunque, incidono un insieme di elementi – di tipo sociale, economico, legale e psicologico – che possono aumentare o diminuire lo stress legato all’atto della separazione. L’incidenza di disturbi, di tipo affettivo, emotivo o comportamentale, di una certa durata ed importanza nei figli di genitori separati comunque generalmente è bassa. Quando lo stato di disagio perdura nel tempo, ciò è con ogni probabilità da ricondurre ad una situazione problematica preesistente, a cui la separazione non ha messo fine. In genere la situazione che si presenta è però piuttosto quella in cui la separazione diviene l’unica via per interrompere una situazione di conflitto o una relazione malsana o tormentata. A tal proposito è bene sfatare la credenza secondo la quale «per i figli» sia meglio che i genitori restino insieme. In realtà il fatto che i genitori stiano insieme o separati ha poca influenza sul benessere psicologico dei figli, mentre il fatto che siano in conflitto può risultare dannoso per l’equilibrio emotivo di bambini e ragazzi. Un conflitto prolungato crea infatti un clima famigliare teso e, in un tale contesto, è verosimile che i genitori siano meno propensi verso i figli. Capita allora che questi ultimi tendano a comportarsi male o esasperino alcuni segnali di ri-

Il non detto può creare false attese o speranze, per questo motivo è meglio dire ai figli quello che sta succedendo nella coppia. (Marka)

cerca di attenzione, instaurando così un circolo vizioso negativo nei rapporti. «Le problematiche del bambino sono direttamente proporzionali al livello di conflittualità tra i genitori. È meglio avere genitori separati e sereni piuttosto che conviventi e conflittuali», commenta Angela Nardella. Il divorzio o la separazione, pur rappresentando il fallimento di un progetto, risultano quindi un fattore protettivo per il bambino nel caso in cui sanciscono il passaggio da una famiglia perennemente in tensione a un nucleo famigliare più sereno ed equilibrato. Ma cosa comporta per il bambino il fatto di doversi adattare ad una nuova situazione famigliare? «Sicuramente non è un processo immediato; per natura però gli individui tendono a ricercare il miglioramento della qualità di vita. Nello specifico poi il bambino desidera garantirsi l’amore dei suoi genitori e la sopravvivenza. Se queste basi sono mantenute in un apparato migliorativo, egli non farà quindi fatica ad adattarsi», spiega la psicoterapeuta. La nuova situazione comporta per forza di cose anche alcuni cambiamenti o aggiustamenti nei rapporti: «accade non di rado che i bambini si riapproprino di un rapporto carente o periferico, soprattutto con il genitore che lascia la casa nel quale l’idea di non vivere più sotto lo stesso tetto potenzia spesso il desiderio di vedere i figli – afferma Nardella – può però anche succedere che i rapporti peggiorino, per una naturale sofferenza e per la modificazione del sistema famigliare, ma soprattutto per la mancanza di capacità genitoriali di chi lascia il tetto, a causa di schemi o nodi irrisolti all’interno della coppia». Il bambino in ogni caso tende a vivere la relazione con entrambi i genitori e ha bisogno di farlo nel modo più sereno possibile. «Gli adulti devono abbandonare la loro posizione di stallo, per muoversi in una relazione di aiuto e comprensione verso i figli – continua la psicologa – per esempio, se un bambino rifiuta di stare con un genitore più o meno funzionante, è spesso perché crea schemi mentali che gli vengono costru-

iti dal genitore ferito, il quale dovrebbe abbandonare la posizione narcisistica per portarsi in un’area altruistica, facendo così prova di un sano amore educativo per il proprio figlio». Facendo un passo indietro, alle fasi che precedono la separazione, uno dei grandi dubbi dei genitori è che cosa dire ai bambini. Interrogativo di fronte al quale può emergere l’istinto di nascondere quello che stanno vivendo. «Non comunicare subito quello che sta accadendo può essere normale, anzi addirittura funzionale ad una preparazione interiore capace poi di creare uno spazio e un tempo per affrontare la verità. In altri casi, l’atteggiamento omertoso potrebbe essere legato a un senso di iperprotezione verso il bambino o a paure ingiustificate su eventuali reazioni. Potrebbe persino essere dovuto a un’incapacità di vivere l’evento o a una sua non accettazione», afferma Angela Nardella. Atteggiamenti di questo tipo necessitano di un lavoro interno per superare il blocco e riuscire così a comunicare ai bambini, anche se piccoli, la fine della relazione tra i genitori, che è un atto doveroso. «Il non detto su tematiche così delicate può creare false attese o speranze – commenta la psicoterapeuta – per tale motivo bisogna dire ai figli quello che sta succedendo, con un linguaggio e con modalità congrue all’età e alla capacità di comprensione. Il messaggio fondamentale che va verbalizzato concerne l’idea che i grandi possono litigare o possono non volersi più bene come prima, ma sicuramente non smetteranno la loro funzione genitoriale. Questi messaggi possono arrecare dolore o scompiglio, ma portare il bambino in un’area in cui sperimenta le proprie emozioni, lo aiuterà ad elaborarle meglio e a tollerare le frustrazioni legate al processo di adattamento alla nuova situazione». Se ricevono una spiegazione chiara e sincera delle ragioni che hanno portato i genitori a separarsi, i bambini potranno smettere di pensare – come spesso accade – di essere i responsabili della separazione oppure che, compiendo degli sforzi, potranno far tor-

nare unita la famiglia. Sensazioni – il senso di colpa e di responsabilità – che, se non eliminate, possono essere fonte di grandi sofferenze. Per contro, se ai figli viene dato modo di seguire, nella maniera adeguata, l’intero percorso, essi possono sperimentare che la vita è fatta, talvolta, di esperienze dolorose. «Questa sofferenza, se adeguata-

mente riconosciuta e sostenuta, può trasformarsi in una risorsa per la crescita emotiva del bambino, nella fortificazione di strategie e potenzialità che potrà inserire nelle relazioni interpersonali. L’idea che ci sia spesso una trasformazione positiva della sofferenza, aiuta i figli a superare le situazioni di difficoltà», conclude Angela Nardella. Annuncio pubblicitario

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Società e Territorio Rubriche

Approdi e derive di Lina Bertola Salute e malattia si intrecciano La forte presenza mediatica che ci accompagna da tempo sul fronte della diffusione del coronavirus sembra veicolare, assieme alle informazioni, anche un altro più ampio racconto: il racconto della vita, del suo significato e del suo valore. Succede spesso che da particolari situazioni contingenti si possa risalire ad un orizzonte di senso più ampio dentro il quale queste situazioni prendono voce e diventano realtà. Le informazioni dal fronte del virus venuto dalla Cina sembrano veri e propri bollettini di guerra, ad annunciare la crescita esponenziale dei malati e purtroppo anche il numero dei morti. Per contenere i contagi, su questo «campo di battaglia» si muovono sapientemente la politica sanitaria e la ricerca biomedica. Norme restrittive e quarantene vengono decise per proteggere la salute di tutti i cittadini. A tutti si chiede senso di responsabilità, con aspettative che potrebbero avere ricadute anche molto positive sul nostro

fragilissimo sentimento di appartenenza. Gli esperti infatti spiegano, con calma e competenza, che in primis si tratta di arginare una diffusione dei contagi che metterebbe a dura prova il sistema sanitario. Molto bene dunque, dobbiamo restare tranquilli. Eppure no, questi argomenti non sembrano bastare. Un generico malessere, un’inquietudine dalle sfumature anche molto diverse, sembra colpire sempre più persone. Nonostante la chiarezza del messaggio, questa emergenza sembra rinforzare anche una visione della realtà in cui la salute viene identificata, semplicemente, con l’assenza di ogni malattia. Di più: in questo clima ansiogeno, la malattia viene percepita come una minaccia personale, che si alimenta dentro un potente racconto condiviso. Il coronavirus è il nemico della «mia» salute. Così, il nostro fragilissimo sentimento di appartenenza sembra averla vinta, una volta ancora,

chiudendoci sulle nostre solitudini e paure esistenziali ed impedendoci di percepire il significato di un’emergenza che ci riguarda come comunità. Questo potente racconto soffoca così altri possibili racconti della malattia: quelli che pescano nella singolarità di ognuno, quelli che si alimentano delle nostre più intime verità. C’è sempre un racconto personale della vita che può anche colorare la malattia di altre luci e altre ombre. In questo intimo orizzonte di senso, la malattia si presenta come esperienza personale dell’essere ammalato; non tanto una «cosa» estranea, che non mi appartiene, o che non deve appartenermi, ma una condizione del mio esistere che, in forme anche molto diverse, può accompagnare in alcuni dei suoi giorni la vita di tutti noi. È uno spazio di senso importante, da riconoscere e coltivare, nonostante i più che comprensibili timori di fronte al virus. Riuscire a restare in contatto con questi spazi di

senso, in cui abbiamo sperimentato in prima persona l’essere malati, potrebbe proteggerci un po’ dalle paure che ci assalgono dall’esterno. Potrebbe aiutarci a ricondurre il rapporto tra salute e malattia al nostro personale sentimento di interiorità, quando la malattia ci parla in prima persona, quando riesce a esprimere la sua verità ad ogni soggetto che ne fa esperienza. Nell’intimità della nostra esperienza possiamo riconoscere, ed assumere, anche le mancanze, le ombre, le sofferenze della vita. Così, anche l’ammalarsi può rivelarsi una possibilità intrinseca alla salute, in perfetta sintonia con la definizione proposta dall’OMS: la salute è uno stato di benessere globale; non è semplice assenza di malattia. Il benessere globale richiede cura di sé; e cura di sé significa saper assumere la vita anche nelle sue fragilità e nelle sue sofferenze. Alcune persone che hanno vissuto esperienze anche pesanti di malattia mi

hanno confessato di aver riconosciuto, anche e forse soprattutto in quei momenti, il significato e il valore della vita. Assumere in prima persona l’intrecciarsi di salute e malattia, nel movimento della vita, significa accogliere anche l’esperienza del dolore come espressione del proprio stare al mondo. Jean Paul Sartre, che ha molto conosciuto i dolori del corpo, era solito negare la sofferenza. Il dolore resta, diceva, ma solo in quanto dolore. Pensava di isolarlo, assimilandolo alla unicità del suo vivere. L’intrecciarsi di salute e malattia ci permette di sperimentare, fin dentro il nostro corpo, i molteplici battiti della vita, e la sua trascendenza anche, per la quale noi non siamo mai soltanto quello che siamo ora. I Greci, nella loro immortale saggezza, chiamavano l’uomo il «mortale». A noi, oggi, il compito di sempre tener presente che non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché siamo mortali.

Kronenhalle e dietro l’angolo dell’Odeon che frequentava spesso, nessun rapporto con gli altri Giacometti artisti dei quali era lontano cugino, Giacumin da la Gassa – come lo chiamava un suo conoscente dadaista quando lo vedeva apparire con il suo cappello di pelliccia scura sulla strada – come un mago del colore ha ideato questo altro pianeta. L’idea di base l’ho scovata in Die Farbe und ich (1934), il testo radiofonico citato prima e pubblicato da Oprecht & Helbing: Emil Oprecht (1895-1952) tra l’altro, va forse detto, aveva una libreria proprio al cinque di Rämistrasse ed è lo stesso editore della prima edizione di Fontamara (1933) di Ignazio Silone, grafica di Max Bill. Libretto dove le sue teorie su colore e natura, a volte un po’ semplicistiche, spiegano perché i pappagalli dello zoo di Marsiglia, ritratti in alcuni pastelli perduti, sono blu e gialli. La foresta di sfondo dove vivono è verde, dunque il blu e il giallo non sono casuali ma hanno un rapporto con il verde visto che ne sono i componenti. Così anche il paesaggio zurighese grigio in inverno è

dato dal nero delle folaghe e dal bianco dei gabbiani. «Immaginando che ci troviamo su un altro pianeta e che in inverno l’atmosfera sia arancio luminosa. In questo caso, i gabbiani sarebbero di un giallo eclatante e le folaghe rosse» annota Augusto Giacometti. Due dei murales arancio luminoso – tutti opera sua firmata e datata, sotto un verbasco, 1926 – raffigurano un mago in compagnia di una luna piena e a fianco di una mezzaluna giovane gigante, un astronomo che scruta il binocolo. Guardo ancora in alto le corolle che d’un tratto mi ricordano il percorso dei polpastrelli di mani blu cobalto impresse sulle mura di un paesino berbero mezzo disabitato, una sera. «Contro il malocchio» ricordo ora che mi disse il trafficante di kif che mi aveva preso su in autostop. Di colpo emerge un altro posto di sicuro imparentato con questo, dove non sono mai stato ma conosco per via della copertina di un libro. In Patagonia c’è una grotta con una straordinaria pittura rupestre costellata di decine d’impronte colorate di mani.

che avere più tempo, per chi è indipendente come me, significa avere meno lavoro e, dunque, fare i conti con meno entrate. Saltano incontri, appuntamenti, moderazioni. Ma se il mio sano realismo mi mette in guardia, il mio più forte ottimismo mi spinge a vedere il bicchiere mezzo pieno. Riferendosi al giornalismo e alle sue amache su «la Repubblica» Michele Serra dice che per ogni cosa ben fatta ci vuole passione, impegno e tempo. Tutto il tempo del mondo direbbe l’autore e manager culturale della BMW Thomas Girst che in tempi non sospetti ma recenti ha raccolto in un libro (uscirà tra qualche settimana per add editore) storie di artisti e scienziati per dimostrare come l’uomo, se solo si prende il tempo, sia in grado di compiere grandi cose. Un libro contro il Diktat del tempo, un elogio alla lentezza e a tutto ciò che per essere realizzato necessita di tempo «nei

toni silenziosi e non nelle chiassose declamazioni, nella tranquillità e nel silenzio, nella concentrazione e non nella fretta iperventilata che quotidianamente ci strattona, si manifesta la bellezza dell’uomo». Ma non è soltanto questo, prendersi il tempo per qualcosa significa anche esserci con tutto se stesso, dedicarsi completamente senza assenze e distrazioni. Sottolinea ancora Thomas Girst come la nostra società si basi sulla felicità istantenea: un espresso, lo zucchero, un like su Facebook, droghe, alcolici, tutto ruota attorno ad un appagamento immediato che però è volubile e non rende un vero servizio al nostro benessere. È il tempo, il tempo che ci prendiamo e il tempo che ci mettiamo a conferire un senso alle nostre azioni e a riempire la nostra vita di senso e profondità. Avrei fatto volentieri a meno del Covid-19 ma qualcosa di positivo c’è e saremmo stupidi a non coglierlo.

Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf La Blüemlihalle di Zurigo In Nordafrica, a fine marzo 1931, Augusto Giacometti (1877-1947) rimane colpito dall’usanza, contro il malocchio e per allontanare il male dalle case, di posizionare sopra le porte degli artigiani, la mano di Fatima. «Forse ogni armonia di colori, per semplice che sia, è simile a questo genere di mano che scaccia il malanno da noi»: conclude così, il pittore nato a Stampa e vissuto dal 1915 via a Zurigo, le sue riflessioni sul colore andate in onda la sera del quattordici novembre 1933 allo studio Fluntern intitolate Die Farbe und ich. L’armonia esplosiva di colori affrescata sotto le volte a crociera dell’atrio dell’Amtshaus I, in ogni caso, le tre volte che l’ho perlustrata con gli occhi, male non fa. È come essere su un altro pianeta, nonostante sia dentro la sede di una centrale di polizia. Dalla stazione centrale, a passo consapevole, sono sette minuti. Giacometti-Halle si legge sulla targhetta fuori al tre del Bahnhofquai: aperta tutti i giorni, dalle nove alle undici e dalle due alle quattro. «Documenti, dieci minuti di tempo» è l’accoglienza consueta della simpaticona dietro un ve-

tro antiproiettile allo sportello. L’energia negativa dell’ottusa usciera e miei cattivi pensieri conseguenti, passano all’istante entrando nella Blüemlihalle di Zurigo (408) alle undici meno un quarto di un mattino grigio ai primi di marzo. Al primo impatto, naso all’insù, è l’esplosione floreale di rosso che prevale e mi ricorda sempre molto l’effetto che fanno i flamboyants sul ciglio delle strade nelle Antille. Originario del Madagascar, il Delonix regia o Albero del Fuoco, appare anche al Cairo in primavera e non dimenticherò mai quello in piazza Tahrir mesi prima del gran casino. La fioritura a ripetizione è data dai contorni delle corolle – moltiplicate identiche a tutto spiano grazie all’uso di mascherine in cartone – sotto le volte settecentesche di questa ex cantina di un orfanotrofio disegnato da Gaetano Matteo Pisoni di Ascona e trasformata in atrio per uffici amministrativi nel 1914 da Gustav Gull, architetto zurighese autore inoltre dell’osservatorio astronomico Urania a pochi passi da qui. Le nuvole di fiori rosso fiammante che assomigliano

anche a ruote di ingranaggi o stelle, sono attenuate dai lampi giallo oro delle nervature, stelline arancio, quadrifogli rosei. Rari tocchi esigui di blu e verde, passeggiando tra i pilastri sempre naso all’insù, riserva poi parsimonioso, questo magistrale soffitto pimpante dipinto in gran parte – sopra un’impalcatura da luglio 1923 a marzo 1924 – dai tre collaboratori di Augusto Giacometti. Jakob Gubler (1891-1963), Giuseppe Scartezzini (1895-1967), e Franz Beda Riklin (1878-1938): psichiatra che ha lavorato con Jung a degli studi sul pensiero associativo e autore di Wunscherfüllung und Symbolik im Märchen (1908). Esaudisco il desiderio dei miei occhi, rifugiandomi come in una riserva fatata per l’anima, senza guardare nessun orologio stavolta, nelle regioni dove i colori si mescolano armoniosi, sfumano uno nell’altro, conducono vita vagabonda. Cerco il flou, le nebulose, l’accostamento inatteso, lo sprazzo astratto che mi distragga dalla pesantezza del mondo. Precursore dell’astrattismo, atelier al cinque della Rämistrasse in faccia alla

La società connessa di Natascha Fioretti Ci vuole il coraggio di prendersi il tempo È una delle cose belle che ho sentito dire al giornalista Michele Serra ospite qualche settimana fa negli studi RSI a Besso. La cattiva notizia è che il coraggio fino ad oggi ci era mancato. Quella buona, che per causa di forza maggiore all’improvviso abbiamo più tempo a nostra disposizione. Qualcuno dirà anche troppo. Qualcun altro penserà che è destabilizzante perché non è una scelta e, soprattutto, non sappiamo per quanto questa nuova e inattesa condizione si protrarrà. Siamo in uno di quei momenti in cui il nostro super ego e i nostri super poteri tecnologici fanno acqua. Mentre ci rende un buon servizio il nostro semplice, sano e umano buon senso. Che poi, a pensarci bene, la tecnologia un po’ ci aiuta. Possiamo telefonarci e vederci in mille modi, scriverci, fare indigestione delle nostre serie preferite senza sensi di colpa, possiamo sperimentare, finalmente, il telelavoro o smart

working, questi sconosciuti, che fino all’altro giorno in molte aziende erano ancora un tabù, della serie «Ci credo solo se ti vedo». Oggi, invece, tutti ad osannarne i pregi e a dire quanto sia intelligente il fatto che i dipendenti possano lavorare da casa. Siamo sempre dei campioni quando si tratta di passare da un estremo all’altro, o tutto o niente. C’è da sperare che una volta usciti dal tunnel un colpo di spugna non cancelli tutto e staremo a sentire quel saggio detto «la virtù sta nel mezzo». Torniamo al tempo. Voi non vi sentite alleggeriti dal non dover più fare le acrobazie tra mille impegni lavorativi, famigliari e culturali in un sol giorno? Vi siete accorti di quanto sia bello il silenzio per strada la mattina presto? Avete più tempo per leggere, non è fantastico? Diceva l’imprenditore e scrittore americano Harvey MacKay: «Il tempo è gratis ma è senza prezzo. Non puoi possederlo

ma puoi usarlo. Non puoi conservarlo ma puoi spenderlo. Una volta che l’hai perso non puoi più averlo indietro». Diamoci dentro prima che sia troppo tardi. Pensando alle parole di Michele Serra e alla mia situazione personale, apprezzo di avere più tempo per scrivere, per approfondire i temi, per nutrire la mia creatività con contenuti e nuove idee senza la tirannia dell’orologio, senza correre in stazione all’ultimo minuto per salire sul treno per Zurigo. Soprattutto, posso fare lunghissime passeggiate nel bosco con Coffee. Anche Michele Serra ammette di essere felice soltanto nei boschi con il suo cane «Qualche giorno fa sono stato nel bosco cinque o sei ore a caricare legna su un trattore e mi sentivo profondamente felice. Vi sto spiattellando una mia schizofrenia che non so come si possa risolvere: vivo moltissimo in campagna ma ho un bisogno estremo di natura». Non è un mistero


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Ambiente e Benessere Non solo penicillina Dalle muffe curanti a quelle commestibili fino alle varianti tossiche

In cure intensive anche il turismo Il primo settore economico a subire le conseguenze del coronavirus è indubbiamente quello dei viaggi, ormai già in ginocchio

Un piatto subito pronto Aglio orsino al posto della salvia per saltimbocca al profumo di primavera pagina 24

In ginocchio anche lo sport È dai tempi della seconda guerra mondiale che le attività sportive non accusavano un colpo simile

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Ansia da prestazione nella sessualità Psicologia L’importanza di scalfire

la «comfort zone» di un persistente tabù Maria Grazia Buletti In un contesto come quello occidentale si richiede la massima efficienza in qualsiasi ambito della vita e sempre più persone vivono l’ansia da prestazione nel quotidiano e nell’intimità. La cultura imperante impone a uomini e donne il dover essere all’altezza delle aspettative sociali e richiede prestazioni che poco hanno a che vedere con l’autentica natura istintiva ed emozionale intrinseca dell’espressione sessuale e della vita stessa. «Trovandosi nudo, l’uomo ha scoperto la sessualità», esordisce lo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia che dà subito una chiave di lettura della conseguente declinazione verso il tabù di questa piacevole scoperta da parte dell’essere umano. Ne è complice la dottrina religiosa cristiana per la quale la sessualità doveva avere come unico scopo quello della procreazione: «Gli animali non sono nudi perché non hanno consapevolezza e coscienza di se stessi. Cosa che invece ha portato noi umani a una dimensione di imbarazzo verso quelle parti che continuiamo a proteggere perché considerate “intime”, malgrado un corpo nudo non sia sufficiente per stimolare la sessualità che trova dimensione in un corpo in movimento». Di sessualità, ancora oggi, si fatica a parlare. Di problemi legati ad essa ancor di più. «Non se ne parla a sufficienza e, di conseguenza, non si dispone degli strumenti per poter affrontare queste problematiche: dobbiamo promuovere una cultura dell’apprendimento delle competenze che ci permettono di aprire e affrontare questi discorsi parlandone senza giudizio», afferma lo psichiatra ricordando il «peso delle parole»: «Se dico “piuma” percepisco leggerezza, se dico “mattone” il contrario. Cento chili di piume sulle mie spalle mi danno la sensazione di qualcosa di leggero rispetto a dieci mattoni, eppure…». E proprio nelle parole, come strumento per scalfire i tabù della sfera sessuale, sta la strada per la cura e la prevenzione di alcuni disturbi come l’ansia da prestazione, oggi frequenti ma ancora poco affrontati. Venerdì 27 marzo al Teatro Sociale della CPC di Mendrisio si sarebbe dovuto svolgere il seminario aperto al pubblico «Ses-

sualità e ansia da prestazione». Date le contingenze inerenti l’emergenza coronavirus e nell’osservanza delle disposizioni cantonali, questo seminario sarà rinviato al 30 ottobre 2020 quando sarà sempre organizzato dall’Associazione della Svizzera Italiana per i disturbi Ansiosi Depressivi e Ossessivo-Compulsivi (ASI-ADOC) presieduta dal dottor Mattia (informazioni e iscrizioni studiomattia@michelemattia.ch), e si avvarrà degli interventi di professionisti fra i quali principalmente Davide Dettore, professore di psicologia clinica all’Università di Firenze. È importante parlarne perché oggi «sebbene sia un problema spesso a torto ritenuto prettamente maschile (nell’uomo è accompagnato da evidenti problemi come difficoltà di erezione ed eiaculazione precoce), sia uomini che donne possono soffrire di ansia da prestazione sessuale le cui cause si riassumono in paura di deludere, di fallire e di sbagliare». Nella donna i sintomi si manifestano diversamente: «Una riduzione delle secrezioni vaginali, dolore (perché manca uno stimolante sulla libido che interessi questa parte anatomica, predisponendola al rapporto). E poi c’è il comportamento di evitamento con argomentazioni giustificative per evitare il contatto: non entrando in un’accoglienza nella relazione più intima o ad esempio con cistiti frequenti come somatizzazioni a protezione di quel “non posso”. Infine, anche nella donna l’ansia può manifestarsi attraverso il timore della relazione». Fatto sta che oggi le disfunzioni erettili sono aumentate: «Ne soffre un uomo su tre, in una dinamica che comprende pure l’emancipazione del ruolo della donna, insieme ad altri elementi causa di sempre maggiori disfunzioni sessuali come, ad esempio, l’iper-rappresentazione del corpo all’interno di web, televisione e social, o la pornografia che porta di fatto a ridurre parecchio l’eccitazione reale a favore di quella virtuale. Non a caso oggi parliamo di anoressia sessuale come l’eccesso di “cibo virtuale” che toglie il desiderio di quello “reale”. Perciò, nel seminario, ci riproponiamo di affrontare le disfunzioni sessuali e l’ansia da prestazione, così come le problematiche relative alla farmacoterapia e all’uso di immagini internet, focalizzando sull’ansia, che

Lo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia. (Vincenzo Cammarata)

gioca un ruolo importante nella patogenesi e nel mantenimento delle disfunzioni sessuali». L’ansia è dunque la parola chiave ricorrente ed è il principale nemico. Bisogna indagare nella nostra psiche, dove si annidano l’eventualità di sbagliare, di non soddisfare o di deludere il partner e di non essere all’altezza delle sue aspettative, le tensioni di coppia, la paura del confronto con esperienze precedenti e alcune forme di depressione o insicurezza. E bisogna parlarne quanto prima, rivolgendosi a professionisti che possono aiutare, perché secondo il nostro interlocutore «dal momento in cui si riconosce di avere una difficoltà in questo campo non ci si deve rifugiare nell’autoerotismo perché non si risolve il problema legato alla psiche, così come non lo risolve l’uso della pornografia che, come stile di vita disfunzionale, inibisce parecchio la libido in vivo; prendere tempo consolida gli automatismi creati, poi difficili da estirpare. Parlarne con il medico di famiglia permetterà di tracciare

il da farsi, valutando dapprima lo stile di vita, perché tabacco, alcol, problemi metabolici, cardiovascolari, diabete e via dicendo possono giocare un ruolo; il medico deciderà poi come e se coinvolgere un urologo e uno psicoterapeuta». Non bisogna temere di scalfire i falsi miti che aleggiano su questo tema, perché psicologi e psicoterapisti possono indirizzare e curare mirando al ripristino delle funzionalità sessuali, agendo nel contempo sulle emozioni per recuperare la capacità di provare piacere durante i rapporti: «Mentre può aiutare anche una terapia, prescritta dallo specialista, che preveda farmaci che facilitino l’erezione: correggendo temporaneamente il sintomo, aiutando a migliorare la fiducia in sé stessi e le prestazioni in quelle disfunzioni di origine psicologica, senza però eliminare la causa che va nel frattempo adeguatamente ricercata e curata». La coppia assume altresì un ruolo centrale di prevenzione: «Ciascuno ha il proprio bagaglio di inibizioni e paure che spes-

so non si affrontano insieme. Parlarne nella coppia riduce tabù, schemi e timori». Perché per superare l’ansia da prestazione in modo autentico bisogna modificare gli atteggiamenti cognitivi e relazionali che generano la predisposizione ansiosa verso la sessualità.

Avvertenza La tavola rotonda del Simposio di perinatologia «Competenza ed esperienza nell’errore medico» («Azione» n. 10 del 2.03.2020) non avrà più luogo alla Sala Tre Vele della Fondazione OTAF di Sorengo, bensì in modalità differita: sempre sabato 21 marzo, dalle 11.00, in conferenza-streaming il pubblico potrà seguire la tavola rotonda online (maggiori info sulla Homepage www.clinicasantanna.ch) e porre comunque le proprie domande ai relatori professionisti.


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Ambiente e Benessere

Storie di muffe

Keystone

Scienza Dal gorgonzola alla penicillina, l’uomo ha saputo trarre vantaggio da questi funghi microscopici

Alessandro Focarile La penicillina non fece diventare ricco Alexander Fleming, lo scopritore del primo antibiotico. Sebbene di origine scozzese (gente notoriamente sparagnina), egli rifiutò di fare brevettare la sua scoperta, diventata perciò patrimonio dell’umanità. Nel frattempo, l’industria farmaceutica si arricchiva (e si arricchisce tutt’oggi) con la florida e diversificata produzione degli antibiotici, che erano destinati a cambiare la storia della medicina.

Non vi sono soltanto aspetti positivi quando si ha a che fare con sostanze di origine naturale Sir Alexander Fleming, nobile in quanto nominato baronetto da Re Giorgio V, non guadagnò neppure una sterlina: Fleming era un micro-biologo e non un medico, e lavorava come tale al St. Mary’s Hospital di Londra. Il suo laboratorio era allogato in un angusto e poco aerato locale dell’ospedale, ingombro disordinatamente di numerose colture di batteri. Come narrò successivamente (e innumerevoli volte…) lo scopritore: «Una coltura di batteri alla quale lavoravo durante la fine dell’estate 1928, fu dimenticata e andò a male. Quando mi ricordai di essa, e la esaminai, la colonia anziché essersi sviluppata, era morta. Uccisa da una patina di muffa, le cui spore erano entrate dall’esterno, ed erano penetrate nella provetta». Il destino, in quei giorni, varcò quella finestra. Il microscopico fungo, un Penicilium, era stato l’autore della strage. Furono necessari diversi anni perché la muffa potesse essere utilizzabile sull’uomo, grazie a numerosi perfezionamenti operativi, e potesse crearsi l’industria degli antibiotici. Nel 1946, Alexander Fleming riceveva il premio Nobel per la medicina, insieme a Howard Florey ed Ernst Chain, due scienziati di Harvard, meglio attrezzati di Fleming in fatto di biochimica. I due

harvardiani avevano contribuito, con tecniche più aggiornate, all’utilizzo del Penicillium riuscendo a purificare la muffa, dandole una stabilità chimica in modo da poterla iniettare nei topolini utilizzati in laboratorio, e consacrare l’efficacia del primo antibiotico. Sir Alexander Fleming moriva nel 1955 a 94 anni, coperto di riconoscenza e di gloria, onorato con innumerevoli premi pubblici e accademici, con 28 lauree «honoris causa». Ma che cosa sono le muffe? È il nome che si dà comunemente allo strato più o meno consistente, e di vario colore, che differenti specie di microfunghi formano sulla superficie dei materiali organici sui quali si sviluppano: legno, pelle, vegetali erbacei e arborei, frutta, pane, formaggi, carne. Il genere Penicillium conta moltissime specie, in parte tossiche (micotossine, dal Greco mycos = fungo), in parte per noi benefiche, in quanto sono la fonte di produzione della vasta famiglia degli antibiotici. La muffa, che può assumere a seconda dei casi un aspetto feltroso, spugnoso, pulverulento, oppure «piumoso», penetra all’interno del substrato grazie al propagarsi delle ife fungine, che hanno la funzione di frammentare le fibre del substrato stesso. Le muffe sono ovunque, e condizionano la nostra vita nel bene e nel

Ingrandimento del Penicillium italicum su arancio. (Alessandro Focarile)

male. In un territorio quale è il Ticino, la cui superficie è occupata per il 50 per cento dal bosco, viviamo perennemente immersi in un’atmosfera ricca di spore fungine, e durante la stagione vegetativa, anche di pollini. Da vecchia data l’uomo ha imparato, talvolta per puro caso, a utilizzare le muffe in campo alimentare. Se gustate una porzione di gorgonzola, apprezzerete il suo sapore inconfondibile, dovuto grazie a un Penicillium (P. weidemanni), che gli conferisce la tipica «erborinatura» formata di ampie e profonde venature azzurroverdastre. Presso i «gourmet» è apprez-

Penicilliun weidemanni su gorgonzola. (Alessandro Focarile)

zato un tipico vino bianco francese, la cui ricchezza alcolica è stata raggiunta grazie al tardivo appassimento del grappolo sul tralcio. Ad avanzato autunno, cioè con una vendemmia tardiva, l’uva viene attaccata da una muffa (Botrytis cinerea), la quale formandosi sulla buccia degli acini, rallenta la perdita degli zuccheri contenuti negli acini stessi. Il risultato finale è la produzione di un vino singolare e dai contenuti organolettici molto complessi. Recentemente, due intraprendenti giovanotti zurighesi hanno brevettato, dopo molti tentativi, un metodo di frollatura della carne bovina sull’osso fino a 35 giorni, utilizzando la muffa di un fungo (tenuto rigorosamente segreto…). A quanto pare, l’idea sta avendo successo sul piano commerciale, in quanto viene proposta una carne particolarmente tenera, e con un gradevole gusto di noci. Ma, come spesso avviene, non vi sono soltanto aspetti positivi quando si ha a che fare con sostanze di origine naturale. Sono note da molto tempo anche numerose muffe tossiche per l’uomo, vere sostanze velenose prodotte in particolari situazioni ambientali. Queste mico-tossine possono insediarsi sui cereali, nei semi oleosi, nella frutta secca, nei mangimi per gli animali. E anche l’uomo può essere vittima di patologie prodotte da muffe

Muffe su patate. (Alessandro Focarile)

Penicillium su tabacco (in alto) e Penicillium italicum su arancio. (Alessandro Focarile)

particolari e localizzate: podo-micosi ai piedi, pneumo-micosi nell’apparato respiratorio. In passato, le tossine prodotte dalle muffe sono state all’origine di gravi epidemie. Ricordando specialmente quelle causate dall’ingestione di farine di segale contaminate da Claviceps purpurea, provocante dolori lancinanti alle estremità, vaste lesioni cutanee, febbre e senso di bruciore insopportabile. Da qui derivò la definizione di «segale cornuta» per la particolare formazione della muffa sulla spighetta del cereale. Nella medicina popolare dell’epoca, l’intossicazione fu denominata «fuoco di Sant’Antonio», Santo protettore degli sventurati. Nella Firenze del Dugento, all’epoca di Dante Alighieri, le innumerevoli osterie e mescite erano frequentate anche da sfaccendati squattrinati, tollerati dagli osti, i quali permettevano agli oziosi clienti di «leccare» gli umori vinosi che trasudavano dalle capienti botti. E, poiché su questo velo di vino si formavano delle muffe, da ciò ha avuto origine la definizione di «lecca-muffa», sinonimo di buono a nulla e, soprattutto, senza un soldo. Dal gorgonzola alla penicillina, dalla segale cornuta alla costoletta frollata: le muffe ci riguardano molto da vicino. Nel bene e nel male fanno parte anche della vita umana.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Ambiente e Benessere

Il turismo al tempo del Coronavirus

Viaggiatori d’Occidente Scegliere lunghe passeggiate nei boschi e su per le valli potrebbe essere una soluzione

contro l’isolamento forzato Claudio Visentin Nel 1345 i Mongoli assediavano la città genovese di Caffa, in Crimea, sulle coste del Mar Nero. L’assedio però andava per le lunghe e presto la peste cominciò a diffondersi tra le fila degli assalitori. Fu allora che il Khan Ganī Bek ordinò di tirare con una catapulta i cadaveri infetti dei suoi soldati all’interno delle mura. Dopo poche settimane, i Mongoli dovettero comunque ritirarsi, decimati dal morbo, ma si crede che la terribile Peste nera del Trecento, la peste del Boccaccio, sia giunta in Europa proprio sulle navi genovesi di ritorno da Caffa. Ancora in età moderna, al tempo del Grand Tour d’Italia, quando la migliore gioventù d’Europa completava la sua educazione a Venezia, Firenze e Roma, alle prime voci d’epidemia la sorveglianza era massima nei porti, porte di accesso al Paese, con tutta una serie di controlli non troppo diversi da quelli oggi applicati negli aero-porti, i nuovi porti del mondo globale.

Nei periodi di epidemia, all’epoca della peste, niente poteva evitare al malcapitato un soggiorno coatto nel lazzaretto di Venezia, costretto all’ozio forzato Tutti i viaggiatori erano terrorizzati dalla prospettiva della quarantena. Ogni città aveva un suo lazzaretto, dove i viaggiatori venivano rinchiusi appunto per quaranta giorni per controllare l’eventuale insorgere della malattia. Il primo, modello per tutti quelli che seguiranno, fu creato a Venezia nel 1423. Il Senato della Repubblica, accogliendo una proposta di San Bernardino da Siena, ordinò di destinare una piccola isola della Laguna veneta, vicino alla costa occidentale del Lido, al ricovero di persone e merci provenienti da paesi infetti e di garantire ai ricoverati vitto, medicine e assistenza. Nacque così il Lazzaretto Vecchio: il nome potrebbe derivare da una chiesa

Venezia, Isola del Lazzaretto Vecchio. (Godromil)

di Santa Maria di Nazareth che sorgeva sull’isola, con sovrapposizione del nome del patrono degli appestati, San Lazzaro. Oggi, dopo un lungo abbandono, si lavora al recupero dell’isola (per una visita info@lazzarettiveneziani.it) e dagli scavi sono già venute alla luce fosse singole e comuni con oltre millecinquecento scheletri. Se nei tempi normali bastava mostrare dei bollettini di sanità, per provare di essere in buona salute, nei periodi di epidemia niente poteva evitare al malcapitato un soggiorno coatto nel lazzaretto. I viaggiatori facevano di tutto per sfuggire a questi luoghi dove erano costretti all’ozio forzato in piccole stanze sorvegliate da guardie armate di randello, a fastidiose disinfestazioni ed esposti al rischio di contrarre davvero la malattia. Quando nel 1743 Jean-Jacques Rousseau sbarca a Genova, è immediatamente posto in quarantena perché proviene da Messina, infestata dalla peste. Il lazzaretto dove viene rinchiu-

so è ossessivamente bianco, privo di infissi alle finestre, tavoli, letti, seggiole, tutto. Molte di quelle esperienze tornano nel nostro tempo, come se le epidemie attivassero meccanismi psicologici profondi e ricorrenti. Del resto, la peste raccontata da Tucidide (Atene, 430 a.C.) non è poi troppo diversa da quella di Boccaccio (1348) o di Manzoni (1630). Quell’antica avversione nei confronti dello straniero, sopita nei tempi tranquilli ma sempre pronta a risvegliarsi, è facilmente percepita da chiunque viaggi in queste settimane. Nel mondo globale però tutto avviene più rapidamente; mentre in passato la diffusione del contagio, attraverso i più lenti mezzi di trasporto, poteva richiedere anni, oggi la previsione si avvera nello spazio di settimane e mesi. Per questo è necessario restare immobili, battere il passo, segnare il tempo, non diventare complici del virus aiutandolo a raggiungere nuovi ospiti. E per questo

la crisi del turismo è stata la prima e la peggiore tra tutte le attività produttive, moltiplicando le disdette. Nonostante sia una delle principali attività economiche su scala mondiale (indicativamente un decimo del prodotto lordo mondiale e dell’occupazione), il turismo è per sua natura fragile, esposto a tutti gli imprevisti. Gli aerei vuoti affondano i bilanci delle compagnie: il settore potrebbe perdere oltre cento miliardi di franchi nel 2020 e nel Regno Unito è già fallita Flybe, un’importante compagnia aerea regionale. Anche le gigantesche navi da crociera bloccate nei porti in quarantena dopo la scoperta di qualche caso a bordo sono diventate il simbolo di questo momento di paralisi e impotenza, a cominciare dal caso della Diamond Princess. E le prospettive sono pessime perché gli anziani sono al tempo stesso i migliori clienti delle crociere e i più colpiti dal virus. Non disperiamo. Dopo tutto non è la prima crisi e il turismo è tanto fra-

gile quanto elastico. Solo negli ultimi vent’anni, è ripartito con forza dopo l’attacco alle Torri gemelle (2001), la SARS (2003), la recessione globale (2009), l’eruzione del vulcano islandese Eyjafjallajökull (2010). E nonostante questi drammatici momenti d’arresto, tutte le previsioni di lungo periodo sono poi state confermate. E per chi vorrebbe comunque viaggiare? Certo ci sono mete anche famose dove il virus non è (ancora) arrivato, ma mandarci persone potenzialmente infette non pare una grande idea… Le epidemie, per loro natura, trovano in città il terreno perfetto per diffondersi; per questo in alternativa si possono riscoprire forme di turismo in luoghi poco frequentati. Come sostiene Alex Wilson, direttore di Host Unusual, «Le nuove parole d’ordine sono isolamento ed esclusione, lontano dalla folla». Ma in fondo stare a casa per un lungo periodo è una circostanza straordinaria nelle nostre vite al pari di una vacanza (forse ancora di più). Partendo da questa premessa gli inglesi hanno rispolverato una loro vecchia passione, la Staycation, combinazione di Stay (stare a casa) + Vacation (vacanza). Ovvero – per chi può permetterselo ovviamente – restare a casa come se si fosse in vacanza, con le stesse regole: non andare al lavoro e non sentire i colleghi per nessuna ragione, staccare lo smartphone, non controllare la posta elettronica, non guardare la televisione, dormire in tenda nel proprio giardino, mettere in scena una rappresentazione teatrale coi familiari, compilare l’albero genealogico della propria famiglia ecc. Il turismo nel proprio Paese, a tiro di casa e delle strutture sanitarie, è una naturale estensione della Staycation. In Inghilterra, terra di grandi viaggiatori internazionali, agriturismi, camping e cottage sono già quasi esauriti per la prossima estate. Affrettarsi a prenotare nel nostro Paese potrebbe essere una scelta intelligente. Nel frattempo, qui in Ticino la primavera bussa alle porte, perché allora non sperimentare qualche cammino lungo i sentieri dei boschi? Le nostre splendide valli sono dietro l’angolo…

Olio di cocco oppure olio d’oliva?

La nutrizionista Quale dei due è più indicato per tenere basso il livello del colesterolo «cattivo»? Laura Botticelli Buongiorno Laura, mi sono appassionato all’olio di cocco, lo metto un po’ ovunque nelle mie ricette perché dà loro quel tocco esotico in più che mi piace tanto. So che è grasso e quindi cerco di evitare l’uso di olio di oliva o panna o burro. Però io mi sono accorto di essermi preoccupato solo delle calorie e non della qualità dell’olio di cocco. È buono? Fa bene alla salute? Faccio bene a sostituirlo all’olio di oliva o è meglio se faccio attenzione? A mesi avrei un controllo del sangue e non vorrei avere spiacevoli sorprese. / Filippo Caro Filippo, chissà che buoni manicaretti prepara. Parto subito dai valori nutritivi: 100 g di olio di cocco contengono circa 99 g di grassi totali, di cui 85,9 g di grassi saturi. L’olio di oliva 90 g di grassi totali di cui 10,7 g di grassi saturi. Il burro ha 82,2 g di grassi totali di cui 49 g di grassi saturi e la panna 50 g di grassi totali di cui 30 g saturi. Come sicuramente saprà, troppi grassi saturi nella dieta non sono salutari perché aumentano i livelli di colesterolo «cattivo» LDL, che a sua volta può

aumentare il rischio di malattie cardiache. Avrà quindi spiacevoli sorprese nelle prossime analisi del sangue? Questo purtroppo non posso dirglielo con certezza: dipende da troppi fattori, ma le posso rispondere che nonostante la grande presenza di grassi saturi nel cocco, la maggior parte di quelli presenti sono a catena media (anche chiamati acido laurico), e, a differenza dei grassi saturi animali, non forniscono colesterolo ma aumentano significativamente i livelli di colesterolo HDL, quello «buono». Però aggiungo anche che gli studi effettuati finora sono limitati e non si sa davvero come l’olio di cocco possa influenzare (nel bene o nel male) le malattie cardiache. Inoltre, gli oli vegetali non sono solo grassi, contengono molti antiossidanti e altre sostanze, quindi i loro effetti generali sulla salute non possono essere previsti solo dai cambiamenti in LDL e HDL. Se vuole fare una scelta più salutare, le consiglio quindi di tornare a usare più frequentemente l’olio di oliva poiché è composto principalmente da grassi insaturi che quindi riducono l’LDL e

L’olio di cocco è solido sotto i venti gradi. (publicdomainpictures.net)

aumentano l’HDL, ed è pure una buona fonte di vitamina E e composti polifenolici – antiossidanti che possono abbassare i livelli di infiammazione sistemica. Mentre l’olio di cocco, per quanto sia per lei più piacevole al palato, ne è privo.

Il cocco ha sicuramente un sapore notevole e non c’è quindi nessun problema a usarlo di tanto in tanto. Essendo solido a temperatura ambiente e avendo un punto di fumo (la temperatura massima raggiungibile da un olio prima che questo inizi a bruciare

e a decomporsi creando sostanze tossiche) maggiore rispetto all’olio di oliva lo può utilizzare al posto del burro o della margarina o degli oli vegetali nei prodotti da forno (crostate, eccetera) oppure nei piatti tailandesi, mentre per cucinare verdure o carni a basse temperature le consiglio di alternare l’olio di oliva a quello di cocco e di mantenere l’olio extravergine di oliva per condire a crudo le pietanze, così da lasciare inalterati i valori della vitamina E dei composti polifenolici. La ringrazio per lo spunto di riflessione, e invito tutti i cari lettori, se lo desiderano, a provare quest’olio così particolare. Per i più curiosi, mi permetto di specificare che l’olio di cocco è solido solo sotto i venti gradi… da qui la particolarità di trovarlo spesso in un barattolo anziché in una bottiglia! Informazioni

Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch


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Idee e acquisti per la settimana

Nature Heroes

Raccogli i bollini dal 3.3 al 27.4

Forza allora piccolo eroe della natura: raccogli e semina!

Collezionare, seminare e raccogliere

La nuova raccolta «Nature Heroes» ci avvicina alla natura: chi si impegna nella raccolta dei bollini potrà presto coltivare il suo giardino di fiori ed erbe aromatiche con l’apposito set di attrezzi da giardino e godersi l’hotel per insetti Testo Heidi Bacchilega; Foto Simone Vogel Styling: Esther Egli

Lavorare la terra con le mani, seminare e osservare i fiori e le erbe aromatiche che spuntano e crescono: un bel diversivo in quest’epoca digitale! Chi non ha un giardino, può piantare i semi nei vasi e piazzarli sul balcone, sul terrazzo o sul davanzale della finestra.

Dentro o fuori, è semplicissimo: la nuova raccolta promozionale «Nature Heroes», oltre ai semi di 19 diverse varietà di fiori ed erbe aromatiche, propone anche un hotel per insetti. I collezionisti più diligenti si aggiudicheranno anche gli attrezzi da giardino necessari, dalla paletta al coprivaso.

Quindi forza, inizia la raccolta: piccoli eroi della natura alla conquista di un angolo di verde in giardino o sul terrazzo! E quando i fiori sbocceranno e gli insetti popoleranno l’hotel, potrai osservarli e occuparti di loro – perché no? – anche in modalità digitale con belle fotografie e un piccolo video.


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Premi Per una cartolina di raccolta completa (20 bollini) ricevi il set di attrezzi da giardino, l’annaffiatoio o il coprivaso disponibile in 3 colori diversi, con il set di gessetti per colorarlo. Due cartoline di raccolta complete (40 bollini) ti danno diritto a un hotel per insetti o un giardino di erbe aromatiche indoor.

Ecco come fare: 1. Fino al 27 aprile 2020, ogni 20 franchi di spesa in un supermercato, un negozio Do it + Garden Migros o su LeShop ricevi una bustina con un bollino, un sacchetto di semi e un adesivo da incollare sul vaso per contrassegnare le piante. 2. Raccogli i bollini e incollali sui cerchietti previsti della cartolina di raccolta. 3. Alla cassa, puoi scambiare le cartoline di raccolta complete con i fantastici elementi della collezione per compiere imprese eroiche nella natura. Oppure puoi sostenere un’organizzazione che opera per la salvaguardia della natura.

Sosteniamo insieme la natura

Puoi anche decidere di scambiare la tua cartolina di raccolta completa con una donazione a favore di un’organizzazione. In questo modo contribuisci alla salvaguardia della biodiversità in Svizzera. Wildbiene +Partner AcquaViva, BirdLife, Bergwaldprojekt Schweiz Come funziona? Scambia la tua cartolina di raccolta completa con una scheda di donazione presso la tua Migros, al banco informazione o alla cassa. Con la scheda di donazione puoi scegliere l’organizzazione che vuoi sostenere Info: natureheroes.ch


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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana

Saltimbocca all’aglio orsino Secondo piatto Ingredienti per 4 persone: 8 scaloppine di vitello di 60 g ciascuna · sale · pepe · 8 foglie d’aglio orsino · 8 fette di prosciutto crudo · 2 c d’olio di colza HOLL · 1 dl di marsala · 2 dl di fondo bruno · 1 cc di burro.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Con la carta da cucina tamponate le scaloppine. Conditele con sale e pepe. Sciacquate le foglie di aglio orsino e asciugatele bene tamponandole. Ricoprite ogni fetta di carne con una fetta di prosciutto e una foglia d’aglio orsino e fissateli alla carne con uno stuzzicadenti. 2. Scaldate l’olio in una padella ampia. Rosolate brevemente le scaloppine sul lato del prosciutto, poi giratele e terminate la cottura ancora per circa 1 minuto. Togliete la carne dalla padella, copritela e tenetela in caldo. 3. Sfumate il fondo di cottura con il marsala. Unite il fondo bruno e portate a ebollizione. Abbassate la fiamma e incorporate il burro. Sistemate i saltimbocca nella salsa e servite subito. Ottimi da accompagnare con risotto, polenta o tagliatelle al burro. Preparazione: circa 20 minuti. Per persona: circa 34 g di proteine, 12 g di grassi, 5 g di carboidrati, 300

kcal/1250 kJ.

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Ambiente e Benessere

Dötra, musicalmente pastorale Itinerari Un’escursione invernale in una regione splendida tutto l’anno

Romano Venziani, testo e immagini Il vento del nord non si è dato tregua, la scorsa notte. Ha spazzato le creste sollevando i cumuli di neve ammassandoli nei canaloni, che graffiano profondamente la montagna, ed è scivolato giù dalla Valle di Santa Maria seminando merletti di gelo sugli alberi intirizziti. Così stamattina la neve è compatta, dura come il cemento. «Non mi serviranno le racchette», penso, saggiando il biancore con gli scarponi. Mi chiedo però come sarà più tardi, con questo sole, già alto e caldo nel cielo sfacciatamente azzurro. L’anziano contadino, che mi guarda lisciandosi la barba, intuisce i miei dubbi e fa, «può darsi che si sprofondi, ma non ne sono sicuro. L’inverno non salgo più sui monti, da quando sono in pensione. Prima vivevo tutto l’anno lì sopra, a Oncedo, con le bestie». Adesso preferisce starsene tranquillo nella sua casetta di Piera, legna per il camino ne ha abbastanza, e poi, passeggiando su e giù sulla strada, s’imbatte sempre in qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere. «È neve compatta e con il freddo che ha fatto stanotte facile che tenga su tutto il giorno», sentenzia alla fine. Mi fido, lascio le racchette in macchina e mi metto in cammino. È ormai diventato un must, per me, il giro dell’altipiano di Dötra e Anveuda. In ogni stagione, perché ogni stagione ce la mette tutta per accoglierti con un paesaggio straordinario, che ti lascia immancabilmente senza fiato. La primavera lo incorona di fiori, scatena voli d’insetti su distese gialle di botton d’oro e ranuncoli dei boschi. Le pennellate di verde tenero dei larici ravvivano la chiazza più scura degli abeti, le gemme gonfie degli ontani si aprono liberando un vibrare di foglioline, mentre alti si alzano i canti degli uccelli migratori tornati a nidificare con visioni africane nei loro occhietti vivaci. L’estate porta l’omogeneità del verde, spruzza i prati di fiori dai mille colori e l’aria profuma di resina e pini cembri. Si deve all’autunno, però, il più bel lavoro di pittura paesaggistica. Lui sì che sa sbizzarrirsi con i colori: usa tutti i toni caldi dei gialli, dei rossi e dei marroni e li distribuisce con armonia sulla tela dei monti, che cercano di trattenere così l’illusione di un po’ di tepore per l’inverno in arrivo. Quando poi cade la neve, la montagna si fa magica, immersa in una pace soffice e irreale, incrinata appena dai voli delle ghiandaie o dai richiami striduli delle cornacchie. Di tanto in tanto, però, quel silenzio a cui non siamo più avvezzi e che ci avvolge di benessere si sbriciola, colpito

in pieno dal frastuono di una motoslitta. Sacramenti finché il rumore si allontana, si fa ronzio, per poi dissolversi nel nulla, lasciando solo un filo di fumo nell’aria pulita, che trattiene per un attimo l’odore pungente del carburante. Con il loro su e giù, le motoslitte hanno pestato ben bene la neve della stradina, che si stacca dalla cantonale del Lucomagno e sale sul versante sinistro della valle. Si cammina agevolmente, seguendo per un breve tratto il Ri di Piera, un ruscelletto ora esangue, ridotto a una lieve traccia scura sul terreno innevato. E pensare che, quando ci si mette, è capace anche lui di far la voce grossa e causare disastri. Lo ricordo nell’87, l’estate delle alluvioni, con la valle di Blenio isolata. C’ero passato sopra in elicottero per documentare in immagini l’entità dei danni provocati dal Brenno in piena. Volando verso il Lucomagno, in mezzo a violenti scrosci d’acqua e a un guizzare inquietante di fulmini (bacerò la terra all’atterraggio), avevo visto là sotto il Ri di Piera sgorgare sbuffando dal bosco, per poi rotolare tutto melma e schiume giù verso Camperio e Sommascona. Gli annali della valle lo ricordano ancor più arrabbiato, quella volta, nel settembre del 1927, quando «un enorme ciclone si abbatté sulla Costa di Dotro ed Anvedova, e l’irruenza delle acque precipitanti a valle… divelse gli alberi, che fecero chiusa, segnatamente al Ponte di Piera e nella Gola dell’Oer da Cossa, per poi sgombrare con impeto immenso, rasa-

re parte di Camperio e devastare Sommascona e tutta la conca verdeggiante che scende fino a Lavorceno». Volendo si può continuare sulla stradina, ma preferisco la via più diretta e prendo il sentiero che, dopo una ripida salita, sbuca sulle gobbe dolci di Oncedo per poi infilarsi nel bosco della val Bogin. La neve, inondata di sole, è tutta un luccicare di cristalli e continua impassibile a reggere il mio peso. Non ce n’è molta, a dire il vero, e qua e là si vedono ampie chiazze di erba secca. Dopo un po’, le cascine e le stalle di Dötra appaiono dietro un intreccio di rami e il sentiero, per un tratto pianeggiante, prima di affrontare l’ultima salita incrocia di nuovo il Ri di Piera, il quale, lì in alto, si allarga in un ventaglio di microscopici affluenti, che succhiano le acque dell’ampia conca alle spalle del nucleo, dove si aprono estesi prati paludosi. La regione, unitamente al Lucomagno, è iscritta dal 1996 nell’Inventario dei paesaggi palustri d’importanza nazionale e, con i suoi 2745 ettari, è la più estesa delle cinque zone ticinesi, che figurano nel prezioso documento; le altre sono il Piano di Magadino, i Monti di Medeglia, l’Alpe di Chiera (sopra Faido) e l’Alpe di Zarìa (in Val Lavizzara). Con l’entrata in vigore dell’Ordinanza di protezione delle zone palustri, di cui l’Inventario è parte integrante, si sono creati i presupposti per la salvaguardia di questi ambienti naturalistici

Sopra, l’itinerario illustrato dall’autore del reportage; qui di fianco, il nucleo di Dötra allungato sul pendio. Su www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia.

straordinari. L’Ordinanza non si limita però a imporre solo vincoli protettivi, ma prevede anche la possibilità di favorire lo sviluppo di questi spazi e un loro uso sostenibile. Le aree palustri e i prati magri di questo altipiano unico in Ticino, poco interessanti dal punto di vista agricolo, grazie a un progetto d’interconnessione promosso e coordinato dalla Fondazione Dötra, oggi sono gestiti in modo estensivo dai contadini di Olivone, i quali, con lo sfalcio e rinunciando a concimazione e bonifiche, contribuiscono alla conservazione di queste superfici estremamente preziose dal profilo della biodiversità. D’estate le praterie di Dötra sono una delizia per gli occhi, che si saziano dell’arcobaleno di colori di una miriade di fiori. Per il momento, però, il mio sguardo abbraccia soltanto una distesa di bianco su cui poggiano l’azzurro del cielo e il nucleo di cascine, che appare deserto e silenzioso nell’aria immobile. Chiuse anche le imposte rosso brillante della Capanna della SAT Lucomagno, con la sua bandiera svizzera che penzola, inerte, dal pennone. Un «Aperto» ritagliato nel legno è invece appeso all’entrata del Grotto Dötra. È un po’ cambiato, dentro, dall’ultima volta che sono stato qui, tavoli nuovi, quadri alle pareti, due fisarmoniche appoggiate sul davanzale di una finestra. Un omone con occhiali neri, lobo con orecchino e uno strano tatuaggio su un avambraccio, contempla serioso il suo smartphone. Una coppia di svizzero-tedeschi con gli scarponi da sci arancio fosforescente chiacchiera con un anziano dalla barba sale e pepe. Dalla cucina, «Zio», l’attuale gerente, mi saluta debordante e cordiale. «Lui è Olli», mi dice, accennando col capo al cagnone nero, che scodinzola felice puntandomi il naso all’altezza del torace. Christian Zaninelli è qui da poco più di un anno, ma ha il mestiere nel sangue. «Ho gestito la capanna Grossalp – racconta – il Grotto Lafranchi di Coglio, infine sono arrivato in Dötra. Ho cominciato come responsabile della capanna della SAT, poi si è liberato il grotto e così eccomi qui. Mi piace da matti, la montagna, non potrei più vivere al piano». Un entusiasta, penso, ben vengano persone come lui. «Vai di sotto a vedere la mia enoteca» riprende, rigirando il mestolo nella pentola del minestrone. M’infilo in un’angusta scala, che scende in quella che un tempo era la stalla delle mucche. Quadri appesi alla parete giallo-antico,

vecchi cimeli contadini e la lunga mangiatoia di legno tirata lustra, con decine di bottiglie di vino in mostra su un letto di paglia. «Sei ben fornito», gli dico tornando di sopra. «Assaggia questo» mi fa con un sorriso soddisfatto, allungandomi una fetta di pane. Lo cuoce lui, di tutte le forme e dimensioni, ed è squisito. Un foglietto fissato alla parete reclamizza «una stimolante esperienza di un viaggio in slitta trainata da motoslitta, sulla tratta Piera-Dötra, proposta dagli operatori autorizzati Pasquale e Diego Devittori e Enea Solari», seguono i numeri di telefono e le tariffe, sessanta franchi a persona andata e ritorno, cento a viaggio per tre passeggeri… È ancora un turismo a misura d’uomo, quello che ritroviamo quassù, diciamo pure «ecosostenibile», nonostante l’occasionale scoppiettare puzzolente delle motoslitte, peraltro indispensabili per chi, sul monte, ha un cascinale e vuole approfittarne tutto l’anno. E pensare che nello splendido altipiano di Dötra sarebbe dovuto sorgere un faraonico insediamento turistico, con alberghi, appartamenti condominiali e châlets per tremila posti letto, migliaia di posteggi, quindici chilometri di impianti di risalita e un’estensione di piste da sci, che avrebbero snaturato definitivamente l’immagine della montagna. Il progetto, nato negli anni Sessanta e promosso dalla Dötra SA all’inizio del decennio seguente, prevedeva un investimento di oltre 300 milioni di franchi ed era stato accolto con entusiasmo dal comune di Olivone, dalla Regione Tre Valli, che lo aveva inserito nel suo piano di sviluppo, e dal Cantone intenzionato a partecipare finanziariamente all’operazione. L’idea però, a causa dell’alto costo, si trascinò negli anni e, per finire, grazie alla nascente e nuova sensibilità ambientale fu definitivamente abbandonata. «Il gigantismo da noi non fu mai pagante», scriverà Graziano Papa, il quale, con Ferruccio Bolla e varie associazioni ambientaliste, si era fermamente opposto alla sconsiderata iniziativa, che minacciava «uno dei paesaggi più morbidi, più torniti, più sereni, più musicalmente pastorali delle Alpi centrali». Ci penso spesso, al mega-progetto, quando ammiro da lontano il nucleo armonioso di Dötra, disteso sul dolce pendio, con, sullo sfondo, la vetta tozza dell’Adula, il suo ormai misero ghiacciaio, le tante cime allineate sullo spartiacque tra Ticino e Grigioni: il Grauhorn, la Punta dello stambecco, il pizzo Cassimoi, il Cassinello… Il sole sta ormai solleticando la Punta di Larescia, gocce di luce dorata indugiano ancora per un attimo sugli aghi degli abeti, un’atmosfera stupefatta sorprende la montagna e inizia a far fresco. È tempo di tornare al piano. Passando da Anveuda, con le sue cascine abbracciate le une alle altre nell’ampia conca già immersa nell’ombra, rivolgo l’immancabile saluto silenzioso alla Paolina, l’anziana contadina che qui era di casa. Ero salito a trovarla qualche giorno dopo il suo novantesimo compleanno. Un 90 di erba e fiori intrecciati era appeso all’entrata, ma la porta era chiusa. Lei se n’era andata, mi diranno, all’indomani della festa, per sempre. Ma io continuo a immaginarla ancora lì ad attizzare il fuoco nel camino, con il mazzetto di fiori sul davanzale della finestra, una luce fioca appesa a una vecchia trave. E sono convinto che la sentirò arrivare alle mie spalle, scendendo verso Piera, con il fazzoletto in testa, lo sguardo vivace e un sorriso radioso. Seduta sulla slitta, che scivola veloce a valle, mi saluta con un cenno della mano. Così mi piace ricordarla.


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Idee e acquisti per la settimana

Affrontare la stagione dei pollini senza lacrime In Svizzera circa 1,2 milioni di persone di ogni età soffrono periodicamente di rinite allergica.Spray decongestionanti, colliri, creme e lavaggi nasali possono servire per affrontare meglio la stagione dei pollini. Specialmente il principio attivo naturale Ectoin contenuto nei prodotti Sanactiv esplica un effetto particolare: stabilizza le cellule e riveste le mucose con una pellicola protettiva che impedisce l’ingresso degli allergeni.

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Ambiente e Benessere

L’insostenibile fragilità dell’animo Sport Il Coronavirus sta mettendo a nudo le nostre debolezze individuali e collettive

Smarrito. Travolto nelle abitudini e nei rituali. Il popolo dello sport è impaurito, fragilizzato. Prima d’ora, soltanto le due Guerre Mondiali erano state capaci di paralizzarlo. Da un lato perché era piuttosto pericoloso assembrare migliaia di persone, negli stadi, o lungo le strade, ad ammirare baldi giovanotti che si sfidavano in braghe corte. D’altro canto, perché questi uomini, forti e coraggiosi, servivano per ben altri scopi alle rispettive patrie. A 75 anni dalla conclusione del secondo evento bellico, ci sta riuscendo il Covid-19, altrimenti noto come Coronavirus. Non alludo alla Cina, dove gran parte delle attività sociali sono vietate da tempo, e dove, a quanto si legge (ma dubitare è lecito), si sta già mettendo in atto una controtendenza. Penso alla Svizzera, all’Italia, e all’Europa in genere. Questo virus partito da lontano, questo microrganismo di dimensioni inimmaginabili, sta mettendo a terra un fenomeno robusto, forte, ricco e «macho» come lo sport. Saltati i Play Off di hockey su ghiaccio. Bloccato il calcio nazionale. Quello internazionale si sta interrogando, nel caos e nell’incertezza, ma con le positività al virus, riscontrate ad alti livelli, la parola d’ordine è stop. Pure la pallacanestro, anche quella patinata della NBA ha optato per il letargo. Stop anche per la Maratona Engadinese, che domenica 8 marzo avrebbe dovuto portare sulle piste tra Maloja e Schanf, circa 14mila fondisti. Luce rossa anche per la Media Blenio, in cartellone il giorno di Pasquetta. Anche i motori, il tennis e lo sci nordico si interrogano.

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Giancarlo Dionisio

Lo sci alpino ha mandato tutti in ferie anzitempo. Le classifiche stagionali ne risulteranno falsate, ma questo è il minore dei mali. Sono usciti dal cartellone anche parecchi appuntamenti della stagione ciclistica, su tutti la Classicissima dei Fiori, l’attesissima Milano-Sanremo. In precedenza, l’Unione Ciclistica Internazionale aveva interrotto il Giro degli Emirati Arabi, e 4 squadre europee erano state tenute in quarantena ad Abu Dhabi. La Parigi-Nizza è partita fra mille paure, ma Giro e Tour sono a rischio. Insomma. O non si gareggia, oppure, nella migliore delle ipotesi, lo si fa a porte chiuse. In passato non si era mai

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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Sudoku

ORIZZONTALI 1. Insieme di tradizioni ed usanze 7. Le iniziali della giornalista Gruber 8. Uno strato del nucleo terrestre 9. Circondano i facoltosi 11. Provocanti, scandalose 12. Il nome dell’attore Frassica 14. Le iniziali dell’attore Accorsi 15. Piene di acredine 17. Formaggio olandese 22. Priva di sollecitudine 24. Le nonne di una volta 25. Termine di diminutivi maschili plurali 27. Cupa, oscura 29. La conduttrice Daniele (Iniz.) 30. Dietro al peritoneo 32. Vi si conservano i resti dei defunti 34. La forma più antica di un vocabolo 35. Pianta erbacea

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suti altri, anche a livello internazionale. Guerre e malattie hanno provocato problemi e danni allo sport. Malattie vere, sconosciute, preoccupanti, a rapida diffusione, come il Covid-19, oppure fenomeni patologici come il tifo da stadio. Per quest’ultimo ci sono state e ci saranno sempre delle vie d’uscita. Il mix adeguato di informazione, cultura, prevenzione e, se indispensabile, di dura repressione, possono limitare il fenomeno. In Inghilterra, patria dell’Hooliganismo, sono stati ottenuti ottimi risultati. Ma al dilagante diffondersi del Coronavirus, il mondo dello sport non può che assistere impotente, frustrato,

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba Per scoprire come si chiama questo anfibio, completate il cruciverba e leggete nelle caselle evidenziate. (Frase: 7, 3, 6, 5)

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assistito a un fenomeno di tali dimensioni. Nel 2009, in Messico, l’influenza suina aveva costretto la disputa di alcune partite a spalti deserti. Altrimenti, in altre occasioni, ma mai in modo così devastante come lo sta inducendo il Coronavirus, solo un’altra malattia aveva costretto le autorità civili e sportive a chiudere i battenti degli stadi: il TIFO. Nel 2007, ad esempio, l’uccisione dell’ispettore Filippo Raciti durante gli scontri ai margini del derby tra Catania e Palermo, aveva spinto la Lega calcio a indire un turno completo di campionato a porte chiuse. Di singoli episodi analoghi, lo sport, soprattutto il calcio, ne ha vis-

costretto ad annullarsi, pur di garantirsi una ripresa in tempi ragionevoli. Ne La Peste di Albert Camus, il predicatore gesuita Paneloux rivolge un feroce sermone ai fedeli di Orano, città algerina in cui l’epidemia sta correndo velocemente. «Miei fratelli, siete caduti in disgrazia. Miei fratelli, l’avete meritata». Questo è l’incipit. Poi, attingendo ad alcuni episodi biblici, il sacerdote prosegue tuonando che, «privati della luce divina, eccoci catapultati a lungo nelle tenebre della peste». Sui social, in mezzo a folte schiere di allarmisti, minimalisti, virologi ed epidemiologi della domenica, cassandre e altro, ci sono anche loro, i moderni Paneloux, convinti che l’umanità, e di conseguenza anche il mondo dello sport, stia pagando il prezzo di reali o presunte malefatte. Non mi schiero con questo fronte colpevolista, anche perché il virus è cieco, trasversale. Colpisce, sì, alcune categorie a rischio, come gli anziani, e coloro che sono già molto debilitati da altre patologie, ma non seleziona tra credenti e atei, fedeli e infedeli, svizzeri, italiani, cinesi o uzbeki. Lo stesso Peneloux urlava: «Vous êtes tous concernés», per poi scivolare più avanti in un più onesto «Nous sommes tous concernés». Non ci resta che attendere. Il virus sta modificando le nostre abitudini. Ci sta fragilizzando. Siamo smarriti di fronte al suo incalzare. L’auspicio è che possa indurci a riflettere su quanto siano effimeri potere, successo, gloria, e denaro. Il Covid-19, non sa chi siano Roger Federer e Cristiano Ronaldo, non sa chi siamo voi ed io. Con ruoli diversi siamo tutti attori di una pièce che in futuro potrebbe essere più divertente e salutare di quanto non sia stata finora.

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

VERTICALI 1. Una cricca di amici 2. Noia mista a malumore 3. È finito... in fondo 4. Indicato nelle istruzioni 5. Un cosmetico 6. L’incerto di ogni impresa 1 2 3 4 5 6 7 8 10. Propensi, disposti 10 11 13. Tre vocali 12 13 14 15 16 16. Contiene informazioni genetiche 17 18 19 20 18. Preposizione 19. Conseguire, ottenere 23 21 22 20. 24Antica regione dell’Asia 25 21. Un anagramma di seri 27 28 29 30 23. Bruciata 31 33 34 26. Termine da32tennista 35 di36 37 38 28. Sigla ente sanitario italiano 31. Le iniziali della cantante 39 40 Marrone 33. Le iniziali della cantante Tatangelo

Soluzione:

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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

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Partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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Il migliore della categoria.

VINCITORE

DEL TEST

Saldo

N. 01/2020: ottimo 5.5

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Migros Bio Salmone affumicato alla limetta per 100 g, d’allevamento, Norvegia

Salmone confezionato sotto la lente: fra i 15 prodotti marinati a base di salmone d’allevamento testati, il nostro salmone affumicato alla limetta Migros Bio ha convinto la giuria ed è stato dichiarato vincitore del test con il voto «ottimo». Ne siamo orgogliosi. Solo un prodotto si è distinto molto bene nel test; risultati sufficienti, insufficienti o persino pessimi per gli altri prodotti valutati.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Politica e Economia Covid-19: l’America regisce Crollo storico delle borse dopo la decisione dello stop dei voli da e per l’Europa

La Libia, paese in ginocchio Intervista a Mustafa Sanalla, capo del NOC, National Oil Corporation libica sulla difficilissima situazione sociale e economica nel Paese dopo la decisione del generale Haftar di chiudere i pozzi petroliferi

Il regime travolto dal virus La grande celebrazione a inizio febbraio dei quarant’anni della rivoluzione islamica ha portato il Paese a ignorare l’epidemia. E ora ne paga le conseguenze

Gli utili della BNS Quest’anno la BNS distribuirà 4 miliardi a Confederazione e cantoni, risvegliando ulteriori appetiti

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pagina 33 Il premier Giuseppe Conte: gli italiani hanno approvato le sue misure di contenimento. (Keystone)

L’Italia nell’ora più buia

Emergenza Covid-19 Tutto il Paese diventa una zona protetta per tutelare la salute dei cittadini Alfredo Venturi Ci voleva il coronavirus per smorzare la rissa permanente fra le forze politiche italiane. Di fronte a una drammatica progressione dei contagi maggioranza e opposizione hanno momentaneamente deposto le armi mentre si cerca il modo di uscire dall’emergenza. Così è nato il decreto con cui il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha esteso all’intero territorio nazionale le misure di contenimento inizialmente limitate alle aree più colpite: la Lombardia e alcune altre province. Stesse limitazioni per tutti fino al 3 aprile, nella speranza che non si rendano necessarie proroghe di validità. Poi Conte ha rincarato la dose: fino al 25 marzo chiusi tutti i negozi, garantiti solo gli approvvigionamenti e i servizi essenziali. Sono misure drastiche: oltre alla chiusura delle scuole e delle università, dei musei e delle biblioteche, delle palestre e delle piscine, dei cinema e delle discoteche, dei ristoranti e dei bar, i cittadini sono sollecitati a muoversi soltanto per ragioni di lavoro o di salute. Bloccati gli eventi sportivi, giornate e serate spettrali nelle città deserte con tanti saluti alla movida, una sorta di coprifuoco che richiama circostanze e tempi

lontani. E forse non basta: la Lombardia stremata chiede di più, chiusura totale di ogni attività, trasporti compresi. La Confindustria non è d’accordo, le aziende vanno tenute aperte. Conte si dice pronto a misure ulteriori ma avverte: no a richieste emotive. Minacciati di sanzioni anche penali, gli italiani sono pregati di restarsene a casa rinunciando alla loro congenita socialità. Roma applica, in forma democraticamente attenuata, quel modello cinese che nella sua versione originaria sembra inapplicabile a una società occidentale. Ha funzionato in Cina, dove la forzata segregazione di immense città e intere regioni ha ridotto la diffusione del morbo. Ha funzionato anche nella prima «zona rossa» italiana, quel grappolo di comuni attorno a Lodi che videro l’esordio dell’epidemia e dove da qualche giorno, dopo alcune settimane di isolamento pressoché totale, non si registrano nuovi contagi. Si è arrivati al giro di vite dopo settimane di tentennamenti, approssimazioni, fughe di notizie accompagnate da una serie di pasticci comunicativi. La chiusura delle scuole fu dapprima diffusa dalla stampa, poi smentita e infine confermata. Qualche giorno più tardi furono annunciate le misure destinate

alle aree a «contenimento rafforzato», di cui uscì sui giornali una bozza alcune ore prima della firma di Conte. Quell’anticipazione provocò un assalto alla diligenza: migliaia di lombardi di origine meridionale sui treni diretti al Sud. Cercavano riparo nelle famiglie d’origine, coinvolgendole così nell’emergenza che le aveva fin qui risparmiate. Nelle prime fasi della crisi la politica ha offerto uno spettacolo di inadeguatezza rispetto alla gravità del momento. Da una parte un aspro contrasto fra le regioni, responsabili della gestione sanitaria, e il governo centrale preoccupato di contrapporre alla sfida un’efficace risposta nazionale. Poiché le due regioni più colpite, Lombardia e Veneto, sono guidate dalle forze di opposizione, il confronto istituzionale si è incrociato con la consueta virulenza polemica. Anche perché sono in calendario alcune elezioni locali, che nonostante l’emergenza richiamano l’attenzione dei partiti. Ma stavolta l’opinione pubblica, atterrita dal virus e ben poco interessata alle elezioni, non ha abboccato. I sondaggi rivelano un’erosione dei consensi per la Lega di Matteo Salvini, che resta tuttavia la formazione più popolare, e la rimonta del Partito Democratico, principale for-

za governativa. L’epidemia ha confinato in secondo piano i prediletti temi leghisti, come la pressione migratoria o la polemica sul ruolo dell’Unione Europea. E così Conte, al timone nella bufera in quella che citando Churchill definisce l’ora più buia, veleggia in testa alle graduatorie del gradimento lasciando i rivali a debita distanza. Evidentemente la maggioranza degli italiani si fida di lui, nonostante l’economia ferma e il crollo dei valori in Borsa, mentre l’epidemia si accanisce proprio sul santuario produttivo lombardo-veneto. Dove si temono pesanti conseguenze sull’occupazione, dove si sentono relativamente al sicuro soltanto i settantamila frontalieri che hanno in Svizzera il loro posto di lavoro, visto che sono stati autorizzati all’espatrio pendolare con il consenso delle autorità elvetiche. Come se non bastasse, una congiuntura stagnante che rischia di precipitare nella recessione ha turbato ulteriormente il quadro una lunga rivolta nelle carceri, dopo la decisione di sospendere le visite dei famigliari per evitare contagi. Un’esplosione di rabbia e violenza, in parte scaturita dal cronico problema italiano del sovraffollamento carcerario, con dodici morti per abuso di psicofarmaci sottratti alle infermerie

o soffocati dal fumo degli incendi, e una ventina di evasi. Da settimane ormai medici e infermieri lavorano a ritmi massacranti in condizioni di forte tensione emotiva, perché le apparecchiature di rianimazione non bastano e dunque temono di dover prendere decisioni angoscianti selezionando i malati, concentrando gli sforzi su quelli che si considerano guaribili e abbandonando gli altri al loro destino. Il governo assicura che le lacune in materia di attrezzature saranno colmate e annuncia l’assunzione di nuovo personale, rimediando in parte agli effetti dei tagli alla spesa sanitaria decisi a suo tempo per far quadrare i conti pubblici. L’opposizione vorrebbe, come il governo regionale lombardo, la chiusura totale delle attività, la vorrebbe per l’Italia intera, anzi per l’Europa. Chiede che per salvare il sistema produttivo vengano stanziati molto più dei venticinque miliardi di euro annunciati da Conte. Sarebbe tutt’altro che semplice: Roma ha chiesto e ottenuto a Bruxelles di portare il deficit a ridosso di quel tre per cento che è il massimo consentito dagli accordi di Maastricht e dal patto di stabilità, ma non pare possibile andare oltre. Intanto il Paese langue, in attesa che passi la nottata.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Politica e Economia

L’Atlantico è il nuovo muro

Economia virale Donald Trump affronta per la prima volta il Covid-19 chiudendo le frontiere con l’Europa.

Per il presidente l’epidemia si sta forse trasformando in una prova d’incompetenza aggravata dal rischio di recessione

Federico Rampini Dopo una lunga serie di crolli di tutte le Borse mondiali, un record negativo è stato stabilito dalla seduta di giovedì 12 marzo, quando a Wall Street l’indice azionario Dow Jones ha perso il 10% nonostante la banca centrale americana fosse intervenuta in soccorso degli investitori con una eccezionale iniezione di liquidità: 1.500 miliardi di dollari. Dall’Asia all’Europa le perdite erano perfino più pesanti, malgrado altri interventi di banche centrali. Tutte le Borse sono ormai entrate abbondantemente nella fase dell’Orso, come vengono designati i periodi di ribassi superiori al 20%. Per trovare tracolli così drammatici concentrati in così poco tempo bisogna risalire ad anni nefasti segnati da crack che hanno fatto la storia: 1929, 1987, 2008. Il blocco per 30 giorni dei viaggi da e per l’Europa (Regno Unito escluso) deciso da Donald Trump è un altro colpo duro per l’economia. L’Europa è la prima destinazione per gli americani che viaggiano, sia per turismo che per affari. L’anno scorso più di 72 milioni di passeggeri americani hanno visitato l’Europa. Che cosa sta accadendo nell’economia mondiale? I mercati finanziari vedono arrivare una recessione. Al di là del calo della domanda, nel medio-lungo termine le aziende di tutto il mondo devono affrontare due sfide strategiche: primo, la riorganizzazione della catena produttiva e logistica per renderla meno vulnerabile; secondo, la transizione al tele-lavoro, lavoro a distanza, tele-working o smart-working. Il timore di una recessione in arrivo spiega la decisione della Federal Reserve lunedì 2 marzo di ridurre di ben mezzo punto i tassi, senza aspettare la data del meeting istituzionale preposto alle decisioni sui tassi. Questo genere di azioni fuori programma, la Fed la effettuò dopo il crack del 2008. Che sia alle porte una recessione sembrano pensarlo la maggioranza degli investitori in titoli pubblici americani, avendo sospinto il rendimento dei Treasury Bond decennali sotto l’un per cento per la prima volta nella storia. Segnali analoghi pre-recessione si possono notare nella brutalità della caduta del prezzo del petrolio, e nell’impennata dell’oro. Il crollo del petrolio è stato accentuato dall’improvviso accendersi di uno scontro fra Arabia saudita e Russia. La premessa è che la frenata cinese e il rallentamento globale avevano già ridotto i consumi energetici provocando un calo dei prezzi petroliferi di un terzo dall’inizio dell’anno. L’Arabia voleva concordare con la Russia dei tagli di produzione coordinati. Non avendo trovato un accordo, l’Arabia si è mossa da sola per infliggere il massimo danno alla Russia, con aumenti di produzione e forti sconti, che hanno accelerato il tracollo dei prezzi. Attenzione al rischio default sui bond, anche emessi da aziende energe-

tiche americane che operano ai margini nell’estrazione attraverso fracking: è un settore sovra-indebitato. Più in generale le banche americane sono esposte a crisi dei loro grossi clienti corporate, non solo nell’industria petrolifera ma in tutti i settori. In Borsa i titoli bancari hanno perso quasi il doppio rispetto alla media delle perdite degli indici azionari. La Boeing ha dovuto attingere a fidi bancari per quasi 14 miliardi di dollari, e molte aziende stanno facendo lo stesso. In una riunione alla Casa Bianca con Trump il chief executive della Bank of America ha voluto rassicurare che «questa non è una crisi finanziaria» (citazione che poi è stata ripresa dallo stesso Trump) ma non è mai un buon segno quando i banchieri devono fare questo genere di dichiarazioni. Il costo per assicurare delle obbligazioni bancarie contro il rischio di default è quasi triplicato in una settimana, anche se siamo ancora molto al di sotto dei livelli del 2008. In questo scenario può stupire che l’euro si rafforzi sul dollaro. È la valuta americana che vede attenuarsi il suo status di bene-rifugio perché i mercati si aspettano ulteriori cali nei rendimenti oltre che della crescita. Gli investitori scommettono che anche stavolta la Fed sarà più aggressiva della Bce, e quindi il differenziale di rendimenti che rafforzava il dollaro andrà assottigliandosi. Tra le incognite sul fronte americano una riguarda proprio l’efficacia della politica monetaria. La Fed oltre a ridurre ulteriormente i tassi – inseguendo i rendimenti negativi della Bce come vorrebbe Trump – può riprendere gli acquisti di bond, magari allargando la varietà e tipologia di titoli acquistati, estendendola a titoli privati. Funzionò dopo il 2008 quando in cinque anni i mercati furono inondati di 4.500 miliardi di dollari di liquidità. Però le differenze col 2008 pesano. Intanto, quella crisi arrivò lentamente: le prime avvisaglie ci furono nell’estate del 2006 quando si raggiunse il picco dei prezzi immobiliari; la recessione cominciò nel dicembre 2007 e divenne pesante nell’autunno 2008. Oggi la Fed deve esaminare la possibilità di una frenata concentrata su pochi mesi. E con caratteristiche inedite, dal lato dell’offerta e della domanda. Uno shock dal lato dell’offerta, lo si può paragonare a un supermercato dove gli scaffali sono vuoti perché non è arrivata la merce che doveva essere fabbricata in Cina. Uno shock dal lato della domanda, lo possiamo immaginare come un supermercato vuoto di clienti, perché i consumatori stanno chiusi in casa. La banca centrale inondando di liquidità l’economia può cercare di rendere i consumatori e le imprese un po’ meno pessimisti e in parte può intervenire sul loro potere d’acquisto o capacità d’investimento. Però non può riaprire zone chiuse per quarantena; né tantomeno può aggiustare una catena produttiva e

Il blocco dei viaggi da e per l’Europa deciso da Trump è un brutto colpo per l’economia. (AFP)

logistica spezzata in qualche anello cinese che non sta funzionando. Perciò si sta discutendo di come la politica di bilancio, la spesa pubblica, possa arrivare là dove la politica monetaria non serve. Il Congresso ha approvato un intervento d’emergenza di 8,3 miliardi di dollari, già firmato da Trump. Ma questo basta appena per fare arrivare finanziamenti urgenti alle varie agenzie sanitarie federali impegnate sul fronte del coronavirus. Trump chiede al Congresso di ridurre le ritenute fiscali sulle buste paga e le tasse sulle imprese, almeno nei settori più colpiti cioè trasporti, turismo, spettacoli e tempo libero. Nell’immediato il presidente annuncia un intervento da 50 miliardi a sostegno di questi settori: liquidità, prestiti, sgravi fiscali e dilazione nelle scadenze di pagamento d’imposte, più un intervento a favore dei lavoratori che perdono salario se stanno a casa per malattia. Le preoccupazioni più gravi si situano proprio nell’interfaccia tra l’economia e la sanità. Gli Stati Uniti hanno un sistema sanitario frammentato perché prevalentemente gestito da una pletora di assicurazioni private. Le regole variano da un’assicurazione all’altra e da uno Stato all’altro. Questo non aiuta a coordinare una risposta veloce ed efficace ad una pandemia. Inoltre quasi un terzo dei lavoratori americani perde salario se sta a casa per malattia: questo spinge gli ammalati ad andare al lavoro comunque, contagiando i colleghi. I «kit diagnostici» coi tamponi per individuare il coronavirus all’inizio venivano fatti pagare ad alcuni pazienti; ora sono gratuiti ma si sono resi disponibili in ritardo, dopo una penuria iniziale. L’Amministrazione Trump è sotto

accusa per la lentezza nel reagire; anche al netto delle polemiche politiche, non si può escludere che la dimensione del contagio negli Stati Uniti sia sottostimata e che i giorni a venire ci riservino brutte sorprese. Uno dei massimi esperti sanitari al vertice di un’agenzia federale, il medico Anthony Fauci che dirige il National Institute of Allergy and Infectious Diseases, ha suggerito che possano rendersi necessarie misure d’isolamento d’intere aree degli Stati Uniti, sul modello italiano. Un modello statistico che applica alla popolazione americana il livello di contagio dell’influenza suina del 2009, e un indice di mortalità dello 0,68%, porterebbe a un bilancio di 440.000 morti, citato dallo storico dell’economia Niall Ferguson sul «Wall Street Journal». Può valere per gli Stati Uniti quello che gli esperti epidemiologici pensano dell’Inghilterra e cioè che il picco del contagio sia in ritardo di un mese sull’Italia, quindi il peggio possa accadere in aprile. Una preoccupazione in più accomuna gli Stati Uniti all’Europa: siamo tutti dipendenti dalla Cina come fornitrice di principi attivi dei medicinali, e per alcuni di questi già si registrano penurie. Cina e India sono i due maggiori produttori mondiali di farmaci generici, nonché di principi attivi per antibiotici. Anche la resilienza dell’economia reale è alla prova. L’economia digitale è attrezzata per passare al tele-lavoro e infatti si moltiplicano le aziende che chiedono ai dipendenti di lavorare da casa. Sono i servizi e i settori della Old Economy che soffrono. Si stima che il 37% dei lavoratori americani siano nell’impossibilità di lavorare da casa. È

una sfida per tutte le aziende: garantire che i dipendenti abbiano laptop o tablet adeguati, wi-fi veloce a casa, e accesso ai siti aziendali con procedure di sicurezza. E questo è solo l’aspetto tecnico, poi c’è tutta la riorganizzazione del lavoro aziendale da avviare. Nel frattempo chi può si converte a piattaforme digitali come Zoom, la più utilizzata per le videoconferenze online; le concorrenti sono Microsoft Team, Slack, Google G Suite. A voler trovare il lato positivo di questa epidemia, ci costringe tutti a un corso accelerato e intensivo sull’uso di queste tecnologie, che saranno comunque utili in futuro (per esempio per ridurre le emissioni di CO2). E le ricadute politiche del coronavirus? Ha probabilmente contribuito ad accelerare i tempi della nomination democratica, in favore di Joe Biden. In una crisi un politico di carriera, con una collaudata esperienza di governo (8 anni come vice di Obama) è la scelta della sicurezza; mentre un radicale di sinistra come Sanders ha perso attrattiva. È presto per valutare l’effetto coronavirus su una sfida finale Trump-Biden il 3 novembre. A giudicare dalla risposta iniziale di Trump, c’è la possibilità concreta che questa epidemia diventi per lui l’equivalente di quel che fu l’uragano Kathryna per Bush: un disastro d’immagine, una prova d’incompetenza. Più il rischio recessione che compromette uno degli argomenti forti per la sua rielezione, cioè la buona salute dell’economia. Trump però sta cercando di usare il coronavirus per rafforzare la sua narrazione nazionalista-sovranista: lo chiama «il virus straniero», un modo per sottolineare l’utilità di controllare le frontiere. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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«Un ricatto. Illegale»

Politica e Economia

Intervista Mustafa Sanella, capo della compagnia petrolifera National Oil Corporation (Noc) di Tripoli

spiega le decisione del generale Haftar di chiudere i pozzi petroliferi mentre a Berlino le parti stavano firmando un accordo per il cessate il fuoco grande aiuto, ma anche altre compagnie, come Repsol. Quindi la mia risposta una volta ancora è: non premiare chi infrange la legge, e che le altre nazioni alzino la voce affinché sia rispettato lo stato di diritto. All’Italia spetta un ruolo centrale in questo, spero che sia protagonista di un considerevole sforzo.

Francesca Mannocchi Lo scorso 19 gennaio, i leader mondiali si sono riuniti a Berlino per negoziare un cessate il fuoco e la fine delle ingerenze delle potenze regionali nel conflitto libico, che vede contrapposte le forze del Generale Khalifa Haftar a est e il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al Serraj riconosciuto dalle Nazioni Unite, a ovest. Conflitto iniziato il 4 aprile dello scorso anno dopo che le truppe del generale Haftar hanno attaccato la capitale Tripoli. Haftar ha risposto alla conferenza di Berlino chiudendo i giacimenti petroliferi e nelle stesse ore in cui faticosamente si cercava una trattativa politica e diplomatica le sue forze armate continuavano a bombardare le periferie meridionali della capitale.

Alla luce di tutto questo è fiducioso negli accordi di Berlino?

Ogni sforzo per aiutare la Libia è benvenuto, ma ci sono sforzi maggiori che vanno fatti sul terreno. La Libia è in Nord Africa e possiamo cambiare molte cose, ma non la geografia, per questo chiedo all’Italia di giocare un ruolo maggiore in Libia, per portare pace e prosperità. Se la gente non vede la luce in fondo al tunnel, sentirà di avere due sole alternative: o attraversare il mare – e allora in Europa non arriveranno solo ragazzi dall’Africa Sub-Sahariana, ma cominceranno ad arrivare anche i libici – o prestare il fianco agli estremismi. Il collasso dell’economia può solo rafforzare chi vuole danneggiare il Paese, cioè le milizie, i gruppi armati. Le persone oneste si sentiranno ancora più oppresse, aumentare l’instabilità potrà solo spostare queste persone pacifiche verso posizioni estremiste e rafforzare i radicalismi. E questa dovrebbe essere una ragione sufficiente per aiutarci a supportare i libici moderati e onesti.

La decisione di Haftar comporta conseguenze devastanti per il popolo libico e per l’economia di un Paese in ginocchio. Che dipende esclusivamente dal libero flusso di petrolio I leader tribali nella Libia orientale, suoi alleati, hanno accusato il governo sostenuto dalle Nazioni Unite di utilizzare le entrate petrolifere per sostenere i gruppi armati contro l’esercito dell’Est. In Libia il NOC, National Oil Corporation, genera ricavi dalla vendita di gas naturale, petrolio greggio e prodotti derivati, oltre alle tasse e ai canoni ricevuti dai contratti di concessione, e il blocco dei giacimenti sta provocando danni ingenti all’economia del Paese. «Il NOC è un’istituzione neutrale e apolitica», ci spiega Mustafa Sanalla, capo del NOC, nell’intervista che segue e che commenta la chiusura dei pozzi e lo shock finanziario di un Paese, la cui economia si basa sui proventi del petrolio. «L’economia è prossima al collasso. Solo negli ultimi 23 giorni abbiamo perso 1,5 miliardi di dollari. E sono perdite irreversibili. Prima del blocco producevamo 1,2 milioni di barili al giorno, adesso, sfortunatamente la produzione è crollata a 135 mila barili al giorno. Significa che siamo prossimi a perdere l’intera produzione. Questo può dare la misura di che tipo di emergenza il Paese stia affrontando». Dopo il blocco di Brega, Ras Lanuf, Hariga, Zueitina e Sidra lo scorso 8 febbraio è stata la volta della raffineria di Zawya, nell’ovest del Paese, a seguito della chiusura di una valvola nel condotto principale tra Sharara e la raffineria. (la raffineria di Zawiya produce su base mensile 120’000 tonnellate di gasolio, 49’000 tonnellate di benzina, 120’000 tonnellate di olio combustibile, 6000 tonnellate di gas di petrolio liquido[GPL], ndr) Quali sono le conseguenze di questa ulteriore chiusura?

Abbiamo chiuso Zawya perché non arriva greggio da lavorare. Questo ci costringe a importare carburante dall’esterno, il che, naturalmente, è molto costoso, è un danno in più per le casse dello Stato. La chiusura dei giacimenti è un problema per le nostre riserve, non so esattamente quante riserve abbia la

Questo blocco rischia di compromettere investimenti presenti e futuri delle aziende petrolifere nel Paese?

Mustafa Sanalla, capo del NOC. (AFP)

Banca Centrale Libica, ma non fatico a credere che termineranno molto velocemente. Due settimane fa, ad esempio, abbiamo ricevuto la comunicazione dalla Banca Centrale Libica che non riceveremo l’intero budget a noi destinato. E stimiamo che il 50% del budget dovrà essere utilizzato per compensare la mancanza di carburante provocato dalla chiusura di Zawya. Le interferenze nel settore petrolifero e del gas avranno effetti devastanti a breve e lungo termine sull’economia e a pagare il danno maggiore sarà il popolo libico. Quali sono le conseguenze immediate sulla vita dei cittadini?

Sarà una crisi umanitaria. Pensiamo alla sola Tripoli. Ci sono più di due milioni e mezzo di abitanti a Tripoli, che stanno già soffrendo per la guerra. Il blocco sta danneggiando le strutture vitali del Paese. Cerchiamo di fare chiarezza, cosa viene finanziato con i ricavi del petrolio e del gas?

Le centrali elettriche, i generatori di corrente, gli ospedali, gli stipendi di tutti i libici sono pagati con le entrate del petrolio, i nostri salari, delle persone che lavorano in questo ufficio, e gli insegnanti, i medici. E, mi lasci dire, anche gli stipendi dei soldati sono pagati con la ricchezza del petrolio. Tutti i servizi sono sussidiati dalla ricchezza del petrolio, non abbiamo altre risorse economiche, la Libia è pesantemente dipendente dal gas e dal petrolio.

Dobbiamo aiutare i libici per i problemi inevitabili che affronteranno e affrontano. Una volta ancora, chiediamo ai responsabili di porre fine al blocco. Non per il Noc, per i libici. Comprendiamo che parte della popolazione percepisca un senso di ingiustizia nella distribuzione della ricchezza, ma bloccare i pozzi non è la soluzione. È solo un’azione priva di senso. Il NOC distribuisce le entrate del petrolio?

Il NOC non ha responsabilità nella distribuzione dei ricavi, il NOC si occupa della produzione, le entrate vanno alla Banca Centrale, e finanziano i ministeri che a loro volta distribuiscono il denaro. A questo riguardo posso dire che sì, è necessaria da parte della Banca Centrale la massima trasparenza. La Banca Centrale Libica ha il dovere di finanziare e inviare fondi ai Ministeri in maniera trasparente perché i cittadini hanno il diritto di sapere dove finiscono i soldi. Ogni mese il NOC pubblica una dichiarazione, in arabo e in inglese, sulle entrate generate dalla produzione delle risorse energetiche, e comunichiamo costantemente con il Parlamento. Chiediamo che gli altri facciano lo stesso, per ridurre ogni pretesto, da parte di chiunque, di usare il petrolio per bloccare l’intero Paese.

Come farà il governo a garantire il denaro per il petrolio, per gli stipendi?

Spenderemo milioni di dollari al mese per le importazioni.

La mia preoccupazione più grande tuttavia è che questo sia un pretesto per dividere ulteriormente la Libia. Siamo una nazione ricca, viviamo sul gas e sul petrolio, e trovo vergognoso che presto dovremo chiedere soldi in prestito all’esterno.

La guerra di Tripoli è una guerra territoriale, politica o una guerra per il petrolio?

Penso che questa sia una buona domanda che andrebbe fatta alle potenze straniere che stanno usando la Libia per i propri interessi. Ma voglio essere molto chiaro: non ci possono essere ricompense per i responsabili. Se premiamo i responsabili di queste azioni, se premiamo chi usa il petrolio per ottenere concessioni, creiamo un pericoloso precedente, che si ripeterà ancora, e altrove. Pensa che Haftar e le milizie a lui collegate stiano usando il blocco dei pozzi per fare pressione sulle potenze internazionali?

Le posso garantire che negli ultimi due anni abbiamo fatto del nostro meglio per evitare blocchi ai giacimenti, se escludiamo quello di Sharara, durato tre mesi lo scorso anno e poi risolto, per una ragione: sosteniamo lo stato di diritto. Abbiamo lavorato insieme alle comunità locali, trasformandole in una sorta di azionisti: garantivano che i gasdotti lavorassero, e noi abbiamo sostenuto le comunità con programmi di sviluppo, servizi sociali, economici. In questo percorso l’ENI ci è stata di

Naturalmente, il nostro piano per quest’anno era di aumentare la produzione a 1.5 milioni di barili al giorno, ci sembra un sogno ora. ENI ha chiesto dall’inizio di rimuovere il blocco e di questo ringrazio l’amico Descalzi. Non ho dubbi che le aziende internazionali siano frustrate dalla situazione. Non siamo i soli a perdere entrate dalle risorse energetiche, anche i nostri partner vedono compromessi i loro investimenti.

Cosa pensa dell’accordo marittimo firmato da Sarraj e Erdogan, che sta provocando dure reazioni da parte di altri paesi che hanno interessi in quella parte del Mediterraneo, come Cipro e Grecia: lei è d’accordo?

Posso solo dire che non siamo stati consultati sugli aspetti tecnici di questo accordo, ma non posso espormi oltre perché questo è un accordo tra due governi.

Che si aspetta dagli attori internazionali nel prossimo futuro?

Non lasciare che nessuno usi il petrolio per ottenere concessioni. Chi pensa di avere dei diritti, delle richieste, sieda al tavolo della trattativa e discuta. Dobbiamo escludere le ingerenze esterne dalla Libia, perché questa è una guerra per procura. E non da ora, sono almeno cinque anni. Penso che la comunità internazionale, l’Europa certo, ma l’Italia in particolare per la storia delle sue relazioni economiche, debba giocare un ruolo centrale e proteggere la Libia, e aiutarci a terminare questa guerra, il prima possibile. La Libia ha un solo sangue, a est a ovest, a sud, abbiamo bisogno di questo sangue comune per far prosperare il Paese non per lasciar morire i nostri ragazzi in guerra, l’Italia sia fedele e fiera alleata di una soluzione. La comunità internazionale deve avere una funzione etica, se i governi europei in particolare non aiuteranno la Libia saranno complici della fine dello stato di diritto nel nostro Paese.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Politica e Economia

Perché Teheran ha ignorato il problema Coronavirus Dopo la Cina, la Repubblica islamica è il luogo in cui il Covid-19 ha avuto

l’impatto maggiore. Qom epicentro del contagio

Alle elezioni c’è stato il record negativo di affluenza ai seggi negli ultimi 40 anni: e tutti con la mascherina. (AFP)

Daniele Raineri Quando l’epidemia di coronavirus è arrivata in Iran alla fine di gennaio il regime ha preferito ignorare la questione. C’erano altre faccende che sembravano più urgenti da sistemare, come la grande celebrazione a inizio febbraio dei quarant’anni della rivoluzione islamica e poi un paio di settimane dopo il voto per il nuovo Parlamento. Entrambe erano considerate occasioni molto preziose dai leader iraniani per dare una lucidata alla facciata del regime, che nei mesi prima aveva perso molta credibilità – come se ne avesse avuta molta da sprecare. A gennaio i pasdaran iraniani hanno abbattuto per errore un aereo passeggeri con 178 persone a bordo e il governo ha sostenuto davanti al mondo per tre giorni che si era trattato di un guasto meccanico. Poi, quando ha realizzato che non avrebbe potuto resistere alle prove schiaccianti, ha ammesso che l’aereo era stato abbattuto da due missili terra-aria lanciati da una batteria messa a guardia dell’aeroporto internazionale di Tehran. Un paio di mesi prima, a metà novembre, il regime aveva soffocato con una campagna brutale di repressione alcune manifestazioni scoppiate in tutto il paese. La gente era scesa nelle piazze per protestare contro il rincaro dei prezzi ma era stata attaccata con cecchini dai tetti – le autorità avevano anche staccato internet per cinque giorni consecutivi, per evitare che i video delle violenze uscissero all’esterno del Paese e per impedire ai manifestanti di coordinarsi fra loro. Si parla di millecinquecento morti ma non ci sono numeri ufficiali, a causa dell’opacità del regime. Febbraio dunque doveva essere il mese in cui l’Iran avrebbe rimesso a nuovo la sua immagine, con cerimonie solenni e una grande partecipazione popolare. I permessi di lavoro per i giornalisti stranieri, che erano impossibili da ottenere fino a pochi giorni prima, sono cominciati ad arrivare di nuovo. Lo scopo era dimostrare anche sulla scena internazionale che qua-

rant’anni dopo la rivoluzione del 1979 i khomeinisti sono ancora amati e connessi con il popolo iraniano. Il regime – come tutti – non aveva fatto i conti con l’arrivo imprevisto del coronavirus. Anni di scontri con il mondo occidentale e di sanzioni hanno spinto sempre di più il Paese a creare rapporti commerciali con la Cina e così ci sono molti cinesi che viaggiano, fanno affari e lavorano in Iran. Il regime non ha mai voluto tagliare i rapporti con loro, perché sono importanti per l’economia. Mentre l’attenzione del mondo si concentrava sulla città cinese di Wuhan nel pieno della catastrofe, il coronavirus importato dalla Cina cominciava a circolare tra gli iraniani. La prima notizia ufficiale sul virus in Iran non parla di malati, ma è l’annuncio di due morti – e questo è strano perché, come sappiamo, se ci sono dei morti vuol dire che ci sono già molti contagiati e che la trasmissione del virus risale a molti giorni prima, un paio di settimane almeno. Da quel momento il numero ufficiale di morti e malati dichiarato dall’Iran ha cominciato a crescere, ma gli esperti dicono che le dimensioni reali del contagio sono sempre state molto più grandi. Lo studio di una squadra di ricercatori dell’Università di Toronto dice che già allora, a metà febbraio, i contagiati iraniani erano quarantamila e non le poche centinaia di cui parlava il governo. A quel punto i leader iraniani erano ormai consapevoli del disastro in corso, ma non potevano permettersi per la seconda volta in due mesi dopo l’abbattimento dell’aereo di ammettere che avevano mentito alla popolazione. Così si è scelto con insistenza sciagurata di difendere la linea ufficiale: il virus è una bufala creata dalla propaganda perfida dei nostri nemici americani e il contagio, se c’è, è ridotto e sotto controllo. Ci sono cascati pochissimi iraniani e alle elezioni c’è stato il record negativo di affluenza ai seggi: mai così pochi negli ultimi quarant’anni. E molti si presentavano in mascherina e guanti. Quando un parlamentare di Qom

ha denunciato in pubblico che soltanto nella sua città e soltanto in dieci giorni c’erano stati cinquanta morti, il viceministro della Salute Iraj Harirchi s’è presentato in tv a sfidarlo: dammi la lista dei nomi, dammene soltanto la metà oppure un quarto e io mi dimetterò. Alla sera lo stesso viceministro è andato in televisione a spiegare che tutto era sotto controllo. Il giorno dopo Harirchi però ha mandato un video girato con il telefonino dal suo letto d’ospedale in cui ammetteva di avere pure lui il coronavirus.

Dopo l’abbattimento dell’aereo, il regime ha scelto ancora una volta di mentire e raccontare che il virus era una bufala Il regime iraniano non soltanto ha nascosto la presenza del virus nelle prime settimane, quelle che sono le più importanti per stroncare un’epidemia, ma ha anche agito da teocrazia: la religione ha la precedenza indiscussa sui cittadini. E per questo non ha mai pensato di mettere in quarantena Qom, la città santa degli sciiti, che attira ogni anno ventidue milioni di pellegrini da tutto il Paese e due milioni e mezzo dall’estero. E neppure di chiudere i santuari, dove i fedeli si affollano tutti i giorni per appoggiare le mani sulle stesse grate in massa. In pratica Qom è diventata la grande piattaforma di lancio del virus nella regione. Per settimane la autorità religiose hanno insistito che visitare i santuari non soltanto non era pericoloso, ma anzi aveva il potere di guarire i pellegrini. Hanno dichiarato che gli interni placcati in argento del santuario di Fatima sono in argento e quindi hanno naturali proprietà antibatteriche – pure se fosse vero, il coronavirus è appunto un virus e non un batterio. Ci sono i video di fanatici che per dimostrare la loro fede leccano un reliquiario nel san-

tuario di Fatima perché, dicono, Dio li protegge dal virus e chi non ci crede è un debole. Il governo li ha lasciati fare anche per lo stesso motivo per il quale non aveva interrotto il via vai di cinesi, perché Qom con tutto il suo traffico di pellegrini è una fonte di ricavi importanti, specie per il clero iraniano, e isolare la città avrebbe provocato danni economici enormi – gli stessi che in Italia ci siamo rassegnati a subire. Mentre nel resto del Paese il regime chiudeva le università, nella città santa il grande traffico è stato incoraggiato. Era un grande frullatore virale e i risultati non si sono fatti attendere. Viaggiatori contagiati a Qom sono stati trovati positivi in tutti gli stati nelle vicinanze: dall’Afghanistan all’Iraq, dall’Oman al Kuwait, dal Bahrein al Libano agli Emirati Arabi Uniti. Recenti immagini satellitari mostrano gli scavi di nuove tombe in un’area enorme vicino alla città santa. E nel frattempo il governo cinese è andato a riprendersi con gli aerei i cinesi in Iran, perché li ritiene in pericolo. C’è da riflettere: i cinesi considerano l’Iran molto più rischioso della Cina a causa delle dimensioni e della virulenza del contagio. Oltre a devastare i piani dei leader iraniani, il coronavirus è diventato una minaccia diretta contro di loro. Il circolo ristretto che domina il Paese ha in media un’età molto alta – la Guida Suprema Ali Khamenei ha ottant’anni – e ci sono stati molti casi di trasmissione al suo interno. Mohammad Mirmohammadi, consigliere di Khamenei, è morto. Ali Akbar Velayati, un altro consigliere di Khamenei che si occupa di politica estera, è stato di recente trovato positivo e ora è in quarantena, così come due vicepresidenti del Parlamento e almeno una quindicina di parlamentari. La Guida Suprema ora ha smesso di negare il problema e ha cambiato versione, sostiene che il virus esiste eccome e sarebbe un’arma batteriologica scatenata contro l’Iran dai suoi nemici. C’è un clima di incertezza. Almeno in questo, l’establishment del Paese è allo stesso livello di vulnerabilità di tutti gli altri iraniani.

Notizie dal mondo COVID-19: l’Oms dichiara la pandemia Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, l’unico titolato a farlo, ha dichiarato che quella di nuovo coronavirus Sars-Cov-2 non è più un’epidemia ma una pandemia. «Un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie». Questa è la definizione di pandemia, secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute. E questo ufficialmente è da ora il coronavirus: non più un’epidemia confinata ad alcune zone geografiche, ma diffusa in tutto il pianeta. L’Organizzazione di Ginevra lo ha dichiarato ammettendo un’evidenza che era sotto agli occhi da giorni: i contagi sono diffusi in ogni continente a eccezione dell’Antartide.

La dichiarazione di pandemia spetta al direttore generale dell’Oms. Non esistono criteri oggettivi. L’ultima volta che è stata dichiarata una pandemia risale all’11 giugno 2009, quando l’Oms decise di passare alla fase 6 per combattere l’influenza di tipo 1 H1N1, meglio nota come «influenza suina» e l’allora direttore generale dell’Oms Margaret Chan fu accusata di averla dichiarata troppo presto sancendo di fatto l’ingresso nella fase post-pandemica. Non fu dichiarato invece lo stato di pandemia per la Sars nel 2002-2003. La pandemia non ha nulla a che vedere con l’aggressività di una malattia (il tasso di letalità della Sars era del 9,6%, molto più alto di Covid-19), ma con la sua diffusione geografica. Oggi il direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aspettato fino all’ultimo, conscio degli effetti psicologici, più che pratici di una mossa simile. «Siamo profondamente preoccupati per la diffusione e la severità della malattia e per l’allarmante livello di inazione» di alcuni paesi, ha però ammesso. «Per questo abbiamo deciso che Covid-19 può essere caratterizzato come una pandemia». «Non è però vero che non possiamo fare più nulla per contenere il virus», ha aggiunto il direttore. «Siamo impegnati in una lotta che può essere vinta se facciamo le cose giuste». L’Oms, ancor prima della dichiarazione di pandemia, aveva inviato i suoi esperti in Cina, Italia e Iran per incontrare medici ed epidemiologi, per analizzare le statistiche e valutare la situazione degli ospedali. Solo l’Iran ha reagito in ritardo e con trasparenza incompleta all’arrivo del contagio. I governi di Pechino e Roma sono intervenuti con più decisione e si sono guadagnati le lodi di Ginevra. «Sosteniamo l’azione intrapresa dall’Italia», aveva dichiarato l’Oms tre giorni fa, dopo due settimane di visite e ispezioni. «Le vostre misure ci serviranno da lezione per affrontare l’epidemia anche negli altri Paesi». «Il messaggio finale – ha concluso Ghebreyesus – è che non siamo in balia del virus. Il grande vantaggio che abbiamo è che le nostre decisioni, a livello di governi, attori economici, comunità, famiglie e individui è che tutti noi possiamo influenzare la curva dell’epidemia. La regola è mai darsi per vinti».


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Politica e Economia

Gli utili, la loro distribuzione e le situazioni eccezionali

Banca Nazionale Svizzera Alle insistenti richieste di una più ampia distribuzione degli utili, si aggiungono

quelle per altri scopi (AVS), in attesa anche degli effetti del Coronavirus sull’economia Ignazio Bonoli Come previsto, la Banca Nazionale Svizzera (BNS) non soltanto ha confermato l’abituale distribuzione di utili a Confederazione e cantoni («Azione» 20.1.2020), ma ha tenuto fede anche alle speranze suscitate al primo annuncio di un probabile aumento di questa distribuzione. Con un utile 2019 di 49 miliardi di franchi, una cifra di bilancio che ha superato gli 800 miliardi, ma soprattutto con un aumento delle riserve per utili da distribuire che ha raggiunto 84 miliardi di franchi, la BNS ha potuto concordare con il Dipartimento federale delle finanze un’assegnazione di 4 miliardi di franchi, dei quali un terzo alla Confederazione e due terzi ai cantoni, per gli anni contabili 2019 e 2020. Nei propri preventivi la Confederazione aveva calcolato l’entrata di 2 miliardi di franchi, mentre i cantoni sono stati più prudenti. Ben 18 di essi si sono basati sul minimo legale totale di 1 miliardo. Per i cantoni si tratta quindi di un’entrata quanto mai benvenuta viste le incertezze causate dalla congiuntura prevista, ma soprattutto per le importanti ripercussioni dell’epidemia del Coronavirus. Senza entrare troppo nei dettagli, possiamo considerare che, per esempio, per il canton Zurigo si tratta di 470 milioni di franchi, invece dei 118

previsti, pari al 2% dell’intero budget. Si tratterà ora di decidere se preventivare questa cifra per il 2021, oppure di attenersi al solito criterio di prudenza e aspettarsi il promesso nuovo regalo. Anche il canton Ticino potrà contare su un gettito di oltre 100 milioni di franchi, contro i 54 che avrebbe ricevuto senza l’assegnazione eccezionale. Per la Confederazione, che riceverà 670 milioni in più dei 2 miliardi previsti, si apre nuovamente un discorso politico importante. Da tempo, tanto la sinistra quanto l’UDC chiedono un versamento diretto di capitali all’AVS. Nella Commissione dell’economia del Consiglio Nazionale è tuttora pendente un atto parlamentare che chiede una base legale per questi versamenti diretti all’AVS. Nell’attesa dei chiarimenti chiesti all’amministrazione, la Commissione vorrebbe portare il rapporto al plenum già in questo mese di marzo. È probabile che, nonostante le riserve di principio più volte espresse sia dal Consiglio federale, sia dalle Camere, questa volta la decisione possa essere favorevole almeno nella Camera bassa. Resta però l’incognita del Consiglio degli Stati. I timori maggiori nascono dall’eventualità che altre istanze possano farsi avanti nel settore della formazione, della ricerca, del traffico, nella difesa, nell’agricoltura, nell’aiuto allo sviluppo e altro ancora. Se poi ciò provocasse anche

Il dorato luccichio della Banca Nazionale risveglia numerosi appetiti. (Keystone)

una riduzione di imposte, la Banca Nazionale assumerebbe un compito non suo e correrebbe il rischio di non avere mezzi sufficienti per eventuali rovesci nella politica monetaria. Il tema tornerà certamente a galla anche nella prossima discussione sul rinnovo della convenzione per il periodo 2021-2025. La decisione di quest’anno dà già un’idea di quale possa essere l’indirizzo delle prossime distribuzioni di utili: quello di cercare di conciliare le molte esigenze dei possibili beneficiari con quelle della BNS. Non ci si potrà comunque basare sui risultati di questi

ultimi anni. Anche solo considerati gli esiti dell’ultimo decennio, vediamo che vi sono stati sei bilanci in utile e quattro in perdita. La media di questi risultati è di 12 miliardi di utili all’anno. Di questi, 5 miliardi sono stati destinati ad accantonamenti di riserva per le forti posizioni in valute estere. Dopo l’assegnazione a cantoni a Confederazione, una gran parte del resto è stato destinato proprio alla riserva per la distribuzione. Questa evoluzione ha comunque permesso alla BNS di migliorare la copertura in capitale proprio da meno del 10% a circa il 20%.

Gli analisti dell’UBS valutano il potenziale medio di utile della banca centrale in circa 10 miliardi di franchi all’anno. Quota che permetterebbe, dopo altri accantonamenti e un margine di sicurezza, una distribuzione dell’ordine di quella appena decisa. Sul piano politico questo significherebbe una certa sicurezza per i beneficiari, garantendo nel contempo la completa indipendenza della BNS, con i mezzi necessari per una pratica corretta della politica monetaria. I prossimi mesi non saranno facili per la banca. Le borse e i titoli quotati stanno subendo forti perdite. Il franco svizzero si sta fortemente rivalutando e l’effetto del Coronavirus sull’economia sarà pesante. Le banche centrali sono attrezzate per combattere le crisi dei mercati finanziari, ma non per un intervento diretto nell’economia reale. Tuttalpiù potrebbero favorire un costo basso per il denaro abbondante. Ma lo spazio di manovra è già molto basso (salvo per gli Stati Uniti) e questo non è un bisogno primordiale per l’attuale fase economica. Ma anche per un eventuale rilancio della domanda, in questa situazione, non vi sono strumenti monetari efficaci. Spetta alla politica dapprima fornire un aiuto a fermare il virus e sostenere il sistema sanitario, e infine favorire il rilancio della congiuntura. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Successione 2.0: l’eredità digitale

La consulenza della Banca Migros

Loredana Di Massimo

Loredana Di Massimo è specialista in pianificazione finanziaria alla Banca Migros

E-banking, Facebook, iTunes: oggi una parte rilevante delle nostre attività quotidiane si svolge su Internet. Quale sarà la sorte di tutti questi dati dopo la nostra morte? Se i dati digitali sono memorizzati su un supporto fisico, per esempio su un computer o su una chiavetta USB, essi confluiscono nell’eredità insieme al supporto informatico. Fanno parte dell’eredità anche i dati digitali memorizzati su Internet o in un cloud che rappresentano valori patrimoniali, come ad esempio i saldi attivi in conti Paypal e i portafogli di criptovalute. Al contrario, i dati digitali che non sono né su supporti fisici né rappresentano valori patrimoniali non sono ereditabili, come i contenuti nei social media e negli account e-mail o le foto in un servizio cloud come Dropbox. Per il trattamento di tali dati dopo il vostro decesso, potete indicare una persona nel testamento. Disposizioni analoghe possono peraltro essere adottate nell’ambito di un mandato precauzionale per il caso di incapacità di discernimento. Per vari social media i familiari possono chiedere la cancellazione dei dati dietro presentazione dei documenti ufficiali richiesti, e inoltre la maggior parte dei servizi di posta elettronica consentono di accedere al traffico e-mail. Ma a seconda dei casi, questi processi possono essere molto impegnativi in termini

I dati elettronici di rilevanza patrimoniale sono soggetti alle norme di successione. (Marka)

di tempo e di oneri amministrativi. Certi servizi online vengono semplicemente cancellati se l’inattività si protrae per un periodo prolungato, come avviene ad esempio per l’account e-mail di GMX. È più facile se risolvete mentre siete ancora vivi cosa ne sarà in futuro dei propri dati. Ad esempio, per i servizi

di Google si può determinare, tramite la «gestione account inattivo», cosa avverrà se il conto non dovesse essere più utilizzato per un periodo di tempo, che sarà l’utente a stabilire. Per evitare che nella successione digitale sfugga qualcosa, è opportuno creare un elenco attuale di tutti gli account con i dati di accesso – per il

computer e il cellulare, i valori patrimoniali (e-banking, PayPal, chiave privata per le criptovalute, ecc.), account e-mail e gli altri servizi online. L’elenco va conservato al sicuro, in un luogo protetto da accessi non autorizzati, e il luogo di custodia deve essere comunicato a familiari o ad altre persone di fiducia. Annuncio pubblicitario

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Una confezione pratica e igienica Tutti i caffè LATTESSO sono confezionati in un elegante bicchiere LATTESSO- con un coperchio di nuova invenzione. Chi conosce il tradizionale «coffee to go» apprezzerà subito la differenza: con un solo movimento della mano LATTESSO è pronto da bere e dunque è ideale anche in viaggio. Basta rimuovere la pellicola, bere e assaporarne il gusto. Semplice, sicuro e veloce: è l’essenza della comodità. Anche il foro e la zona di appoggio delle labbra sono sicuri dal punto di vista igienico grazie alla sottile pellicola protettiva.

Coperchio con sorpresa Nelle nostre varianti standard Macchiato, Cappuccino ed Espresso nonché nella versione life style Fit, a LATTESSO è abbinato un dolcetto croccante. Nascosto sotto la pellicola protettiva,

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Piacere senza pensieri

sarà una deliziosa sorpresa per gli amanti del caffè. -Il fragrante e gustoso sablé al burro renderà perfetto il momento LATTESSO: si abbina infatti in maniera sublime alla squisita bevanda al caffè. Assortimento innovativo per ogni gusto Oltre alle varianti classiche, LATTESSO offre anche le versioni life style FIT, FREE, PROTEIN e VEGAN, ideali per un’alimentazione consapevole, senza dover rinunciare al gusto. LATTESSO FREE, naturale e senza lattosio, non contiene zuccheri aggiunti né edulcoranti. Il caffè è povero di grassi e calorie, ma al contempo è una vera e propria fonte di energia grazie all’elevato contenuto di caffeina (56 mg/100 ml). Con i suoi 17 grammi di preziose proteine del latte, LATTESSO PROTEIN contribuisce alla formazione e al mantenimento della massa muscolare. E il suo contenuto di caffeina (140 mg) dà una spinta energetica pari a quella di un espresso appena preparato. LATTESSO VEGAN è l’ultimo arrivato nella famiglia LATTESSO. La bevanda al caffè puramente vegetale coglie lo spirito del tempo. L’espresso appena preparato e la deliziosa bevanda di riso italiana offrono un caffè dal gusto pieno, privo di lattosio e di glutine e senza zuccheri aggiunti.

LATTESSO FIT si rivolge agli amanti del caffè che rinunciano volentieri alle calorie, ma assolutamente non al gusto. Il ridotto contenuto di zuccheri aggiunti (solo il 2%) conferisce al caffè fitness una nota di dolcezza. Questa bevanda è ideale anche in caso di intolleranza al lattosio visto che il latte utilizzato è privo di tale sostanza.

Una bontà leggera

Erich Kienle

Pioniere del «coffee to go» Pervaso di spirito pionieristico, Erich Kienle ha sviluppato una procedurabrevettatapergarantire la freschezza che dà una svolta al mondo del «coffee to go»: LATTESSO ha così la possibilità di produrre la prima bevanda alcaffènaturalealivelloeuropeo.

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il nuovo programma di sostegno all’economia Nel corso degli ultimi 70 anni, la politica economica del nostro paese ha operato, in generale, per avvicinare il nostro sistema economico all’ideale dell’economia di mercato. Da questo profilo gli interventi più importanti sono certamente stati quelli volti a dissolvere il sistema dei cartelli e a promuovere la concorrenza sia nel settore privato che, nella misura del possibile, anche nel settore pubblico (i lettori si ricorderanno delle innumerevoli revisioni delle leggi cantonali sugli appalti e anche di qualche scandalo in questo settore). L’altra colonna importante di questa politica di liberalizzazione è stata data dall’abbattimento di molte barriere protettive (in particolare per i prodotti della nostra agricoltura), dalla drastica riduzione dei dazi e dei controlli doganali, e, in generale, dall’aumento del grado di apertura

del nostro mercato nazionale alla concorrenza da parte di aziende straniere. Non possiamo fare, nel contesto di questo commento, un bilancio dei vantaggi conseguiti in seguito all’applicazione di queste misure. Sono stati certamente molti e di grande portata. È però anche vero che la liberalizzazione della nostra economia ha creato anche qualche inconveniente perché vi erano, e vi sono, settori, industrie, aziende e regioni che, purtroppo, non riescono che con difficoltà a tenere il passo con la concorrenza internazionale. Da questa constatazione sono nate, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, una serie di misure e di programmi di sostegno, finanziati dalla Confederazione e dai Cantoni, orientati verso la promozione della capacità concorrenziale delle aziende, dei rami e della regioni economica-

mente più deboli del nostro paese. Oggi queste misure vengono rinnovate ogni quattro anni e sono contenute nel programma di promozione del cosiddetto Standort, un termine che non ha traduzione diretta in italiano ma che potremmo designare con l’espressione «attrattività economica». Lo scorso mese di febbraio, il Consiglio federale ha per l’appunto pubblicato il messaggio con il nuovo programma di promozione per il quadriennio 2020-2023. Stando allo stesso, i 373,1 milioni di questo programma dovrebbero servire alle aziende, ai rami e alle regioni meno concorrenziali del nostro paese per meglio utilizzare le opportunità offerte dalla digitalizzazione. Finanziariamente parlando, non è che si tratti di un grosso sforzo. Rapportati al totale della spesa della Confederazione, i 373,1 milioni del

programma di sostegno delle aziende, dei rami e delle regioni meno competitive del paese rappresenta qualche cosa come il ½%. Una somma che non mette di sicuro in pericolo l’orientamento liberistico della nostra politica economica nazionale. Nonostante tutto quello che nella discussione parlamentare si dirà e si farà per ostacolare l’approvazione di questa somma, tutto sommato non si tratta che di uno zuccherino. Uno zuccherino che poi, è giusto precisarlo, verrà frantumato in quattro pezzetti per promuovere i quattro obiettivi del programma, ossia: 1) il miglioramento delle condizioni-quadro delle piccole e medie imprese, 2) l’aumento della capacità di prestazione degli attori economici (in particolare nel settore dell’esportazione), 3) il sostegno della capacità concorrenziale delle regioni,

4) il rafforzamento della presenza sul mercato e il miglioramento dell’attrattività dello Standort elvetico. Fin qui ci è mancato il tempo per esaminare dove potrebbero finire, nel dettaglio, i 373,1 milioni del programma. L’impressione è tuttavia che, nonostante il suo titolo di grande effetto, nella pratica del giorno per giorno, una buona parte di questa somma servirà per finanziare istituzioni, progetti e misure che già sono in attività da anni, magari addirittura da prima che si cominciasse a parlare di digitalizzazione nel nostro paese. Basti ricordare che, come è già stato il caso sin qui, i due terzi o quasi della somma proposta saranno utilizzati per finanziare azioni di marketing. Si tratterà probabilmente di pubblicità digitalizzata. Ma anche questa non è una novità!

che almeno l’Italia aveva l’alibi di essere il primo focolaio in occidente, un po’ di improvvisazione era concessa. Francia e Germania non pensano al contagio – forse sanno che non possono più contenerlo? – ma ai loro sistemi sanitari nazionali: si occupano soltanto dei casi più gravi, per gli altri è solo un’influenza. Il Regno Unito adotta l’approccio graduale come la Francia – un’altra dimostrazione che non c’è apprendimento: il tempo è importante, prevenire è importante – e si affida agli scienziati consiglieri più preparati, ma intanto punta sulla normalità: il premier Boris Johnson ripete che bisogna lavarsi le mani, e salutarsi da lontano. Il caso più sconvolgente di non apprendimento resta però quello americano. Non soltanto c’è stata una grande resistenza ad adottare misure sanitarie ed economiche di precauzione ma l’Amministrazione Trump e i suoi megafoni

mediatici hanno fatto una campagna di disinformazione brutale: il coronavirus è un complotto cinese e dei democratici per non far rieleggere Trump. C’è voluto il crollo di Wall Street e il contagio prossimo al presidente – almeno due repubblicani con cui lui è stato a contatto si sono messi in quarantena, nelle chat dei deputati è caccia al paziente zero – per generare una reazione nel presidente. Ora sono allo studio molte misure per contenere il danno economico, mentre i governatori stanno agendo sulla base delle loro esigenze: anche in questo il coronavirus ha tracciato una linea sul rispetto delle autonomie locali ma sulla necessità di un coordinamento più ampio. L’apprendimento, se può consolare, sembra invece presente nell’elettorato democratico americano: vota per Joe Biden, cerca normalità, buon senso, cautela. Antidoti necessari, aspettando il vaccino.

paese dallo straniero. Ma cosa sarebbe successo se le truppe nemiche avessero fatto ricorso alle armi non convenzionali, a ordigni atomici e a sostanze chimiche e batteriologiche? In questo caso occorreva immediatamente recarsi nei rifugi, privati o pubblici, bunker preventivamente attrezzati e dotati di scorte alimentari: «Il rifugio offre la migliore protezione contro gli aggressivi chimici. Se siete colti di sorpresa all’aperto, mettete subito la maschera antigas», raccomandava il prontuario Difesa civile distribuito a tutti i fuochi nel 1969. Rifugi, maschera antigas, provviste per quattordici giorni (sopravvivenza) o per due mesi (riserva casalinga in caso di sospensione degli approvvigionamenti): molte generazioni sono cresciute in questo clima d’assedio permanente e di una sempre possibile invasione da parte degli eserciti del Patto di Varsavia agli ordini del Cremlino. Ma anche in caso di attacco proditorio non bisognava perdersi d’animo, e mantenere intatta la fiducia nei comandi, giacché «le autorità sanitarie dispongono di grandi riserve di vaccini e d’insetticidi e ordinano disinfezioni, sbarramenti e quarantene».

Dalla pubblicazione del manuale voluto dal Dipartimento federale di giustizia e polizia è trascorso oltre mezzo secolo. Ma già allora buona parte di quel decalogo appariva slegato dalla realtà e maldestramente rassicurante, figuriamoci oggi. Anche la protezione civile andrebbe ricalibrata e riorientata sulla base dei nuovi pericoli, provenienti da paesi ai quali abbiamo appaltato la produzione di sostanze salvavita, come i princìpi attivi dei farmaci. Dal continente asiatico, l’odierna «fabbrica del mondo», importiamo quasi tutto, dal virus alle mascherine antivirus… Abbiamo in patria una delle industrie più agguerrite del pianeta, l’industria farmaceutica, eppure anche questa branca dipende sempre più dai produttori cinesi (lo stesso avviene nelle telecomunicazioni 5G). Dal Covid-19 occorre trarre la lezione che un’eccessiva dipendenza dall’estero in questi campi moltiplica i fattori di debolezza, e che in futuro bisognerà ripensare sia la difesa, sia l’intera protezione civile, con al centro il sistema sanitario, la ricerca e le cure. La vecchia maschera antigas lasciamola negli arsenali, relitto del gelo Usa-Urss.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Questione di tempo e di apprendimento Il presidente cinese Xi Jinping è andato nel Wuhan la scorsa settimana per fare un tour vittorioso: abbiamo sconfitto il coronavirus. I contagi nella regione che fu il primo focolaio della trasmissione del Covid-19 sono quasi ridotti a zero e anche nel resto della Cina l’epidemia sembra contenuta. Per questo Xi Jinping vuole utilizzare questa crisi sanitaria globale per rivendersi come il salvatore del suo Paese, e anche come un modello da imitare all’estero. E per quanto possa suonare bizzarro, il presidente cinese ce la sta facendo: molti in occidente elogiano la determinazione e l’efficienza di Pechino, gli ospedali costruiti in pochi giorni, la chiusura totale – si sentono sospiri filocinesi ovunque. Intanto noi siamo alle prese con una pandemia dall’impatto sanitario ed economico ancora incalcolabile perché per molto tempo – non sappiamo quanto, non sappiamo niente: con i regimi così

funziona – la Cina ha pensato di poter nascondere al resto del mondo il coronavirus. Il tempo è prezioso quando si tratta di contenimento e prevenzione, e il regime di Pechino ce l’ha rubato. Per di più non sappiamo che cosa è successo dentro al Wuhan inaccessibile: molte organizzazioni non governative hanno documentato violazioni sistematiche dei diritti civili, non certo una novità per Xi Jinping. Quando il coronavirus è uscito dall’Asia – i focolai maggiori dopo la Cina erano Giappone e Corea del sud – il paese più colpito è stata l’Italia. Non si sa perché proprio l’Italia, ci sono molte teorie al riguardo, probabilmente si tratta di un caso, ma il fatto che non ci fosse un precedente occidentale cui ispirarsi ha fatto sì che l’Italia abbia dovuto agire basandosi sui consigli degli esperti che dicevano: il contagio si ferma soltanto con l’isolamento. Non c’è altro modo:

solo evitando contatti. Così il governo Conte si è trovato su un fronte non soltanto sanitario ma anche filosofico: trovare il confine tra libertà e irresponsabilità, segnarlo in rosso in modo che si veda, per lasciare intatta la democrazia mentre si sospendevano diritti acquisiti, primo fra tutti quello della libera circolazione. Scommessa difficile, applicata con un rigore che è parso a molti eccessivo: facciamo come i cinesi. Ci sono state alcune ribellioni, e molti cambiamenti repentini d’idea (il più clamoroso è quello di Matteo Salvini), ma ancora una volta: è una questione di tempo. Gli altri paesi europei guardano l’Italia, danno solidarietà – ha iniziato anche la commissione europea a darne, concedendo quella flessibilità nei conti che ci è sempre sembrata preziosa ma ora di più – ma provano a fare diversamente. La linea del tempo e la curva di apprendimento sembrano non coincidere, e sì

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Combattere il virus con la maschera antigas Nell’era della comunicazione «virale», il virus è giunto davvero, microscopico ma reale. Finora la nostra preoccupazione andava ai telefonini e ai computer, esposti ai «bachi» e alle infezioni informatiche («malware») architettate chissà dove. E invece ci ritroviamo ricacciati indietro, in epoche in cui imperversavano epidemie come la peste,

il vaiolo e il colera, prigionieri di paure ataviche e allucinazioni notturne. L’Occidente ipertecnologico e immateriale si ritrova anch’esso vulnerabile, una «società del rischio» (Ulrich Beck) in questo molto simile alle comunità del passato che nulla sapevano di agenti patogeni, questi «cigni neri» che ogni tanto irrompevano nella vita

La maschera antigas era baluardo contro virus e agenti chimici. (Keystone)

degli individui, sconvolgendo ritmi e abitudini. Come se non bastassero gli orrori che ogni giorno vediamo scorrere sugli schermi televisivi – dai bombardamenti all’emergenza profughi, dagli attentati all’invasione delle locuste, dal clima impazzito ai rigurgiti razzisti – eccoci ora alle prese con un nemico perfido ed inafferrabile, contro il quale non sappiamo bene quali armi impugnare. Anche perché tutto il nostro schema di difesa è stato pensato in un’ottica diversa, quella fondata sulla logica amico-nemico. Di questo riflesso difensivo, la Svizzera rappresenta un caso esemplare; un dispositivo nato già alla fine dell’Ottocento e via via perfezionato nel Novecento, soprattutto nel corso dei due conflitti mondiali e della lunga guerra fredda. La strategia maturata nelle fasi acute di crisi internazionale prevedeva la fortificazione dell’arco alpino, trasformato in «ridotto» sul modello delle roccaforti medievali: anelli di cinta separati da fossati con al centro un torrione poderoso, e apparentemente inespugnabile, detto «maschio». Da questo baluardo roccioso, il cuore delle Alpi, sarebbe partita la controffensiva per liberare il


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Cultura e Spettacoli No Dante, no party A colloquio con Paolo Di Stefano, ideatore dell’iniziativa per la creazione di un «Dantedì»

Quell’ossessione chiamata giallo Stuart Turton è un giovane autore britannico che ha fatto della sua passione per Agatha Christie la propria cifra narrativa regalandoci un romanzo imperdibile

Gotthard, e sono 13 Nic Maeder ci racconta genesi e contenuti del tredicesimo album della rockband ticinese

L’incanto di Valenti In mostra a Giubiasco gli universi poetici e sognanti dell’artista Italo Valenti pagina 43

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Un abbraccio immortalato dallo svizzero Gotthard Schuh. (Keystone)

Corpi

Riflessioni Ai tempi del Coronavirus siamo tutti un po’ più soli: cosa faremmo per un abbraccio?

Poesie, notizie e messaggi social possono accompagnare le nostre nuove vite

Simona Sala «Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore domani. Tutti insieme ce la faremo». È stato un trionfo immediato. Le parole del Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana Giuseppe Conte, pronunciate la sera di mercoledì 11 marzo in un intransigente discorso alla nazione, in un attimo hanno scatenato la fantasia (da chi in modo ironico a chi non senza una certa malizia, improvvisamente apprezzando le doti fisiche dell’avvocato) di migliaia di utenti dei social, forse ancora più arguti del solito a causa dell’inerzia prolungata (e promulgata). Mentre su Instagram nasceva una pagina dal nome «lebimbedigiuseppeconte» – sui social è semplicemente Beppe, o Giuseppi, à la Trump – un’utente di Twitter si chiedeva come si potessero trattenere le lacrime davanti a un discorso del genere. Ed è proprio questo il punto. Se una frase in fondo banale (che in tempi non sospetti come quelli in cui siamo stati catapultati ci farebbe tutt’al più pensare alla cartina metallizzata che avvolge i Baci Perugina) è sufficiente per tirare in ballo emozioni e plausi, per commuovere le masse e per invocare – sempre via social – che il politico pugliese venga definitivamente consegnato alla storia,

vuole dire che è stato toccato un nervo scoperto, che qualcuno ha parlato esattamente di quello che ci manca, di ciò che in questa insolita èra densa di dinieghi (non possiamo stringerci la mano, né baciarci, non possiamo abbracciarci né sederci vicini, né andare al pronto soccorso, non dovremmo viaggiare, né mangiare dallo stesso piatto o bere dallo stesso bicchiere…), non possiamo fare. È passato assai meno di un mese, eppure abbiamo dovuto non solo scendere giustamente a patti con il concetto del social distancing, mantenendo una inusuale distanza di 1, 1.5, 2 o addirittura 4.5 metri (a seconda dei pareri) dal prossimo, addirittura dai propri cari, ma ci ritroviamo a lavare e disinfettare le mani di continuo come dei forsennati, ci scansiamo sui marciapiedi, disposti a cedere il passo, e giriamo con il volto nascosto dalle mascherine. Tutto ciò in un’Europa che un’ora dopo l’altra assume sempre di più i confini di quarant’anni fa, e che stentiamo a riconoscere. Un abbraccio. Cosa daremmo per cancellare la nostalgia di quell’abbraccio evocato a mo’ di premio durante un discorso a una nazione in stato di emergenza? Come vorremmo potere ripetere, convinti, i versi della poetessa tedesca Ingeborg Bachmann, quando in La Bo-

emia è sul mare, afferma che «Confino ancora con un’altra parola e un’altra terra, /confino, per quanto poco, con tutto, sempre più»? Noi, invece, all’improvviso (cosa sono una manciata di giorni?) ci siamo ritrovati sempre più confinati, relegati al confino famigliare o individuale, con check point presidiati da camici bianchi all’ingresso degli ospedali e con nuove linee di demarcazione, come le strisce adesive gialle appiccicate per terra davanti alla cassa dei supermercati. Le dogane minori sono sbarrate, e in un attimo si è ricreato l’«al di là» che una manciata d’anni aveva finito per cancellare con il trattato di Schengen – nonostante le diffidenze iniziali – riuscendo nuovamente a omologare popoli per loro natura fratelli (e ci si sovviene della dolce descrizione di Giorgio Caproni in Confine: «Confine diceva il cartello / cercai la dogana, non c’era / non vidi dietro il cancello / ombra di terra straniera»). E che dire di tutta la serie di verbi cancellati dal vocabolario della nostra quotidianità? Che ce ne facciamo ormai di parole come «sfregare, sfiorare, accarezzare, stringere, toccare, baciare», se tutte queste cose le possiamo solo narrare o desiderare? Se all’improvviso sono ammantate di un minaccioso senso di contagio? Guardiamo i nostri

corpi, quelli che ci appartengono, così soli, privati di così tante azioni, e quelli altrui, che però sono lontani, sempre più rari, in un tempo a sua volta rarefatto, su cui abbiamo perso il nostro presunto controllo, perché non possiamo più conoscerne le dinamiche, caratterizzate come sono dall’incertezza… Senza la possibilità della vicinanza, all’improvviso ci rendiamo conto che siamo del tutto corpi solo nella misura in cui possiamo averne conferma da un altro corpo. Infatti, a cosa corrisponde un altro corpo, se non a un altro essere umano? Eppure, proprio nel momento del nostro smarrimento maggiore, quello che vede tutti noi accomunati nientemeno che con il mondo intero da un sottile sentimento di angoscia, nel frangente in cui un abbraccio sarebbe un balsamo all’anima, ci ritroviamo dolorosamente soli e sguarniti dentro ai nostri corpi proibiti. Qualcuno, con più forza o ottimismo di altri, con occhi forse più sognanti, vede il lato positivo di questo isolamento, del temporaneo esilio anche fisico, e affida questo timido piacere a una poesia, come Mariangela Gualtieri nella recentissima Nove marzo duemilaventi: «Questo ti voglio dire / ci dovevamo fermare. / Lo sapevamo. Lo

sentivamo tutti / ch’era troppo furioso / il nostro fare. Stare dentro le cose. / Tutti fuori di noi. / Agitare ogni ora – farla fruttare» oppure «E c’è dell’oro in questo tempo strano. / Forse ci sono doni. / Pepite per noi. Se ci aiutiamo». Per altri invece lo stato di sospensione psicologica e fisica ha lo stesso sapore di sconsolata inesorabilità che provano le sorelle Claire e Justine (Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst) in Melancholia, il film di Lars von Trier del 2011 in cui si raccontano le ore che precedono l’inevitabile collisione di un pianeta con la terra. Con la differenza (e non è poco) che la nostra collisione non è calcolabile né annientatrice. Fa allora tenerezza il video su TikTok della ragazzina italiana che si prepara davanti allo specchio, borsetta, giacca e rossetto, e alla madre, che scocciata le chiede dove crede di andare, visto che c’è il coprifuoco, risponde civetta «A farmi un giro in cucina»! La voglia di sentirsi, il desiderio di non rinunciare ad essere individui, un’età da viversi nonostante tutto, dovrebbero esserci da esempio, dovrebbero riuscire a dare anche a noi la forza di pazientare in attesa di quell’abbraccio che, al termine di un vuoto attonito da riempire ora dopo ora, sarà ancora più caloroso, bello, e soprattutto, umano.


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Cultura e Spettacoli

In festa nel nome di Dante

Iniziative culturali A colloquio con Paolo Di Stefano, iniziatore e promotore dell’encomiabile

idea di istituire un Dantedì

In scena Nel

libro un viaggio ai confini del teatro nel labirinto della mente

Federica Alziati Lo scorso 17 gennaio, il Governo italiano ha approvato l’istituzione del Dantedì: ogni 25 marzo (verosimile data di inizio del pellegrinaggio nell’Aldilà) si celebrerà l’autore della Commedia. L’iniziativa è stata suggerita, in una serie di articoli apparsi sul «Corriere della Sera», da Paolo Di Stefano, noto giornalista e scrittore, anche per le pagine di «Azione».

Giorgio Thoeni

A lui domandiamo come ha maturato l’idea di introdurre nel calendario una Giornata dantesca...

All’inizio, non avevo un’idea precisa dell’esito che la mia proposta avrebbe avuto. Era una specie di provocazione, ispirata da una bellissima iniziativa «globale» del 2017: una catena digitale, chiamata #Dante, che prevedeva la lettura solitaria di un canto della Commedia al giorno e poi la condivisione su Twitter di commenti e opinioni. Partita da Buenos Aires, l’iniziativa ebbe un rimbalzo incredibile: dall’America Latina all’Australia le librerie vennero inondate di richieste del poema. Quella suggestione si aggiunse all’immaginario del Bloomsday, giorno dedicato all’Ulisse di Joyce. Mi dicevo: noi vantiamo uno dei maggiori poeti europei, autore di un capolavoro tradotto ovunque, che da secoli smuove la sensibilità dei lettori comuni e l’interesse dei maggiori scrittori e intellettuali, e non siamo capaci di festeggiarlo tutti insieme come si deve… Mi preoccupava, infine, che nei programmi della scuola italiana Dante cominciasse a essere sacrificato: non più una lettura sistematica e puntuale, ma qualche assaggio dell’Inferno qua e là, senza grande convinzione. Tutto questo mi ha spinto a suggerire l’idea di una Giornata dantesca. L’iniziativa ha suscitato un vivo desiderio di partecipazione, a livello collettivo e comunitario; non sono mancate, però, reazioni

Dante e Beatrice visitano il I Cielo (della Luna), dettaglio di una miniatura, 1444-1450. (British Library) critiche da parte di alcuni accademici, preoccupati che ci si limiti alla celebrazione e alla spettacolarizzazione, senza uno sforzo duraturo di comprensione.

crede che le istituzioni eviteranno la tentazione di sfruttare il brand «Dante», per mettere davvero a tema l’autore e la sua opera?

Il valore senza tempo di Dante è quanto di più lontano si possa immaginare dall’odierna rincorsa alla notorietà e alla riconoscibilità:

Immagino che guardi con interesse alle adesioni nella Svizzera di lingua italiana; tanto più che il suo amore per Dante deve molto alla passione

Non condivido le critiche. Il pericolo di leggere Dante secondo canoni di antica retorica identitaria oppure in chiave spettacolarizzante e superficiale indubbiamente esiste, tuttavia ciò non esclude che il Dantedì possa rivelarsi una consuetudine utile e piacevole, un’alternativa alla ritualità ristretta dei convegni scientifici. Si tratterà di promuovere letture pubbliche della Commedia in scuole, librerie e piazze, ma anche spettacoli teatrali, reinterpretazioni di poeti contemporanei, mostre, installazioni e suggerimenti di turismo culturale. Una vera e propria festa, con scopi di educazione e di divertimento intelligente, per favorire la condivisione di un’idea più libera di Dante.

Io mi auguro che le grandi istituzioni partecipino senza intenti «dirigisti», lasciando spazio alle libere iniziative. L’adesione al Dantedì è stata entusiasta da più parti (persone, associazioni, enti, scuole, centri di ricerca, teatri e congregazioni religiose): spero che ciascuno elabori liberamente le proprie idee e se ne prenda la responsabilità. Per esempio, la Fondazione del «Corriere della Sera» ha avviato in gennaio una serie di conferenze divulgative sulla Commedia affidate a esperti dantisti, riscuotendo notevole successo. Sarà vitale soprattutto il lavoro condotto nelle scuole: il Dantedì dovrebbe essere preceduto da momenti preparatori, discussioni e confronti, per promuovere obiettivi didattici creativi.

e alla competenza di un maestro come Giovanni Orelli…

Dalla Svizzera sono arrivate le prime adesioni istituzionali, innanzitutto da parte del presidente del Consiglio nazionale, Marina Carobbio Guscetti, poi da parte delle associazioni che partecipano al Forum per l’italiano in Svizzera. Quanto a Giovanni Orelli, ho sempre visto in lui un promotore di passione letteraria. Era un professore straordinario, che riusciva ad accendere l’entusiasmo degli studenti senza mai semplificare: da lui ho sentito per la prima volta i nomi di Auerbach, Contini, Spitzer… Posso solo augurare agli alunni di incrociare una personalità come la sua: la passione è la prima chiave per riuscire a comunicare qualsiasi esperienza intellettuale. La stessa passione che trasmetteva suo cugino Giorgio Orelli quando parlava della controversia a proposito dell’attribuzione del Fiore, o quando evocava le tessiture sonore dei versi di Dante e Petrarca: irresistibile, persino quando non riuscivi a stargli dietro. Cioè quasi sempre.

René Burri, curiosità, talento e voglia di esserci

Mostre A Losanna si celebra il grande fotoreporter svizzero con un allestimento

che solleva qualche dubbio Giovanni Medolago Già nel 1956 (!), René Burri rilevava che «dal mattino alla sera gli apparecchi fotografici sono al lavoro in tutto il mondo e il consumo quotidiano di pellicola cinematografica si misura in chilometri». Una constatazione, più che un lamento, che poi lo spinge a chiedersi: «Qual è la missione di noi giovani fotografi? Oggi più che in passato vediamo come i problemi di chi lavora nelle risaie cinesi, degli operai dell’industria automobilistica negli USA o dei minatori tedeschi – in fondo – sono gli stessi. Le notevoli trasformazioni sociali della nostra epoca tecnologica si ripercuotono anche sulla musica, la pittura, la letteratura e l’architettura; danno un nuovo volto all’uomo moderno. Scoprirlo, trasmettere questo nuovo volto (e qualcuno dei suoi pensieri) è quello che considero il mio lavoro, la mia vera missione». Tre anni dopo, tornando da Cipro con lo scoop di Monsignor Macario che può mettere fine al suo esilio, scopre che la tv ha già diffuso urbi et orbi le immagini dell’arrivo a Nicosia dell’aereo con a bordo l’arcivescovo ortodosso, futuro Presidente dell’isola. Burri si rende conto che, nell’epoca delle immagini in

Il libro ai tempi di Trickster-p

René Burri, Collage della serie Culture à l’étranger, 1997-98. (© René Burri / Magnum Photos Fondation René Burri, courtesy Musée de l’Elysée, Losanna)

diretta, «una buona fotografia esige la mia presenza, dipende dal mio modo d’osservare, di percepire le atmosfere e dalla mia capacità di entrare in relazione con chi mi circonda. Ciò che importa è trasmettere intensità all’immagine, riuscire a integrarci qualcosa che ho vissuto e condiviso». È la didascalia perfetta della foto forse più famosa e citata di René Burri, quel

ritratto del Che mentre si gusta un sigaro con uno sguardo più che sornione. Da bambino, Burri voleva sempre scoprire cosa ci fosse dietro le montagne, mai percepite come un ostacolo, bensì come uno stimolo. È curioso e vuole esserci: a tredici anni, saputo della visita a Zurigo di Winston Churchill, si fa prestare la Kodak dal padre e realizza la sua prima significativa immagine, fortunosamente sopravvissuta dal ’46 sino ai giorni nostri. La curiosità, il talento, il bisogno di testimoniare da vicino, aggiunti alle lezioni apprese dai suoi amici della Magnum sono un mix che porta a «L’explosion du regard», concetto scelto quale titolo dal Musée de l’Elysée di Losanna per la grande retrospettiva che sta dedicando al fotografo svizzero più celebre al mondo (insieme a Werner Bischof). Un doveroso omaggio dell’istituzione vodese che dal 2013 si prende cura dell’eredità artistica di René Burri (19332014), «un patrimonio unico sulla vita e l’opera di un fotoreporter che, durante tutta la sua vita, è stato negli avamposti della Storia mondiale, un patrimonio da trasmettere alle generazioni future come eredità universale», sottolinea Tatyana Franck, direttrice dell’Elysée.

Ciò che non ha convinto il vostro cronista è l’allestimento della mostra, voluto da Mélanie Bétrisey e Marc Donnadieu. Una messinscena pop, a partire dal grande collage retroilluminato che accoglie lo spettatore e che ritroviamo nell’orgia di luci colori scritte carte geografiche e quant’altro ci aspetta nelle altre sale. Si mescolano le varie sezioni della mostra (cinema, strutture, io&gli altri, Magnum ecc.) che vorrebbero riassumere la poliedrica attività del fotografo, interessato altresì anche al disegno e ai collages. Talune di queste sezioni sono sovraccariche di immagini sovente così piccole (planches-contacts o stampa a contatto che dir si voglia) da rendersi inintelligibili. Una voglia di contemplare tutta l’esuberanza di Burri che si trasforma in autentica bulimia. Basti pensare che il catalogo della mostra contiene 250 immagini, mentre all’Elysées quelle esposte sono oltre 500. Di solito capita il contrario…

Il periodo buio che stiamo attraversando complice la pandemia che sta affliggendo il mondo, l’incognita per un futuro che si affida a un sostanziale cambiamento delle abitudini, alla riconquista di una dimensione sociale con una maggiore responsabilità individuale… stiamo anche modificando le nostre percezioni avvicinandoci a dimensioni più intime e decisamente emozionali. Princìpi di una poetica della rappresentazione che, come una magica serendipity, si sono avvicinati, saltando agli occhi e alle orecchie (è il caso di dirlo) dopo aver recentemente vissuto l’anteprima di Book is a Book is a Book al Teatrostudio del LAC. Lo spettacolo – già il termine è al limite dell’improprio – è l’ultima produzione della compagnia Trickster-p di Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl, e conferma una ricerca artistica che ha saputo conquistarsi uno spazio privilegiato sulla scena teatrale ticinese e svizzera. In particolare con l’abbandono della performance attoriale privilegiando una dimensione in cui è lo spettatore ad agire attraverso l’ascolto, lo sguardo, lo spazio, la luce, il tempo: strumenti per emozioni in transito lungo un percorso allestito sul filo della parola registrata, di immagini evocatrici, sul piano sonoro e quello visivo. Nato nel contesto residenziale della compagnia al LAC, Book is a Book is a Book, è un lungo viaggio immobile che chiamiamo lettura, per riprendere una bella frase ascoltata fra le pagine dei pensieri espressi nel corso dello spettacolo la cui centralità consiste nel libro. Un oggetto visto e pensato come una superficie, uno spazio bianco riempito di simboli, di segni tracciati, di lettere che compongono frasi, storie. Il pubblico, occupando una delle postazioni distribuite come in una sala di lettura, scopre piccoli tavoli su cui troneggia un libro. Accanto una lampada e un paio di cuffie da indossare. E si parte per un’ora di ascolto sfogliando le pagine del libro, fra immagini e parole, fotografie e tavole che corredano i percorsi suggeriti tessendo la trama di sentieri dove si perdono sentimenti, ricordi autobiografici, impressioni di una memoria fra le ombre di un crepuscolo e della notte, tra i colori di interni dove lo sguardo entra sognando una quotidianità rapita. Book is a Book is a Book disegna linee di testo, strade che scompaiono per aprirsi al teatro della mente. È la mappa di un labirinto costruito fra le pagine del libro, con il progetto grafico di Marco Cassino, le illustrazioni di Arianna Bianconi e le dimensioni radiofoniche, fondamentali, realizzate magistralmente dall’incontro della dramaturg Simona Gonella con i testi letti da Gabriella Sacco e sonorizzati da Zeno Gabaglio con l’editing di Lara Persia.

Dove e quando

René Burri, Explosions of Sight, Losanna, Musée de l’Elysée. Orari: ma-do 11.00-18.00. Fino al 3 maggio 2020. elysee.ch

Uno spettacolo individuale, che stimola la riflessione. (© LAC)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 16 marzo 2020 • N. 12

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Cultura e Spettacoli

Di Evelyn Hardcastle, che morì sette volte

Generazioni lontane, vite parallele

Narrativa A colloquio con lo scrittore inglese Stuart Turton, autore di un giallo affascinante

Blanche Greco Nobildonne misteriose, scapestrati giovani rampolli, grassi banchieri, altezzose ragazze aristocratiche, artisti ingenui, medici scaltri, lacchè crudeli, avvocati di successo, giocatori incalliti e poi maggiordomi, governanti, cuoche, cameriere, stallieri, giardinieri sono il microcosmo che anima Blackheath House, maestosa residenza nella campagna inglese circondata da una enorme tenuta con un parco, un lago e un bosco: questo è il sontuoso palcoscenico del romanzo giallo Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton appena arrivato in Italia, premiato e osannato da migliaia di lettori inglesi, sino ad oggi orfani della regina britannica del mistery plot. «Agatha Christie era un genio nell’inventare intrighi polizieschi, ma i personaggi non le interessavano granché, tanto li uccideva dopo una ventina di pagine. Io invece amo profondamente i miei protagonisti, qualunque sia la loro indole, o il loro destino», ci ha raccontato con humour il quarantenne Stuart Turton, giornalista e scrittore, che abbiamo incontrato a Bologna, ancora incredulo del grande successo di questo suo primo libro. «Per anni sono stato un fervente lettore di Agatha Christie, i suoi romanzi sono una fotografia fedele della società inglese della prima metà del 1900: raccontano le varie classi sociali e come si viveva all’epoca in modo vivido e divertente, facendo emergere, tra un mistero e l’altro, una realtà degna di un documento storico. A ventun anni decisi di scrivere un romanzo poliziesco con il suo stile, ma con un intrigo originale. Avevo sottovalutato la difficoltà dell’impresa e dopo sei mesi di tentativi, accantonai l’idea. Nel frattempo ho girato il mondo da Londra a Shanghai facendo mille mestieri, poi nel 2014 mentre ero su un aereo per il Qatar, alle tre del mattino, quella storia autentica che avevo cercato invano, era lì, nella mia mente, chiara sin nei minimi particolari come l’ho scritta in Le sette morti di Evelyn Hardcastle». La cupa ed elegante Blackheath House nasconde

più di un segreto e malgrado l’andirivieni della servitù e il vociare allegro degli invitati in attesa del grande ballo in maschera per festeggiare il ritorno da Parigi della bella Evelyn, figlia di Lord e Lady Hardcastle, il nervosismo è palpabile. Gli ospiti passeggiano nel parco, o partecipano alla caccia alla volpe, ma quello che sembra un paradiso, è in realtà un inferno dove si aggira un sanguinario assassino che, notte dopo notte, uccide Evelyn con un colpo di pistola, in riva al lago dove anni prima era stato trovato morto suo fratello Thomas. Ogni volta, il sonno cancella nei personaggi avvenimenti e ricordi, così ogni mattina la giornata a Blackheath House ricomincia tale e quale. O forse no, visto che tra gli ospiti, c’è chi tenta di salvare Evelyn e chi invece non esita a far ricorso alla propria insospettabile malvagità per sabotarlo, salvare sé stesso e fuggire da quell’incubo riuscendo a risolvere il quesito: chi ha ucciso Evelyn Hardcastle? «La storia è volutamente ambientata all’epoca di Agatha Christie, dalla quale ho preso in prestito anche il linguaggio e i suoi tipici personaggi» ci rivela Turton divertito, «tutto si svolge in un ventesimo secolo un po’ retrò dove si parla un inglese che è quello contemporaneo, punteggiato da espressioni piene di sfumature che in alcuni casi ho diversamente aggiornato, o coniato». Ma se all’inizio i personaggi sembrano usciti da un giallo di Agatha Christie, più ci si inoltra nel racconto e più ognuno di loro si affranca dal proprio «modello», rivelando sfaccettature inedite e sorprendenti. Tutto il romanzo è un continuo gioco a rimpiattino con il lettore appassionato del genere, il cui immaginario viene continuamente solleticato, coinvolto nella narrazione, e poi spiazzato da diversi colpi di scena. «Ho amato tutti i maestri del genere come Conan Doyle, Raymond Chandler, Daphne Du Maurier, Frank Kafka, Edgar Allan Poe, perciò nel mio romanzo c’è un po’ di Dracula, di Sherlock Holmes e di Nero Wolfe, che si palesano nei momenti in cui il mio detective è costretto ad assumere identità

Stuart Turton ha lavorato anche come libraio. (Leonardo Cendamo)

e sembianze diverse e io ne approfitto per evocare altre atmosfere». Agatha Christie avrebbe sicuramente apprezzato i risvolti sociali e quelli più salottieri della storia, come pure le oscure genealogie familiari e gli intricati motivi che portano ancora una volta gli esseri umani al delitto, ma anche gli aspetti romantici e quelli più arditi come i viaggi nel tempo e una sorta di trasmigrazione delle anime, che hanno indotto Stuart Turton a porsi svariati quesiti filosofici e a tuffarsi nella psicologia dei suoi personaggi che, con humour a volte livido, a volte divertito, si giudicano, si criticano e si detestano. «Mi ci sono voluti quasi sei mesi per buttare giù l’impianto del romanzo tenendo conto di ogni minuto delle giornate dei protagonisti, nonché una mappa della casa e dei terreni intorno, dove era annotata ogni stanza, ogni finestra e ogni porta che essi aprono, chiudono, o varcano per entrare, fuggire, o per tendere un agguato. Il tutto era scritto su più di duecento fogli che per comodità avevo attaccato alle pareti della minuscola casa dove abitavo e per tre anni ho vissuto assediato dalla carta».

Nelle Sette morti di Evelyn Hardcastle, Stuart Turton ha creato un labirinto di personaggi nel quale ha rischiato di perdersi, magari rimanendo imprigionato nell’una o nell’altra personalità seguendo il suo detective da un corpo all’altro. «Quando si scrive un romanzo ci si scopre più del previsto, così io mi sono reso conto che la ricchezza e i privilegi mi rendono diffidente. Amo i lavoratori piuttosto che i ricchi. Tuttavia questa è una storia di malvagità e di redenzione dove tutti i protagonisti sono messi alla prova e con il tempo, possono cancellare i loro errori. Ma anche commetterne di nuovi». Il detective obbligato a una spasmodica corsa contro il tempo, inseguito da un oscuro assassino è alla continua ricerca di indizi, di alleati e di Anna. Ma chi è Anna? Questo è uno dei pezzi mancanti del puzzle, e sarà l’ultimo mistero a venire svelato da questo affascinante romanzo. Bibliografia

Stuart Turton, Le sette morti di Evelyn Hardcastle, Vicenza, Neri Pozza, 2019.

La lingua batte Ma in fin dei conti l’accento ci vuole oppure no? Le opinioni

degli esperti divergono Laila Meroni Petrantoni

«Sé stesso» o «se stesso», una domanda che si fanno in molti. (Keystone)

rando il panico, poi, un giorno mi sono accorta che, come un Grande Fratello, il programma di elaborazione di testi del computer si impone sulla volontà della scrivente (e sulle sue certezze) segnalando quasi come fosse un errore la versione priva di accento. «Ah sì?», è scattata la sfida indignata, alimentata dal dubbio che come un tarlo rodeva sempre più: «e allora, che parlino gli esperti!» L’onorevole e onorata Accademia della Crusca si è chinata sulla faccenda

il documentario di Stéphane Riethauser Nicola Mazzi

«Sé stesso»: quando le certezze vacillano

«O tempora, o mores», esclamò Cicerone, sapendo già che nei secoli a venire il genere umano lo avrebbe citato rimpiangendo il passato. «Che tempi! Che costumi!» quelli che stiamo vivendo, che strisciando minano le mie certezze. Mai e poi mai, dai banchi di scuola, avrei pensato di dover un giorno mettere in discussione le preziose regole della lingua italiana pazientemente trasmesse dal maestro a noi frugoli. Il contenzioso? Di dilemma si tratta, innanzitutto. Perché a scuola, qualche decennio fa, si insegnava che il pronome personale riflessivo sé (accentato principalmente per distinguerlo dal se congiunzione) perde l’accento quando seguito da stesso o medesimo, quindi se stesso. Così è stato per la sottoscritta (e mi par di capire, per molti altri fruitori della lingua di Dante) per anni e anni. Finché, come una slavina che sembra iniziare dal nulla, la massa di sé stesso rotolante a valle è cresciuta a dismisura: nei testi ci si imbatte sempre più frequentemente – e ormai quasi unicamente – nella versione accentata. Sfio-

Cinema Madame,

dopo innumerevoli sollecitazioni degli utenti disorientati (ah, ecco, mal comune mezzo gaudio) e ha individuato «due tendenze diverse». «Alcuni evitano l’accento», scrive Manuela Cainelli per l’Accademia, citando a questo proposito ad esempio il Sabatini-Coletti Dizionario della lingua italiana; notando inoltre che Alessandro Manzoni ha impiegato la forma non accentata nel Fermo e Lucia ma quella accentata nelle due edizioni de I promessi sposi, l’Accademia conclude salomonicamente che

«è preferibile considerare non censurabili entrambe le scelte, mancando in realtà una regola specifica». Opposti al fronte dei possibilisti, tuttavia, si schierano molti assolutisti. Negli stessi anni in cui la sottoscritta si abbeverava di certezze grammaticali dai banchi di scuola, la guida Come parlare e scrivere meglio diretta dall’intoccabile Aldo Gabrielli proclamava l’anatema contro il se non accentato, scrivendone come di «norma assolutamente illogica», condannando come «inutile e irragionevole andar poi a cincischiare casi e sottocasi» e intravvedendo già quaranta anni orsono il tramonto dell’odiata regola. Una «assurda pseudoregola», la definisce ancora nel suo Si dice o non si dice?: «Sono o non sono sottigliezze cervellotiche? […] Dunque, in nome della chiarezza, lasciamo sempre il suo bell’accento!» Certo, a ben guardare è inutile complicarsi la vita. Con tutto il rispetto, però, fatico a ingoiare il boccone amaro. Vedrò di adattarmi ai tempi, che del resto il correttore del PC mi ricorda costantemente. Morale della favola: le certezze incrollabili non sono eterne.

Ci sono dei momenti, in Madame di Stéphane Riethauser, nei quali ti commuovi. Il lavoro – che ha ricevuto una nomination per aggiudicarsi il Quartz quale miglior documentario svizzero – è sicuramente interessante e meritevole. Il film è autobiografico e racconta del travaglio vissuto dal regista nel riconoscere la propria omosessualità. Un coming out che va in parallelo con la vita della nonna, imprenditrice di successo nella ricca Ginevra degli anni Cinquanta. Una donna forte e indipendente, ma obbligata a sposarsi per avere un prestanome per la sua attività. Un parallelismo che corre lungo tutto il film, dandogli il giusto ritmo. E soprattutto evidenziando in modo efficace come la questione di genere sia sempre presente: oggi come allora, ha solo spostato il focus. Se nel dopoguerra la problematica sociale era la donna in carriera, negli anni 80 e 90 è diventata la questione omosessuale. Il regista utilizza immagini di repertorio e legate alla propria famiglia per raccontare la nonna da giovane. Un modo di avvicinare lo spettatore al racconto e farlo diventare parte della famiglia. È un po’ come se stessimo guardando i nostri vecchi filmini e le fotografie nell’album dei ricordi personali. Si vedono la nonna che taglia i capelli al giovane Stéphane, oppure le vacanze della famiglia, dove lo stesso autore, da bambino, durante il carnevale iniziava a mascherarsi da donna, mandando inconsapevolmente un segnale a sé stesso e ai suoi famigliari. Il film si basa su un grande lavoro di montaggio dove ogni materiale raccolto (filmati d’archivio, fotografie e riprese più attuali) viene composto secondo una logica precisa. Il tutto è accompagnato da una voce off mai eccessiva e che fa da contrappunto a quanto viene mostrato, costruendo così le storie della nonna e di Stéphane. In questo modo i parallelismi tra i due, a poco a poco, si fanno sempre più chiari, come per esempio, il percorso sentimentale. Lei a un certo punto dice, parlando dei suoi uomini: «non ho mai avuto fortuna in amore», un percorso affettivo difficile vissuto anche dal ragazzo che ha dovuto lottare, prima con sé stesso e poi con gli altri, per far emergere la propria natura. Ma è soprattutto nel non sentirsi adeguati al tempo in cui hanno vissuto che il parallelismo si fa esplicito. Sia la nonna sia Stéphane hanno sempre dovuto combattere i pregiudizi sociali della loro epoca. E lo hanno fatto con coraggio e stando sempre in prima linea. Proprio come l’autore, quando ha scritto un articolo di giornale sul tema dell’omosessualità, prendendo posizione in modo chiaro, con la firma e la propria foto. Un atto pubblico per far emergere un disagio privato che ha toccato e che tocca molte persone.

La locandina del film.


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Cultura e Spettacoli I Gotthard hanno appena pubblicato Round 13 o #13. (Franz Schepers)

Per una ricerca scientifica più libera Pubblicazioni L’interessante punto di vista

della filosofa francese Isabelle Stengers Laura Marzi

13 sfumature di Gotthard

Musica Il cantante Nic Maeder ci racconta il nuovo album

Fabrizio Coli Sicuramente è molto Gotthard. Sicuramente è molto «classic rock», che qui vuol dire rock come lo si faceva negli anni 80 o giù di lì. Ma #13, il nuovo album della più celebre rockband elvetica appena uscito per Sony Music Switzerland, riserva parecchie sorprese e rivela tante differenti sfumature. In una parola? Un gran bell’album. Una produzione asciutta ed efficace curata da Paul Lani e Leo Leoni: così i tredici brani che compongono il tredicesimo lavoro in studio dei Gotthard si propongono al pubblico, alternando nella migliore tradizione del gruppo momenti energici ad altri più intimi. Atmosfere diverse che si fondono in maniera omogenea e perfettamente naturale nello stesso brano, unite sempre da linee vocali melodiche di forte impatto e di immediata presa. Il lavoro scorre fluido rivelandosi nella sua completezza ascolto dopo ascolto, aprendosi continuamente a soluzioni non scontate. 10’000 Faces parte come un brano rock senza compromessi, ma subito la strofa rivela un groove sornione. Better Than Love ha dei riverberi quasi «alternative» che sfociano in un ritornello potente che rimane subito in testa, Rescue Me veicola degli psichedelici echi anni Settanta e un testo che invece parla del mondo di oggi e delle ossessioni digitali che lo pervadono. Il lato giocoso dei Gotthard viene fuori nell’orientaleggiante Missteria scritta con Francis Rossi degli Status Quo e c’è perfino un’inaspettata cover di S.O.S… degli Abba. Tanta roba qua dentro: Leo Leoni, Marc Lynn, Freddy Scherer e Nic Maeder hanno fatto un gran lavoro di songwriting senza abbandonare il loro campo da gioco preferito. Dietro la batteria stavolta non siede Hena Habegger, che già da un po’ ha ridotto le sue attività musicali annunciando un periodo di pausa per dedicarsi alla famiglia. A sostituirlo in studio è Alex Motta mentre nel tour, previsto per aprile fra Germania, Austria, Bulgaria e Svizzera – coronavirus permettendo, come per tutti gli altri eventi – il ruolo sarà di Flavio Mezzodi dei Krokus. Del nuovo lavoro parliamo con Nic Maeder, da nove anni voce e frontman dei Gotthard. E ne approfittiamo anche per farci raccontare qualcosa della sua vita. Nic, in #13 si colgono elementi differenti eppure omogenei. Come descrivi l’atmosfera di questo album?

Penso sia vero, ci sono differenti sfumature in questo album, differenti colori. Ma non l’avevamo veramente pianificato. È semplicemente successo così. Penso che siamo stati attenti a non avere due volte lo stesso genere di canzone e ad avere brani abbastanza diversi l’uno dall’altro. La cosa divertente è che però io non sento poi tutta questa varietà! È più una cosa che ci ha detto la gente che lo ha ascoltato: ‘sai questo disco è incredibilmente differente!’. Ah davvero? (ride). Ma è chiaro che quando stai scrivendo, quando lavori alle canzoni per molto tempo, queste cose non le vedi più. Quel che è certo è che siamo veramente felici del risultato. Abbiamo scritto l’album tra marzo e lo scorso settembre e abbiamo registrato delle demo delle canzoni. Poi da Los Angeles è arrivato il produttore Paul Lani e abbiamo rielaborato tutto, abbiamo smontato e rimontato le canzoni e le abbiamo risuonate tutti insieme. Lo abbiamo fatto per ciascuna di loro. Probabilmente è per questo che i brani suonano tutti come parte dello stesso album.

E come mai avete deciso di mettere una cover degli Abba sull’album? Ciò è abbastanza sorprendente…

(ride) Sì! In televisione, a Natale, volevano fare una notte tributo agli Abba. Hanno chiesto anche a me di partecipare e cantare una loro canzone. La mia reazione è stata ‘Mmmh? Abba? Ehm, non sono sicuro, datemi qualche giorno per pensarci’. Comunque mi sono ascoltato qualche album e ho pensato che forse avrei potuto fare qualcosa con S.O.S. A casa ne ho registrato una versione solo piano e voce, una versione che aveva un mood piuttosto dark. Non suonava male così ho deciso di partecipare allo show televisivo. Mentre stavamo componendo per l’album, l’ho fatta sentire ai ragazzi e a loro è piaciuta! Leo mi ha detto che avevano pensato di fare S.O.S. con Steve anni prima, ne avevano parlato. Non ne avevo idea.

Sono passati nove anni da quando ti sei unito ai Gotthard. Come è cambiata la tua vita?

La mia vita è cambiata parecchio… Soprattutto all’inizio. Vivevo in Australia all’epoca e sono tornato in Europa. Mi ero unito alla band senza rendermi davvero conto di quanto grandi fossero… È stato un periodo difficile per il gruppo che usciva dalla morte di Steve Lee e doveva ricostruirsi. In Svizzera, con la scomparsa di Steve, erano chiaramente molto mediatizzati. Chi sarà il nuovo cantante? Anche

questo era sotto gli occhi dei media. Letteralmente mi sono svegliato una mattina e tutto il Paese sapeva chi ero. Sì, la mia vita è cambiata drasticamente. Avevo una grande pressione su di me. I primi due anni sono stati difficili, con un sacco di lavoro da fare, con tutti che mi guardavano. Ma devo dire che siamo stati molto fortunati ad avere dei fan così fantastici, la maggior parte dei quali è rimasta con la band e veramente ci hanno incoraggiato tantissimo: alla fine sono i fan che decidono e nessuno sa come andrà. Siamo stati molto fortunati. Tu sei anche un pilota. C’è qualcosa in comune nell’essere il frontman di una band e pilotare un aereo?

L’adrenalina! (ride) Quando vivevo in Ticino abitavo molto vicino all’aeroporto di Agno e ho fatto amicizia con le persone che lavoravano lì. Volevo veramente fare qualcosa che non avesse a che fare con la musica, perché l’impegno nella band, in particolare nei primi tre anni, era davvero 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Così ho cominciato a volare e mi ci sono voluti alcuni anni per prendere la licenza. Ho dovuto studiare un sacco!

Quando hai cominciato con la musica chi erano i tuoi eroi, i tuoi modelli?

La questione climatica è diventata di dominio pubblico, ne parlano i telegiornali, dandone talvolta una visione distorta. Esiste un movimento di giovani e giovanissimi attivisti che organizza ogni anno una mobilitazione: il Friday for future, di cui sono in molti a ignorare le ragioni, ivi compresi alcuni che aderiscono allo sciopero. Si tratta infatti non solo di una tematica la cui importanza non è ancora chiara a tutti, la questione ambientale sfugge anche a causa della sua complessità: in essa si mescolano infatti temi scientifici, politici, sociali e le cose difficili di questi tempi non vanno proprio di gran moda. O forse è sempre stato così. Il testo di Isabelle Stengers Résister au désastre ha tutto l’aspetto e gli effetti di un buono strumento: è agile, breve, è stato scritto sotto forma di intervista e a porre le domande è una giovane ricercatrice ventottenne, Marin Schaffner. Il merito maggiore, però, di questo «librino» è il punto di partenza dell’autrice: Isabelle Stengers scrive dell’ecologia non come se si trattasse di una questione alla ribalta, perché foriera di problemi, minacciosa, fonte plausibile di disastri e distruzione. La inserisce, invece, all’interno della filosofia. L’ecologia è infatti descritta in questo testo come una branca dell’etica, per questo la chiama «eto-ecologia». Un comportamento che si fonda su un principio fondamentale, spesso evocato, ma a cui non viene ancora mai davvero dato uno statuto riconosciuto: l’interdipendenza. In primo luogo, allora, per Stengers, l’ecologia si fonda sulle relazioni di interdipendenza che uniscono tutti gli essere viventi e non, mentre l’inquinamento, se vogliamo trovare un termine seppur parziale che rappresenti il contrario di ecologico, si fonda sulla dipendenza. Si tratta di un’idea che in apparenza è tanto astratta, quanto invece è chiara. La dipendenza a cui sono costretti i contadini che sono stati forzati dalle multinazionali alle monoculture è inquinamento, è danneggiamento della natura. La dipendenza dai carburanti fossili, che oggi non ha altre ragioni se non il continuo arricchirsi di chi possiede il petrolio… L’elenco a partire da questa chiave di lettura potrebbe essere infinito. Una dipendenza in particolare è tra i temi che stanno più a cuore all’autrice: quella della società occidentale dalle scienze intese come luoghi di sa-

Sono cresciuto con gli AC/DC. Ho sentito Hell’s Bells alla radio quando avevo 11 anni o giù di lì e ne sono stato completamente catturato. Brian Johnson e Bon Scott sono stati una grande influenza come cantanti, ma io in realtà volevo essere un chitarrista. A 13 anni ho cominciato a suonare la chitarra e più tardi, attorno ai 16 anni ero in una band thrash metal: i miei gruppi preferiti erano Metallica, Slayer, Testament, questo genere di band. È stato allora che ho iniziato a cantare. Vivevo in Svizzera all’epoca e cercavamo un cantante per il gruppo ma non trovavamo nessuno che sapesse l’inglese e così ho cominciato io! Allora ero molto influenzato da James Hetfield (frontman dei Metallica, nda). E oggi? Quali artisti stai ascoltando in questo periodo?

In questo periodo non sto ascoltando molto. Ma ultimamente ho tirato fuori le vecchie cose dei Soundgarden. Sono un loro grande fan e anche Chris Cornell è uno dei miei preferiti dei vecchi tempi. Mi piacciono molto gli anni Novanta, gruppi come loro o gli Alice in Chains... E poi ascolto anche molto la radio, per sapere che succede nel mondo.

Il libro di Isabelle Stengers.

pere stagni, impenetrabili, focalizzate sul proprio oggetto di studio. Anche in questo caso l’evidenza di questa conclusione così rivoluzionaria – nessuno osa mai mettere in discussione il sapere scientifico – è lampante. Se la ricerca scientifica non fosse organizzata secondo le modalità descritte, di chiusura ermetica tra una disciplina e l’altra, non sarebbe stata creata la bomba atomica, ci fa riflettere Stengers. Le scoperte nell’ambito della fisica molecolare in una società in cui le scienze dialogano fra loro non avrebbero mai potuto condurre alla costruzione di un ordigno di distruzione di massa, perché ci sarebbe stata un’etica, un’interdipendenza, appunto, che lo avrebbe impedito. Visioni di questo tipo tanto nette quanto rare sono disseminate nel libro che ci ricorda, in fondo, quanto la questione ecologica sia una questione politica: come possiamo immaginare di curare il nostro pianeta se le relazioni tra i popoli che detengono il capitale e quelli che lavorano per essi continueranno a essere improntate alla sola logica del profitto? Il nostro sistema economico, il neoliberismo, si basa infatti sull’idea che sia necessario avanzare, nel senso di progredire verso una ricchezza maggiore a qualsiasi costo: ogni ostacolo a questo obbiettivo deve essere quindi abbattuto. Per questo vengono distrutte le foreste, vengono annientati i popoli come gli aborigeni d’Australia che sapevano come fronteggiare per esempio gli incendi che hanno devastato in queste settimane la loro terra. L’ecologia è una questione politica, allora, e questo era già abbastanza chiaro a chi se ne interessa, anche da lontano, ma Stengers fa un passo ulteriore e la definisce come una questione di politica delle relazioni: sociali, fra le discipline, fra gli essere viventi e con gli oggetti inanimati. Ed ecco perché la questione è così grave, importante, talmente che non ci piace occuparcene e invece non abbiamo altra soluzione che quella suggerita dalla filosofa francese che cita a sua volta Donna Haraway: stay with the trouble. Non ha senso sognare un finale felice, ma affrontare la realtà per quella che è: non uccidere i lupi, insomma, ma neanche dimenticarsi degli allevatori. Bibliografia

Isabelle Stengers, Résister au désastre, Wildproject 2019, pp. 86


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Cultura e Spettacoli

Il candore dell’arte Mostre A Giubiasco una mostra dedicata a Italo Valenti

Alessia Brughera È un narrare incantato quello di Italo Valenti, pittore di universi enigmatici e sognanti che scaturiscono dalla capacità di guardare il mondo con indulgente profondità. Dell’esistenza Valenti cerca di conoscere il mistero, gli arcani precetti che la rendono impenetrabile e affascinante, ambigua e amabilmente imprevedibile. La leggerezza che contraddistingue la sua arte, prendendo a prestito un’espressione di Calvino, è stata non a caso definita «pensosa», proprio perché specchio di un’innocente visione della realtà mossa però da un lucido e potente bisogno di esplorarne fino in fondo la sostanza. Artista italiano, nato a Milano nel 1912, diventato poi ticinese d’adozione da quando a metà Novecento approda a Locarno per rimanervi sino alla morte, Valenti si è sempre «abbandonato senza meta», sono parole sue, nel fluire della vita, cercando di trasporre sulla tela l’insolita e imponderabile natura delle cose che «vivono dissimulate e smarrite fuori e dentro di noi». Nel suo lungo percorso Valenti ha attraversato diverse stagioni espressive, ma nella trasformazione del suo linguaggio ciò che è rimasto inalterato nel tempo è proprio quel candore fanciullesco che permea i suoi lavori fin dagli esordi. Dalle prime figurazioni giovanili, infatti, fino ad arrivare all’astrazione lirica della maturità, l’artista popola le sue opere di trenini, aquiloni, battelli, maghe e lune, temi di un primitivismo fantastico che proietta il reale in una dimensione onirica. Seppur sottoposti a una sempre maggiore essenzialità e rarefazione, questi soggetti non perderanno mai la loro carica metaforica, anche quando dall’essere elementi ben riconducibili alla realtà diventeranno pure forme geometriche. Una mostra allestita in questi giorni nelle sale dello Spazio polivalente

Italo Valenti Riccio e anatra; la bestia e l’uccello, 1955.

Arte e Valori di Giubiasco ci racconta, attraverso una selezione di opere provenienti da collezioni private, il poetico peregrinare di Valenti tra le trame dell’esistenza, il suo rapportarsi alla storia e alle vicende umane con discrezione e levità, facendo emergere dalle sue tele l’inesausta ricerca del mistero della vita. I lavori esposti, realizzati in un arco temporale che va dalla fine degli anni Trenta ai primi anni Novanta, testimoniano le tappe principali del cammino dell’artista, rivelando come queste siano legate da una rete di corrispondenze che sopravvive al mutare dello stile. Delle tre fasi che contraddistinguono la pittura di Valenti, la prima racchiude il periodo che va dalla formazione presso l’Accademia di Belle Arti

di Brera, sotto la guida di Aldo Carpi, sino alla partecipazione al movimento di Corrente. Sono anni, questi, in cui l’artista coglie i tanti impulsi offerti dal capoluogo lombardo e arricchisce la sua esperienza con viaggi a Bruxelles e a Parigi alla scoperta, soprattutto, di Cézanne, maestro della sintesi volumetrica capace di sublimare nei suoi dipinti le geometrie del reale. Il momento milanese è caratterizzato dall’accostarsi di Valenti, nel 1938, al gruppo culturale artistico di Corrente (a cui aderiscono, tra gli altri, Renato Birolli, Aligi Sassu e Renato Guttuso), nell’intento condiviso da tutti i membri di andare oltre il classicismo della tradizione italiana, partendo dalla volontà di connettere profondamente arte e vita. Se anche per Valenti la ricerca si focaliz-

za in questa circostanza su soggetti eticamente impegnati resi con un realismo di stampo espressionista, la sua pittura figurativa si distingue da quella degli altri esponenti della compagine per un intimismo più marcato. Come documentano le opere esposte a Giubiasco appartenenti a questo periodo, Valenti fonda la sua arte sulla potenza del colore accompagnata da una tendenza alla semplificazione delle forme già premonitrice della successiva sterzata verso l’astrazione. Breve ma di grande importanza nel percorso dell’artista è poi la fase vicina al linguaggio informale attraversata negli anni Cinquanta, complice il suo trasferimento in Ticino. A Locarno e Ascona Valenti frequenta Remo Rossi, Julius Bissier, Jean Arp e Ben Nicholson,

artisti da cui trae nuove sollecitazioni che lo portano ad abbandonare il realismo del passato per approdare gradualmente all’indagine di temi connessi a una dimensione cosmica: l’infinito, il silenzio, il caos e l’energia primigenia diventano i contenuti di tele in cui si afferma la ricerca sugli aspetti cromatici, materici e spaziali. Da qui prende infine avvio il terzo capitolo del cammino di Valenti, quello legato all’astrazione lirica, che accompagnerà l’artista fino agli ultimi esiti degli anni Novanta. A Giubiasco c’è un’opera che ben rappresenta il passaggio dalla tappa informale a questa nuova fase. Si intitola Notte ed è un lavoro che mescola collage e gouache datato 1959, anno fondamentale per l’artista perché segna proprio la nascita dei primi collage, tecnica che insieme alla pittura qualifica la sua produzione più matura. Se la pura astrazione è ormai raggiunta, è interessante come nelle opere di questo momento si possano rintracciare delle simmetrie con i motivi del periodo milanese, in un recupero di elementi cari all’autore rielaborati secondo soluzioni stilistiche inedite. Come mostrano i collage presenti nella rassegna, adesso sono geometria e colore i fondamenti della tela: sempre più essenziali, le raffinate composizioni di Valenti si riducono a poche forme sospese in uno spazio nitido. E così il mistero, la fiaba, il sogno e l’inatteso che il maestro ha tanto inseguito sin dai suoi primi lavori acquistano in queste opere piena forza simbolica. Dove e quando

Italo Valenti. Lo sguardo dell’innocenza. Spazio polivalente Arte e Valori, Giubiasco. Fino al 29 marzo 2020. Sa e do dalle 14.00 alle 18.00. Per visite fuori orario: +41(0)76 435 19 46 www.artevalori.ch

Mariss, fulgida stella

In memoriam Un ricordo dell’indimenticato direttore d’orchestra lettone Mariss Jansons,

scomparso lo scorso mese di novembre Giovanni Gavazzeni Un famoso direttore d’orchestra italiano, Tullio Serafin, diceva che nella Bohème di Puccini il direttore d’orchestra doveva stare in stato di pre-infarto fino all’ingresso di Mimì nel primo e nel quarto atto. Serafin si riferiva alla densità degli avvenimenti che richiede estrema attenzione ed elasticità continua da parte dell’orchestra e della sua guida. Ventidue anni fa quel monito si stava trasformando in tragica profezia, perché il direttore lettone Mariss Jansons (1943-2019) ebbe un drammatico infarto proprio dirigendo Bohème a Oslo. Una tragedia che stava per ripetersi: il padre Arvīds era morto proprio d’infarto sul podio della Hallé Orchestra a Manchester. Un momento che ha segnato una cesura drastica nella sua

vita, come dichiarò lo stesso direttore lettone: «In un momento in cui sei tra la vita e la morte, cominci ad analizzare cos’è realmente la vita. Perché siamo qui? Che cosa è importante? Non sono Mahler, ma mi sono posto le domande che lui fa molte volte nelle sue sinfonie. Sento di essere diventato molto più ricco, un musicista più profondo, più bravo a sostenere tempi lenti. Non posso dire che abbia cambiato completamente la mia mentalità ma mi ha dato nuove caratteristiche, nuove prospettive». Tutto quanto si può ascoltare nelle splendide incisioni delle sinfonie di Mahler con la Concertgebouw Orchestra di Amsterdam (pubblicate dall’etichetta dell’orchestra RCO), dove la concertazione di Jansons asciuga le sonorità e scova le radici più profonde della nostalgica «viennesità» di Mahler.

m4music vive! Il Festival di musica pop di Zurigo m4music è stato annullato a causa del Coronavirus – eppure avrà luogo ugualmente. Il prossimo 21 marzo il grande appuntamento musicale del Percento culturale Migros si trasformerà in un evento in streaming con ospiti a sorpresa, concerti e tavole rotonde.

Un’imperdibile modalità creativa per trascorrere il proprio in giornate che si prospettano lunghe e incerte. Vi aspettiamo numerosi! Collegatevi anche voi! Info: m4music.ch

Un Mahler moderno e antico, un titano che aveva un piede nel tardo romantico fine Ottocento e presentiva i cataclismi del Novecento. Il sentito cordoglio mondiale che ha accompagnato la notizia della morte di Jansons teneva presente il coraggio con cui affrontò quotidianamente il rischio di dirigere con passione il repertorio sinfonico (i prediletti cicli sinfonici di Rachmaninov e Sostakovic, Beethoven e Bruckner, Mahler e Strauss) e le rare ma luminose sortite operistiche con la spada di Damocle sul capo. Il destino della famiglia Jansons era la direzione d’orchestra. Una fotografia ritrae Mariss in calzoni corti bianchi accanto al padre che lo cinge sulle spalle, mentre con la destra dirige. Davanti a loro al pianoforte, Sviatoslav Richter. Mariss, nato durante l’occupazione nazista della Lettonia, aveva succhiato la musica dal seno materno – la madre Irida era soprano nello stesso teatro di Riga dove il padre era direttore musicale. «Mi portavano al lavoro tutti i giorni perché non avevano una babysitter. Ho trascorso i miei giorni fino a quando sono andato a scuola circondato dall’opera, ascoltando prove e spettacoli: conoscevo anche quasi tutti i balletti in repertorio.» Il piccolo Mariss leggeva le partiture paterne e ne imitava i gesti. Orme che seguì letteralmente diventando, come il padre, assistente del temuto e grande direttore della

Il carismatico direttore d’orchestra lettone. (Keystone)

Filarmonica di Leningrado, Evgenij Mravinskij. Leningrado oggi San Pietroburgo e la sua orchestra rimasero un punto fermo: «un’orchestra con un suono fantastico, molto coltivato, soprattutto gli archi – era la migliore orchestra in Unione Sovietica ed è la migliore orchestra in Russia.» Con «cervello lettone e cuore russo» Mariss Jansons ha asceso i vertici direttoriali, prima creando dal nulla l’Orchestra Sinfonica di Oslo, poi nei periodi alla direzione musicale del Concertgebouw di Amsterdam e dell’Orchestra della Radio bavarese a München. Sempre con l’eleganza

del tratto, con la discrezione di un antidivo che aveva bene in chiaro la vanità dello star-system e riconoscente al suo maestro viennese Hans Swarowski e a Herbert von Karajan che lo avrebbe voluto come suo assistente per più tempo se le autorità sovietiche non gli avessero negato un soggiorno più lungo, si è tolto la soddisfazione di guidare magnificamente e più volte il Concerto di Capodanno della Filarmonica di Vienna, con tutte le qualità di leggerezza e verve, di rubati e classe che ci vogliono per quella sublime musica in tempo di tre quarti. Do svidanya, Maestro.


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