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Il bisogno di scoprire le cause

Natura

Massimo Negrotti

Nel dramma Sei personaggi in cerca di autore Luigi Pirandello fa dire ad uno dei personaggi «Frasi! frasi! Come se non fosse il conforto di tutti, davanti ad un fatto che non si spiega, davanti a un male che ci consuma, trovare una parola che non dice nulla, e in cui ci si acquieta» cogliendo, con questo, un bisogno fondamentale della natura umana, quello di capire e spiegare ciò che accade dentro o fuori di noi. Come è noto, Aristotele sosteneva che scire est scire per causas: la vera conoscenza consiste nell’essere in grado di individuare le cause degli accadimenti. Sta di fatto che noi ci riteniamo soddisfatti quando possiamo rispondere persuasivamente alla domanda «perché?». Il ruolo della «causa» di un fenomeno è dunque centrale nella nostra esistenza e non a caso esso, in forme diverse, è al centro della stessa scienza.

Il ruolo della causa è principalmente la produzione di un effetto, ma in quale senso? La realtà, fisica e umana, è costituita da fatti e non da cause. A ben vedere, quando attribuiamo ad un certo fatto, chiamiamolo A, la capacità di causare B, noi isoliamo questi eventi dall’infinita e intricata matassa dei fatti ponendoli in una relazione speciale e per così dire esclusiva. La stessa «spiegazione» di qualcosa avviene di norma rinviando alla etimologia del termine, per la quale explicare si- gnifica aprire il plico, ossia rivelare il contenuto che sta sotto le pieghe della realtà ed esso consiste appunto nelle cause di ciò che avviene. Va ora osservato, però, che l’estrema complessità di ciò che chiamiamo realtà non si concede facilmente al nostro bisogno di spiegarla. Anche sul piano scientifico, il cimitero delle ipotesi che nel tempo si sono dimostrate inattendibili è sicuramente molto più vasto del paniere di conoscenze acquisite stabilmente. Va aggiunto che alcuni criteri, apparentemente persuasivi ma sostanzialmente fallaci, non aiutano molto e, al più, si rivelano congetture che, talvolta, danno una mano solo a costruire ipotesi. Uno di questi si trova nell’espressione latina post hoc ergo propter hoc per la quale, se B avviene dopo A allora A è la causa di B. Anche qui, come si può facilmente intuire, avviene l’ingannevole sradicamento di A e B dall’illimitato alfabeto dei fatti, assegnando arbitrariamente alla sola variabile temporale la forza persuasiva di cui si era alla ricerca. Si tratta di un criterio che, fra l’altro, è stato ampiamente adottato nel recente dibattito circa i possibili effetti collaterali dei vaccini contro la Covid-19. Da più parti si indicavano effetti avversi sulla sola base del fatto che, essi, si erano manifestati dopo l’assunzione del vaccino. Un’altra forma di fallacia dipende poi dall’u- so logicamente ambiguo del termine «causa», come quando la attribuiamo impropriamente a un contesto e non a un fatto specifico capace di produrre un effetto. Un filosofo della scienza proponeva anni fa un esempio tipico. Supponiamo che, essendo venuto a mancare il chiodo che lo sosteneva, un quadro sia caduto sul pavimento. Sarebbe corretto affermare che il quadro è caduto a causa dell’assenza del chiodo? Evidentemente no, dato che a produrre l’effetto non può essere qualcosa che non c’è, mentre era sicuramente in azione la forza di gravità. Un caso speciale è poi quello delle spiegazioni «teleologiche», ossia spiegazioni che indicano il fine al quale tende un fenomeno. Poniamo che un bambino chieda al padre perché gli orsi polari hanno il pelo bianco. Il padre avrà due possibilità: descrivere, se lo conosce, il processo biologico che produce il pelo bianco oppure osservare che, col pelo bianco, gli orsi polari perseguono il fine di mimetizzarsi fra i ghiacci. Il fine, dunque, porrebbe la causa dopo l’effetto, mettendo in luce la natura instabile del concetto in questione. Insomma, tenendo ferma la definizione del concetto di causa come qualcosa che, rigorosamente, produce un effetto si incorre spesso in circostanze poco convincenti o fuorvianti. Perciò, sul piano scientifico, si prefe- risce sempre più adottare il termine «condizioni», in particolare quando ci si riferisce a fenomeni, come quelli economici o sociali ma anche biologici e fisici, che si legano l’uno all’altro in base a probabilità e non attraverso la diretta produzione materiale. Altrettanto, guadagna terreno l’impiego del termine «policausalità» per intendere che, un certo effetto, si realizza solo se intervengono più cause, trasformando la causa in una più o meno complessa rete di interazioni. Così, sostenere che una certa decisione politica ha generato un innalzamento dell’inflazione significa affermare che, a seguito di un esame complesso – ma mai completo – delle variabili in gioco, si è riscontrata una certa correlazione probabilistica fra i due eventi e non che il primo ha causato il secondo. In fondo ci capiamo comunque, ma la differenza fra una spiegazione causale e una probabilistica rimane importante anche perché la prima, indicando un fenomeno, magari sociale, come «causa» di qualche evento negativo può portare ad assumere atteggiamenti di dura ma, magari, immotivata ostilità. In definitiva, indicare con certezza la causa di un evento è piuttosto arduo e siamo in grado di farlo solo in situazioni nelle quali il fenomeno è sufficientemente isolato per conto suo oppure quando lo isoliamo noi stessi in laboratorio. Inoltre il fenomeno dovrebbe sempre essere riconducibile a forme di causalità immediata riconosciuta universalmente, come, per portare solo pochi esempi, la gravità, le leggi termodinamiche di base, il magnetismo. In tutti gli altri casi dovremmo limitare la nostra irresistibile inclinazione a credere in una realtà fatta di cause ineluttabili. Altro è, naturalmente, ciò che si può pensare in termini metafisici per mezzo dei quali possiamo persino arrivare a porre Dio, con Aristotele e Tommaso, come «causa prima» o alla volontà degli Dei come causa dei fenomeni naturali. Ma questa è un’altra storia, sebbene manifesti la stessa e perenne attitudine umana.

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