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Viaggiatori d’Occidente La lezione del mondo sta nelle diversità
«C’è tutto un mondo intorno» cantavano i Matia Bazar alla fine degli anni Settanta; a volte però ce ne dimentichiamo. Forse l’ibridazione tra reale e digitale ha irrimediabilmente trasformato la nostra percezione dello spazio. Conosciamo i monumenti più famosi sotto forma di icone, quasi senza legami con il loro contesto. Di tanti luoghi assai noti ignoriamo quel che resta fuori dalla cornice: la luce nelle diverse ore del giorno, le vie intorno, la distanza dal mare o da un fiume. Abbiamo davanti agli occhi Broadway, la strada simbolo di Manhattan, con le luci e i teatri, ma quanti conoscono la sua lunghezza, dove inizia, dove finisce, quali quartieri attraversa?
«Trovare il proprio posto nel mondo» è un’immagine spesso utilizzata per restituire la fatica quotidiana di dare un senso alle nostre vite, ma forse dovremmo prenderla più alla lettera.
Conoscere con esattezza la propria posizione nei secoli passati fu quasi un’ossessione, per ragioni molto concrete. Un esempio? Nella prima sera del 22 ottobre 1707 la grande nave da guerra della marina britannica Association si schiantò sugli scogli delle Western Rocks, a sud ovest della Gran Bretagna, lasciando nelle acque gelide dell’Atlantico duemila morti. Il Longitude Act del 1714 offrì un premio di ventimila sterline (equivalenti a un milione e mezzo di euro odierni) a chiunque fosse riuscito a calcolare con esattezza la posizione di una nave in mare aperto. Poiché il sestante già allora consentiva di calcolare la latitudine, ci si concentrò sulla longitudine. Alla fine la spuntò un orologiaio dilettante dello Yorkshire, tale John Harrison, imbarcando sulle navi un orologio che conservasse con esattezza l’ora del luogo di partenza e permettesse dunque un confron-
Passeggiate svizzere
Il tea-room Weber di Arosa
Ancora, continua, finché dura l’inverno, il richiamo dei tea-room. Anche grazie a un libro saltato fuori nelle mie ultime ricerche su questo tema: Die schönsten Tea Rooms der Schweiz (2004). A cura di Fabienne Eggelhöfer, storica dell’arte e capo curatrice del Zentrum Paul Klee di Berna e Monica Lutz, ex libraia ora assistente psicosociale, con le belle foto di Rolf Siegenthaler, mi ha fatto sentire meno solo nei miei studi ossessivi su questi posti atemporali. Consapevoli, le autrici, di «una testardaggine fuori dal mondo nel frequentare questo tipo di locali». Ma il loro è al contempo un appello a dirigere lo sguardo verso «l’estetica dei tea-room», dentro i suoi «meravigliosi interni senza tempo». Tra i ventisette tea-room repertoriati, otto li ho ritratti nei miei mini reportage, diversi sono estinti, alcuni snaturati, altri invece sono sopravvissuti immacolati come il tea-room Weber
(1774 m) di Arosa dove entro ora. Un primo pomeriggio all’inizio di marzo, come quasi una salvezza da Arosa: rinomata località climatica in perfetta posizione walser, vale a dire su in cima in fondo alla valle tra neve e conifere, deturpata diventando stazione sciistica. E così, dopo aver percorso buona parte della Poststrasse – tra tristi sporthotel e pizza-kebab, sapendo che su quella stessa strada sono svaniti due tea-room storici dove in uno (Old India) ci andava Thomas Mann e la moglie e nell’altro (Simmen) Sophia Loren con il marito – sprofondo nella poltrona di stoffa a righe color tortora chiaro, vinaccia, verde tundra. E guardando meglio, a cadenza molto più rara e bordato di azzurrino slavato, anche un verde muschio. Curvata tipo autodromo, come certi angoli da night-club anni Settanta-Ottanta, la poltrona continua per tutta la stanza, unendo sette
Sport in Azione
Chi non salta è un…
…un contadino? …un bianconero?
Se anche fosse, non ci sarebbe nulla di cui vergognarsi. Anzi, sarebbe un vanto. Senza il settore primario, mangeremmo solo cibi sintetici e la nostra salute pagherebbe dazio. Quanto al bianconero, è da sempre sinonimo di eleganza grintosa. Negli anni Sessanta, ad esempio, lo stilista francese André Courrèges ne fece il suo segno distintivo.
Chi non ha mai messo piede in uno stadio di hockey su ghiaccio, probabilmente farà fatica a capire il senso di questo incipit. Spieghiamo. Le due squadre ticinesi, che frequentano da decenni il massimo campionato nazionale di hockey su ghiaccio, sono sostenute da numerose rispettabilissime persone che siedono sulle tribune, acquistano tessere o biglietti d’accesso dal costo piuttosto elevato. Prediligono lo champagne delle Vip Lounge alla birra delle buvette.
to con l’ora locale; perché a dispetto del Tempo Coordinato Universale (UTC), ogni luogo vive in un’ora diversa e il meridiano fondamentale (o meridiano zero), quello che passa per Greenwich, in fondo è solo un riferimento convenzionale…
Sono pensieri sorti in margine alla lettura di La Terra è rotonda , ultima uscita nella collana Cose spiegate bene de «Il Post» (Iperborea editore). Un libro antidoto contro la pigrizia intellettuale: ci ricorda quanto la geografia dovrebbe contare nel mondo globale, prima di tutto nella scuola naturalmente, dove invece è spesso lasciata al margine.
Sono pensieri familiari a ogni viaggiatore. Nonostante le dimensioni strabordanti dell’immaginario turistico, ogni volta che si giunge da qualche parte per la prima volta si ha una sensazione di novità, di presenza, di verità.
di Claudio Visentin
A Sarajevo, sul ciglio d’una strada, nel luogo esatto dove il 28 giugno 1914 il giovane Gavrilo Princip sparò all’erede del trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando, ho rivissuto tutta la tragica concatenazione di eventi che portò alla Prima guerra mondiale. Lo spazio ridotto – pochi metri – dove divampò quella scintilla sembrava sottolineare per contrasto la vastità dell’incendio.
E se nelle discussioni in rete prevale l’ideologia, il pregiudizio, e ognuno alla fine resta sempre della sua opinione, la lezione del mondo sottolinea invece la diversità delle situazioni, la specificità di ogni storia, il peso del contesto. Lontano dai nostri rassicuranti riferimenti, il particolare si impone regolarmente sull’universale. Come ha scritto il ginevrino Nicolas Bouvier, forse il nostro viaggiatore migliore, stra- da facendo si impara «ad aprire gli occhi, a drizzare le orecchie, ad arricciare il naso come un coniglio, a prendere sempre la via più breve, a non perdere mai di vista le curve delle donne, il profumo del caprifoglio, l’aroma di un cosciotto arrosto o il canto di un rigogolo». tavolini. In un’angolo, sulla superficie di legno che struttura lo spazio, ben illuminato dall’abat-jour con base dorata luccicante che potrebbe trovarsi in un soggiorno di due pensionati appassionati di soap-opera, un grosso quarzo rosa. In tinta con il quarzo rosa, motivo per la scelta del tavolino e che incomincia a tranquillizzarmi molto, sono le tovaglie rosa pallido e soprattutto i centrotavola quadrati di stoffa tipica, rosa minerale, posati a rombo.
Il viaggiatore osserva attentamente senza giudicare perché sa che non dispone mai di tutte le informazioni necessarie; sa che molto gli è nascosto, anche quando molto gli è svelato.
La recente pandemia ha drasticamente ridotto i nostri spazi, spesso limitandoli a una stanza soltanto, dalla quale è stato possibile fuggire solo con l’immaginazione. Ora che siamo tornati a viaggiare, è benvenuta questa lezione su quanto il mondo sia grande, sconosciuto, appassionante; soprattutto sempre diverso dai nostri pensieri e desideri.
La moquette verde marcio per terra è il tocco superdemodé, quasi troppo per me. Herbert, il cameriere che sembra uscito da un film di Fassbinder, è in sintonia pure lui con l’atmosfera ultraretrò: porta un tupè, rossiccio, atroce. Di poche parole, non conosce la provenienza dei minerali rosa sparsi qua e là, accanto ai tavolini – uno enorme lo avvisto ora vicino alle vetrine, accanto alle orchi- dee – in compenso mi porta presto un ottimo espresso doppio e dei deliziosi florentiner. Questi biscotti sottili con fondo di cioccolato, croccante di mandorle, miele, frutti canditi, sono un po’ la specialità del posto, fondato nel 1922 dalla coppia Wilhelm e Genoveva Weber, originari del Baden-Württemberg. Il tea-room, vuoto, dove divoro gli ultimi due (uno con cioccolato al latte e uno fondente) florentiner – che traggono il nome e forma dai fiorini d’oro coniati per la prima volta nel 1252 a Firenze ma nascono nel sud della Germania o in Austria o sull’isola di Grenada – risale al 1942. Era il luogo dove lavorava un orologiaio. Divorare florentiner ad Arosa non può diventare l’unica attività odierna, vado dunque a cercare i quarzi rosa, quattro in tutto, posizionati nei punti focali. «Brasile» mi dice la signora Trudi Weber, moglie cordiale ma non troppo, di Markus
Weber – terza generazione – in azione adesso nel piccolo locale confiserie-bäckerei adiacente, a proposito del paese di origine dei quarzi rosa: forse la vera attrazione. Oltre ai semmeli, le michette croccantissime che vanno a ruba. O gli scoiattoli di cioccolato con ripieno di gianduia che non resisto a provare. Rappresentato nella postura per sgranocchiare una nocciolina, lo scoiattolino di cioccolato, proprio come Bambi divenuto sinonimo di capriolo per via di un libro per bambini, qui lo chiamano Hansi. Herbert porta due torte di carote e una tartelletta al limone al tavolino di uno strano trio con binocoli seri al collo. Mentre i monumentali quarzi rosa brasiliani emanano i benefici della cristalloterapia, stimolando, così sembra, «amore, compassione, gentilezza», trovo la fonte d’ispirazione del parrucchino dell’Herbert: la coda di uno scoiattolo.
Affittano posti-auto privilegiati vicini alle entrate. Tutto ciò in aggiunta, magari, ad altri importi che devolvono alla causa dell’Hockey Club Lugano o dell’Hockey Club Ambrì Piotta. Anche lo sport, in quanto spaccato della società, può vantare il suo ceto medio. Lui pure comodamente seduto in tribuna, ma senza i privilegi e le coccole della precedente categoria. Da ultimo, ma non certo per importanza, ci sono le curve, il pueblo. La Nord a Lugano. La Sud ad Ambrì, anche se il trasloco nel nuovo impianto griffato Mario Botta ha dirottato il tifo più ruspante, quello della GBB, sul versante settentrionale della pista. Lo slogan riassunto nel titolo è quanto di più poetico le due curve abbiano espresso in decenni di vibranti duelli a suon di sfottò e controsfottò. Al pari di quest’altro: «Il Ticino è biancoblù» che fa da contraltare a
«Il Ticino è bianconero». Sono slanci che escludono. Vogliono ribadire: «L’hockey siamo noi, toglietevi di mezzo». Quante volte ho sentito dire dai tifosi che il loro godimento più sublime sarebbe vedere la squadra rivale scivolare in serie B o, se preferite, in Swiss League. Alcuni sostengono che il Lugano senza l’Ambrì non sarebbe il Lugano, e viceversa. Può darsi. Ma sono convinto che sotto sotto sarebbero più che felici di togliersi dai piedi i cugini rivali. In questa tribolata stagione, l’ipotesi retrocessione (che in altre circostanze ha fatto sudare freddo i leventinesi) è stata scongiurata, per entrambe le ticinesi, a due partite dalla fine. Il Lugano, Club sulla carta con credenziali da play off, è stato a lungo sotto la linea dei pre play off. Uscire di scena al termine della Regular Season, o addirittura affrontare lo spareggio salvezza contro l’Ajoie dell’ex guer- riero Julien Vauclair, avrebbe costituito un rischio enorme. L’Ambrì è abituato a correre scalzo nella savana, tra animali feroci, acque limacciose, serpenti velenosi, quindi nel momento del bisogno, si sa adattare all’ambiente e ne sa uscire indenne. Il Lugano invece, tradizionalmente, viaggia su strade, sì trafficate, ma molto meno insidiose. Quindi, per evitare il peggio, i bianconeri hanno pigiato sull’acceleratore per poter continuare a giocarsi una fetta di gloria. L’Ambrì, per contro, è già in ferie. Con somma delusione e tristezza di tutti: dirigenza, staff, giocatori e sostenitori.
Le curve, ne sono convinto, sono benzina super. Ovviamente non hanno prodotto solo poesia. Canti, slogan e striscioni non nascono sempre in punta di penna. Ma è giusto sottolineare che la loro creatività è frutto della fede e dell’amore incondizio- nato nei confronti dei colori e della maglia. Le curve sono onnipresenti. Anche quando le cose non girano per il verso giusto. E se, come è capitato qualche settimana fa a Lugano, per una sera, gli ultrà disertano gli spalti, lo fanno a fin di bene. Per manifestare il loro disappunto e la loro delusione. Non potremo mai affermare con certezza se questi metodi aiutino a reagire. Il Lugano, sia pure non in modo fragoroso, lo ha fatto. L’Ambrì, dal canto suo, quest’anno non è mai stato messo in discussione dalla tifoseria organizzata. Il trionfo alla Spengler ha messo le ali agli ottimisti e ha tarpato quelle dei pessimisti. Quando, dopo una serie di otto sconfitte consecutive, osservo e ascolto la Sud che canta «siamo sempre con voi, non vi lasceremo mai», comprendo il senso della parola «fede» molto più profondamente di quando, da ragazzino, frequentavo il catechismo.