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Nella capitale mondiale della gioventù
L’analisi ◆ Le elezioni nigeriane, la capacità dei giovani di incidere sull’evoluzione politica e la «bomba» demografica africana
Federico Rampini
Oltre 93 milioni di nigeriani si sono iscritti ai registri elettorali per scegliere il loro presidente il 25 febbraio scorso. Di questi, 87 milioni si sono dati la pena di andare a prendere il certificato elettorale necessario per partecipare al voto. Ma dopo tanta fatica, alla fine solo 25 milioni hanno messo una scheda nell’urna. È possibile parlare di un’improvvisa apatia e indifferenza, proprio sul filo del traguardo? Oppure le condizioni in cui è avvenuta l’elezione hanno dissuaso e allontanato molti che desideravano partecipare? La questione è importante. Un africano su cinque è un cittadino della Nigeria. Con 225 milioni di abitanti è la più popolosa Nazione del Continente e la sesta nel mondo.
Per PIL – dopo una revisione statistica nel decennio scorso – ha superato il Sudafrica rubandogli il primato continentale; anche se il Sudafrica è rimasto per ora l’unico membro africano del G20. Da 25 anni la Nigeria ha smesso di essere una dittatura militare ed è diventata una democrazia.
Ma se cresce la disaffezione per la democrazia è un segnale preoccupante per tutta l’Africa.
Da 25 anni la Nigeria ha smesso di essere una dittatura militare ed è diventata una democrazia, o forse non ancora?
«Immaginate di stare pazientemente in fila, nell’attesa di votare, e all’improvviso arrivano uomini in moto, armati, che cominciano a sparare.
Immaginate bande che fanno irruzione nel vostro seggio elettorale, sequestrano le urne con la violenza e le portano via. Immaginate altre urne piene di schede che vengono distrutte. Immaginate di essere picchiati per impedirvi di votare per un certo candidato, mentre la polizia non fa nulla per proteggervi. Tutto questo è accaduto durante l’elezione presidenziale in Nigeria». Chi scrive è una grande romanziera nigeriana i cui libri hanno avuto successo nel mondo intero: Chimamanda Ngozi Adichie. La 45enne Adichie si divide tra il suo Paese natale e gli Stati Uniti dove ha ambientato il romanzo autobiografico Americanah, una satira pungente che rivela tra l’altro il razzismo dei Black locali contro gli immigrati dall’Africa. La romanziera è un’esponente di punta di una nuova élite «afropolitana», a suo agio nel mondo intero.
Uno studioso dell’Africa contemporanea come Ebenezer Obadare –anche lui nigeriano trapiantato negli Stati Uniti – è meno radicale di Adichie nel liquidare il voto del 2023. Riconosce che le operazioni elettorali «non hanno passato il test della purezza», però considera irresponsabili gli appelli ad annullare il risultato. Obadare ha coniato per descrivere il proprio Paese un’immagine forte: cleptocrazia competitiva. I leader devono competere tra loro per conquistarsi il consenso popolare e in questo c’è una caratteristica della democrazia; anche se poi una volta eletti praticano la corruzione su una scala massiccia (ivi compresa l’elargizione di risorse alle proprie constituency etniche, tribali, religiose, che in una certa misura condividono i benefici della cleptocrazia).
Lo studioso Ebenezer Obadare ha coniato un’immagine forte per descrivere la Nigeria: cleptocrazia competitiva
Il voto del 2023 era stato preceduto da attese esagerate, legate all’ascesa di un outsider della politica, Peter Obi, candidato di una formazione minore (partito laburista), con un forte seguito tra i giovani che costituiscono la maggioranza della popolazione. Al-
Redazione Carlo Silini (redattore responsabile) cuni sondaggi davano Obi vincitore; però avvenivano tramite smartphone e come tali sopravvalutavano la rappresentanza giovanile, l’entusiasmo dei «nativi digitali» per il candidato laburista. Le élite «afropolitane» hanno gonfiato il fenomeno Obi e si sono autosuggestionate al punto da dare per certa la sua vittoria. L’adozione di nuove tecnologie per lo spoglio delle schede sembrava offrire garanzie maggiori che nel passato. Alla fine la partecipazione è stata bassa: su una popolazione totale di 220 milioni, e su 87 milioni di iscritti ai registri elettorali, i partecipanti sono stati solo 25 milioni. L’affluenza al voto quindi è stata inferiore a un terzo dell’elettorato potenziale. Ha vinto il candidato dell’establishment, Bola Tinubu, che aveva l’appoggio del presidente uscente Muhammadu Buhari (un ex dittatore militare). Ultrasettantenne af- flitto da una salute precaria, Tinubu è un magnate edile multimilionario il cui slogan elettorale più famoso era «adesso tocca a me», un’allusione al fatto di essere stato per molto tempo nell’anticamera del potere, come uno dei sostenitori più influenti del presidente uscente. Alla fine la sua vittoria – di stretta misura – ha rispettato le logiche tradizionali del voto etnico-religioso; ai primi due posti si sono piazzati candidati musulmani. Obi, cristiano, è arrivato terzo. Quest’ultimo però è riuscito a vincere a Lagos, la città più grande, che avrebbe dovuto essere un feudo elettorale per Tinubu (ex governatore di quella metropoli). La sorpresa Obi c’è stata, però è stata molto inferiore alle aspettative alimentate dalla sua popolarità sui social media o presso le élite «afropolitane».
Questo solleva un interrogativo sulla capacità dei giovani di incidere in modo decisivo sull’evoluzione politica dell’Africa: un problema che in fondo accomuna il Continente nero alle democrazie occidentali, dove spesso all’esuberanza giovanile sui social non corrisponde altrettanta partecipazione politica. I più pessimisti inseriscono questo problema in uno scenario catastrofico sui flussi migratori del futuro: un’Africa con troppi giovani, e dove le nuove generazioni non hanno abbastanza opportunità e non padroneggiano il proprio destino, inevitabilmente esporterà questa popolazione giovanile in Europa. Secondo le proiezioni ONU, da qui al 2050 la Nigeria e altre 27 Nazioni sub-sahariane vedranno la loro popolazione raddoppiare. Nel corso di questo secolo sul pianeta tre neonati
Sostenitori del vincitore delle elezioni presidenziali nigeriane Bola Tinubu (sullo striscione a sinistra) e, in basso, le baraccopoli di Lagos. (Keystone) su quattro vedranno la luce nell’Africa subsahariana. Natalità e urbanizzazione hanno il loro epicentro più rappresentativo a Lagos, la più grande metropoli della Nigeria e dell’intero Continente. Nell’anno dell’indipendenza nazionale, il 1960, Lagos aveva 350mila abitanti cioè l’equivalente di Firenze oggi. A metà degli anni Ottanta superava i cinque milioni. Nel 2012 sorpassava il Cairo come principale città africana e raggiungeva quota 21 milioni, quanto Pechino. Nel 2050 le proiezioni gliene assegnano il doppio. A questa dinamica già eccezionale (non per l’Africa ma per quelle parti del mondo dove avanza la decrescita demografica) la composizione per fasce di età è l’altro aspetto dirompente.
La percentuale degli abitanti di Lagos sotto i 15 anni era il 25% nel 1930, era cresciuta al 40% nell’anno dell’indipendenza, oggi supera il 60%. Un esperto di Africa come Stephen Smith definisce Lagos «la capitale mondiale della gioventù», e ci ricorda che a Londra e Parigi gli abitanti sotto i 15 anni sono appena il 18% e il 15%.
La concentrazione giovanile è ancora più accentuata nei quartieri poveri della città, le shanty town o baraccopoli dove il 95% degli abitanti ha meno di trent’anni. «I giovani vivono in mezzo ad altri giovani – osserva Stephen Smith che ha abitato a lungo a Lagos – reinventando norme e valori su misura. Non è necessariamente Il signore delle mosche (romanzo centrato sulla ferocia dei ragazzi abbandonati su un’isola deserta, ndr.), però non è la regola ideale per educare allo spirito civico».