5 minute read

Il presente come storia

L’e-voto salverà la democrazia?

Situazione alla vigilia del voto del 2 aprile per il rinnovo dell’Esecutivo e del Legislativo: stabilità complessiva, con qualche spostamento di seggi in Gran Consiglio. Variazioni minime, dicono i sondaggi, ma sufficienti per moltiplicare le forze rappresentate (effetto frammentazione). Nella disfida per il Consiglio di Stato, l’unica incognita che si era affacciata riguardava il tentativo di detronizzare il leghista Claudio Zali per opera del democentrista Piero Marchesi. Un duello condotto tutto sull’ala destra dello schieramento politico, con due «fratelli-coltelli» nelle vesti di spadaccini. Ma non pare che l’assalto andrà a buon fine. Per il resto, bonaccia con lievi increspature. A sinistra le schermaglie congressuali non hanno indebolito la candidatura di Marina Carobbio. Centristi (ex PPD) e Liberali hanno accantonato i fieri propo- tare l’evoluzione in corso, indicazioni preziose su quanto potrebbe succedere. Crediamo poi che ogni nuova previsione possa aggiungere qualcosa di più giudizioso allo scenario del futuro anche rispetto all’evoluzione dell’offerta di lavoro.

Lo provano, per esempio, previsioni (effettuate più di recente) sulla consistenza del futuro eccesso di offerta di posti di lavoro. Per esempio quella sul futuro del fabbisogno di lavoratori in Svizzera, presentata qualche settimana fa, dai ricercatori dell’UBS. Stando agli stessi, nel 2030 mancheranno in Svizzera 270mila lavoratori. Ora tenendo conto che la percentuale attuale del Ticino nel totale dell’occupazione nazionale è pari al 4,5%, possiamo stimare che, sempre nel 2030, in Ticino potrebbero mancare circa 12’150 lavoratori. Per arrivare ai 33mila della previsione dei ricercatori della SUPSI bisognerebbe che la quo-

di Angelo Rossi

ta del Ticino nel fabbisogno futuro di manodopera dell’economia nazionale si triplicasse. Possiamo però rifare la stima appoggiandoci questa volta su un’altra previsione della futura carenza di lavoratori in Svizzera: quella di Avenir Suisse. Questo gruppo di ricercatori, vicino al padronato, ha stimato recentemente che nel 2050 all’economia svizzera mancheranno 1,3 milioni di lavoratori.

Possiamo, da questa previsione, dedurre che, tra cinque anni, all’economia ticinese potrebbero mancare circa 9mila lavoratori. Siccome il fabbisogno di nuove leve per il mercato del lavoro ticinese da anni viene assicurato soprattutto dall’aumento del contingente di lavoratori frontalieri possiamo concludere, rifacendoci alle tre previsioni citate, che il contingente di frontalieri potrebbe crescere in una misura che potrebbe variare tra le 9mila e le 30mila unità.

I lettori di «Azione» che vivranno ancora nel 2027 potranno sincerarsi di quanto fondate siano queste previsioni. Ma dovranno anche sopportare, se nel frattempo non intervengono nuove misure di controllo del loro flusso, l’aumento dei costi sociali determinati dal crescere del numero dei frontalieri. Quali potrebbero essere queste misure? Dapprima si potrebbe cercare di aumentare il tasso di attività della popolazione residente, in particolare della componente femminile della stessa.

Il ventaglio delle misure che possono aiutare a conseguire questo obiettivo è molto largo. Si potrebbe poi anche tentare di introdurre misure che attraggano giovani famiglie da fuori Cantone (se lo si propone a una regione sviluppata come Basilea perché non si dovrebbe poterlo fare in Ticino?). L’imperativo è però uno solo: non perdiamo più tempo!

re di una delle Regioni più ricche e meglio amministrate d’Italia, l’Emilia-Romagna, appariva senz’altro un avversario più solido per Giorgia Meloni rispetto alla giovane Schlein. Eppure Bonaccini è stato percepito come un esponente della vecchia guardia, di una storia ormai finita. Ed è prevalsa l’idea di contrapporre alla prima donna presidente del Consiglio, Meloni, espressione della destra, un’altra donna, altrettanto radicale sul versante opposto e ancora più giovane. Gli esperti di politica hanno sentenziato che la vittoria di Schlein potrebbe essere una grande opportunità per Matteo Renzi e Carlo Calenda, i capi del partito liberaldemocratico che nascerà dalla fusione tra Italia Viva e Azione. E in effetti il PD si sposterà a sinistra e aprirà senz’altro uno spazio al centro. Però Schlein è attrezzata per mobilitare i neolaureati, i milioni di italiani che disertano le urne. Non a caso l’ex presidente del Consiglio

Giuseppe Conte, leader dei Cinque Stelle, è apparso preoccupato dall’irrompere sulla scena di una donna che potrebbe sottrargli consensi, compresi quelli populisti e antisistema. La svolta alle primarie del PD è venuta dalle città e rispecchia il cambiamento sociale della sinistra italiana. Il PD non è più il partito delle cooperative e degli artigiani rossi. È un partito di borghesia intellettuale, attento ai diritti civili, forte soprattutto nelle grandi città. Molte delle cose che Schlein sostiene, a cominciare dall’urgenza di lottare contro il cambiamento climatico, porre un freno alla crescita delle disuguaglianze, far pagare le tasse alle multinazionali e ai padroni della Rete, sono giuste. Ma Schlein porta con sé anche una carica ideologica, fatta di politicamente corretto, di cultura della cancellazione del passato, di linguaggio perbenista, che non convince l’italiano medio. Anche per questo la nuova segretaria sembra sì adatta a rianimare il PD, a riportare alle urne i delusi della sinistra, insomma a costruire una buona affermazione del PD alle Europee del prossimo anno, quando si voterà con il proporzionale puro e conterà molto il voto d’opinione, ma sembra meno adatta a costruire una coalizione in grado di battere il Centrodestra alle prossime elezioni politiche. Molto dipenderà dalla reazione di Meloni. Che sembra disposta ad accettare il confronto, convinta che al dunque l’orientamento moderato, se non conservatore, degli italiani la premierà. Il battesimo del fuoco di Schlein è stata la manifestazione di sabato 4 marzo a Firenze contro il ritorno del fascismo. Ma la maggioranza degli italiani appare più preoccupata dalle violenze degli anarchici, che nello stesso giorno hanno causato disordini a Torino in nome del loro leader Alfredo Cospito, detenuto in carcere nelle stesse dure condizioni riservate ai mafiosi. siti di riconquistare i seggi perduti: i primi nel lontano 1995, i secondi nel 2011. Nessuna rivincita dunque, va bene così, accontentiamoci, sarà per un’altra volta. Allora la domanda è: se tutti i sondaggisti ci dicono che tutto o quasi sarà come prima, perché dovremmo assumerci l’incomodo di compilare una scheda? Posta la questione in questi termini, si potrebbe già decretare la morte della democrazia: una sorta di diserzione collettiva dal consorzio politico per mancanza assoluta di interesse e di fiducia. Per fortuna non tutto è prevedibile, il fattore sorpresa ancora esiste nonostante metodi d’indagine sempre più raffinati e precisi. Dunque l’appello a votare va ribadito con forza se vogliamo mantenere vivo e operativo il nostro ordinamento repubblicano.

Il crescente astensionismo però preoc- cupa, e non solo nel nostro piccolo Ticino. Durante le recenti Amministrative italiane in Lombardia e Lazio si è ingrossato fino a diventare valanga. Solo una minoranza si è recata alle urne. Il Ticino finora, alle politiche, ha sempre registrato una discreta partecipazione, superiore alla metà dell’elettorato. Tuttavia con oscillazioni che bisognerà tenere sotto stretta osservazione. Nel 2003 i refrattari al voto erano il 40,6%, nel 2015 erano calati al 37,8 per effetto dell’introduzione del voto per corrispondenza; ma nel 2019 sono nuovamente risaliti al 40,7. Nel corso degli anni sono stati numerosi i provvedimenti per iniettare «sangue fresco» nel corpo elettorale e agevolare l’espressione del voto, prima abbassando l’età a diciott’anni (1991) e poi generalizzando il voto per corrispondenza. Ora si vorrebbe compiere un passo ulteriore, ossia concedere questo dirit- to ai sedicenni. Misura utile, antidoto efficace al disinteresse? Le indagini fin qui condotte non lasciano intravedere scenari ottimistici. L’entusiasmo per l’attività politica nei cittadini giovanissimi non è uniforme e in ogni caso si spegne quasi subito nell’impatto con le istituzioni e i partiti con le loro gerarchie. Anche con i diciottenni, è dimostrato, la disaffezione prevale dopo una breve euforia. Dunque siamo in presenza di palliativi, che poco incidono sulle dinamiche del voto, le cui redini rimangono tuttora saldamente nelle mani delle fasce di età avanzate.

Ci sono alternative per ri-tonificare lo spirito civico? Da tempo la riflessione ruota intorno al voto elettronico, per ora sperimentato solo in laboratorio (ma in Estonia è già effettivo dal 2007). Dopo tutto, affermano i fautori, è questione di un attimo passare dal voto per corrispondenza al voto online: basta disporre di un computer in Rete e di una tessera che permetta di certificare l’identità del votante. D’altronde, si aggiunge, già oggi rispondiamo a sondaggi di tutti i tipi attraverso un semplice clic: per quale ragione la politica dovrebbe rappresentare un’eccezione?

L’approdo al porto digitale prima o poi avverrà. Ma non nascondiamoci le insidie. Una di queste è data dalla crescente banalizzazione dell’atto civico, che diverrebbe meccanico e istintivo, come di fronte alla scelta di un detersivo. La fase della documentazione e del confronto dialettico con le ragioni dell’altro cederebbe inevitabilmente il posto agli umori del momento, veloci e irriflessi. Non illudiamoci che la democrazia istantanea dell’avvenire sarà migliore di quella lenta e macchinosa che abbiamo conosciuto finora.

This article is from: