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Le nuove povertà
naco (unico prestito museale in mostra!). I dipinti, invece, sono poco più di una decina e quasi tutti di piccolo o medio formato. A questo si aggiunge una generale trasandatezza dell’allestimento – dall’accrochage approssimativo e caotico, alla qualità delle cornici e dell’infografica – ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, di un progetto espositivo che oltre a non aggiungere nulla alla conoscenza dell’opera di Warhol si limita a sfruttarne il grande valore iconico per attrarre visitatori. Per commentare tutta l’operazione verrebbe allora voglia di lasciare la parola allo stesso Bonito Oliva, riprendendo un passaggio della recensione della mostra alla Triennale da lui scritta nel 2004 per «Repubblica». Un frammento di testo che, ovviamente, non è stato ripreso nel patchwork di scritti dello stesso Bonito Oliva, copiati, mischiati e incollati fra di loro per comporre il saggio in catalogo, in cui, tra l’altro, intere frasi compaiono più volte in punti diversi del testo (svista madornale dell’autore e editing distratto o raffinato omaggio alla ri- petizione warholiana?). Le riflessioni di Bonito Oliva nel 2004 in ogni caso erano queste: «Il gran magazzino espositivo segnala l’iperconsumo di Warhol come icona, fino alla presentazione feticistica del suo scalpo (una delle parrucche). Questo ci consente un lamento, parafrasando Goya: il sonno della ragione genera mostre!»
Che dire? Aggirandoci nelle sale della Fabbrica del Vapore ci viene da pensare che nel frattempo si deve essere appisolato anche Bonito Oliva. A meno che questa mostra e quelle che l’hanno preceduta non si collochino all’interno di un raffinato gioco fondato sulla ripetizione, meccanismo visivo e principio ontologico con il quale Warhol ha rivoluzionato la nozione stessa di arte secondo il filosofo americano Arthur C. Danto. Lo stesso Warhol, a proposito della sua prassi artistica, ha affermato: «Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine. Penso che tutti dovrebbero amarsi. La Pop Art è amare le cose. Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina». Ma se Warhol voleva improntare la sua prassi artistica e la sua vita alla ripetitività delle macchine, la realtà del nostro tempo ci confronta con un fenomeno diametralmente opposto. Sono infatti le macchine, attraverso il costante sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale, ad assumere e replicare comportamenti, riflessioni e atteggiamenti umani. Speriamo allora che in futuro non ci toccherà vedere alla Fabbrica del Vapore una mostra di opere ispirate a Warhol realizzate da un sistema d’intelligenza artificiale come Dall-e o Midjourney. Se non altro in quel caso gli organizzatori non avrebbero più la necessità di dover arruolare un critico affermato per giustificare l’operazione, gli basterebbe affidare la stesura del saggio in catalogo a ChatGPT.
Dove e quando Andy Warhol. La pubblicità della forma, Fabbrica del Vapore, Milano. Fino al 10 aprile. Lu-ve 9.30-19.30; sa-do 9.30-20.30. www.fabbricadelvapore.org
Feuilleton ◆ Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili quelle precedenti
Lidia Ravera
A Betta era sempre sembrato un indirizzo sinistro, nel cuore antico della città, in un quartiere diventato «caratteristico» sul sangue versato.
Ci voleva la pelle di pachiderma dei suoi suoceri, per godersi un attico con terrazza, vista sinagoga.
Ma naturalmente lei non poteva avanzare la minima critica alla famiglia Sandrucci.
Soltanto lui, il figlio adorato, poteva sputare sul presepe.
Tutte le volte che arrivavano fino alla soglia del palazzetto Tom la fermava e le rifilava un paio di istruzioni.
Quello che poteva e non poteva dire.
Per non ferire, per non urtare, per non farsi giudicare sciocca, considerato che «sciocche» secondo Candido e Esther, erano tutte le persone che non «pensavano prima di parlare».
O pensavano banale.
Betta era abituata a quella nervosa introduzione alle serate dai suoceri.
«Sara avrà sicuramente detto ai nonni dei soldi, di te e lei al ristorante eccetera eccetera», disse Tom, «Quindi inventati un lavoro per cui sei stata pagata. Se non approfondiscono limitati a ratificare».
Betta annuì.
«Quali altre palle devo ratificare».
«Niente palle. Ho detto che non stai bene. È la verità»
«Neppure tu stai bene»
Tom la guardò, in silenzio, con intenzione.
I capelli sciolti, la bocca carnosa, le sopracciglia spesse sopra quegli occhi grandi che cambiavano colore con la luce e sempre sembravano specchiare un bosco, nelle varie ore del giorno, gialli, verdi, grigi come le foglie degli ulivi, castani come la terra. Neri di notte.
«Sanno anche questo. Hai fame?»
«No».
«Cerca di mangiare lo stesso, Esther si offende se non mangi».
L’appartamento dei genitori di Tom era surriscaldato e allegro, di una eleganza ostinatamente giovanile: niente era pesante o troppo ornato, quadri di valore (Mafai, Capogrossi, Raphael) occupavano i pochi spazi lasciati scoperti dalle librerie, poltrone di pelle fronteggiavano divani coperti di raso scolorito e segnato dalle unghie dell’ultimo gatto di casa, morto da poco.
Il saxofono di John Coltrane costituiva l’inevitabile sottofondo sonoro.
Erano una famiglia che amava la musica, e ci tenevano a ricordarlo a tutti gli ospiti.
Coltrane doveva comunicare la generosa accettazione di un eventuale disordine emotivo. In una serata normale avrebbero scelto qualcosa di Bach.
Betta si lasciò abbracciare prima da Esther, con una stretta significativa e poi da Candido, che stava già parlando.
Sara arrivò per ultima e scrutò i suoi genitori con manifesta curiosità. Come sempre quando le due gene- razioni si fronteggiavano sul territorio dei più anziani, tutti si impegnarono in una finzione di felicità più o meno convincente.
Era come se dovessero fare punto ciascuno per la propria squadra.
Tom baciò più volte Betta sui capelli. Betta intavolò con sua figlia brevi conversazioni in codice da cui doveva risultare evidente l’estrema confidenza che le legava, a dispetto dei clichés sull’età ingrata. La confidenza di una adolescente è come il sorriso della neonata: ti assolve da ogni sospetto di adulta disattenzione. Esther seguiva con benevolenza l’esibizione dei figli. Con questa parola li accomunava tutti: i figli. Tutti quegli esseri umani non ancora portati a termine a cui la legava un affetto invidioso.
Lei, lei Esther, non si faceva certo incantare dall’allegria irresponsabile che la generazione dopo la sua ostentava.
Non le sembrava, non le era mai sembrato davvero felice, Tom. Quanto alla bella Betta, il suo profilo perfetto pareva cesellato dall’inquietudine. Non il tipo di sentimento che ti abilita ad una maternità placida e soddisfatta.
Del resto: non era stato così anche per lei? Era rimasta incinta per sbaglio e aveva deciso di tenersi il bambino per curiosità.
Betta l’aveva voluta, Sara?
Nessuno aveva osato chiederlo.
Certo lei, lei Esther, non aveva considerato la nascita di Sara, la sua prima e probabilmente ultima nipotina, un miracolo davanti a cui inginocchiarsi. Si trattava soltanto del migliore fra gli effetti collaterali di quella che le era sempre sembrata una vera e propria disgrazia: l’uscita di Tom dall’infanzia e poi dall’adolescenza verso un territorio difficile da controllare, l’età adulta.
I figli nascono crescono e, a loro volta, figliano. (33 – Continua)