Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio L’isolamento forzato ci fa sognare la vita all’aperto nelle nostre capanne alpine e c’è chi da tempo porta avanti progetti di ristrutturazione
Ambiente e Benessere Si è scoperto che specifici ceppi di probiotici possono influenzare il tono dell’umore e modificare il cervello sociale
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 23 marzo 2020
Azione 13 Politica e Economia La pandemia ci fa riscoprire il concetto di nazioni che non parlano europeo
Cultura e Spettacoli Cosa fare in tempi di Coronavirus? Musei e istituzioni si stanno organizzando
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di Marconi, Rocca, Zafesova, Cazzullo pagine 31-35
Keystone
Il nemico invisibile
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Andrà tutto bene (se restiamo in casa) di Peter Schiesser Ora è davvero giunta l’ora delle grandi decisioni e di un enorme sforzo di solidarietà collettiva in tutta la Svizzera. Lo stato di necessità è dichiarato, quel che poteva essere chiuso al di fuori dei negozi che garantiscono beni di prima necessità è stato chiuso, lasciando in funzione quanto basta per non far collassare l’economia dell’intero paese, potenziando al massimo le risorse per il sistema sanitario. Adesso tocca alla popolazione, al singolo cittadino compiere l’essenziale sforzo di auto-isolarsi il più possibile, per spezzare la crescita esponenziale dei contagi, dei ricoveri, delle vittime. Se vogliamo evitare di vedere a casa nostra le scene che due mesi fa provenivano da Wuhan e quelle che in questi giorni giungono da Bergamo, dove trasportano altrove con convogli militari le salme di chi è deceduto per il coronavirus perché i forni crematori hanno esaurito le capacità, è il momento di seguire l’appello a evitare il più possibile i contatti sociali, a mantenere le distanze, a lavare e disinfettare le mani, ad auto-isolarsi, insomma. Se non lo fa l’intera Svizzera, si potrebbe arrivare a limitazioni ancora più severe delle
nostre libertà individuali, oltre a lasciar libero corso ai contagi. Il Ticino è in prima linea nella lotta al coronavirus, siamo il laboratorio della Svizzera, le autorità federali stanno imparando molto dall’esempio ticinese, dopo che all’inizio sono parse un po’ tentennanti. Siamo anche il cantone con il maggior numero di casi e di decessi, essendo a fianco della Lombardia. Rispetto ai cantoni d’Oltralpe viviamo con una settimana d’anticipo l’evoluzione del contagio; lo sappiamo e abbiamo cominciato a comportarci di conseguenza da quando è stata dichiarata la chiusura dapprima parziale delle scuole, seguita in un accavallarsi di decisioni drammatiche dalla chiusura definitiva di tutte le scuole, di bar e ristoranti e di tutto il resto. Mentre noi cominciavamo a rintanarci in casa, Oltralpe invece continuavano a frequentare bar, ristoranti e luoghi pubblici. Non è facile prendere le decisioni giuste in una situazione che muta così velocemente: quanto accade ogni giorno ci appare inverosimile e ogni decisione presa l’indomani rischia di essere già tardiva. Vale per noi come individui, che dobbiamo apprendere a riscoprire altri modi di sentirci vicini alle persone care e amiche (come anche ai
colleghi di lavoro), e vale per le autorità, confrontate con la necessità di decisioni drastiche. In situazioni tali possono nascere momenti di tensione, com’è stato il caso quando le autorità cantonali avevano deciso inizialmente solo una parziale chiusura delle scuole. L’insubordinazione di comuni come Lugano e Locarno (e altri) che contrastavano le decisioni cantonali è stato un momento delicato: l’autorità cantonale subiva un duro colpo, poteva aprirsi una crisi di credibilità istituzionale. L’annuncio due giorni dopo della chiusura totale delle scuole sommata all’invito alle aziende di lasciare a casa il personale, affinché i genitori possano occuparsi dei figli, senza doverli lasciare in accudimento ai nonni, ha restituito al governo cantonale l’autorità e l’autorevolezza che aveva rischiato di perdere. Ed è bene così: adesso che le decisioni fondamentali sono prese (e speriamo che non ne arrivino di ancora più severe), il paese deve mantenere una coesione di fondo. E una fiducia, forse non cieca, ma comunque fondata, considerato che le autorità, cantonali e federali, stanno lavorando seriamente, con grande energia e dispendio di mezzi, se pensiamo anche alle decine di miliardi che verranno messi a disposizione dell’economia e della popolazione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Attualità Migros
Cambiamenti al vertice
Nomine Il Consiglio di Fondazione della Fondazione Gottlieb e Adele Duttweiler ha
un nuovo presidente nella persona di David Bosshart: raccoglie il testimone da Peter Birrer
Peter Birrer, 77 anni, Presidente del Consiglio di Fondazione della Fondazione Gottlieb e Adele Duttweiler, rimetterà il suo mandato dal 1. aprile 2020, per entrare al beneficio di una meritata pensione. Birrer è diventato membro del Consiglio di Fondazione nel 2005 e ne è stato al vertice per otto anni. Come suo successore, il Consiglio di Fondazione ha scelto il 61enne David Bosshart.
A Peter Birrer è da sempre riconosciuto uno stile di conduzione dinamico e attento ai valori umani; David Bosshart ha diretto per 21 anni il GDI Peter Birrer ha iniziato la sua attività nella Comunità Migros nel 1968. Dal 1971 ha ricoperto vari incarichi nella Cooperativa di Lucerna e nel 1992 è stato nominato suo direttore. «Un manager di Migros deve essere un uomo che lavora al fronte» è una sua frase spesso citata. Fin dall’inizio, è stata infatti una precisa preoccupazione di Birrer quella di curare e valorizzare nel modo migliore i contatti personali con i collaboratori e con i clienti. Quando, cinque anni più tardi, fu chiamato a ricoprire il ruolo di responsabile della Cooperativa di Zurigo, il suo dinamico stile di conduzione gli è stato nuovamente riconosciuto. «Rinnoviamo e modernizziamo, per essere al passo con le crescenti richieste della clientela» dichiarò allora al settimanale Migros «Brückenbauer». Il suo grande impegno, la sua dirittura, la sua proverbiale modestia,
lo hanno fatto conoscere e apprezzare ben oltre la sfera di Migros Zurigo. Dopo essere entrato a beneficio della pensione nel 2004, Peter Birrer è stato eletto nel Consiglio di Fondazione della Fondazione Gottlieb e AdeleDuttweiler, di cui ha raccolto la presidenza nel 2012 dalle mani di Jules Kyburz. La Fondazione è stata creata nel 1950 da Gottlieb Duttweiler e può essere considerata come la garante dell’eredità di pensiero del fondatore di Migros per tutta la comunità Migros. Peter Birrer, che tra l’altro ha avuto modo di conoscere personalmente Adele Duttweiler e che è in profonda sintonia con l’eredità intellettuale del fondatore di Migros, si augurava già alcuni anni fa che Migros fosse pronta ad mettere in opera i necessari cambiamenti affinché il proprio, unico patrimonio di idee potesse essere aperto alle necessità del futuro. «Solo così potrà rimanere esattamente quello che è sempre stata» ha affermato. La decisione di entrare in meritata quiescenza dal 1. aprile, all’età di 77 anni, è stata presa autonomamente. Per ciò che riguarda il suo successore, David Bosshart ha diretto per 21 anni il Gottlieb Duttweiler Institut (GDI) di Rüschlikon. In merito alla sua nomina commenta in questo modo: «Sono straordinariamente contento della nuova sfida che mi viene prospettata, e ringrazio Peter Birrer e il Consiglio di Fondazione per la fiducia che mi accordano». Bosshart manterrà la guida operativa del GDI fino alla fine del 2020 e in seguito rimarrà a disposizione nel ruolo di consulente e di referente. Nel corso dell’anno saranno fornite ulteriori informazioni a proposito della scelta del suo successore alla guida del GDI.
Hotelplan annulla viaggi fino al 19.4.20 Covid-19 Verranno
cancellati o riprenotati per altra data, senza penali
Sulla base di condizioni e situazioni in continua evoluzione, la Direzione del Gruppo Hotelplan ha deciso il 17 marzo di sospendere la propria programmazione in Svizzera fino al 19 aprile 2020. Di conseguenza, tutti i pacchetti di viaggio già prenotati fino a tale data verranno annullati o ri-prenotati per altra data di partenza senza penali. Questa decisione verrà applicata anche per prenotazioni di appartamenti o case di vacanza già effettuate con Interhome e Interchalet, in tutto il mondo. Per le singole prestazioni di viaggio valgono le Condizioni Generali di Annullamento e di cambio di prenotazione dei rispettivi fornitori di servizio. Ad esempio, per le prenotazioni di solo-volo, valgono le condizioni applicate dalla rispettiva compagnia aerea. «A causa della situazione venutasi a creare in tutto il mondo, abbiamo preso quella che riteniamo la decisione migliore a tutela degli interessi dei nostri clienti, scegliendo di condurre in prima persona le trattative con i nostri fornitori per i risarcimenti. Lo stiamo facendo, malgrado non sia stata ancora emanata alcuna direttiva che contribuisca a far chiarezza, in una situazione piuttosto confusa, per i nostri clienti», spiega Thomas Stirnimann, CEO di Hotelplan Group.
David Bosshart. (Keystone)
Peter Birrer. (MGB)
Cartellone culturale sotto osservazione
Eventi A causa del Coronavirus molte manifestazioni, tra cui quelle sostenute dal Percento culturale
di Migros Ticino, vengono annullate o posticipate Uno degli effetti più concreti e anche inevitabili dell’epidemia attualmente in corso è il divieto che le autorità hanno diramato per le manifestazioni pubbliche. In questo modo molti degli eventi previsti durante la stagione culturale primaverile ticinese sono stati rinviati a un momento più propizio, se non addirittura del tutto annullati. In particolare, tra gli appuntamenti sostenuti dal Percento culturale di Migros Ticino va segnalata la definitiva cancellazione delle serate previste dalla rassegna locarnese di musica antica «I Concerti delle Camelie», di cui avevamo tra l’altro messo in palio alcuni biglietti per i nostri lettori. Spostato al 31 di ottobre invece il concerto del gruppo grigionese 77 Bombay Street, programmato allo spazio Foce di Lugano. Particolarmente toccata dalla situazione di emergenza è la stagione culturale dei principali teatri del nostro cantone. Il Centro culturale di Chiasso ha comunicato negli scorsi giorni di aver annullato la stagione di
spettacoli, con l’intenzione di riproporli nel cartellone del prossimo anno. Del tutto annullata ad esempio la collaborazione con il festival svizzero della danza STEPS, organizzato con il sostegno del Percento Culturale Migros. Gli organizzatori della rassegna hanno annunciato nei giorni scorsi l’annullamento completo dell’edizione 2020. Non avrà quindi luogo lo spettacolo Paisatges (foto) della compagnia spagnola It Dansa, previsto a Chiasso il 2 maggio. La situazione è del resto critica a vari livelli e colpisce la scena artistica nazionale. Nel nostro cantone ha destato sicuramente scalpore la notizia dell’annullamento di un appuntamento importante come quello di Estival Lugano, rassegna che proprio quest’anno avrebbe dovuto inaugurare una nuova fisionomia nella sua proposta artistica. Per ora sembrano confermati invece il festival JazzAscona, che dovrebbe tenersi dal 25 giugno al 4 luglio 2020, anch’esso giunto a un
Azione
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Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
momento di svolta nella sua programmazione, con una nuova direzione artistica e un nuovo concetto globale per la sua immagine.
In forse è anche la prosecuzione dei concerti della rassegna promossa da Rete Due Rsi «Tra jazz e nuove musiche»: la speranza degli organizzatori
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è di poter confermare le date di mercoledì 22 aprile 2020, ore 21:00 allo Studio 2 di Lugano Besso (r.ed meets Nils Petter Molvaer) e quello di lunedì 11 maggio 2020, ore 20:30 al Teatro del Gatto di Ascona con Cyrille Aimée. Annullati anche tutti i concerti dell’Orchestra della Svizzera italiana fino a fine aprile. Si tratta del concerto del 26 marzo al LAC di Lugano con la celebre violinista Julia Fischer, dell’atteso appuntamento del Venerdì Santo alla Collegiata di Bellinzona, venerdì 10 aprile, e del concerto al LAC del 23 aprile col famoso direttore d’orchestra Daniele Gatti. Infine, ricordiamo che anche la Scuola Club di Migros Ticino ha deciso la chiusura di tutti i corsi in programma nelle sue sedi cantonali. Il provvedimento è esteso fino a nuovo avviso. La speranza è che le misure per ridurre il contagio possano presto dimostrarsi efficaci e che l’estate culturale ticinese possa ritrovare la sua normalità./Red. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Società e Territorio Al volante in sicurezza Riflettere serenamente sulla propria idoneità alla guida è un dovere per tutti, soprattutto nella terza età: il TCS propone degli aiuti mirati pagina 5
Diventare buoni ascoltatori Nel suo ultimo saggio la giornalista americana Kate Murphy spiega come la capacità di ascolto sia fondamentale in ogni relazione personale, professionale e politica
Videogiochi Sono arrivate le nuove avventure di Ori, il videogame di Moon Studios miscela sapientemente arte, musica e meccaniche di gioco
Terme di Acquarossa Un nuovo progetto che vuol far rivivere le sorgenti benefiche propone una struttura a misura di valle
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Capanne alpine da vivere
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La Capanna Gambarögn è l’edificio di una vecchia caserma costruita in una posizione magnifica.
Montagne Gambarogno e Camorino: due progetti di ristrutturazione in cui pubblico e privato collaborano
Nicola Mazzi Mai come in questo periodo di clausura forzata si pensa all’estate e alla vita all’aperto. C’è un grande desiderio di vivere e di far vivere le nostre montagne. Un desiderio nato non solo negli ultimi giorni ma che qualcuno coltiva già da tempo. Lo si percepisce dalle ristrutturazioni in atto in diverse capanne alpine. Negli anni scorsi anni molti interventi hanno ridato vita a strutture come quella del Cognóra e quella del Monte Bar, per non fare che due esempi recenti. Altre sono in fase di ammodernamento. Abbiamo voluto concentrarci su un paio di esse: la Capanna Gambarögn e la Capanna Cremorasco, sopra Camorino. Due strutture in cui il pubblico e il privato collaborano per ridare linfa al settore. Manolo Piazza è il presidente dell’associazione Amis dala Capanna Gambarögn. «Lo scopo di questo progetto – ci dice – è di trasformare la struttura esistente, che un tempo era una vecchia caserma, in un nuovo edificio che si apre sul territorio e sul futuro senza dimenticare la testimonianza del lavoro e della fatica di un passato neanche tanto lontano». Entrando nel dettaglio dell’opera, Piazza evidenzia
che «da un lato è previsto il recupero delle parti in legno che definiscono gli spazi interni per ricavarne il dormitorio, valorizzando il lavoro di falegnameria a testimonianza della lunga permanenza degli uomini durante la guerra. Lo spazio restante è convertito in un grande locale con un camino che garantisce il piacere di ritrovarsi anche nei periodi freddi dell’anno. Questo spazio si aprirà tramite due grandi finestre a vetro fisso: una verso la bellissima vista a nord e l’altra verso il sole a sud». L’idea è di creare un edificio (che si trova a 1734 m/slm e può contare su 19 posti letto) al passo con i tempi e in particolare sostenibile dal punto di vista energetico. In questo senso «poseremo sul tetto un impianto fotovoltaico. Inoltre i due attuali serbatoi che raccolgono l’acqua del tetto saranno recuperati e risanati per ricevere le acque piovane (è utile ricordare che oggi la struttura non dispone né di acqua né di elettricità). Infine è prevista una pompa per far salire l’acqua di sorgente fino alla capanna». Come aggiunge lo stesso Piazza, il progetto è anche volto a creare 1-2 posti di lavoro per i custodi in modo da far vivere la capanna buona parte dell’anno. La regione è molto battuta e manca
una struttura di un certo tipo capace di ospitare gli escursionisti. «Poco dopo lo scorso Natale e quindi con la neve abbiamo contato una trentina di persone che sono arrivate in vetta con le racchette e se ci fosse stata una persona per accoglierle e offrire un piatto caldo e un rifugio per la notte sarebbe stato un bel servizio. Ed è quello che intendiamo offrire». Il budget necessario per i lavori è di 1,16 milioni di franchi e per ora sono stati raccolti 200mila franchi dal Comune e altri 200mila di lavori propri. «Siamo alla ricerca di altre fonti di sostegno come possono essere alcune fondazioni o la piattaforma online di crowdfunding: progettiamo.ch». Il desiderio dell’associazione è quello di far rivivere la regione: la capanna sarà a disposizione della popolazione del Gambarogno e dei turisti che vogliono scoprire un bellissimo luogo del Ticino. «Per completare l’offerta si sta studiando a un percorso dedicato alle mountain bike che sale dall’alpe di Neggia e arriva alla capanna cosicché, anche per gli sportivi, la capanna può diventare un punto di arrivo e di partenza molto interessante». Non mancano neppure le idee da sviluppare una volta inaugurata la struttura. «Voglia-
mo farla vivere con feste, eventi e magari organizzando dei raduni di aquiloni. Sicuramente, vista la presenza di un’ampia sala, è ideale da affittare a una scolaresca o un’azienda che vuole organizzare un meeting». L’obiettivo è riuscire a raccogliere i fondi mancanti in questi mesi per poi iniziare i lavori, mentre la speranza è quella di inaugurare la nuova struttura il prossimo anno. La Capanna Cremorasco, situata a 1095 m s.l.m., in territorio di Camorino, è un secondo esempio della vitalità del settore. In questo caso è il giovane patriziato, capitanato da Pietro Ghisletta, che sta portando avanti il progetto partito un paio di anni fa. «La capanna era già stata ristrutturata nel 1996, ma con gli standard di allora. Oggi è necessario mettere mano al tetto, al bagno, alla cucina, alle camere e ai locali magazzino. Inoltre vogliamo sistemare il prato e la zona boschiva: infatti l’avanzamento delle piante non permette più di scorgere la capanna e pian piano il prato sta scomparendo. Vogliamo anche posare tavoli e panche per il picnic. Oltre agli aspetti estetici c’è il rischio che uno degli abeti crolli sulla capanna e crei dei grossi danni e quindi bisogna tagliarli».
Il preventivo dei lavori è di circa 230mila franchi per la capanna e una parte della sistemazione esterna. L’altra parte, che riguarda i sentieri e il verde pubblico, è finanziato insieme a un altro progetto dal Comune. A dicembre è stato votato il credito dall’assemblea patriziale e ora si stanno finalizzando le varie procedure con il Cantone e gli enti che sussidiano il progetto. Anche il patriziato contribuirà secondo le proprie possibilità e si spera di iniziare i lavori questa estate. Perché, come aggiunge lo stesso Ghisletta, «siamo un patriziato giovane e desideroso di darsi da fare per riqualificare il territorio di Camorino e questo è uno dei progetti a cui teniamo». La capanna, facilmente raggiungibile sia da Isone sia da Camorino, ha dieci posti letto e una ventina dove poter mangiare. Ed è un osservatorio privilegiato in quanto la vista spazia dal Monastero di Claro alle isole di Brissago. Anche in questo caso la possibilità per i privati cittadini di contribuire alla realizzazione della capanna è data grazie alla piattaforma progettiamo. ch. «È un canale che funziona e qualche finanziamento lo abbiamo già ricevuto, anche se ovviamente le cifre più ingenti arrivano in altro modo», conclude il presidente del patriziato.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Idee e acquisti per la settimana
La Mozzarella Nostrana
Novità Gusto delicato e genuinità a km zero caratterizzano questo nuovo prodotto
artigianale dei Nostrani del Ticino
Mozzarella Nostrana 125 g Fr. 2.30
Da questa settimana il Caseificio Ticino di Rivera rifornisce tutti i supermercati Migros del Cantone con la Mozzarella Nostrana. Abbiamo incontrato Alessandro Serra, il responsabile della produzione di questa dinamica azienda, attiva nella trasformazione del latte ticinese. Signor Serra, quando e come nasce il Caseificio Ticino SA?
Tresol Group/Däwis Pulga
L’azienda nasce nel 2016 su iniziativa dell’imprenditore Roberto Matarrese, con l’obiettivo di proporre ai consumatori locali specialità casearie artigianali nel rispetto della tradizione del Sud Italia e del territorio ticinese. Il latte utilizzato per tutti i prodotti proviene rigorosamente da mucche allevate in Ticino nel rispetto delle loro esigenze. La nostra produzione spazia dalle formaggelle ai formaggini ticinesi, dalla ricotta ai prodotti tipici dell’Italia meridionale quali burrata, mozzarella, stracciatella…
Quali sono le fasi di produzione della mozzarella?
Appena giunto nel nostro caseificio, il latte nostrano viene rigorosamente controllato per verificarne la qualità e quindi pastorizzato, procedimento che permette di rendere il latte batteriologicamente sicuro. A questo punto inizia la vera e propria produzione, che prevede la cagliatura, la rottura della cagliata, la filatura e la mozzatura, delicata operazione che
permette di dare forma al prodotto «mozzando» la pasta con le mani (da qui il nome mozzarella). Infine il prodotto viene confezionato e fornito alla Migros in tempi brevi.
A cosa bisogna prestare particolarmente attenzione al fine di ottenere un prodotto di qualità?
Innanzitutto alla qualità della mate-
ria prima, il latte a km zero, che deve essere ineccepibile; quindi ai tempi di lavorazione, che deve essere il più breve possibile tra raccolta del latte e trasformazione del medesimo.
Perché la clientela Migros dovrebbe acquistare la vostra mozzarella?
Perché è fatta artigianalmente con
Il piacere della colomba per tutti
Attualità Il tradizionale dolce pasquale nella variante per intolleranti
latte dalle qualità organolettiche eccezionali, perché è prodotta da casari con una lunga esperienza nel settore, perché l’impatto ambientale legato ai trasporti è sostanzialmente minore e, non da ultimo, perché acquistandola si sostiene l’economia locale.
Come si apprezza al meglio il prodotto?
Consiglio di togliere la mozzarella dal frigo almeno mezz’ora prima del consumo, in questo modo i preziosi grassi hanno modo sciogliersi. Data la sua versatilità, è una specialità che può essere consumata nei modi più disparati e fantasiosi, sia da sola che abbinata a molti altri ingredienti della tradizione mediterranea.
Dolcetti irresistibili Attualità Le tortine di pasqua non possono
mancare sulla tavola primaverile
al lattosio
La Colomba Senza Lattosio Maina 750 g Fr. 9.90
Tortine di Pasqua 150 g Fr. 2.60
Grazie alla Colomba Senza Lattosio Maina anche le persone più sensibili a questa sostanza contenuta in diversi alimenti possono gustare le appetitose dolcezze tipiche del periodo pasquale. Per non incorrere in disturbi gastrointestinali, chi soffre di intolleranza al lattosio deve purtroppo rinunciare a molti prodotti tradizionali, nella fattispecie burro, latte, yogurt, cioccolato al latte, formaggi…
Tuttavia, oggigiorno, le aziende produttrici hanno fatto passi da gigante in questo campo ed esistono ormai molte valide alternative senza lattosio che, in fatto di gusto e aspetto, non hanno nulla da invidiare a quelli considerati convenzionali. Ne è un esempio la Colomba Senza Lattosio di Maina, noto produttore di specialità da ricorrenza. Il morbido dolce viene preparato con cura artigianale
secondo antica tradizione, ma con l’impiego di burro selezionato a basso contenuto di lattosio, per cui il tenore finale di lattosio risulta essere inferiore allo 0,01%. La lievitazione naturale dura non meno di 2 giorni. L’impasto è arricchito con profumati canditi, mentre la superficie è ricoperta di una croccante glassa alle nocciole e infine decorata con mandorle intere e granella di zucchero.
Impossibile resistere alla tentazione di gustare le tortine di Pasqua della Jowa. Delle specialità perfette per il brunch, la merenda oppure per chiudere come si conviene ogni banchetto festivo. Una base di deliziosa pasta frolla e una delicata farcia composta da mandorle, riso e uva sultanina caratterizzano questi dolcetti preparati con estro e competenza dai mastri pasticceri della Jowa. Come per tutti i prodotti del panificio
della Migros, anche le tortine vengono preparate nel rispetto dei massimi requisiti qualitativi. Le materie prime sono selezionate con cura e tutto il processo produttivo è conforme alle più severe norme igieniche. Un efficiente sistema di consegna assicura che i prodotti giungano in poche ore nei negozi Migros, affinché possiate approfittare della massima freschezza sulla vostra specialità preferita appena sfornata.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Società e Territorio
Guidare in sicurezza
Terza età Riflettere serenamente sulla propria idoneità alla guida è un dovere per tutti, anche per questo la sezione
Ticino del Touring Club Svizzero offre dei corsi mirati Stefania Hubmann
Nel corso Terza Età del TCS ci si aggiorna sulle nuove norme legate alla circolazione stradale, si affrontano aspetti come il comportamento in situazione di traffico difficile e si svolge un pomeriggio di pratica La riflessione sull’idoneità alla guida riguarda tutti e non deve colpevolizzare gli automobilisti anziani, malgrado i recenti gravi incidenti registrati dalle cronache e legati in particolare alla circolazione in contromano. «Le entrate in contromano in autostrada hanno purtroppo sovente esito letale – spiega Marco Gazzola, responsabile dei corsi del TCS – ma sono per fortuna casi rari. In generale la fascia d’età nella quale si registra il maggior numero di incidenti è quella fra i 40 e i 50 anni, perché la persona anziana tende ad assumere un atteggiamento più distensivo e prudente. Non è pertanto corretto generalizzare e l’innalzamento dell’età da 70 a 75 anni per il controllo medico biennale tiene appunto in considerazione l’evoluzione della salute della popolazione anziana. Da rilevare, che il legislatore ha invece introdotto da diversi anni condizioni più esigenti per l’ottenimento della licenza di condurre (compreso un corso pratico), perché si registravano numerosi incidenti nella fascia d’età 18-24 anni, incidenti ora diminuiti». Tornando agli anziani, quali sono le maggiori difficoltà dimostrate dalla guidatrice e dal guidatore che rientra in questa categoria? Risponde Marco Gazzola: «In primo luogo vorrei proprio sottolineare che i nostri corsi sono ben frequentati anche dalle donne. Lavoriamo regolarmente con associazioni di pensionati che offrono questa opportunità ai loro soci. Le domande
Tipress
L’obbligo di aggiornarsi sulle norme della circolazione stradale non esiste e la riconsegna della licenza di condurre in età avanzata resta ancora un tabù. Eppure uscire da un corso teorico e pratico avendo chiarito i dubbi, sentendosi più sicuri e con la consapevolezza di essere ancora idoneo a una guida corretta dovrebbe essere un incentivo a confrontarsi serenamente con la propria situazione. Chi approfitta delle opportunità offerte dai corsi organizzati da molti anni dalla sezione Ticino del Touring Club Svizzero (TCS) conferma i benefici di poter verificare le nuove norme legislative in materia e di provare sulla pista situazioni particolari con le quali rischia di essere confrontato sulla strada.
riguardanti precedenze e rotonde sono sempre numerose a dimostrazione che l’utilizzo di queste ultime genera incertezza. Dal punto di vista pratico notiamo come la frenata d’emergenza sia per alcuni automobilisti una novità. Non hanno magari mai avuto necessità di usarla e non sanno con quale intensità schiacciare il pedale o come reagisce il sistema di frenata ABS». A confermare il punto di vista dell’istruttore è il presidente dell’Associazione Pensionati dello Stato Franco Lazzarotto che spiega: «Il corso Terza età del TCS suscita sempre grande interesse presso i nostri soci che sovente desiderano seguirlo una seconda volta. Con 3300 affiliati dobbiamo però garantire la priorità ai nuovi interessati. Proponiamo questa attività più volte all’anno incentivando la partecipazione con un contributo finanziario per stimolare la presa di coscienza della propria situazione anche in vista di una futura riconsegna della licenza. La libertà di muoversi con il proprio mezzo è importante, ma finisce dove inizia quella degli altri automobilisti. Gli anziani hanno a disposizione molto tempo e nella maggior parte dei casi possono quindi usufruire dei mezzi pubblici». Per Franco Lazzarotto questo gesto di responsabilità nei confronti di se stessi e degli altri non deve essere vissuto come un’onta, bensì appunto con la consapevolezza di agire per il bene comune. Consapevolezza che ha dimostrato nelle scorse settimane Renato Gazzola (padre di Marco), figura storica della sezione Ticino del TCS quale direttore e portavoce per la Svizzera
italiana. A 74 anni rendendosi conto di «non avere più l’acuità visiva di un tempo» – ha spiegato in un’intervista a «il Caffè» – ha rinunciato a guidare come atto «doveroso e responsabile dopo essermi battuto per una vita per la sicurezza stradale». Con il corso Terza età, organizzato una decina di volte all’anno e della durata di una giornata, si vuole accrescere la sicurezza degli anziani nella circolazione stradale. È quindi un corso di aggiornamento sulle nuove norme, che tocca pure aspetti quali il comportamento del conducente in situazioni di traffico difficile. «Le persone anziane – precisa al riguardo Marco Gazzola – sono spesso insicure in queste situazioni, disturbando gli altri utenti della strada con il rischio di confusione e conseguente pericolo. I partecipanti al corso apprezzano in modo particolare il pomeriggio dedicato alla pratica che prevede, oltre alla frenata d’emergenza, prove su diversi tipi di aderenze per simulare un fondo scivoloso. Spesso si riesce a comprendere queste condizioni solo sperimentandole di persona». Al riguardo il presidente dei pensionati dello Stato richiama da parte sua l’attenzione sui tempi di reazione e gli spazi di frenata in relazione alla velocità. «In pista si sa che bisogna frenare con decisione quando si arriva al cono, mentre nel traffico qualche secondo va ancora perso nella percezione del pericolo». Capacità di concentrazione, vista, agilità fisica (riuscire ad effettuare la retromarcia), malattie e assunzione di farmaci sono aspetti che non possono essere sottovalutati. Per coloro che
sono confrontati con questi problemi e verosimilmente sono anche un po’ più avanti con gli anni, il TCS offre il corso Generazione 70+. Marco Gazzola: «Si tratta di un corso sempre sull’arco di una giornata, ma solo teorico. Oltre ad un maestro conducente, che spiega l’evoluzione delle regole della circolazione stradale toccando anche la prevenzione, i sistemi di sicurezza dell’automobile e i comportamenti alla guida, facciamo appello ad altre due figure professionali. Il pomeriggio è infatti dedicato agli interventi di un avvocato e di un medico geriatra. Il primo affronta in particolare questioni sensibili come le conseguenze degli incidenti stradali e il mantenimento della licenza di condurre, mentre gli aspetti legati alla salute e alle visite mediche obbligatorie sono di competenza del geriatra. Finora al termine della giornata veniva consegnato un buono per una lezione di guida pratica con un maestro conducente del TCS. Abbiamo però notato che solo un quarto dei partecipanti utilizza questa possibilità. È un peccato, perché non si tratta di un esame, bensì di un’uscita lungo i percorsi abituali che si conclude con consigli verbali e confidenziali con l’obiettivo di migliorare la guida. La guidatrice o il guidatore non ha quindi nulla da temere. Considerato però il riscontro, abbiamo deciso di modificare l’impostazione del corso riducendo il costo del medesimo (a 100 franchi per i soci TCS e 200 per i non soci, come il corso Terza età) e offrendo la possibilità di acquistare successivamente, sempre ad un prezzo di favore (50 franchi), il buono per la lezione. Speriamo così di rendere la proposta
più attrattiva senza togliere la possibilità di guidare con un esperto». Marco Gazzola e Franco Lazzarotto sottolineano entrambi l’importanza della cerchia familiare nelle questioni legate alla guida degli anziani. Come precisato in apertura, non è possibile generalizzare. Vi sono persone già entrate nella quarta età ancora in grado di condurre in modo fluido e sicuro, mentre altre, all’anagrafe più giovani, a causa di un invecchiamento precoce o dell’insorgere di problemi di salute faticano a destreggiarsi in un traffico sempre più intenso e soprattutto faticano ad ammetterlo. Valutare magari a distanza la guida di un familiare anziano, renderlo attento a eventuali modifiche sui suoi percorsi quotidiani, discutere la possibilità di muoversi con mezzi sostitutivi, sono i consigli dei nostri interlocutori. Chi ha partecipato ai corsi destinati ad un aggiornamento sulle norme della circolazione stradale e sui veicoli, provando personalmente a confrontarsi con le situazioni a rischio, ribadisce l’utilità dei medesimi, a vantaggio di tutti gli utenti della strada. Il desiderio di guidare il più a lungo possibile è legittimo e in genere motiva a frequentare queste lezioni dove si condividono le rispettive esperienze e dalle quali si esce formati e rinfrancati. Informazioni
www.tcs-ticino.ch Il TCS informa che i corsi Terza Età e Generazione 70+ sono al momento sospesi a causa dell’emergenza pandemica Covid-19 Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Società e Territorio
Stiamo perdendo l’arte dell’ascolto
Pubblicazioni Nel suo ultimo saggio la giornalista americana Kate Murphy spiega come la capacità di ascolto
sia fondamentale per il successo in ogni relazione personale, professionale e politica
Natascha Fioretti L’abilità oratoria conta. Se ne siete provvisti, se l’avete studiata all’Università, non vi mancheranno occasioni per fare bella figura o togliervi da un improvviso imbarazzo. È un abile strumento che può aiutarvi a costruire la vostra presenza e a definire la vostra identità in una società che punta tutto sull’apparenza, le etichette, la massimizzazione dei tempi e dei risultati. Voglio però svelarvi un segreto che forse ancora non sapete: se l’abilità oratoria conta, l’arte dell’ascolto può molto di più, parola di Kate Murphy. Giornalista freelance americana che collabora con il «New York Times», nel suo saggio You’re Not Listening. What You’re Missing and Why it Matters (Non stai ascoltando. Cosa ti perdi e perché è importante) spiega come la capacità di ascolto sia fondamentale per il successo di qualsiasi relazione personale, professionale e politica. Buoni ascoltatori non si nasce, si diventa anche se, come scrisse il filosofo greco Epitteto all’alba dei tempi, partiamo favoriti: «Dio ci ha dato due orecchie, ma soltanto una bocca, proprio per ascoltare il doppio e parlare la metà». Non solo, l’attenzione per la voce umana, i suoi suoni e le sue sfumature inizia quando siamo ancora nella pancia e l’udito è uno degli ultimi sensi che ci abbandonano prima di morire. Sviluppare nei bambini la capacità di ascolto è un compito importante, se crescono in una famiglia di buoni ascoltatori anche loro lo
saranno. Ma essere dei buoni ascoltatori o degli ascoltatori di professione come Kate Murphy nella schizofrenia del multitasking, della comunicazione mordi e fuggi. Sui social ci vediamo e interfacciamo costantemente illusi di essere onniscienti mentre fare una telefonata ci costa sempre più fatica. Il cellulare, fedele alleato, è diventato il passatempo nei momenti vuoti. Se prestiamo ascolto è nella nostra bolla virtuale isolati da auricolari o cuffie. La distrazione digitale tiene la mente occupata ma alimenta poco o non coltiva affatto la profondità dei sentimenti umani che per risuonare necessitano di un’altra voce. Ascoltare per davvero significa essere toccati fisicamente, chimicamente, emotivamente e intellettualmente da un’altra persona. Questo libro è un omaggio all’arte dell’ascolto e un lamento al fatto che come civiltà stiamo perdendo il nostro tocco, la nostra magia. Leggerlo è un’occasione per riscoprirla. Per scriverlo Kate Murphy ha speso due anni sugli studi accademici in circolazione interessandosi dei processi biomeccanici e neurobiologici, degli effetti psicologici ed emozionali. Ha intervistato politici, scienziati, economisti, agenti della CIA, fashion blogger, atleti, imprenditori, artisti, autori, leader religiosi, senzatetto, signore che facevano la spesa con lei al supermercato. Tutti hanno una storia da raccontare capace di allargare la nostra visione del mondo e aumentare la nostra comprensione, dice l’autrice. Saperla indagare e raccogliere dipende
Buoni ascoltatori non si nasce, si diventa. (pxhere)
dalla nostra disponibilità e attenzione all’ascolto, dalla nostra capacità di fare le domande giuste. Tra i tanti personaggi incontrati c’è Naomi Henderson, nata in Louisiana negli anni 40, considerata la Beyoncé della ricerca qualitativa e dei focus group. Figlia del primo pilota afroamericano degli Stati Uniti, all’alba dei suoi quasi 80 anni è ancora la moderatrice più ricercata. Oggi però c’è un nuovo metodo più economico e più veloce che permette di conoscere gusti, inclinazioni e tendenze nel settore commerciale o in ambito politico: le analisi quantitative che analizzano i dati raccolti tramite le piattaforme online e i social network. Matthew Salganik, professore di sociologia a Princeton, mette in evidenza i limiti della raccolta e dell’analisi dei big data «nel
cercare delle risposte in un set di dati diventi un ubriaco che cerca le sue chiavi di casa sotto il lampione. E se chiedi all’ubriaco perché le sta cercando lì, ti risponde: perché c’è luce». Nei dati puoi trovare soltanto ciò che c’è, nell’ascoltare e interagire con le persone, come canta Alfred Prufrock di T.S. Eliot, molto di più: «Ci sarà tempo per prepararti una faccia per incontrare le facce che incontri». Secondo Kate Murphy il buon ascoltatore è in grado di confrontarsi con idee contraddittorie e zone grigie senza perdere l’equilibrio, senza esserne intimorito ma al contrario stimolato ad ampliare i propri orizzonti o a mettersi in discussione. Accanto alla storia di Naomi Henderson c’è quella di Gary Noesner, trent’anni di carriera come negoziatore di ostaggi per l’FBI,
oggi lavora come consulente nella risoluzione di rapimenti internazionali. Nel suo lavoro la capacità di ascolto è tutto perché ti permette di comprendere il punto di vista della persona che hai davanti e di dire la cosa giusta, nel modo corretto, al momento opportuno. «Mi piace pensare che le storie che le persone mi raccontano sono delle ciambelle in cui i fatti accaduti sono sulla parte interna mentre le emozioni e i sentimenti su quella esterna. Nella vita non conta soltanto ciò che ci accade ma cosa ci fa provare». Raccontando il suo incontro con Gary Noesner, Kate Murphy descrive quanto quell’uomo l’abbia messa a suo agio : «avevo davvero l’impressione che fosse interamente concentrato su di me e che quello fosse l’unico luogo in cui voleva stare in quel momento». Chi ascoltiamo, in quali circostanze e con quale attenzione determina il corso della vostra vita – nel bene e nel male. E, più in generale, il nostro ascolto collettivo o la mancanza dello stesso ci condiziona profondamente a livello, politico, sociale e culturale. Noi siamo la somma di ciò a cui partecipiamo nella nostra vita. La dolce voce di una madre, il bisbiglio dell’amato, la guida di un mentore, l’ammonimento di un supervisore, la derisione di un rivale è ciò che ci forma e ci definisce. E ascoltare distratti limita la nostra comprensione del mondo e ci depriva della possibilità di diventare la migliore versione di noi stessi. Mettete via i cellulari e ascoltatevi. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Idee e acquisti per la settimana
Chi ama il sole e chi no
Bentornata primavera! Due esperte con il pollice verde mostrano come mettere in vaso correttamente le piante, quali varietà vanno d’accordo tra loro e come aiutarle a crescere rigogliose. Testo Tina Sturzenegger
L’inverno, che in realtà è stato una sorta di primavera, ha invogliato gli amanti del giardinaggio a mettersi al lavoro subito dopo l’inizio dell’anno nuovo. Ora, a marzo, si può cominciare e acquistare piante, fiori ed erbe aromatiche. Prima però val la pena dare un’occhiata fuori e controllare quanta luce del sole arriva in balcone. Solo un paio d’ore? O quasi tutto il giorno? «Il balcone diventa un’oasi di verde solo se le piante in vasi e cassette sono adatte al luogo che hai scelto», spiega Luzia K. Rodriguez, ingegnere ambientale e fondatrice di Kraut+Quer. L’azienda mira a ridare spazio alla flora nelle città e nelle agglomerazioni, rinverdire le facciate e far fiorire i giardini come l’oasi verde della signora Gerold a un salto dalla Hardbrücke di Zurigo. Chi ama il sole e chi no
Seguendo il consiglio della signora Ro-
driguez, in balcone vanno collocate le piante che durante il giorno necessitano di meno di tre ore di luce solare diretta, come ad esempio l’aglio orsino, la felce o l’hosta. A mezz’ombra, dove il sole arriva da tre a sei ore al giorno, vanno invece sistemate le cassette di bacche con fragole, lamponi e mirtilli. Balconi e terrazze assolate per più di sei ore sono dal canto loro luoghi ideali per le piante che amano il sole come rosmarino, salvia e lavanda. Nella filiale Do it+Garden di Migros Brunaupark ai margini della città di Zurigo, Luzia K. Rodriguez e la sua collega Sabine Keller si mettono al lavoro. Nel loro pop-up store City Farming, allestito qui e in altre quattro filiali zurighesi, vogliono realizzare tre composizioni in vaso. La prima è dedicata agli amanti del giardinaggio romantici, la seconda è pensata per la gente che preferisce lo stile semplice e moderno e la terza è per-
fetta per riciclare una cassetta del vino in cui sistemare le erbe aromatiche. Le signore Rodriguez e Keller cominciano con la composizione romantica utilizzando un vaso grande di terracotta, un piccolo albicocco, narcisi, non-ti-scordar-di-me e due campanule. Tutte queste piante amano il sole e le campanule inoltre attirano le api selvatiche. Favorire la crescita
Per prima cosa le esperte tolgono l’albicocco e tutte le altre piante dai vasi di plastica e grattano delicatamente la terra dalle radici con un rastrellino. «Così facendo stimoliamo le radici a propagarsi», spiega la signora Rodriguez. Successivamente il foro di scolo sul fondo del vaso viene coperto con un velo permeabile all’acqua. «Si può utilizzare anche un coccio di terracotta, naturalmente», aggiunge l’esperta. Sul velo Sabine Keller distribuisce quindi dell’ar-
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Sabine Keller (a sinistra) e Luzia K. Rodriguez alleggeriscono la zolla di radice di una pianta prima di invasarla.
Piante e collocazione Affinché le piante crescano rigogliose, vanno collocate in un luogo confacente. Alcune amano il pieno sole, altre si sviluppano meglio all’ombra o a mezz’ombra. Ecco una selezione di erbe aromatiche, bacche e verdure per le diverse collocazioni. Luoghi soleggiati (da circa 6 ore di sole al giorno) Rosmarino, timo, salvia, lavanda, pomodori, chili, zucchine, melanzane, peperoni, cetrioli. Luoghi a mezz’ombra (da circa 3-6 ore di sole al giorno) Fragole, lamponi, mirtilli, prezzemolo, erba cipollina. Luoghi all’ombra (meno di 3 ore al giorno di sole) Rucola, prezzemolo, menta, frutti di bosco.
gilla espansa fino a riempire il vaso per un terzo. Sopra l’argilla viene sistemato un altro velo e poi due o tre manciate di terriccio senza torba e una manciata di concime naturale, trucioli di corno o farina di corno. A questo punto la signora Rodriguez depone l’albicocco nel vaso e vi distribuisce tutt’attorno un po’ di terriccio prima di piantare i narcisi, i non-ti-scordar-di-me e le campanule. Al termine il vaso va riempito con altro terriccio. «Questa procedura con velo, argilla, terriccio, poco concime, messa a dimora delle piante e riempimento finale con terriccio è sempre la stessa», illustra la signora Rodriguez. «Non importa se si utilizza un vaso, una cassetta per fiori o una cassetta rialzata.» Per il secondo vaso, la variante semplice, le due esperte usano un cassetta grigia di plastica riciclata. «Vogliamo creare un orticello per le zone in ombra e a mezz’ombra», spiega Sabine Keller pian-
tando aglio orsino, erba cipollina, prezzemolo e due piantoni di lattuga. «Anche se all’inizio sono un po’ striminzite, le piantine crescono e hanno bisogno di spazio. Bisogna quindi evitare di piantarne più di una per varietà distanziandole di una spanna», illustra l’esperta. In bella compagnia
Per il terzo vaso, Luzia Rodriguez realizza un orticello aromatico con menta bergamotto, menta piperita, menta da cocktail e viole bio (commestibili) usando una cassetta del vino in legno dell’assortimento di Brunau. Per consentire all’acqua d’annaffiatura di defluire, l’esperta pratica dei fori di circa tre centimetri con il trapano nelle pareti laterali e quindi mette a dimora la menta e le viole, che collocherà successivamente al sole. La menta ama stare in pieno sole e, prima che si sia sviluppata, sono le viole a rendere la composizione decorativa.
Ben combinati e presentati in modo originale
Il romantico arrangiamento con narcisi, campanule e non-ti-scordar-di-me (sopra) sta volentieri al sole. La stessa cosa vale per la cassa di vino (sopra a destra) con menta e viole del pensiero. Il vaso con aglio orsino, erba cipollina, prezzemolo e lattuga preferisce invece l’ombra.
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Società e Territorio
Un trionfale ritorno per Ori
Videogiochi La nuova produzione di Moon Studios miscela sapientemente arte, musica e meccaniche di gioco
Davide Canavesi Sono passati quasi cinque anni dal giorno in cui gli austriaci di Moon Studios, dal nulla, arrivarono dapprima su Xbox One e poi su PC e Nintendo Switch, con Ori and the Blind Forest. Un gioco platform in due dimensioni caratterizzato da un livello di difficoltà sopra la media e da una direzione artistica fuori dal comune. Le opinioni furono quasi unanimi non solo tra i recensori ma anche tra il pubblico: un titolo spettacolare che si è subito guadagnato un discreto seguito. Ora, grazie al supporto di Xbox Game Studios, arriva su PC e Xbox One l’attesissimo seguito. Ori and the Will of the Wisps è più grande, più elaborato e ancora più curato ma mantiene intatta la formula che ha fatto la fortuna del suo predecessore. Nel gioco impersoniamo Ori, uno strano esserino dall’anatomia un po’ improbabile. Dopo essere uscito indenne dagli avvenimenti del primo gioco, la sua vita nella foresta di Nibel è tornata ad essere pacifica. Con una sola eccezione: l’arrivo nella famiglia di Ku, un piccolo gufo nato dall’uovo di Kuro, l’antico antagonista di Ori. I giorni trascorrono felici fino a quando, per Ku, è ora di spiccare il volo. Purtroppo per lei, a causa di un’ala malformata, non riesce a fare altro che piccoli balzi finché ad Ori viene l’idea di attaccare una gigantesca piuma, che fu della madre, alla sua ala rovinata. Finalmente Ku riesce a sollevarsi da terra e, assieme ad Ori, parte per un volo inaugurale. I
Lo strano esserino Ori dovrà ritrovare il piccolo gufo Ku. (xbox.com)
due però finiscono ben presto separati durante una tempesta e per Ori inizia una nuova missione: ritrovare Ku. L’inizio di Ori and the Will of the Wisps sembra forse un po’ banale descritto in questo modo e tuttavia è raccontato a schermo in modo talmente ben animato e accompagnato da una colonna sonora magistrale che siamo più che ben disposti a perdonare un incipit poco originale. Cosa più importante, davanti al giocatore ci sono oltre 12 ore di gioco appassionanti. Ori and the Will of the Wisps è un platform 2D che prende in prestito sen-
za pudore parecchi elementi da altri generi. Oltre al più classico movimento in due dimensioni, salti e capriole, infatti troveremo una serie di poteri in grado di variare parecchio il gioco. Una contaminazione dal genere gioco di ruolo che in questo caso funziona assai bene, donando profondità al gioco. Inizialmente saremo solo in grado di correre e saltare ma ben presto espanderemo le capacità di Ori con arrampicate sui muri, planate, slanci e altre ancora. Lo stesso discorso vale per le abilità offensive del protagonista. Per attraversare le foreste di Niwel ser-
viranno diversi attacchi, sia a contatto che a distanza, e sarà il giocatore a poter scegliere tra dodici tipi diversi, in base al proprio stile di gioco. Le abilità a disposizione del giocatore vengono poi ampliate da trenta miglioramenti diversi che forniscono dei poteri passivi, come ad esempio bonus di attacco o difesa. Giocare ad Ori 2 è una bella sfida, specialmente ai livelli di difficoltà più elevati. Principalmente serviranno riflessi fulminei e una certa dose di pazienza per completare alcune sfide, in particolar modo le spettacolari fughe da mostri ed altri pericoli. Il gioco
è stato pensato per obbligarci a ripetere certi percorsi finché non li avremo appresi a memoria, in modo da completare la sfida nel minor tempo possibile. Ori 2 è un gioco difficile ma non ingiusto, un problema che accomuna molte produzioni del genere. Se incapperemo in un game over sarà sempre e solo a causa nostra e mai per colpa di qualche trucchetto degli sviluppatori per rendere la sfida più complessa. Un titolo questo che premia i giocatori più dediti ad impararne le sfaccettature e a sfruttare ogni mossa e opportunità che ci si presenterà durante le nostre peregrinazioni. Se da un lato la difficoltà del gioco potrebbe essere frustrante per alcuni, i più rimarranno in compagnia di Ori fino alla fine dell’avventura. Il motivo è che la perizia artistica e tecnica di Moon Studios è talmente grande che vorremo scoprire cosa succederà ad Ori e Ku, attraversando livelli realizzati splendidamente e accompagnati da musiche che si sposano perfettamente con quanto vediamo sullo schermo. Gareth Cocke, il compositore della colonna sonora, ha prodotto davvero un capolavoro nel genere. Ori and the Will of the Wisps è un gioco che consigliamo ai fan delle avventure in 2D, a prescindere dal suo grado di difficoltà. Un gioco che miscela sapientemente arte, musica e meccaniche di gioco per offrire qualcosa forse di non molto originale ma estremamente riuscito. Disponibile su PC e Xbox One (e parte di Xbox Game Pass) è una delle uscite più interessanti di questo 2020. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Capelli folti e lucenti
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Società e Territorio
Nuovi orizzonti bleniesi per le terme
Acquarossa Dopo la chiusura dello storico hotel sono passati 50 anni di illusioni per il rilancio del turismo e delle
sorgenti benefiche. Ora una società luganese con dirigenti della regione propone una struttura a misura di valle
Mauro Giacometti Non un grande albergo a cinque stelle con centro wellness extralusso riservato a pochi, ma un nucleo di palazzine di due o tre piani con «aparthotel», parcheggi coperti, piscine termali, negozi e ristorante. Un complesso turistico a misura di valle che dovrebbe ridare slancio al turismo bleniese rilanciandone gli antichi fasti termali che da secoli caratterizzano questo lembo di terra subalpina. Il progetto per il rilancio turistico e termale di Acquarossa sta prendendo forma dopo la firma della convenzione tra la società luganese D’A Sagl, rappresentata dal bleniese Lino D’Andrea, e il Comune. Convenzione che prevede la cessione del diritto di compera sul capitale azionario della Centro turistico Acquarossa Sa (Cta), detenuto dall’ente locale sull’area di circa 80’000 mq in zona Comprovasco/Ganina dove dovrebbe appunto sorgere il futuro complesso turistico-alberghiero. Nel frattempo, sempre a Lugano, è stata costituita la Sun Village Projects SA, società con 300mila franchi di capitale azionario, che entro la fine di quest’anno dovrebbe presentare il Piano di quartiere del nuovo centro turistico, passo preliminare indispensabile prima di arrivare alla domanda di costruzione vera e propria e quindi alla licenza edilizia. Salvo inciampi e ricorsi, l’obiettivo dei promotori della Sun Village Projects è di aprire le porte entro il 2026 del nuovo polo turistico e termale di Acquarossa per il quale si prevede un investimento di decine di milioni. «La nostra idea – avallata dal Consiglio comunale che ha approvato la convenzione – è di realizzare un quartiere alberghiero-termale diffuso, non invasivo e a disposizione oltre che dei turisti anche della popolazione per quanto riguarda le attività commerciali, la ristorazione e l’utilizzo dell’area wellness», ci spiega Lino D’Andrea, presidente del consiglio d’amministrazione della Sun Village Projects. Niente a che vedere, insomma, con i faraonici progetti alberghieri che anche recentemente sono stati ipotizzati ad Acquarossa e poi miseramente naufragati. È una telenovela apparentemente senza fine quella delle Terme di Acquarossa. Promotori e finanziatori pubblici o privati si sono susseguiti in un canovaccio, quello della riapertura di un centro turistico e curativo nel cuo-
Il vecchio Hotel Terme chiuse i battenti nel 1971. (M. Giacometti)
re della Valle di Blenio, che s’è bruscamente interrotto quasi mezzo secolo fa, nel 1971, con la chiusura dello stabilimento termale realizzato nel 1882 nel territorio di Lottigna (ora frazione di Acquarossa), alle pendici del Monte Simano. Ancora oggi, provenendo dalla bassa valle e attraversando il fiume Brenno a Comprovasco, non si può fare a meno di ammirare la palazzina liberty dell’Hotel Terme circondata da un parco di 30’000 mq. In mezzo ad una fitta vegetazione che sembra proteggerlo dagli sguardi degli estranei, però, si staglia un albergo fantasma che nella sua epoca di maggior splendore e richiamo, tra la fine dell’800 e gli anni ’60, era frequentatissimo per chi voleva curare malattie reumatiche, infiammazioni muscolari, malattie della pelle o disturbi ginecologici grazie al fango rosso – composto da acque minerali, acidule, saline, ferruginose e arsenicali – che scende a valle dalle sorgenti di Sattro e Sciarina. La proprietà dell’hotel e del parco è tuttora in mano alla
famiglia di Rinaldo Greter, l’albergatore erede di quel Joseph Greter che nel 1932 rilevò lo stabilimento termale costruito appunto nel 1882 da alcuni facoltosi bleniesi capitanati dal commissario di governo Domenico Andreazzi. Ma le virtú medicamentose delle acque che sgorgano dalle sorgenti del Simano erano già note nel corso dei secoli: la prima menzione risale al 1446, mentre
l’esistenza di uno stabilimento è attestata dalla visita pastorale del 1570 di San Carlo Borromeo. Nel 1882 un gruppo di finanziatori bleniesi decise di utilizzare in maniera scientifica le sorgenti ferrose secondo i criteri dell’industria alberghiera e sanitaria dell’epoca. Meno di un secolo più tardi, nonostante l’impegno e gli sforzi profusi e la ricercatezza della
La road map del nuovo progetto L’ennesimo progetto di rilancio delle terme di Acquarossa ha una road map tracciata dalla convenzione siglata tra il Comune e la Sun Village Projects. Costo iniziale dell’operazione: 2,6 milioni di franchi per l’acquisto del capitale azionario della Centro turistico Acquarossa Sa (Cta) di proprietà comunale. Quindi una serie di obblighi e diritti delle parti. I promotori del progetto devono, per esempio, occu-
parsi di stilare un piano di quartiere entro fine 2020, impegnarsi a presentare la domanda di costruzione entro fine 2021, esercitare il diritto di compera entro fine 2024 e finanziare l’allacciamento stradale. Dal canto suo, il Comune adatterà l’attuale strada di quartiere e l’acquedotto. Il messaggio comprende inoltre la cessione a titolo gratuito delle sorgenti d’acqua necessarie per realizzare il wellness.
quale oltre ad essere scrittrice sopraffina è anche insegnante) che commentano grandi classici. Ci sono anche illustratori che offrono un loro disegno sul tema «lezioni sul sofà» (delizioso quello di Nicoletta Bertelle). E ci sono persino laboratori e tutorial, di crea-
tività ad esempio, o di cucina. La cosa bella è che gli adolescenti non sono esclusi, perché tra i materiali proposti troviamo proprio tutte le fasce d’età: 3+, 6+, 9+, 11+, 14+. È una «decamerina poetica» quella che propone Bruno Tognolini dalla sua pagina Facebook, però fruibile anche dal sito www.brunotognolini.com. Una decamerina, «così che, come i giovanotti e le madamine del Decamerone, grandi e piccoli nelle loro Decamerine d’oggi abbiano racconti del mondo in rima, mantra e scongiuri forse di qualche utilità e bellezza per far passare più lievi [...] questi nostri “dèca emèron”, dieci giorni di nascondiglio dal virus». Insomma, una rima al giorno, ma trascorse le dieci giornate si continua: «la Decamerina continuerà a chiamarsi così, anche se oggi è l’undicesima giornata: ma chiamarla “Endecamerina”, e poi “Dodecamerina” e così via, sarebbe davvero un eccesso da lezioso secchione. E continua a ospitare rime di
struttura, Rinaldo Greter fu costretto a chiudere i battenti dell’hotel, pur mantenendovi la residenza e continuando a sperare in un rilancio fino alla sua morte, avvenuta un paio d’anni fa. Il Comune di Acquarossa, nato dalla fusione delle sue numerose frazioni, ha cercato in ogni modo di riportare il turismo termale tra i suoi confini, prima intavolando infinite e infruttuose trattative con lo stesso Rinaldo Greter, quindi suggerendo a vari promotori e imprenditori di costruire un nuovo e più moderno centro wellness a Comprovasco, praticamente di fronte al complesso termale di Lottigna, ma sull’altra sponda del Brenno. A metà degli anni 90 il primo a credere in un possibile rilancio del «business» delle acque curative in Valle di Blenio fu l’imprenditore kosovaro Behgjet Pacolli (fondatore della Mabetex) che insieme all’allora sindaco di Lugano, architetto Giorgio Giudici, costituì la Centro Benessere Terme di Acquarossa SA. L’idea, supportata anche dall’ente turistico regionale (BlenioTurismo) era appunto di realizzare un albergo termale a cinque stelle su un’area agricola e incolta acquistata a Comprovasco. Pacolli però incontrò un muro di ostracismo e ricorsi in valle, tanto da abbandonare il progetto nel 2000, cedendo la sua società (e la proprietà dei terreni) al Comune di Acquarossa che nel 2015, tramite la Centro turistico Acquarossa SA, diventò ufficialmente proprietario dell’area di Comprovasco e della relativa concessione di sfruttamento delle acque sorgive. A conferma della storia quasi infinita dell’affare termale bleniese, prima della convenzione con la Sun Village Projects, cinque anni fa, apparve all’orizzonte la fascinosa coppia di imprenditori anglo-elvetici composta da Ashoob Cook e Andreas Schweitzer. Dopo aver fatto credere ai bleniesi e a mezzo Ticino, comprese le autorità cantonali, di voler investire 100-150 milioni per un hotel termale a cinque stelle e di volersi anche stabilire in valle per seguire da vicino l’avanzamento dell’iter pianificatorio e costruttivo (il Comune allestì una variante di PR per l’area di Comprovasco con l’avallo del Cantone), al momento di sborsare i 2,6 milioni di franchi per l’acquisto di terreni e concessione sulle acque la coppia si è «vaporizzata» come l’acqua calda che sgorga dalle sorgenti del Simano.
Viale dei ciliegi: storie a casa di Letizia Bolzani Stavolta in Viale dei Ciliegi non trovate proposte di libri, perché per il momento è meglio non andare troppo in giro a procurarseli in librerie o biblioteche. Certo, potreste ordinarli online, ma per oggi vorrei farvi delle proposte online da leggere e ascoltare direttamente, liberamente, gratuitamente, da casa vostra, con i vostri bambini. Le limitazioni del periodo aguzzano l’ingegno, e le iniziative di cantastorie dal web si moltiplicano. Su Facebook ci sono tantissime proposte (di qualità altalenante, soprattutto per quanto riguarda la resa audio e l’efficacia della lettura) di librerie, di gruppi teatrali, di insegnanti, di scrittori, ma per avere un criterio di scelta, che sia fruibile da tutti, anche da coloro che non accedono a social, vi segnalo proposte accessibili direttamente come siti web. Ad esempio: lezioni sul sofà (www. lezionisulsofa.it), è un sito creato proprio per quest’emergenza, ma che speriamo continui anche dopo l’emergenza, perché è ricco e utile. Da
un’idea di Matteo Corradini e Andrea Valente, ha coinvolto molte scrittrici e scrittori italiani, che contribuiscono con video e audio vari. Ci sono autori che leggono le loro proprie opere, autori che leggono libri di altri, autori (come ad esempio Annalisa Strada, la
legami, tribù domestiche, famiglie, di qualunque numero, genere e forma possano essere. Perché è ciò che in questi giorni abbiamo intorno: i legami sono il posto in cui viviamo». Le seguenti proposte non sono state create espressamente per l’emergenza, però contengono letture e ve le segnaliamo: su www.raiscuola.rai.it potete gustarvi tutta la magia di quel grande cantastorie che è stato Pinin Carpi (autore di cui quest’anno si celebra il centenario). Lo vedete e lo ascoltate raccontare alcune sue storie indimenticabili, come Il papà mangione, o I bambini che giocano a palla nel prato. Se volete anche giocare, uno dei più giocosi editori italiani, Minibombo, propone sul suo sito tante letture ludiche e interattive: www.minibombo.it E infine, da un progetto dell’Istituto Svizzero Media e Ragazzi, il programma webradio Tutt’orecchi, gli audioracconti di Tutt’orecchi: https://www. ismr.ch/audioracconti/ Per grandi e piccini.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Battezzare l’America Ai primi anni del ’500, nella piccola città francese di Saint-Dié, nel Ducato di Lorena, fioriva un’Accademia di studiosi umanisti guidata da Walter Lud. Fra i membri vi erano i geografi Matthias Ringmann e Martin Waldseemüller. Nel 1506 i due vennero in possesso di una traduzione francese delle Lettere al Soderini che erano state pubblicate fra il 1503 ed il 1505 causando stupore, ammirazione e poi sospetti fra gli studiosi di tutta Europa. Si trattava di due lettere scritte da Amerigo Vespucci allo statista Piero Soderini, eletto alla carica di Gonfaloniere della Repubblica di Firenze nel 1502 al termine dei turbolenti anni che avevano portato al rogo di Girolamo Savonarola e all’esilio di Piero de’ Medici. Le lettere descrivevano due viaggi che Vespucci riferiva di aver compiuto verso le Indie Occidentali. Questi viaggi lo avevano persuaso che quelle non fossero le coste orientali delle Indie, come aveva inteso Colombo, ma un intero nuovo continente del tutto indipendente dalle Indie. Assieme
alle lettere, i Nostri ottennero la copia di una mappa portoghese (allora le mappe erano segreti di Stato) coi dettagli delle coste delle terre scoperte di recente nell’Atlantico Occidentale. Forti di questi dati, Ringmann e Waldseemüller, nell’aprile del 1507 pubblicarono la loro Introduzione alla Cosmografia corredata da una mappa del mondo. L’opera era scritta in latino e comprendeva il testo, anche quello in latino, delle Lettere. In una prefazione a queste ultime Ringmann scrisse: «Non vedo alcun motivo per cui alcuno possa disapprovare a ragione di un nome derivato da quello di Amerigo, lo scopritore, un uomo di genio sagace. Una forma appropriata sarebbe “Amerigae”, che significa “Terra di Americo”, oppure America, per via del fatto che sia l’Europa che l’Asia hanno ricevuto nomi di donna». Della mappa del mondo furono stampate mille copie con il titolo Geografia Universale secondo la tradizione di Tolomeo ed i contributi di Americo Vespucci ed altri. La mappa era decorata
coi ritratti di Tolomeo e Vespucci e, per la prima volta il nome America designava il Nuovo Continente. Introduzione e mappa ebbero una grande eco, tanto che nel solo primo anno vennero stampate quattro nuove edizioni. Fu adottata nelle Università ed imitata da molti cartografi per la sua accuratezza e qualità artistica. Ma la consacrazione definitiva del nome «America» doveva venire quando Gerardus Mercator, destinato a produrre una proiezione della superficie terrestre che ancor oggi domina le rappresentazioni geografiche e porta il suo nome, avrebbe adottato il nome «America» tanto per la parte meridionale quanto per quella settentrionale del Nuovo Mondo. Molti fra coloro che sostenevano Colombo scrissero che Vespucci aveva scippato l’onore che giustamente apparteneva al genovese. Se così fu, certo non fu colpa di Vespucci e della sua vanagloria. Pare infatti che Vespucci non fosse nemmeno al corrente della pubblicazione della mappa al momento della sua morte nel 1512. Inoltre, para-
dossalmente, molti studiosi ritennero per secoli che non fosse nemmeno l’autore delle lettere al Soderini. Per quanto nessuno disputi il fatto che Vespucci in qualche modo effettivamente effettuò almeno due dei viaggi descritti nelle lettere, dei quattro ivi menzionati solo due sono infatti confermati da altre ed indipendenti fonti. Dubbi e controversie si sono susseguite anche riguardo l’attendibilità autografa delle Lettere: da chi sostiene che queste furono un copia-e-incolla da una varietà di fonti autentiche a chi pensa si sia trattato di un’operazione di editing pesante da parte degli editori fiorentini – insomma, grande lavoro per filologi e tessitori di fine lana caprina attraverso i secoli fino a quando, nel 1924, Alberto Magnaghi dimostrò in maniera convincente l’autenticità delle Lettere nella loro interezza. Si era a 250 anni di distanza dalla morte di Vespucci, e ancora c’è chi mette in dubbio alcuni dettagli del testo originale. Di certo sappiamo che Amerigo Vespucci era approdato a Siviglia nel 1488
dopo aver svolto una serie di incarichi per conto di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici. Qui avrebbe dovuto controllare l’operato dell’agente dei Medici ma finì per farsi coinvolgere con il sostituto di questi – il mercante Gianotto Berardi del quale divenne poi socio. Berardi era uno dei finanziatori dei viaggi di Colombo che – peraltro – gli fruttarono più debiti che profitti. Con la morte di Berardi Vespucci ne assunse il ruolo di esecutore testamentario. Fra debiti da pagare e debitori recalcitranti, il Nostro deve aver ad un certo punto pensato che fosse ora di cambiar aria e prendere letteralmente il largo. Fra il 1497 ed il 1504 compì – o così abbiam visto pare – ben quattro viaggi nel Nuovo Mondo. Il 22 marzo 1508 Ferdinando II d’Aragona finalmente lo insignì del titolo di Grand’Ammiraglio dell’Impero Spagnolo. Fu così che l’America ottenne il suo nome. Nomen omen: pensate a come sarebbero andate le cose se l’avessero chiamata Vespuccia.
Non per batterci il petto ma per imparare dall’esperienza e utilizzare le risorse della resilienza. Un termine diventato ormai abituale ma non per questo veramente compreso. Usato nella Fisica dei metalli, indica la capacità di riprendere, dopo un urto deformante, la forma iniziale. Noi l’urto l’abbiamo ricevuto di certo ma non credo che riprenderemo mai la forma iniziale perché tutto quello che accade ci modifica, nulla viene dimenticato. Si tratta piuttosto di diventare migliori. Non dopo, ma subito. Oggi propongo di partire dai più piccoli, dai bambini. Non perché siano più deboli e fragili ma piuttosto perché sono i più tosti. Dotati di una mente plastica e curiosa, programmati per conoscere e fare , disposti a sbagliare e ricominciare, possono funzionare da battistrada , insegnarci come si fa a risollevarsi dopo una caduta con qualche livido ma più vispi di prima. La lettera precedente («Azione» n.11) si
concludeva con un invito a ragionare senza lasciarci travolgere dall’ansia, un’apprensione vaga e diffusa, ammettendo invece la paura di una minaccia determinata , in questo caso il virus contrassegnato da una targa prestigiosa: Covid-19. Che cosa ne pensano in proposito i bambini? Più svelti di noi, utilizzando carta e pennarelli, se lo sono già raffigurato come una palla scura dotata di mille aculei, un porcospino malvagio. Ma non si sono fermati lì, lo hanno anche raccontato in una storia a lieto fine: l’arrivo di altri rassicuranti mostriciattoli che, schierati come l’esercito nordista dei film western, al grido «Arrivano i nostri» sconfiggono il nemico. La trama è risaputa ma ogni bambino la disegna e racconta a modo suo. In questo modo riesce da solo a trasformare l’ansia fluttuante in un avversario che, una volta identificato, può essere combattuto e vinto. Come? Unendo le forze, mettendoci insieme, restando
compatti, solidali e obbedienti come un esercito motivato ed efficiente. Proprio quello che, in questi frangenti, dovremmo fare noi adulti, ma che non sempre ci riusciamo per noia, pigrizia, insofferenza, incapacità di pensare l’impensato. Sono allora i bambini a insegnarcelo utilizzando la grande risorsa della fantasia, una forma di pensiero che trova spiragli di libertà anche nella fortezza più serrata. Perciò quando vostro figlio o nipotino vi chiederà «Cos’è il coronavirus ?» Rispondetegli «tu che ne dici?» e statelo ad ascoltare. Anche da loro c’è tanto da imparare.
compartimento stagno, per il bene suo e altrui. Certo, le regole precauzionali, limitare le uscite, evitare gli assembramenti, lavarsi le mani, controllare starnuti e tosse valgono per l’intera popolazione. Nei confronti degli anziani, però, comportano effetti psicologicamente insidiosi. Provare per credere, appunto. Prende corpo, in quest’esilio domestico, la consapevolezza della propria fragilità, promossa a pericolo pubblico. Scatta, per lui, un campanello d’allarme, cui è gioco forza arrendersi. Per quanto mi concerne, è risuonato due settimane fa, l’ultima volta che sono scesa in centro città. All’edicola, dove compio il rito acquisto quotidiani, la venditrice osserva: «Troppa gente in giro, i vecchi farebbero meglio a starsene a casa». Incasso il colpo. Da allora mi sono rintanata, concedendomi brevi uscite nelle strade della privilegiata e verde periferia, dove abito. Intanto, la lettura dei giornali, più che
mai compagni di vita, mi sta confermando quanto sia complessa e delicata l’operazione «vecchi a casa». Si sta prestando a interpretazioni ad ampio raggio. Gaffe comprese. A cominciare da quella di Boris Johnson che dà per scontato «il sacrificio dei più deboli». Commentandola sul «Foglio», Giuliano Ferrara denuncia un proposito addirittura darwiniano, teorico dell’evoluzione e selezione. Detto cinicamente, il virus contribuirebbe a una «grande scrematura»: via i vecchi per far posto ai giovani. Al di là di questa provocazione, altri opinionisti scelgono toni più pacati non però, al riparo da un certo paternalismo. Come nel caso di Ferruccio de Bortoli che, sul «Corriere della Sera», ringrazia «i nostri cari anziani». Confesso la mia allergia per quel «caro», con cui ormai da anni vengo apostrofata. Sottolineando, appunto, l’appartenenza a una categoria specifica, con la quale devo ragionevolmente fare i conti.
Mentre, sempre in tema di reazioni mediatiche, apprezzo l’impegno di Fabio Pontiggia che, sul «Corriere del Ticino», commenta, ogni giorno, con sobrietà, una situazione che a molti fa perdere la testa. Esempio sconcertante, il «The Guardian», giornale progressista londinese, che, attingendo a fonti segrete, afferma che l’epidemia durerà oltre un anno e colpirà l’80% degli inglesi, e non solo loro. Catastrofismi e complottismi a parte, la pausa virus invita, innanzitutto gli anziani, in prima fila loro malgrado, ad accettare la precarietà di un’esistenza ormai al termine. E, in pari tempo, aiuta a rivedere pregiudizi nei confronti di quelli che si consideravano vizi delle giovani generazioni. Alludo all’uso dei mezzi informatici, social compresi, che si stanno rivelando compagni preziosi, gli unici che ci consentono di lavorare e comunicare. Un vantaggio non da poco: utile, consolatorio.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Nell’emergenza impariamo dai bambini Cari lettori della «Stanza del dialogo», per anni ci siamo incontrati sulle pagine di questo giornale come fosse un luogo reale e, senza conoscerci di persona, abbiamo condiviso gioie e dolori, delusioni e speranze. Mai avrei immaginato che comunicare a distanza sarebbe diventato il modo più diffuso di stare insieme, parlare, ascoltare, approvare e discutere. Ma un’improvvisa, destabilizzante pandemia ha travolto come una bufera il modo consueto di organizzare il presente e progettare il futuro. Colti di sorpresa, la nostra prima reazione è stata di ignorarla e successivamente, di fronte alla sua inesorabile espansione, di considerarla un danno irreparabile. Ora si pone il compito più difficile: trasformarla in una risorsa. Non sarà facile perché stiamo affrontando un comando contraddittorio: state distanti nello spazio esterno del lavoro, dei trasporti, del tempo libero e state vicinissimi nello spazio interno, nella casa e nella famiglia. Due opposte modalità
di convivenza che, sperimentali in questo periodo di emergenza, cambieranno anche il dopo. L’importante è approfittare di questa sosta forzata per riflettere e prospettare altri possibili stili di vita. In proposito la poetessa Mariangela Gualtieri ci aiuta ad assumere innanzitutto le nostre responsabilità. Nove marzo duemilaventi Questo ti voglio dire ci dovevamo fermare. Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti ch’era troppo furioso il nostro fare. Stare dentro le cose. Tutti fuori di noi. Agitare ogni ora – farla fruttare. Ci dovevamo fermare e non ci riuscivamo. Andava fatto insieme. Rallentare la corsa. Ma non ci riuscivamo. Non c’era sforzo umano che ci potesse bloccare.
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Proteggere gli anziani: ma come? Diversi anni fa, durante un incontro alla Biblioteca di Lugano, mi sono trovata accanto a Giorgio Orelli. Aveva, da poco, compiuto 90 anni, in piena forma. Mi venne spontaneo congratularmi, del resto sinceramente perché l’ammiravo, come poeta e come persona. Lui, spazzando via la retorica della vecchiaia invidiabile, rispose: «Provare per credere». Insomma, se non ci sei dentro, non puoi capire. Ora, per circostanze del tutto imprevedibili, quella battuta ritrova una nuova attualità, non più come esperienza individuale, ma collettiva. L’anziano, per usare una definizione più morbida, ne è diventato un protagonista, ma in termini ben diversi, da quelli cui si era abituati negli ultimi decenni, quando la terza età rappresentò una stagione, a suo modo felice, sia per il diretto interessato sia per la società e l’economia. Dopo le fatiche del lavoro, si apriva, grazie non di rado al pensionamento anticipato, una quotidianità a
proprio uso e consumo: non quiescenza bensì tempo libero. Da riempire, approfittando delle offerte di un turismo ad hoc, di un mercato del benessere, con palestre, diete, cosmetici, interventi chirurgici. Cioè una panoplia di rimedi «antiage», con cui inventarsi una sorta di gioventù illimitata. Parlo, e mi scuso, in prima persona, perché la mia generazione ha vissuto quell’illusione, contribuendo al fenomeno di una longevità che, d’altro canto, doveva gravare sull’apparato pensionistico e sanitario. Però ha funzionato, sino all’altro ieri. Ecco che, sotto l’urto di un’emergenza impellente, la figura dell’anziano cambia connotati passando da protagonista attivo a passivo. Sulla scorta di constatazioni mediche e statistiche ufficiali, le persone al di sopra dei 65 sono verosimilmente più esposte ai rischi legati all’infezione. Da qui una barriera protettiva, certo necessaria, che ne fa una categoria specifica, da isolare in un
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Ambiente e Benessere Arriva il kit di trasformazione Costerà sino a centomila franchi, e ridarà nuova vita alle vecchie mitiche maggiolino, facendole diventare elettriche: il suo nome è ekafer
Una striscia d’oro di vigneti Il successo del vino della Côte d’Or in Borgogna deve tutto al sottosuolo di questa regione
I sapori dell’Abruzzo Dai maccheroni alla chitarra ai famosissimi arrosticini, passando per ricette indiavolate pagina 25
Un amico morbido In futuro le case di riposo potrebbero ospitare vari tipi di animali da compagnia
pagina 19
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Microbiota e cervello sociale Biologia Pubblicato da «Science» uno studio
Lorenzo De Carli Intitolato Microbiota and the social brain, nelle pagine della rivista «Science» in edicola il primo novembre 2019 è apparso un articolo dedicato alla connessione tra il microbiota dell’intestino e l’evoluzione del cervello sociale; un saggio scritto da Eoin Sherwin – docente all’irlandese University College Cork – e da quattro altri ricercatori. Rispetto ad altri studi simili, siamo di fronte a uno scenario innovativo: per un verso, si dà per certo che l’attività del microbiota – vale a dire i microrganismi che vivono nelle nostre vie digestive (ndr. vedi articolo pubblicato su «Azione 11» del 9.03.2020) – produce sostanze (prevalentemente dei metaboliti) che hanno un influsso sul nostro cervello; per l’altro verso, l’esame di questa relazione è spinto dagli autori fino al punto da studiarla in un’ampia varietà di specie caratterizzate tutte da una marcata interazione sociale; partendo dalle api per giungere alla nostra specie, passando per i ratti o per primati evolutivamente vicini a noi. In questa prospettiva evoluzionista, gli autori hanno studiato la relazione tra asse intestino-cervello mediata dal microbiota e il comportamento sociale, osservando che, nel corso della loro evoluzione, gli animali hanno sviluppato un microbiota intestinale tale da aiutarli a interagire con i conspecifici. Secondo gli autori, la relazione tra il microbiota intestinale e il comportamento sociale può aiutare a spiegare i deficit sociali osservati in soggetti che soffrono di disturbi dello spettro autistico (ASD) e potrebbero potenzialmente portare allo sviluppo di nuove terapie per tali condizioni. Grazie in particolare alla rapida riduzione dei costi per il sequenziamento del DNA, negli ultimi anni l’insieme dei geni del microbiota intestinale (vale a dire il microbioma) è stato studiato con sempre maggior acribia, ed è emerso che i microrganismi che risiedono nel nostro intestino possono comunicare con il cervello in tre modi: prima di tutto con la produzione di metaboliti microbici, quindi con l’attivazione del nervo vago e poi con la modulazione della risposta immunitaria. Stress, ansia, umore, apprendimento e memoria, stati del cervello che fino a qualche anno fa tendevamo a ritenere pertinenti solo con il sistema nervoso centrale, oggi sappiamo che hanno una relazio-
ne con il microbiota e che si tratta di una relazione biunivoca. Passando attraverso la barriera intestinale, cellule del sistema immunitario comunicano con il cervello per mezzo di citochine; il nervo vago che collega l’intestino al cervello risponde alle sollecitazioni dei muscoli enterici nonché alle cellule nervose dell’epitelio intestinale; mentre i metaboliti prodotti dai batteri intestinali sono anch’essi in grado di raggiungere il cervello. Quest’ultimo, invece, dispone di un potente mezzo d’interazione con l’intestino: il cortisolo. L’esame dettagliato dei meccanismi che regolano la comunicazione lungo l’asse microbiota-intestino-cervello sono oggetto della prima parte dello studio, compilato tenendo conto dell’esito delle ricerche più recenti in questo campo. Per quanto riguarda il ruolo del microbiota stesso, gli autori sottolineano quanto vasto e rilevante per l’interazione con il cervello sia il numero dei metaboliti prodotti dal nostro intestino, metabolizzando ciò che beviamo e mangiamo. Gran parte della serotonina, per esempio, il neurotrasmettitore che svolge numerose funzioni che vanno dalla regolazione del tono dell’umore, del sonno, della temperatura corporea, all’empatia e all’appetito è prodotta dal nostro microbiota. I numerosi studi presi in esame da Eoin Sherwin hanno documentato che cosa succede lungo l’asse microbiotaintestino-cervello dei roditori nella condizione in cui venga loro deliberatamente soppresso il microbiota per mezzo della somministrazione di antibiotici, ottenendo in tal modo la condizione cosiddetta «germ-free». In questi topi sono stati rilevati comportamenti sociali diversi rispetto ai roditori nei quali il microbioma è rimasto intatto. Viceversa, in animali trattati con batteri benefici come Bifidobacterium e Lactobacillus gli autori hanno osservato che è migliorato il comportamento sociale. Questi risultati suggeriscono che i segnali microbici possono influenzare il neurosviluppo e il funzionamento del cervello. Se i risultati evidenziati nella prima parte dell’articolo sono nel solco di una recente tradizione di ricerca che promette di essere ancora ricca di scoperte, la seconda parte ha caratteristiche molto originali perché studia l’interazione microbiota-ospite nel
Keystone
sul ruolo del microbiota negli animali sociali
regno animale in relazione al comportamento sociale delle specie prese in esame. La tesi sostenuta è che, non solo composizioni diverse del microbiota producono comportamenti sociali diversi, ma che taluni comportamenti si sono evoluti allo scopo di condividere, attraverso la trasmissione diretta tra i soggetti, specifici microbioti funzionali ai modelli d’interazione sociale più consono a certe specie. Per esempio, nelle api da miele l’interazione sociale promuove il trasferimento di microbi che conferiscono resistenza ai patogeni, mentre nelle termiti la socialità consente la trasmissione del microbiota per favorire la digestione degli alimenti. L’interazione sociale studiata da Eoin Sherwin e i suoi colleghi non è solo quella correlata al microbiota intestinale bensì anche a quella in relazione con il microbiota cutaneo. Sulla nostra pelle, per esempio, sono presenti diverse specie di batteri che contribuiscono a mantenerla sana. Ognuno ha un proprio microbiota individuale, unico come le impronte digitali. Ebbene, ci sono ani-
mali che potrebbero essersi evoluti per usare i batteri allo scopo di comunicare con i membri della loro specie: per esempio, i batteri nelle ghiandole odorose delle iene producono composti volatili che agevolano la coesione sociale tra i membri del branco; mentre, invece, il microbiota del pesce zebra ha dimostrato di influenzare il comportamento collettivo del banco di pesci. Lo studio di quanto accade sull’asse microbiota-intestino-cervello è in continua evoluzione. Si è osservato che la somministrazione di alcuni tipi di probiotici – in particolare Bifidobacterium e Lactobacillus – ha prodotto effetti positivi su stress, ansia e depressione in studi condotti sia sugli animali, sia sull’uomo. In un tempo nel quale si sta facendo ampio uso di psicofarmaci, sono sicuramente di grande interesse gli studi che stanno esaminando se la composizione del microbiota intestinale può aiutare a prevedere la suscettibilità di un individuo allo stress. In questo contesto di ricerca, non è meno rilevante il fatto che i prebiotici
(sostanze, contenute in alcuni alimenti, che promuovono la crescita o l’attività di batteri intestinali benefici) si sono rivelati in grado di cambiare la composizione e la funzione del microbiota. Il trattamento di animali o persone con prebiotici come inulina, amido resistente e altre fibre alimentari ha comportato una riduzione di stati come l’ansia e la depressione e un miglioramento delle attività cognitive e dell’apprendimento. Ma occorre continuare ad approfondire gli studi perché, per ora, non è affatto chiaro come i prebiotici influenzino il cervello e il comportamento, così come non è chiaro quali metaboliti prodotti dal nostro microbioma siano coinvolti. Ciò che nondimeno sta emergendo con chiarezza è che stile di vita e stile di alimentazione influiscono sul nostro microbiota, il quale concorre a modulare il nostro umore, e che prebiotici e probiotici possono modificare positivamente microbioma intestinale, con la conseguenza di influenzare la nostra relazione con noi stessi e con gli altri.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Ambiente e Benessere
La nuova giovinezza del Maggiolino Motori Nata nel 1938, è rimasta in produzione sino al 2003 e ora può tornare in strada elettrificata:
parliamo della Volkswagen Typ 1
Mario Alberto Cucchi Maggiolino oppure Maggiolone, Käfer per i tedeschi, Beetle per gli inglesi, Kever nei Paesi Bassi, Cocinelle per i francesi, Fusca per i brasiliani. È sempre lei, la Volkswagen Typ 1 nata nel 1938 e rimasta in produzione sino al 2003. Indubbiamente è l’automobile tedesca più conosciuta al mondo. Ne sono stati costruiti in tutto oltre 21 milioni di esemplari. Nel 1999 è stata nominata tra le cinque automobili più influenti del XX secolo. La disegnò Ferdinand Porsche, a cui fu commissionata la realizzazione di una vettura con queste caratteristiche: capacità di trasportare cinque persone o tre soldati e un mitragliatore, viaggiare oltre i 100 chilometri orari consumando in media 7 litri per 100 km e non avere prezzo superiore ai 1000 Reichsmark. Un operaio guadagnava in media 130 Reichsmark al mese. Non parliamo del Maggiolino solo per amarcord, ma perché c’è una novita: chi oggi ha ancora un Maggiolino in garage potrebbe donargli una seconda giovinezza. In un momento in cui numerosi automobilisti prendono in considerazione l’idea di passare alla «trazione» elettrica, pare divenire concreta la possibilità di trasformare la vecchia auto sostituendo il motore a scoppio con uno elettrico. Come? Ad esempio, grazie al progetto eKafer nato dalla collaborazione tra Volkswagen e l’azienda tedesca
eClassic (www.e-classics.eu). Quest’ultima è specializzata proprio nella conversione di veicoli elettrici. La base di partenza è la meccanica utilizzata sulla Volkswagen e-Up venduta nelle concessionarie. Si tratta quindi di un motore moderno e affidabile di grande produzione che sostituisce il gruppo propulsore a benzina tolto dall’auto. I quattordici pacchi batterie, per una potenza totale di 36,4 kWh sono collocati nella parte inferiore del telaio stesso. Il cambio come per tutti i veicoli elettrici è esclusivamente automatico. E le prestazioni? Sono simili a quelle del modello originale per potenza e velocità massima. In totale silenzio e senza consumare un goccio di benzina può infatti raggiungere i 150 orari grazie a una potenza massima di 82 cavalli. Quello che cambia è l’autonomia, su questa versione elettrica è di 200 chilometri. Quanto basta per un utilizzo a breve e medio raggio. Tutto è stato studiato dai progettisti Volkswagen perché si tolgano le vecchie parti per piazzare al loro posto facilmente le nuovi componenti più tecnologiche e meno ingombranti. Bisogna capire se Volkswagen riuscirà in modo ufficiale a predisporre tutte le pratiche relative alla ri-omologazione del Maggiolino in versione elettrica nelle varie nazioni. L’obiettivo ambizioso sarebbe quello di riuscire a far montare il kit elettrico direttamente nelle concessionarie Volkswagen. Il costo del kit di trasformazione?
Bisogna capire se Volkswagen riuscirà in modo ufficiale a predisporre tutte le pratiche per le ri-omologazioni internazionali.
Da nababbi. A seconda di quello che si vuole fare per una eKafer si possono spendere sino a 100mila franchi. Va detto che per rendere la trasformazione davvero appetibile non andrebbero
superati i 10mila franchi. Al di là di questo, l’importante per mantenere il valore collezionistico è ricordarsi di mettere da parte tutte le parti originali con tanto di spinterogeni e carburatori.
Costo a parte, una cosa è certa: oggi più che mai l’idea anticonsumistica di riportare in vita il proprio Maggiolino rendendolo 2.0 ed ecologico piace a molti appassionati. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Ambiente e Benessere
La spiritualità senza tempo di Maheshwar
Reportage Nella piccola cittadina indiana attraversata dal fiume sacro Narmada si vive una sincera spiritualità
non compromessa da luoghi comuni Teresa Frongia In India ci sono diversi fiumi sacri quasi tutti con nomi femminili che rappresentano divinità induiste venerate dagli indiani i quali, come da tradizione, si immergono nelle loro acque per purificarsi dai propri peccati. Tra i fiumi sacri più conosciuti primeggiano il Gange e lo Yamuna. Il primo è la vera anima dell’India; attraversa la città di Varanasi e nelle sue acque si immergono milioni di fedeli provenienti da tutto il paese, qui si celebrano anche le cremazioni e i funerali. Lo Yamuna, oltre ad essere il fiume più fotografato dell’India per le albe e i tramonti che si riflettono nelle sue acque, vanta anche il triste primato di essere il fiume più inquinato al mondo. Un altro fiume sacro meno conosciuto ma non meno importante è il Narmada che attraversa gli stati federali di Madhya Pradesh, Maharashtra e Gujarat e segna il confine tra il sud e il nord dell’India. Nello Stato di Madhya Pradesh il fiume bagna Maheshwar, una cittadina di circa 20mila abitanti nel distretto di Khargone. La città si disloca in due zone: quella nuova e moderna ben servita da negozi, alberghi e ristoranti e la parte antica che si affaccia sui ghat del Narmada, ed è proprio sulle scalinate (i ghat, appunto) che ruota la vita della città. Qui si possono apprezzare splendidi esempi di architettura Maratha come il tempio di Shiva all’interno del Fort Queen fatto costruire dalla regina Ahilyabai durante il suo governo. Tra le decine di templi sacri che testimoniano l’importanza storica e artistica di Maheshwar sono degni di nota il Rajarajeshwari e il Badrinath che ospitano il festival indù Vijayadashami durante il quale si celebra la vittoria del dio Rama contro il malvagio Ravana. In occasione di questo evento la città ospita migliaia di fedeli che arrivano da ogni parte della regione. La cultura induista è infatti fortemente permeata di spiritualità e i pellegrini si uniscono ai locali per ornare le arcate dei templi con ghirlande e i pavimenti degli stessi con rotondi mosaici fatti di petali di fiori colorati, addobbi molto belli da vedere, appetito di mucche e capre permettendo, dato che pare apprezzino tale tipo di spuntino… Dopo la cerimonia religiosa la festa prosegue fino a tarda sera con musica e danze alle quali i devoti fedeli assistono e partecipano con trasporto. Maheshwar meriterebbe più fama rispetto alla celeberrima Varanasi, ma è piuttosto sconosciuta e lontana dalle abituali mete turistiche anche se qui si respira e si vive una spiritua-
Uomini che praticano yoga e meditazione all’alba nei pressi del tempio di Rama. (Stefano Ember)
lità non contaminata da aspettative o pretese di occidentali, come può capitare di incontrare a Varanasi. I ghat di Maheshwar non sono solo una meta di pellegrinaggi e di celebrazioni religiose induiste ma costituiscono il fulcro della vita sociale dei suoi abitanti. Nelle acque del Narmada non ci si immerge infatti solo per purificarsi dai peccati, non è solo un luogo (tra l’altro molto sentito) di preghiera e meditazione ma è una specie di agorà dove gli abitanti condividono gran parte della quotidianità. Nei ghat di Maheshwar le persone si incontrano dunque anche per lavarsi, lavare stoviglie e panni nel fiume, per conversare e consumare i pasti in compagnia, specialmente thali (piatto simbolo dell’India) con del buon tè chai. Tra i comuni panni distesi ad asciugare sulle scalinate dei ghat è possibile vedere anche i sari maheshwari, famosi per la loro colorazione e la speciale tessitura. Le acque del fiume Narmada, oltre a bagnare la città sacra di Maheshwar, rendono fertili le valli che attraversa, infatti Narmada significa fiume d’oro. Purtroppo, però, da più di vent’an-
Uomini praticano yoga all’alba con vista sul fiume Narmada. (Stefano Ember)
ni, i contadini che abitano e coltivano queste valli stanno cercando di porre opposizione contro l’esproprio delle loro terre e delle loro abitazioni, come imposto dal governo centrale di Dehli per dar spazio alla costruzione di decine di dighe. Tali dighe, oltre a privare i
contadini (un milione finora) della casa e del lavoro, costituiscono un grave danno ambientale per la fauna e la flora delle valli, nonché per i pesci che vivono nelle acque del fiume e che sono una importante fonte di sostentamento per la popolazione delle valli del Narmada.
Donne che stendono i sari maheshwariani famosi per la preziosa seta. (S. Ember)
Altro esempio di architettura Maratha con mosaici e ghirlande fatte di petali di fiori. (Stefano Ember)
Come se non bastasse, oltre alle dighe verrà fatto spazio alla realizzazione di fabbriche di multinazionali che non solo contribuiranno ad aumentare l’inquinamento ma priveranno i quattro quinti della popolazione delle valli dell’acqua potabile.
Esempi di architettura Maratha con mosaici e ghirlande fatte di petali di fiori. (Stefano Ember)
Il tempio dove si celebra il festival di Vijayadashami. (Stefano Ember)
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Idee e acquisti per la settimana
L’ABC dell’aglio orsino
È iniziata la stagione dell’aglio orsino. Anna’s Best propone diversi piatti a base di questa erba aromatica. Chi raccoglie da sé l’aglio orsino dovrebbe osservare alcune regole Testo: Heidi Bacchilega Immagini: Claudia Linsi
Il profumo fa la differenza
Dove cresce
L’aglio orsino, anche chiamato aglio dei boschi, figura tra le specie di aglio selvatico più conosciute. Predilige i terreni umidi e la stagione va da marzo a maggio. Le sue foglie sono lunghe fino a 30 centimetri e hanno una forma ovale allungata. Quest’erba cresce prevalentemente in prossimità dei corsi d’acqua e nei boschi di latifoglie.
Il mughetto e il colchico d’autunno hanno un aspetto simile all’aglio orsino, ma non sono commestibili poiché velenosi. Solo l’aglio orsino emana il tipico odore di aglio quando si strofinano le foglie. È così intenso che si trasmette addirittura sulle piante vicine di altre specie. Il mughetto si identifica dalle foglie, che sono più strette rispetto a quelle dell’aglio orsino e presentano nervature longitudinali. Le foglie dell’aglio orsino hanno la parte inferiore opaca, mentre lo stelo è formato da tre spigoli e cavo.
Lavare accuratamente
Le volpi vivono nell’habitat dell’aglio orsino. Tramite le feci diffondono la tenia delle volpi contaminando le piante commestibili come per esempio le erbe aromatiche. È importante lavare accuratamente anche le foglie di aglio orsino per evitare un’infestazione da parassiti.
Impiego
La stagione dell’aglio orsino è breve. Chi desidera prolungarla può preparare ad esempio del burro all’aglio orsino e congelarlo. Così si può assaporarne il gusto marcato anche durante le grigliate in estate. Chi invece desidera congelare le foglie di aglio orsino intere o tritate deve fare attenzione a conservarle in una confezione ermetica per non trasmettere l’aroma intenso al resto del contenuto del congelatore.
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Idee e acquisti per la settimana
Pizza all’aglio orsino e prosciutto crudo Preparare la pizza seguendo le istruzioni sulla confezione. Tagliare l’aglio orsino fresco a striscioline sottili e distribuirlo sulla pizza pronta insieme al prosciutto crudo.
Spätzli all’aglio orsino con uovo al tegamino Preparare gli spätzli seguendo le istruzioni sulla confezione. Cuocere l’uovo al tegamino. Tagliare il parmigiano in trucioli con un pelapatate. Condire l’uovo con fleur de sel e una miscela di pepe e fiori. Servire con il parmigiano.
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Cucina veloce per amanti dell’aglio orsino Risotto all’aglio orsino con spugnole Preparare il risotto seguendo le istruzioni sulla confezione. Scaldare il burro. Unire alcune spugnole fresche o essiccate e precedentemente messe a mollo e stufarle. Aggiungere un mazzetto di aglio orsino e continuare a stufare. Distribuire le spugnole e l’aglio orsino sul risotto e portare in tavola.
Crostini con ricotta e aglio orsino Tagliare la baguette a fette e tostarle o abbrustolirle in una padella per grill. Mischiare la ricotta con un po’ di scorza di limone e sale fino a ottenere un composto cremoso. Distribuire la ricotta e il pesto all’aglio orsino sui crostini. Servire con fettine di ravanelli e nocciole tritate.
Spätzli all’aglio orsino Anna’s Best Saison 500 g Fr. 3.50
Pizza al pesto di aglio orsino Anna’s Best Saison 410 g Fr. 6.90
Pesto all’aglio orsino Anna’s Best Saison 150 ml Fr. 3.30
Risotto all’aglio orsino Anna’s Best Saison Vegi 365 g Fr. 4.90 Azione
Punti Cumulus moltiplicati per 20 dal 24 marzo al 6 aprile
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Ambiente e Benessere
I vigneti della Côte d’Or
Scelto per voi
Bacco giramondo Li chiamano «scoscendimenti», ma i loro sottosuoli sono miniere «d’oro»
che danno vita a grandi vini Davide Comoli La Côte d’Or (in italiano Costa d’Oro) in Borgogna è una stretta striscia di vigneti, orientata da est a sud-est, che si estende da Digione verso nord sino a raggiungere il limite del dipartimento, passando per Beaune. Questa «Côte» segna il limite est delle foreste e delle colline, poste a costituire la matassa delle alture borgognone, e finisce nel villaggio di Santenay. La vasta pianura, formata dal fiume Sâone si stende ai suoi piedi verso est. Quello che i geografi chiamano «scoscendimenti» in verità si trovano su un sottosuolo costituito da materia molto ricca, fattore principale dell’eccezionale qualità dei vigneti. Il sottosuolo è infatti composto da marne e due tipologie di rocce calcaree. Questi scoscendimenti variano dai 150 metri ai 400 metri, ma i migliori terreni sono quelli a metà costa. Fattore tutt’altro che secondario che dà prestigio alla Côte d’Or è la sua vicinanza ai grandi assi viari: i vigneti infatti si trovano lungo la via che da due millenni collega il nord delle Fiandre al sud della Provenza e (se vogliamo), da Roma a Parigi, via inaugurata dalle legioni romane. Grazie alle A6 e A31 (autostrade) e le nazionali 6 e 74, oggi a
questa regione viene evitato il traffico automobilistico di cui soffrono (non solo in Francia) tante regioni rurali. Come la geografia, anche la storia è stata importante per questo dipartimento: la regione fu infatti uno dei primi centri della vita monastica in Francia, che vide prima dell’anno 1000 la costruzione della grande abbazia Benedettina di Cluny nel Mâconnais; e nel 1098 l’abbazia di Cîteaux, prima casa dell’ordine Cistercense nei pressi di Nuits-St-Georges. Nello stesso anno l’abbazia entrò in possesso del suo primo vigneto a Meursault e qualche anno dopo sotto l’egida del loro Padre superiore Saint Bernard, aumentarono i loro possedimenti. Il contributo dei Cistercensi fu di capitale importanza per la rinomanza del vigneto borgognone. Anche se essi non furono di certo i primi a coltivare la vigna nella Côte d’Or. Già i Romani avevano portato l’arte della viticoltura in questa zona (a giudicare dai numerosi i reperti ritrovati), e Carlo Magno in seguito aveva reso famosi i suoi vini. In ogni caso, ribadiamo il concetto dell’importanza dei Cistercensi, che dopo aver recintato (enclos) parecchie vigne, eressero nel 1330 la cinta muraria che ancora oggi recinta il mitico Clos de Vougeot. Sperimentando e migliorando
Un pezzo della mitica cinta muraria del Clos de Vougeot. (Michal Osmenda)
con degli scritti, i Cistercensi hanno fatto dei vini della Côte d’Or dei vini prestigiosi. Non solo i suoi «maestri» spirituali aiutarono la viticoltura in Borgogna, questa regione deve molto anche ai suoi «sovrani» temporali: a partire dai duchi di Valois alla fine del Medioevo. Nel 1375 Filippo l’Ardito, incoraggiava la coltivazione del Pineau l’antenato del Pinot Nero, proibendo la coltivazione del Gamay, vitigno prolifico, ma mediocre di qualità. La Rivoluzione, deportando i monaci, frazionerà i loro vigneti sulla Côte d’Or, e dopo Napoleone pochi «clos» resteranno in mano a unici proprietari. La Côte d’Or è divisa in due parti: la Côte de Nuits a nord (22 km) e la Côte de Beaune (25 km) a sud, due A.O.C. sono situate a ovest sul costone principale: Hautes Côtes de Nuits e Hautes Côtes de Beaune. La Côte de Nuits produce quasi esclusivamente vini rossi, mentre la Côte de Beaune produce vini sia rossi sia bianchi. Pinot Nero (rosso) e Chardonnay (bianco) sono i due vitigni principali. Divisa a metà dalla città di Beaune, da visitare a piedi, con il suo Hôtel Dieu, che è l’emblema della regione, i suoi dintorni sono cosparsi di villaggi che danno il nome ai vigneti o viceversa. Ogni villaggio (almeno la maggior parte), possiede la sua A.O.C., così come le numerose designazioni di luoghi o di vigneti, dove i più famosi si fregiano del titolo di Premier cru, o meglio ancora quello di Grand Cru. Luoghi speciali per chi ama il vino e tutto quello che è legato a questa bevanda, dove tra le vigne e le cantine puoi respirare la storia dell’uomo. Nonostante i vitigni (Pinot Nero e Chardonnay) siano gli stessi tra un vigneto all’altro, lo stile dei vini è diverso per via del terreno, ma anche della forte individualità, tra i vari produttori. Qui, produttori, enologi, negozianti, grandi o piccoli che siano, hanno ciascuno la propria opinione su come deve essere un grande vino di
Borgogna. Il mio consiglio: visitarne molti e non fermarsi solo a qualche grande etichetta. La regola generale è che i vini guadagnano in complessità, in prezzo e potenzialità d’invecchiamento in funzione del luogo dove viene classificato il vigneto di produzione, tant’è vero che alle volte si possono trovare dei Premiers cru scialbi, al confronto di uno splendido A.O.C. village. Chiara dimostrazione di come la mano dell’uomo e il rendimento che si domanda alla vigna sia determinante con la qualità intrinseca del terreno. Anche le condizioni climatiche sono un altro fattore della diversità dei millesimi nella stessa regione. Un’ottima annata a Gevrey-Chambertin nella Côte de Nuits, non è necessariamente anche un’ottima annata a Pommard, nella Côte de Beaune, infatti le condizioni climatiche in questa zona hanno effetti locali. È molto raro che un Grand cru della Borgogna abbia la longevità di un Grand cru del bordolese; normalmente un grande vino borgognone raggiunge il suo apogeo tra i 12-15 anni d’invecchiamento (ci è capitato di provare qualcuno con più di 20 anni, erano però piacevoli eccezioni). Le normali «appellations comunale» vengono stappate generalmente dopo 3-5 anni di permanenza in bottiglia, sia per i rossi sia per i bianchi. I rossi di Borgogna (Pinot Nero) sono vini fragili, quindi bisogna avere molta cura sia per la conservazione sia per il trasporto, soprattutto se vengono inviati in paesi molto caldi. I grandi bianchi (Chardonnay) invecchiano di più di quanto possa far pensare il loro colore. Non può comunque l’amatore di questa tipologia di vini lasciare il ristorante Montrachet nell’omonimo villaggio senza innaffiare il succulento piatto delle locali «escargots» (all’aglio, burro e prezzemolo) con uno Chardonnay che porta lo stesso nome sopracitato e che si libera in bocca con degli aromi potenti, ricchi che ne esaltano la freschezza… sarebbe un peccato mortale.
Vellodoro (Pecorino)
Al confine con il Molise, troviamo la D.O.C. Terre di Chieti. Ci troviamo in Abruzzo dove questa zona è considerata la maggior produttrice di vino della regione. Il nome Pecorino sembra derivi dalla forma del grappolo, che in apparenza è simile a quella di una testa di pecora. Il Vellodoro, vino prodotto con metodo biologico dalla Umani Ronchi di Osimo (AN), azienda leader nel campo vitivinicolo mondiale, è prodotto in tre milioni di bottiglie all’anno. Quest’uva, di antica tradizione, è stata rivalutata nell’ultimo decennio, grazie anche alla volontà di tornare a produrre vino dai vitigni autoctoni, di alcuni produttori del centro-est italiano, con tanti sacrifici e tempo. Vitigno non così grasso e produttivo, il Pecorino ci dà dei vini di struttura e intensità gusto-olfattiva molto equilibrati. Il Vellodoro non ci vuol stupire per potenza ed espressività, ma con un accenno di frutta non troppo dolce, una sfumatura erbaceo/floreale e una sapidità che ci seduce. Ottimo con piatti di pesce cucinati in modo semplice, primi piatti di pasta e, visto l’avvicinarsi della primavera, con zuppe di legumi. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 16.50. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
L’Abruzzo in tavola La cucina abruzzese non è tra le più note. Conosciamola un po’. Tra le preparazioni di cui si sente più spesso parlare ci sono senza dubbio i maccheroni alla chitarra, realizzati con un apposito strumento di legno munito di fitti fili d’acciaio – la chitarra appunto – sui quali si stende l’impasto di farina e uova, pressandolo poi con il matterello. Ma nel ricco assortimento dei primi asciutti figurano anche gli gnocchetti di cacio e uova, forse gli antenati della pasta alla carbonara; i pappicci, tagliatelle senza uova lessate con il pomodoro e condite con lardo e cipolla; i ravioli all’aquilana, farciti con ricotta, un formaggio molle, parmigiano e salvia.
L’anima marinara della cucina abruzzese abbonda ovviamente anche di ricette a base di pesce Verdure e legumi, spesso cucinati in brodi di carne, costituiscono gli ingredienti principali di zuppe e minestre: come la zuppa di cardi condita con uova, formaggio e limone; la minestra di cardi, cotta in brodo di tacchino con carne trita di maiale e fegatini di pollo; il minestrone pescarese, un misto di legumi con piedini di maiale; le gustose e complesse virtù teramane, preparate a maggio cuocendo legumi misti ed erbe aromatiche; le scrippelle ‘mbusse, crespelle condite con formaggio e immerse in brodo bollente. Non meno variegati e appetitosi sono pure i secondi piatti, spesso a base di maiale e agnello. Dal maiale si ricavano salumi e insaccati di vario tipo, dalle amoje (salsicce di trippa piccanti) al capocollo, dalla coppa (preparata con cotiche e altre parti minori del maiale) alla sal-
siccia di fegato dolce e alla ventricina. Sulle tavole compare anche il maialino arrosto. Non meno spazio trova l’agnello arrosto o fritto, cucinato alla cacciatora o brodettato (con uova e limone). Con la carne di pecora, tagliata a dadini infilati su spiedi e cotti su braci, si ottengono i famosi arrosticini (nella foto). Il tacchino alla canzanese è una ricetta complessa e originale, per la quale l’animale viene disossato e arrotolato, disposto in una teglia sopra le sue ossa e cotto a lungo in forno, infine servito con la gelatina ottenuta dal fondo di cottura. L’anima marinara della cucina abruzzese abbonda ovviamente anche di ricette a base di pesce, a cominciare dai brodetti di pesce misto fino ad arrivare allo scapece alla vastese, una conserva di pesce crudo (palombo o razza, stagionati per due mesi con zafferano, peperoncino e sale). Le cicale vengono servite con olio, limone, sale e peperoncino; le triglie stufate con zafferano, marinate, o cotte sulla brace (sul focone); i calamari cucinati in umido con pomodoro, aglio, prezzemolo, diavolillo e funghi secchi; i polpi cotti «in purgatorio» (olio, aglio, peperoncino, passata di pomodori e prezzemolo). Cardi, broccoli, pomodori, melanzane e peperoni sono le verdure più diffuse e vengono preparati in vari modi (le melanzane, per esempio, vengono servite in timballo con prosciutto crudo e scamorza, i peperoni cotti in graticola vengono impanati in uovo e farina, quindi dorati in padella); abbondanti anche i legumi: lenticchie nere di S. Stefano di Sessanio, piccole e tenerissime, cicerchie, fagioli, ceci, fave, piselli compaiono in vari piatti. Ricca la produzione di formaggi di pecora, capra e mucca: dalla ricotta di pecora ai caprini freschi di Farindola, alle caciotte miste di pecora e vacca, alle golose burrelle; fanno loro degna compagnia pecorini e caciocavalli, affiancati dalle celebri scamorze, dette mozzarelle, e mangiate crude o alla griglia.
CSF (come si fa)
Fugzu
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Marica Massaro
Gastronomia Una cucina ricca di sapori intensi e talvolta anche un po’ indiavolati
E vediamo come si fanno i maccheroni alla chitarra, di cui parlo qui accanto. Ricordo che maccheroni è il termine con cui si indicano diversi formati di pasta secca di grano duro, generalmente di produzione industriale, accomunati dalla forma a tubo, di varia lunghezza e dimensione, rigati o meno (per esempio sedani, rigatoni, ziti eccetera). In Italia meridionale, però, il termine «maccheroni» indica qual-
siasi tipo di pasta alimentare, lunga o corta, a forma di tubo o meno. Fuori d’Italia, con «maccheroni» (macaroni o altre traduzioni più o meno fantasiose, più o meno sarcastiche, spesso offensive), si intende qualsiasi tipo di pasta – e anche chi la mangia. Comunque, quelli alla chitarra sono spaghetti a sezione quadrata, preparati con farina di grano duro e con l’ausilio dell’apposito telaietto. Per prepararli è infatti necessario dotarsi di questo particolare telaio all’interno del quale sono tesi dei fili metallici, come le corde: comunque un torchio per pasta fresca con trafile per vari formati di pasta va altrettanto bene. Ecco la ricetta dei maccheroni alla chitarra (con ingredienti per 4 persone). Preparate 400 g di pasta fresca all’uovo: lavorate a lungo l’impasto, formate
una palla e lasciatela riposare per 10’ avvolta in pellicola. Con il matterello stendete la pasta sul piano di lavoro leggermente infarinato, in una sfoglia di spessore uguale alla distanza che intercorre tra i fili del telaio e tagliatela in rettangoli che abbiano la stessa dimensione della chitarra. Appoggiate una sfoglia alla volta sul telaio e passateci sopra il matterello esercitando una leggera pressione; quindi sollevate la chitarra e raccogliete da sotto la pasta tagliata, allargandola subito su uno strofinaccio infarinato per farla asciugare. Ripetete l’operazione fino a esaurire tutta la sfoglia. Cuocete la pasta, scolatela al dente e calatela in una casseruola con un sugo a piacere. Aggiungete un bicchiere d’acqua di cottura e saltate la pasta per 2’ mescolandola bene al condimento.
Ballando coi gusti Oggi due ricchi piattoni, quelli che sanno soddisfare tutti o quasi: una lasagnona e un pasticcio.
Lasagne con radicchio e fontina
Torta di carciofi
Ingredienti per 4 persone: 400 g di pasta all’uovo · 500 g di besciamella · 300 g di
Ingredienti per 4 persone: 400 g di ricotta · 100 g di grana grattugiato · 8 carciofi
Lavate il radicchio, tagliatelo a listarelle. Mondate e tritate il porro e fatelo rosolare con poco burro, unite il radicchio e lasciate cuocere finché non diventa morbido. Regolate di sale e di pepe. Tritate il formaggio e amalgamatelo con la besciamella. Tirate la pasta in una sfoglia sottile, ricavatene delle lasagne e lessatele in acqua bollente leggermente salata. Imburrate una pirofila, distribuite un po’ besciamella sul fondo, sopra uno strato di lasagne e sopra il radicchio, fate così fino a esaurimento degli ingredienti, terminando con radicchio, poi fiocchetti di burro e grana. Cuocete in forno a 180° per 30 minuti e servite.
Mondate e tagliate a spicchi i carciofi e a fettine i gambi pelati. Mondate e tritate il porro e fatelo rosolare in una padella con poco burro; aggiungete i carciofi, fateli stufare e poi bagnateli con un mestolo di brodo bollente. Fateli cuocere per 20 o più minuti, aggiungendo altro brodo se necessario. Levateli, tenetene un terzo degli spicchi a parte e frullate il resto. Amalgamatelo con la ricotta, il grana grattugiato, spezie a piacere e sale. Infine incorporate le uova leggermente sbattute. Versate il composto in una pirofila rivestita con carta da forno, mettete al centro gli spicchi non frullati e cuocete per 20 minuti in forno a 180°. Sfornate e servite.
radicchio rosso (o altre verdure amarognole) · 200 g di fontina (o altro formaggio a piacere) · grana grattugiato · 1 porro · burro · sale e pepe
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Ambiente e Benessere
Invecchiare insieme Maria Grazia Buletti Alla Casa Anziani regionale San Donato di Intragna vivono da qualche anno due gatti e ogni tanto ne arriva un terzo in visita. Mentre accarezziamo Battista (uno dei due, l’altro si chiama Pellegrino) ce lo racconta il direttore amministrativo Stefano Hefti: «Battista vive al piano terra e al primo piano, mentre Pellegrino è ospite del reparto protetto Alzheimer». L’impatto con gli ospiti è chiaramente positivo: «Essi li coccolano, li accarezzano e ne apprezzano la presenza, anche se dobbiamo ammettere che ogni tanto siamo confrontati con qualche risolvibilissimo contrattempo: ogni tanto sporcano e dobbiamo assicurare una igiene corretta malgrado la loro presenza, oppure quando Battista è attirato dai profumi della cucina e della sala da pranzo dove poi cerca di intrufolarsi, dobbiamo puntualmente respingerlo perché quella è una zona out per lui». Ad ogni modo, la presenza dei due mici è fonte di grande beneficio e soddisfazione degli anziani residenti che nella stagione estiva possono pure godere della visita di altri animali: «Gli asinelli dell’asineria di Erika Bänzinger di Cavigliano vengono a trovarci due o tre volte al mese in estate, condotti nella nostra piazzetta da alcuni giovani aiutanti, dove trovano i nostri anziani che li possono accarezzare e interagire con essi fino all’ora di merenda». Un momento di incontro davvero apprezzato, dice il direttore Hefti che non nasconde come in un futuro si potrebbe estendere anche alla presenza di qualche ospite un po’ più impegnativo, come un ca-
gnolino di qualche residente che ne farebbe eventuale richiesta. Naturalmente andrebbero valutate alcune condizioni imprescindibili e per ora ancora nulla è stato definito, malgrado qualche indizio di apertura: «In un futuro potremmo prendere in considerazione, visti i benefici innegabili, anche questo tipo di domanda, a condizione che il residente possa prendersi cura dell’animale dal mattino alla sera (per la passeggiata del mattino o quella serale potremmo aiutare noi). Le condizioni sarebbero puntuali e riguarderebbero il fatto che l’animale non deve assolutamente essere fonte di pericolo per sé e per gli altri ospiti (pensiamo al pericolo di caduta) o arrecare fastidio agli altri residenti». Presupposti più che comprensibili in un futuro che auspichiamo non troppo lontano, quelli che il nostro interlocutore pone, atti a preservare il benessere di tutti i residenti pur senza ignorare la consapevolezza dell’importanza per gli anziani di avere al proprio fianco un piccolo e fidato amico a quattro zampe. Ad agosto dello scorso anno pure la casa anziani Greina di Bellinzona ha accolto un ospite speciale: Tom, un gatto che le è stato consegnato dalla Società protezione animali di Bellinzona e valli. È un micio bianco e nero di due anni che il presidente della Spab Emanuele Besomi ha affidato con una vera e propria cerimonia al direttore della casa anziani Greina Andrea Bordoli secondo il quale Tom risulta essere una «presenza apprezzata» a cui gli ospiti tengono parecchio. Gli animali e gli anziani: un bino-
Giochi
MGB
Mondoanimale Sensibilità accresciuta sui benefici della vicinanza di animali agli anziani
mio che viene sempre più valutato per il benessere di questi ultimi, nella cognizione che l’animale aiuta a creare una dimensione di famiglia, facendo sentire gli ospiti un po’ più a casa propria. Inoltre, come per Pellegrino, il gatto della Casa anziani San Donato che vive nel reparto protetto, si è capito che questa presenza è di stimolo e può rappresen-
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Sudoku
ORIZZONTALI 1. Il famoso Elkann 5. Le iniziali dello scultore Canova 7. Innalzare, costruire 9. Preposizione 10. Con, insieme, nei prefissi 11. Ne hanno due le zanzare 12. Il Burrasca di un famoso giornalino 13. Litorale 17. Si può realizzare... dormendo 18. L’incitazione per sollevare un grosso peso 19. Vuoto 20. Iniziali di Copernico 21. Imbrattato 24. Imposte che non si aprono... 26. Preposizione articolata 27. Nota musicale 28. Li sottolinea il professore 29. È fatto come una... volta
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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L E VERTICALI 1. L’annoda il pescatore N 2. Un valore geometrico 3. Dediti alla fede 4. Le iniziali del giornalista Giannino Z 5. Di stirpe indoeuropea 6. Segno d’intesa 8. Insufficiente C O S T A 12. Stilla 13. Abbracciano la vita... I dello S scrittore S Wilde A 14. Il nome 15. Le iniziali dell’attore Seagal 16. Un Nmammifero C che va inSletargoP 17. Biblica moglie di Abramo 19. La... precedono a tavola T Aprodotti S variS E 22. Produce… 23. Bravo… fiume 25. Le EinizialiRdell’attrice R Rocca O R 27. Le iniziali del cantante Cristicchi 1
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
(N. 11 - “Bene, allora stai meglio di ieri!”
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R I S Z E F I R O E O T I T O E D M P E R A I T E T O M O N O T O T I C A L O R E N U N A T A C O R O I N L U N D Soluzione della settimana precedente O R A Z GLI I ANIMALI O CONOSCERE – Nome dell’anfibio: ULULONE DAL VENTRE ROSSO.
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(N. 10 - La pace inizia con un sorriso)
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tare una sorpresa ogni giorno per gli ospiti con problematiche di memoria. Queste esperienze nostrane sono confermate dallo studio condotto su scala nazionale dalla Protezione svizzera degli animali (PSA) che ha dimostrato proprio l’influenza positiva degli animali sugli anziani, specialmente sul piano del benessere fisico e mentale.
«Essi possono contribuire in maniera determinante ad accrescere la qualità della loro vita», afferma la PSA, forte di studi scientifici che hanno spiegato come gli animali abbiano un effetto benefico proprio sulla salute umana: «Nel tempo si è affermata la tendenza a prendere maggiormente in considerazione questo dato di fatto nell’assistenza agli anziani». Ciò che ancora manca, tuttavia, sono fatti e cifre relativi a questo argomento: «Quante e quali case di riposo e per anziani consentono la detenzione di animali? Qual è l’animale domestico più comune e più popolare negli istituti? Quali sono le difficoltà che si incontrano nella gestione quotidiana degli animali detenuti dagli istituti o degli animali domestici che gli anziani possono portare con sé?», si chiede la PSA, il cui sondaggio su scala nazionale ha dato i seguenti risultati: «I gatti sono la specie più presente negli Istituti, seguiti da pesci, cani, pappagallini, maiali, galline, criceti e tartarughe». L’esperienza è generalmente positiva e le difficoltà di gestione sono quelle sulle quali ancora bisogna lavorare un po’ per rendere la convivenza maggiormente chiara e attuabile. Anche in Ticino pare esserci una prima tendenza di risposta, con qualche gatto come animale prediletto residente, perché per il momento la sua indipendenza rende la sua gestione più semplice di quella di un cagnolino. Che peraltro non è ancora esclusa, previo regolamento che tuteli la convivenza dell’animale coi residenti stessi. E non dimentichiamo le graditissime visite degli asinelli, per la gioia degli anziani.
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A P O A 3 R I G E R E I S I A G I A S ES T TO A N A N T A G A M P I L A C C I V E OU VMB PI AS C CLI AT U E A T A A L T O A G A O A RR I C O E M E I R O R D A S I R I A R E ASE R AA I M M N U O V A V A IE R E S AI A R K C A T
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Politica e Economia La teoria del gregge Ottenere l’immunizzazione dei sopravvissuti dopo la morte dei più deboli. Ma intanto Londra applica misure più drastiche
La vita dopo il Coronavirus Quando l’emergenza sarà finita (presto o tardi nessuno lo può dire) è certo che la nostra vita non sarà più come quella di prima e nemmeno le nostre abitudini che avevamo dato per scontate
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Le nazioni infette
Emergenza Covid-19 La pandemia ha fatto riscoprire il concetto di nazioni. Mentre le nazioni riscoprono le
frontiere e si dimenticano dell’integrazione europea Di Lucio Caracciolo Il coronavirus ha fatto riemergere dappertutto la base fondamentale di ogni comunità: la nazione. Suscitandone due caratteri opposti quanto persistenti, certo più visibili nelle crisi: la tendenza alla coesione nella comunità nazionale, in alcuni casi anche sub-nazionale, e quella a diffidare di ciò che alla nazione non appartiene, ovvero il resto del mondo (delle nazioni). Non sorprende che in tale contingenza, destinata probabilmente a durare per un tempo non brevissimo, la solidarietà europea, il senso di appartenenza alla comunità degli europei su cui la retorica ufficiale ha tanto a lungo insistito, stia evaporando. Scopriamo così quel che pure sarebbe dovuto apparire ovvio: l’Europa non è una nazione. Non è nemmeno un continente. Né in senso geografico (dove comincia e dove finisce questo spazio?), tantomeno in senso culturale e geopolitico.
Fra gli stessi paesi membri dell’Unione Europea non tutti considerano gli altri davvero europei. Specie i nordici. La frattura fra «cicale» e «formiche» è più evidente che mai – anche se le formiche sembrano cicaleggiare più delle cicale. La nostra parte di mondo è oggi la più colpita dal coronavirus. Lo è dal punto di vista medico, ancor più da quello psicologico. Eravamo abituati a un certo grado di linearità e di benessere, oggi in questione. Il rischio che dall’epidemia virale si slitti verso una ben più pericolosa epidemia di paura, quindi di disordine sociale, politico ed economico, è dietro l’angolo. La reazione delle nostre istituzioni è fondamentale, ma può avere un impatto limitato. Le dimensioni della crisi sono tali da poterla fronteggiare solo attraverso una mobilitazione sociale diffusa, dunque nel seguire comportamenti solidali, coerenti ed efficaci. Leggi e decreti contano, ma non bastano in assenza di cultura e costumi condivisi. Ciò spiega, fra
l’altro, la riscoperta di quel che eravamo e avevamo forse dimenticato di essere: nazioni. In questa parte di mondo oggi la nazione più colpita è l’Italia. In Italia, il Nord. Nel Nord, la Lombardia. Nella Lombardia, Bergamo. Siamo nell’area più ricca del Paese, da cui proviene il grosso del pil italiano. Qui si misura e si misurerà sempre più nelle prossime settimane l’alternativa del diavolo che opprime qualsiasi approccio alla crisi: più proteggi la salute di ognuno di noi più colpisci l’economia; più proteggi l’economia, più minacci la salute di tutti e di ciascuno. Almeno nel breve periodo. Ma nessuno sa quanto questa crisi durerà. I singoli paesi europei stanno affrontando la crisi in ordine sparso. Anche perché la pandemia non è geopoliticamente pandemica. Anzi, è selettiva e mobile. Il morbo si è dapprima diffuso dalla Cina ad alcuni vicini asiatici, specie la Corea del Sud (che parrebbe essere riuscita a contenerlo già ora) e di qui in
Europa, a cominciare dall’Italia. E mentre a Pechino si celebra già, forse con troppo anticipo, la vittoria sul coronavirus, e ci si offre a modello se non addirittura a salvatori del mondo, il contagio impazza nell’Occidente ricco, rivelandone le magagne di organizzazione sanitaria e sociale. Oltre all’arretratezza tecnologica rispetto all’Asia sviluppata, che impedisce fra l’altro lo screening diffuso della popolazione, decisivo in Cina, Corea del Sud, Taiwan, Singapore. I messaggi dei leader europei non potrebbero essere più discordanti. Dopo avere trascurato o bagatellizzato il virus ora molti ne trattano come una guerra (Macron) o almeno come una minaccia epocale (Merkel). Ma tutti i capi di Stato e di governo si rivolgono al proprio pubblico, senza nemmeno un pensiero agli altri europei. Ci si sbattono le frontiere in faccia e ci si lesinano gli aiuti. È sperabile che nelle prossime settimane, insieme alla riduzione dei contagi e delle vittime, si possa assiste-
re al calmieramento della paura e delle connesse chiusure egoistiche. Ma la scoperta di quanto poco ci fidiamo gli uni degli altri condizionerà ogni futura strategia di integrazione europea. Che potrà eventualmente svilupparsi fra singoli paesi, certamente non nel contesto dei 27. (A proposito, notizie del Brexit?) Infine, scopriamo che Mamma America, cui eravamo abituati a volgerci quale protettore di ultima istanza, è in piena confusione. Né ha tempo per noi. Mentre la Cina profitta delle circostanze per esibirsi soccorrevole, inviando medici, aiuti e farmaci in Italia e in altri paesi europei. Con l’intento di rovesciare quella che appariva fino a ieri la pietra tombale sulle sue ambizioni di potenza in risorsa per aumentare la propria influenza in Europa e non solo. Siamo certi che altre sorprese seguiranno. Sorprese che se fossimo stati più consapevoli di noi avremmo dovuto attenderci.
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Politica e Economia
Londra, approccio soft al virus
Emergenza Covid-19 Abbandonata la controversa teoria dell’immunizzazione di gregge sostenuta dal premier,
in Inghilterra le misure per affrontare la pandemia si vanno armonizzando con il resto dell’Europa Cristina Marconi Fin dal primo momento, il Regno Unito ha cercato di prendere le distanze dalla linea seguita da tutti i paesi europei, Italia in primis, nella lotta al Covid-19, ma più passano i giorni e più le misure si vanno inevitabilmente armonizzando a quanto fatto da altri. E il lockdown di Londra, città dove i contagi stanno correndo più che altrove, non sembra più solo un’ipotesi azzardata. È passata poco più di una settimana da quando Boris Johnson sconvolse l’opinione pubblica internazionale dicendo che le famiglie si sarebbero dovute «preparare a veder morire i propri cari prima del tempo», circondato da due consulenti che vagheggiavano di un’immunità di gregge da raggiungere attraverso il 60% almeno dei contagi e che annuivano davanti a misure decisamente blande tipo la raccomandazione, per gli anziani, di evitare le crociere. Con le scuole finalmente chiuse, un pacchetto di aiuti da 330 miliardi di sterline per le imprese e una popolazione che sta faticando a capire l’entità della tragedia in atto, anche per via di una settimana di affollatissime conferenze stampa da Downing Street alla presenza di giornalisti tossicchianti, la situazione è molto diversa. E Boris, con un po’ di verve recuperata, si è detto fiducioso di riuscire a far cambiare il vento tra 12 settimane per riportare il Paese alla normalità.
Nel frattempo gli inglesi avevano iniziato a fare spontaneamente quello che negli altri paesi era stato imposto Con 144 vittime e un numero di contagi intorno ai 50mila secondo le stime ufficiose, Boris ha chiesto di rinunciare ai contatti sociali non necessari, per gli anziani è stato previsto un periodo di almeno 12 settimane di reclusione e a chiunque mostri sintomi è stato imposto di restare a casa per due settimane insieme a tutti i membri della famiglia. Ai single basterà restare in casa per sette giorni. Oltre alla chiusura delle scuole, per ora di divieti non ce ne sono e l’invito a non andare al pub, a teatro o in palestra non è accompagnato da una chiusura forzata dei pub, dei teatri o delle palestre: tra i caratteri nazionali dei britannici c’è sicuramente una forte autodisciplina e le persone, con l’ecce-
Boris Johnson ha stanziato 46 milioni di sterline per la ricerca di un vaccino contro il Covid-19. (AFP)
zione dei giovani che hanno continuato a riempire discoteche e sale da concerto anche nel fine settimana scorso, hanno sensibilmente smesso di girare, almeno in un primo momento. Londra non offre uno spettacolo neanche lontanamente paragonabile a quello delle città italiane, ma come si è visto in altri casi è una situazione altalenante: le gente si riversa nei supermercati per fare scorte di cibo, tanto che molte catene hanno inserito una sorta di razionamento, ma non capisce ancora fino a che punto quell’assieparsi alla cassa sia dannoso. Sono state chiuse 40 stazioni della metro della capitale e due linee della metro, col risultato che si vedono persone ammassate nei vagoni. I britannici sanno di essere in pericolo, ma non hanno capito quale sia il nemico. Solo che stanno recuperando rapidamente: le settimane di stacco tra Italia e UK sono tre e non quattro come pensato inizialmente, mentre Londra, dove il virus rischia di avvampare come un fuoco in un pagliaio, è «qualche settimana avanti» e gli abitanti de-
vono fare particolare attenzione, ancor più di quella che hanno già iniziato a fare. Dalla «mitigazione», il governo è rapidamente passato ad orientarsi verso una strategia di «soppressione», ancora imperfetta e incompleta, alla luce del fatto che il suo servizio sanitario nazionale non ha neppure lontanamente il numero di posti in terapia intensiva necessari per far fronte all’aumento dei casi, pur nella remota ipotesi che malati cronici, ultrasettantenni e donne incinte riuscissero a rimanere al riparo dallo tsunami invisibile del virus. Boris Johnson, che ama e ha abituato il Paese alle giravolte, ha cambiato indirizzo rispetto alla noncuranza dei primi tempi e nello smarrimento di questi giorni in cui anche la recentissima vittoria politica del 12 dicembre sembra un pallido ricordo, non sembra aver suscitato un’indignazione commisurata alla brutalità del suo discorso sul fatto che ci saranno vittime. E all’idea di un’immunità di gregge senza vaccino e con un virus ancora relativamente sconosciuto e imprevedibile.
Secondo lo storico, editorialista e presentatore Dominic Sandbrook, Johnson ha ancora una volta intercettato il profondo desiderio dei britannici di sentirsi eccezionali, fuori dal coro. «A noi piace così: andare a fare razzia di carta igienica con la solita aria impassibile», spiega l’accademico, secondo cui senza mostrare tracce di quell’inaccettabile «tabù nazionale» che è il panico, ha convinto le persone che il Coronavirus non è più solo una piaga esotica e è anche riuscito a passare come schietto. Così che, quando ha annunciato «azioni drastiche», lo ha fatto sempre premettendo di odiare anche solo l’idea di ridurre di un po’ le libertà dei britannici e ha agito progressivamente: la scelta di fare conferenze stampa quotidiane, ora finalmente da remoto e non in una sala stampa, gli ha permesso di annunciare un crescendo di misure giocando sempre il ruolo di chi si è piegato alla volontà della scienza, lui che durante la Brexit ha sempre trattato con sdegno economisti e esperti. Il Paese l’ha ascoltato senza protestare anche
quando ha deciso di allargare l’intervento dello Stato per salvare l’economia, su cui già incombe la grande incognita autoinflitta dalla Brexit, molto al di là di quello che un Tory ritiene accettabile. Se Giuseppe Conte cita Churchill, il suo biografo Boris suona l’arpa dell’immaginario collettivo, «puritano e sempre sensibile al fascino di una doccia fredda», riecheggiando il cupo, tonante «non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore», secondo Sandbrook. Mentre sull’economia, il riferimento è altrettanto chiaro: come Mario Draghi, Boris ha detto che farà «whatever it takes», «tutto quello che è necessario» per tenerla a galla. Ma al di là delle leggi spietate della comunicazione politica, dietro cui si può vedere la mano del consigliere Dominic Cummings, la scommessa scientifica su cui è fondata la linea britannica è stata criticata da esperti di ogni paese e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che ha ribadito più volte come la strategia da seguire sia quella di «testare e isolare», mentre il Regno Unito, dove anche gli scienziati di Oxford restano convinti – e te lo dicono candidamente – di avere conoscenze epidemiologiche superiori al resto del mondo, ha testato solo le persone in ospedale, ma non il personale medico con sintomi. Cosa destinata a cambiare nei prossimi tempi, quando il Regno Unito spera anche di riuscire a dotarsi di un test per vedere chi ha già avuto il virus e ha quindi gli anticorpi, secondo quanto dichiarato dai due fedeli consiglieri Sir Patrick Vallance e il dottor Chris Whitty, esperti di fama mondiale che il premier tratta con deferenza insolita. I due hanno preso atto di una situazione che si va aggravando di ora in ora e hanno ribadito che tutte le opzioni saranno valutate nel momento in cui la loro possibilità di essere efficaci sarà maggiore. Per loro, ad esempio, la chiusura delle scuole non era una priorità: ora resteranno aperte solo per i figli dei key workers, ossia di medici, infermieri, poliziotti e militari e di tutto il personale chiamato per far fronte alla crisi. Soprattutto sulla questione dell’attrezzatura per la terapia intensiva, nella speranza di non dover accettare la mano tesa ma politicamente tossica della Commissione europea, sta spingendo l’industria nazionale a riconvertirsi a tempi record nella produzione di respiratori, alimentando il piccolo sogno autarchico in cui la scommessa di Johnson si va inserendo. Che, lui, giocatore d’azzardo come nessun altro, riesca nell’intento, lo dirà solo il tempo. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Le ambiguità di Mosca Il Covid-19 sale?
Per ora Putin non vuole rinviare il referendum
Aspettando la luce
Emergenza Covid-19 La sensazione generale è che il virus ci cambierà per sempre,
ecomicamente e socialmente, come non è riuscito al terrorismo politico, allo shock petrolifero, all’islamismo radicale, alla crisi finanziaria
Christian Rocca Italia ferma, chiusa, a casa. E così la Francia, la Spagna, New York, l’America, l’Europa, il mondo. Mentre da fuori arriva solo il suono lancinante delle sirene, ci comportiamo da popolo adulto, non solo impaurito ma anche saggio, grazie anche agli eroi del personale medico e ospedaliero in prima linea a salvare gli ammalati di Covid-19. Stiamo compostamente tutti a casa, nonostante gli inglesi dicano che stare a casa al chiuso è peggio che stare sulle gradinate di uno stadio perché un essere umano positivo al massimo può infettare due o tre persone. Che ne sappiamo noi? Niente. Possiamo solo fidarci degli esperti. Dobbiamo fidarci. E poi sperare che il vaccino sia pronto prima che sia troppo tardi. Non ci resta che aderire a una dottrina epidemiologica qualsiasi come se si trattasse di una religione del nostro tempo, ciascuna con denominazioni, liturgie e sacramenti diversi e anche opposti: tipo #iorestoacasa italiano ed europeo e #megliodino inglese.
Se le misure restrittive riusciranno ad appiattire la curva, avremo salvato molti pazienti e il sistema sanitario Non ho nessuna competenza, ma a naso mi convince di più il ragionamento di chi dice che la strada per contenere l’epidemia è l’isolamento, anche perché a poco a poco lo stanno facendo tutti, come dimostra l’improvviso cambio di linea di Emmanuel Macron che dopo due settimane di minimizzazione ha chiamato les citoyens aux armes e ha chiuso il Paese. Ma dall’altra parte ci sono ancora
i tedeschi e gli inglesi, mentre Trump lo lasciamo stare perché è un cialtrone interessato soltanto alla soluzione più conveniente a garantirgli la rielezione. Angela Merkel e Boris Johnson suggeriscono di non bloccare del tutto i loro Paesi, non si capisce se perché sottovalutano la catastrofe imminente o perché sono cinici e non li vogliono piegare economicamente, oppure perché sono ancora convinti di poterla sfangare o, magari, perché hanno ragione sempre in nome della scienza, della statistica, della curva e di un qualche studio statistico. E allora non ci resta che aspettare fatalmente queste fatidiche settimane di isolamento in cui arriverà prima il picco delle infezioni e poi si spera anche la luce in fondo al tunnel, mentre si approntano nuovi posti letto e si attivano nuovi macchinari per le terapie intensive. Ma il dubbio è che sia tutta un’illusione ottica, cioè che in realtà non vedremo mai questa luce in fondo al tunnel, perlomeno prima del vaccino che presumibilmente arriverà tra più di un anno. Il timore è che tutte le rassicurazioni collettive e tutti gli hashtag che ci scambiamo a una velocità superiore a quella della diffusione del corona a proposito del torneremo più forti di prima e anche più sociali, con la i, siano poco più che un miraggio. Due, tre, quattro settimane di lockdown sono faticose ma anche poche, ammesso che saranno soltanto due, tre o quattro. Le faremo passare, consapevoli dei danni strutturali che causeranno. Ma ho come l’idea che il virus corona ci cambierà per sempre, economicamente e socialmente, come non è riuscito al terrorismo politico, allo shock petrolifero, all’islamismo radicale, alla crisi finanziaria. Credo che il corona segnerà il nostro tempo come la spagnola o la poliomielite o la guerra hanno temprato le generazioni
precedenti. Difficilmente torneremo nei centri commerciali, in piazza, in aereo senza le precauzioni diventate vitali in questi giorni. Cambieremo le abitudini, i consumi e la produzione. La vita dopo il Covid, quando rinascerà, non sarà la solita vita di prima senza il virus. Sarà un’altra epoca. L’inizio di una nuova èra. Prima, però, c’è da superare l’emergenza. Sappiamo tutti che l’isolamento non finirà presto. Sappiamo perfettamente che non sappiamo quando ne usciremo. Non sappiamo nemmeno se una volta guariti ci si potrà riammalare né se con la bella stagione il virus andrà in vacanza, magari per tornare più farabutto in autunno. Non sappiamo niente, insomma, su questa grande epidemia globale. Sappiamo però che, grazie ai progressi compiuti dalla scienza medica e dalla tecnologia, ci troviamo in una condizione migliore rispetto ad altre epoche storiche: in poche settimane abbiamo individuato il virus, la sua sequenza genetica, approntato il test per identificare i contagiati e arriveremo a una cura e a un vaccino in tempi più ristretti del solito, anche se purtroppo non istantanei. Nell’attesa, ci occupiamo di aumentare i posti nei reparti di terapia intensiva e la produzione di respiratori. Se le misure restrittive riusciranno ad appiattire la famigerata curva dei malati di Covid-19 saremo anche riusciti a salvare molti pazienti e il sistema sanitario. Certo c’è stata grande confusione, sono stati dati messaggi discordanti, certamente c’è ancora disorganizzazione, ma gli esperti di epidemie come l’Ebola dicono che di fronte al virus la cosa più importante è agire, anche reagire in modo sproporzionato, perché aspettare è letale. Nelle epidemie la velocità prevale sulla perfezione, il meglio è amico del virus.
La cosa che manca è un’altra, mentre i medici e i virologi e i protettori civili fanno il loro lavoro e noi stiamo a casa. Manca una risposta politica globale all’epidemia. Non c’è Churchill e non c’è Roosevelt, non c’è la Gran Bretagna e non c’è l’America. Non c’è uno sforzo nazionale e internazionale paragonabile a quello compiuto dai paesi liberi e alleati sotto l’attacco del nazifascismo. Cantare l’inno di Mameli alla finestra come fanno gli italiani e come presto faranno tutti gli altri con le proprie canzoni nazionali serve a riempire i pomeriggi azzurri e troppo lunghi, così come scambiarsi meme su Whatsapp serve a tenere alto il morale delle truppe, ma i governi dovrebbero concentrarsi su una grande opera di conversione temporanea delle manifatture nazionali in un complesso militare industriale d’emergenza contro il nemico corona per costruire i respiratori, per allestire gli ospedali, per produrre tutte le mascherine e i gel disinfettanti che servono agli operatori sanitari e ai cittadini. I governi nazionali e gli organismi internazionali dovrebbero cambiare paradigma per vincere la sfida al virus e giustificare la loro esistenza: da un lato per rassicurare i cittadini che ci penseranno loro alle devastanti conseguenze economiche, non importa se serviranno mille o duemila o tremila miliardi, e dall’altro per convocare gli scienziati, i capi delle aziende farmaceutiche e dei principali laboratori di ricerca in un gabinetto di guerra per coordinare, condividere e accelerare la corsa alle terapie e al vaccino, mettendo a disposizione la forza e la credibilità dei paesi, dell’Europa e delle istituzioni per questa emergenza e per le eventuali prossime che non ci dovranno trovare di nuovo impreparati. Ma l’antidoto politico al virus, purtroppo, non c’è.
Il rublo e il petrolio che scendono e il coronavirus che sale: Vladimir Putin ha scelto il momento meno propizio per lanciare l’operazione politica che dovrebbe mantenerlo al potere anche dopo la scadenza del suo quarto mandato presidenziale, nel 2024. Il presidente russo ha indetto per il 22 aprile prossimo il referendum sulle modifiche costituzionali che lui stesso ha promosso e che gli permetteno di ricandidarsi alla presidenza della Russia per altre due volte, fino al 2036. Ma l’epidemia di coronavirus potrebbe sconvolgere i suoi piani: anche se per ora il Cremlino smentisce di voler imitare la rigida quarantena che si è auto imposta l’Europa, il leader russo non ha escluso la cancellazione o la posticipazione del voto, «la salute dei cittadini è più importante». I contagi aumentano, e girano voci su un numero di ammalati molto più elevato, censurato dalle autorità. Il messaggio del governo però è ambiguo: da un lato, si chiudono i confini e si cancellano i collegamenti aerei con l’estero, dall’altro si cerca di minimizzare. Il sindaco di Mosca Sergey Sobianin ha però già proibito raduni all’aperto «di qualsiasi numero», una misura per contenere più che altro la crescente protesta contro l’iniziativa di far regnare Putin per 37 anni di fila. Una svolta che il presidente ha operato a sorpresa, dopo aver lanciato due mesi prima il dibattito sulla riforma costituzionale. Il 10 marzo scorso, la prima donna nello spazio (e deputata del partito governativo Russia Unita) Valentina Tereshkova ha proposto a nome della «gente semplice», di inserire nella Costituzione l’articolo che «azzera» i mandati presidenziali di Putin. L’emendamento è stato approvato subito dalla Duma, convalidato dalla Corte Costituzionale, ratificato dai parlamenti regionali e firmato dallo stesso presidente. Ora resta il voto del 22 aprile, che a questo punto si trasforma in un referendum su Putin. Il consenso al presidente non è però più quello di un tempo. Non è escluso che Putin abbia deciso di farsi proclamare presidente eterno (nel 2036 avrà 83 anni) proprio per evitare di fare l’«anatra zoppa» e impedire l’emersione di candidati alternativi: «Per la Russia l’alternanza al potere è per ora un lusso», ha dichiarato. Ma anche mantenere il regime potrebbe essere un lusso che il Paese non si può più concedere: proprio mentre Putin alla Duma accoglieva la mozione di Tereshkova, il rublo perdeva quasi il 25% del valore in un giorno, e la borsa cadeva a picco, dopo la decisione del Cremlino di rompere il patto con l’Opec per far scendere il prezzo del greggio e strangolare così il petrolio shale americano. I russi si sono precipitati a convertire in valuta forte i loro risparmi. Pochi giorni dopo, sono corsi nei supermercati, spaventati dal coronavirus: dagli scaffali sono spariti grano saraceno, pasta, legumi e farina. Si respira aria di crisi economica, e nessuno nutre illusioni sulla capacità della sanità russa, devastata negli ultimi anni da tagli e «ottimizzazioni», di affrontare un’eventuale epidemia.
AFP
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Anna Zafesova
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Dove esportiamo di più? Da quando mondo è mondo ogni svizzero sa che il maggior partner commerciale della sua economia è la Germania. Così per esempio nel 2017 la Svizzera ha esportato merci per un valore complessivo di 220,4 miliardi e ne ha importate per 185,6 miliardi. Le esportazioni verso la Germania hanno rappresentato il 18,7% e le importazioni da questo paese il 28,2% del totale. Il secondo partner commerciale della Svizzera sono oggi gli Stati Uniti. Sempre nel 2017 le esportazioni verso questo paese rappresentavano il 15,3% e le importazioni il 6.8% del totale. È ora possibile che i primi due posti della classifica dei nostri partner commerciali vengano modificati nel corso dei prossimi anni, anche se la Svizzera non dovesse rinunciare ai Bilaterali. Questa è per lo meno l’opinione dei redattori del periodico sulle tendenze congiunturali, edito trimestralmente
dalla Seco. E questo perché, dallo scorso anno, nella statistica sul commercio con l’estero si è riusciti a ventilare per paesi, oltre alle merci, anche i servizi. Aggiungendo i servizi alle merci, i pesi dei due paesi nella statistica del nostro commercio con l’estero si sono notevolmente modificati. La Seco pubblica, nel suo rapporto più recente, i dati per il 2018. Stando a questa statistica la quota della Germania e quella degli Stati Uniti nelle esportazioni sarebbero ora uguali e pari al 14%. In termini assoluti, tuttavia, l’economia svizzera avrebbe esportato in Germania, nel 2018, merci e servizi per 61,6 miliardi e verso gli Stati Uniti merci e servizi per 59,1 miliardi. In altre parole, la Germania continua ad essere il nostro maggior partner nelle esportazioni. La parità nelle quota, tra Germania e Stati Uniti, la Seco l’ha potuta ottenere solo arrotondando i decimali,
in quanto la quota della Germania, pari al 14,4%, è stata arrotondata verso il basso, mentre quella degli Stati Uniti, che corrispondeva al 13,8% del totale, è stata arrotondata verso l’alto. Non c’è però dubbio che se consideriamo oltre a quelle in merci anche le transazioni in servizi la tendenza è al sorpasso. Tra qualche anno il partner commerciale più importante della Svizzera saranno gli Stati Uniti, soprattutto per i loro acquisti di servizi. La statistica delle importazioni per il 2018 dà invece un quadro abbastanza differente perché la quota della Germania, nell’importazione di merci e servizi, è uguale al 19% mentre quella degli Stati Uniti – sempre al secondo posto della classifica – è solo del 12%. Il testa a testa tra Germania e Stati Uniti per il primato come destinazione preferita dalle nostra esportazioni non è il solo dato interessante che
emerge da questa statistica rinnovata. I lettori possono accorgersene comparando per esempio i primi cinque posti della classifica del 2018 con quelli della classifica del 1990. Cominciamo con le esportazioni. Trent’anni fa, la Germania capeggiava la classifica delle esportazioni con una quota pari al 21,9%%, seguita dalla Francia con il 9,9%, dall’Italia con l’8,9%, dagli Stati Uniti con il 7,9% e dalla Gran Bretagna con il 7,4%. Come si è già ricordato la statistica del 1990 teneva conto solo delle merci. Nella statistica per il 2018, che tiene conto delle esportazioni di merci e di servizi, la Germania è sempre al primo posto, però solo con una quota del 14,4%. Al secondo posto vengono gli Stati Uniti, con una quota pari al 13,8%. Al terzo posto abbiamo una new entry, la Cina con una quota pari al 7,8%. La Francia, nel 2018, era invece scesa al
quarto posto con una quota del 6,3%. Infine al quinto posto troviamo l’Italia la cui quota supera di poco il 5% del totale. La classifica per le importazioni è abbastanza simile. Nel 1990 trovavamo al primo posto la Germania con il 33,7%, seguita dalla Francia con l’11,1%, dall’Italia con il 10,5%, dagli Stati Uniti con 6,1% e dalla Gran Bretagna con il 5,3%. Nel 2018 erano le medesime nazioni a guidare la classifica delle importazioni con la Germania al primo posto, gli Stati Uniti al secondo, la Gran Bretagna al terzo, la Francia al quarto e l’Italia al quinto posto. Gran Bretagna e Stati Uniti si sono quindi scambiati i posti con Francia e Italia, nel corso degli ultimi tre decenni. Insomma, il nostro commercio internazionale è diventato più anglosassone e meno latino, con la Cina che potrebbe giocare, in futuro, il ruolo del terzo incomodo.
focolaio del Paese; del resto il virus colpisce innanzitutto le regioni più ricche, dinamiche, aperte al mondo. In Italia, la Lombardia; in Germania, il Nord RenoWestfalia, il Land della Ruhr, che da solo sarebbe la quattordicesima economia del mondo. Anche Angela Merkel ha detto una frase spaventosa: il virus può contagiare il 60 per cento dei tedeschi. La sua strategia è meno cinica di quella di Johnson, ma in Germania il blocco è stato ritardato dal dogma federalista; ogni Land decide per sé. E la situazione dev’essere davvero grave, se la Cancelliera ha annunciato un piano di spesa senza precedenti e ha chiuso le frontiere agli amici francesi. Donald Trump invece ha seguito un altro dogma: il sistema privato e il denaro. Sulle prime il presidente ha scelto una linea negazionista: «Ne uccide molti di più l’influenza». Poi ha capito che stava correndo verso il disastro, e ha corretto la rotta promettendo 50 miliardi di dollari, milioni di test, e la mobilitazione delle multinazionali, da Walmart a Google. Trump sa che la crisi da coronavirus può costargli la Casa Bianca,
e non solo perché puntava sul buon andamento dell’economia e di Wall Street. La superpotenza con il Terzo Mondo in casa, con fasce poverissime di popolazione prive di assistenza medica, si scopre vulnerabile; la domanda di Stato, di governo, di sanità pubblica può favorire un candidato non esaltante come Joe Biden. Ma lo scenario cambia di giorno in giorno, e a volte i popoli smentiscono se stessi. Gli inglesi ad esempio sono stati meno understated di quanto il loro premier vagheggiasse: Londra si è svuotata, chi poteva ha raggiunto la dimora di campagna, qualcun altro si è chiuso in casa. L’Italia invece è parsa seguire il paradigma della propria storia. Una classe dirigente impreparata, con poche eccezioni tra cui il presidente della Repubblica, che ha saputo tranquillizzare e anche farsi sentire quando Christine Lagarde ha rifiutato interventi straordinari della Banca centrale europea. Per il resto l’oscillazione tra chiusure, riaperture, richiusure ha fatto perdere tempo prezioso. Appare assurdo che non ci siano abbastanza mascherine, che l’arrivo del
virus abbia colto il governo di sorpresa. Eppure, come nei momenti decisivi della storia, anche stavolta vengono fuori gli italiani solidali, lavoratori, coraggiosi. L’abnegazione di medici e infermieri è straordinaria. Le forze dell’ordine fanno la loro parte, mai difficile quanto ora. Categorie non amate come i politici e i giornalisti, che a dispetto dei luoghi comuni vivono una vita di relazione in mezzo alla gente,si scoprono particolarmente esposti. Le donazioni private crescono. Il patriottismo da balcone può non piacere; ma è anche questo il segno di un Paese che resiste. A Torino, a Milano e non solo si cominciano a vedere il tricolori alle finestre. Resta la grande questione economica. Il timore è che torni la grande crisi inaugurata dal fallimento della Lehman Brothers.La percezione diffusa è che siamo appena all’inizio della crisi da coronavirus. Il 2008 ci ha insegnato che l’economia reale non è separata da quella finanziaria. Quando si ammalano le Borse, anche le aziende si sentono poco bene. Quante non riapriranno? Quanti lavoratori perderanno il posto?
sorta di «fil rouge» con una recentissima istantanea: migliaia di siriani lasciati liberi da campi profughi in Turchia incamminati verso la frontiera greca nelle pianure a est di Salonicco, dove esercito e facinorosi dell’estrema destra sono decisi a bloccarli con tutti i mezzi. Su questa recente foto si vedono alcune centinaia di uomini, donne, anziani, ragazzini e molti bambini pigiati come formiche al limitare di un bosco in attesa di lanciarsi alla ricerca di varchi nelle reti del confine turcogreco. L’esodo è stato architettato dal premier turco per ricattare l’Unione europea capace di commentare stizzita più che indignata la sfida turca, ma non di biasimare la propria debolezza e l’inerzia di governi sempre più votati a un bieco sovranismo. La mia ricerca ha avuto esiti differenti. La foto più vecchia (in realtà una diapositiva) non l’ho ritrovata; di sicuro comparirà senza cercarla, a conferma del tic che da sempre mi spinge a conservare le immagini
di momenti particolari o «vissuti» emozionalmente. Ricordo di averla ricevuta da un’agenzia (si chiamava Dukas) che ogni settimana ci forniva immagini di attualità su diapositive in modo che la definizione consentisse la pubblicazione in grande formato su «Azione». Comunque, basta digitare «foto nave profughi albanesi» e in Google troverete immagini purtroppo dimenticate che definire dantesche o «bladerunneriane» è sicuramente riduttivo. Testimoniano l’arrivo a Bari trent’anni fa di una nave stracolma di profughi che fuggivano da dittatura, comunismo e povertà in Albania. Ho ritrovato invece quasi subito l’altra foto, avendola digitalizzata: il fotografo aveva saputo catturare momenti ancor più drammatici e struggenti, una sterminata folla di profughi, sempre siriani, in fuga da Aleppo a fine febbraio del 2014, quindi sei anni fa. Anche qui si vede una lunghissima fila di donne e uomini, molti i giovani, che sfilano fra edifici sbriciolati dai
bombardamenti in una via del centro della città siriana. Guardandola arrivo a pensare che qualcuno dei fuggiaschi ritratti ad Aleppo possa figurare oltre duemila giorni dopo anche in quella scattata al confine con la Grecia. La traccia per una conclusione la trovo nelle parole della cancelliera Angela Merkel, pronunciate proprio in avvio del dramma siriano: «All’ospitalità tedesca per i Flüchtlinge non c’è limite alcuno». Pochi mesi dopo Grecia e isola di Lesbo erano state persino proposte per il Nobel della pace, come omaggio alla Grecia per gli slanci della popolazione nell’accogliere profughi in fuga dalla Siria. Oggi c’è il voltafaccia generale: divieti ed escalation di violenze confermano che gli impegni morali e politici in favore dei richiedenti l’asilo non rientrano più nella linee guida e nei propositi di Stati sempre più ripiegati su derive nazionalistiche che stanno decretando all’Unione europea e all’Occidente un futuro di chiusura e di egoismo.
In&outlet di Aldo Cazzullo Affrontando le paure La reazione popolare e pure quella dei governi alla crisi da coronavirus pare oscillare tra due diverse paure: la paura della morte e la paura della povertà. Quando prevale la prima, si chiude tutto. Quando prevale la seconda, si riapre tutto. Nei Paesi latini prevale la prima, in quelli anglossassoni la seconda. È uno dei momenti della storia in cui viene fuori non solo il carattere delle persone, ma anche quello dei popoli. I latini si sono confermati più emotivi, sia nelle reazioni, sia nelle decisioni. Non è detto sia un male. L’Italia, colpita per prima, ha scelto la via drastica della chiusura totale. La Spagna l’ha seguita abbastanza rapidamente, compreso il blocco dei voli da e per l’Italia. Macron, dopo la clamorosa gaffe della Lagarde, ha fatto due discorsi tv bellissimi: ha detto ai francesi che conta su di loro, che la crisi deve «risvegliare il meglio che è in noi», che «ognuno porta in sé una parte di responsabilità per la salute dell’altro»; poi ha annunciato la chiusura delle scuole, senza avere il coraggio di sospendere le elezioni comunali, che si sono svolte domenica scorsa in un clima irreale di pau-
ra e tensione. Ora il ballottaggio è stato rinviato al 21 giugno; ma ormai l’errore è stato commesso. Il mondo anglosassone ha avuto una reazione del tutto diversa. «Business as usual», ha detto in sostanza Boris Johnson: si lavora come sempre. «I casi sono molti di più di quelli scoperti. Preparatevi a perdere i vostri cari». Nessuna restrizione, però: chi ha febbre e tosse resti a casa; l’importante è non fermare l’economia. Una linea che è stata elogiata dai quotidiani vicini al governo, compreso il «Times», ed è stata paragonata allo stoicismo churchilliano; ma che può costare carissimo sia agli inglesi, sia al mitico National Health Service, che non si è ancora ripreso dai tagli thatcheriani (e blairiani). C’è da scommettere che nel giro di giorni la strategia sarà rivista: già domenica scorsa il governo inglese ha consigliato agli over 70 di restare in casa e da venerdì la scuole restano chiuse. Di sicuro far giocare a porte aperte Liverpool-Atletico Madrid di Champions League, con tremila tifosi madrileni sugli spalti, è stato un rischio pazzesco: la capitale spagnola è anche il principale
Zig-Zag di Ovidio Biffi Fotografie che mi inseguono A fine febbraio trovo la notizia della presentazione di un nuovo videogioco, uno dei tanti intrattenimenti digitali che per noi della terza generazione sono assai simili al guardare la vernice che essicca. Il tema di quel gioco però mi colpisce, tanto da far scattare prima un moto di stizza: a questo si doveva arrivare, mi sono infatti subito detto. Proseguendo nella lettura del messaggio ho però cambiato idea; anzi: l’ho diametralmente girata di 180 gradi fino a trovarmi sulla sponda opposta. «Salaam» (questo il nome del videogioco) si ispira alla realtà di milioni di persone costrette a fuggire dai paesi in guerra, conflitti tribali e razziali, povertà. Ecco perché d’acchito si vede qualcosa di perverso nello sconfinamento del gioco elettronico nel campo della disperazione e della tragedia umanitaria. Come mostrava e spiegava Repubblica Tv, il gioco c’è, ma è sceneggiato in modo da far capire cosa significhi affrontare un «viaggio della speranza». È stato creato e sviluppato
da Lual Mayen, un venticinquenne di Washington che, prima di arrivare in America con la sua famiglia sudugandese, ha trascorso venti anni in un campo profughi nel nord dell’Uganda. Ora Mayen vive e lavora negli Usa, ma è in quel campo che ha imparato programmazione, seguendo, su un pc acquistato con grandi fatiche da sua madre, lezioni di informatica diffuse su YouTube. Presto il suo video sarà disponibile anche fra i videogiochi di Facebook cui hanno accesso milioni di persone. Così ogni volta che un giocatore di «Salaam» comprerà cibo per aiutare i profughi del gioco, lo comprerà anche nella realtà, aiutando i profughi rimasti nel campo ugandese dove Lual è cresciuto. Ho incontrato questa storia a lieto fine proprio mentre ero alla ricerca nei miei archivi (l’ormai vetusto iMac e qualche scatolone di quel che mi resta del lavoro in redazione) di alcune fotografie utili per risalire nel tempo e ricollegare certi eventi e mi consentisse di tracciare una
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 23 marzo 2020 • N. 13
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Cultura e Spettacoli Art meets food Abbiamo incontrato l’artista svizzera Christine Streuli, che creerà un locale ad hoc al LAC
Il ritorno di Agota Kristof La brillante autrice svizzera di origini ungheresi in libreria con quattro pièce dal sapore amaro pagina 41
Un grande accademico Storia della vita di Cesare De Michelis, che assomiglia a un’epopea letteraria pagina 42
pagina 40
L’arte al tempo del Coronavirus
Lo street artist Tvboy ha colpito ancora, questa volta a Barcellona. (Keystone)
Arte online Per non rinunciare alla ricerca della bellezza
Alessia Brughera Firenze, 1348. Per sfuggire all’epidemia di peste che sta devastando la città, sette donne e tre uomini si trasferiscono in campagna, in una villa circondata dalla natura e da una pace incontrastata. Per combattere la noia del ritiro forzato e per tenere lontani i cattivi pensieri, i giovani decidono che, a turno, racconteranno ciascuno una storia ispirandosi ogni volta a un tema differente. Firenze, 2020. Quasi sette secoli dopo la vicenda narrata da Giovanni Boccaccio nel suo Decameron, la Galleria degli Uffizi, svuotata a causa dell’emergenza Coronavirus delle centinaia di visitatori che quotidianamente affollano le sue sale, diventa un rifugio virtuale dove moderni cantastorie illustrano la meraviglia dell’arte. Prendendo proprio spunto dall’opera letteraria dello scrittore e poeta toscano, la campagna social #UffiziDecameron crea una sorta di luogo ameno internettiano, narrando, esattamente come faceva la brigata boccaccesca, una «novella» al giorno per trovare un po’ di conforto in tempi di grande inquietudine. Il direttore, i curatori, i restauratori e gli storici dell’arte di uno dei musei più conosciuti al mondo ci fanno scoprire così le ope-
re custodite nella Galleria delle Statue e delle Pitture, a Palazzo Pitti e nel Giardino di Boboli attraverso storie, foto e video postati sui canali ufficiali dell’istituzione. È questa un’iniziativa tra le più riuscite e apprezzate (a dimostrarlo sono i dati della pagina Facebook degli Uffizi, in poche ore visitata da decine di migliaia di follower) che nell’Italia costretta all’isolamento hanno preso vita per fare dell’arte, e più in generale della cultura, un baluardo dell’opposizione alla paura e alla solitudine. L’arte, dunque, resiste. Perché mai come in questi momenti di estremo disorientamento diventa indispensabile non smarrire il senso della bellezza. E se restare chiusi in casa non è facile come pensavamo, vero è che abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca in cui la tecnologia è altamente sviluppata, un’era in cui il confine tra l’esperienza virtuale e quella fisica è sempre più fluido e indistinto. Il pericolo legato alla diffusione del Covid-19 ci sta togliendo sì la libertà del corpo ma ci sta offrendo un modo diverso di fruire la realtà. Un concetto, questo, che hanno capito bene molti musei, pronti a sopravvivere anche al di fuori delle proprie mura. Ecco allora che, con gallerie chiuse, mostre procra-
stinate e fiere rimandate, arte, cultura e bellezza vengono «consegnate a domicilio» con iniziative interessanti e creative per mutare la reclusione obbligata in un arricchimento per lo spirito. In prima fila ci sono proprio le istituzioni museali italiane (chiuse già da parecchi giorni e fino al 3 aprile, poi si vedrà), che si stanno letteralmente reinventando sui siti e sui social, intensificando la loro programmazione con approfondimenti, contenuti video, rubriche e attività quotidiane. A Milano, ad esempio, la Pinacoteca di Brera, che non aveva chiuso i battenti nemmeno durante la guerra, propone il contributo giornaliero «Appunti per una resistenza culturale», un diario di bordo in cui i membri dello staff raccontano i lavori esposti o rivelano alcuni aspetti tecnici del funzionamento del museo, mentre il direttore incontra i visitatori digitali leggendo alcuni passi tratti da opere letterarie e libri per ragazzi appartenenti alla preziosa Biblioteca braidense. Un altro simbolo della cultura meneghina, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, promuove un progetto analogo con il proprio hashtag #storieaportechiuse che sulle pagine Facebook, Insta-
gram e Twitter ci parla della collezione, avvia laboratori interattivi e svela i dietro le quinte con pillole video, immagini e documenti inediti. A rompere l’isolamento sul sito e sui social è anche il Museo Egizio di Torino che ci offre non solo la possibilità di visitare virtualmente le sue sale ristrutturate ma ci invita anche a conoscere l’affascinante storia della civiltà egizia, con i suoi rituali e i suoi misteri, attraverso videotour in compagnia del direttore nonché riprese fatte a casa dai dipendenti del museo in cui vengono spiegate le antiche tecniche egiziane con esperimenti e simulazioni. Rigorosamente dalle proprie abitazioni, anche lo staff e i tirocinanti della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia intrattengono i follower con video dedicati agli artisti e alle opere presenti nelle sale e con aneddoti sulla vita della grande collezionista e mecenate statunitense. Il museo ha inoltre preparato qualche Art Quiz per sfidare gli utenti più curiosi che si vogliono mettere alla prova sulle proprie conoscenze artistiche. Tornando, sempre virtualmente, a Firenze, i Musei Civici della città aderiscono alla campagna social #museichiusimuseiaperti postando «Udienze
con personaggi storici», dirette interattive con figure in costume, e piccoli workshop video per stimolare la creatività dei più piccoli. On line sarà anche possibile fare una visita guidata a porte chiuse alla grande mostra antologica di Allan Kaprow allestita negli spazi del Museo Novecento, per scoprire l’intensa carriera di questo artista padre degli Environments e degli Happenings. Come in Italia e in Canton Ticino, anche nel resto del mondo molti musei hanno annunciato la chiusura. Quelli newyorchesi – tra cui Metropolitan, MOMA e Guggenheim – il Louvre di Parigi o, ancora, il Prado di Madrid, non fruibile al pubblico per la prima volta dalla Guerra Civile. I capolavori custoditi in queste gallerie possono essere ammirati attraverso visite virtuali e video messi a disposizione dalle istituzioni stesse sui propri canali o, spesso, anche sulla piattaforma Google Arts and Culture, che raccoglie le immagini ad alta definizione delle opere esposte in tanti dei più prestigiosi musei internazionali. Allora non rinunciamo alla bellezza, adesso più che mai. Aspettando il momento in cui potremo tornare a guardare negli occhi la meraviglia dell’arte.
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Cultura e Spettacoli
Hopper, oltre il limitare di un prato Mostre Un’antologica nel segno del paesaggio nell’opera del maestro americano del Novecento
Emanuela Burgazzoli Square Rock, Ogunquit è un paesaggio a olio del 1914: un dipinto giovanile che lascia già intuire l’originale reinterpretazione di un genere classico da parte di Edward Hopper. Universalmente considerato il pittore della solitudine della modernità, con i suoi interni metropolitani – basti citare Nottambuli – Hopper è stato anche e soprattutto un paesaggista, come documenta l’esposizione basilese che riunisce oltre sessanta opere, fra olii, disegni e acquarelli, in provenienza per lo più dal prestigioso Whitney Museum of American Art, ma anche da collezioni private. Una selezione che include sia capolavori come Gas sia opere raramente (o mai) esposte; ne è un esempio il dipinto Cape Ann Granite del 1928, di recente entrato nella collezione Beyeler come prestito a lungo termine. All’epoca Hopper, che era nato nel 1882 a Nyack lungo il fiume Hudson, aveva appena cominciato a farsi notare come pittore; fino a pochi anni prima aveva uno studio di grafico pubblicitario e illustratore ed era stato premiato per le sue incisioni. Questo paesaggio, che ha ispirato il progetto espositivo, è una veduta già «alla maniera» di Hopper, precisa il curatore Ulf Küster; Hopper fa in modo che lo sguardo dello spettatore cerchi oltre il confine di un prato, disseminato di rocce che proiettano lunghe ombre sulla distesa erbosa spazzata dal vento; il mare si intuisce a malapena in un angolo. Grande senso cromatico e i sapienti effetti di luce e ombra: sono elementi presenti in tutta la sua pittura. Aspetti che aveva in parte approfondito durante i suoi soggiorni a Parigi fra il 1906 e il 1910 – come testimoniano le opere giovanili in mostra; nella capitale francese Hopper sembra interessato agli impressio-
Edward Hopper, Cape Cod Morning, 1950. (Smithsonian American Art Museum, Gift of the Sara Roby Foundation © Heirs of Josephine Hopper / 2019, ProLitteris, Zürich Foto: Smithsonian American Art Museum, Gene Young)
nisti più che alle Avanguardie. La luce di Hopper non trasfigura il reale come un pulviscolo radioso; scolpisce invece con precisione i corpi e seziona lo spazio in forme geometriche. Il pittore americano non dipingeva en plein air; i suoi dipinti sono realizzati in atelier sulla base di ricordi visivi; le sue sono composizioni studiate nel dettaglio e pianificate a lungo, così come la ricerca dei soggetti che richiedeva – per sua stessa ammissione – mesi, o persino anni. Questa lentezza di esecuzione spiega anche il corpus di dipinti modesto – poco più di 360 – per un artista morto nel 1967 a 84 anni. Un pittore rimasto fedele per tutta la vita al linguaggio figurativo, a un
«realismo» americano che potrebbe apparire anacronistico (e oggi decisamente riduttivo) dopo l’apparizione di nuove avanguardie come l’Espressionismo astratto negli anni Quaranta-Cinquanta; epoca in cui la fama di Hopper è all’apice, almeno in patria. Cape Cod Morning, uno dei capolavori a Basilea, data del 1950 e raffigura una donna che come tutte le sue figure femminili ha le fattezze della moglie Jo, anche lei pittrice, e si protende a guardare oltre la finestra alla luce del mattino: una luce esclusiva, destinata soltanto a chi la guarda, come osserva il poeta americano Mark Strand, e per questo forse annunciatrice di altro. L’aspetto fondante della pittura
di Hopper, capace ancora oggi di attirare un largo pubblico, sembra essere la tensione che emana dai suoi dipinti, catalizzata il più delle volte da un corpo o da un volto che inducono lo sguardo dell’osservatore a cercare oltre i confini delle tele per inseguire la linea di strade deserte inghiottite dall’ombra di boschi enigmatici e vagamente minacciosi. I suoi sono paesaggi in cui gli elementi della civiltà moderna fronteggiano la natura, attirandoci sempre nel tempo sospeso che intercorre fra qualche cosa che è appena successo e un evento imminente, anche grazie alla scelta di inquadrature originali che ritagliano porzioni di paesaggi con prospettive insolite (ecco
per esempio un faro su un promontorio che svetta senza nessun mare ai suoi piedi) e che privilegiano le linee orizzontali come in Railroad at Sunset o ancora nel capolavoro House by the Railroad. Quest’ultima figura fra i primi acquisti nel 1930 per la collezione del Museum of Modern Art di New York e nel 1960 diventerà anche una celebre inquadratura nel film Psycho di Hitchcock. Edward Hopper, lui stesso appassionato frequentatore di sale cinematografiche, ha lasciato una traccia profonda in molti registi, attratti dalla qualità narrativa della sua pittura; fra questi anche il tedesco Wim Wenders che proprio a Basilea ha presentato in anteprima il suo omaggio al pittore americano: un cortometraggio in 3D che permette la suggestiva esperienza di una passeggiata virtuale nella sua pittura. Due buoni motivi quindi per una visita a Basilea: il primo, la rarità delle esposizioni dedicate a questo maestro americano, ancora poco collezionato in Europa (l’ultima in Svizzera risale al 2010 a Losanna); il secondo è la scelta dell’allestimento che segue piste ancora poco battute, come la sorprendente opera grafica di Hopper; il disegno e l’acquarello sono tecniche che gli consentono di riprodurre la sensazione della velocità e dell’immediatezza di paesaggi colti al volo, dal finestrino dell’automobile con la quale lui e la moglie Jo sfrecciavano per le strade di campagna del Maine alla ricerca di nuove visioni. Dove e quando
Edward Hopper, Riehen/Basilea, Fondazione Beyeler. Orari: lu-do 10.0018.00; me 10.00-20.00. Attualmente il museo è chiuso a causa dell’emergenza Corona. www.fondationbeyeler.ch
Acclimatarsi all’arte
Installazioni A colloquio con l’artista bernese Christine Streuli, che si occuperà dell’allestimento del nuovo
ristorante del LAC di Lugano Ada Cattaneo Quello fra musei e cibo è un connubio sempre più attuale. Ma non è sempre stato così e ancora oggi qualche purista si chiede se sia lecito portare un ristorante all’interno di un museo, mischiando arte ed intrattenimento. Ma sarebbe inutile negare il piacere che offre la pausa in un’accogliente caffetteria per recuperare le energie spese visitando le mille stanze di un grande museo. I primi a capirlo sono stati gli inglesi, che continuano ad avere molto da insegnare in tema di attenzione per il visitatore: il Victoria and Albert Museum di Londra ospitò per primo al mondo un ristorante, aperto nel 1854, in seguito decorato addirittura da William Morris. Con lui si inaugura anche la pratica di coinvolgere un artista per migliorare il design di questi spazi, estendendo quindi il progetto culturale dell’istituzione alle sale per l’accoglienza del pubblico. La formula si è rivelata fortunata e negli ultimi anni si sta dimostrando sempre più fertile. Così, a New York, il ristorante della nuova sede del Whitney Museum è stato realizzato da Renzo Piano, mentre quello del Guggenheim Museum, il ristorante «The Wright», ospita una grande installazione dell’artista inglese Liam Gillick. La Serpentine Gallery di Londra, invece, può contare sugli ambienti disegnati da Zaha Hadid. All’artista tedesco Tobias Rehberger è stata affidata la decorazione del caffè della Biennale di Venezia. Philippe
Starck ha invece disegnato il ristorante del Museum of Islamic Art di Doha, in Qatar, dove il menu è firmato da Alain Ducasse. (La presenza degli chef stellati è infatti un altro elemento che da alcuni anni sembra non poter mancare nei ristoranti dei musei e non solo, considerato che Ferran Adrià nel 2007 ha preso parte alla prestigiosa Documenta di Kassel.) Anche il MASI, nella sua sede presso il LAC, ha deciso di invitare un’artista per decorare gli spazi multifunzionali che ospiteranno, oltre all’ingresso alle sale espositive, anche il nuovo ristorante. Si tratta di Christine Streuli, nata a Berna nel 1975 e ora attiva Berlino, che è intervenuta sulle pareti dell’ambiente. In un’intervista, racconta del suo lavoro, della pittura e di come ha sviluppato l’opera che sarà presto visibile a Lugano. Ci descrive la sua installazione al nuovo ristorante del MASI al LAC?
I visitatori potranno vedere delle gigantesche pennellate che percorrono le superfici dell’ambiente, seguiranno i colpi di colore che si muovono vitali attraverso l’atrio d’ingresso. Questi gesti erano stati precedentemente eseguiti da me su fogli di carta in dimensione A3. Ho ingrandito e stilizzato gli originali, che avevo realizzato a mano, trasformandoli nel simbolo della pittura stessa, dell’espressione, del movimento. Ho indagato quindi le questioni della superficie e della profondità, dell’originale e della copia, del
Christine Streuli. (Keystone)
colore, della forma e del supporto, della materialità. Ho cercato di affrontarle in modo giocoso e attento.
Come ha affrontato questa commissione e cosa pensa degli interventi degli artisti nello spazio pubblico?
Portare l’arte in un luogo specifico è sempre una grande sfida. Ho già avuto esperienze in questo senso, realizzando molteplici progetti di «Kunst am Bau». In generale, lo spazio deve essere prima calpestato e assimilato metro per metro. Le condizioni di luce e le energie che aleggiano nell’ambiente devono essere percepite e interpretate. Quindi,
anche in questo caso, è stato importante visitare la sala dove sarei intervenuta, trascorrerci del tempo in situazioni diverse e analizzarne le condizioni. L’arte ha il potere di mettere a confronto i visitatori con le energie, con il visibile, e quindi di generare domande, che collegano le persone con il luogo. Può darsi anche che riesca a farle sostare e le inviti a pensare e a guardare con più attenzione. Al LAC incontriamo una situazione molto particolare. Entriamo nell’atrio di un museo d’arte, che ospita anche il suo ristorante, eppure l’architettura è progettata in modo tale che, prima di poter entrare nelle sale espositive, si debba usare un ascensore o una scala mobile. Questo spazio multifunzionale serve quindi come una camera d’acclimatazione. Il mio quadro dovrebbe dare modo di prepararsi alla visita del museo. La contemplazione del dipinto può fornire degli spunti utili per osservare le opere d’arte che si andranno a visitare. Che tecnica ha usato, e come si rapporta al contenuto del lavoro?
I grandi cerchi di colore hanno la loro origine in piccole opere di carta fatte a mano. Sono stati digitalizzati e ingranditi. Una trasformazione da analogico a digitale. La questione della scala e quella dell’originale e della copia viene qui ulteriormente indagata. I gesti sono stati trasferiti alle pareti in due strati, tramite stencil fatti di alluminio. Quello che sembra un ricciolo eseguito da una gigantessa a pennello è il tentativo di raccontare il gesto pittorico.
Le sue opere trattano il significato della pittura,come mezzo tradizionale e mezzo contemporaneo: ci spiega il suo rapporto con essa?
Sono interessata ad indagare la pittura, partendo dalla tradizione e fino alla sperimentazione. Al contempo, mi interessa indagarne contenuto e tecnica. Tento di trovare e inventare modi di affrontare la materia e il colore, con il loro assoluto potere di seduzione, illusione e repulsione. Provo a riconoscere i gesti, imparo a lasciarli accadere, per poi interpretarli, analizzarli e ripeterli più e più volte. La pittura è incontro e coinvolgimento. Dipingere è conoscere la propria sensibilità e quella dell’altro, imparare a valutarla, per poi dimenticarla e rinegoziarla più e più volte. Che impressione ha avuto del LAC e dei suoi spazi, durante il suo soggiorno a Lugano?
Il LAC è una grande nave. Quando si entra nell’edificio, ci si confronta contemporaneamente con moltissime informazioni: materiali, impianti, infissi, ingressi, uscite e personale. Prima di poter andare in qualsiasi direzione, dobbiamo avere una visione d’insieme. Lo stesso è successo anche in versione ridotta durante la mia prima visita negli spazi dedicati al MASI nel LAC. Era quindi mia intenzione creare un’unità fra lo spazio e il mio murale, un’unione, un’armonia. Spero quindi di avere contribuito a determinare un luogo dove è piacevole sostare, mentre si viene guidati nelle direzioni possibili grazie alla dinamica del dipinto.
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Cultura e Spettacoli
Fra le rovine dell’uomo
Pubblicazioni L’editore Casagrande dà alle stampe quattro pièces di Ágota Kristóf
Centomila sfumature di Pirandello In scena Maschere
e follia nella nuova produzione di Emanuele Santoro
Daniele Bernardi Sia come dato biografico che come componente dell’immaginario, il teatro, in Ágota Kristóf, occupa un posto particolare. Per chi non lo sapesse, infatti, l’autrice ungherese naturalizzata svizzera agli inizi del suo percorso si cimentò soprattutto nella scrittura drammaturgica per passare poi, in un secondo tempo, alla prosa. Anche nella sua opera più importante, la triade di romanzi nota ai lettori italofoni come La trilogia della città di K., il «gioco» (al massacro) teatrale è una presenza significativa: bambini, i gemelli Lucas e Claus sottopongono loro stessi ad «esercizi» di auto-rafforzamento il cui sapore richiama la crudeltà del rito scenico; imbastiscono, inoltre, rudimentali numeri da circo coi quali si esibiscono in veri e propri spettacoli. Non è quindi un caso che l’opera della Kristóf sia, da un lato, di grande interesse per chi lavora sul palco (com’è avvenuto al sottoscritto e a chi, qui accanto, illustra questo testo) e che, dall’altro, i materiali teatrali di cui è parzialmente composta abbiano trovato, col tempo, collocazioni editoriali di rilievo: fu infatti l’Einaudi a pubblicare nel 1999 le pièces La chiave dell’ascensore e L’ora grigia nella «Collezione di teatro». Successivamente, presso Casagrande, apparvero invece i dialoghi di Dove sei Mathias?, mentre in tempi più recenti, sempre per Einaudi, sono usciti John e Joe e Un ratto che passa. Oggi è ancora Casagrande a invitarci a prendere posto nel desolato universo drammaturgico dell’autrice: infatti, con la pubblicazione de Il mostro e altre storie (2019) ecco che altri quattro scabri copioni – due di questi erano già apparsi presso Lamantica Edizioni – sono a disposizione dei lettori che hanno amato capolavori quali Il grande quaderno e La terza menzogna nelle belle versioni del romanziere Marco Lodoli (a suo tempo già autore dell’edizione italiana di Ieri): Il mostro, La strada, L’epidemia, L’espiazione.
Giorgio Thoeni
Agota Kristóf in un intenso ritratto realizzato da Ledwina Costantini. (Ledwina Costantini)
Dopo una prima lettura occorre però premettere che poco ci convince la tesi del traduttore secondo cui, come si legge nella sua nota introduttiva ai testi, Ágota Kristóf sarebbe «un’autrice senz’altro pessimista» ma, anche, incline a non «spegnere l’ultima luce possibile». In chiusura al suo intervento Lodoli asserisce infatti che «in ognuna di queste opere (...) si alza la voce semplice e chiara della dissidenza» che, debolmente, pare «indicare una stradina in mezzo alla catastrofe». L’affermazione ci sembra distorcere la fisionomia di una scrittrice che ha sempre saputo quanto la vita fosse ben più crudele di un libro: se in Ágota Kristóf trovassimo la cosiddetta speranza (questa la parola che sovente ossessiona chi respinge le sue pagine) tutta la potenza del suo universo narrativo andrebbe in frantumi. La sola (e, sì, autentica) speranza da lei conosciuta è quella del gesto cre-
ativo, delle possibilità del dire al di là di qualsivoglia «messaggio» di fiducia o di disperazione. Ma purtroppo, anestetizzati a morte dal nostro mondo ipocrita, siamo diventati allergici al tragico – la cui peculiarità non è quella di consolare – e incapaci di accettare appieno le parole di chi ci mostra che non c’è scampo. Prendiamo, ad esempio, Il mostro – la prima delle quattro pièces riunite in volume – dove si racconta dell’insediarsi di una creatura seduttrice, affamata di esseri umani, all’interno di una comunità che, man mano, viene corrotta dalla sua presenza. Non ci sembra che lo spirito di insurrezione di Nob – il giovane che per indebolire il mostro uccide senza distinzione tutti quelli che, attratti dal suo richiamo, gli si avvicinano – rappresenti «una luce» fra le rovine dell’uomo. Al contrario, il suo convertirsi in un cieco assassino è la conferma che l’ingranaggio distruttivo trascina tutti con sé
e che, come suol dirsi, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: «Questo è accaduto qui o altrove / Da qualche parte / Una volta / Oggi ieri e domani» recitano infatti gli ultimi versi del testo. Non dissimili ci appaiono i protagonisti di L’epidemia, testo venato di velenosa comicità in cui si narra del diffondersi di un morbo che spinge l’umanità al suicidio. O quelli di L’espiazione: un gruppo di mendicanti al cui interno si celano torturatori ed exaguzzini che si sono macchiati di reati per cui (giustamente) «non esiste perdono o oblio». Ágota Kristóf non concede speranze, no, la sua artaudiana crudeltà non glielo permette ed è qui la sua grandezza-saggezza: attraverso la semplicità di una lingua povera, quasi naive, mostrare come, in un orrendo mondo che seguita a illuderci di poter non pagare alcun prezzo, la vita, invece, ci presenti sempre il salatissimo conto della nostra abiezione.
I miti di quel mito di Sergio Leone
Mostre Anche se la mostra all’Ara Pacis di Roma è ormai off limits, può essere una buona
occasione per recuperare i film di Leone Blanche Greco Un biondino smilzo dal viso asimmetrico e dallo sguardo che sembrava volerti trapassare da parte a parte, difficile riconoscere Sergio Leone diciottenne che vediamo immortalato vestito da seminarista in una foto di scena di Ladri di Biciclette, eppure quegli occhi da duro ci ricordano Clint Eastwood, con gli speroni, il poncho e il sigaro all’angolo della bocca, icona di quel mitico «west» creato anni dopo da Sergio ormai regista: un universo fatto di sguardi determinati, di vendette, di avidità, di crudeltà, di duelli pieni di pallottole e di sarcasmo. C’era una volta Sergio Leone la Mostra curata da Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, acclamata a Parigi, e ora a Roma al Museo dell’Ara Pacis, a novant’anni dalla nascita del grande regista italiano (1929-1989), più che raccontarlo lo svela, mettendo insieme la sua biografia e spezzoni dei suoi sette celebri film, l’album fotografico della sua famiglia con i documenti, i costumi, i bozzetti, le testimonianze e le interviste di e su Sergio Leone, perché nel suo cinema tutto è strettamente legato come diceva lui: «Sono nato nel cinema. I miei genitori ci lavoravano, la mia vita le mie letture,
Sergio Leone (1929-1989). (Wikipedia)
tutto quel che mi riguarda ha a un rapporto con il cinema. Il cinema per me è la vita e viceversa». Il cinema muto italiano è stato il suo parco giochi grazie alla madre Edvige Valcarenghi (l’attrice Bice Waleran), e soprattutto al padre Vincenzo Leone, attore e regista affermato con il nome di Roberto Roberti, del quale ve-
diamo i copioni, le fotografie dei suoi film e delle sue dive. Negli occhi bistrati di Gian Maria Volonté, «cattivo» teatrale e scellerato, dallo sguardo languido e crudele, di Per un pugno di dollari, c’è il ricordo beffardo di certe primedonne del cinema muto e il peso del destino fatale e implacabile del cinema orientale che,
anche dopo Yojimbo di Kurosawa, che fu la molla di quel primo film, continuò ad affascinare Sergio Leone e a contaminare «le sue favole» costruite sulla vita vera. «Mi sono formato alla scuola neorealista, ma in gioventù avevo il mito del cinema americano, proibito sotto il fascismo. In America c’è il mondo intero, se si lascia la cinepresa in un vicolo e si va a mangiare quando si torna c’è un film». Per questo Leone ambientava in America le sue storie intessute di spavalderia, di attori famosi, di primi piani, di silenzi, di melodie formidabili create da un suo ex compagno delle elementari diventato musicista, Ennio Morricone. La «trilogia del dollaro» e poi: C’era una volta il West, Giù la testa, C’era una volta l’America, questa Mostra racconta il Sergio Leone barbuto, visionario, artigiano, affabulatore geniale, che rivoluzionò il cinema italiano e quello americano.
«Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. La realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani». Pubblicato per la prima volta nel 1926, a puntate, sulla rivista «Fiera Letteraria» e successivamente in un volume, Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello, può essere letto come un romanzo, decisamente il più celebre dell’autore siciliano, o adattato come monologo. È quest’ultima dimensione teatrale che ha affascinato Emanuele Santoro riuscendo a debuttare un paio di settimane fa al Teatro Foce di Lugano, pochi giorni prima di dover rinunciare ad altre date. La maschera, la follia, l’uomo e la sua identità nella sua dimensione individuale e in rapporto con la collettività: i temi della letteratura e del teatro del Nobel di Caos sono un concentrato di filosofia sulla condizione umana. Ma in quest’opera, come nel Fu Mattia Pascal, emerge particolarmente la figura dell’uomo qualunque che scopre che l’esistenza è per sé stessa un problema difficile da risolvere. Un fil rouge immaginario che congiunge Vitaliangelo Moscada (detto Gengè), il protagonista del racconto, a certi eroi di Ibsen, Cechov, Strindberg, Wedekind, Musil e altri. Gengè è un uomo come tanti, conduce una vita tranquilla e agiata grazie alla banca ereditata dal padre, accanto alla pratica dell’usura. Un uomo senza particolari qualità. Sennonché quando si accorge allo specchio di un banale difetto fisico, il naso leggermente storto, la sua vita si trasforma in una quotidianità paradossale, grottesca, in cui ogni suo momento lascia spazio a equivoci che mettono in discussione la sua stessa esistenza. Inizia così un percorso alla ricerca del suo essere autentico, paragonandolo alle maschere indossate per apparire, per poi finire a dover fare i conti con nessuno (o con centomila). La sua è la ricerca di un’identità che finirà per tradursi in un gioco paradossale, ossessivo, dove il confronto continuo lo porta a inimicarsi il prossimo e gli affetti fino allo spasmo, fino alla scomposizione di sé e dei suoi tanti alter ego verso un grottesco processo di distruzione della personalità e una progressiva follia scandita da una memoria lacerata dal presente. Un appassionato saggio della poetica pirandelliana che Emanuele Santoro traduce in un maturo monologo (suoi l’adattamento, la regia e la scenografia). In scena per circa un’ora e mezza, fra teste distribuite sul palco e appese a un filo invisibile, la recitazione di Santoro accompagna il progressivo crollo del protagonista con una prova composta e efficace, in bilico sulla sottile piattaforma umoristica del celebre capolavoro.
Dove quando
C’era una volta Sergio Leone, Roma, Ara Pacis. La mostra in origine doveva durare fino al 3 maggio. A causa delle chiusure straordinarie imposte dal Coronavirus, chiediamo di consultare il sito: arapacis.it
L’artista Santoro. (© Emanuele Santoro)
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Cultura e Spettacoli
De Michelis e i suoi nomi
Editoria Una biografia dell’editore e professore universitario Cesare De Michelis e la storia della casa editrice Marsilio
in un libro del giornalista Marco Sassano Stefano Vassere «Cesare ride rilassato quando accetta di raccontare la sua nascita e la sua giovinezza. E a guardarlo bene, ironico e brusco come è, gli occhi si inumidiscono quando, con insolita dolcezza, parla dei suoi genitori e della grande famiglia che già da quell’inizio si intuisce gli sarà sempre intorno». La vita di Cesare De Michelis, storico presidente della casa editrice Marsilio e professore di letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Padova, ha da subito un’onomastica non comune. Il padre, Turno De Michelis, ebbe fratelli che si chiamavano Ilda, Scintilla, Eurialo, Niso, un altro Turno morto appena nato, Fedro, Irno e Miriam. Sono quasi tutti nomi dell’Eneide a parte l’ultimo e il penultimo, che è il nome di un fiume che scorre a Salerno. La madre di Cesare si chiamava Virginia ma fu chiamata per sempre Noemi. E in fine di questa curiosa serie, il nostro stesso Cesare era stato, per l’anagrafe, Rennepont, dal nome di un personaggio di un romanzo d’appendice dell’Ottocento, I Misteri di Parigi di Eugène Sue. Ora, che destino può avere una persona che abbia in famiglia nomi propri di questo genere? Qualcuno deve naturalmente averlo chiesto a De Michelis, che sembra leggesse in tutto questo «una sorta di allegro destino alla confusione». Che però ebbe
forse qualche ruolo, se questo figlio di ingegneri (la madre era stata una delle maggiori esperte europee del plexiglass) decise di occuparsi di lettere e di lingua. Se è un antico amico, come in questo libro, a scrivere una biografia e a scriverla richiamando spesso le parole vive di De Michelis, essa non può che risultare soggettiva e prodiga di affetto e segreti. E non può non portare gesta e motti memorabili, che danno il metro di una persona che i più riconobbero come straordinaria. De Michelis sfiorò per esempio una carriera politica importante (quella che ebbe per contro il fratello Gianni) e si racconta che a Pietro Nenni, che un giorno, in Piazza San Marco, lo esortava a dargli del tu, il giovane Cesare avesse risposto «Onorevole, non ho dimestichezza a dare del tu alla Storia». Gran parte del libro è dedicata all’attività di professore di letteratura e a quella di editore, che aveva avuto avanguardie molto precoci, tra le quali un paio di riviste di critica fondate insieme a Massimo Cacciari, e che ha avuto nella Marsilio il suo traguardo più definito. E ciò per ben due «tornate»: l’entrata negli anni Sessanta con un capitale azionario portato in parte dal fratello Gianni e in parte, in dono per la laurea con Vittore Branca, dal padre Turno; e la riacquisizione quasi politica nel 2016, dopo quindici anni di gestione della Rizzoli e dopo che
quest’ultima azienda si era unita, con ben nota aggregazione, alla Mondadori. Dice già molto, di questa vicenda così lunga, l’immagine che Marco Sassano ci rende della sede storica della Marsilio, a ridosso di Piazzale Roma, al punto estremo dell’arrivo delle automobili, prima di entrare nell’acqua. «Nessun luogo migliore poteva ospitarla, se non l’antica capitale dei libri e la famosa Casa rossa della zona portuale, al confine tra canali d’acqua e marciapiedi. Al crocevia di una storia gloriosa e di un sentimento che l’intelligenza del cuore assimilerebbe a quell’attesa paziente con cui un editore si mette sulla riva del mare e aspetta manoscritti in bottiglia». Viene da dire che la vita di Cesare De Michelis sia stata un’epopea della letteratura, e che egli stesso sia stato, della letteratura, una sorta di eroe. Quanto serve, la letteratura? E se serve, serve a vivere? «Ci troviamo impotenti ad affrontare una nuova crisi. Noi pensiamo che questa crisi sia un problema degli economisti e dei politici, invece è un problema dei letterati. È come la peste del Trecento da cui nacque l’umanesimo. Ma quella peste non la vinsero i medici, la vinse il Decameron di Boccaccio». Bibliografia
Marco Sassano, I libri sono come le ciliegie. Cesare De Michelis in parole sue, Venezia, Marsilio, 2019. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Il Salone del libro... in salotto Mi sono «fatto» tutti i Saloni del Libro fin dalla prima edizione quando ancora era collocato nel palazzo di Torino Esposizioni prima di essere trasferito nella ex fabbrica di automobili Fiat del Lingotto. Ero ancora un dipendente della Rai e prendevo le ferie per essere lì tutti i giorni dal mattino alla sera. Una volta il mio direttore di allora, incrociandomi in un corridoio mi diede l’ordine di affrettarmi verso lo stand della Rai per allestire un collegamento in diretta e io non osai rivelargli che ero in vacanza. E ora non mi rassegno all’idea che la prossima edizione, prevista dal 14 al 18 maggio debba essere annullata per l’epidemia e rinviata in autunno quando altri eventi hanno già occupato tutti i giorni del calendario. Ho deciso: se dovesse succedere, il Salone me lo faccio in casa con i miei editori preferiti. Con una premessa: alla pari di molti visitatori, non frequento gli stand dei grandi gruppi editoriali, mi sembra una perdita di tempo dal momento che i loro libri si trovano in bella vista sui
banconi delle librerie che oramai fanno quasi tutte parte di una qualche catena che privilegia gli autori della casa. Il piacere maggiore che ricavo dal Salone è la scoperta dell’esistenza di piccoli o anche medi editori di cui ignoravo persino l’esistenza (in Italia i marchi sono più di 5mila). In ogni caso, anche se il marchio mi era noto, qui espongono tutto il loro catalogo e posso recuperare titoli che mi erano sfuggiti perché le novità sostano in libreria una ventina di giorni prima di essere rispedite in magazzino. Torniamo al mio Salone domestico. Comincio da Adelphi, il più radical chic, lo colloco in sala contro la parete di destra, davanti a un altarino laico sotto una foto di Simenon, che gli ho scattato a casa sua a Losanna nel 1963. Adelphi è da collocare tra i grandi ma vale la pena esporlo perché è ricco di proposte curiose e spiazzanti, lavora ai margini del mainstream. Nel suo catalogo non trovi I promessi sposi ma le Note Azzurre di Carlo Dossi. Gli devo eterna ricono-
scenza per avermi fatto scoprire W.G. Sebald (Austerlitz) e Irène Némirovsky (Suite francese). Sul lato opposto colloco L’Orma che pubblica libri perfetti dal punto di vista grafico, sotto un ritratto di Giovanbattista Bodoni. In camera da letto La Nave di Teseo perché voglio bene a Elisabetta Sgarbi. Einaudi va sul lato sinistro del lungo corridoio con Stile Libero sui ripiani bassi. Sul lato destro Bollati Boringhieri, con un grazie perché pubblica Hans Tuzzi. Boringhieri è una costola di Einaudi, quando Giulio decise di mollare le collane scientifiche le prese il responsabile del settore, Paolo Boringhieri a cui si aggiunse tempo dopo il direttore di Einaudi Giulio Bollati. Ma anche Adelphi è una costola di Einaudi, la fondò Luciano Foa quando il comitato editoriale, per il diniego risoluto di parte dei componenti di fede marxista leninista si oppose al progetto di pubblicare l’opera omnia di Nietzsche nell’edizione Colli Montinari che faceva giustizia dell’ipoteca nazista sul filosofo.
Ma non basta, altre due costole nascono da editori che si sono fatti le ossa in via Umberto Biancamano e sono Carmine Donzelli che dà vita alla sigla con il suo nome e Vittorio Bo, ideatore di Codice, che pubblica testi fondamentali di divulgazione che si collocano al confine fra due scienze su terreni inesplorati. Torniamo al mio salone domestico. Su Iperborea non ho dubbi, la colloco in frigorifero, i suoi autori sono tutti nordici e non patiscono il freddo. Per Aragno che pubblica meravigliosi libri inarrivabili per un editore che debba anche guadagnarci sopra e per di più non li distribuisce, ci vuole una cassapanca foderata di raso nero. Sellerio, che per quanto riguarda il piacere della lettura non sbaglia un colpo, lo voglio in cucina, a portata di mano. Nello sgabuzzino Minimum Fax, i suoi libri stanno bene dappertutto. Nomino per ultimo il marchio che sta in cima ai miei pensieri, collocato nel posto d’onore al centro della sala: Manni editori di Lecce,
una piccola, coraggiosa casa editrice che ha nel suo catalogo grandi nomi della ricerca letteraria. Con un piccolo neo, purtroppo: hanno pubblicato i miei ultimi tre libri, che Dio li perdoni. A ogni salone mi compro due libri che vanno nel minuscolo studio per poterli leggere subito. Quest’anno saranno i due Meridiani Mondadori, le 3000 pagine delle Opere di bottega di Fruttero & Lucentini, due amici che mi mancano e un libro edito da Einaudi, La storia dei Sacri Monti di Guido Gentile. Ripensandoci, perché non possiamo progettare un salone virtuale? Da visitare stando in casa? Allestiamo un sito, con un link per ogni editore. Ci clicchi sopra ed entri non nel suo catalogo, quello c’è già, ma nel suo stand, dove dialoghi con gli addetti, sfogli i libri, assisti alla presentazione di un autore che, da casa sua, ti racconta il suo ultimo libro. Puoi fargli delle domande, se è uno straniero facciamo scorrere in basso la traduzione simultanea. Proviamoci, cosa costa?
portare nella caverna gli animali che ho ammazzato nella foresta per nutrire i cuccioli e la femmina gravida. Io sono la femmina gravida. Tocca a lui portare la selvaggina a casa. Ma lui non lo fa. Per un po’ abbiamo campato con le elemosine di sua madre. Ma adesso, il rubinetto si è chiuso. Siamo alla fame, dottore. Io vado a prendere la verdura ai banchi del mercato di Testaccio verso le due, quando stanno chiudendo, c’è un ciccione di Fondi che mi regala mele ammaccate, l’insalata che è rimasta troppo al sole, pomodori molli. E io gli sorrido. L’altro giorno mi ha presentato il suo amico marocchino che ha il banco del pesce. Gli ho sorriso. Ho avuto un chilo di alici e un sacchetto di cozze. Mia figlia, quando le ho mostrato quel bottino senza specificare che l’ho avuto in dono, ha detto: puzzano. Che ne dice dottore? non valgo granché neanche come escort da mercato rionale, vero?» Betta continuò come un fiume in piena. Voleva dirgli tutto l’indicibile, è per questo che si pagano gli psicanalisti, per poter dire quello che non puoi dire
a tuo marito ai tuoi parenti ai tuoi amici e neppure a te stessa, no? Gli disse che sapeva di essere bella e stava incominciando a pensare di mettere all’incasso quella cambiale prima che scadesse. Disse: «È più virile il pescivendolo marocchino, più virile del mio raffinato marito, grande studioso del cinema di Roberto Rossellini». Alla fine della seduta, realizzò che il dottor M non la congedava. Continuò a parlare, ancora per un certo numero di minuti. Non era mai successo. « Se sapessi dove andare lo lascerei. Lascerei Tommaso Sandrucci, detto Tom. Prima che sia troppo tardi. Prima di diventare vecchia e brutta», disse alla fine. Poi tacque. Restò sdraiata, ansimando leggermente, come se avesse corso. Si sentiva meglio. «Si sente meglio?» Le chiese il dottor M, accompagnandola alla porta. Betta pensò che quell’uomo le leggeva dentro. Ritrovarsi fuori, nella città, dopo la seduta, le procurò un senso di libertà ritrovata. Non era più costretta a fare chiarezza. Poteva guardarsi attorno,
distrarsi con il mondo, sprofondare nel disordine delle strade, una solitudine fra le altre. Come tutte le volte che usciva dallo studio di M, si sentiva addosso una improvvisa capacità di fare attenzione. Guardò i volti dei passanti, quasi tutti immusoniti, neanche infelici, arrabbiati. E improvvisamente il suo personale fallimento esistenziale le parve meno grave. Erano molto pochi quelli che stavano bene. Ed erano i meno sensibili, i più mercantili. Di colpo le parve di far parte di una aristocrazia, quelli che avevano il coraggio di essere infelici invece che arrabbiati. Pensò che aveva voglia di comunicare questo pensiero a Tom. Immaginò di preparare una minestra e di prendere a credito una bottiglia di vino dal negozio di alimentari dove avevano un conto aperto da due mesi . Prese la bottiglia di vino e aprì la porta gonfia di un confuso desiderio di star bene con Tom. Ma Tom non c’era. Sul piano di lavoro della cucina trovò un biglietto: «Sto via qualche giorno. Farà bene a tutti e due. Sara è da Serena. Dorme lì» (Continua)
della realtà virtuale) sostiene che davanti all’occhio impassibile dell’algoritmo di Google, non c’è differenza tra il «Wall Street Journal» e i siti spazzatura, e questo ha generato una crisi enorme nell’industria dell’informazione. «Mi preoccupa moltissimo l’idea che internet, che avrebbe dovuto essere un’utopia per l’informazione, stia in realtà riducendo la qualità dell’informazione a cui le persone hanno accesso, e questa è una tragedia», dice Lanier. Altri, invece, sono più ottimisti, pensano che, certo, vivremo in un mondo dominato dall’intelligenza artificiale delle macchine, ma non per questo diventeremo schiavi dei robot. Qualcuno, lo sappiamo bene, è arrivato a vedere nella macchina algoritmica un’incarnazione di democrazia diretta, anche se per ora l’idea assomiglia pressappoco a un’utopia, e di quelle radiose. Ci sono infatti crescenti indizi che l’occidente stia arrancando verso il dominio dell’algorit-
mo, un Mondo Nuovo in cui vasti campi della vita umana saranno governati dal codice digitale sia invisibile sia incomprensibile per gli esseri umani, con un significativo potere politico posto al di là della resistenza individuale e legale. Le democrazie liberali stanno già avviando questa rivoluzione silenziosa e tecnologicamente attiva, anche se minano le loro stesse fondamenta sociali? Sta di fatto che l’algoritmo dei motori di ricerca influenza le nostre ricerche, l’algotrading muove ogni ora milioni di dollari e suggerisce le scelte che dobbiamo fare nella vita quotidiana. Un nuovo potere invisibile ci domina, si chiama algocracy? Il termine è apparso nel 2006 in Virtual Migration, un libro di A. Aneesh che descrive sistemi di governance informatizzati dove è il codice che determina, organizza e vincola le interazioni umane con quei sistemi. La parola è formata da algo, abbreviazione informale di algorithm, e dal secondo
elemento – cracy, crazia, cioè potere. La traduzione in italiano, algocrazia, crea qualche problema (etimologicamente significherebbe «governo del dolore», meglio «algoritmocrazia»), ma lasciamo alla Crusca, o chi per lei, la soluzione: i dolori sono altri. Da un po’ di tempo negli Stati Uniti, tra le questioni più urgenti per chi si occupa di intelligenza artificiale c’è quella di insegnare l’etica alle macchine affinché gli algoritmi non prendano decisioni discriminatorie o moralmente riprovevoli. La tecnologia non è mai neutrale. Il suo valore dipende in larga parte dall’uso che se ne fa e per questo sembra indispensabile, mai come ora, alimentare un dibattito sull’etica della tecnologia, l’etica del digitale. Fine della libera informazione? Dominio degli algoritmi? A quando il primo governo Black Mirror? Già Goethe, con la terribile favola dell’Apprendista stregone, ci aveva insegnato che la tecnica va tenuta sotto controllo.
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/3 Il dottor M la fece sedere sul lettino. Le fece piegare la testa in avanti. Le ordinò di chiudersi le narici con la mano. «Epistassi, niente di preoccupante», disse, restando in piedi accanto a lei. Il sangue smise di scivolare fuori dalle delicate narici di Betta. Il fazzoletto era intriso di quel liquido denso ma leggero che non aveva mai osato guardare. Neppure se usciva dal corpo di qualcun altro. «Resti ancora un po’ in questa posizione», disse ancora. Le mise una mano sulla nuca. Betta sentì pesare come una dolcezza straniante il calore del palmo, il leggero pulsare dei polpastrelli a massaggiarle il cuoio capelluto. «Mi dispiace...», incominciò a dire. «Non parli» la interruppe il dottor M. E siccome Betta taceva, per la prima volta parlò lui. «Lei è molto tesa perchè non è in condizione di saldare il suo debito con me, vorrei assicurarle che non si tratta di un problema. Lo salderà quando sarà in grado di farlo, nel frattempo continueremo a vederci. Non deve lasciarsi condizionare da questa sgradevole con-
tingenza economica. Stiamo facendo dei passi importanti. Non roviniamo tutto per qualche centinaio di euro» «Milleduecentotrenta», disse Betta. Il dottor M la guardò. Era pallida e aveva le gote rosate. Le labbra semiaperte. Una goccia di sangue rappreso sotto il naso. Gli occhi lucidi. Dal cappotto aperto si intravedevano le lunghe gambe fasciate in un paio di calze spesse e chiare. Non era la prima paziente bella che aveva avuto in cura, ma nessuna gli aveva mai causato quel turbamento. C’era qualcosa di ostinatamente sincero, in lei, che la rendeva forte e vulnerabile nello stesso tempo. La guardò mentre si toglieva il cappotto, lo poggiava con un gesto delicato sul bracciolo della sedia e si stendeva sul divano. Andò a sistemarsi dietro la scrivania come sempre. Tacquero entrambi per un minuto. Poi Betta disse: «Non si tratta di una sgradevole contingenza economica. Si tratta di una condizione di fallimento esistenziale. Tom è un fallito. E anche io lo sono. Ma io sono una donna. Ho almeno fatto una figlia. Non sono io che devo
A video spento di Aldo Grasso Controlliamo la tecnologia Stiamo vivendo la più grande rivoluzione antropologica che l’umanità abbia mai conosciuto e non ce ne accorgiamo. O meglio, sì qualcosa intuiamo perché lo smartphone ti fa sentire al centro del mondo, perché siamo affascinati dalle infinite possibilità offerte da internet, dai motori di ricerca, perché siamo sui social e possiamo dire finalmente la nostra, perché leggiamo dei progressi raggiunti dalle biotecnologie che modificano e allungano la vita, perché l’intelligenza artificiale viene in soccorso alla nostra, che non sempre si è dimostrata all’altezza. Ma, come ha scritto Massimo Gaggi nel libro Homo premium. Come la tecnologia ci divide (Laterza), «nelle rivoluzioni precedenti le braccia dell’agricoltura erano passate all’industria e quando anche qui erano arrivati i robot, quelle delle fabbriche erano emigrate verso lavori di maggior contenuto cognitivo. Ma ora l’intelligenza artificiale comincia a sostituire anche molte mansioni intellettuali
degli addetti ai servizi e di varie categorie di professionisti: analisti, medici, commercialisti, agenti di viaggio, giornalisti, perfino avvocati». La rivoluzione di internet, che alcuni studiosi americani considerano più decisiva dello sbarco sulla luna, comincia dunque a creare alcuni problemi non solo tecnologici. Il web è diventato a tutti gli effetti un ambiente in cui viviamo e respiriamo. I nuovi media sono ubiqui, costituiscono la quotidianità, si offrono come dimensioni sociali, culturali, politiche ed economiche del mondo contemporaneo e in quanto tali contribuiscono alla nostra capacità di dar senso al mondo, di costruire e condividere i suoi significati. Non sono soltanto uno specchio della realtà esterna; sono realtà essi stessi. Un guru tecnologico come Jaron Lanier (musicista e compositore professionista, ha accompagnato al piano John Cage e Laurie Anderson e ha collaborato con Philip Glass, ma è anche uno dei creatori
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