Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Le emozioni dei bambini in questo periodo di forzato isolamento: intervista alla psicoterapeuta Cinzia Pusterla
Ambiente e Benessere Hospice Ticino «raziona» i servizi a domicilio a causa del Covid-19, ma mantiene comunque attenzione e vicinanza attraverso contatti telefonici, via e-mail e, se necessario, con visite al paziente
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 6 aprile 2020
Azione 15 Politica e Economia La drammatica miopia dei leader del mondo nel vedere l’arrivo del virus
Cultura e Spettacoli Gli artisti da sempre cercano di illustrare e narrare ciò che sconvolge l’uomo
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In prima linea contro il virus
Didier Ruef
di Maria Grazia Buletti pagina 3
Isolati, fra interrogativi e speranze di Peter Schiesser Non ci sono riuscito. Avrei voluto scrivere un diario di questa pandemia, per ancorare questo tempo strano. L’avevo cominciato il 1. di marzo, cinque giorni dopo il primo caso conclamato in Ticino, nove dopo il primo in Italia. Ma di fronte all’Unheimliche, di cui parla lo scrittore Mauro Veronesi a pagina 35, mi sono fermato. Non mi sono mancate le parole, mi è mancata la volontà e la forza di scriverle giorno dopo giorno. Forza e volontà mi servivano per cogliere, capire, contenere, metabolizzare l’immensità che giorno dopo giorno si stava abbattendo su di noi, sul mondo intero. Già il solo fatto di riuscire a continuare a lavorare, sostanzialmente da casa, richiedeva sforzi e adattamenti, trovarsi la casa diventata ufficio senza chiari confini, e poi la necessità di un dialogo, di una vicinanza diversa con amici, amiche, famigliari, tutto questo occupava mente e tempo, anche il fisico direi, mentre in sottofondo le notizie avevano un solo nome, Covid-19, e significati lugubri, oscuri. La forza interiore e la volontà erano rivolte a reggere l’incertezza, a coniugarla con la consapevolezza, anche della paura, affinché non divenisse panico o rimozione.
Tre settimane di isolamento più tardi, con altre davanti a noi, persiste questo senso di smarrimento di fronte all’inconcepibile. Dal terrazzo di casa, con lo sguardo che può spingersi lungo su prati, alberi in fiore, armoniose sagome di villaggi in lontananza, il mondo sembra quello di sempre. Ma non lo è, fermo in questo tempo sospeso. E anche noi non siamo più quelli di prima, abbiamo dovuto modificare i nostri comportamenti più intimi, imparare ad accettare il folle pensiero che anche la persona più cara possa infettarti e metterti in pericolo, o tu lei, cercando di evitare che al contempo ne nasca un sentimento di sfiducia. Ce lo chiediamo tutti: torneremo a baciarci e abbracciarci, e quando? E nella vita sociale, quando torneremo a fidarci del prossimo tanto da sedergli accanto durante un concerto, uno spettacolo, una festa affollata? Quando spariranno dalla vista mascherine guanti disinfettanti? Sono interrogativi che restano senza risposta fino a emergenza conclusa. La pandemia non è sotto controllo, vengono i brividi a pensare a che cosa accadrà nelle prossime settimane negli Stati Uniti, in Europa e, speriamo di no, che cosa potrebbe accadere in continenti più poveri come l’Africa e l’America latina. Qualche segnale incoraggiante
viene dall’Italia ed è consolante vedere che la curva dei contagi è meno ripida Oltralpe. Speriamo sia così presto anche in Ticino, dove le strutture sanitarie hanno fin qui retto il colpo grazie al potenziamento di cui sono stati capaci in breve tempo EOC e cliniche private e grazie alla dedizione del personale medico. E poi, fa bene al cuore percepire in cose grandi e piccole tanti e tali slanci di solidarietà. L’avvitamento delle società moderne in un individualismo sempre più spinto ce lo aveva fatto dimenticare, ma il coronavirus ci ha fatto capire quanto abbiamo bisogno del prossimo, che esistiamo in quanto animali sociali, che da soli non ce la possiamo fare in questa vita. Siccome queste riflessioni le avranno fatte tutti per esperienza vissuta, non solo come esercizio mentale astratto, è più probabile che lascino il segno anche in futuro. Lo stesso vale per la nostra relazione di cittadini con lo Stato: anche chi predica il libero mercato ad oltranza oggi ha bisogno dello Stato per sopravvivere, ossia della comunità. Verrà riscritto il contratto fra le diverse parti della società, vorremo dare di nuovo maggiori risorse allo Stato? Sfruttiamo l’isolamento per pensare a come vorremo ricostruire la realtà, una volta che recupereremo la libertà di uscire nel mondo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Società e Territorio La spesa con Amigos.ch Migros, in collaborazione con Pro Senectute, propone un servizio gratuito di consegna della spesa a domicilio per chi fa parte di un gruppo a rischio
I bambini e i cartoni animati I cartoon possono essere educativi e positivi per l’immaginario infantile a patto che rispondano a certi criteri. Intervista al professor Cosimo Di Bari
Personaggi La storia dello psichiatra elvetico Adolf Meyer la cui lezione è ancora di sconcertante attualità
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Tutti in casa Intervista alla psicoterapeuta Cinzia Pusterla su come affrontare questo periodo di isolamento con i bambini
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Le narrazioni dell’incertezza Dialogo Una riflessione sulla Medicina
narrativa al tempo del Covid-19
Sebastiano Caroni e Christian Delorenzo Avrei voluto incontrare Christian Delorenzo di persona in Italia, dove si trova spesso, magari davanti a un buon caffè. Christian Delorenzo è uno specialista di narrazioni. Lavora come consulente letterario presso l’ospedale Chic di Créteil. All’Université ParisEst Créteil insegna Medicina narrativa, e ha da poco tradotto il libro fondamentale sul tema: Medicina narrativa di Rita Charon, per Raffaello Cortina. Avrei voluto incontrarlo di persona, ma non si può, lo sappiamo. Così ci diamo appuntamento per una conversazione telefonica. S.C.: Jerome Bruner una volta scrisse che «le avventure accadono a chi le sa raccontare». Non so cosa ne pensi tu, ma trovo che il termine «avventura», permettimi il gioco di parole, sia un po’ avventato in questi giorni. Viviamo un momento segnato dall’incertezza, ci troviamo obbligati a rivedere i nostri piani per il futuro, a rinviare o annullare vacanze e viaggi, tanto per fare un esempio. E anche quando si tratta di cose semplici, dobbiamo muoverci fra una fitta selva di ma, forse, chissà. E, come se non bastasse, la mappa di questa nostra inedita esistenza può davvero cambiare da un giorno all’altro, ridisegnata da nuove regole, restrizioni, fatti, numeri, dati; magari scompaginata dall’irruzione dello spettro di cui parlano tutti. Tu che professionalmente ti occupi di come le parole aiutano a raccontare meglio la realtà, non trovi che sia piuttosto arduo descrivere, e raccontare, tutta questa incertezza? E che una frase come quella di Bruner, che normalmente sarebbe illuminante, diventa improvvisamente spinosa, sconsiderata, addirittura pericolosa? C.D.: Anch’io ho qualche perplessità su «avventura». Etimologicamente, è un participio futuro: ciò che avverrà. Ma «avventura» ha una valenza positiva, che mi fa pensare ai romanzi di Stevenson. Peccato che non siamo in viaggio verso l’isola del tesoro. Se anche lo fossimo, il viaggio salterebbe per via delle misure di contenimento, e noi rimarremmo bloccati sul galeone. Racconterebbe questo uno Stevenson oggi? Non lo so. Ma so che siamo
in una pandemia. Lo direi senza giri di parole. Ora, Arthur Frank sostiene che una delle tre modalità di racconto della malattia, a livello individuale, sia quella caotica. Non c’è deviazione temporanea dal corso della vita. Non c’è ricerca di senso. C’è una narrazione che fatica a organizzarsi, che si decostruisce. Mi chiedo se, con l’incertezza che ci circonda, non stia avvenendo questo, ma a un livello più ampio, sociale. E mi chiedo pure, per parafrasare Austin, quali cose facciamo, qui e ora, con le narrazioni del Coronavirus. S.C.: Se capisco bene quanto dici, a questo punto mi porrei il seguente interrogativo: quali effetti ci aspettiamo dalle storie che raccontiamo a chi ci sta attorno? Con le parole mettiamo in ordine l’esperienza, mettiamo una cornice e infondiamo dei colori alla realtà che ci circonda. Nelle condizioni attuali, scegliere le parole giuste è più che mai fondamentale. Ti faccio un esempio. Se i media continuano a dirci che la situazione è tragica, affiancando queste parole con delle immagini altrettanto drammatiche, danno una certa immagine complessiva della realtà: indubbiamente fedele a quel che ci sta capitando. Ma questo significa che la speranza, la positività, e la creatività non debbano fare parte della storia ufficiale, non in questo momento? Non pensi che chi si trova nella posizione di raccontare la realtà, in una situazione delicata come la nostra, si trovi anche di fronte al difficile compito di raggiungere un equilibro fra pessimismo e ottimismo, fra dramma e speranza? C.D.: Credo che ogni storia sia il risultato di una relazione. Quella tra chi scrive e chi legge. Aggiungerei un undicesimo diritto al decalogo di Pennac: Il diritto di leggere quello che si vuole. Non intendo solo libertà nella selezione, ma soprattutto libertà nella reazione e nell’interpretazione. Ogni lettore apporta qualcosa di fondamentale alla dinamica testuale: la propria lettura. Quindi, la mia interrogazione si sposta ulteriormente dal piano che indichi tu – il desiderio di provocare un certo effetto – a quello della consapevolezza. Potrei riformulare così la mia domanda: quali cose fa fare questa specifica narrazione? Tra l’altro, può valere sia per chi scrive che per
«Magari testimonianze dalla prima linea se più condivise aumenterebbero la consapevolezza della situazione». (Didier Ruef)
chi legge. La speranza, la positività, la creatività, sì. Ma in astratto ognuno ha la libertà di rinvenire o costruirsi questi valori in un’esperienza di lettura. E poi una narrazione, anche se percepita come paurosa, potrebbe rivelarsi se non buona almeno efficace in un contesto d’incertezza. Perché la paura, magari, porta a tutelarsi. S.C.: La paura induce a rispettare i divieti e le limitazioni, rendendo efficaci le misure di contenimento, ma temo che sia anche un’arma a doppio taglio, poiché spesso viene proiettata, inconsciamente, su delle categorie di persone come i runner, che diventato improvvisamente i nuovi untori, dei capri espiatori insomma. Trovo che la paura, come risposta all’incertezza, stia mostrando dei limiti abbastanza evidenti. A questo punto, quindi, io valorizzerei piuttosto un’esperienza a cui tu stesso fai riferimento: la con-
sapevolezza. Anche se, a dire il vero, è più facile cedere alla paura che accedere alla consapevolezza. L’importante però è non rimanere prigionieri della propria paura, o di quella degli altri, ma cercare di trasformarla in qualcosa di più costruttivo. Il galeone sarà anche fermo in mezzo all’oceano, come dicevi tu prima: ma ai primi segnali di ripartenza è meglio che al timone ci sia la paura o la consapevolezza? C.D.: Non vedo per forza opposizione tra consapevolezza e paura. Al timone non può esserci, in momenti come questo, consapevolezza della paura? Il cuore dell’oceano, quando pulsa per una tempesta, può fare paura persino a un pilota esperto. Ma anche rabbia, tristezza, disgusto. Non so tu, ma io mi scopro a viverle ogni giorno, queste emozioni. Credo che la consapevolezza aiuti a resistere, senza cercare il nemico di turno o cadere nella di-
sperazione. Ma come accedere a questa consapevolezza? Non è facile, vero. La mia risposta è: scrivendo. La Medicina narrativa suggerisce vie e strumenti. I professionisti della salute, per esempio, potrebbero utilizzare il genere della cartella parallela per dare voce alle proprie storie. Rita Charon, che lo ha inventato, ne parla molto nel suo libro, a cui rimando. Sia chiaro: la mia non è un’ingiunzione. È un invito aperto. Magari, testimonianze dalla prima linea, se più condivise, aumenterebbero la consapevolezza della situazione. E magari l’esperienza dell’isolamento, nuova per tutti, acquisirebbe anche il senso di un contributo alla cura. Che non sia proprio questa la chiave, il rimedio all’incertezza? La consapevolezza di quanto sia fondamentale oggi aver cura. Per tornare a navigare domani, con il vento in poppa. Chissà. S.C.: Chissà.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Emergenza Covid in corsia
Pandemia Il personale medico sanitario della Clinica Luganese Moncucco è confrontato con tantissime ore
di lavoro, fatiche fisiche e psicologiche, pochissimo riposo, ma dimostra tanta voglia di andare avanti e aiutare
Maria Grazia Buletti «I pazienti che ora siamo chiamati a curare presentano condizioni completamente diverse dalla quotidianità alla quale eravamo abituati: ci confrontiamo con patologie molto gravi a livello polmonare e respiratorio, il cui quadro clinico ed emodinamico può completamente degenerare anche in un paziente stabile fino a poco prima. Ciò significa che dobbiamo assicurare un controllo costante dei parametri vitali e mettere in campo tutte quelle indagini di cui disponiamo a beneficio massimo dei pazienti. Questo virus sta causando grossi problemi all’apparato respiratorio»: la dottoressa Manuela
Indispensabili i sedativi. (Didier Ruef)
La corsia è diventata un susseguirsi di letti e macchine, affollata di pazienti e di personale curante. Su azione.ch trovate una più ampia galleria fotografica. (Didier Ruef)
Balmelli (specializzata in medicina interna generale) ha per ora sospeso le visite ambulatoriali e presta servizio alla Clinica Luganese Moncucco 24 ore su 24, come del resto alcuni suoi colleghi e gran parte del personale sanitario, tutti chiamati a far fronte all’emergenza coronavirus. Prima di lei sentiamo il professor Andreas Cerny, epatologo e infettivologo pure accreditato alla stessa struttura, che ora dirige anche la parte ambulatoriale degli altri suoi colleghi impegnati con i pazienti degenti in clinica: «Siamo dieci medici distribuiti in diverse sedi esterne ambulatoriali che si occupano di pazienti trapiantati, con cirrosi epatiche, Hiv, epatiti e dipendenze». Persone che, a lato dell’emergenza sanitaria, necessitano di cure improrogabili ora coordinate dal professor Cerny in servizio solidale con gli altri colleghi, fra i quali la dottoressa Balmelli che, malgrado i ritmi
incalzanti di lavoro, ci riserva un po’ del suo tempo per parlare con noi di come viene vissuta oggi la quotidianità in clinica. Con voce pacata, riflessiva e cordiale, ci ringrazia per l’interesse che dimostriamo ai curanti. Racconta come è cambiato il modo di lavorare in corsia, come ci si organizza, la situazione d’emergenza, le fatiche, la pressione emotiva, la relazione con i parenti e tanto ancora: tutto quello che solo un mese fa sarebbe stato inimmaginabile: «Prima di tutto sono cambiati i rapporti interpersonali a favore di tanta solidarietà. Lavoriamo 24 ore su 24, un grandissimo impegno medico-sanitario: medici senior, medici assistenti e personale sanitario sono operativi senza sosta». Una frenetica e complicata attività ospedaliera che richiede una presenza costante: «Il lavoro è molto più concentrato, faticoso anche dal profilo psicologico perché sono forti le interazioni con
Al di fuori della corsia, il lavoro non è da meno. (Didier Ruef)
il personale infermieristico e tutti quelli che si adoperano a lavorare con noi in questo momento». Lo spirito di solidarietà è tangibile, racconta, tanto quanto la reciproca collaborazione di tutto il personale sanitario: «Ci dà la forza per andare avanti, lavorare tante ore consecutive essendo efficienti coi pazienti che ora hanno davvero molto bisogno delle nostre cure». Uno sforzo psicofisico che talvolta necessita di un sostegno assicurato dallo psichiatra della struttura: «I pensieri sono veramente tanti, compresa la consapevolezza che potremmo ammalarci a nostra volta, pensiero che scongiuriamo mettendo in atto tutte le misure necessarie per curare i nostri pazienti». Tangibili le precauzioni messe in campo: mascherine, camici, occhiali, guanti, disinfezione e personale specifico che controlla quotidianamente che tutto sia come da protocollo. Anche il morale, ci racconta, si
Apparecchiature complesse necessitano di personale specializzato. (Didier Ruef)
mantiene positivo: «Abbiamo scelto una professione che va, dal profilo sanitario e medico, verso l’aiuto al prossimo: ognuno di noi è certamente in
Arrivano nuovi pazienti, la struttura è ancora in grado di accoglierli. (Didier Ruef)
grado di essere d’aiuto alle persone per le quali, mai come in questo momento, dobbiamo rappresentare un pilastro». Ma ci sono pure alcuni momenti di sconforto per quelle persone che non ce la fanno: «Come medici e curanti perdere questi pazienti è di sconforto perché è un epilogo che non vorremmo mai». Poi ci sono le persone che guariscono e lasciano la Clinica: «Ti salutano commossi, non finiscono di ringraziarti: è una grande emozione vederli partire ed è la cosa più bella che possa succedere perché ci fa comprendere il senso positivo di ciò che stiamo facendo». Un auspicio per salutarci: «Non avrei mai pensato di vivere tutto questo nella mia vita, ma posso garantire che mai come ora ho incontrato persone speciali e ricevuto tantissimo sostegno da chi mai avrei pensato ci stesse vicino in questo momento». Solidarietà, e continuità dell’unione creatasi ora fra le persone: è l’auspicio che esprime quando le chiediamo cosa lascerà a tutti noi questa esperienza.
Migros e Pro Senectute lanciano un servizio spesa per gruppi a rischio.
Migros e Pro Senectute lanciano un servizio spesa per gruppi a rischio.
Appartieni a un gruppo a rischio? Rimani a casa! Servizio di consegna a domicilio di generi alimentari Dei volontari ti porteranno la spesa fino alla porta di casa. Ordina subito la tua spesa su www.amigos.ch Il sito web mette in contatto persone appartenenti a gruppi a rischio con persone in salute desiderose di prestare aiuto al vicinato. Trovi maggiori informazioni su:
www.amigos.ch
Il rischio di contagio da coronavirus è alto soprattutto per gli anziani e le persone malate. Ecco perché, nell'attuale situazione eccezionale, le persone appartenenti a questi gruppi a rischio dovrebbero rimanere a casa e non andare a fare la spesa.
Migros e Pro Senectute lanciano un servizio spesa per gruppi a rischio.
Aiutanti volontari cercasi Servizio di consegna a domicilio di generi alimentari Sei in salute e vuoi essere d'aiuto? Scarica l'app Amigos e registrati come «volontario».
La Migros avvia insieme a Pro Senectute una nuova forma di aiuto al vicinato e offre un servizio gratuito di consegna a domicilio dei generi alimentari. Il pagamento degli acquisti avviene senza contanti. Il servizio di aiuto al vicinato è gratuito. Gli acquirenti possono versare spontaneamente al loro «volontario» una mancia digitale.
L'app mette in collegamento persone appartenenti a gruppi a rischio con persone in salute desiderose di prestare aiuto al vicinato. Trovi maggiori informazioni anche nell'app Amigos.
App
Ringraziamo sin da ora tutte e tutti gli aiutanti volontari.
www.amigos.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Fresco, sano e sostenibile
Attualità Per Pasqua i banchi del pesce fresco Migros sono pronti ad accontentare il vostro palato. Tanto più
che questa settimana potrete beneficiare del 10% di riduzione su tutto l’assortimento
Azione 10% su tutto l’assortimento di pesce fresco al banco a servizio (escl. articoli già in azione) dal 7 all’11 aprile
Flavia Leuenberger Ceppi
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Sono molti coloro che seguono la tradizione di astenersi dal mangiare della carne il Venerdì Santo. A tal proposito i banchi del pesce fresco presenti nei supermercati di Migros Ticino propongono una ricca e variegata scelta di specialità ittiche perfette per la tavola delle feste. Il pesce non è solo un alimento delicato dal punto di vista gustativo, ma anche facilmente digeribile e particolarmente sano, visto anche il contenuto di preziosi aci-
Rana pescatrice in crosta speziata
di grassi omega 3, benefici sul livello di colesterolo. Inoltre, i consumatori possono gustare la loro pietanza preferita con la coscienza tranquilla: tutto l’assortimento di pesce e frutti di mare della Migros proviene infatti esclusivamente da fonti sostenibili, ossia da una pesca responsabile o da allevamenti ecocompatibili. Ma quali sono i pesci più ricercati ideali da servire durante il periodo pasquale? Sicuramente i pesci interi che, oltre
ad essere gustosi, sono anche belli da vedere, come per esempio l’orata, il branzino, la trota, il salmone oppure la rana pescatrice, pesce quest’ultimo di cui vi proponiamo una sfiziosa ricetta in questa pagina. Per ogni richiesta specifica, non esitate a rivolgervi a uno dei nostri specialisti del banco del pesce fresco, che sarà ben lieto di consigliarvi al meglio sulla preparazione del vostro piatto a base di prodotti ittici.
Ingredienti per 4 persone 1 filetto di rana pescatrice di ca. 700 g 1 cucchiaino di fleur de sel 2 cucchiai d’olio d´oliva ½ cucchiaino di pepe in grani ½ cucchiaino di cumino 3 cucchiai di pangrattato 2 cucchiaini di burro, morbido 2 rametti d’aneto Preparazione 1. Scaldate il forno a 170 °C. Sciacquate il pesce e asciugatelo. Accomodatelo in una pirofila e salate un poco tutto il filetto. Irroratelo d’olio e cuocetelo in forno per 15-20 minuti in
base allo spessore del pesce. 2. Pestate il pepe e il cumino e mescolateli con il sale rimasto, il pangrattato, l’aneto tritato e il burro. Sfornate il pesce. Alzate la temperatura del forno a 220 °C e regolate su calore superiore. Distribuite la panatura speziata sul pesce e gratinatelo per ca. 5 minuti, finché la crosta non si colora. 3. Servite il pesce a fette con delle verdure di stagione, p. es carotine multicolori tagliate a fettine e soffritte nel burro per una decina di minuti con l’aggiunta di un po’ di scorza di arancia grattugiata e condite con sale e pepe.
Tenero e aromatico Colombe Bottega Balocco
Attualità La Pasqua è l’occasione perfetta
per cucinare un prelibato gigot d’agnello
Specialità Due colombe di alta qualità per una festa piena
di dolcezza
Bottega Balocco Colomba Zenzero, Lime e Cioccolato Bianco 750 g Fr. 14.95
Tra i piatti tradizionali del periodo pasquale, figura sicuramente il gigot d’agnello. Grazie alla presenza dell’osso e all’equilibrato tenore di grassi, questa carne ovina risulta particolarmente morbida e succosa. Il cosciotto può essere preparato sia al forno che in padella oppure sulla griglia. Per non compromettere il delicato aroma dell’agnello, non eccedere con i condimenti. Il grado di cottura ideale del gigot è di 60 °C al cuore, ossia quando la carne risulta rosata all’interno. Per una semplice e saporita ricetta, praticare dei tagli nella
parte superiore di un gigot d’agnello e infilarvi delle fettine di aglio. Salare e pepare generosamente e unire diversi rametti di rosmarino fresco. Posizionare il gigot in una teglia e irrorare con qualche cucchiaio di olio di oliva. Rosolare al centro del forno preriscaldato a 220°C per ca. 15 minuti. Abbassare la temperatura a 170°C e continuare la cottura per ca. 90 minuti. Servire con patatine al forno. Trovate il gigot, come pure altri tagli d’agnello quali il filetto, la lombatina, i racks e le costolette, presso la vostra macelleria Migros di fiducia.
Bottega Balocco è sinonimo di prodotti di elevata qualità d’arte pasticcera. Materie prime d’eccellenza e amore per le cose buone della tradizione sono i segni distintivi del marchio piemontese. Le colombe Bottega Balocco sono prodotte solo con lievito madre, latte fresco di alta qualità e uova da allevamento a terra. La glassatura avviene in modo artigianale utilizzando nocciole italiane.
Bottega Balocco Colomba Albicocca 750 g Fr. 14.95
La frutta candita utilizzata, firmata Agrimontana, è lavorata con procedimenti delicati e senza l’impiego di anidride solforosa, coloranti o aromi artificiali. Il raffreddamento finale avviene come vuole la tradizione a testa in giù, per otto ore, alfine di mantenerne la classica forma e l’inconfondibile fragranza. Unica nel suo genere, la Colomba Zenzero, Lime e Cioccolato rappresenta un matrimo-
nio perfetto tra la freschezza e l’aromaticità del lime e dello zenzero con la dolcezza del cioccolato bianco. Le morbide e polpose albicocche emiliane candite conferiscono alla Colomba Albicocca un sapore delicatamente dolce, per un piacere a tuttotondo. Infine, le confezioni esclusive delle due colombe, che ricordano i pacchi di una volta, sono delle idee regalo ideali per i propri cari.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Società e Territorio
Fare la spesa per chi deve restare a casa Amigos.ch Per tutte le persone che fanno parte di un gruppo a rischio o che hanno più di 65 anni, le conseguenze
di un contagio da coronavirus sono importanti. Per questo motivo Migros, in collaborazione con Pro Senectute, propone ora un servizio gratuito di consegna della spesa a domicilio
Se un articolo non fosse disponibile, sarà vostro compito trovare la miglior alternativa possibile. Alla cassa pagate voi stessi gli acquisti e scansionate lo scontrino di cassa. L’importo corrispondente vi sarà accreditato sul conto bancario indicato non appena avrete depositato spesa e scontrino davanti alla porta della persona che ha fatto l’ordine. Le norme igieniche emanate dall’UFSP devono sempre essere rispettate. Per qualsiasi domanda tecnica vogliate contattare l’Infoline Amigos, per telefono al numero 0800 789 000, per e-mail all’indirizzo support@amigos.ch
Moritz Weisskopf Nelle scorse settimane le autorità cantonali e federali hanno decretato lo stato di necessità a causa della diffusione del coronavirus. Scuole, bar e ristoranti sono stati chiusi. Gli eventi pianificati sono stati cancellati e la popolazione è stata esortata a rispettare la distanza sociale e a limitare il più possibile i contatti con altre persone. In particolare alle persone over 65 è stato vietato di andare a fare la spesa e a chi era già malato prima della comparsa del virus è stato richiesto di non uscire di casa. Per tutte le persone appartenenti a un gruppo a rischio, queste misure comportano una dipendenza dall’aiuto degli altri, per esempio per fare le commissioni. L’impressionante ondata di solidarietà che si è evidenziata in tutta la Svizzera dimostra quanto sia grande il bisogno di nuove modalità di approvvigionamento per i gruppi a rischio. Per questo motivo Migros, in collaborazione con Pro Senectute, propone una nuova forma di aiuto tra vicini di casa. Le persone a rischio, in quarantena o in autoisolamento possono ora farsi portare a casa da volontari, gratuitamente e in tempi brevi, gli alimenti e i generi di uso quotidiano di cui necessitano (vedi anche lo schema a pagina 4). Solidarietà nel fare gli acquisti
Chi desidera beneficiare del servizio, l’acquirente, deve semplicemente effettuare l’iscrizione sul sito di Amigos dopodiché può fare i propri acquisti da casa. Gli ordini vengono trasmessi via app agli aiutanti volontari, che effettuano gli acquisti e li consegnano a domicilio. Il servizio è gratuito ma è possibi-
Appartiene a un gruppo a rischio?
Siete in salute e volete aiutare a fare la spesa? Scaricate l’app «Amigos». (MigrosMedien)
le dare una piccola mancia in occasione del pagamento online. È infatti importante evitare l’utilizzo di soldi contanti alla consegna. Tutte le persone sane che desiderano dare il proprio contributo possono registrarsi come volontari. I volontari si registrano gratuitamente tramite l’app «Amigos». I volontari sono tenuti a rispettare rigorosamente le regole di condotta emesse
dall’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP). Una volta effettuati gli acquisti, i volontari consegnano una o due borse della spesa davanti alla porta di casa. Cerchiamo volontari
Siete in buona salute e volete portare il vostro aiuto e fare la spesa per chi deve restare a casa? È sufficiente scaricare
l’app «Amigos» e iscriversi come «aiutante volontario». È possibile scegliere la zona in cui siete disponibili ad effettuare le consegne. Non appena qualcuno nelle vostre vicinanze inoltra il suo ordine, riceverete una notifica push con l’indirizzo e la lista della spesa. Dopo aver confermato la disponibilità, andrete nel supermercato Migros più vicino per acquistare i prodotti richiesti.
Allora deve rimanere il più possibile a casa e lasciare che altri facciano la spesa per voi. Su amigos.ch potete facilmente compilare la lista della spesa che vi serve. Gli acquisti vengono effettuati da volontari e vengono consegnati a domicilio all’orario desiderato, con lo scontrino. Se un prodotto richiesto non è disponibile, i volontari cercheranno di trovare la migliore alternativa disponibile. Questo servizio non è pensato per i grandi acquisti, di conseguenza la consegna a domicilio è limitata a un massimo di due borse della spesa. L’acquisto viene pagato tramite carta di credito e il volontario riceverà sul suo conto l’accredito dell’importo anticipato dopo la consegna della spesa. Le misure di igiene prescritte dall’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) devono sempre essere rispettate. In caso di domande tecniche contattate l’Infoline Amigos: per telefono al numero 0800 789 000, per mail a support@amigos.ch.
L’utilità dei cartoni animati
Famiglia Lasciare che i figli trascorrano del tempo (limitato) davanti allo schermo non è sbagliato.
I cartoon possono essere educativi, a patto che rispondano a certi criteri Stefania Prandi Lasciare che bambine e bambini trascorrano del tempo (limitato) davanti allo schermo, guardando i cartoni animati, non è sbagliato. I cartoon possono essere istruttivi, a patto che rispondano a certi criteri. La loro utilità è stata analizzata in Cartoon educativi e immaginario infantile (Franco Angeli), raccolta di contributi di educatori e studiosi a cura di Cosimo Di Bari, ricercatore di Pedagogia generale e sociale all’Università di Firenze. Professor Di Bari, in che cosa consiste il valore pedagogico di un cartone animato?
I cartoon abitano la vita dell’infanzia, entrando nelle abitudini, ma anche nel gioco e finiscono così per nutrire l’immaginario dei bambini. Possiamo considerarli dei «testi», come lo sono le fiabe, e possiedono tanto rischi quanto opportunità. Rispetto ad altre forme narrative, il loro valore consiste, ad esempio, nella capacità di promuovere efficacemente l’immedesimazione degli spettatori nei personaggi e, dunque, nella possibilità di favorire una pluralità di punti di vista. Ci sono sempre più cartoon pensati per la prima infanzia che promuovono valori positivi, come l’amicizia, la collaborazione, il rispetto. Inoltre possono arricchire il linguaggio e favorire l’apprendimento di altre lingue. È bene precisare però che le potenzialità dei cartoon, per essere colte, necessitano dell’accom-
pagnamento di un adulto che sappia stare vicino al bambino, regolando i tempi e cercando di far sì che la visione sia solo il «pre-testo» per poi cercare di svolgere altre attività.
Quanto tempo dovrebbero trascorrere i bambini davanti allo schermo? E da che età?
Gli studi più recenti e accreditati sull’argomento sono quelli dell’Accademia Americana dei Pediatri. Secondo queste ricerche sarebbe auspicabile che prima dei due anni i bambini non avessero a che fare con gli schermi. Sarebbero inoltre preferibili gli schermi interattivi. Prima dei due anni i bambini hanno bisogno di formare i propri riferimenti spaziali e tempo-
rali, di usare le dieci dita della mano e di vivere esperienze nelle quali siano in grado di sperimentare i loro stati emotivi in prima persona. Purtroppo, le statistiche ci dicono che queste indicazioni non vengono rispettate. La capillare diffusione degli schermi rende difficile vietarne l’uso prima dei due-tre anni, per questo si rende necessario un ruolo attivo dei genitori, affinché offrano alternative e portino i piccoli, gradualmente con la crescita, ad autoregolarsi. Una «missione» complessa, ma non impossibile, a patto che l’adulto sia il primo a offrire un esempio positivo.
Perché è importante che i cartoni animati abbiano dei contenuti e non siano semplice intrattenimento?
La definizione di «edutainment» è sempre più diffusa e dovremmo sfatare l’idea che ciò che è intrattenimento non possa essere educazione. Ad esempio, il gioco ha da sempre un valore educativo e può rappresentare una risorsa. I cartoon per la prima infanzia sono un altro esempio significativo perché, pur essendo pensati prima di tutto per intrattenere, vengono progettati con la consapevolezza delle capacità e delle attitudini dei bimbi di età inferiore ai sei anni e al loro interno ci sono tanti spunti interessanti da cogliere. Indubbiamente la ricchezza delle immagini, il linguaggio utilizzato, la complessità della narrazione, la caratterizzazione dei personaggi, l’uso delle musiche sono tutti dettagli capaci di fare la differenza. Nonostante questo, è sempre
concreto il rischio che i produttori e i canali tematici finiscano per adeguarsi alle leggi del mercato, offrendo al pubblico solo programmi che riescono a catturare l’ascolto e dunque a farsi strumento di profitto, a prescindere dalla ricchezza dei contenuti. Per questo è importante che vicino al bambino ci sia un adulto in grado di filtrare e selezionare.
Quali sono i parametri per capire se un cartoon è valido?
Un primo criterio è la piacevolezza, tanto per il bambino quanto per l’adulto. È probabile che al piccolo piacciano cartoon con musiche accattivanti, colori accesi e personaggi facilmente riconoscibili mentre l’adulto potrebbe considerare maggiormente la dimensione estetica. Poi possiamo pensare alla corrispondenza tra l’età dei personaggi rappresentati e l’età degli spettatori, per evitare che ci sia troppo distanza rispetto ai modelli in cui ci si immedesima. Un terzo elemento è la chiarezza, cioè quanto gli episodi sono comprensibili e quanto possono essere narrati dal bimbo al termine della visione. Un quarto criterio è l’assenza di stereotipi di genere o di modelli semplificati della realtà: le narrazioni non dovrebbero confermare la realtà (come avviene in molti testi, si pensi ad esempio a Peppa Pig), ma dovrebbero fare viaggiare la fantasia. Un quinto criterio è rappresentato da come le narrazioni del cartoon si collegano alla vita concreta, ad esempio a quanto offrano spunti per scoprire la natura e
le situazioni della quotidianità. Infine possiamo valutare quanti e quali valori positivi vengono rappresentati nel cartoon. Qualche esempio di cartone animato educativo?
Partendo dalla tradizione, possiamo senza dubbio far riferimento a Pimpa, che nasce in collegamento con i fumetti e con le storie illustrate di Altan. Lì la cagnolina accompagna il bambino nella scoperta della realtà attraverso la curiosità e la collaborazione di tanti altri personaggi. Sempre in ambito italiano una produzione recente interessante è rappresentata da I Minicuccioli, realizzati dal Gruppo Alcuni di Treviso, con le avventure di personaggi che vivono in un bosco: anche in questo caso, al centro ci sono l’amicizia, il rispetto, la collaborazione. Possiamo pensare ad altri cartoon interessanti: Vampirina mostra una rappresentazione della differenza come risorsa e non problema; Curioso come George stimola la curiosità del bambino e allena al problem solving; PJ Masks, pur orientandosi verso bambini di cinque-sei anni (sebbene sia fruito ben prima) e pur avendo ritmi da film d’azione, mettono in evidenza che solo attraverso la collaborazione con l’altro si possono risolvere i problemi. Infine, altri esempi interessanti sono i cortometraggi di animazione: la Pixar ha prodotto dei capolavori, a partire da Luxo Jr per arrivare a La Luna. Ma, se ben contestualizzati e problematizzati, anche i cartoon più commerciali possono trasformarsi in risorsa.
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Società e Territorio
Guarire è un dovere civico
Personaggi A 70 anni dalla morte, la lezione dello psichiatra elvetico Adolf Meyer è ancora di sconcertante attualità
Benedicta Froelich Sebbene la Svizzera sia un paese dalle dimensioni piuttosto ridotte, sono comunque diversi gli ambiti culturali e scientifici in cui l’influenza elvetica sul resto del mondo è risultata inversamente proporzionale all’estensione territoriale. Ciò è più che mai valido nel caso di una branca medica dallo sviluppo relativamente recente come quella della psicoanalisi e psichiatria: basti pensare a Carl Gustav Jung – ma anche a Eugen Bleuler e Auguste Forel, antichi direttori del celeberrimo ospedale Burghölzli di Zurigo, istituzione quantomeno pionieristica nel campo delle cure psichiatriche. Vi è però un personaggio che, per quanto poco noto al grande pubblico, può vantare un prestigio internazionale tuttora insindacabile, tale da renderlo, a ben settant’anni dalla morte (il 17 marzo del 1950), un costante punto di riferimento per la categoria: un vero e proprio precursore, che dalla natìa Svizzera conquistò gli Stati Uniti per affermarsi come un rivoluzionario nel campo della disciplina psichiatrica. Correva l’anno 1892 quando il ventiseienne Adolf Meyer – di Niederweningen, Canton Zurigo – prese una decisione cruciale: dopo il conseguimento del diploma in medicina a Zurigo e le successive esperienze formative in Europa, emigrò in America, dove avrebbe finito per «inventare» quasi dal nulla la moderna scuola psichiatrica statunitense. Grazie a una carriera stellare, nel 1908 fu nominato direttore del-
la neonata Henry Phipps Psychiatric Clinic, divisione dell’ospedale interno alla prestigiosa Johns Hopkins School of Medicine – posizione che avrebbe ricoperto fino al suo pensionamento, nel 1941. Furono gli anni in cui Meyer sviluppò quel che sarebbe poi diventato il suo maggiore contributo alla pratica psichiatrica, ovvero la teoria dell’ergasiologia: secondo i precetti della psicobiologia, egli riteneva infatti che la cosiddetta «malattia mentale» avesse radici biologiche, oltreché nervose, e che come tale andasse quindi trattata al pari di qualsiasi altra patologia organica, senza paure né demonizzazioni di sorta. Allo stesso tempo, però, era convinto che ogni malessere di natura psichiatrica costituisse una reazione disfunzionale dell’individuo a fattori sociali e caratteriali avversi: l’ambiente famigliare e il contesto socioeconomico e culturale in cui la persona si trovava a svilupparsi e vivere avevano un forte influsso sulla predisposizione o meno al disagio psichico – il che spingeva Meyer a raccogliere informazioni e osservazioni dettagliate su ognuno dei suoi pazienti (inaugurando così un metodo destinato a divenire comune pratica medica), ma anche a tentare di prevenirne e attenuarne i sintomi tramite strategie comunitarie e interdisciplinari quali le terapie occupazionali. Si tratta di concetti che oggi siamo abituati a dare pressoché per scontati, soprattutto nell’ambito della psicologia forense; eppure, in un’epoca dominata da cliché che equiparavano il paziente
psichiatrico a un individuo affetto da patologie o lesioni cerebrali, simili idee andavano, di fatto, controcorrente. Fu proprio la nuova visione di Meyer, da lui definita con il termine di «igiene mentale», a motivare la decisione forse più coraggiosa e anticonformista della sua carriera: nel 1907, egli scelse infatti di associare il proprio nome a quello di Clifford W. Beers, ex paziente psichiatrico che, dopo aver sofferto maltrattamenti d’ogni tipo durante la sua degenza in diversi sanatori statunitensi e averli denunciati in un libro bestseller, intendeva fondare il primo ente volto a difendere i diritti dei «malati mentali». In anni in cui l’argomento stesso costituiva ancora un tabù assoluto, il lucidissimo Beers sapeva bene come l’unico modo per legittimare le proprie richieste fosse quello di appoggiarsi a un professionista medico a fare, per così dire, da garante; e difatti, grazie ai precetti e al sostegno di Meyer, nel 1909 nacque il National Committee for Mental Hygiene. Il serio e compassato psichiatra svizzero aiutò il fondatore a sviluppare un approccio improntato alla prevenzione del disturbo psichico tramite servizi statali a uso del cittadino, e a fare del Comitato una realtà funzionale e rispettata; e sebbene il sodalizio tra i due sia durato relativamente poco – soprattutto a causa di caratteri in parte discordanti – i loro sforzi congiunti avrebbero contribuito alla nascita della Clifford Beers Clinic (New Haven, Connecticut), a tutti gli effetti la prima outpatient clinic degli Stati Uniti: una struttura in cui i pazienti, non più
Meyer decise di lasciare la Svizzera e il pool dei medici che ruotavano intorno al celebre Burghölzli di Zurigo (nella foto) per affermarsi negli USA. (Keystone)
prigionieri da segregare, partecipavano liberamente alla vita quotidiana e sociale della comunità circostante. Così, quando l’ormai ottantatreenne Adolf Meyer si spense a Baltimora si lasciò alle spalle, oltre ad anni di ricerche sfociati in teorie rivoluzionarie, anche una lunga serie di allievi di spessore, destinati a diffondere nel mondo le sue idee. Ed è anche per questo che, nonostante parte della sua carriera sia collocabile in un periodo storico in cui la moderna pratica psichiatrica poteva definirsi agli albori, a tutt’oggi i precetti meyeriani suonano moderni e lungimiranti, al pari della più preziosa delle
sue lezioni: l’incitamento, in fondo, a non accontentarsi dello status quo o di ciò a cui si è ormai usi, ma a mettere piuttosto in discussione ogni preconcetto o facile semplificazione. Ma, soprattutto, a fare sempre della storia del paziente – inteso non come caso clinico, ma anzitutto come individuo a sé stante – il fulcro di ogni scelta, così da anteporre la persona e le sue necessità a ogni altra considerazione. Perché la guarigione è da considerarsi non solo come possibile, ma anche più che legittima: e, secondo quanto lo stesso Meyer credeva fermamente, perfino come un dovere civico. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Covid-19, le emozioni dei bambini
Intervista Abbiamo chiesto indicazioni e consigli alla psicoterapeuta Cinzia Pusterla su come affrontare
questo periodo con i bambini della scuola dell’infanzia ed elementare
riescono, anche la televisione va bene, basta scegliere e controllare. Ognuno crea il suo ritmo, fondamentale la regolarità. E non dimentichiamoci, quando è possibile, di prendere del tempo per sé stessi – una telefonata, un libro, o anche solo stare sul divano – così da essere più sereni quando si rientra in contatto coi bambini.
Valentina Grignoli Sono passate tre settimane da quando le scuole sono state chiuse nel nostro Cantone, l’organizzazione famigliare ha subito uno stravolgimento e le emozioni hanno preso il sopravvento. Il tutto in quattro mura. E anche se va detto che ogni situazione famigliare è diversa, quello che stanno vivendo i più piccoli è comune a molti di loro. Di punto in bianco si sono trovati a casa tutto il giorno, non possono più giocare coi propri amici, e non hanno più il permesso di saltare in braccio ai nonni. Non solo, mamme e papà hanno costantemente una faccia strana, gridano molto più spesso del solito, e il tempo sembra dilatato. Abbiamo letto in diversi articoli come spiegare ai bambini l’esistenza del Coronavirus, ma ora che dobbiamo gestire le loro paure, la noia, le frustrazioni, come fare? Cinzia Pusterla, psicologa e psicoterapeuta, ci ha fornito alcune indicazioni molto utili e importanti per affrontare questo periodo in casa, soprattutto con i bambini della scuola dell’infanzia ed elementare. Dottoressa Pusterla, come possiamo gestire le emozioni dei bambini e al contempo riuscire a far fronte al nostro bagaglio personale di ansia e stress?
Il primo lavoro che dobbiamo fare noi adulti genitori è su noi stessi. Anche noi proviamo ansia e angoscia, la fiducia e la speranza per il futuro sono messe alla prova, e c’è una sensazione di lutto, di tristezza diffusa. Il primo passo per proteggere i bambini è quindi trovare un modo per stare un po’ meglio dentro queste emozioni, che sono assolutamente umane e normali. Riconoscerle e poterle condividere con chi sentiamo vicino: il marito, un’amica, il fratello. Di conseguenza riusciremo ad essere più tranquilli nei confronti dei bambini. Quando poi trasmetteremo loro le informazioni, lo faremo senza quel carico di ansia, angoscia e tristezza, perché l’abbiamo già elaborato. Come reagiscono i bambini? Come capire se non stanno bene? Cosa possiamo fare di fronte a comportamenti insoliti?
Il bambino che va dalla scuola dell’infanzia fino alla maturità scolastica (6-7 anni) ha un’affettività molto labile. Significa che in situazioni di ansia come quella che stanno vivendo, o quando percepiscono quella dei genitori, posso-
Come gestire la frustrazione dei bambini, per esempio quando incontrano un amico e non possono giocare insieme?
È una frustrazione reale. Lo si può aiutare esprimendo al suo posto le emozioni, magari dicendogli «capisco che ti fa tanta rabbia, ti fa venire da piangere, anche io sono arrabbiata e un po’ triste perché non posso più andare ad abbracciare la nonna, è difficile. Ma questa situazione passerà». Se la frustrazione è sostenibile, le parole bastano.
In questi giorni si sente spesso parlare di morte, la malattia colpisce gli anziani, i nonni: i bambini hanno paura. Come affrontare questo tema con loro?
I bambini si esprimono soprattutto con il gioco simbolico e con il disegno. (Keystone)
no avere reazioni affettive importanti. Il bambino può quindi diventare più oppositivo del solito, meno gestibile, anche il sonno può essere disturbato. Regredisce insomma a comportamenti che aveva superato o a tappe evolutive che si era lasciato alle spalle. Un bambino che inizia la prima elementare ha raggiunto la maturità scolastica ed è in quello che noi psicologi chiamiamo periodo di latenza. L’affettività si tranquillizza e lascia spazio all’apprendimento. Il bambino quindi non reagirà con risposte emotive così forti, ma potrà chiudersi, essere meno loquace, o regredire anche lui a comportamenti ormai superati da tempo mostrando un’affettività meno stabile. Quelli che vediamo sono segnali che devono incontrare un adulto attento. Non ci dobbiamo preoccupare, non c’è nulla di patologico: i bambini in questo modo ci stanno dicendo che sono in difficoltà. È una richiesta d’aiuto che mandano in maniera inconsapevole. Bisogna riuscire ad accoglierla.
Significa anche lasciar correre riguardo i comportamenti oppositivi dei bambini? Come ci si deve comportare riguardo ai limiti, quanto bisogna esser fermi?
Vale quello che vale in qualsiasi perio-
do. Il bambino ha bisogno di un adulto che metta un limite chiaro, se esagera, anche in questa fase. Che lo esprima chiaramente e con fermezza. Il limite contiene e struttura. Se il bambino non si ferma di fronte al limite l’adulto può mettere una distanza affettiva, che significa non dargli attenzione per un periodo, non eccessivamente lungo però. Quando il bambino si calma si ritorna a lui cercando di esprimersi a parole su quanto successo. Per un bambino vedere il proprio genitore ancora forte, che conosce e afferma il limite, è rassicurante. Se le regole vengono a cadere il bambino prova ansia e diventa insicuro e l’irrequietezza motoria potrà diventare più importante.
Come si fa quindi ad accogliere le loro reazioni? Come ci si comporta per permettere al bambino di elaborare quanto sta vivendo?
Il gioco simbolico e la relazione privilegiata a due sono grandi strumenti per il bambino e il genitore in difficoltà. Gli si può dire: «Vedo che sei arrabbiato, mi sembri triste, facciamo qualche cosa assieme» e aiutarlo così a dedicarsi al gioco simbolico, un’esperienza molto vicina al bambino. Inventare una storia con i playmobil, una costruzione di lego, giocare a mamma e papà. Anche solo
stargli accanto ha un valore terapeutico, è molto importante. A volte i bambini chiedono all’adulto di partecipare al gioco, lo si può fare, ma seguendo le loro indicazioni da esperti in campo. Dobbiamo essere adulti umili, i bambini ci indicano la strada suggerendoci come muovere i personaggi. Nel gioco simbolico il bambino esprime le sue emozioni, i suoi vissuti, e se l’adulto è lì con lui, li condivide. I bambini più grandi si esprimono anche con il disegno, e anche qui, basta stargli accanto.
I ritmi sono completamente cambiati. La scuola non c’è più, come organizzare queste giornate nuove?
I genitori devono pensare a un nuovo ritmo che sia abbastanza regolare e soprattutto prevedibile. Questo, in una situazione dove tutto è cambiato e non c’è niente di sicuro, tranquillizza molto, contiene le emozioni, e fa bene a tutti. Non vuol dire svegliarli presto, anzi. Il mattino è un tempo prezioso anche per i genitori. Dopo la loro colazione si può giocare un poco e poi viene il tempo per la scuola. Se sono già in grado possono poi aiutare con la preparazione del pranzo, ma dopo mangiato è essenziale per tutta la famiglia, compresi mamma e papà, fare una piccola siesta. Se i bambini non ci
La prima domanda che dobbiamo farci è quale idea abbia il bambino della morte. Egli ne comprende l’irreversibilità solo a partire dal periodo di latenza, quindi nell’età della scuola elementare. Quando i bambini sono piccoli e fanno domande al riguardo bisogna cercare di capire cosa pensano che succeda. Ogni bambino piccolo ha una sua teoria. È inutile spiegare troppo, basta ascoltare quello che propongono. Poi, più tardi, si possono piuttosto porre domande, e aiutarli a esprimere cosa sentono rispetto alla morte. Cosa rimarrà nei bambini dopo questa esperienza? Ci potranno essere dei traumi?
Le conseguenze sul bambino di questo particolare momento dipendono in modo importante da come la situazione viene affrontata in famiglia. Io penso che se il quotidiano dei bambini non è troppo carico di ansia e di conflittualità e se ci sono adulti pronti a cogliere e accogliere le loro difficoltà, i bambini potranno ricordare questo periodo come un momento molto particolare in cui hanno fatto un’esperienza importante. Potranno capire che si può stare in un momento così difficile, e si può anche uscirne. E soprattutto i genitori potranno testimoniare e insegnare ai bambini che nella vita di ognuno ci sono e ci saranno difficoltà da affrontare, ma grazie alle proprie risorse, si può andare avanti, superarle.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani C.S. Lewis, Le cronache di Narnia, Mondadori. Da 10 anni In questo periodo non possiamo uscire. Ma possiamo entrare. Dentro di noi. E scoprire terre da esplorare, avventure da compiere. Paesaggi dell’anima a cui accedere da portali che sono lì che ci aspettano. Portali come l’armadio che apre l’accesso al regno di Narnia, nella meravigliosa saga di Clive Staples Lewis. Scritta a metà del secolo scorso, quindi settant’anni fa, la saga de Le cronache di Narnia conserva tutta la sua forza immaginifica e narrativa, che la rende uno di quei classici alla Calvino, «che non hanno ancora finito di dire quello che hanno da dire». Se non l’avete ancora letta è il momento giusto per entrarci dentro, con i vostri ragazzi, e abbandonarsi alla sua profonda carica simbolica. Ci sono archetipi mitologici, c’è un forte elemento spirituale, c’è una quête, c’è un viaggio iniziatico, ma prima di tutto c’è avventura, ritmo, e anche humour. Lewis crea storie che
si muovono sui due piani, quello della realtà e quello dell’Altrove, a cui si arriva attraverso l’armadio, o la magia di alcuni oggetti, a differenza della più o meno contemporanea saga del Signore degli anelli, composta dal suo grande amico Tolkien (i due erano entrambi professori a Oxford: due gentiluomini che frequentavano con impeccabile, anglosassone, disinvoltura tanto il mondo accademico quanto un mondo più misterioso e magico), dove l’ambientazione è tutta in un Altrove.
Nel primo volume (in ordine di cronologia narrativa, non di edizione), Il nipote del mago, assistiamo alla nascita di Narnia, e seguiamo le avventure di due ragazzini londinesi, Polly e Digory, che esplorando la soffitta finiscono in una «camera proibita», la stanza di un mago, come si rivela essere lo zio di Digory. Da qui si innescheranno grandiose avventure che ci porteranno a Il leone, la strega e l’armadio: il famoso armadio si trova nella residenza di campagna dove un eccentrico professore vive con la governante, e dove vengono accolti, durante i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale, quattro fratelli sfollati. Tra l’altro il tema della guerra irrompe in molta letteratura fantastica anglosassone per ragazzi, ma il discorso ci porterebbe molto lontano. Qui ci basta consigliarvi di varcare la soglia di Narnia, e fare conoscenza con il leone e con tutti gli altri personaggi. È un consiglio per piccoli e grandi, perché, come diceva lo stesso Lewis: «un giorno sarai grande
abbastanza da ricominciare a leggere le favole». Clotilde Perrin, Le storie sottosopra di Leo e Cleo, Il Castoro. Da 4 anni In questo periodo c’è tanto bisogno di storie, e possibilmente di storie inesauribili, da inventare e reinventare. Praticamente inesauribili sono le storie create dall’artista francese Clotilde Perrin, in quest’albo méli-mélo, o sottosopra, nel senso che le pagine sono tagliate a metà e si possono quindi girare e combinare in moltissime varianti. In alto c’è il leone Leo, in basso c’è la topolina Cleo: Leo dice una cosa, Cleo risponde. Immagini e battute cambiano a seconda di come si abbinano le pagine, ma a tutte può essere data una loro coerenza: «Vieni su, ti devo dire un segreto», dice Leo. «Certo, se ne esco viva», risponde Cleo, che nel mare, con il suo salvagente, sta fuggendo da un minaccioso pesce. Oppure «Con piacere! Ti presento anche i miei
amici folletti» risponde Cleo dal bosco; oppure «Volentieri, ma non sarà facile con quest’abito» dice Cleo agghindata come una principessa... le possibilità sono tantissime, più di duecento, tutte da sfogliare e combinare. Un omaggio alle riscritture combinatorie della tradizione francese del surrealismo e dell’Oulipo, questo albo di immediata e godibilissima fruizione potrà essere letto insieme, in famiglia, o anche lasciato alle innumerevoli e giocose rivisitazioni che si divertirà a fare ogni bambino.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Il più grande generale romano Edward Gibbon, autore di quel monumentale Declino e Caduta dell’Impero Romano che gli ha meritato a sua volta la fama di più grande storico dell’Impero dell’Urbe, lo definì il più grande generale della Roma antica. Flavius Stilicho (noto anche come Stilicone) non era propriamente un romano de Trastevere. Suo padre era infatti un Vandalo e sua madre una signora romana di provincia. Nacque attorno al 359, al tempo in cui sentirsi e potersi dichiarare «civis Romanus» era la profonda ispirazione di ogni guerriero germanico con un minimo di autostima ed ambizione. Stilicho era fiero di dichiararsi romano. Al contrario della maggioranza dei Vandali che erano di persuasione religiosa Ariana, quasi una confessione «etnica», Stilicho seguiva il Cattolicesimo Niceno romano nel quale si riconosceva l’élite aristocratica dell’Impero. Vedeva se stesso come l’ultimo difensore di quella virtus romana che aveva fatto grande l’Impero del quale
si erse a strenuo difensore. Durante la sua ascesa nei ranghi della cavalleria si guadagnò il soprannome di Ultimo dei Romani, tanto da attirare l’attenzione dell’Imperatore Teodosio, colpito dalla sua dedizione e competenza militare. Nel 383 Teodosio lo mandò a Ctesifonte per negoziare un trattato di pace con il re persiano Shapur III. Volendo assicurarsi la lealtà di chi era e restava comunque «un barbaro» (stigma latente che sarebbe costata la vita al Nostro), Teodosio pensò bene di stabilire un patto di sangue more barbarico facendo sposare a Stilicho Serena, una sua nipote adottiva. Al rientro a Costantinopoli gli fu conferito il titolo di Magister Militum – ovvero Generale Comandante in Capo dell’esercito: presto divenne uno delle persone più influenti alla corte di Costantinopoli. Con la morte dell’Imperatore d’Occidente Valentiniano II (392), Teodosio divenne per breve tempo l’ultimo Imperatore di un Impero riunificato. Nel 392
Stilicho fu l’artefice della vittoria di Teodosio contro i Visigoti. Esaurito nel fisico e nel morale dalla campagna militare, prima di morire nel 395 Teodosio lo nominò tutore del figlio ancora adolescente Onorio, destinato a diventare Imperatore Romano d’Occidente. Divenuto di fatto Reggente, Stilicho sosteneva di aver ricevuto da Teodosio morente anche la tutela dell’altro suo giovane figlio Arcadio al quale era stata assegnata la metà orientale dell’Impero. Non sapremo mai se questa rivendicazione fosse dettata dalla preoccupazione (il sogno?) di ricomporre l’Impero di Roma in un’unica compagine o se fosse invece – come verrà accusato di tramare – un tentativo per elevare se stesso al rango di Imperatore. Sta di fatto che proprio all’inizio della sua reggenza Stilicho si trovò a dover sconfinare nella metà orientale dell’impero per reprimere una rivolta di Alarico, re dei Visigoti, che lo stesso Stilicho aveva tre anni prima persuaso
a sottoscrivere un patto di pace con Teodosio. Seguì un decennio di confuse vicende politiche a militari che videro il Nostro cercare sempre più disperatamente e con successo decrescente di mantenere unito un’Impero che si andava sgretolando fra trame di corte interne tanto assassine quanto incompetenti e la spinta non più contenibile di Alani, Svevi, Goti e Visigoti che attraversavano il Reno impaccandosi gli uni sugli altri, sognando tutti un giorno di saccheggiare Roma. Stilicho fu accusato di tramare per divenire Imperatore unico – lui o suo figlio Eucherio – e dovette riparare a Ravenna dove assistette impotente al dilagare in Italia di quelli che erano – in fondo – i suoi antenati. In un estremo tentativo di riguadagnare il controllo di un esercito che gli avrebbe permesso di riportare ordine nel caos dilagante accettò un’offerta di negoziato da parte dei suoi nemici. Questi invece lo arrestarono senza che Stilicho opponesse resistenza. Fu
giustiziato il 22 agosto del 408. Età 49 anni. Qualche settimana prima del dilagare del contagio il vostro Altropologo di riferimento passeggiava nei campi di Pollenzo, antica città romana in provincia di Cuneo dove ha sede l’Università di Scienze Enogastronomiche presso la quale insegna. In questa oggi pacifica, fertile e solitaria piana, ai piedi delle Langhe (tartufi e Barolo), nel giorno di Pasqua che cadeva il 6 aprile 402 l’esercito del Magister Militum Stilicho sconfisse ancora una volta un’ostinato Alarico in uno scontro feroce. Di nuovo lo umiliò un anno dopo quando questi ci riprovò a Verona. Alarico si dedicò allora ad altre, meno rischiose imprese. Cinque anni dopo Stilicho era stato in sostanza assassinato. La via era libera. Poche settimane dopo l’annuncio della morte del suo eterno rivale, Alarico e i suoi 30’000 Visigoti erano alle porte di Roma. L’Ultimo dei Romani impossibilitato a contrastarli per cause di Storia Maggiore.
suddividere equamente gli impegni domestici – come vuotare le spazzature, fare la spesa, apparecchiare la tavola –, favorire il prolungamento dei contatti con parenti ed amici. Per gli adolescenti i compagni di scuola sono tutto. Come genitori, evitate di orecchiare e tanto meno commentare le conversazioni dei figli, pranzate e cenate insieme intorno alla tavola apparecchiata, favorite ogni occasione di dialogo, promuovete hobby e giochi da tavola insieme o in gruppo. Se incoraggiati, gli uomini si divertono a cucinare trovando in Internet ricette esotiche e sfiziose e non importa se mettono a repentaglio il peso forma: vanno apprezzate. Il tempo blindato ci permette di conoscerci meglio, di raccontare quegli episodi della nostra vita che, vissuti troppo in fretta, non sono mai stati condivisi. I bambini piccoli, felici finalmente di avere accanto papà e mamma, possono essere intrattenuti organizzando un picnic sotto il tavolo, allestendo una tenda da campeggio con lo stendibiancheria,
o una competizione olimpionica, con relativa premiazione e inno nazionale, saltando dai gradini della scala. Ai piccolissimi non importa se non ci sono compagni, essendo egocentrici non se ne accorgeranno, almeno per un po’. Esiste poi la risorsa «vicini» di casa con cui si possono scambiare giornali, libri, ricette di cucina, creme di bellezza, tè e aperitivi sul pianerottolo, attraverso le staccionate dei giardini e tra i balconi. L’importante è, senza farsi ossessionare da ininterrotti bollettini di guerra, volare alto, magari affidandosi alla musica di Mozart, Vivaldi e Rossini, arie capaci di rassicurare gli animi che il Coronavirus non distruggerà la nostra fragile, tenace felicità.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Un tempo per conoscerci meglio Cara Silvia, come si fa a vivere chiusi in casa a tempo indeterminato senza «sclerare»? Rispondere male, dire quello che sarebbe meglio tacere, sbattere le porte e tenere il muso? E pensare che la clausura è appena cominciata! Non vorrei che finisse in una lite collettiva di tutti contro tutti. Siamo una famiglia di quattro persone abituate a trovarsi solo la sera. Ora dobbiamo convivere in tre stanze e alternarci ai computer (due più un tablet e quattro telefonini). Per fortuna il tetto a terrazzo permette ai ragazzi (di 12 e 15 anni) di sgranchirsi le gambe e di fare un po’ di stretching. Io me la cavo abbastanza bene tra faccende di casa (mai finite) e telefonate alle amiche, i ragazzini hanno le lezioni al mattino e i compiti il pomeriggio. Il vero problema è mio marito che, stravaccato sul divano, segue minuto per minuto, come in una telecronaca del Campionato di Calcio, le trasmissioni sul dilagare della pandemia, e ogni volta ne rimane più allarmato. Cosa posso fare? / Milena
Cara Milena, dobbiamo ammettere che, colti di sorpresa, siamo impreparati a un’emergenza che mette a dura prova le nostre risorse fisiche e morali. In questi frangenti ognuno dà il meglio e il peggio di sé. Da tempo avevamo perso il senso della casa e della famiglia, impegnati tutto il giorno a rincorrere scadenze che in gran parte ci eravamo date da soli. La giornata di tutti, grandi e piccoli, era scandita da un orologio inesorabile. Per i bambini, scuola, doposcuola, palestra, piscina, attività espressive, compiti, dentista e così via. Per le mamme, lavoro, faccende domestiche, attività extradomestiche, palestra, riunioni scolastiche, parrucchiere, supermercato, shopping del sabato e vari imprevisti. Per i papà, lavoro, lavoro, lavoro più attività sportive, acquisti straordinari, revisione della macchina e poco altro. Si capisce come il rovesciamento dell’habitat dall’esterno all’interno abbia provocato uno shock collettivo.
Ci sentiamo sequestrati senza sapere da chi, senza un malavitoso che ponga condizioni e chieda il riscatto. E le minacce, tanto più sono vaghe tanto più risultano conturbanti. Molti, anche se di giorno si mantengono calmi, la notte vengono turbati da brutti sogni o da veri e propri incubi. Tra questi prevale un sentimento d’inadeguatezza, la sensazione di non essere all’altezza della sfida che il nostro tempo ci pone, di non possedere, nonostante innumerevoli polizze di assicurazione, l’immunità che ci eravamo illusi di avere ottenuto. Non solo lei, cara Milena, ma tutti quanti ci chiediamo ogni giorno: cosa possiamo fare? Per prima cosa non restate a letto troppo a lungo, alzatevi a un’ora conveniente e preparatevi come se doveste uscire per andare a scuola, in ufficio o a trovare un’amica. Per evitare inutili discussioni, dovrebbe stabilire lei stessa un programma preciso: riservare a ciascuno uno spazio personale per leggere, studiare, inviare messaggi, ascoltare musica;
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Quando il lavoro crea nuove disuguaglianze Chi troppo, chi niente. Sembra un paradosso, mentre l’emergenza chiede unità, anzi uniformità, tutti insieme sulla stessa barca. Ma, suo malgrado, ha creato disparità proprio sul piano del lavoro. Con effetti che sfuggono a norme contrattuali e sindacali. La minaccia di un pericolo da arginare mobilita categorie ad hoc, impegnate in attività rese prioritarie. E così, su medici, infermieri, soccorritori incombe una mole di lavoro al limite delle loro stesse capacità, cui spetta, la qualifica, non retorica, di eroi del momento. Indispensabili anche le prestazioni di farmacisti, autisti di mezzi di trasporto, cassiere di supermercati. Si continua a lavorare, a pieno ritmo, nelle redazioni dei quotidiani e negli studi radiotelevisivi, ai quali è affidato un compito ingrato: informare sul decorso di un’epidemia, sin qui in salita. Dare, cioè, cattive notizie. Obbligo condiviso dai politici, alla ribalta
non più per suscitare simpatie, bensì malumori. Altri lavoratori, invece, hanno perso, temporaneamente, il posto di lavoro. E qui posto sottintende il luogo che ospita attività, impossibili altrove. È il caso di ristoranti, negozi, fabbriche, cantieri dove le mansioni non sono trasferibili. Per loro si apre un vuoto chissà se colmabile. È una vacanza involontaria, sottratta al turismo organizzato, cui affidare il tempo libero. Adesso, da inventare con la fantasia, che non è di tutti. Diversa la situazione di chi svolge compiti delegabili al computer. Concerne una folta collettività nel terziario, in primis gli insegnanti. Dalla cattedra in aula alla scrivania di casa, davanti allo schermo per trasmettere testi e grafici che contengono lezioni e interrogazioni. La riconversione funziona, tanto da intasare il portale informatico. Allievi d’ogni grado rispondono,
sollecitamente, alle richieste di maestri e professori virtuali. Succede che ne rimpiangano la presenza fisica: «Vorrei essere lì, ancora con lei, in aula». Messaggi che traducono un bisogno primordiale, a ogni età: fare, occuparsi di qualcosa, competere con gli altri. Un giro di parole per dire lavorare. Sia chiaro, non s’intende tessere l’elogio incondizionato del lavoro, per molti fonte di fatica e amarezza. Si rischia di andare controcorrente rispetto alla tendenza, cresciuta negli ultimi decenni: chiedere il pensionamento anticipato, l’anno sabbatico o il part time. Per altro, soluzioni legittime che consentono, in particolare alle donne, l’abbinamento ufficio-casa. E confermano la capacità di ridimensionare il lavoro, non più protagonista assoluto della quotidianità per sfruttare, invece, le alternative del tempo libero. Che, a sua volta, ha creato una dipendenza, dai risvolti grotteschi: il lunedì che
vede impiegati segnati dalle sfacchinate del weekend. Se il lavoro stanca, dice il proverbio, il riposo attivo non è da meno. Questione di scelte di vita e preferenze, possibili fino a ieri. Oggi il bisogno o piacere di lavorare deve fare i conti con la «dura lex sed lex» di divieti e chiusure che non risparmia nessuno. Neppure gli indipendenti, i creativi, gli artisti, gli architetti. «Per me è un dramma», dichiara, senza mezzi termini Mario Botta, che si ritrova solo nel suo studio-laboratorio, chiuso da oltre tre settimane. «Per prudenza ho anticipato i divieti: tutti a casa i miei collaboratori, fra cui alcuni provenienti dalla Lombardia». In questa forzata solitudine, misura l’insostituibilità dei contatti con persone e materiali. È cresciuto con la matita in mano, suo strumento persino simbolico. E dalla matita nasce il progetto: «Prima schizzo su carta, poi modello in cartone, poi in legno e infine in pietra,
attraverso correzioni e interventi da parte di artigiani, tecnici, specialisti. Un lavoro di squadra». Ora, la squadra non c’è più e, per Botta, non può essere demandata ai mezzi informartici. «Appartengo alla generazione abituata al piano orizzontale. Lo schermo verticale mi rimane estraneo, al di là dei vantaggi pratici. Altri colleghi si sono convertiti al virtuale, che abbrevia i tempi. L’architettura, del resto sta cambiando fisionomia e contenuti. Si costruiscono, in fretta, edifici mirabolanti, frutto di operazioni miliardarie spregiudicate. Un mondo, lontano per chi rimane fedele a un lavoro scrupoloso, attento alla qualità. Per colmare il vuoto del momento, Botta sta catalogando il materiale che racconta i vent’anni dell’Accademia di Mendrisio: «Un punto d’incontro fra modernità didattica e tradizione locale, in un Ticino dove il mestiere di costruire ha radici profonde nel territorio».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Ambiente e Benessere L’uva fermentata curativa Già Ulisse si purificava le mani versandosi un po’ di «vino nero etiopico» pagina 20
La vita nella riserva dell’Arizona Tra le attività principali, la pastorizia: singolare il fatto che nella tribù dei Navajo, le greggi sono proprietà delle donne
Gli alberi «acqua» Piante come salice, ontano nero e spirea hanno in comune anche un’alta presenza di «aspirina»
Torna la Kia Sorento Giunta alla quarta generazione ora s’è fatta SUV e potrà trasportare fino a 7 passeggeri
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Cure palliative a distanza, ma molto attente
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Il direttore della Fondazione Hospice Ticino, Omar Vanoni. (Stefano Spinelli)
Medicina La Fondazione Hospice Ticino è confrontata con un nuovo approccio che tiene conto del Covid-19
Maria Grazia Buletti Sembra una mattina come tante, siamo alla sede di Bellinzona della Fondazione Hospice Ticino dove incontriamo il direttore Omar Vanoni, l’infermiera consulente in cure palliative Lorenza Ferrari e il medico di famiglia Augusto Bernasconi, pure in forze a Hospice. Da qualche tempo siamo di fronte a un virus che non possiamo toccare, né vedere, ma che aumenta forzatamente le distanze fra le persone, cambia le abitudini di tutti quanti, ma soprattutto obbliga chi presenta patologie complesse, e che sono dunque molto più vulnerabili, a un’osservanza ancora più scrupolosa delle regole di distanza sociale che siamo invitati a seguire. Questo ci obbliga a condividere importanti e inevitabili considerazioni sull’emergenza pandemica causata dal coronavirus, modificando il
nostro vivere e in particolare quello delle persone vulnerabili e di chi deve occuparsi di loro. Un mese fa pare già passato remoto, mentre il presente è in continua evoluzione: viviamo in isolamento, comunichiamo in modo del tutto nuovo e inaspettato per onorare le misure vigenti che riguardano tutti quanti e che impongono che nessuno si tocchi fisicamente. «Anche per noi l’impatto del coronavirus è inevitabilmente arrivato ed è ben presente. Le visite di rivalutazione senza sintomatologia sono state sostituite da regolari contatti telefonici, ad esempio, e questo ci ha permesso di evitare quelle che possiamo gestire attraverso una distanza sociale, da lontano», afferma l’infermiera Lorenza che però puntualizza la disponibilità e l’operatività di visite a domicilio necessarie, durante le quali il paziente necessita di una vera visita clinica e per questo
va incontrato: «Prendiamo le dovute precauzioni come del resto siamo già abituati a fare nelle circostanze che lo richiedono correntemente. Ad esempio, ancor prima dell’emergenza coronavirus, rientrata dalle mie vacanze ero raffreddata e per questo andavo a domicilio dei pazienti con la mascherina». Un senso di responsabilità usuale e acquisito che oggi assume un’importanza assoluta. Il direttore del sodalizio Omar Vanoni conferma e aggiunge: «Le disposizioni oggi in vigore sono in continua evoluzione e noi ci atteniamo scrupolosamente alla loro applicazione, perché la tutela dei nostri pazienti con comorbidità è ancora più importante al momento. In quest’ottica, cercare di evitare le visite non urgenti, o valutate non necessarie dopo colloquio telefonico con il paziente o i famigliari, è una
doppia sicurezza di tutela dei pazienti per i quali, altrimenti, potremmo fare da veicolo andando dall’uno all’altro: sono pazienti così complessi che, lo ripetiamo, vanno tutelati con l’attenzione più assoluta». Egli sottolinea che a maggior ragione pure gli operatori devono limitare il più possibile di contrarre il covid-19: «Se si ammalasse un nostro operatore, dovremmo considerare la quarantena di tutti i componenti dell’équipe e sarebbe un vero disastro per assicurare l’assistenza necessaria ai nostri pazienti». A questo punto abbiamo dato voce anche al medico di famiglia Augusto Bernasconi (pure medico Hospice) che racconta: «Con le colleghe infermiere il mio compito è quello di seguire, insieme al medico curante e a un servizio infermieristico a domicilio, quei pazienti che presentno malattie croniche evolutive gravi e
che desiderano, potendo, rimanere a casa». Si tratta proprio, come dicevamo con i nostri interlocutori, di quei pazienti oggi maggiormente a rischio in caso di contagio con il coronavirus. «Assicuriamo da anni un importante lavoro di coordinamento e di consulenza in cure palliative, offriamo un picchetto dedicato a questo sostegno 24 ore su 24, in collaborazione con alcuni generosi medici di famiglia», riassume il dottor Bernasconi, evidenziando che purtroppo anche in questo ambito di visite infermieristiche a domicilio c’è un «razionamento» a causa dei rischi insiti in questa che egli definisce «una sordida malattia infettiva. Manteniamo comunque attenzione e vicinanza attraverso contatti telefonici o tramite costanti comunicazioni in posta elettronica e, quando necessita, con visite al domicilio del paziente», ribadisce.
Foto: Caritas Svizzera / Alexandra Wey
Pubbliredazionale Un barlume di speranza In questa situazione di emergenza Caritas sostiene Mariam con un aiuto in denaro – 300 dollari al mese per una durata di quattro mesi – da impiegare per le necessità più urgenti. Con il primo pagamento Mariam ha saldato, tra l’altro, i suoi debiti per l’affitto. Per il momento la preoccupazione di essere di nuovo sfrattata viene meno. Attualmente sta frequentando un corso di cucito presso Caritas Libano ed è seguita da un’altra organizzazione per la ricerca di un lavoro. Quale futuro? Mariam spera di trovare presto un lavoro. Ma con un neonato
sarà ancora più difficile. È felice che suo cognato viva nello stesso campo e che le due famiglie ogni tanto si aiutino a vicenda per accudire i bambini. Mariam l’anno prossimo vorrebbe mandare Sidra a scuola. Ma come farà a procurarsi il denaro per lo scuolabus? Il servizio di trasporto gratuito è stato soppresso. I finanziamenti della comunità internazionale dei donatori per far fronte alla catastrofe umanitaria in Libano vengono sempre meno. Ma soprattutto Mariam vorrebbe avere una dimora stabile: «Desidero solo una tenda dignitosa in un luogo dove possiamo restare» afferma la donna. Non osa più sognare una casa vera.
Profughi siriani: aiuto in contanti come prevenzione te online su: n e m a tt e ir d Donare ia caritas.ch /sir
Mariam e i suoi figli non hanno più una loro casa da oltre sei anni.
Sopravvivere nel campo profughi
La crisi siriana è entrata nel decimo anno. Circa un milione e mezzo di rifugiati e sfollati siriani vivono in Libano in condizioni di povertà. Stanno in tendopoli, costruzioni grezze o garage – ovunque trovino un po’ di protezione e un padrone di casa che tolleri la loro presenza o voglia fare affari con loro. L’economia e le infrastrutture locali non riescono più a reggere l’incremento demografico. Anche la gente del posto si sta impoverendo sempre di più. Ogni malattia, ogni separazione e ogni decesso mette a rischio l’esistenza delle persone colpite. Caritas fornisce aiuti in contanti ai rifugiati siriani e alle famiglie libanesi indigenti che hanno vissuto un tale trauma. Ricevono tra 200 e 300 dollari al mese per una durata di 3-6 mesi e sono seguiti da assistenti sociali. In questo modo possono superare l’emergenza finanziaria in maniera sicura e cercare di riacquistare una certa autonomia. Il sostegno in contanti fornito da Caritas anche in Siria fa parte del programma globale dell’Ong destinato alla popolazione siriana.
Mariam Khalaf*, 25 anni, è andata in Libano per sfuggire agli orrori della guerra siriana. Ma le tribolazioni non le danno tregua: da oltre sei anni vive in uno stato di assoluta povertà nei campi profughi della pianura della Bekaa e alcuni mesi or sono ha perso il marito. Le donazioni dalla Svizzera consentono a Caritas di sostenere Mariam e i suoi figli in questa situazione di emergenza. Dal volto di Mariam traspare un’espressione di sfinimento. La donna è seduta insieme ai figli Sidra*, 5 anni, Shiro*, 4 anni, e Jalal*, 2 anni, davanti alla stufa, il fulcro e l’unico mobile della loro tenda installata in un campo profughi vicino alla città di Zahle. Indossano i pochi vestiti che hanno. Adesso, in inverno, le temperature scendono sotto lo zero. Una tempesta di grandine si rovescia sul campo profughi. Il vento scuote la tenda e dal soffitto entra acqua. Per andare in bagno bisogna percorrere un sentiero fangoso che porta a una casetta in lamiera.
L’odissea dei campi profughi Mariam consola pazientemente il figlio più piccolo. Come i suoi fratelli, Jalal non conosce altro che la vita nei campi profughi. I suoi genitori sono fuggiti da Aleppo più di sei anni fa nella pianura della Bekaa, questa vasta distesa situata tra le montagne del Monte Libano e i monti dell’Anti-Libano, lungo il confine siriano. Da allora la famiglia sta lottando per la propria sopravvivenza. Negli insediamenti di tende e baracche di legno vivono ammassati centinaia di migliaia di rifugiati. «Ci spostiamo da un
campo all’altro» racconta Mariam. «Non c’è un posto dove possiamo restare a lungo.» Molte volte vengono sfrattati perché non riescono a pagare puntualmente l’affitto. La morte del padre getta la famiglia nell’emergenza finanziaria E come se il destino non avesse infierito già abbastanza, la famiglia subisce un altro duro colpo: il marito di Mariam muore per un problema cardiaco. La moglie è allo stremo. «Non sapevo proprio come andare avanti» afferma riscaldandosi le mani sulla stufa e con lo sguardo perso nel vuoto. Al dolore si aggiunge il gravoso compito di provvedere da sola a sé stessa e ai figli. I costi per l’acquisto dei medicamenti per il marito hanno prosciugato tutti i risparmi e per pagare il funerale ha dovuto contrarre un debito. Mariam non lavora. Gli impieghi scarseggiano, soprattutto in inverno. In primavera ci sono più possibilità di trovare un’occupazione a ore o stagionale nell’agricoltura. L’altopiano della Bekaa è considerato il granaio del Libano ed è il centro della produzione agricola. Ma Mariam è in avanzato stato di gravidanza e non possiede nessuna formazione. La donna precipita rapidamente nella morsa del debito.
Per maggiori informazioni su Mariam: caritas.ch/mariam-i
* I nomi sono stati modificati
Aiuti ora con una donazione
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Ambiente e Benessere
Enologia curativa
Scelto per voi
Vino nella storia L’efficacia dell’uva fermentata come antisettico trova conferma
già nell’Odissea – Seconda parte Davide Comoli Nelle pagine dell’Odissea di Omero, troviamo in più occasioni Ulisse intento a versarsi del «vino nero etiopico» in modo da purificarsi e pulirsi le mani. Grazie all’Odissea possiamo essere introdotti nella cultura degli antichi Greci, culla dei primi medici tra i quali: Macaone, Podalirio, ma soprattutto Ippocrate di Cos. È proprio tra le memorie lasciateci da questo grande del passato, che il vino viene spesso citato nelle sue prescrizioni («Nessuna ferita deve essere bagnata con nient’altro che vino, a meno che la ferita sia sulle giunture»), oltre che come diuretico purgativo. (Corpus Hippocraticum). La figura di Ippocrate inaugura anche un nuovo concetto di medicina, intesa come «rimedio» basato sulla continua osservazione del paziente e di come reagisce ai trattamenti. Il grande
medico del passato rivela uno speciale equilibrio nel giudizio sul vino, affermando che le dosi non devono mai essere eccessive e quando sono giustamente proporzionate ai singoli pazienti si rivelano sempre benefiche. Non per niente a Ippocrate viene attribuito il famoso detto: «il vino è per l’uomo come l’acqua per le piante: la giusta dose le fa star rette, l’eccesso le fa cadere». Senza dubbio gli scritti del celebre medico greco sono i primi nella storia dove fa la comparsa il concetto di «consumo moderato». Ma Ippocrate è soprattutto il primo medico ad aver studiato il vino, mettendolo in relazione agli effetti che questa bevanda ha sull’essere umano, sgombrando dalla scena medica molti riferimenti magici/ religiosi. Per Ippocrate non esiste più il vino generico, ma distingue il vino secondo le tipologie (dolci, mielati, bianchi, rossi), ognuna delle quali sca-
Il gruppo scultoreo di Ulisse che acceca Polifemo addormentatosi dopo aver bevuto troppo vino (così è narrato nell’Odissea) è un’opera in marmo degli scultori Agesandro, Atenodoro e Polidoro, del I secolo d.C. circa ed è conservato nel Museo archeologico nazionale di Sperlonga. (Steveillot)
tena differenti reazioni fisiologiche e dunque si presta meglio delle altre alla cura delle diverse patologie. I suoi studi apriranno la strada a quelli medici che verranno effettuati più tardi in epoca romana da Celso, Dioscoride e soprattutto da Galeno senza dimenticare Plinio il Vecchio.
Gli antichi abitatori dell’India furono tra i primi a notare le virtù anestetiche del vino adottandolo in chirurgia Notevole fu pure il contributo di Ippocrate alla cultura della sua epoca e il suo pensiero influenzò non poco celebri filosofi quali Socrate, Platone e Aristotele. Furono appunto questi personaggi a portare il vino nel mondo della filosofia da un punto di vista etico, tema che interessò sempre più da vicino anche il mondo medico. Ci riferiamo all’ebbrezza e agli effetti che l’alcol ha sull’organismo. I grandi filosofi greci si lasciarono progressivamente alle spalle una cultura del bere che oggi definiremmo «dionisiaca», ovvero che considerava il vino come una bevanda che conduceva l’individuo a un’unione con il divino, e cominciava invece a negare ogni effetto positivo legato all’ebbrezza. A fianco di quello medico, iniziò così un lungo percorso filosofico sul quale non ci dilungheremo oltre. Quando si parla di vino/salute è utile fare tuttavia un po’ riferimento anche a culture geograficamente lontano dalla nostra. In India, ad esempio, già nel periodo Vecchio (2500-200 a.C.) si attribuivano notevoli poteri terapeutici al vino. Nel libro Rgveda (1600 a.C.) sono raccolti diversi scritti in onore del «Soma» una bevanda probabilmente ottenuta facendo fermentare il succo dell’Asclepias acida. Si riteneva che il «Soma» fosse in grado di dare salute, ma soprattutto immortalità, e caso
vuole che a un certo punto curiosamente questi poteri cominciarono a essere attribuiti anche al vino. A tutt’oggi non si riesce ancora a capire bene questa apparente confusione tra bevande così diverse. Sfogliando a tal proposito l’antico libro Atharvaveda e in particolare il testo medico dell’Ayurveda, composto da frammenti di diverse epoche storiche, trovo che uno di questi, il Charaka Samhita, si riferisce esplicitamente al vino definito: «rinvigorente del corpo e della mente, antidoto per l’insonnia, stimolante dell’appetito, della digestione e della felicità». Gli antichi abitatori dell’India, i quali avevano accumulato avanzate nozioni di chirurgia, furono tra i primi a notare le virtù anestetiche del vino. A questo proposito su un antico testo sanscrito abbiamo trovato: «prima dell’operazione al paziente verrà dato da mangiare ciò che desidera, e vino da bere così che egli non soffra e non senta il coltello». Insomma la medicina indiana anticipa di molto alcuni dei risultati attribuiti in seguito alla civiltà greca. Anche nella letteratura medica della Cina si fanno frequenti accenni al «Chiu», nome che veniva dato al vino. Ma sinceramente non siamo sicuri che ciò fosse il nome di una bevanda ottenuta solo dalla fermentazione dell’uva, piuttosto che anche dalla distillazione di cereali. A questi vini venivano in ogni caso aggiunte sostanze varie: estratto di ginseng, oppio, rabarbaro, arsenico… compresi diversi organi di animali, fegato di lucertola, carne di vipera, pelle di cavallette. Sembrano pozioni magiche, utilizzando sempre il vino come base alcolica, usate per combattere ogni genere di malanno. In alcuni casi, il vino addizionato di spezie veniva bevuto caldo per curare la tosse e il raffreddore. Da qui forse l’origine di ciò che oggi chiamiamo vin brûlé. Informazioni
la prima parte dell’articolo è uscita su «Azione» del 9 marzo 2020.
Contado Riserva (Aglianico)
L’Aglianico, importante vitigno a bacca rossa del centro-sud Italia, è originario della Magna Grecia, dove da tempi antichissimi era già coltivato. Il suo nome deriva infatti dal termine ellerikon e fu introdotto nella penisola dagli antichi colonizzatori. Se i vini del Molise sono conosciuti in tutto il mondo, gran parte del merito va ad Alessio di Majo, vero ambasciatore di questa terra. Qui a Campomarino ai confini con la Puglia, da dove si possono vedere le Tremiti, tra i moltissimi vini prodotti dall’azienda, spicca il Contado Riserva prodotto con le uve Aglianico in località Madonna Grande; luogo già decantato per i suoi vini dal sommelier Sante Lancerio, al seguito di Papa Paolo III Farnese. Il sole che matura le uve del Contado (Aglianico) regala alle stesse un vino rosso rubino, talmente profondo da farsi prugna, denso e al naso austero, con tannini vellutati e ampie sfumature che danno eleganza al primo sorso, corpo strutturato, avvolgenti note di frutta matura e spezie, ne fanno il compagno perfetto per il capretto nel giorno di Pasqua. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 15.95. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Ambiente e Benessere
Un’aspra riserva di allevatori Reportage La difficile resistenza delle donne pastore Navajo in Arizona, Utah e Nuovo Messico
Marie mentre si dedica alla filatura della lana.
Valentina Musmeci, testo e foto L’allevamento delle pecore fu introdotto nel continente americano dai colonizzatori spagnoli nel XVI secolo; dapprima in Messico, poi diverse greggi furono condotte verso nord e verso sud. I Navajo, sulla base di un’antica profezia, attendevano l’arrivo di un animale simile ai caproni selvatici di montagna. Forse per questo, tra i nativi americani, furono i primi a cogliere queste opportunità: cibo disponibile vicino ai centri abitati e nuove possibilità di lavoro. In particolare, la razza churro si adattò bene a quei territori. Queste pecore bianche e nere, con le zampe senza pelo, hanno una carne magra e nutriente. Con il loro vello pregiato si produce una lana lunga e resistente, utilizzata dai Navajo per splendidi tappeti, coperte per selle, vestiti. Il territorio Navajo si estende per circa 65mila chilometri quadrati nel sud-ovest degli Stati Uniti: canyon drammatici, montagne aspre, foreste, laghi e deserti. Le sterminate pianure e gli altipiani dell’Arizona, dello Utah e del Nuovo Messico si rivelarono perfetti per la pastorizia. I Navajo svilupparono rapidamente tecniche di allevamento nomadi simili a quelle europee, conducendo le greggi nei pascoli alti in estate, in pianura d’inverno. Ancora oggi le greggi pascolano liberamente lungo le strade, insieme a piccoli branchi di cavalli. Nel 1863 le pecore possedute dai Navajo erano circa un milione ed erano diventate essenziali per la sussistenza nonché il fondamento stesso del loro modello di vita. Per questo il governo americano non esitò a colpire la pastorizia per indebolire i nativi. Nel 1863 il
Dinnebito Wash, Arizona.
leggendario Kit Carson bruciò i campi di grano e avvelenò le pozze d’acqua, costringendo circa ottomila Navajo a camminare con le loro greggi per trecento miglia verso il New Mexico. Lentamente i Navajo tornarono nella riserva dell’Arizona, riprendendo l’allevamento. Nel 1930 si contavano oltre mezzo milione di capi quando il governo avviò un «programma di riduzione», ufficialmente per preservare i terreni dallo sfruttamento intensivo. Il commissario del Bureau of Indian Affairs (BIA) John Collier ordinò di raggruppare le pecore dei Navajo nelle principali città, dove furono abbattute a colpi di fucile. In alcuni casi il governo pagò pochi dollari per gli animali e oltretutto questo denaro fu dato in mano agli uomini, nonostante le greggi fossero proprietà delle donne della tribù, in accordo con la tradizionale cultura matriarcale Navajo. Al di là dell’aspetto economico, per i Navajo fu una profonda perdita materiale e spirituale. Ancora oggi devono richiedere un «permesso di pascolo» e il futuro della pastorizia è quanto mai incerto. La lingua Navajo è ancora largamente usata, per alcuni è l’unica lingua. E per lunghi anni ai nativi americani fu tolta la libertà di praticare le proprie tradizioni spirituali. Solo nel 1978 (American Indian Religious Freedom Act), fu riconosciuta loro la piena libertà di culto. Molte cerimonie però sono sopravvissute in segreto, perché i colonizzatori europei le consideravano solo superstizioni, quando invece erano ispirate a una filosofia di vita profondamente legata alla natura. I Navajo vivono sospesi tra due mondi. Molti nativi hanno frequenta-
Gregge di pecore Churro. (Sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica)
to (non sempre per scelta) scuole cristiane, oggi sono laureati e vivono nei grandi centri abitati, come Flagstaff o Phoenix. Ma numerosi sono anche i Navajo che vivono negli hogan, le tradizionali dimore esagonali costruite con legno, terra, pietre, senza luce né acqua. Piccoli gruppi di hogan, con case mobili e una o due casette in legno, bastano per creare un villaggio. Tuttavia negli ultimi anni un equilibrio antico è entrato in crisi. La siccità del 2018 ha lasciato ferite indelebili sulla vegetazione che molto lentamente cerca di riprendersi. Ci addentriamo nel Dinnebito Wash (un arroyo, cioè il letto in secca di un torrente stagionale) attraverso una prateria di fiori viola, primo
timido segnale di rinascita; ma sotto la terra geme ancora, arida. Siamo qui per incontrare Marie, ottant’anni, pastora di pecore. Raggiungiamo il suo ranch ed entriamo nell’abitazione in mattoni, dove Marie ci racconta dell’ultima stagione caldissima e delle enormi difficoltà per i pastori in tutta l’Arizona: «Più s’invecchia, più gli animali intorno a noi diminuiscono. Forse anche questo è legato al clima. Prima la prateria dava tutto ciò di cui avevamo bisogno, poi sono sparite le sorgenti, che una volta erano numerose in questa zona. Infine è aumentata la temperatura, in inverno il terreno non ghiaccia più. L’anno scorso, durante la stagione calda, ho dovuto dare da mangiare alle peco-
Tee, pastora Navajo, nutre il suo gregge.
re fieno e poco grano, a volte del sale». Negli occhi di Marie leggo rassegnazione e tristezza per un intero ecosistema in sofferenza. L’equilibrio dell’uomo con la natura, inscritto da sempre nel paesaggio e nella cultura navajo, è solo un ricordo. Per questo oggi molti Navajo si stanno orientando verso un allevamento sostenibile, combinando saperi tradizionali e conoscenze scientifiche. Il gregge di Marie, una quarantina di capi, resta intorno alla casa, più in là solo prateria per miglia e miglia fino al San Francisco Peak, la montagna sacra dei Navajo, ancora innevata. Marie si siede accanto alla porta di casa e inizia a filare.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Ambiente e Benessere
Le aspirine vegetali
Fitoterapia È noto il Salice, ma ci sono anche la Spirea e l’Ontano Nero tra le piante guaritrici
dei sintomi dell’influenza Eliana Bernasconi Da sempre conosciamo il clima invernale freddo, l’umidità, le piogge e gli sbalzi termici, e occorre forse accennare all’aria inquinata che respiriamo? Le conseguenze sono raffreddori, tossi secche o grasse, dolori muscolari, mal di gola, raucedine. E non parliamo delle vere forti influenze, che richiederebbero un discorso approfondito (e men che meno dunque si parla di coronavirus). Qui trattiamo di come prendersi cura contro quelle leggere ma persistenti sindromi influenzali, prodotte da piccoli virus, con tutto il corteo di sintomi e doloretti vari, quando il corpo per difendersi rialza la temperatura.
Per la medicina celtica dei sacerdoti druidici l’unione di albero e acqua stabiliva un costante rapporto con le vibrazioni e le correnti di energia guaritrice di ogni essere vivente Siamo nell’era degli antibiotici, dei cortisonici, dei farmaci sintetici sempre più modulati e la possibilità di affidarsi a una pasticca che libera immediatamente da ogni disagio, anche con la benedizione della pubblicità, è sempre presente. E spesso ci si dimentica persino che un antibiotico, per dire, nulla può contro un virus, semmai combatte i batteri. Ma non è di questo che tratta la nostra rubrica, ma del fatto che nonostante le mille pasticche, o proprio a cagione di questo, resta utile conoscere l’aiuto che si può trarre dalla natura, e in particolare dalle piante medicinali, l’unica cura che la tradizione erboristica europea conosce e pratica da millenni, prima dell’avvento della chimica industriale. In determinati casi non gravi, farmaci come ad esempio gli analgesici, o i sedativi, o gli antidolorifici potrebbero essere vantaggiosamente sostituiti anche dal farmaco vegetale. Ma occorre un avvertimento preciso, contrariamente a ciò che alcuni credono, le cure
vegetali non sono totalmente prive di pericoli solo perché provengono dal regno della natura, alcune piante hanno vere e proprie controindicazioni, e non vanno usate in presenza di determinati disturbi. Un uso imprudente, senza prescrizione medica o di personale qualificato, anche solo un dosaggio sbagliato può comportare rischi seri. Ogni pianta medicinale allo stato puro, che la letteratura del settore indica con l’antico e leggermente inquietante termine (per i non introdotti almeno) di «Droga integrale» è un organismo unitario perfetto, cresciuto fra terra e cielo, dove ogni costituente ha una sua precisa ragione di essere. Per la ricchezza del suo fitocomplesso spesso la pianta allo stato puro ha indicazioni terapeutiche multiple, il che significa che cura potenzialmente malattie di organi molto diversi. In farmacologia dalla «droga integrale» si estraggono alcuni costituenti definiti «attivi» che vengono separati dal resto della pianta, inseriti in composti chimici per dar luogo ad altri farmaci. Solo la droga allo stato puro racchiude e conserva tutte le capacità curative che la natura gli ha dato. Le piante integrali possono essere assunte in forma di tisana (decotto o infusione), di tintura alcolica, possono essere confezionate come polvere in compresse o capsule, come estratti secchi o fluidi, come macerati od oli essenziali. L’effetto che producono non è quello del farmaco di sintesi, seguono altre vie, occorre accettare tempi diversi da quelli della chimica tradizionale. Il Trattato di Fitoterapia Driope di Gabriele Peroni, per le influenze elenca almeno 25 piante diverse, dall’Anice stellato all’Abete bianco e alla Cannella, dal Ginepro all’Eucalipto al Ribes nero, dalla Ruta muraria alla Tossillaggine o alla Primula. Ma per i disturbi influenzali più leggeri, per i doloretti fastidiosi per i quali facilmente ci si butta sull’Aspirina esistono due piante che di questo popolarissimo farmaco sono i genitori, parliamo del Salice bianco e della Spirea ulmaria. L’uso dei rimedi naturali a base di Salice è antichissimo. Questa flessuosa pianta cresce solo in luoghi ricchi di acqua. Erodoto nelle storie narra di un popolo più resistente di altri alle malat-
Illustrazione delle parti dell’Ontano nero tratta da Flora von Deutschland, Österreich und der Schweiz, del Prof. Dr. Otto Wilhelm Thomé, 1885, Gera, Germany.
tie che era solito nutrirsi delle sue foglie e i nativi americani lo usavano per mal di testa, febbri e dolori muscolari. Nel 1828, nella sua corteccia fu isolata una sostanza attiva che fu chiamata «acido
salicilico», sempre in quegli anni dei ricercatori tedeschi isolarono lo stesso composto nei bellissimi candidi fiorellini a grappolo di Olmaria, anche detta Spirea (Filipendula ulmaria, l’a-
spirina naturale) e riuscirono a sintetizzare l’acido salicilico, che immisero sul mercato con i risultati che vediamo oggi. La Spirea è anti-infiammatoria, antidolorifica, cura raffreddori, mal di gola, tosse, dolori muscolari. Gli stessi effetti, forse più blandi, si ottengono con la corteccia di salice bianco, che si può assumere in forma di decotto o di tintura. Esiste un altro albero che come il Salice ama crescere nei luoghi ricchi di acqua, anche se è comunissimo nei boschi, dove cresce spesso accanto ai castagni: l’Ontano Nero. Anche questa pianta ha un rapporto privilegiato con l’acqua. Per la medicina celtica dei sacerdoti druidici l’unione di albero e acqua stabiliva un costante rapporto con le vibrazioni e le correnti di energia guaritrice di ogni essere vivente. L’Ontano nero è anti-infiammatorio, febbrifugo, cura disturbi come emicranie, acufeni, vertigini e labirintiti. Tra le curiosità: essendo resistente all’acqua, il ponte di Rialto a Venezia poggia proprio su pali di Ontano. Con la Betulla e il Frassino, l’Ontano è uno dei primi alberi che hanno colonizzato il territorio, lo si riconosce per le foglie attaccaticce che rimangono verdi fino alla caduta. In medicina popolare l’infuso e il decotto della corteccia erano usati per gargarismi nelle forme infiammatorie della gola, mentre l’infuso di foglie era bevuto contro la febbre e i reumatismi. Nel XVIII secolo la corteccia era usata come febbrifugo e sostituiva la china nel trattamento della malaria. Per le leggere sindromi influenzali, può essere consigliato con successo una semplice miscela di erbe dagli effetti calmanti ed espettoranti, che combatte e indebolisce i sintomi di raffreddore e gola infiammata; ecco la ricetta della miscela: unire in parti uguali Fiori di Tiglio (espettorante), Fiori di Sambuco (fluidificano il muco), Timo serpillo (apre il respiro) e Lichene d’Islanda (per le affezioni respiratorie e la febbre) che si raccoglie nelle valli del Ticino presso gli abeti. Bibliografia
Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice.
Time stop fino al 30 aprile Activ Fitness I 5 centri in Ticino sono chiusi dall’11 marzo, ma ci si è attivati per fornire allenamenti online,
con durate diverse a seconda della preparazione e delle aspettative A seguito degli sviluppi legati all’emergenza Coronavirus, attenta alla salvaguardia della salute dei clienti e dei collaboratori, la catena di centri fitness in Ticino, anticipando le decisioni del Consiglio di Stato del Canton Ticino e del Consiglio federale, ha deciso lo scorso 11 marzo di chiudere temporaneamente i propri centri fitness. Quali sono le conseguenze per i soci? Ne parliamo con Simone Posavec (Responsabile regionale) e Desirée Bruno (Coordinatrice dei corsi di gruppo). Simone Posavec, come avete affrontato l’emergenza?
Abbiamo seguito con attenzione l’evolversi della situazione nella vicina penisola cercando di capire quali conseguenze avremmo incontrato se l’emergenza avesse varcato i confini. Sapevamo che i centri fitness in Lombardia avevano chiuso e abbiamo valutato a lungo questa opzione. Il nostro focus era rivolto esclusivamente alla
Activ Fitness riconosce ai suoi soci un abbuono temporale. (ActivFitness)
sicurezza e alla salute dei nostri clienti e dei nostri collaboratori. Proprio per questo motivo abbiamo deciso, di nostra iniziativa, di chiudere temporaneamente i nostri 5 centri a partire dalle ore 19.00 dell’11 marzo 2020. Alcune ore dopo è arrivata la direttiva cantonale da parte del governo ticinese che ha obbligato la chiusura di tutti i centri fitness e benessere in Ticino. Attualmente è prevista la chiusura temporanea delle nostre palestre fino al 30 aprile 2020. I nostri soci beneficeranno gratuitamente di un abbuono temporale (Time-Stop) pari al periodo di chiusura dei centri. Sia la nostra decisione di chiudere i centri che quella di garantire un abbuono temporale sono state prese in modo molto positivo da parte dei nostri clienti. Comunque in questo periodo di chiusura, non abbiamo dimenticato i nostri soci e ci siamo attivati per permettere loro di allenarsi rimanendo a casa (vedi l’hashtag #iorimangoacasa).
Simone, il contatto con i soci vi manca?
Il nostro lavoro è basato sul contatto umano e sulle relazioni professionali con i clienti. In questo momento i social ci stanno aiutando a mantenere questo contatto ma non aspettiamo altro di riaprire per accogliere e ritrovare i nostri soci in palestra. Desirée Bruno, come possono fare ad allenarsi i soci (ma non solo)
Da quando abbiamo chiuso i centri per coronavirus, ci siamo subito attivati per fornire, allenamenti on-line. Per il mio settore «corsi di gruppo» abbiamo creato dei filmati di allenamenti così da non abbandonare i nostri soci. Cosa molto apprezzata, in molti ci stanno facendo sentire il loro calore, sono fantastici! Da quando siamo chiusi ognuno dentro le proprie abitazioni, ci muoviamo 80% in meno. Stiamo cercando di sensibilizzare chi ci segue a muoversi e fare attività tutti i giorni. Tramite i nostri social, i follower possono alternare allenamenti
cardio, tonificazione, body e mind. Questa programmazione è per far sì che possano giovarne corpo e mente. La durata degli allenamenti è per ogni tipologia di persona, per un massimo di 30 minuti, in questo modo tutti possono avvicinarsi all’attività fisica. Chi è già allenato può raddoppiare gli esercizi proposti raggiungendo l’ora, mentre per chi è alle prime armi, la tempistica proposta va benissimo. Proponiamo video di lezioni di ogni tipo, si spazia a 360° attraverso il nostro slogan #iomiallenoacasa, perché vogliamo che la nostra energia arrivi ad ognuno dei nostri soci e non solo. Per chi volesse seguire i nostri video, li trova sul nostro canale youtube e tramite le 5 pagine Facebook, siamo anche su instagram «activ fitness Ticino». Oltre ai nostri video, i soci possono allenarsi tramite www.activfitness.ch il portale activfitness@home dove troveranno svariati corsi. Il team AF Ticino stringe tutti in un abbraccio.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Ambiente e Benessere
Comfort, capacità di carico e prestazioni
Motori Sono tre le caratteristiche che distinguono tutte le varianti delle polivalenti Kia Sorento
e che sono confermate nel nuovo modello
Mario Alberto Cucchi Sono stati venduti tre milioni di esemplari in tutto il mondo. Tre le generazioni che si sono susseguite dal 2002 ad oggi. Modelli ben diversi nelle linee esterne e negli interni, accomunati però da caratteristiche simili: comfort, capacità di carico e prestazioni. Arriva dalla lontana Corea, è la Kia Sorento. La quarta edizione sarà ricordata non solo per il design più squadrato e imponente, ma anche per la presentazione al pubblico, che in questi giorni si è tenuta in diretta streaming sulla pagina facebook di Kia Worldwide. Da sempre Sorento è un’auto polivalente che si adatta a tutte le situazioni di guida e ha saputo adattarsi anche a questo momento storico: i Saloni dell’Auto, da quello di Ginevra a quello di Bangkok, sono tutti rinviati a causa della pandemia a data da destinarsi ed ecco allora che Kia ha scelto lo schermo di un pc per il debutto di Sorento. In cosa è cambiata rispetto al modello da cui deriva? In tutto o quasi. Oggi abbiamo a che fare con un vero Sport Utility Vehicle. Un SUV che si di-
stingue per le linee ricercate e la complessità delle forme. La griglia frontale chiamata Tiger-Nose, tratto distintivo degli ultimi modelli della Casa coreana, diventa più grande e si collega ai gruppi ottici a led. Particolare anche la vista laterale, in cui i finestrini ingannano chi guarda simulando una linea rastremata nella parte posteriore, in realtà decisamente imponente. D’altronde non potrebbe essere altrimenti, dato che Sorento è lunga 4,81 metri e può ospitare sino a sette passeggeri su tre file di sedili.
Presentata in prima mondiale con una diretta virtuale, la quarta generazione è diventata un SUV Cambia completamente anche il design posteriore, in cui i gruppi ottici sono ora con taglio verticale. Cambiamenti radicali anche all’interno dell’abitacolo, dove si trovano due grandi display gemelli. Quello dedicato alla strumentazione è da 12 pollici, mentre quello per l’infotainment è un po’ più piccolo e può arrivare a 10,25 pollici. Un design 2.0 dove i comandi fisici si riducono in favore di servizi connessi e di un’interfaccia di nuova concezione. Sparisce la leva del cambio rigorosamente automatico, ora si comanda attraverso una rotella posta sul tunnel centrale. Dato che tutti abbiamo qualcosa da ricaricare mentre siamo in auto, le prese usb abbondano, alle due frontali se ne aggiungono altre tre per i passeggeri posteriori. Non mancano gli aiuti
Giochi Cruciverba Risolvi il cruciverba e leggi le lettere evidenziate, troverai una parola e il suo significato. (Frase: 8, 5, 9, 2, 2) ORIZZONTALI 1. Lo formano le piante arboree allineate 6. Un uccisore di Cesare 11. Nelle gare fa... girare 12. Si prende con un occhio 14. Diede un figlio ad Abramo 15. Un gancio ... sinistro 17. Infecondi 19. Le iniziali dell’attrice Theron 20. Difetto 22. L’estate dei parigini 23. Si sente nella gola... 24. Noto servizio segreto 26. Un albero 28. Città della Toscana 30. Parente ... di una volta 32. Pronome dimostrativo 33. Vale in mezzo 35. Capitale della Norvegia 37. Trasformano i mesti in molesti 38. Sacra in India 40. Fantoccio mascagnano 41. Si percorrono in nave 43. Aspro, pungente 45. Il settentrione d’Italia... 46. Il sistema ...dello scheletro 47. Ventilare
alla guida di ultima generazione. Dal monitoraggio dell’angolo cieco, al lettore dei segnali stradali, dal controllo di velocità automatico con frenata stop&go, al mantenimento automatico della distanza. Completano la dotazione il mantenimento della corsia, il monitoraggio dell’attenzione del conducente e la funzione anti-collisione nei parcheggi in retromarcia.
Tra le motorizzazioni è disponibile anche una ecologica ibrida a benzina «Smartstream» in cui viene abbinato al 1.6 T_GDI turbocompresso a iniezione diretta un motore elettrico da 60 cavalli alimentato da una batteria ai polimeri di litio da 1,49 kWh per una potenza sistema di 230 cavalli e 350 Nm di coppia massima. In futuro sarà presentata anche una versione plug-in hybrid.
Entro il 2025 la Casa coreana prevede di offrire una gamma completa di 11 modelli elettrici. La storia di Sorento è fatta di decine, centinaia di migliaia di automobilisti appassionati di questo modello, abituati a cambiare auto solo all’uscita della nuova versione. Insomma, tutti innamorati di Sorento. Lo saranno anche di questa quarta generazione?
Le vincite di carte regalo da 50 franchi per le soluzioni del cruciverba e del sudoku sono sospese fino al termine dell’emergenza di Covid-19 1
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VERTICALI 1. Uno strumento come la tromba 2. Nome femminile 3. Le iniziali di Moravia 4. Malvagia in poesia 5. Una consonante 7. I raggi del vate 8. Due lettere in fuga 9. Parte della scarpa 10. Vicino al casale 13. Il soccorso del Pascoli 16. È panciuto ma ha una bocca stretta 18. Prefisso che vuol dire dieci 21. I cortili delle fattorie
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23. Consumati 25. Oscura la finestra 27. L’antico precede il medio 28. Granai 29. Quella dell’Alleanza custodiva le tavole della legge 31. Destino, fato 32. Figura geometrica 34. Segue le gemelle negli occhi... 36. Fiume della Francia 38. Vengono imboccate... 39. Desinenza verbale 42. Le iniziali dell’attore Sutherland 44. Simbolo chimico dell’erbio
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Soluzione della settimana precedente
TRA COLLEGHI – «Carlo come stai?» «Oggi mi sento mezzo tonto!» Risposta risultante: «BENE, ALLORA STAI MEGLIO DI IERI!».
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E N I S D T A A R I N G L T O A O R N I N E
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Asparagi verdi bio Spagna/Italia, mazzo da 500 g
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Asparagi bianchi bio Spagna/Ungheria, mazzo da 500 g, in vendita solo nelle maggiori filiali
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Cipollotti bio Ticino, il mazzo, in vendita solo nelle maggiori filiali
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Cetrioli bio Svizzera/Spagna, il pezzo
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Politica e Economia Osservatorio delle crisi In questa 2. puntata Federico Rampini spiega quali certezze dovremo abbandonare e quali di sicuro dovremo abbracciare
Intervista a un esperto di pandemie Lo storico americano Franck Snowden ci parla delle malattie infettive e della loro importanza, che trascende l’interesse della medicina. Le epidemie, infatti, una costante nella storia dell’umanità, la contagiano da sempre pagina 27
Miliardi per l’economia Il governo svizzero libera 42 miliardi, Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna centinaia di miliardi di euro e sterline, gli USA duemila miliardi di dollari, e non è che l’inizio pagina 31
pagina 26 Disinfestazione a tappeto in un albergo di Pristina. (AFP)
L’era glaciale
Emergenza Coronavirus Da Donald Trump a Xi Jinping, da Emmanuel Macron a Boris Johnson: c’è stata
una generale incapacità nel capire che cosa stava succedendo e che cosa avrebbe comportato in termini economici Daniele Raineri La fase iniziale di questa pandemia è stata anche un banco di prova per i leader dei grandi paesi – uno stress test, se parlassimo soltanto di economia – e non è andata per nulla bene. Da Donald Trump a Xi Jinping, da Emmanuel Macron a Boris Johnson, è come se ci fosse stata una generale incapacità di vedere cosa stava succedendo. Prendiamo l’America, che ha avuto la sorte di entrare in una delle crisi più gravi della sua storia con il leader più anomalo di sempre. L’Amministrazione Trump in questi mesi era stata avvertita molte volte che il contagio sarebbe arrivato e che avrebbe potuto travolgere gli americani. Prima l’intelligence, poi il Pentagono e poi la comunità scientifica avevano suonato l’allarme per dire che presto o tardi le scene viste in Cina si sarebbero allargate al resto del mondo e anche agli Stati Uniti, secondo una progressione matematica e quasi ineluttabile. Così funzionano le epidemie, sanno attraversare le distanze. Il rischio era così evidente che a febbraio, quindi due mesi fa, un paio di senatori repubblicani dopo un briefing riservato al Congresso americano diedero ai loro
broker il mandato di vendere e comprare azioni in modo da guadagnare dalla crisi in arrivo. Per esempio: vendere le azioni di alberghi, catene di ristoranti e linee aeree (tutta roba che poi è stata colpita in modo durissimo dalla pandemia) e acquistare azioni delle aziende che fanno software per la comunicazione a distanza (che invece sono diventate indispensabili). Eppure, mentre i suoi senatori reagivano con riflessi da campioni e facevano soldi sul mercato azionario, Trump ha sempre dato l’impressione di non avere afferrato cosa fosse in arrivo. Il presidente americano negli ultimi due mesi mesi ha provato un po’ tutte le posizioni. Per un po’ ha minimizzato il rischio di epidemia, «ci sono soltanto quindici casi e scenderanno a zero nei prossimi giorni»; per un po’ ha fatto la parte di quello che aveva già risolto il problema, «ci sono soltanto seicento casi e ventisei morti, se non fossimo intervenuti così velocemente le conseguenze sarebbero state molto peggiori»; poi si è presentato come «presidente di guerra», l’unico uomo che poteva trascinare l’America fuori dalla crisi; poi di nuovo si è messo a minimizzare e a dire che la pandemia era una brutta cosa ma non più brutta della recessione
economica e quindi era assolutamente necessario tornare al lavoro a Pasqua e infine, ma soltanto pochi giorni fa, si è allineato agli esperti che consigliano una quarantena totale del Paese – come quella cominciata quasi quattro settimane fa in Italia. «Ci saranno tra i centomila e i duecentoquarantamila morti – ha detto – e le settimane prossime saranno molto dure». Il problema è che quando Trump ha realizzato la situazione ormai era troppo tardi. Soltanto a New York ci sono già centomila positivi al test, come in tutta Italia, e la crescita è ancora nella fase esponenziale. Il centro del contagio si sposta verso le grandi città del nord come Chicago e verso quelle del sud come New Orleans e Atlanta. Nelle ultime due settimane oltre 6 milioni di americani hanno perso il lavoro. La Borsa non vedeva perdite così gravi dalla crisi del 2008 e le conseguenze saranno ancora più gravi e durature. La rivista «The Atlantic» titola: «Questa non è una recessione, è un’era glaciale». E pensare che in queste situazioni il tempismo è tutto. Gli esperti calcolano che anche un solo giorno di anticipo nell’intervenire con misure drastiche di isolamento e quarantena può evitare il 40 per cento dei contagi
(del resto è la natura delle curve esponenziali, crescono di colpo), ma l’America questo giorno di anticipo non l’ha avuto. Anche Boris Johnson è un leader tentennante. Il primo ministro britannico in una prima fase è stato tentato di affrontare il contagio con un approccio unico: lasciamo pure che il virus faccia il suo mestiere e si propaghi con rapidità nella popolazione del Regno Unito e cerchiamo di tenere isolati gli anziani, mentre il resto d’Europa si chiude in casa e cerca di fare l’opposto, quindi di evitare a ogni costo che ci siano contagiati in gran numero. Poi, era il ragionamento strategico di Johnson e dei suoi consiglieri, quando il virus comincerà a mandare troppi inglesi nei nostri reparti di terapia intensiva faremo scattare anche noi la quarantena in tutto il paese, ma la nostra durerà molto meno rispetto alle altre nazioni perché sarà scientifica e tarata con tempismo. E in più avremo un gran vantaggio, perché nel frattempo gli inglesi delle fasce d’età più resistenti al virus avranno sviluppato l’immunità e quindi il contagio andrà scemando in modo quasi naturale. Questa fase iniziale è durata una settimana. Poi, anche grazie a un rap-
porto dell’Imperial College di Londra, Johnson ha realizzato che era sul punto di fare un esperimento alla cieca con la vita di milioni di persone, ha cambiato idea e ha disposto misure molto più simili a quelle del resto d’Europa. Pub chiusi e isolamento sociale. Ma il tempismo è tutto come abbiamo visto e ora l’accelerazione del virus è una delle più intense tra i paesi occidentali. Il francese Emmanuel Macron ha tentennato appena un po’ meno. Anche lui era convinto, per qualche ragione bizzarra, che la Francia fosse più protetta degli altri paesi dal rischio del Covid-19 e ha permesso lo svolgimento regolare delle elezioni municipali domenica 15 marzo in circa 35 mila comuni. Ma alla fine anche lui – che la settimana prima andava a teatro e passeggiava per Parigi per infondere fiducia e sicurezza nei francesi – ha ordinato misure ancora più restrittive di quelle viste in Italia. A proposito: se i grandi leader non avessero avuto l’esempio prima della Cina e poi dell’Italia, dove il virus non ha ancora smesso di infierire sulla popolazione, la loro esitazione sarebbe stata molto più comprensibile. E invece al momento di dimostrare la qualità della loro leadership si sono trattenuti.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Politica e Economia
Sarà digitale la «new economy» Newsletter della pandemia – 2. parte Il Coronavirus rappresenta lo spartiacque fra le certezze che sembravano
Federico Rampini Dalle finestre di casa mia a New York vedo Central Park, dove è stato allestito un ospedale da campo. Poco distante da qui, ha attraccato al molo sul fiume Hudson la nave-ospedale militare Comfort (foto). La previsione più ottimista degli esperti sanitari del governo ci dice che se avremo centomila o duecentomila morti negli Stati Uniti potremo dirci molto fortunati. Ma dobbiamo guardare oltre. «Non bisogna mai sprecare una crisi»: questa massima oggi è una sfida lanciata al mondo del management. Primo imperativo: imparare le regole del gioco nell’era del telelavoro, che per molti è ancora un mondo semisconosciuto. Dove la produttività dei dipendenti, per esempio, va misurata in modi nuovi. In quanto agli scenari macro nel dopo-crisi, c’è chi già immagina che l’inondazione di liquidità (forse 4500 miliardi di dollari dalla Federal Reserve) e spesa pubblica (5000 miliardi se sommiamo tutte le manovre dei paesi del G20) stia preparando un ritorno dell’inflazione o addirittura dell’iperinflazione. Un fenomeno che i Millennial non hanno mai conosciuto in vita loro. Occhio alle tensioni salariali nei settori che subiscono il boom di attività. La globalizzazione non sarà più quella di prima, l’effetto coronavirus rafforza tendenze nazionaliste e protezioniste che erano già forti, e costringe
tutte le multinazionali a riesaminare catene industriali e logistiche troppo dilatate quindi troppo vulnerabili. A prescindere dal rafforzamento di Donald Trump nei sondaggi – il 60% di approvazione del suo operato è significativo ma potrebbe non sopravvivere alla probabile Caporetto della sanità americana – anche un’America governata dai democratici non tornerà al globalismo dei tempi di Clinton-Obama. Fra le tante certezze dell’epoca precrisi, anche l’ambientalismo potrebbe subire un colpo. Negli Stati Uniti con la fuga dalle grandi città è in atto una rivalutazione dell’American Way of Life più tradizionale, cioè consumista, energivora, insostenibile. Se vivi in un piccolo appartamento in un grattacielo di Manhattan – come me – consumi e inquini meno ma sei intrappolato nella più alta densità di contagio. Se vivi in un sobborgo lontano, hai la villetta col giardino, e ti sposti solo in macchina anziché sui mezzi pubblici, ti proteggi più facilmente dal virus, e naturalmente dai un contributo maggiore alla distruzione di risorse naturali. Raddoppiati in una sola settimana, i disoccupati americani ora sono 6,6 milioni. Erano 320’000 all’inizio di marzo, in un mese sono quindi moltiplicati per venti. La velocità con cui scivoliamo in depressione è peggiore degli anni Trenta. È ancora fresco l’inchiostro della firma di Trump sulla maxi-manovra di spesa da duemila miliardi (quasi 10% del Pil) e si discute
AFP
acquisite e le nuove sfide, come quella dell’online, che ridisegnerà il mondo del lavoro falcidiato dalla pandemia
su una manovra-bis. Nancy Pelosi, presidente della Camera a maggioranza democratica, ha pronta la sua versione: 760 miliardi andrebbero a rinnovare le infrastrutture stradali, ferroviarie e di trasporti pubblici metropolitani, la rete idrica, la banda larga Internet. Altri capitoli: sanità e scuola. Trump è favorevole a due trilioni di investimenti in infrastrutture, ma ora il problema è convincere la maggioranza repubblicana al Senato, che si sente trascinata verso un boom di spesa pubblica illimitata. La Federal Reserve lancia nuove forme di aiuto di portata mondiale. Dopo gli accordi swap della settimana
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scorsa con cui ha fornito dollari alle altre banche centrali, Bce in testa, ora l’autorità monetaria degli Stati Uniti consente alle altre banche centrali di convertire immediatamente in cash le loro riserve in buoni del Tesoro. Per il ruolo dominante del dollaro nell’economia globale, è essenziale che nessuno ne rimanga sprovvisto, come si vide già nel 2008-2009. All’interno degli Stati Uniti tra le novità dell’arsenale dispiegato dalla Fed c’è uno sportello di credito diretto alle imprese, anche piccole. Questa crisi sta accelerando la «selezione della specie» nel capitalismo americano: sopravviveranno e anzi ne usciranno ancora più forti di prima tutti coloro che avevano abbracciato l’economia digitale, che quindi avevano già spostato online gran parte delle loro attività; saranno eliminati molti attori della Old Economy. La terza rivoluzione digitale è in arrivo, quindi, e costringe le autorità federali americane ad assegnare nuove frequenze per il wi-fi: ci sarà una rivoluzione nello spettro delle frequenze, per facilitare telelavoro, videoconferenze, e la crescita esponenziale di servizi accessibili con le app dello smartphone nella fascia dei 6 gigahertz. Si conferma il rimbalzo dell’attività manifatturiera cinese, ma il governo di Pechino ha due problemi: il crollo della domanda globale che impedisce un ritorno alla normalità delle sue esportazioni, e il rischio di una seconda ondata di contagio dai cinesi che sono rientrati dall’estero. A metà aprile, quando uscirà il dato sul Pil nel primo trimestre, ci si aspetta il primo segno negativo dal 1976: l’anno in cui morì Mao Zedong e il potere passò nelle mani di Deng Xiaoping, l’artefice della transizione al capitalismo. Per la Cina questa crisi si sta trasformando in un’opportunità per accelerare il suo cammino verso una leadership mondiale. La propaganda ufficiale batte su questo tasto quotidianamente. L’agenzia stampa governativa Xinhua su Twitter pubblica tre immagini una a fianco all’altra. Nella prima c’è Times Square deserta. Nella seconda ci sono scene di festa in un ristorante nella città di Chengdu (Sichuan) per la fine delle restrizioni. Nella terza una squadra medica cinese decolla da un aeroporto della provincia del Fujian per portare aiuti all’Italia. Il messaggio è chiaro: l’America è in ginocchio, la Cina salverà il mondo. Sono già 470’000 le aziende tedesche, molte delle quali di medie dimensioni, che hanno fatto domanda per gli aiuti speciali della manovra pubblica, che consentono di accedere al Kurzarbeit (lavoro ridotto). Considerato come una versione più efficiente della cassa integrazione italiana, il lavoro ridotto
versa sussidi alle imprese che lasciano a casa i dipendenti, con lo Stato che si fa carico del pagamento dei salari purché il rapporto di lavoro non sia interrotto. Il governo prevede che il totale dei lavoratori in lavoro ridotto sarà «molto superiore al milione e 400’000 che vennero coinvolti all’apice della crisi del 2009». La Francia si accoda ai paesi che vogliono imitare il lavoro ridotto tedesco: pagare le imprese perché non licenzino. Ha già stanziato 45 miliardi di euro per sussidi diretti più 300 miliardi per prestiti alle aziende che accettano di tenere a libro paga i dipendenti. 337’000 imprese francesi hanno aderito, e i loro 3,6 milioni di dipendenti stanno ricevendo un’integrazione di salario dallo Stato. Le imprese continuano a pagargliene un quinto. Sui problemi dell’agricoltura europea: per rifornire gli scaffali dei supermercati e negozi alimentari è essenziale che l’agricoltura non si fermi. Con la primavera si avvicina il periodo della semina e anche di alcuni raccolti, a seconda delle regioni, e a seconda dei generi di cereali o di ortofrutta e legumi. Ma le restrizioni alla mobilità hanno fatto sparire buona parte della manodopera immigrata. L’agricoltura tedesca in tempi normali fa affidamento su 300.000 stagionali, in buona parte stranieri. In questa emergenza si sono candidati a lavorare nei campi alcune migliaia di tedeschi disoccupati, che accetterebbero lo stesso salario minimo di 9,35 euro all’ora degli immigrati. Però le candidature finora sono 16’000, ben al di sotto del fabbisogno. In Francia il governo dice di aver già ricevuto 40’000 richieste da parte di candidati al lavoro nei campi. Ma l’agricoltura francese ha bisogno di 200’000 stagionali, quindi anche lì i conti non tornano. Inoltre gli agricoltori hanno dubbi sulla possibilità di formare in tempi brevi una maodopera che non ha esperienza di lavoro nel settore. Comunque le grandi catene di supermercati francesi ne approfittano per rilanciare il protezionismo: annunciano solennemente che venderanno solo alimenti «made in France», accogliendo un invito del governo. Prima di concludere sull’Europa faccio una deviazione (senza offesa) dai paesi emergenti. Zambia, Argentina, Ecuador guidano la lista dei paesi a rischio default. Le bancarotte sovrane minacciano gli anelli deboli del sistema, quei paesi che già erano in situazioni difficili ora subiscono ancor più duramente lo shock del coronavirus. Tanto più che gran parte dei loro debiti sono in dollari e la moneta americana si è rafforzata come bene-rifugio in tempi di crisi. In questa fuga di capitali sono a rischio debiti sovrani per 3200 miliardi di dollari nelle economie emergenti. Questo – purtroppo – si collega alla recente «cattiveria» della Commerzbank contro i titoli di Stato italiani, che secondo la banca tedesca scivoleranno verso un rating da junk-bond. Il problema è che in un panico mondiale di queste dimensione, si allargano inevitabilmente le distanze pre-esistenti in termini di fiducia. L’Italia sarebbe penalizzata comunque dagli investitori; certo il rifiuto di ogni solidarietà da parte dei paesi nordici aggrava questa percezione dei mercati. Interessante il dibattito politico in Germania e Olanda dove molte voci si levano per condannare l’egoismo e auspicare un Piano Marshall di ricostruzione dell’economia europea che cominci da Italia e Spagna. Ma i contribuenti tedeschi e olandesi temono che ci sarà prima da ricostruire la loro economia, perché la tempesta è solo all’inizio.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Politica e Economia
Il Covid è di tutti
Intervista Frank Snowden, storico e autore di un libro sulle epidemie,
Francesca Mannocchi Frank Snowden è uno storico specializzato in epidemie, professore emerito di storia e storia della medicina a Yale ha scritto un libro dal titolo Epidemics and Society: From the Black Death to the Present, sulle pandemie nel corso dei secoli e il loro impatto sulle strutture politiche e culturali. Nel suo libro Snowden afferma che il tasso di mortalità delle pandemie non corrisponda necessariamente ai suoi effetti sulla società e che le epidemie siano lo specchio delle società e le costringano a interrogarsi sull’imminenza della morte e le responsabilità collettive. Nella prefazione al suo libro sostiene che le epidemie non siano eventi casuali ma che ogni società produce le proprie vulnerabilità specifiche. Studiarli è capire la struttura di quella società, il suo tenore di vita e le sue priorità politiche». Quali vulnerabilità sta producendo il Coronavirus e cosa ci raccontano della nostra società?
La storia si ripete e il Covid-19 non fa eccezione a questa generalizzazione. Il Covid sta rivelando vulnerabilità di vario tipo. Una è la vastità della nostra popolazione. Ci sono quasi 8 miliardi di persone nel mondo e riflette l’enorme urbanizzazione, le città congestionate ma collegate da rapidissimi mezzi di trasporto. È molto facile per una malattia esplodere la sera in Cina e raggiungere, la mattina dopo, Parigi o Città del Messico. Il coronavirus è in grado di inserirsi in una società altamente urbanizzata, industriale, congestionata e collegata da grandi reti di commercio e riesce a sfruttare le fessure della nostra società, e affliggere specifiche categorie di persone. Gli anziani ne sono un esempio. Come è noto questo virus è più pericoloso e più trasmissibile tra gli anziani rispetto ai giovani ed è un’ironia che con il suo buon servizio sanitario l’Italia abbia tra le più alte longevità nel mondo e dunque una corte molto ampia di persone anziane, dunque vulnerabile sotto questo aspetto. Prontezza è stata una delle parole più ripetute di questa crisi. Il rischio di non essere pronti è fomentare disparità e restare, di nuovo, impreparati in futuro.
Il Coronavirus sfrutta le fratture create dalla povertà, e dalla disuguaglianza economica. Sebbene affligga tutte le classi sociali e tutte le età, ci sono alcuni gruppi particolarmente vulnerabili e quindi il virus dimostra ancora una volta i punti deboli delle nostre società. Detto questo, credo che un altro enorme problema riguardi il modo in cui ci siamo (o meglio non ci siamo) preparati a virus di questo tipo. Era noto dal 1997 con l’influenza aviaria e poi ancora con la Sars , l’Ebola, il pericolo epidemico. L’OMS aveva messo in guardia sul futuro delle influenze pandemiche. Ma diverse nazioni hanno in gran parte smantellato il loro apparato di preparazione e tagliato i finanziamenti per la salute pubblica. Nel biennio 2018/19 l’OMS aveva realizzato uno studio sullo stato di
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
preparazione del mondo per affrontare una grande sfida per la pandemia e aveva concluso che vivevamo in un «Un mondo a rischio», a cui non siamo preparati. Per concludere ritengo dunque che il virus evidenzi vulnerabilità delle aree densamente popolate che presentano ineguaglianze interne e che pervicacemente non si sono preparate ad affrontare emergenze di questo tipo nonostante le sollecitazioni nel tempo.
Il percorso per gestire un’epidemia è sanitario ma anche culturale.
C’è un ritardo nella produzione di reazioni culturali alle malattie epidemiche e, lo vediamo, anche di reazioni politiche. Il Coronavirus mette a dura prova le relazioni politiche dell’Unione europea e le relazioni dei paesi al suo interno e abbiamo assistito a quanto sia stato difficile coordinare una strategia unificata e un approccio comune verso questa malattia. Ci sono gruppi in tutta Europa e certamente negli Stati Uniti che sfruttano molto questa malattia per accelerare l’avanzamento del sentimento anticomunitario sostenendo che sia il risultato della globalizzazione e dell’immigrazione. Negli Stati Uniti, il Presidente afferma che si tratti di un virus cinese, rifiutando di usare la terminologia scientifica, alimentando ondate di xenofobia e nazionalismo. È necessario dunque lavorare sulle reazioni politiche e culturali al virus.
Come l’influenza spagnola che ha ucciso 50 milioni di persone e nulla aveva a che fare con la Spagna
Infatti, influenza spagnola era una definizione impropria, il nome è determinato dal fatto che dato che la Spagna non era coinvolta nel primo conflitto mondiale, la sua stampa non era soggetta a censura e la sua esistenza fu riportata solo dagli organi di informazione di quel Paese, l’influenza spagnola è nota come la pandemia dimenticata. Mi lasci dire che di quella epidemia è interessante notare che nonostante l’enorme tasso di mortalità il suo impatto non fu pari alla Peste Nera, questo dà l’idea di come nella storia delle epidemie il numero delle vittime non sia necessariamente correlato alle conseguenze sociali, politiche e culturali. La Peste Nera nel 1300 ha avuto un impatto devastante sulla società, dall’arte alla religione ai processi economici, ha promosso quello che è poi diventato lo stato moderno perché le comunità necessitavano di organizzarsi per prevenire la malattia e dunque avevano bisogno di un’autorità centrale. In una recente intervista al «New Yorker» ha affermato che la risposta cinese allo scoppio del coronavirus l’abbia «terrorizzata», perché se le persone non collaborano con le autorità, questo aumenta il contagio. Come pensa che questa esperienza cambierà il nostro atteggiamento verso l’autorità e il controllo? Vede alcune somiglianze con le epidemie del passato nella relazione con il potere e il rapporto tra cittadini e autorità?
Non esiste una correlazione univoca tra una malattia epidemica e il tipo di strutture politiche o movimenti che sono rafforzati o indeboliti da essa. Ogni epidemia è sé stante. Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Non sono state solo sinonimo di repressione ma hanno, a volte, promosso grandi cambiamenti e rivoluzioni sociali. Si pensi alla fine della schiavitù ad Haiti e alla sconfitta dell’esercito napoleonico, la Grande Armata distrutta dalla febbre gialla a causa del differenziale nella mortalità di persone di origine africana, gli schiavi per intenderci, che erano immuni, e gli europei, che arrivarono per schiacciare la rivolta e non avevano immunità. Pertanto, nei mesi estivi le forze napoleoniche furono totalmente devastate e il comandante in capo scrisse di non poter continuare a combattere perché l’80% delle sue truppe era morto e il restante 20% convalescente e inabile alla guerra. Quindi, i francesi si arresero e questo significò una rivoluzione ad Haiti, la prima repubblica nera libera, e fu un colpo alla schiavitù. Questo è un esempio di epidemia che promuove il cambiamento sociale, la liberazione e la fine della schiavitù. D’altra parte, può anche creare pressioni verso una politica di destra, e in molti paesi si discute se affrontare un’epidemia di questo genere nelle forme del controllo e dello stato autoritario perché le democrazie non sono in grado di prendere le misure necessarie. La crisi non è mai solo medica. È psicologica, economica, politica. Quindi, non sappiamo ancora quale direzione prenderà, ma sono certo che alcuni paesi sosterranno la svolta verso l’autoritarismo e altri saranno in grado di fronteggiare questo rischio. Pensa che questa pandemia possano livellare le disparità in termini di accesso alle cure mediche o il rischio sia di alimentare le disparità anche su questo piano?
Spero che la ricerca di un untore non allontani il fuoco della riflessione, quella sull’attività scientifica. Affrontare pseudo-problemi, come affibbiare colpe all’immigrazione per questo focolaio genera mitologie che paralizzano la salute pubblica invece di promuoverne miglioramenti. Spero dunque che le persone capiscano che la scienza deve andare avanti e abbandonino fantasie paranoiche di ogni tipo che sono pericolose non solo politicamente ma anche dal punto di vista medico.
L’Italia fu uno dei primi luoghi a essere colpiti dalla Peste Nera. I marinai che arrivavano nel porto di Venezia separati dalla società per 40 giorni. Ora lei osserva l’Italia dall’Italia, il blocco è una buona soluzione, l’unica possibile. Oppure serve altro?
Credo che dobbiamo guardare alla Corea del Sud, un paese che è riuscito a contenere la malattia basandosi sulla preparazione, sviluppare la capacità di praticare test di massa. A questo si accompagna ovviamente l’isolamento delle persone che risultano positive, la tracciabilità dei loro contatti stretti e il loro autonomo autoisolamento. È una componente importante di una risposta collettiva ed è una risposta in qualche modo promossa anche dall’OMS. Il blocco è solo parzialmente efficace. Probabilmente si guadagna tempo ma la malattia rischia di rimbalzare di nuovo se la sanità pubblica non si dota Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
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ci spiega quali sono le sfide che dovranno affrontare le nostre società
di test che consentano loro di identificare con precisione il denominatore, cioè tracciare l’epidemiologia della malattia, e conoscere effettivamente quali settori della popolazione siano interessati e poterli identificare. È davvero fondamentale per andare avanti. E ci sono diversi tipi di blocco. La normativa italiana ha disposto un blocco severo. Nella provincia di Hubei, in particolare a Wuhan, in Cina, il blocco è stato rafforzato con la censura dei medici che dicevano la verità sulla malattia. Dunque non direi che un blocco è una misura inutile, direi che è una misura parziale, e forse ne avremo bisogno per un certo periodo, ma senza test di massa non si va avanti e serve una cooperazione transnazionale per creare risorse e distribuirle dove sono più necessarie. Creare barriere tra Stati è un fattore negativo, la risposta alla malattia è la collaborazione internazionale. Guardare più alla Corea del Sud e meno alla Cina. C’è chi ritiene che il virus può livellare le differenze tra poveri e ricchi, ma nel suo libro lei afferma il contrario. Pensa che anche il virus alimenterà i pregiudizi?
Credo che questo virus abbia il potenziale per farlo e in parte lo stia facendo. Negli Stati Uniti c’è la corsa a incolpare qualcuno. Gli obiettivi sembrano essere diventati gli stranieri, principalmente gli asiatici e questo ha prodotto un’impennata di violenza. Abbiamo persone di origine asiatica, non necessariamente cinesi, aggredite in strada o in metropolitana. Gruppi di persone di orgine asiatica scrivono su gruppi online e si organizzano in gruppo pur di non prendere la metropolitana da soli. Tutto questo è molto deprimente. A questo si accompagna una tensione generazionale, i giovani che hanno difficoltà economiche e probabilmente hanno votato Donald Trump e sentono che il miglioramento della loro vita sia ostacolato dalla tutela delle persone anziane. C’è un’espressione orribile sui social media di #boomerremover, i Boomer sono le persone anziane, i prodotti del Baby Boom (generazione post ww2) e l’idea è che il Coronavirus ne spazzerà almeno alcuni. Non sto ovviamente dicendo che questa sia una caratteristica dominante, ma è una delle patologie che emerge. Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Nella risposta dell’Italia la tutela della vita umana, ogni vita umana, non è stata messa in discussione.
Ciò che mi ha colpito in Italia è il senso di conformità alle normative sulla salute pubblica. Le persone sono un insieme e mi sembra che i cittadini siano resistenti nel far fronte a questa emergenza da cui si uscirà con estrema difficoltà. Credo che gli Stati Uniti abbiano da imparare dal tentativo dell’Italia di parlare con una voce sola. La comunicazione negli Stati Uniti è molto frammentata. Ogni comune, ogni consiglio scolastico, ogni Stato – e sono 50 – ha politiche diverse, questo confonde le persone e le rende diffidenti nei confronti delle autorità sanitarie. Pertanto ritengo che il modo in cui questa crisi viene gestita dalle autorità abbia un grande effetto anche sulla risposta della comunità. Gli Stati europei hanno chiuso i confini. Pochi sembrano interessati al destino dei paesi colpiti ma più svantaggiati. Crede che questo virus rischi di incrementare la diffidenza, la paura degli altri e un aumento del protezionismo da cui difficilmente si tornerà indietro?
È una grande preoccupazione, non solo mia. L’OMS, per esempio, ha sostenuto strenuamente che una delle lezioni da imparare fosse la capacità di prepararsi ad arginare questi fenomeni. Quando Bruce Aylward, consulente del direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità e a capo della squadra della missione congiunta OMS-Cina su Covid-19, è tornato dalla Cina gli è stato chiesto cosa avremmo dovuto fare per essere preparati e ha detto: «Dobbiamo trasformare la nostra mentalità». Credo intendesse i nostri impegni morali e la nostra visione sociale. Stiamo tutti vivendo la medesima cosa e quindi è necessaria la cooperazione internazionale perché i microbi non rispettano la classe sociale, la nazionalità e la razza. Spero vivamente che il muro di Trump non sarà visto dalle generazioni successive come la grande metafora della nostra era, perché è sia eticamente altamente discutibile, sia praticamente inefficace nel far fronte a un’emergenza di salute pubblica, a una malattia trasmessa da un virus polmonare che viaggia nell’aria e che peggiora perché crea uno stigma. E uno stigma è sempre lo stigma dell’Altro. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Idee e acquisti per la settimana
Per i conigli solo il meglio I conigli, accanto a cani e gatti, sono tra gli animali domestici preferiti. Affinché questi simpatici amici a quattro zampe possano mantenersi in buona salute, hanno bisogno di un’alimentazione equilibrata. I conigli domestici mangiano molta fibra grezza, di conseguenza la maggior parte del cibo dovrebbe essere costituita da fieno. Per non danneggiare il delicato apparato digerente dei piccoli roditori, il fieno andrebbe sostituito ogni giorno. Oltre a ciò, in primavera gli animali si possono nutrire anche con foraggio fresco come erba, dente di leone o insalata. Inoltre andrebbe messo a disposizione anche materiale da rosicchiare, per esempio sotto forma di rami o ramoscelli freschi.
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I conigli necessitano quotidianamente di acqua fresca, anche con la presenza di foraggio fresco. Uno studio dell’Ospedale Veterinario di Zurigo ha evidenziato che i roditori preferiscono bere da una ciotola, piuttosto che dal classico abbeveratoio per conigli a forma di bottiglia. È tuttavia importante collocare la ciotola in un luogo riparato, in modo che non possa essere rovesciata o sporcata.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Politica e Economia
Pioggia di miliardi per l’economia
Emergenza Covid-19 Le banche centrali e i governi sono chiamati a reagire velocemente in aiuto alle aziende
di tutto il mondo, paralizzate dall’espandersi del coronavirus
Marzio Minoli Quando sarà risolta l’emergenza sanitaria dovuta al Covid-19, o coronavirus che dir si voglia, ci saranno da raccogliere i cocci dei danni che questa pandemia sta arrecando all’economia globale. La situazione attuale è di quelle che si presentano con caratteristiche rarissime, tipiche dei periodi bellici. Si tratta per usare termini tecnici, di uno shock della domanda e uno shock dell’offerta contemporaneo. Cosa significa? In poche parole, nessuno compera e nessuno produce beni e servizi. Naturalmente ci sono beni e servizi che continuano ad essere prodotti e acquistati, ma si tratta dei cosiddetti «settori essenziali», come ad esempio l’alimentare e il sanitario, ma per il resto il blocco è quasi totale. Una situazione che sta interessando tutto il mondo, anche se in fasi diverse. La Cina, si spera, ha superato la crisi e sta tornando lentamente alla normalità sia dal punto di vista dei consumi che della produzione. L’Europa è nel bel mezzo della pandemia e nella maggior parte dei paesi è in vigore il «lockdown», un termine divenuto famigliare che in italiano si può tradurre con «serrata». Anche nel Vecchio Continente però le tempistiche sono diverse mentre la situazione è allarmante negli Stati Uniti. E da alcune parti già si cita l’Africa come prossimo terreno di diffusione.
La Svizzera mette a disposizione 42 miliardi di franchi, Germania, Francia e Italia rispettivamente 1100, 345 e 500 miliardi di euro, gli Stati Uniti 2mila miliardi di dollari Quali saranno dunque le conseguenze per l’economia mondiale? Sono molti coloro che si lanciano in previsioni. Tra le fonti più autorevoli sicuramente possiamo citare Oxford Economics, società inglese, numero uno al mondo in previsioni globali e analisi quantitative. Un’organizzazione alla quale fanno capo anche molte organizzazioni governative. Secondo gli esperti il coronavirus porterà il mondo in una profonda recessione, perlomeno durante la prima
È il momento delle grandi decisioni: Maurer, Parmelin e Berset dopo aver annunciato il mega-pacchetto di aiuti per 42 miliardi di franchi il 20 marzo 2020. (Keystone)
metà del 2020. Solo nel primo trimestre si prevede una contrazione talmente accelerata da superare quella della crisi del 2008, con un calo del 2% del prodotto interno lordo mondiale. A titolo di paragone prima dell’arrivo della pandemia si prevedeva una crescita del 2,5%. Le cose poi dovrebbero migliorare nel secondo semestre di quest’anno. Con tutte le precauzioni del caso gli analisti di Oxford Economics vedono una forte ripresa quando le «distanze sociali» verranno allentate e le politiche monetarie e fiscali faranno effetto. Il problema attuale quindi è sostenere rapidamente le aziende in difficoltà. Il crollo delle vendite e della produzione si è già manifestato in Cina. La produzione industriale per i mesi di gennaio e febbraio è scesa del 13,5%, mentre quella manifatturiera del 15,7%. Per quel che concerne le vendite al dettaglio, ovvero i consumi delle famiglie, sono crollati del 20%. Ma i dati di marzo parlano già di una ripresa a pieno regime, e questo fa ben sperare. Quali soluzioni attuare quindi per sostenere l’economia? Le principali banche centrali non si sono fatte attendere. Il 12 marzo la Banca Centrale Europea ha comunicato che non effet-
tuerà un ulteriore taglio dei tassi, ma garantirà più liquidità alle banche per sostenere l’economia. Inoltre, la BCE avvierà un piano di acquisto di titoli di Stato e aziendali per 750 miliardi di euro, con una novità rispetto ai quantitative easing ai quali ci aveva abituati. Non ci sarà più il tetto massimo del 33% di acquisti di titoli del debito pubblico di un paese. Il 15 marzo, tocca alla Federal Reserve statunitense togliere il «bazooka» dall’armadio e comunicare un azzeramento dei tassi d’interesse. Un taglio secco dell’1%. A questo si è aggiunto un piano di acquisti titoli per 700 miliardi di dollari, ai quali se ne sono aggiunti altri 300 miliardi una settimana dopo. Mille miliardi di liquidità nel sistema dunque. Per quel che concerne la Banca Nazionale Svizzera si trova di fronte al solito problema: evitare un apprezzamento eccessivo del franco svizzero, diventato, ancora una volta, un bene rifugio. La BNS ha deciso di non abbassare ulteriormente i tassi d’interesse, già negativi, ma di intervenire in modo deciso sul mercato per vendere franchi, soprattutto contro euro, cercando di evitare che il cambio con la moneta eu-
ropea raggiunga livelli più insostenibili di quelli che sono già. Poi è toccato agli Stati usare la cosiddetta artiglieria pesante. La Svizzera ha varato una serie di aiuti per 42 miliardi di franchi destinati alle aziende e alle associazioni in difficoltà. Di questi 20 miliardi sotto forma di fideiussioni, ovvero garanzie a fronte di prestiti agevolati concessi dalle banche. Per importi fino a 500’000 franchi la disponibilità è pressoché immediata, senza troppe lungaggini burocratiche e a tasso zero. Per cifre fino a 20 milioni invece il tasso d’interesse sarà dello 0,5% ma più che altro per coprire le spese delle banche che per importi importanti saranno chiamate ad effettuare delle verifiche maggiori. Ma non solo, anche la legge federale sulle esecuzioni e fallimenti è stata temporaneamente modificata e non sarà possibile procedere ad atti esecutivi. Il Consiglio Federale ha comunque sottolineato che all’occorrenza gli aiuti aumenteranno e le misure d’emergenza saranno protratte. Naturalmente anche altri Stati naturalmente sono intervenuti. La Germania dal canto suo mette sul piatto 1100 miliardi di euro sotto forma di prestiti e aiuti vari, la Fran-
cia 345 e il Regno Unito 300 miliardi di sterline. Non è da meno l’Italia che prevede 500 miliardi in garanzie, mentre gli Stati Uniti prevedono 2000 miliardi di dollari di aiuti. Tutte cifre non definitive, che possono variare a dipendenza dell’aggravarsi o meno della situazione. Aiuti di Stato all’economia dunque. Un tema che in situazioni normali avrebbe suscitato un dibattito infinito. Oggi però la situazione è unica e anche chi professa il libero mercato deve giocoforza riconoscere che senza aiuti statali ben difficilmente ci si rialzerà. E non stupisce che anche l’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, in un articolo apparso sul «Financial Times» il 26 marzo, sostenga apertamente l’intervento statale. Stato che, secondo Draghi, dovrebbe stanziare gli aiuti puntuali, ma anche farsi carico dei debiti che inevitabilmente le aziende dovranno contrarre in questo periodo. La ripresa economica passerà anche attraverso questi esercizi di equilibrismo tra pubblico e privato. La politica è chiamata a lasciare da parte le ideologie. Oggi è il momento del pragmatismo e della velocità di reazione. Annuncio pubblicitario
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di riduzione
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Il Ceneri-base e una previsione del Franscini All’inizio di settembre di quest’anno verrà aperta la galleria-base del Ceneri. Questa galleria, concepita per facilitare il traffico di transito, avrà conseguenze importanti anche per le comunicazioni tra le zone urbane del Ticino, ossia gli agglomerati di Bellinzona e Locarno, nel Sopraceneri, Lugano e Mendrisio-Chiasso, nel Sottoceneri. Non è assodato che la sua apertura possa dare un colpo di acceleratore alla crescita economica del Cantone. Quel che è certo, però, è che la stessa avrà sensibili ripercussioni sulla ripartizione
della popolazione e dei posti di lavoro all’interno del Cantone. È possibile che la riduzione dei tempi di viaggio tra gli agglomerati urbani provochi una nuova ondata di concentrazione di popolazione e di attività economiche e approfondisca le disparità, che già esistono, tra le zone urbane e le valli. Ma veniamo al Franscini. Ne’ «La Svizzera Italiana» egli si era occupato delle differenze di sviluppo del Piano di Magadino comparato al Mendrisiotto. È questo certamente il primo esempio che si conosca di esame delle disparità
La previsione del Franscini e lo sviluppo demografico effettivo.
interne del Cantone e delle loro possibili cause. L’analisi di Franscini cominciava dalla constatazione delle differenze che esistevano nello sviluppo socioeconomico del Mendrisiotto rispetto al Piano di Magadino, per poi mettere in evidenza la densità di popolazione come possibile misura sintetica di queste differenze. Scriveva il Nostro verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento: «Nella prima di queste due contrade (il Mendrisiotto, nda) abbiamo i massimi progressi dell’agricoltura ticinese, nella seconda i minimi; nella prima più o quasi più, fuorché nella parte montana, diritti di pascolo sulle proprietà particolari, nella seconda conservati in tutta la loro integrità questi flagelli della rurale economia. Quella è resa il giardino della nostra repubblica, questa è la nostra palude pontina, scarsa di abitanti e di produzioni, e funesta agli uomini e a’ bestiami…». E poi il confronto in termini di densità di popolazione: nel Mendrisiotto si trovavano 600 persone per miglia quadrato mentre nel Piano di Magadino la densità era solo di 48 persone per miglia quadrato. E perché
il lettore si potesse fare un’idea anche più concreta di cosa significava questa differenza, Franscini concludeva: «Abbiamo visto che se tutto il Cantone fosse popolato così com’è nel Mendrisiotto, saremmo circa quattrocento ventimila Ticinesi: in vece se nella proporzione del piano di Magadino, non saremmo che trentasette o trentotto migliaia, quasi tutti poveri e malsani». Come si può rilevare dal grafico, oggi non siamo più lontani dai 420’000 abitanti del Franscini. Infatti, se la tendenza di sviluppo demografico che si è manifestata a partire dal secondo dopoguerra mondiale dovesse continuare il Ticino potrebbe contare 420’000 abitanti già nel 2050. Il Franscini, per il quale la crescita della popolazione e l’aumento della densità di popolazione erano due sicuri indicatori dell’incremento di benessere di cui poteva godere una regione, ne avrebbe gioito. Gli abitanti del Ticino di oggi, confrontati, nelle zone urbane, con un alto livello del rumore e delle immissioni nocive, per non parlare di dove stanno arrivando gli affitti, certamente un po’ meno. Nella «Svizzera italiana» il
Mendrisiotto veniva chiamato «il giardino della nostra repubblica». Ci si può chiedere dove sia finito! Nel frattempo il piano di Magadino che il Franscini chiamava «la nostra palude pontina» dopo essere stato, per qualche decennio, il maggior centro di produzione della campicoltura e dell’orticoltura cantonale, sta riempiendosi di costruzioni e lo sarà ancora di più dopo l’apertura della galleria di base del Ceneri. Con una popolazione sopra i 400’000, concentrata, al 90%, in quella che alcuni semplicioni si ostinano a chiamare la «città-giardino» del Ticino, e con la mania degli architetti ticinesi di coprire ogni centimetro quadrato non costruito dei loro sedimi con lastre di granito, è difficile pensare che domani sul piano di Magadino resterà anche un solo filo d’erba. Intanto però, le valli superiori del Cantone avranno perso dal 20 al 30% della loro popolazione. Il giardino del nostro Cantone si sposterà quindi sopra i 600 metri d’altezza perché oggi, purtroppo, tra densità della popolazione e qualità della vita non c’è più una correlazione positiva.
è arrivato, quasi tutti gli ospedali lombardi – tranne il Sacco a Milano – e non solo quelli sono diventati focolai. Ci sono state intuizioni geniali di singoli, come l’anestesista Annalisa Malara, che a Codogno ha avuto l’idea di verificare se l’atleta trentottenne che non guariva dalla polmonite avesse il coronavirus. C’è stato il sacrificio di medici, infermieri, militari, forze dell’ordine. Ma lo Stato non li ha protetti con materiale sanitario adeguato. Ci sono stati slanci individuali, ma un’organizzazione complessiva disastrosa. Ora si parla di nuovo di riaprire il Paese. Legittimo. Ma prima bisognerebbe fare uno screening di massa. Legare il tampone al ricovero è un errore clamoroso. Nessuno va volentieri in ospedale; a maggior ragione in questi giorni. In ospedale si va quando è tardi; a volte, troppo
tardi. Da giorni i virologi sostengono che bisogna fare tamponi a domicilio ai sintomatici e ai loro familiari, per evitare che il nuovo focolaio diventi la famiglia; ma non si è ancora passati dalle parole ai fatti. A tutto questo si aggiunge la crisi europea, aggravata dalla mossa di Orban. Per Angela Merkel sono giorni decisivi. La Cancelliera deve decidere se vuole passare alla storia come una statista al servizio dei tedeschi, o come prima leader europea. Ursula von der Leyen, che chiaramente risponde alla Merkel, prima ha mandato un affettuoso messaggio in un italiano stentato, poi ha scritto una lettera a «Repubblica» con parole di nobile solidarietà; e solo giovedì, per contrastare la crisi economica innescata dalla pandemia, ha annunciato «Sure», il primo piccolo passo
europeo di aiuti da 100 miliardi . Non basta certo consentire a Francia, Italia, Spagna di spendere i loro soldi, facendo altro debito. Occorre fare debito europeo, condiviso. Ora i capi di governo stanno lavorando a un compromesso: no agli eurobond, sì a obbligazioni emesse dalla Banca europea degli investimenti (Bei), più accesso agevolato al cosiddetto fondo salva-Stati (Mes) senza condizioni capestro, tipo quelle che hanno affondato la Grecia. Ma la sensazione è che senza una straordinaria mobilitazione economico-finanziaria non verranno poste le garanzie e ristabilita la fiducia necessaria per affrontare la grande depressione che si intravede davanti a noi. E che potrebbe alimentare scorciatoie autoritarie come quella che Orban ha fatto imboccare all’Ungheria.
“locale”». Era la frase pronunciata da un distinto signore appoggiato a un muretto vicino alla sede della Scuola Steiner. Ho pensato subito che parlasse del virus, della fine della globalizzazione, quindi del ritorno a un «locale» valido per una sorta di nuova economia smantellata e obbligata a ripartire. Così sono arrivato a immaginare quel «diventerà tutto “locale”» come la scintilla e al tempo stesso il traguardo di un cambio di paradigma che del resto un po’ in tutto il mondo riteneva necessario per frenare un sistema che, come dice Edgar Morin, con la globalizzazione ha imposto al mondo economico «l’interdipedenza senza solidarietà». Di sicuro se ne riparlerà. Un secondo «input» l’ho avuto dal mio medico di famiglia. Da lui, che mi curava in febbraio per cosa marginale rispetto alla tempesta in arrivo, sento e condivido che il «Covid-19 è un virus democratico» perché colpisce tutti, dai barboni ai re. Il suo giudizio mi spinge nei giorni successivi a tener presente anche il lavoro di questa «fanteria» del
nostro sistema sanitario. Ricordate i primi giorni? Quelli del «Non andate al pronto soccorso, telefonate e andate dal vostro medico...», appelli lanciati senza curarsi di quel che avrebbero causato ai dottori di famiglia e ai loro collaboratori? In pochi sinora l’hanno fatto: credo sia basilare che, assieme al plauso, venga perorata una rivalutazione del ruolo e dell’importanza di una figura che qualcuno programmava di soppiantare. Chi avesse qualche dubbio può scacciarlo leggendo la lettera inviata da 13 medici bergamaschi a una rivista medica inglese (https://catalyst.nejm.org/doi/ full/10.1056/CAT.20.0080). L’ultimo impulso me lo indica mia moglie. Assieme riflettevamo sul dopo di questo virus, e lei conclude dicendo: «Diventeremo tutti un po’ più poveri». Ah, la forza della preveggenza femminile! C’era tutto in quella considerazione scaturita dagli interrogativi sulla tenuta di un sistema economico che in Ticino è anche vassallo del frontalierato (e pensare che anime belle propongono di
lasciare entrare solo i frontalieri impiegati nella sanità cantonale!). Anticipava persino gli scenari descritti due settimane dopo, sull’autorevole «MIT Technology Review», dall’editorialista Gideon Lichfield. Un solo esempio: controlli con obbligo di certificazione sanitaria immune da virus, un po’ simili a quelli in vigore da un decennio negli aeroporti, in futuro estesi a tutti i luoghi pubblici, dai parchi agli stadi, dalle palestre ai posti di lavoro, dai grandi magazzini ai night club. Lichfield conclude affermando che le cose torneranno alla normalità solo dopo molti mesi, e che «alcune cose non torneranno mai più». Per questo considero il «Diventeremo tutti un po’ più poveri» una sorta di prezzo giusto da pagare per tornare al «locale» e per riparare i danni di un virus democratico, dopo (quando?) che qualcuno (chi?) ci dirà che tutto è finito. E, visto che mi si darà comunque torto per l’argomento proposto, aggiungo una speranza: che per tutti ci sia, ancora e sempre, libertà di abbracciarsi e sentirsi vivi.
In&outlet di Aldo Cazzullo Orban, la deriva della pandemia Il Parlamento ungherese prima di chiudere vota i pieni poteri a Viktor Orban. Una strada inquietante. Orban, all’evidenza, guarda a Putin come modello: ha un certo consenso popolare, e se ne avvale come di una leva per prendere i pieni poteri, individuando di continuo un nemico nei migranti, nella globalizzazione, nello straniero, nell’altro. Come minimo, dovrebbe essere espulso dal partito popolare europeo. Ma se Orban ha fatto quello che ha fatto, è perché sa bene che l’Europa non è mai stata così debole. Incredibilmente, in Italia Matteo Salvini e Giorgia Meloni, anziché prenderne decisamente le distanze, hanno avuto per il satrapo di Budapest parole comprensive. Questo la dice lunga sulla qualità democratica dei cosiddetti sovranisti. Se fossero
stati loro a gestire la crisi, probabilmente non sarebbe cambiato nulla, anzi. Il problema è che la crisi in Italia è stata gestita malissimo. E infatti sta provocando, come e più che nel resto d’Europa, una crisi non solo sanitaria ma pure economica e sociale. La storia non si ripete mai. I riferimenti storici in questi giorni ormai si sprecano, e inevitabilmente sono tutti un po’ fuorvianti. Ma se proprio si deve scomodarne uno, per l’Italia è Caporetto, la disfatta della Grande Guerra. L’Italia è il Paese con più morti al mondo, e dopo tre settimane di clausura continua a perdere centinaia di vite al giorno. È evidente che non è colpa di una persona, ma di un sistema. La politica ha passato gennaio e febbraio a litigare sulla prescrizione, anziché preparare strutture e protocolli per l’emergenza. Quando il virus
Zig-Zag di Ovidio Biffi Paletti indicatori personali Ha ragione Antonio Gurrado, giornalista della «Gazzetta dello Sport» e amabile blogger: «Per chi ha una rubrichina quotidiana, scriverla oggi significa andare sul sicuro: qualsiasi cosa decida, avrà avuto torto», sia che parli dell’argomento pandemia, sia che ne scelga uno più leggero magari con l’intento di far capire che anche gli altri problemi non sono scomparsi. Sapendo di finire comunque nel torto, affronto il «pensum» girando attorno a quello che probabilmente dovremo affrontare per riprendere una normalità, cioè del dopo pandemia. Ne avrete già letti e sentiti tanti di analoghi tentativi (ottimo quello di Reto Ceschi nei «60 minuti» del 23 marzo con freschi e calibrati apporti «professional» via Skype). Saprete già anche che non è facile focalizzare situazioni legate a contingenze di cui non sappiamo niente, un «dopo» di cui tutti i «paletti indicatori» sono altamente dispersivi: si va dal «le crisi sono sempre un’opportunità» sino al «sarà una valle di lacrime», quest’ultimo
presagio pronunciato da un politico giustamente lodato per aver tolto i conti del comune di Lugano dall’indebitamento eccessivo. Potenzialmente possono essere dieci, cento, mille i nodi futuri da fronteggiare, a partire da quelli urgenti e direttamente collegati al virus (politica sanitaria, costi ospedalieri, casse malati) per arrivare sino ai dolori sociali che il prolungato arresto dell’economia già sta causando e agli assilli (anche politici) che riguardano programmi, competenze, priorità, scelte e, soprattutto, decisioni da prendere. Per «riempire» la mia rubrichina ho scelto tre «paletti indicatori» incontrati in momenti diversi, partendo da quello captato durante una passeggiata compiuta tra Cureglia e Origlio con giro attorno al laghetto, una delle ultime domenica ancora libere agli «over 75». Mentre la mente macinava le prime arzigogolazioni sugli effetti del Coronavirus che dopo Wuhan stava avviando il suo sterminio in Lombardia, camminando ho sentito: «Capisci: diventerà tutto
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Cultura e Spettacoli L’abc della diseguaglianza Grazie alla verve e all’arguzia della scrittrice ticinese Alice Ceresa ci giunge una serie di riflessioni sull’inuguaglianza di genere
Memoria di Arbasino Un ricordo del grande intellettuale italiano, capace di muoversi con ironia e classe tra lettere e jet set
Avere 12 anni alla Decca Il violinista Christian Li a dodici anni è già stato scritturato dalla prestigiosa Decca
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Raccontare la pandemia
Arte Come gli artisti hanno rappresentato
i periodi bui della storia dell’uomo
Alessia Brughera L’umanità convive da sempre con le pandemie: il passato ci ha insegnato che pestilenze incurabili fanno regolarmente parte della nostra storia. Ultimo in ordine di tempo tra i flagelli che ci troviamo ad affrontare è il coronavirus, silenzioso e subdolo come da manuale. L’arte, fedele specchio della società, non ha mai mancato di rappresentare anche questi difficili periodi attraversati dal genere umano, un po’ per testimoniare la gravità dell’evento, un po’ per cercare di combattere paura e sgomento con le armi della creatività (ciò che già Aristotele chiamava «catarsi artistica»). Se ci chiedessero quale sia stata l’epidemia più tremenda che si è abbattuta sull’uomo, probabilmente molti di noi risponderebbero la peste nera del Trecento, che in cinque anni devastò il Vecchio continente riducendone di un terzo la popolazione e sconvolse l’intero assetto sociale, economico e politico dell’Europa di fine Medioevo. Forti furono anche le ripercussioni che questo episodio ebbe sull’arte, da una parte frenando bruscamente le innovative ricerche stilistiche incominciate da Giotto, dall’altra, però, alimentando lentamente quella svolta verso il Gotico internazionale che proprio al terrore e all’inquietudine avrebbe cercato di contrapporre l’amore per la vita e per la piacevolezza. Tanti furono gli artisti che descrissero questi tetri anni pestiferi utilizzando soprattutto l’iconografia del «Trionfo della Morte», di cui esistono centinaia di versioni e di cui qui citiamo una delle più interessanti, l’affresco conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. Tema a carattere macabro diffuso perlopiù nell’area franco-tedesca e in quella alpina, questo soggetto fu proprio conseguenza diretta degli scenari apocalittici generati dall’epidemia che aveva riempito le città di cadaveri. Nei «Trionfi» la morte veniva raffigurata senza mezze misure (soprattutto a uso e consumo della plebe) come uno scheletro armato di falce che colpisce indistintamente poveri e ricchi, contadini,
re e papi, per ricordare che dinanzi a essa tutti siamo uguali. Un’altra pandemia che scombussolò il mondo fu l’influenza spagnola, che nel biennio 1918-19, con la Grande Guerra alle battute finali, decimò la popolazione mondiale causando oltre cinquanta milioni di vittime. Tra i deceduti ci furono anche Gustave Klimt ed Egon Schiele, quest’ultimo autore di un quadro simbolo della malattia, intitolato La famiglia, dipinto poco prima di morire. Più fortunato fu invece il pittore norvegese Edvard Munch, colpito dal virus ma miracolosamente sopravvissuto, come ci racconta la sua tela Autoritratto dopo l’influenza spagnola, in cui l’artista si effigia seduto su una poltrona, il letto sfatto dietro di lui, con lo sguardo rivolto allo spettatore e la bocca aperta quasi a voler urlare al mondo lo scampato pericolo. Più vicina ai nostri giorni, anche l’AIDS, ribattezzata «la peste del secolo», negli anni Ottanta e Novanta assunse i tratti della pandemia, diffondendosi dapprima in America e poi nel resto del globo. Tra gli artisti che nei propri lavori affrontarono questa malattia ci fu Keith Haring, morto a soli trentuno anni dopo aver contratto il virus dell’HIV. Emblematica è l’opera Ignorance=Fear, del 1989, in cui il pittore e writer statunitense, con il suo stile inconfondibile post-Pop Art, rappresenta tre figure che mimano il gesto di non vedere, non sentire e non parlare, a denunciare la disinformazione dell’epoca sull’argomento nonché l’inadeguatezza della risposta del governo americano a ciò che stava accadendo. Ed eccoci così, ai giorni nostri, di fronte a un nuovo flagello, a cui è stato dato il nome di Covid-19. Come avvenuto nelle epoche passate, anche gli artisti contemporanei, con modalità e intenti diversi, hanno fatto del pericoloso virus il soggetto delle proprie creazioni. I primi a mobilitarsi sono stati gli street artist, «categoria» tra le più attente alle questioni sociali. Dopo la Monna Lisa di Leonardo e i due innamorati di Hayez immortalati con mascherina, Tvboy, writer siciliano attivo tra Ita-
Luke Jerram ha ricreato il Covid-19 in vetro; questa versione (diametro 23 cm) misura 2 milioni di volte l’originale. (Keystone)
lia e Spagna, poco prima di eclissarsi in quarantena è riuscito a regalarci un altro murales nella città di Barcellona, dal titolo I want you to stay home. Questa volta il protagonista è lo Zio Sam, che nella celebre posa con cui nel secolo scorso invitava i giovani americani a combattere nell’esercito adesso esorta tutti a trincerarsi in casa. Un messaggio analogo arriva anche dall’opera di un altro street artist italiano, Nello Petrucci, che alla periferia di Pompei ha realizzato un collage su muro rappresentando l’iconica scena in cui la famiglia Simpson, protagonista di una delle sitcom animate più viste al mondo, è seduta sul divano di casa mentre guarda la televisione: qui però Homer, Marge, Bart, Lisa e la piccola Maggie indossano rigorosamente la mascherina. Con intenzioni ben più provocatorie è nato invece il lavoro dell’artista Lynx Alexander (noto anche con
il soprannome di «Tie Guy» per le sue eccentriche sculture che ama portare come fossero cravatte), una bizzarra mascherina che nei primi giorni di marzo il performer americano ha creato e poi indossato passeggiando per Times Square, in risposta all’altrettanto strambo atteggiamento iniziale del presidente Trump nei confronti della pandemia globale, definita una bufala diffusa dai democratici. Ha del sorprendente, poi, ciò che l’artista britannico Luke Jerram è riuscito a fare con il Covid-19, realizzando l’esatta riproduzione del virus, desunta da immagini a microscopio, in un’elegantissima versione in vetro che ne ingrandisce le dimensioni di due milioni di volte. Lo scultore di Bristol, autore anche di grandi installazioni e progetti d’arte dal vivo, non è nuovo alla produzione di opere di «microbiologia artistica» con cui si diletta a trasformare temibilissimi virus e batteri in fragili
ed eterei lavori plastici dalle forme perfette. Non appartiene, infine, a un vero e proprio artista ma a uno scienziato con la passione per l’arte una delle più poetiche raffigurazioni del Coronavirus. A crearla è stato David Goodsell, biologo strutturale che dedica il suo tempo a studiare la morfologia dei microrganismi patogeni e che all’occorrenza impugna il pennello per mostrare ai non addetti ai lavori le vere sembianze di ciò che ci fa paura. I suoi acquarelli sono veri e propri «ritratti» del Covid-19 eseguiti rigorosamente a mano libera sfruttando i modelli forniti da tecniche sofisticatissime, come la microscopia crioelettronica: scientificamente accurate nelle forme ma fantasiose nelle tinte, è come se queste opere liberassero il virus dalle sue asettiche sembianze e da tutta la sua carica negativa, tramutandolo in una sorta di coloratissimo e innocuo fiore.
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Cartoline dalla quarantena Il mondo degli scrittori visto dalla finestra di casa
Råå Björn Larsson si è isolato volontariamente, poiché la Svezia
Chiamiamoci come tanti barone Lamberto
Björn Larsson
Nadia Terranova
La prima volta che andai in Scozia in nave fu nel 1986, prima dell’apertura delle frontiere europee. Al nostro arrivo, al termine di tre giorni sfiancanti attraverso il Mare del Nord, non fummo legittimati a scendere a terra prima di avere ricevuto la visita della dogana marittima. Poiché all’epoca non esistevano i cellulari, per segnalare la propria presenza si doveva issare una bandiera gialla. Quella bandiera gialla era stata imposta a tutte le navi del mondo nel XIX secolo. Ciò era dovuto a un’imbarcazione che, giungendo a Marsiglia, aveva infranto le regole della quarantena, portando la peste in città. Risultato: centomila morti. Anche se oggi abbiamo il VHF e il telefono, questa bandiera gialla è tuttora in uso in numerosi paesi del mondo. Dalla finestra del mio piccolo studio di Råå, in Svezia, dove mi sono ritirato dal mondo, vedo una striscia di mare e oltre, la Danimarca, che ha chiuso le frontiere con gli altri Paesi, Svezia compresa. Non posso dunque più andare a visitare mia figlia che abita proprio dall’altra parte dell’Öresund. Anche se la Svezia ha scelto una via meno restrittiva rispetto agli altri Paesi, appellandosi alla responsabilità individuale di ognuno, piuttosto che ai divieti e alle sanzioni, è come se vivessimo in un mondo in cui la bandiera gialla è issata ovunque, davanti a tutte le finestre, come se la gente aspettasse sulla baia che qualcuno le accordasse la libera pratica. Ma chi? E quando? A Fraserburgh, in Scozia, dovemmo attendere per alcune ore l’arrivo dei doganieri. Ma quanto tempo dobbiamo aspettare ancora per ritrovare la nostra libertà, ciò che ne resta? Sono rientrato dall’Italia, il mio secondo Paese, cinque settimane or sono con l’impressione di «averla scampata», pur avendo anche dei rimorsi per avere lasciato indietro la mia
«L’uomo il cui nome è pronunciato resta in vita»: Gianni Rodari, in C’era due volte il barone Lamberto, mette in scena un personaggio che prende molto sul serio questa frase. Il plurinovantenne Lamberto vive su un’isola nel lago d’Orta, un’isola tutta sua, perché è ricco, molto ricco, visto che ha ventiquattro banche in tutto il mondo. Ha anche ventiquattro malattie, perché con i soldi può comprare tutto tranne gli antidoti alla morte, all’invecchiamento e alla paura, può però pagare delle persone perché pronuncino ininterrottamente il suo nome, Lamberto Lamberto Lamberto… Notte e giorno, quei bisbigli lo terranno in vita. E noi, che non siamo anaffettivi come il barone né abbiamo le sue disponibilità economiche, come possiamo chiamarci e tenerci in vita in questo periodo? Durante i primi giorni di isolamento, nei balconi italiani, alle sei del pomeriggio, si è diffusa l’abitudine di affacciarsi e cantare. Si sono scelte canzoni che ci facessero sentire parte di una comunità, come l’inno nazionale oppure Azzurro, con quel pomeriggio lungo, troppo lungo, e l’evasione a portata di
Sul ponte sventola bandiera gialla non lo richiede (ancora) ai propri cittadini
Sullo sfondo la Danimarca, ormai terra proibita.
compagna; sono partito poco prima che il virus colpisse duramente il Nord dell’Italia. Dopo essere rientrato, mi sono messo in autoquarantena per due settimane, il tempo di sapere che non ero infettato. Ma proprio quando, di principio, potevo ricominciare a vivere lui, il virus, se n’è fregato della sospensione dei voli e ha preso comunque la rotta per la Svezia. Poiché a sessantasei anni faccio parte del gruppo a rischio, ho dunque proseguito la mia quarantena. So di essere privilegiato: posso scrivere e leggere, posso uscire a prendere un po’ di sole in riva al mare, posso montare in bicicletta e andare a passare un po’ di tempo in barca... evitando i wc dello yacht club e mantenendo le distanze dagli altri membri del club. Ma, prima di ogni cosa, cerco di mettere un poco di ordine in casa. Poco prima di morire Leonard Cohen in un’intervista dichiarò: «A un certo punto, se hai ancora le rotelle a posto e non sei confrontato con sfide economiche importanti, hai la possibilità di mettere in ordine la tua casa. Mettere in ordine la casa, se riesci a farlo, è una delle attivi-
tà più confortevoli, e i suoi benefici sono incalcolabili». Cohen ha assolutamente ragione. Sapere di avere la casa in ordine dà tranquillità di spirito, una sensazione di pace. Ho dunque fatto ordine tra le mie carte, gettando nell’immondizia chili di scartoffie. Ho regolato questioni di amministrazione personale. Ma soprattutto, ho scritto il mio testamento, in cui cerco di spiegare dettagliatamente ciò che sarà dei miei affari e dei miei possedimenti, affinché mia figlia, che un giorno erediterà tutto, oltre ad affrontare il dolore, non si ritrovi a dovere passare settimane a raccapezzarsi. Si potrà obiettare dicendo che questo non è né credere alla vita, né portare speranza o preparare la propria morte. Ma come possiamo rimproverare ai nostri politici e al capitalismo sfrenato di non guardare oltre le prossime elezioni e il prossimo bilancio, se ognuno di noi non fa ciò che può per aiutare quelli che verranno dopo? Come possiamo accusare uomini e donne di ignorare le minacce del cambiamento climatico se ciascuno di noi non si prende le proprie responsabilità? È troppo comodo dare sempre la colpa agli altri.
Roma I balconi sono diventati piccoli salotti
Sui balconi i nomi di chi li abita: finalmente ci si conosce.
mano con il treno dei desideri. Oppure ancora Ma il cielo è sempre più blu, che ricordava a chi ha a disposizione solo uno spicchio di firmamento, magari nel cavedio interno al palazzo, che quello spicchio è lo stesso per tutti. Abbiamo cominciato ad affacciarci quando le lancette spaccavano l’orologio in due, come un segnale combinato; i più esplicitamente felici erano gli anziani, quelli con il sorriso più sornione i quaranta-cinquantenni, che nascondevano il caldo sollievo di sentirsi parte di un gioco dietro l’aria di chi è stato strappato di malavoglia a qualcosa di più serioso. E poi, i bambini. Uno fa i compiti al pomeriggio, approfittando della prima luce di primavera. Il padre e la madre hanno spostato un tavolo in balcone, e ogni tanto gli fanno compagnia, con una tisana o un bicchiere di vino, a seconda dell’orario. Il bambino suona la chitarra, ed è dolce sentirlo strimpellare. Alle sei si alzava dalla sedia e si scatenava, e quando i ventenni della casa di fronte hanno cominciato a fare sul serio con le casse e l’amplificazione era lui a cantare più forte e prendere gli applausi più scroscianti. Sua è stata l’idea di appendere un cartello con su scritto: #scriviiltuonome. Così, sui nostri balconi sono comparsi i nomi delle persone che li abitano. In un tempo in cui non puoi stringere la mano a qualcuno che non conosci, abbiamo trovato un altro modo per chiamarci. La pioggia della scorsa settimana ha lavato via quei fogli scritti a pennarello, ma i nomi si sono fissati nella memoria. Adesso, quando ci sbirciamo da un balcone all’altro mentre stendiamo i panni o innaffiamo le piante o respiriamo un minuto d’aria, oltre a salutarci con la mano e un sorriso, possiamo pronunciare i nostri nomi, a voce alta o dentro la testa. È da un po’ che non cantiamo, ma il bambino è sempre lì a fare i compiti, con la sua faccia buffa e simpatica, come fosse uscito da un libro di Rodari pure lui.
disturbare questo negozio, l’Ama, curioso nome dato all’azienda della nettezza urbana di Roma, che con questo imperativo mette d’accordo tutti perché chi se la sente mai di contraddirlo – «ama!» –, l’Ama, dicevo, ha spostato i cassonetti più in giù, ammucchiandoli davanti al mio cancello. Perciò davanti al mio cancello c’è molta puzza, e in più, proprio per l’inesistente distanza da percorrere per gettare l’immondizia (non nascondo che fino a un mese fa mi sforzavo di considerarlo un vantaggio), io non ho scuse per fare passeggiatine col sacchetto in mano. Mascherina (per la puzza, non per il virus), cancello, un passo, cassonetto, un passo indietro, cancello, via la mascherina. Un minuto scarso. E tuttavia, qui lo confesso, io a sera, quando vado a gettare l’immondizia, trasgredisco: attraverso metà della strada e mi fermo
lì, sulla striscia di mezzeria, a guardare la cupola di San Pietro che si staglia alla fine della strada. E lì succede la cosa, ogni sera, sempre la stessa. Tutto familiare, fin lì, finché il gelo dell’assenza di macchine, uomini e donne, joggers, autobus e cani, quel gelo non s’impossessa della scena, tutte le sere, sempre, stringendomi lo stomaco. E io lo so cos’è questa sensazione, so come si chiama: si chiama «Das Unheimliche», in tedesco, perché a darle il nome è stato Sigmund Freud – tradotto in italiano con «Il Perturbante». È esattamente quello che provo io: la sensazione di familiarità e di estraneità mescolate insieme in un unico oggetto. La rassicurazione e la paura. La quiete e la tempesta. Tutto insieme a produrre un’inquietudine profonda, oscura. Il Perturbante. Das Unheimliche. Oltre la siepe, davanti alla mia finestra.
Oltre la siepe, la vita e l’Unheimliche
Roma Sandro Veronesi confessa la sua piccola trasgressione quotidiana Sandro Veronesi Fuori dalla mia finestra c’è una siepe. Niente di eccezionale, anche se una siepe, dopo l’Infinito di Leopardi, è una grande ricchezza per lo sguardo: uno specchio, un telescopio, una sfera di cristallo. Perciò guardo la siepe dalla mia finestra e non ho nemmeno la più pallida sensazione che quella siepe descriva il perimetro di uno spazio di prigionia. Al contrario. È una vista familiare, rassicurante: rassicurante perché, appunto, come tutte le siepi, è la siepe dell’Infinito, e familiare perché è la mia siepe, quella della mia casa, quella che vedo io dalla mia finestra. No, non è di questa siepe che vorrei parlare. Il fatto è che una volta al giorno io la oltrepasso, questa siepe, attraverso il cancello che dà sulla strada, per anda-
re a gettare l’immondizia. Da qualche anno l’azienda municipale ha spostato i cassonetti proprio davanti al mio cancello, ritengo per non disturbare l’attività del furgoncino con la scritta «vendo e compro dischi», parcheggiato poco più avanti da dieci anni, più o meno, ma non abbandonato, poiché con frequenza settimanale un tale arriva con uno scooter, ci sale a bordo, lo sposta in avanti o indietro di qualche metro, se c’è il posto, e riceve la visita di altri uomini che arrivano con la macchina, la fermano in seconda fila, scendono e montano sul furgoncino accanto a lui, nel sedile del passeggero. Ci restano un po’, poi scendono, rimontano in macchina e se ne vanno. Due, tre in una mattinata. Poi l’uomo richiude il furgoncino, rimonta sul suo scooter e se ne va. Così ogni settimana, da dieci anni. Allora, dicevo, forse per non
Divisi dal mondo da una siepe che richiama l’Infinito.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Cultura e Spettacoli
Distillati letterari in tempi di crisi Pubblicazioni Grazie alla ticinese Alice Ceresa due spunti per una riflessione profonda
sulle diseguaglianze di genere
Laura Marzi Negli scambi con amiche e amici, compagni di lettura e di scrittura, ritorna insistentemente la confessione mesta che seppur in questi giorni ci sia per molti di noi più tempo per leggere, anzi, ce ne sia come non ce n’è mai stato prima, non riusciamo a essere così efficienti. Ovviamente ci sono delle eccezioni: coloro che tetragoni al coronavirus, se ne stanno sul loro divano, senza neanche sfiorare il rischio dell’abbrutimento, anzi sfoltendo la pila di libri che avevano accumulato prima che la pandemia ci costringesse a casa. Per chi invece mantiene dosi preponderanti di umanità e quindi di fragilità, per chi trova difficoltà a mantenere la concentrazione perché un cambiamento radicale è già in atto e ha modificato l’approccio al mondo e quindi anche a quello letterario, ci sono forse dei testi che sono più consoni a questo tempo. Per esempio, Il piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile di Alice Ceresa nella nuova versione ampliata, a cura di Tatiana Crivelli e l’Abbecedario della differenza a cura di Laura Fortini e Alessandra Pigliaru, entrambi editi da Nottetempo. Alice Ceresa è una scrittrice svizzera, nata a Basilea, ma cresciuta a Bellinzona, che ha lavorato al progetto del Dizionario dell’inuguaglianza femminile per tutta la vita. Infatti, il testo, anche nella sua prima edizione del 2007, è postumo. E come poteva essere altrimenti? Ceresa si pose l’obbiettivo
La scrittrice Alice Ceresa in un’immagine del 1992. (Keystone)
di scrivere un vocabolario i cui lemmi concorrono a definire la condizione ontologica delle donne nel mondo patriarcale, che lei riassume così: «lo sgomento di non potersi considerare un essere umano a pieno titolo. È un’esperienza tremenda, che andrebbe analizzata. Non c’è accesso naturale, libero, gioioso alla vita per chi nasce donna». Alla vastità del contenuto che Ceresa si era prefissata di analizzare per compilare il dizionario si deve aggiungere
il suo approccio alla scrittura: difficile, come lei stessa ammette, frutto di un labor limae che non trova mai requie. Il testo a cura di Crivelli, quindi, raccoglie le voci che Ceresa aveva considerato definitive e ne comprende delle nuove rispetto alla versione del 2007. Si apre con il lemma Anima, poi Animale-Animali, la differenza tra Anima e Animus, Bellezza... Nessuna delle voci è mai troppo lunga… Appunto, la struttura perfetta per questo momento
in cui la mente è sollecitata da preoccupazioni, contatti telefonici, abbrutimento web. E in ogni singola voce a cui la scrittrice svizzera ha dedicato la sua fatica e la sua infinita sagacia si trova, come in ogni dizionario, una verità. L’Abbecedario della differenza a cura di Laura Fortini e Alessandra Pigliaru non si pone come obbiettivo la definizione del vero, ma nasce dall’ispirazione, dalle conseguenze feconde dell’opera di Alice Ceresa. A partire da
un seminario sulla scrittura dell’autrice svizzera organizzato dalla Società Italiana delle Letterate alla Casa Internazionale delle Donne di Roma il 21 marzo 2015, le due curatrici hanno pensato di chiedere a chi fosse intervenuta alla giornata di studio e ad altre interessate una propria stesura dei diversi lemmi contenuti nel dizionario di Ceresa. L’idea di questo «aggiornamento», per un fantastico gioco di rimandi, si ritrova perfettamente descritta nella voce «Cultura» che la scrittrice e drammaturga Gianna Mazzini ha compilato, a partire dal testo di Ceresa, certo, ma anche a partire da sé: «da una parte il significato prevalente: un magazzino coi soffitti alti, dove sono accatastati i saperi già fatti, i prodotti finiti. Dall’altra i significati da affiancarvi: l’energia vitale con la quale sistemare quello che già si sa con quello che si incontra». Proprio a partire da questa concezione rivoluzionaria dei saperi, l’Abbecedario si presta anch’esso a quella lettura «frammentata e distillata» tipica dell’opera di Ceresa, ottima per questo tempo martellante. Bibliografia
Alice Ceresa, Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, a cura di Tatiana Crivelli, Edizioni Nottetempo, pp. 173. AA.VV., Abbecedario della differenza. Omaggio ad Alice Ceresa, a cura di Laura Fortini e Alessandra Pigliaru, Nottetempo, pp. 198. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Arbasino, cantore della cultura
In memoriam Un ricordo del grande scrittore, nativo di Voghera ma cittadino del mondo,
scomparso lo scorso 23 marzo
Manuel Rossello Benché non siano pochi i suoi testi splendidi, non sorge alcun dubbio su quale sia il capolavoro di Alberto Arbasino. Fratelli d’Italia, l’opera fondamentale dello scrittore appena scomparso, è un libro senza trama, un romanzo-conversazione traboccante di riferimenti culturali e un infinito work in progress per i tre ampliamenti successivi e per il poderoso risultato finale: 1371 pagine nell’edizione Adelphi, definitiva a meno di sorprese postume. Ma che cos’è, allora? È un incessante reportage tra le località italiche più glamour (con il Festival dei Due Mondi di Spoleto come punto focale) e al tempo stesso uno sfavillante lunapark di intelligenza e di leggerezza nel quale ci è stato consegnato il più compiuto ritratto degli anni Sessanta, il decennio in cui tutto sembrava possibile e nel quale, prima del micidiale rullo compressore del turismo di massa, ci si poteva ancora credere gli estremi epigoni del Grand Tour. Così come in Tenera è la notte di Fitzgerald è fissata per sempre l’immagine dei favolosi anni Venti, in Fratelli d’Italia Arbasino ci ha regalato la fotografia di un’epoca irripetibile, quella stessa di cui i protagonisti del Sorpasso di Dino Risi rappresentano la, seppur straordinaria, versione cialtronesca. Come sa ogni suo lettore, questo poderoso regesto di un’estate di scorribande di due amici coltissimi e un po’ blasé si è nutrito di molte altre scritture arbasiniane, a cominciare dai fluviali articoli per «Repubblica» (spesso composti, dicevano le malelingue, tra i banchi di Montecitorio negli anni del suo impegno politico), così come di altri materiali disparati che venivano poi fusi nel calderone del suo opus magnum. Infaticabile viaggiatore-recensore, mentre si leggeva una sua tempestiva critica teatrale di uno spettacolo in cartellone alla Comédie française, lui era già al festival di Glyndebourne per una
rara messa in scena rossiniana, e poi di corsa alle Rencontres internationales di Ginevra per ascoltare Starobinski o ai Bayreuther Festspiele per i Lieder di Schubert interpretati da FischerDieskau. E in mezzo a tutto ciò sarebbe stato imperdonabile mancare un ricevimento di Zeffirelli nella sua villa di Positano. Nonostante la sua inclinazione cosmopolita, questo lombardo di provincia (era nato a Voghera nel 1930) fu presto sedotto dalla Roma della dolce vita. Tra quell’ambiente radical chic che s’incontrava a Via Veneto, a Fregene o alle Frattocchie, e la cultura internazionale, egli fu per certi versi l’intermediario (emblematica la celebre intervista-conversazione in francese con Borges). Alla letteratura padana, tuttavia fu sempre fedele, e forse nel suo intimo aspirava ad essere considerato l’ultimo esponente dell’abusata etichetta della «linea lombarda», che partendo dal Maggi arriva fino a Tessa e Loi e a cui vanno inclusi, sul versante della saggistica pittorica, almeno i nomi di Roberto Longhi e Giovanni Testori. Manzoni e Gadda furono tra i suoi autori di riferimento e all’autore del Pasticciaccio dedicò un’eccentrica biografia (L’ingegnere in blu) nella quale l’identificazione con il più illustre modello è tale da produrre in quelle pagine una mimesi stilistica conturbante. La cifra più evidente di questa sua affinità stilistica con l’espressionismo (declinato a dire il vero più sul versante saggistico che su quello propriamente letterario) è rappresentato dalla sua predilezione per gli elenchi, quelle matasse di parole che non possono essere districate, i gliòmmeri, come avrebbe detto l’Ingegnere. Perciò come non includere Arbasino «in una così ben combinata compagnia di atrabiliari»? Non si possono non menzionare, nella sua vasta produzione saggistica, almeno i due splendidi volumi di Ritratti, nei quali «ogni affondo critico vale
Netflix BoJack
Horseman si avvia alla conclusione Alessandro Panelli
Arbasino fu anche protagonista del jet set. (Leonardo Cendamo)
un libro intero» e in cui la verve del ritrattista guida il lettore in un’inebriante scorribanda nei bassifondi della high society letteraria. Superbo mescidatore di cultura alta e bassa, egli rottama le categorie stantie della storia letteraria accostando provocatoriamente le sorelle Brontë a Carolina Invernizio, ma perfino Kurt Weill a Lando Fiorini, sempre con quella sua inconfondibile leggerezza (che è tutto il contrario della superficialità). E torna qui alla memoria la folgorante (e saccheggiatissima) tripartizione arbasiniana del cursus honorum del letterato italiano, secondo la quale si debutta sul proscenio delle patrie lettere come «brillante promessa» e si termina come «venerato maestro». La
categoria intermedia va sussurrata in un orecchio. Il suo infallibile istinto di essere sempre nel luogo giusto al momento giusto lo tradì solo una volta, ma clamorosamente: nell’estate del 1960 snobbò le olimpiadi di Roma, preferendo partire per la Grecia. Al ritorno capì di aver preso un abbaglio, quell’avvenimento non fu solo una manifestazione sportiva. Per il jet set e la mondanità che vi confluirono da tutto il mondo, si materializzò durante quel mese di gare romane un fervore culturale e mondano incomparabile. Pur mancando l’appuntamento con l’apice della dolce vita romana, di quel clima culturale Arbasino fu, quanto e forse più di Flaiano, uno splendido cantore.
Il patrimonio della scrittura a mano La lingua batte Penna, inchiostro e calamaio… 2.0 Laila Meroni Petrantoni Immaginate. State sfogliando questo numero di «Azione». Immaginate. Ogni singolo articolo è scritto a mano: da ciascun redattore o redattrice, ognuno con la sua grafia. Fareste certamente fatica a capire ogni singola parola alla prima occhiata, dovreste soffermarvi qua e là: «cosa c’è scritto qui?» Risolto il rebus, riprendereste a leggere. Senza fretta. Sotto i vostri occhi non ci sarebbe una sequenza di caratteri tipografici, senza una sbavatura, rigorosamente in fila per condurvi alla comprensione di un messaggio. Di ogni articolo intuireste invece anche l’impegno fisico di chi lo ha scritto, riconoscereste l’unicità e la sincerità della sua grafia come se fosse la sua carta d’identità, accompagnereste il viaggio di ogni parola sulla strada a senso unico fra mente, mano, penna e foglio. In questo 2020 siamo costretti a tirare il freno di emergenza e a rallentare tutto. La tecnologia ci aiuta sì a mantenere il contatto con il mondo esterno, tuttavia perché non approfittare di questa generale stasi e mettere da parte tastiere e schermi? Perché non impugnare una penna, meglio ancora se stilografica? È una fatica: alcuni muscoli si mettono in moto secondo schemi ai quali non erano più avvezzi lanciando-
Una scena da Der Choral von Leuthen di Carl Froelich & Arzén von Cserépy, 1933. (Keystone)
si in prestazioni a lungo dimenticate, la mano adatta la velocità allo sforzo e così la mente ha tutto il tempo di soffermarsi su ogni singola parola, scacciando la frenesia tentatrice. Poi si potrebbe anche provare a trasformare la propria grafia in calligrafia (dal greco calòs, bello), ossia in un segno piacevole, magari artistico. Secondo gli scienziati, la scrittura a mano sviluppa la memoria e la capacità di organizzare le informazioni nelle aree del cervello specializzate, stimolando nel contempo il pensiero e la creatività. Ognuno di noi può verificarlo, provare per credere. Scrivere a mano apre tante porte: forse non più
BoJack, quel cavallo che ci somiglia tanto
di quante ne aprirebbero le dita sulla tastiera del computer, ma sospetto fortemente che siano porte diverse. E ho l’impressione che molti eviterebbero di cedere alla scrittura compulsiva, che lascia sul campo termini e frasi (e concetti) non ragionati, troppo veloci, di cui ci si pente quando ormai hanno preso il largo nell’oceano delle reti social. Da tempo immemorabile l’umanità coltiva la grafia anche come forma d’arte e dunque celebrazione di bellezza: si pensi alle calligrafie orientali, o a quelle arabe, o a certi meravigliosi manoscritti lasciati dalle culture occidentali prima dell’avvento della stam-
pa a caratteri mobili di Gutenberg. La seconda metà del secolo scorso ha visto l’esplosione della scrittura «meccanica» anche nella vita quotidiana di ognuno: le informazioni, le idee, la comunicazione sono state affidate sempre di più a uno schermo e a una memoria non-umana. Eppure, come spesso si nota in svariati ambiti, anche la scrittura a mano sembra vivere un ritorno, magari un nuovo momento di gloria. Citiamo qui due iniziative fra le altre, messe in campo in Italia. L’Istituto Grafologico Internazionale Girolamo Moretti di Urbino sta lavorando affinché la scrittura a mano sia iscritta dall’Unesco nel patrimonio dell’umanità. Poi scopriamo l’esistenza dell’Associazione SMED «Scrivere a mano nell’era digitale», con i suoi corsi e laboratori molto ben frequentati. Una veloce ricerca svela inoltre che già diversi istituti scolastici ed accademici invitano gli studenti a prendere appunti di nuovo con carta e penna, lasciando il tablet in modalità ozio. E addirittura alla scrittura a mano è stato dedicato un posto sul calendario, la casella del 23 gennaio, giornata in cui si concentrano iniziative in più ambiti a favore della premiata ditta cervellomano-penna-foglio. Io tifo per questo ritorno, mentre mi guardo le dita chiazzate di inchiostro blu.
Dopo cinque incredibili stagioni, torna la serie TV creata da Raphael BobWaksberg e distribuita da Netflix che ha rivoluzionato il mondo dell’animazione, permettendogli di raggiungere vette di drammaticità e coinvolgimento mai viste prima. Su quest’ultima sesta stagione si chiuderanno i battenti di un cult televisivo che rimarrà scolpito e inciso nella storia della serialità. Ma il pubblico sarà d’accordo con la fine che faranno l’amato, e al contempo velenoso BoJack e gli altri personaggi? BoJack Horseman è la serie TV che meglio di tutte le altre concorrenti animate riesce a rappresentare tramite lo spietato mondo dello show business temi come la depressione, la responsabilità e l’egoismo, delineando personaggi stratificati e imprevedibilmente umani. Fin dalla prima stagione il rapporto di empatia che si crea fra lo spettatore e BoJack è sempre molto altalenante: BoJack è un personaggio sotto accusa per le sue scelte, ma che si finisce per perdonare poiché non è malintenzionato. All’inizio della sesta stagione è in riabilitazione e cerca a tutti i costi di uscire dal tunnel dell’alcolismo che lo ha portato ben più di una volta a toccare il fondo della sua vita e della sua carriera. Una volta disintossicato decide di andare a insegnare recitazione, lasciando quindi una volta per tutte i riflettori di Hollywood, e dedicandosi finalmente a ciò che gli piace, conducendo una vita sana e umile… Non fosse per i demoni del passato. Quest’ultima pagina del libro della vita di BoJack & Co. evidenzia come non si possa sfuggire ai propri errori, anche se lontani nel tempo. E per quanto una persona possa migliorare e finalmente trovare la propria giusta strada, ci sarà sempre chi cercherà di riportare a galla i suoi fantasmi. La modalità di rappresentazione operata da Bob-Waksberg è quella degli scandali di Hollywood che hanno portato, ad esempio, alla creazione di movimenti contro le molestie sessuali, come il #MeToo, e quella dell’influenza negativa della stampa manipolatrice della realtà che sovverte i fatti trasformandoli in accuse schiaccianti in grado di distruggere le persone coinvolte. Alla fine BoJack rimane solo. Tutti i suoi «amici» sono riusciti ad andare avanti, e non hanno più intenzione di stare al fianco del cavallo antropomorfo che, volontariamente o meno, ha causato loro del male. Sta allo spettatore scegliere che fine farà BoJack. Prenderà finalmente in mano la sua vita, oppure ricadrà nel limbo della sofferenza fino ad autodistruggersi? Una cosa però è certa: questa serie è riuscita a emozionare e a far riflettere sui diversi aspetti della depressione, e non solo. Il tutto con una conduzione artistica senza rivali che ha dettato dei nuovi standard nel mondo della serialità.
Questa volta l’addio è definitivo: BoJack Horseman va in pensione.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 6 aprile 2020 • N. 15
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Cultura e Spettacoli
Con gli amici si gioca
Sulle ali della fantasia
ha già inciso un disco per la prestigiosa Decca
a scrivere
Concorsi Un invito
Musica A colloquio con il giovanissimo violinista australiano Christian Li, che a soli 12 anni
Enrico Parola In queste settimane di teatri chiusi e stagioni concertistiche sospese, tanti orfani della classica si rifugiano nel web per ascoltare i grandi capolavori e gli interpreti prediletti, o per scoprire pagine rare e nuovi talenti. Come ad esempio Christian Li, fenomenale violinista che ad appena 12 anni ha inciso un disco per la Decca, più giovane musicista a farlo nella lunga e gloriosa storia dell’etichetta che oggi accoglie orchestre come la Filarmonica della Scala e negli anni Ottanta le registrazioni di giganti come Vladimir Ashkenazy e Itzhak Perlman. Youtube offre alcuni (seppur brevi) saggi delle clamorosa qualità di Li, nato a Melbourne da padre e madre cinesi. Non si pensi a un fenomeno costruito a tavolino dai manager discografici o da qualche agente che vuol sfruttare i propri artisti grazie agli strumenti mediatici; il ragazzino è un talento vero: tra i vari record di precocità firmati c’è anche quello di più giovane vincitore del Junior First Prize in uno dei maggiori concorsi violinisti al mondo, il Menuhin di Ginevra; accadeva nel 2018, e Li aveva appena dieci anni. Si capisce che è tutto vero quando lo si vede agitare l’archetto e far correre le dita sul suo violino, un prezioso Amati del 1733 prestatogli da una fondazione di Boston ma che è solo un 3/4 perché per lui quelli a dimensione normale sono ancora troppo grandi; basta ascoltare la Ridda dei folletti di Bazzini,
che dà il titolo al disco e di cui la Decca ha prodotto il video come «singolo»di lancio, per capire che ci si trova davanti a un predestinato. «Forse lo sembro ai vostri occhi, io non pensavo proprio di esserlo; né mio padre né mia madre sono musicisti, solo il nonno era appassionato di classica» racconta Li. Però i genitori, più per formazione culturale generale che per aspettative reali, a cinque anni gli proposero di imparare uno strumento, anzi due: «Prima ancora di andare a scuola iniziai a prendere lezioni di violino e di pianoforte, ma quasi subito capii che preferivo il primo: mi risultava più facile tecnicamente, me lo sentivo «sotto le dita» come si dice, e soprattutto mi piaceva la sua possibilità di creare suoni lunghi, come se fosse il canto in un’opera lirica, perché era proprio quel suono che mi permetteva di esprimere quello che sentivo dentro, i miei pensieri e i miei sentimenti». Non si pensi a vertigini leopardiane o speculazioni filosofiche: il talento può bruciare le tappe, ma per diventare uomini certe esperienze e tempi sono obbligati. «Infatti erano impressioni, intuizioni, ma di un bambino che viveva la musica come un hobby; studiavo mezzora al giorno e seguivo una lezione a settimana. Però presto, visto che imparavo rapidamente, i brani diventarono più lunghi e più difficili, la mezzora quasi non bastava neppure a suonarne uno una volta; e quando arrivò il tempo dei concorsi e dei concerti iniziai a studiare tre-quattro ore al giorno».
castelli di
carta ario concorso letter in biblioteca
Siamo all’edizione numero quindici, ma questa volta è tutto diverso. Infatti, per chiunque desiderasse cimentarsi con la scrittura creativa, non solo può partecipare al concorso «Castelli di carta», che invita a ragionare sul tema Paesaggi fantastici, ma vi è anche un’ambientazione del tutto inedita, che vede la maggior parte dei cittadini rinchiusi in casa. Anche quest’anno il concorso è suddiviso in due categorie, una rivolta ai ragazzi delle scuole elementari e medie e l’altra agli adulti. Il testo da inviare non dovrà superare le 1800 battute, spazi compresi, titolo escluso. Per ulteriori dettagli v. box sotto.
Avere dodici anni e non sentirli: Li è sotto contratto per la Decca. (Decca)
Già a sette anni suonava in pubblico, a dieci era direttore e solista nella Quattro Stagioni di Vivaldi, «poi la vittoria al Menuhin ha accelerato clamorosamente tutto, anche se i miei all’inizio hanno cercato di proteggermi, filtrando le interviste e gli incontri, lasciandomi concentrare sui tanti e sempre più impegnativi concerti che dovevo tenere, ma anche lasciandomi gli spazi che un bambino deve avere». Le parole sembrano di un adulto che parla di suo figlio, ma è sempre lui, un ragazzino sveglio e gracile che guarda il mondo con occhi furbi e che
lo vive come i suoi coetanei: «Mi piace correre, nuotare, andare in bicicletta; adoro i film di fantascienza, in particolare Gravity e Star Wars; a proposito, se Ciajkovskij è il mio autore preferito e il suo Concerto è quello che vorrei sempre suonare, fuori dalla classica amo le colonne sonore di John Williams, quelle di Star Wars ovviamente, ma anche quelle di Harry Potter». Un maghetto precoce come lui. E a Hogwarts? «I miei amici? Quando esce qualche mio video mi guardano, ma quando siamo assieme pensiamo a giocare».
Come partecipare I partecipanti possono inviare il loro testo in forma cartacea all’indirizzo «Castelli di carta 2020», Biblioteca cantonale Bellinzona, Viale S. Franscini 30a, 6501 Bellinzona oppure in formato digitale all’indirizzo info@ castellidicarta.ch. Dettagli e modalità di partecipazione: www.castellidicarta.ch. Termine di invio: lunedì 4 maggio 2020. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Dr. Spock dixit In questi giorni di casalinghitudine (copyright Clara Sereni) possiamo fare scorpacciate di telefilm senza sentirci in colpa. In migliaia di storie che spaziano dai tempi più remoti al lontanissimo futuro non c’è un solo episodio che racconti la situazione in cui siamo immersi. Dimostrazione, una volta di più, che era impensabile. In compenso possiamo pescare qua e là battute che ci aiutano a formulare delle riflessioni al riguardo. Le prendo dal lavoro di Leopoldo Damerini e Chiara Poli, La vita è un telefilm, Garzanti editore, che contiene le 2020 migliori battute estrapolate dalle migliori serie televisive. Il libro è del 2008. Le cito senza indicare la fonte, considerando il genere un’opera collettiva. Eccole. «Niente è per sempre. Arriva un momento in cui tutti dobbiamo dire addio al mondo che conoscevamo. Addio a tutto ciò che avevamo e che davamo per scontato». «Finché stiamo su questa Terra, la cosa migliore è tenersi stretti alle persone che amiamo». «Io
credo che si debba comunque porgere la mano alle persone, anche se te la mordono». «A volte ci vuole qualcuno che ti aiuti ad attraversare la strada». «Ci preoccupiamo delle persone malate perché dobbiamo curarle, o perché quando verrà il nostro momento vorremmo che qualcuno si preoccupasse per noi?». «È importante scoprire cose nuove a proposito di noi stessi». «Sono più convincente quando non credo a quello che dico». «Ogni cambiamento è semplicemente un’esperienza». «Il cambiamento rinvigorisce». «La gente cambia: è una delle meraviglie della vita». «I momenti cruciali arriveranno comunque, ciò che conta è come si reagirà». «Penso che la chiave di molte cose sia l’equilibrio, che sia l’equilibrio del potere, equilibrio in amore o, a volte, semplicemente equilibrio. Per alcuni di noi sembra molto difficile da raggiungere, troppo difficile da conquistare, ma la cosa più importante è non smettere mai di tentare». «Comunicare è davvero
così complicato o è semplice e siamo noi a renderlo difficile?» «I computer fanno sempre ciò che gli si dice di fare. Tranne il computer della mia banca, naturalmente». «È più difficile contare su qualcuno o sapere di essere quello su cui gli altri contano?» La seguente riflessione viene da Star Trek, la serie più immersa nella filosofia: «Spesso temiamo ciò che non riusciamo a capire. La migliore difesa è la conoscenza». Una seconda: «Credo di aver capito un po’ alla volta che siamo noi gli artefici della nostra vita. Le cose ci succedono, ma sono le nostre reazioni che contano». Una terza a proposito dei cambiamenti climatici: «Non puoi pensare di essere Dio e infischiartene delle cose che hai creato. Prima o poi arriva il giorno in cui ti devi assumere le responsabilità del tuo operato». Ancora Star Trek, maestra di vita: «Fa’ che il presente sia l’attimo più prezioso perché il presente non tornerà più». Il dottor Spock: «Le emozioni non sono per me. Sono un uomo di scienza».
«È anche questo il bello dell’essere umano; non esiste un’altra specie, nel raggio di miliardi di chilometri, che riesca ad impaurirsi da sola». Anche la serie di X-Files è ricca di insegnamenti: «Se non impariamo ad anticipare l’imprevedibile o ad aspettarci l’inaspettabile in un universo di infinite possibilità, ci ritroveremo alla mercé di qualsiasi persona o cosa che non può essere programmata, catalogata o facilmente codificata». «La verità non è solo più strana della fantasia più assurda, ma spesso è anche meno credibile». A proposito della casa, nella quale dobbiamo vivere h24: «La plastica sul divano? A mia madre piacciono così tanto i teli di plastica che ne ha messo uno nuovo sopra il vecchio, perché non si rovini». «Mia moglie ha sempre voluto una stanza guardaroba. Adesso finalmente ce l’abbiamo. Il problema è che ci vivo dentro». «Bastano due giorni di ospedale per apprezzare la propria casa. Bastano dieci secondi a casa per apprezzare l’ospedale». «Una
casa è qualcosa di vivo. Durante gli anni che uno ci abita, acquisisce delle vibrazioni. Più o meno come un cane: non hai notato come una persona finisca per assomigliare al suo cane? Succede anche con la casa!» Il dottor House sembra che parli dei nostri giorni: «Preferisce un dottore che le tiene la mano mentre lei muore o uno che la ignora mentre cerca di guarirla?». «Finché sei vivo ogni giorno è speciale!» Una battuta che cita senza saperlo una sfortunata scrittrice americana, Flannery O’Connor: «La vita che salvi può essere la tua». «La paura è buona. Il trucco è non lasciarsi paralizzare». A proposito di Fake News diamo la parola ad Alfred Hitchcock: «Accettate un piccolo consiglio da un amico: evitate gli svitati, nei limiti del possibile». Chiudo la rassegna con la battuta da scrivere su un foglio di carta per attaccarla al frigorifero: «C’è un metodo infallibile per superare brillantemente certe difficoltà: bisogna essere ottimisti».
Quando nessuno uscirà di casa il pianeta sarà più tranquillo, ce ne staremo come larve, però sempre connesse. Con un cavetto su per il culo proveremmo anche le emozioni più eteree e romantiche, il profumo di primavera, che arriverà da un sito specializzato nelle quattro stagioni; o il fervore religioso che il cavetto dispenserà con leggere scariche che dal retto saliranno lungo il midollo spinale alle zone arcaiche dell’encefalo, gettandoci in ginocchio, folgorati da un canto di angeli. E le specie animali a rischio non si estingueranno, perché quando non ci sarà più l’uomo in giro, potranno proliferare anche negli agglomerati urbani tornati boschivi: l’orso marsicano, l’asino selvatico, il pipistrello frugifago, il rinoceronte nero, la volpe volante, il tapiro della Guadalupa, nonché il coccodrillo siamese, il rospo dorato, il rospo del Wyoming e il gambero di fiume; che scorrazzeranno liberi e prolifici dove prima c’era l’asfalto.
E la piccola manutenzione edilizia? Niente! Ciascuno via internet verrà istruito minutamente per i lavori di muratura, le riparazioni idrauliche ecc.; cemento, tubi, guarnizioni verranno inviate assieme al cibo, e si praticherà un fai-da-te teleguidato, in modo che nessuno entri o esca da casa. Resta il problema grave dei terremoti, delle inondazioni, dei cataclismi orogenetici con subduzione delle placche continentali. A questi problemi non c’è rimedio, come pure alle eruzioni vulcaniche che spingeranno inevitabilmente gli umani a fuggire di casa e ad appestare di conseguenza il pianeta. Ma il ministero avrà già pronto un proclama che vieterà la fuga anche in caso di fuoriuscita di magma e gas tossici: tenere chiuse le finestre fin che si può, respirare il meno possibile, lasciare che l’abitazione sia trasportata dal fiume di lava in luogo più idoneo; nel caso l’abitazione si liquefaccia con tutto ciò che c’è dentro è da considerarsi una variante del piano
regolatore comunale già approvata dagli uffici competenti. Un’ultima notazione. Si auspica e si prevede che in prospettiva la specie umana, per rimediare ai danni apportati al pianeta e salvaguardarsi, perda la capacità deambulatoria, assuma come habitat un divano o una poltrona, e arrivi a poco a poco a chiudersi in un guscio a imitazione della cozza o della vongola; per poi regredire ulteriormente allo stato anaerobico, trasformandosi in eucariote a riproduzione asessuata, come i lieviti; e poi in procariote unicellulare sul modello degli archeobatteri e dei cianobatteri, venendo alla fine riassorbito dal pianeta come suo errore. E così l’uomo sarà riportato alla originaria natura di minerale, prima in forma cristallina a ottaedro, esaedro o di cubo semplice; e infine ridotto a minerale amorfo come il vetro o l’eruttato vulcanico; a ciò provvederà il pianeta, per i comprovati e già ampiamente deprecati demeriti dell’umanità.
storia, tra tante altre, viene raccontata più volte nei due ponderosi volumi che contengono tutte le interviste al poeta: 272 conversazioni apparse in vari quotidiani e periodici tra il 1931 e il 1981, e raccolte ora da Francesca Castellano per la Società Editrice Fiorentina (6 al coraggio dell’impresa e al fascino del risultato). Quanto all’immortalità, Montale, contrario all’eccesso di libri, disse nel 1973 a Enzo Siciliano che non ci sperava: «non è mai esistita per nessuno e in nessuna forma», dando così ragione a Leopardi (vedi sopra) e torto a sé stesso, aggiungendo che «neanche post mortem si avrà ascolto…». Caro Eusebio (mi permetto di rivolgermi confidenzialmente a te con il nome con cui ti chiamavano gli amici), che cosa siamo qui a fare se non ad ascoltarti post mortem leggendo le tue interviste? In un dialogo del 1979 il vecchio poeta e melomane spara a zero sulla musica contemporanea come se avesse nell’orecchio la sentenza leopardiana di cui sopra: «Molti compositori del nostro
tempo sono tanto negati alla musica quanto avidi di prematura immortalità». Un intervistatore illustre, Domenico Porzio, annota a margine che Montale si divertiva molto a rileggere qualche suo verso più cattivo degli altri, per esempio quelli in cui se la prendeva con il «filosofo interdisciplinare» che ama stravaccarsi «nel più fetido / lerciume consumistico». Il «lerciume consumistico» somiglia alle cose di cui Socrate non sentiva il bisogno. Alla domanda sulla possibilità di sopravvivenza della poesia nella società dei consumi, Montale rispondeva: «Io credo che la morale del consumismo è onnivora, e che è capace di digerire qualunque cosa (…). Ognuno di noi può, frugando nella memoria, ricordare libri il cui successo è giustificato soltanto dalla mediocrità: guai se l’autore, assistito da maggiore grazia, avesse migliorato il libro. Nessuno si sarebbe occupato di lui. La poesia si salverà, perché tutto si salva…». Ovvero, se volessimo dirlo con Damien Hirst (vedi sopra): non solo
il subacqueo, ma anche chi vuol fare lo scrittore (e tanto più il poeta) deve sapere che esistono gli squali. Insomma, è impressionante su quante delle frasi solenni che circolano in questi giorni (Socrate, Leopardi, Hirst…), Montale riesce a offrire il suo punto di vista. E il parrucchiere di Ornella Vanoni? L’impressione è che finita la quarantena del coronavirus, Montale non correrebbe certo dal barbiere. Perché? Perché è lo stesso Porzio a informarci che il barbiere andava da lui, nella casa di via Bigli, a tagliargli i capelli cortissimi all’Umberto: «un rituale estivo e propiziatorio che non ha smesso fin da quando era bambino». Infine, a proposito di frasi solenni. Quando Montale vinse il Nobel, gli chiesero una dichiarazione all’altezza dell’occasione e non gliene uscì nemmeno una. Pensò solo: «Nella vita trionfano gli imbecilli. Forse, lo sono anch’io». Mai smettere di interrogarsi sulla propria imbecillità. Un altro pensiero su cui riflettere in questa lunghissima quarantena.
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni Stare a casa Sembra, dagli studi più recenti, che la società migliore sarebbe la società in cui nessuno esce di casa: non si diffonderebbero virus, non ci sarebbe inquinamento atmosferico o acustico, non ci sarebbero ingorghi stradali, né si dovrebbero costruire autostrade coi relativi ponti autostradali che crollano; le vie delle città potrebbero a poco a poco lasciare crescere naturalmente cespugli selvatici e alberi, con beneficio per la respirazione e la produzione di ossigeno. Anche le auto sarebbero inutili; ci sarebbe un servizio mensile a domicilio degli alimenti fondamentali; l’acqua dal servizio idrico, il gas e l’elettricità come già adesso. E il cittadino ideale se ne starebbe seduto su una poltrona anatomica con un video telefonino a grande schermo davanti. Ogni tanto si alzerebbe per andare di corpo, e tutti gli scarichi sarebbero convogliati in un grande sistema automatico per la concimazione dei campi. I maggiori problemi di oggi, se più nessuno uscisse di casa, sarebbero risolti, anche le
guerre, perché atrofizzandosi i muscoli, ci si lamenterebbe al massimo dell’inquilino del piano di sopra se fa cadere qualcosa sul pavimento recando disturbo; ma sono conflitti risolti subito per via telematica. E pure la sovrappopolazione sarebbe evitata, perché gli incontri con l’altro sesso sarebbero rari, per lo più da finestra a finestra, con problemi insuperabili di fecondazione. Solo ogni tanto il lancio di una provetta col seme (in un pacchettino con cuoricini e fiocco dorato) nella finestra della dirimpettaia, nella speranza volesse gradire. Anche nel caso di un passaggio dalla propria casa a quella di fronte, con la prospettiva della coabitazione, il tono muscolare ridotto limiterebbe al minimo i congiungimenti. Il piacere potrebbe arrivare piuttosto per via telematica, con ologrammi meravigliosi: le più belle attrici e i più begli attori lì presenti come fossero veri; o in alternativa bambole semoventi recapitate a domicilio dal servizio ministeriale di soddisfazione sessuale.
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Filosofia da quarantena A giudicare dalle frasi solenni che circolano in articoli, editoriali, servizi di giornale, deve esserci in giro un accresciuto spirito filosofico, forse favorito dal senso di precarietà da virus. Propongo qui alcuni motti sentenziosi, riemersi qua e là in questi giorni, su cui forse vale la pena riflettere: «È incredibile di quante cose non sento il bisogno», disse Socrate passeggiando per il mercato (6). «I miei anni di formazione sono ancora in corso», osservò lo scrittoreeditore-giornalista Oreste Del Buono a 66 anni (6–). «Volevo fare il subacqueo ma poi ho scoperto che esistevano gli squali», ha detto l’artista Damien Hirst (5+). «I dittatori amano gli architetti e odiano i poeti», è la frase del regista americano Paul Joseph Schrader (6–). «La ricerca è un’attività magnifica quando si sa che cosa cercare», è l’idea del sociologo Marshall McLuhan (5–). «Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi cristiani al paradiso», scrisse Giacomo Leopardi a suo padre nel 1822 (6+).
«Dopo ci sarà l’assalto ai parrucchieri», ha commentato Ornella Vanoni pensando a ciò che accadrà quando potremo uscire di casa (6). In mancanza di shopping e di parrucchieri, questa modesta dotazione di pensieri potrebbe occupare il nostro tempo nelle prossime settimane di riposo forzato. «Quando muore un anziano, è come se bruciasse una biblioteca» è un proverbio africano che merita 6+++. Molto bello, ma per valutarne l’efficacia, bisognerebbe vedere quanti cittadini comuni sono davvero interessati alle biblioteche. Eugenio Montale ovviamente lo era: dal 1929 a Firenze fu anche direttore del Gabinetto Vieusseux, una delle biblioteche private più importanti d’Italia. Il suo destino conferma l’esattezza della frase di Schrader: nel dicembre 1938 il Consiglio d’Amministrazione decise infatti di rimuoverlo dall’incarico, «nonostante i suoi meriti letterari e lo zelo e competenza fin qui dimostrati». Tra i requisiti di cui non disponeva c’era l’iscrizione al Partito fascista. Questa
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