Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Per l’emergenza Covid-19 è stato mobilitato l’esercito: incontro con il colonnello Nicola Guerini
Ambiente e Benessere Il dottor Christian Garzoni, infettivologo e direttore sanitario della Clinica Luganese di Moncucco, ci parla di notizie e pregiudizi sul Covid-19
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 14 aprile 2020
Azione 16 Politica e Economia La casa comune europea durante questa pandemia mostra tutte le sue crepe
Cultura e Spettacoli Il rapporto tra Günter Grass e Marcel Reich-Ranicki fu sempre teso: ora lo racconta un libro
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Covid-19, fra colpe e sottovalutazioni
Riflessioni dalla quarantena
di Peter Schiesser
di Mannocchi, Capossela e Ferracuti
In questi giorni, sono sempre stupito dello stupore che colgo nel tono di amici e colleghi che vivono a Zurigo, quando racconto della nostra quarantena di massa, qui in Ticino. Ci percepisco su due pianeti lontani. Il significato di lockdown nella Svizzera tedesca è diverso dal nostro. Certo, l’economia funziona al minimo ovunque, le scuole sono chiuse, si mantengono le distanze sociali, assembramenti con più di cinque persone sono vietati, ma se guardo la fotografia sul «Tages Anzeiger» del 9 aprile e ne leggo la dicitura capisco che intendiamo qualcosa d’altro quando diciamo «restiamo a casa»: su gradini che scendono a lago (forse a Zurigo?) una ventina di persone stanno sedute a gruppi di due-tre-quattro in uno spazio di una quindicina di metri, dietro a loro sul viale corrono, biciclettano, passeggiano altre persone, si vede pure un veicolo della polizia; la dicitura recita: «Ancora si veglia sul rispetto delle misure». Mi chiedo: è una questione culturale? Di fronte alla pandemia, ticinesi e romandi sembrano più simili. Sullo stesso giornale, la consigliera di Stato neocastellana Monika Maire-Hefti afferma che «i romandi sono più sensibili ai rapporti personali, gli svizzero tedeschi più sensibili all’economia». Oppure, è semplicemente perché non sono ancora arrivati al punto in cui ci troviamo noi? In realtà pare che la curva dei contagi si stia appiattendo ovunque in Svizzera e mister pandemia Daniel Koch ha dichiarato che nella Svizzera tedesca il picco è stato raggiunto. Speriamo in bene. Troppe volte in troppi paesi questo coronavirus è stato sottovalutato, ignorato – fino al momento in cui diventava presente in tutta la sua evidenza, scardinandoci il senso della realtà e la quotidianità. È successo anche a noi: ricordo la sorpresa generale quando giunse la notizia della chiusura della Lombardia. Ci sembrava inverosimile. Una settimana dopo eravamo noi a quel punto. Ci sono dunque stati errori perché ignoravamo la virulenza e la contagiosità di questo virus. Ma ci sono stati errori ben più gravi per i singoli paesi e per il mondo intero. Il primo fra tutti è quello commesso nello Hubei nel negare l’esistenza dell’epidemia. Secondo una ricostruzione del «Tages Anzeiger» (7 aprile), la prima volta che in documenti ufficiali del governo di Pechino si parla di un paziente infettato da Covid-19 è il 17 novembre, il primo contagio potrebbe risalire a ottobre, ma le autorità locali e pure la commissione nazionale per la salute fanno di tutto per tenere nascosta l’epidemia di coronavirus, mettendo a tacere medici e laboratori, fino a quando il 30 dicembre il capo del centro nazionale di lotta alle epidemie Gao Fu ne viene a conoscenza per caso in una chat. Gao Fu si precipita immediatamente a Wuhan e informa l’Organizzazione mondiale della sanità. Eppure, ancora per settimane le autorità centrali minimizzano, fino a quando il 23 gennaio Wuhan viene chiusa. Intanto l’epidemia era fuori controllo. Nel mentre, per due mesi negli Stati Uniti il presidente Trump ha minimizzato il pericolo, dichiarando che era tutto sotto controllo, che il coronavirus sarebbe scomparso con la primavera, che si trattava di una grande frottola messa in giro dai Democratici, fino a dichiarare il 17 marzo che sì, era una pandemia (e che lui lo aveva capito già molto prima di altri). Siamo tristemente abituati alle frottole di questo presidente americano, ma in questo caso hanno favorito l’inazione della sua Amministrazione e di diversi Stati dell’Unione. In un memorandum del 29 gennaio al presidente, il consigliere economico Peter Navarro ha messo in guardia contro il pericolo di mezzo milione di morti per il coronavirus negli Stati Uniti, ma è riuscito ad ottenere solo la chiusura delle frontiere per chi proveniva dalla Cina, il 31 gennaio. E questo nonostante un’esercitazione condotta solo l’anno scorso dal Ministero della sanità avesse messo in evidenza le grosse lacune del piano pandemico degli Stati Uniti: mancavano scorte adeguate di mascherine e di materiale di protezione in generale, c’era confusione su chi avesse quali competenze, gli ospedali non erano sufficientemente attrezzati, il coordinamento era lacunoso – in breve, gli Stati Uniti non erano pronti ad affrontare una pandemia. Di fronte alle decine di migliaia di vittime negli Stati Uniti (e non siamo ancora al picco), come definire l’atteggiamento delle autorità, del presidente per primo? Ignoranza? Presunzione? Irresponsabilità? Un atto criminale? Atti criminali ce ne sono stati tanti. La speranza è che vengano indagati e perseguiti, e non insabbiati. Penso in questo momento alle notizie provenienti dall’Italia, dove in certe strutture ospedaliere si è celata la presenza del virus, si sono falsificate le cifre e manomessi i referti, mentre medici e infermieri hanno dovuto lottare (e alcuni ammalarsi e morire) senza le precauzioni adeguate. Abbiamo visto il meglio dell’umanità in questi mesi, ma stiamo anche pagando il prezzo del peggio.
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Keystone
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 aprile 2020 • N. 16
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Società e Territorio La Valle Morobbia Negli ultimi anni la periferia montana di Bellinzona si sta ripopolando e nell’emergenza sanitaria i «morobbiotti» si compattano
I video nel web In questo periodo di isolamento la navigazione in Internet è aumentata esponenzialmente: un piccolo viaggio tra i video, dagli ossessionati del relax agli amanti del mini food pagina 9
Videogiochi Animal Crossing: l’ultima versione creata per Nintendo Switch si intitola New Horizons ed è un piccolo capolavoro per chi ama i giochi senza una missione finale ben definita pagina 11
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«Mi assuma perché…»
Pro Juventute Si è adattato alla modalità
online anche il progetto di Prove di colloquio destinato agli adolescenti e giunto in Ticino al termine della fase pilota
Stefania Hubmann Le preoccupazioni stringenti degli apprendisti in questo difficile momento riguardano il proseguimento e la conclusione della formazione, ma pure chi, al termine della scuola dell’obbligo, vorrebbe optare per un tirocinio vede sconvolti i propri piani di ricerca di un posto di lavoro. Una ricerca che passa anche dai colloqui, ai quali gli adolescenti si confrontano in molti casi per la prima volta. Pro Juventute sta sperimentando in alcune scuole medie ticinesi un progetto pilota, proponendo prove di colloquio con professionisti che hanno esperienza nei processi di assunzione. Sebbene l’iniziativa sia momentaneamente bloccata, offre l’opportunità di approfondire questo tipo di sostegno agli studenti e di evidenziare i principali consigli a loro rivolti nell’ambito della ricerca di un posto di apprendistato. Avviato con successo nella Svizzera tedesca nel 2015 e in quella romanda nel 2018, il progetto Prove di colloquio di Pro Juventute è giunto circa un anno fa nella Svizzera italiana. Benchè i sistemi scolastici siano diversi, Valeria Schmassmann, responsabile del progetto per l’Ufficio Svizzera italiana della Fondazione, è riuscita ad adattarlo alle esigenze della nostra realtà, destinandolo agli allievi di quarta media che dimostrano interesse nel mettersi alla prova. «L’obiettivo – precisa la responsabile – è sostenere e motivare gli studenti attraverso consigli pratici derivanti dalla loro esperienza di colloquio». Preparare un Curriculum Vitae e redigere una lettera di motivazione sono i primi compiti assegnati agli allievi i quali, dopo qualche settimana, simulano un colloquio di assunzione. Dall’altra parte del tavolo siedono professionisti di grandi aziende che si offrono per questo compito nell’ambito del volontariato proposto ai dipendenti dai loro datori di lavoro. Essi ricevono in anticipo i dossier dei giovani che incontreranno e possono contare su un briefing di Valeria Schmassmann.
Spiega quest’ultima: «Il messaggio da trasmettere ai volontari è legato all’attitudine positiva che devono mantenere. Il formulario di valutazione serve per poter esprimere consigli semplici attraverso esempi concreti, evidenziando ciò che andava bene e ciò che può essere migliorato». Ogni prova di colloquio dura circa 45 minuti e implica l’assenza dell’allieva/o solo da una lezione, senza influire sul palinsesto scolastico. Cosa avviene esattamente in questo lasso di tempo? Risponde la nostra interlocutrice: «Il primo contatto di pochi minuti è informale e spiega all’allieva/o come si procederà durante la simulazione. Si ripete poi l’entrata nella sala e il saluto (questa volta tutti si danno del lei) prima di passare al colloquio vero e proprio di una durata massima di 25 minuti. Altri 10-15 minuti sono dedicati al feedback sull’intervista e sulla documentazione presentata. È importante che i candidati capiscano come reagire a determinate sollecitazioni, soprattutto a quelle che non si aspettano. “Ha domande per noi?” e “Perché dovremmo assumere proprio lei?” sono interrogativi ricorrenti nei colloqui di assunzione ed è pertanto bene prepararsi una risposta. Così come è pratico portare fogli e penna per delle annotazioni». Questi esempi confermano come anche piccoli suggerimenti possano aiutare i giovani ad arrivare preparati e quindi più tranquilli a un reale colloquio di lavoro. Valeria Schmassmann evidenzia che le ragazze e i ragazzi incontrati sinora sono bravi ed educati. Mancano invece sovente di autostima, per cui a maggior ragione è essenziale motivarli ed aiutarli ad aver fiducia in se stessi. I loro interessi a livello professionale spaziano dall’informatico all’elettricista, dal meccanico all’impiegato di commercio per i maschi, mentre il genere femminile, a parte il comune ambito commerciale, predilige settori come quello sanitario o della vendita. Finora l’esperienza di un colloquio di lavoro simulato ha interessato quasi
Le prove di colloquio danno ai ragazzi un riscontro immediato aiutandoli anche con suggerimenti pratici. (Marka)
200 allievi ticinesi in una decina di sedi di scuola media. Dopo una prova con 12 studenti la scorsa primavera, il progetto è partito secondo programma nel settembre 2019. A causa dell’emergenza COVID-19 è stato momentaneamente sospeso nella sua forma originale. Ora alle scuole interessate si vuole però offrire la possibilità di farlo online. Le prime esperienze in questa modalità sono state effettuate con successo nella Svizzera interna nelle scorse settimane. Anche in Ticino tutto è pronto per questa versione del progetto. In ogni caso le prove di colloquio hanno già dimostrato la loro utilità e attirato l’attenzione delle scuole medie, alcune delle quali hanno chiesto a Pro Juventute di riproporle. Una valutazione interna della fase pilota permetterà di decidere come proseguire, anche se l’intenzione è quella di estendere il progetto. Un
progetto che va al di là delle tecniche di colloquio, offrendo ai giovani la possibilità – precisa la responsabile – «di comprendere in quale misura sostenere un colloquio di lavoro sia importante per la propria individualità e per potersi inserire in modo agile ed efficace nel contesto sociale, per contribuire, ciascuno secondo le proprie possibilità, alla sua crescita. Questo concetto riflette il senso del progetto e corrisponde alla strategia educativa della Fondazione Pro Juventute Svizzera». I dati relativi al resto della Svizzera confermano da parte loro l’interesse per questa iniziativa mirata, destinata in particolare a chi è maggiormente in difficoltà nel gestire l’entrata nel settore professionale. Nella Svizzera tedesca si è progressivamente passati da una giornata con 19 allievi nel 2015 a quasi 1400 allievi nel 2019. Notevole balzo in avan-
ti pure nella Svizzera romanda, dove gli allievi incontrati sono aumentati da 191 nel 2018 a 801 nel 2019. L’offerta di Pro Juventute è gratuita e necessita di un paio di mesi di preparazione. Essa rientra in una serie di programmi a livello nazionale finalizzati a identificare le nuove sfide con le quali sono confrontati in questo caso gli adolescenti per poter poi intervenire accompagnandoli con un sostegno mirato che valorizzi le loro potenzialità. La fiducia nelle capacità dei giovani è uno dei principi cardine dell’attività di Pro Juventute, che con questo progetto intende aiutarli a superare la delicata fase del passaggio dalla scuola dell’obbligo al mondo del lavoro. Informazioni
www.projuventute.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 aprile 2020 • N. 16
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Scende in campo l’esercito Covid-19 Un aiuto competente e concreto alla popolazione in supporto della sanità
La giornata di Giulia In casa Riflessioni
durante la pandemia
Maria Grazia Buletti «Cari Militari, l’Esercito deve essere impiegato quando necessario, come succede oggi in Svizzera. Qualche giorno fa siete stati chiamati in servizio: si tratta della più grande mobilitazione dalla seconda guerra mondiale. È necessaria. Ed è stata decisa dopo attente riflessioni», sono le parole pronunciate lo scorso 9 marzo dalla Consigliera federale Viola Amherd. A causa dell’emergenza Coronavirus, l’esercito svizzero ha così chiamato in servizio i militari delle truppe sanitarie e della logistica in supporto al sistema sanitario pubblico elvetico, sia per quanto attiene al personale che alle prestazioni logistiche. «Le chiamate in servizio per la mobilitazione hanno avuto luogo come queste circostanze esigono: mediante allarme sms. Chi riceve un messaggio di questo genere deve inviare una conferma ed entrare in servizio secondo le direttive impartite»: il colonnello Nicola Guerini è comandante del Comando forze speciali e ci riceve sulla Piazza d’Armi del Monte Ceneri dove ora confluiscono compagnie sanitarie e di trasporti che entrano in servizio. Otto i Cantoni che hanno chiesto l’intervento dell’esercito. Oltre al Ticino, che è stato il primo, anche Basilea Campagna, Grigioni, Neuchâtel, Turgovia, Vallese, Vaud e Berna. Al colonnello Guerini chiediamo cosa è cambiato sulle Piazze d’Armi di Isone e del Monte Ceneri per far fronte a questa nuova situazione che deve pure tenere conto dell’emergenza e delle relative direttive di protezione individuale e sociale. Ci spiega il significato della preziosa presenza dell’esercito sul territorio: «Le truppe dispiegate hanno il compito di sgravare la sanità pubblica sul piano del personale e appoggiarla con prestazioni logistiche: supporto nei trasporti sanitari, logistica ospedaliera (disinfezione dei letti, cucina, lavanderia, pulizia), cura e sorveglianza dei pazienti, collaborazione nell’allestimento di infrastrutture improvvisate e nel settore della sicurezza dove, se richiesto, hanno il compito di sgravare il lavoro della polizia cantonale e delle guardie di confine alle frontiere e agli aeroporti». A Isone staziona la scuola reclute, mentre il Monte Ceneri ospita diversi partner: «Le truppe fisse delle Forze speciali, il Centro di reclutamento (momentaneamente chiuso e riconvertito per far fronte alla situazione) e il Centro della Base logistica dell’Esercito. Ora la nostra infrastruttura ha il compito supplementare di dare sostegno alla Compagnia sanitaria 2 mobilitata al lavoro negli ospedali». Il Colonnello racconta che sono stati mobilitati pure i soldati «a ferma lunga» nell’ambito sanitario dell’anno 2016: «Gente che, avendo terminato il servizio militare, non
Silvia Vegetti-Finzi
Tutti si attengono alle misure di distanza sociale. Su azione.ch trovate una più ampia galleria fotografica. (Didier Ruef)
disponeva più dell’equipaggiamento. Malgrado ciò, sono entrati in servizio ben 95 uomini su un effettivo di 114». Secondo le richieste del Cantone gli impieghi sono valutati e coordinati dalla coordinazione sanitaria comando operazioni dell’esercito in base alla priorità e alle proiezioni della crisi. Sulla Piazza d’armi del Monte Ceneri non ci sono riserve: «Tutti gli uomini sono impiegati in supporto agli ospedali, mentre il personale medico e infermieristico di milizia è già stato liberato per permettere il suo impiego nel lavoro civile». Quando è necessario l’esercito agisce in aiuto e supporto della popolazione: «Come Comando delle Forze speciali siamo avvezzi alla gestione di crisi anche internazionali, dunque siamo pronti a gestire questo nuovo nemico a cui non eravamo certo abituati; il nostro ruolo però ora è nell’ombra, dando tutto il sostegno possibile alle truppe sanitarie che operano al fronte». Perciò egli spiega di aver coinvolto tutti i partner della caserma nella coordinazione e nelle decisioni da prendere. «Il virus ci ha obbligati a rivedere diverse misure ora adattate in osservanza delle direttive di norme igieniche e distanza sociale». Ci mostra qualche esempio: «Quelle organizzative concernono le sale riunioni più grandi dove rispettare la distanza sociale, il lavoro telematico più diffuso per limitare i contatti personali, le videoconferenze che ci evitano gli spostamenti a Berna (questo è uno degli aspetti positivi che ci permette di risparmiare parecchio tempo). Abbiamo attuato misure di comportamento per la tutela della salute collettiva (2 metri di distanza sociale, ad esempio, anche attraverso misure improvvisate
Diverse le misure adottate in caserma per rispettare le norme igieniche. (D. Ruef)
Il colonnello Nicola Guerini. (Didier Ruef)
come la protezione di plastica in mensa tra personale di cucina e militi). Laddove non è possibile rispettare la distanza sociale (ad esempio nell’istruzione sanitaria) si lavora con i presidi adatti come mascherine, guanti e camici monouso». È tutelato pure il benessere psicofisico dei militi che per lungo tempo non possono tornare a casa: «Abbiamo coordinato diverse misure per rendere sopportabile il servizio di questi soldati portati via da casa, con le famiglie lontane e talvolta preoccupati per questo: di norma nelle caserme si lavora e si dorme, non sono fatte per la vita quotidiana e per il tempo libero che oggi deve essere gestito nel migliore dei modi». Racconta di un nuovo locale biblioteca e studio («per i soldati che
hanno esami da affrontare»), zone di privacy con la possibilità di collegarsi via skype con le famiglie, una piccola officina per il lavoro manuale e il tempo libero («una soldatessa falegname ad esempio porta cose sue»), e l’uso delle risorse individuali dei militi di milizia: «Un maestro insegna italiano ai militi svizzerotedeschi che devono lavorare nei nostri ospedali, lezioni di yoga e percorsi fitness per il tempo libero, biciclette e altri presidi per rendere la vita più vivibile anche in questa situazione». Infine, visitiamo la palestra, per ora vuota, convertita in centro Covid positivi, nella consapevolezza che pure i militi sono esposti al rischio di contagio: «La prima ondata ha portato 8 militi testati, ne abbiamo isolati 50 con sintomi e oggi sono rimasti in 2. Tutti hanno avuto decorso senza complicazioni, gli spazi sono stati ben organizzati e la caserma ora è uno dei luoghi più puliti dal virus, una delle zone più sicure nel Cantone: per evitare nuovi contagi dall’esterno, siamo chiusi qui da tre settimane e nessuno ha avuto il permesso di tornare a casa». Tante rassicurazioni: «Saremo qui tutto il tempo necessario, la scuola recluta non va chiusa perché mancherebbe una generazione di quadri, ufficiali e sottoufficiali che oggi vediamo essere indispensabili…». Alcune riflessioni: «Dovremo ripensare alla costruzione delle caserme tenendo conto di questa esperienza, e tutto il mondo economico che vi è implicato dovrà rivedere alcune strategie». Infine: «L’Esercito c’è per aiutare e non per mettere in pericolo la società; deve proseguire nell’istruzione adattandola alle esigenze del suo impiego per la popolazione».
La palestra convertita a possibile centro Covid positivi. (Didier Ruef)
Giulia ha sette anni e la sua giovane vita è stata repentinamente divisa, come quella di tutti, in un prima e in un dopo. Sino a pochi giorni fa la mattina si svegliava di malavoglia e si vestiva pigramente. Ma, salita sullo Scuolabus, era felice mentre guardava il paese allontanarsi e sparire dopo l’ultima curva. Frequentare la prima elementare rappresentava per lei una conquista fondamentale: voleva dire lasciare alle spalle l’asilo perché era diventata grande e impegnarsi in cose più serie rispetto ai giochi , seppur gradevolissimi, che aveva fatto sino allo scorso anno. Della nuova esperienza le piaceva tutto: l’edificio scolastico, l’aula, la maestra, i compagni, il lavoro, persino i compiti. Come insegna Maria Montessori i bambini vogliono lavorare, imparare a fare da soli e con gli altri. Abbassando la testa, si applicano con attenzione e concentrazione a un compito in cui si vede subito se è stato svolto bene e si è raggiunto l’esito sperato. La scuola offre il modo migliore per valutare se stessi e confermare la propria autostima attraverso l’approvazione dell’insegnante. Anche i compagni rappresentano una sfida emozionante perché crescendo i rapporti tra di loro divengono più complessi e contraddittori rispetto a quelli della prima infanzia.
Per i bambini la scuola è l’apertura al mondo, la sfida, il domani. La pandemia li ha messi in gabbia, per il momento Mentre la famiglia garantisce la continuità la sicurezza, la fiducia di base, la scuola è l’apertura al mondo, la sfida, il domani. Ora questa generazione felice ha subito dall’epidemia in atto una privazione incalcolabile, i bambini non lo sanno ma, impedendogli di volare, li abbiamo messi temporaneamente in gabbia. Ieri Giulia, dopo aver svolto i compiti che l’insegnante le ha inviato e aver giocato in giardino col papà e la cagnolina, ha recuperato senza dir nulla le conchiglie portate dal mare e, dopo averle colorate, ha deciso di ripetere il mercatino che tanto le era piaciuto in spiaggia. Allestito un banchetto sulla soglia di casa e fissato il prezzo, 10 centesimi l’una, ha atteso passasse qualche acquirente. Evento quanto mai improbabile in tempi di clausura domestica. Quel gioco solitario rappresenta un desiderio di libertà, d’iniziativa, la voglia di un altrove, il rimpianto di una socialità tra bambini ora negata. Eppure anche questa necessaria dolorosa privazione aiuta a crescere. Mentre, quando siamo felici viviamo immersi nel presente e nel mondo, l’infelicità favorisce la fantasia, l’introspezione, il ricordo, il rimpianto. Probabilmente questa generazione diverrà particolarmente sensibile, pensosa, capace di comprendere se stessa e gli altri, forse migliore delle precedenti.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 aprile 2020 • N. 16
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Società e Territorio
Una valle è molto più di un quartiere Valle Morobbia Negli ultimi anni la periferia montana di Bellinzona si sta ripopolando, grazie anche
al moderno Policentro che ospita scolari e spazi civici. Nell’emergenza sanitaria i «morobbiotti» si compattano, con i giovani che aiutano gli anziani a difendersi dal Coronavirus Mauro Giacometti Valle Morobbia, così vicina ma allo stesso tempo così fuori dal mondo. Abbarbicata tra cime prealpine, vallate, pascoli e boschi, tagliata in due da un fiume che in passato, come oggi, porta acqua fresca, potabile ed energia elettrica sul Piano di Magadino. Diventata nel 2017 quartiere della Nuova Bellinzona e dunque frangia più estrema del territorio cittadino, ha mantenuto nei secoli la sua peculiarità di terra selvaggia, incontaminata, dove la vita è allo stesso tempo una sfida e un privilegio. Una sfida a causa del continuo spopolamento delle regioni periferiche, ma anche un privilegio considerando l’aria incontaminata e il contatto diretto, anche aspro, con la natura. I «morobbiotti doc» sono accomunati da un forte senso d’identità di valle. D’altra parte questa è una terra affascinante ma dura da modellare. Lo sapevano bene le centinaia di minatori che dal 1400 e fino alla fine del 1800 estrassero il ferro dal cuore della montagna per passarlo ai forgiatori che ne ricavavano attrezzi da lavoro ed armi. Lo sapevano bene le decine e decine di emigranti che, all’inizio del ’900, partirono dai poverissimi villaggi della valle e andarono a cercar fortuna – spesso trovandola – nella lontana California. Lo sapevano bene i contrabbandieri che fino a metà degli
anni 60 varcavano il Passo San Jorio con la mercanzia sulle spalle da rivendere per sfamarsi. Lo sanno bene gli allevatori di bestiame, confrontati anche recentemente con le fameliche fauci dei predatori – solo negli ultimi anni si sono registrate tre cucciolate di lupi – che apprezzando particolarmente l’impervio territorio morobbino uccidono ogni anno decine di pecore e capre. Anche ai tempi del Coronavirus, la comunità di tutta la valle – 950 abitanti tra gli ex comuni di Pianezzo, Sant’Antonio e le rispettive frazioni – si è stretta a difesa dei propri anziani, a cominciare dalle giovani generazioni che si sono subito attivate per consegnare a domicilio delle persone più deboli e a rischio contagio la spesa alimentare ed i farmaci. «Non appena iniziata l’emergenza sanitaria, il gruppo del Carnevale di Pianezzo, tutti ragazzi intorno ai vent’anni, s’è attivato per aiutare i nostri anziani, che non sono pochi. Siamo da sempre una comunità solidale, compatta, e anche le nuove generazioni non si tirano indietro», sottolinea con soddisfazione Adriano Pelli, presidente dell’Associazione del quartiere di Pianezzo, sodalizio costituito un paio d’anni fa proprio per mantenere un filo diretto tra l’estremo lembo cittadino e le decisioni prese a Palazzo Civico. E a proposito di giovani, negli ultimi anni si sta assistendo ad un ritorno di nuclei
Tra natura, ferro, acqua e alpeggi Una sinuosa ma agevole strada cantonale percorre tutta la Valle Morobbia e in 12 km si passa dalla pianura alla montagna. Si arriva all’ex dogana di Carena, ultimo baluardo di civiltà prima di affrontare a piedi o in mountainbike i sentieri che portano al Passo del San Jorio e al versante comasco, verso il Camoghè a sud e gli alpeggi del Gesero a nord. Sempre da Carena si può raggiungere la zona degli alpeggi e tra questi il Giumello dove si produce un formaggio di gran pregio. La valle dispone di una rete di sentieri
di oltre 90 km e fino a qualche tempo fa si disputava una tradizionale e impegnativa corsa in salita, in bicicletta, tra Giubiasco e Carena. Da segnalare due percorsi tematici-paesaggistici come la Via del ferro alla scoperta dei siti siderurgici e minerari che fino all’inizio del XVIII secolo caratterizzavano il territorio dell’alta Valle Morobbia e la Via dell’acqua che mostra come si produce l’energia e la storia dello sfruttamento idrico in Valle Morobbia con la realizzazione del bacino di accumulazione della diga di Carmena.
familiari che scelgono questo territorio discosto come base per viverci, far nascere e crescere i propri figli. Una fuga dalle città e dal caos – in meno di 20 minuti si passa dal Piano ai quasi 1000 m/ sm di Carena – seguendo l’invidiabile richiamo della natura e che ha trovato nel Policentro della Morobbia, a Pianezzo, il suo principale faro. Costata circa 7 milioni di franchi, la struttura polivalente e scolastica, inaugurata nel giugno dell’anno scorso, sta indubbiamente fungendo da catalizzatore per nuovi insediamenti familiari in tutta la valle. «È il nostro fiore all’occhiello – dice Pelli, che come municipale di Pianezzo s’è fortissimamente battuto per veder realizzata l’opera – non solo perché ci permette di disporre di una struttura civica moderna e di spazi attrezzati a disposizione di cittadinanza e associazioni, ma soprattutto perché ci ha consentito di mantenere i nostri scolari in valle. E questo è un viatico importante, se non decisivo, anche per chi decide di venire a vivere qui, costruendo nuove residenze o di tornare ad occupare le vecchie case di famiglia, ristrutturandole». Lo stesso trend in crescita di popolazione che si registra nell’alta valle, come ci spiega Michela Pini, presidente dell’Associazione del quartiere di Sant’Antonio che raggruppa le ex frazioni di Vellano, Riscera, Carmena, Melera, Melirolo e Carena. «Stanno arrivando nuove famiglie, anche giovani coppie che, lavorando in Città o sul Piano, in un batter d’occhio si ritrovano la sera e durante il fine settimana in un autentico paradiso verde. E chi viene a viverci richiama anche amici e colleghi, con un passaparola che effettivamente ci sta portando molti nuovi residenti. La bellezza della valle e la nostra qualità di vita sono indiscutibili. Anche per la mobilità e i trasporti pubblici, che erano un punto dolente, recentemente si sono fatti molti passi avanti, con un ulteriore incremento delle corse e dei collegamenti con il Piano dalla fine del 2020 con l’apertura della galleria ferroviaria del Ceneri», sottolinea Pini. Da poco s’è anche risolta la diatriba sull’antenna di telefo-
Una veduta di Pianezzo. (Ti-Press)
nia mobile da piazzare sul campanile della chiesa parrocchiale di Sant’Antonio, installazione che insieme alla contemporanea posa della fibra ottica, già in corso insieme ai lavori per il nuovo acquedotto, porterà in valle anche la tecnologia più performante e indispensabile, non solo in un periodo di emergenza sanitaria come questo. Con il ripopolamento in atto, ciò che latita in Valle Morobbia è però la ricettività turistica. Da sempre teatro di escursioni in giornata, a piedi o su due ruote, negli ultimi decenni la valle ha conosciuto la chiusura di molti esercizi pubblici, grotti, osterie con camere. Tanto che i punti di ristoro e soprattutto gli alloggi oramai si contano sulle dita di una mano. «Attualmente ci sono due ristoranti con alloggio nell’alta valle, a Vellano e a Carena, ma entro l’estate
dovrebbe riaprire a Pianezzo l’ex ristorante della Posta – spiega Milva Buletti, segretaria della Fondazione Valle Morobbia –. È chiaro però che l’offerta è carente. I turisti che soprattutto d’estate e in bicicletta percorrono la valle non mancano, ma purtroppo non si fermano a soggiornarvi. E pensare che oltre alla bellezza del territorio e ai sentieri montani, abbiamo degli itinerari storico-paesaggistici che molti ci invidiano, come la Via dell’acqua o quella del Ferro, che andrebbero ulteriormente valorizzati e promossi a livello didattico e turistico. Ci stiamo lavorando, nell’ambito del Progetto di sviluppo territoriale della sponda sinistra del Ticino che coinvolge, oltre alla nostra valle, anche i Fortini della fame di Camorino e il nucleo medievale di Prada», evidenzia in conclusione Buletti. Annuncio pubblicitario
Fare la cosa giusta
Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Mariam: caritas.ch/mariam-i
Mariam Khalaf (25 anni), vedova siriana con 3 figli, vive nel campo profughi in Libano
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Società e Territorio
C’è chi si rilassa così
Internet Si trovano video di ogni tipo per gli utenti del web, dai maniaci della pulizia agli ossessionati del relax
Sara Rossi Guidicelli Fin da quando sono piccola ho una sensazione segreta che pensavo di essere l’unica ad avere. Dicevo ai miei genitori: «Quando mi raccontate una storia a me viene un mal di testa bello». Ancora oggi, se sento una voce calma e piacevole, ho dei brividini sulla nuca. Anche se vedo qualcuno che liscia una stoffa con le mani. O che compie un gesto molto accuratamente. Poi un giorno ho scoperto che anche la mia migliore amica ha i brividini quando sente parlare sottovoce. E insieme abbiamo visto il film The Glenn Miller Story dove la moglie del leggendario musicista jazz sa sempre quando una canzone le piace, perché sente «un formicolio sulla nuca». Da alcuni anni è noto che non siamo le uniche e che quel formicolio ha un nome: Asmr. Pare anzi che il 20% della popolazione circa lo sperimenti regolarmente. La sigla Asmr sta per autonomous sensory meridian response, cioè «risposta sensoriale apicale autonoma» e viene definita così: «sensazione di formicolio in varie parti del corpo, perlopiù accompagnata da uno stato di rilassamento mentale di chi la esperisce; a suscitarla concorrono numerosi stimoli: cerebrali (pensieri o idee) oppure di natura visiva, uditiva o tattile, percepiti da un soggetto in modo attivo o passivo». Ora il web pullula di video in grado di suscitare brividini nella popolazione che sperimenta l’Asmr: si mostrano persone che piegano mutande con molta concentrazione, si sentono
voci che sussurrano, si guarda un pittore che piano piano spiega come usa il pennello e intanto il pennello fa «gri gri» sul foglio. Dico subito che non con tutti i video funziona: io continuo a preferire il suono della voce della mia farmacista o quello di una signora anziana con l’accento calabrese incontrata in treno e alla quale ripenso sempre prima di dormire. Joëlle Dozio Bellorini, la psicologa e psicoterapeuta che interpello per saperne di più su questa tendenza a rilassarsi guardando video Asmr, mi confida come prima cosa che anche lei sente il formicolio in cima alla testa quando sente voci particolari e anche a lei succedeva fin da piccola senza sapere cosa fosse. «Penso che sia una sensazione arcaica, legata ai primissimi stimoli che il neonato percepisce – spiega – una sensazione legata a una sensorialità piacevole, una combinazione di stimoli come una carezza sulla testa accompagnata dalla voce dolce della mamma o del papà. Siccome il bebè è troppo piccolo per averne un ricordo cosciente, questa sensazione viene registrata in quella che chiamiamo “memoria implicita”: un ricordo che non è raffigurabile, come tutte le sensazioni e stimolazioni del neonato o anche del feto. D’altronde l’udito e il tatto si sviluppano già in utero ma gli stimoli percepiti in gravidanza non potranno essere ricordati come tali ma influenzeranno poi il carattere e le sensibilità di ognuno». Ma perché allora non succede a tutti? «Proprio perché ognuno di noi reagisce agli stimoli in modo diverso in
funzione delle sue sensibilità e del suo vissuto». I video su youtube rilassanti hanno infatti un grande successo anche in chi non può definirsi una persona che sperimenta l’Asmr: c’è chi si rilassa con voci dolci, pur non provando formicolii da nessuna parte. Vengono usati contro l’insonnia o per provare quello che molti definiscono «un orgasmo al cervello» («mal di testa bello» suonava meno sexy). Navigando tra le comunità di internauti che cercano relax, si trovano molte altre proposte per ogni preferenza: filmati di gente che mangia, masticando con cura, in primo piano fanno milioni di click; filmati di gente che ripara cose o che le pulisce con spazzoloni potenti togliendo serie incrostazioni; e... siete mai capitati su tutta quella categoria chiamata mini food? Si vedono mani che con minuscoli utensili, su minuscoli fornelli, cucinano minuscole pietanze. Succulenti centimetri quadrati di bistecca, sushi per formiche, torte cotte in porta candeline. Miniature space è il canale Youtube specializzato in piccolissimi piatti da consumarsi con irrisorie bottigliette di vino... una tendenza che arriva dall’Asia e che è diventata anche un business, tanto che è nato uno shop apposito con mini utensili da cucina. Il più sorprendente di questi nuovi video passatempo, tuttavia, è forse la Dermotillomania, altrimenti detta «piacere di schiacciarsi i brufoli», di schiacciarli agli altri o di vedere terze persone alle prese con i propri punti neri. E non si tratta semplicemente di
I video dedicati al mini food sono nati in Asia. (youtube)
una comunità di stravaganti appassionati di pus. Fior fiore di medici mettono a disposizione filmati in cui spremono giganteschi punti neri ai loro pazienti, consenzienti, naturalmente. Il video più famoso, Black & White Heads on Nose Part 3 ha ben 18 milioni di visualizzazioni. E il dermatologo che lo ha postato è diventato una celebrità sotto il gratificante appellativo di «Re dei punti neri». Ma cosa abbiamo che non va? Soddisfazione nel vedere lo sporco che lascia il nostro corpo, bisogno di pulizia? Brivido legato a un rischio inconscio? Rabbia repressa? O semplicemente siamo alla disperata ricerca di pratiche per rimuovere l’ansia cosmica che ci attanaglia e non sappiamo più come trovare pace senza un video ipnotizzante?
Secondo Joëlle Dozio Bellorini, anche qui potrebbe trattarsi di una reazione arcaica, di un comportamento legato alle cure della mamma: «i bebè iniziano a costruire un dentro e un fuori se stessi a livello psichico grazie alla cura materna. Sappiamo che nei primati il grooming, ovvero il togliersi le pulci a vicenda, è un comportamento codificato e di vitale importanza nella comunità, necessario per intessere relazioni sociali e appianare tensioni. Il perché poi lo si vada a cercare sul web invece dovrebbe essere l’oggetto di uno studio più approfondito, non vorrei azzardare ipotesi», conclude la psicologa. Quello che è certo, azzardo io, è che la privacy non è più un valore assoluto e il concetto di pornografia ha allargato di molto i suoi orizzonti. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Animal Crossing, l’isola che c’è
Una bandiera di solidarietà
ed è un piccolo capolavoro
propone al pubblico un’iniziativa benefica
Videogiochi L’ultima versione creata per Nintendo Switch si intitola New Horizons
Davide Canavesi Pochi giochi quanto la serie Animal Crossing incarnano quella differenza tipicamente nipponica nello sviluppo di videogiochi rispetto ai canoni occidentali. Si tratta di un simulatore di vita, ovvero un microcosmo racchiuso all’interno della nostra console, in cui il giocatore andrà ad intrecciare le proprie vicende con quelle di un eclettico gruppo di animaletti. In Animal Crossing lo scopo del gioco è tutto fine a sé stesso: mentre vivremo la nostra quotidianità lavorando, pescando, catturando insetti, acquistando e vendendo oggetti invariabilmente ci porremo qualche domanda sul perché questa serie è così popolare. Tuttavia, per rispondere, dobbiamo dapprima dare un’occhiata all’ultima versione uscita in queste settimane per Nintendo Switch, Animal Crossing: New Horizons. New Horizons riprende il concetto di base della serie per estenderlo ad una nuova ambientazione insulare. All’inizio della partita dovremo scegliere un’isoletta, darle un nome e trasferirci lì insieme ad alcuni altri buffi animaletti. Appena giunti nella nostra nuova casa ci verrà assegnata una tenda in cui prendere alloggio, uno smartphone e qualche consiglio da parte di Tim Nook, un tanuki (procione giapponese), il capo dei servizi residenziali. Ci viene spiegato come acquistare e vendere oggetti, come iniziare a crearne di nuovi e qualche altro buon consiglio. La nostra vita sull’isola inizia con alcune scelte semplici, quale nome darle, dove piaz-
Il gioco non ha uno scopo finale ben definito, ognuno sceglie come vivere sulla propria isola. (Screenshots © 2020 Nintendo of Europe)
zare la tenda e così via. Tuttavia, quello che non ci viene chiaramente indicato è uno scopo ultimo, anche perché Animal Crossing non ha davvero una missione che dobbiamo portare a termine. Non c’è un cattivone da sconfiggere né un tesoro da recuperare sebbene sia stata inserita una nuova meccanica che tiene traccia delle nostre attività in modo da ricompensarci adeguatamente se portiamo a termine certe azioni. Tuttavia, in superficie, New Horizons non ha davvero uno scopo. Catturare insetti, pescare, arredare la casa, parlare coi vicini sembrano tutte attività secondarie! Eppure, come mai questo gioco sta battendo ogni record di vendite? Animal Crossing è un rifugio sicuro, un mondo spensierato e colorato in cui perdersi per un paio d’ore al giorno, una cosa che di questi tempi ha decisamente
un suo vantaggio. Per design, questo gioco di Nintendo è fatto per essere fruito in modo regolare, dal momento che l’orario nella vita reale coincide con quello all’interno del mondo virtuale. Collegarsi la mattina, il pomeriggio o la sera ha un certo impatto sull’esperienza di gioco. In più, proprio come nella vita vera, per certe cose ci vuole tempo: non possiamo di certo piantare un albero di ciliegie e aspettarci di vederlo crescere in dieci minuti. Il tempo speso sulla nostra isola può ovviamente variare a dipendenza dei nostri gusti e degli obiettivi che ci saremo fissati. Certi giocatori vorranno raccogliere ogni specie animale e vegetale, altri invece saranno assolutamente affascinati dalla decorazione della propria casa e del villaggio. Altri invece adoreranno la possibilità di visitare l’isola dei nostri amici attraver-
so una connessione internet. In effetti in giro per il mondo la gente sta usando proprio questa funzione per organizzare dei party virtuali in cui incontrare gli amici senza mettere nessuno in pericolo. Animal Crossing o lo si ama o lo si odia, non crediamo ci sia davvero una via di mezzo. Potremo innamorarci del suo essere innocente, scanzonato e leggero oppure annoiarci a morte dopo qualche ora. Sotto la superficie ci sono meccaniche anche discretamente complesse e tanta varietà che però scopriremo solo avendo pazienza e lanciandoci in esperimenti creativi. Più giocheremo e più avremo cose da fare e da costruire: oggetti, case, botteghe, sorgenti termali, un museo addirittura. Questo gioco non ha davvero una direzione predefinita da seguire e starà a noi prefiggerci uno scopo finale, ad esempio migliorare la nostra isola il più possibile, decorare casa, attivare certi personaggi in gioco. Animal Crossing: New Horizons ha il potenziale di occupare non solo i giorni e le settimane ma anche i mesi a venire. Visivamente delizioso, il passaggio su Nintendo Switch è stato un successo, è tecnicamente quasi privo di difetti. L’unico vero problema è quello che la nostra isola sarà irrimediabilmente collegata alla console sulla quale stiamo giocando. Nel caso dovessimo cambiarla, a causa ad esempio di un guasto, perderemmo ogni cosa. A parte questa spiacevole decisione da parte di Nintendo però il gioco è un piccolo capolavoro, sempre che non finiate per odiare la sua cronica mancanza di uno scopo chiaro e ben definito.
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Con la vendita di questo simbolo, creato dall’Ufficio federale della sanità pubblica e lanciato recentemente dal ministro Alain Berset, Migros s’impegna per la coesione nazionale in questo difficile momento: la croce svizzera è formata dalla parola «noi» scritta nelle quattro lingue nazionali. Il drappo, realizzato in serie limitata e ideale per finestre e balconi, sarà disponibile da oggi martedì 14 aprile in tutte le filiali di Migros Ticino al prezzo di CHF 6.95. Migros nell’ambito del suo impegno sociale donerà i ricavi totali derivanti dalla vendita delle bandiere alla campagna di raccolta fondi della Catena della Solidarietà; essi verranno dunque utilizzati per sostenere le persone più colpite dalla pandemia di Coronavirus.
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Il sentimento della solitudine Il giorno in cui nacque Afrodite gli dei si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c’era il dio Poros, l’espediente, e Penìa, la povertà, venuta al banchetto per mendicare. Durante le libagioni Penìa si avvicina a Poros, un po’ ubriaco per il nettare di Zeus libato in abbondanza. Sdraiatasi al suo fianco, Penìa si congiunse al dio che la fece innamorare e così restò incinta di Eros. È il celebre racconto della nascita di Eros che Platone affida, nel Simposio, a Diotima, figura sapienziale di donna. Un racconto che resterà archetipo indelebile della natura umana. Concepito durante la festa in onore della dea della bellezza, Eros, sempre povero, non è delicato e bello come si dice, ma è amante della bellezza. «È rude, va a piedi nudi, senza casa, dorme sulla nuda terra», dice Diotima, «perché ha la natura della madre e il bisogno lo accompagna sempre. D’altra parte, come suo padre,
cerca sempre ciò che è bello e buono». Eros nasce come simbolo della condizione umana, dell’inquietudine esistenziale, del desiderio di superare quella mancanza originaria che sempre appartiene alla natura dell’uomo. La figura di Eros, Amore, è una potente rappresentazione del bisogno di trascendenza. Ma sua madre è Povertà, Mancanza. Fin dalle origini della nostra civiltà, la mancanza appare dunque come condizione costitutiva della natura umana. Una mancanza che, in giorni come questi, si fa sentire proprio in quelle interruzioni del nostro modo di stare al mondo, quando gli orizzonti in cui abbiamo imparato a riconoscere il senso della nostra esistenza diventano incerti. Qualcosa manca, qualcosa che potrebbe anche lasciar entrare, nelle nostre giornate, il volto triste della solitudine: una triste intrusione, nei nostri spazi vitali, delle ombre del sentirsi soli. Nell’isolamento di oggi questa solitu-
dine si lascia riconoscere in tutta la sua concretezza, in tutta la sua fisicità. Fisicità, appunto. Ci scopriamo a soffrire per l’assenza di quelle persone con cui abitavamo spazi comuni, disegnati da intrecci sempre nuovi di gesti condivisi. Una solitudine del corpo, di un corpo che si rivela così il territorio dell’anima. In queste percezioni della mancanza si esprime una potente verità del sentire, una specie di alter ego di quella subdola solitudine che a volte accompagna il nostro solitario navigare nel mondo virtuale, nelle connessioni globali e nelle esibizioni collettive di tanti amici in rete. Isolamento reale e contatti virtuali appaiono oggi intrecciati, in modo inedito e inatteso, sui volti fragili del sentirsi soli. Il sentimento della solitudine può mostrare però anche un volto più luminoso: quello che si offre a noi nell’esperienza dello stare soli. Una solitudine non subìta, ma accolta e coltivata come
presenza a noi stessi, come incontro con il nostro mondo interiore. Anche questa intima solitudine è condizione originaria dell’essere umano: nasciamo soli e moriamo soli. In ciascuno di noi vive una solitudine del sentire che ci accompagna per tutta la vita. Una soglia invalicabile dell’esistenza, anche nell’esperienza più vera dell’incontro con l’Altro: io sento la carezza con cui ti sto accarezzando ma mai potrò sentire quello che senti tu nel riceverla. Questa solitudine originaria si offre a noi come esperienza generativa e creativa, proprio come accade ad Eros che fa della «mancanza» originaria la sorgente di un’apertura al possibile. E infatti, questa dello stare con sé stessi, dell’accogliersi, e accomodarsi, nella propria intimità, è una solitudine abitata che diventa apertura al mondo, perché solo da questa nostra intima soglia può nascere il legame con l’Altro. Di questa preziosa esperienza sono testimonianza le rifles-
sioni di sant’Agostino che ci ricordano come l’intimo del cuore si alimenti con l’apertura all’Altro. Saper stare soli si annuncia allora come grande opportunità, come promessa di una sempre nuova fioritura. Fioritura dei legami, ma anche fioritura del pensiero, come mostra, ed è solo un esempio, la scelta che fu di Cartesio di tornare a sé stesso per trovare una via di accesso al mondo. Fioritura del pensiero, ma anche nutrimento della poesia e dei confini inquietanti che esplora, come accade nei versi stupendi di Alda Merini: «Se anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia, se mi trascina l’amore, tornerò, stanne pur certa; i sentimenti cedono, tu resti». Abitare la propria solitudine può davvero essere un dono per contrastare, oggi più che mai, le tristi chiusure del sentirsi soli. «Forse sarei più sola senza la mia solitudine», parola di Emily Dickinson.
incompiuto, è stato comunque costruito fino a raggiungere venticinque chilometri tra Yverdon e Cossonay. Da tanto che ho in testa di cercare i suoi resti, ritrovo un po’ di wanderlust e via, inutile rimanere qui a oziare. Certo, una deviazione all’Auberge au Milieu du Monde, nel centro di Pompaples, paesino sperduto di seicento e passa anime, andrebbe fatta. Immortalato in un film di Alain Tanner intitolato proprio Le Milieu du Monde (1974) e girato tutto tra questi campi di colza e il ristorante, dove lavora la protagonista, Adriana, una cameriera italiana, ci ero andato per caso anni fa per un caffè. Chiuso per pandemia, va però detto che fuori ha perso un po’ il suo fascino. Sparite le tende a strisce bianche e blu dell’Henniez, i caratteri gotici della scritta, le persiane dipinte a fiammate, l’insegna in ferro battuto con croce federale e stemma comunale: un martello e una tenaglia. Strumenti dei fabbri fluviali. Costeggio il canale di allevamento, una roggia tra filari di pioppi che scorre verso Orny e sembra habitat ideale di spugnole. Taglio in mezzo ai campi arati che appaiono all’inizio
e alla fine del film di Tanner abbinati alla musica progressiva di Patrick Moraz. Un’ora circa e raggiungo la casa seicentesca di una delle chiuse dell’antico canale di Entreroches, scavato tra le rocce del Mormont. Una pietra romana con iscrizione trovata durante gli scavi decennali, è lì nel prato. Proseguo inerpicandomi nel bosco e poi ridiscendo in un avvallamento. Mura, acqua, rovi, ecco cosa rimane del canale in funzione fino al 1829 e usato per trasportare vino vodese, spesso scolato anzitempo dai battellieri, a Soletta. Ritorno al grazioso bacino spartiacque – egocentrico per antifrasi visto che è un po’ fuorimano – pensando, tra i campi, alla voce off all’inizio di Le Milieu du Monde: «in realtà ci sono tanti centri del mondo quante sono le persone». Il mio ora, è un negozietto portoghese di La Sarraz dove so che in frigo, in bottigliette piccole di vetro verde, tengono la Pedras. Acqua minerale frizzante naturale buonissima, leggermente salata, risalente al 1873, la cui fonte, nel nord del Portogallo, è racchiusa come in una chiesetta di campagna.
potuto dare l’ultimo saluto. Non andrà bene per quei medici che hanno perso la vita. Non andrà bene per quelle testate che hanno già chiuso o per quelle che arriveranno senza più pagine alla fine di questa pandemia. Per gli editori indipendenti e le librerie in grave difficoltà (sostenete l’editoria e acquistate i libri online). Non vale per chi ha perso il lavoro o per chi ha trascorso i mesi di reclusione in un basso di 20 metri quadri nel napoletano, per i senzatetto che sistemati come auto in un grande parcheggio all’aperto a Las Vegas o per i corpi bruciati sulle strade in Ecuador. «We’ll meet again» ha detto la Regina Elisabetta durante il suo discorso eccezionale alla Nazione. Vestita di verde per rendere omaggio ai medici (così dicono i royal watcher) citando una canzone diventata un simbolo di speranza durante la Seconda guerra mondiale. Ci incontreremo di nuovo
non c’è dubbio e sarò felice di riabbracciarvi. Ma come sarà il mondo allora e nei mesi a venire non lo sappiamo, inutile fingere il contrario. Dobbiamo essere pronti. Per questo vi lascio con un consiglio di lettura che fa bene al cuore e ai sogni. È la storia di amicizia tra un ragazzo, una talpa, una volpe e un cavallo magicamente illustrata e scritta da Charlie Mackesy (The Boy, the Mole, the Fox and the Horse edito da Penguin). Un libro sulla gentilezza e la preziosità della diversità, sulle nostre paure, sulla lealtà, sulla bellezza che ci circonda e di cui dobbiamo prenderci cura, un libro sui sentimenti, sull’importanza dei piccoli gesti e del rispetto reciproco. Ogni meravigliosa immagine è accompagnata da un breve dialogo o da una perla di saggezza come questa pronunciata dalla talpa cicciottella: «la più grande illusione è che la vita debba essere perfetta».
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf Il Milieu du Monde a Pompaples Dalla stazione di La Sarraz, a passo impigrito ma non troppo, in dieci minuti neanche, passando accanto al castello, arrivo a uno specchio d’acqua semicircolare recintato. A ridosso di una vecchia casa di tre piani con persiane color rosso mattone. È questo il Milieu du Monde (483 m): il centro del mondo come lo chiamano da secoli qui da queste parti. Nessun cartello né niente indica questo microlaghetto a mezzaluna di rinomanza regionale, le cui acque vanno verso il Mediterraneo da una parte, dall’altra verso il Mare del Nord. Guardo bene e lì a sinistra c’è la chiusa dove l’acqua sparisce sottoterra, riemergendo prima del castello per gettarsi poi tra le braccia della Venoge che sfocia nel Lemano. Il viaggio continua attraverso il Rodano fino alla Camargue e il mare. L’altra uscita è qui davanti al naso: passa sotto il parchetto e la strada, rispunta in un canale che si dirige a destra verso il corso del Nozon dal quale proviene, poi un attimo di Talent, la Thielle, lago di Neuchâtel, lago di Bienne, Aare, Reno, Mare del Nord. Risale al 1551 l’idea di un sire dei Gingins-La Sarraz di deviare
una parte delle acque del Nozon verso il suo mulino. Moulin Bornu si legge ancora, lassù in alto sulla facciata del silo attaccato alla casa di pietra chiara. Il grano non si macina più da anni, ora c’è una ditta di cibo per cani, pezzi di ricambi per acquari, yoga. Augine si chiama la roggia cinquecentesca che collega il Nozon, passando da qui, al Rodano. Un canale di allevamento di trote, al contempo, riporta, dopo questa digressione idrografica, parte di queste acque al loro corso naturale: il Nozon che a Orny piega verso nord. Due trote nuotano tranquille al centro del mondo. Tre tavoli da picnic in pietra sono sparsi nel parchetto, attorno all’ippocastano secolare ancora in letargo. Più una panchina, sempre in pietra, solitaria, dove mi siedo verso le due di un pomeriggio di sole ai primi di aprile. «Mayaa! Mayaaa! Allez, viens!» grida una bambina al suo corgi gallese troppo pigro. M’incuriosisce molto l’apertura da darsena, sbarrata con assi a pelo d’acqua, nella casa. Sopra ci sono un paio di finestre. Immagino uno stagno interno segreto con carpe koi per fare compagnia ai
bonsai. Sorseggio la mia verbena versata dalla thermos, in faccia alla «fontana» come la definisce Paul Budry (18831949). Autore tra l’altro di Trois hommes dans une Talbot (1928) – uno dei tre era Ramuz – che di questo posto scrive: «quando vado a piangere lì la mia pena, nord e sud sanno del mio dispiacere». Etienne Clouzot (1881-1944) – paleografo, critico cinematografico, e zio di un famoso regista francese – ripesca invece, nel suo articolo Milieu du monde et bout du monde apparso nel 1942 sulla «Revue d’histoire suisse», un altro punto di vista: «Benedict Humbert, in un affascinante opuscolo intitolato Le tour du lac Léman et autres pièces fugitives fa notare che a Pompaples si può benissimo sputare in due mari». Margheritine e Corydalis cava bianche e violetto, tra l’erba. La bambina di prima che abita qui, sfreccia sul monopattino con il suo corgi pigrone in braccio. È questo bacino, nel 1638, a ispirare Elie du Plessis-Gouret (15861656) – maggiordomo-matematico – per il suo progetto pazzo di collegare con una via navigabile, l’Olanda al Mediterraneo. Il Canal d’Entreroches, rimasto
La società connessa di Natascha Fioretti Saggezza di una talpa Stanotte ho fatto un sogno. Ho sognato di riabbracciare mia mamma e mio papà. Di fare lunghe chiacchierate e bere un caffè con loro sul divano bianco che guarda in giardino e alla pergola con il kiwi. Ho sognato di andare a fare una passeggiata sul Piano di Magadino con la mia amica Tamara e la Coffee. Ho sognato di andare al mercato di Bellinzona il sabato mattina, di odorare il profumo delle spezie e andare a trovare la signora thailandese dal grande sorriso che ha quella bancarella che mi piace tanto, piena di gonne larghe e comode e camicette colorate. Quando prendo in mano un abito mi dice subito se fa per me, mi piace la sua onestà, pur se talvolta uccide la mia già precaria autostima. Ho sognato di andare negli uffici di un’azienda mediatica all’avanguardia e profittevole guidata da una direttrice grintosa che valorizza e coinvolge i collaboratori freelance, promuove il
confronto in redazione e crede in un giornalismo che onora l’intelligenza dei lettori. Ho sognato di vedere le persone leggere il giornale tutte le mattine, credere nel valore dell’informazione e nel lavoro dei giornalisti per una società e una democrazia migliori. Ho sognato di poter tornare a fare le interviste dal vivo, guardare negli occhi chi mi racconta la sua storia. Ho sognato testate che non hanno più bisogno di svendere la loro informazione a un euro al mese se non addirittura offrirla gratuitamente e che il Consiglio federale ha finalmente messo in campo gli aiuti alla stampa e ai media. Ho sognato gli editori e le associazioni di categoria firmare un nuovo contratto collettivo di lavoro. Ho sognato che i livelli di smog nel nostro Cantone non sono più tornati ai livelli abituali perché lo smart working e il telelavoro sono entrati a far parte della nuova cultura professionale
di aziende e istituzioni. Ho sognato i miei nipoti tornare a scuola con rinnovata energia, consapevoli del privilegio di studiare e andare a scuola. Ho sognato parchi con zone limitate solo per gli animali selvatici e lotti di terra per coltivare fiori e ortaggi. Ho sognato orti urbani in ogni angolo di città e cittadini che se ne prendono cura. Ho sognato scuole nelle quali si insegna il rispetto per gli animali e la ricchezza che deriva dalla convivenza con loro. E le poesie a memoria. Ho sognato le mie amiche mamme promosse in posti di responsabilità senza disparità di salario. Poi mi è arrivato un sms sul telefono e il sogno è finito. In mente avevo quella bella e rassicurante frase «andrà tutto bene». Per chi? Di sicuro non andrà bene per i sessantacinquemila morti nel mondo (dati della Johns Hopkins University aggiornati al 6 aprile) senza dignità. Non andrà bene per chi resta e non ha
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Ambiente e Benessere Un viaggiatore più consapevole Nell’immobilità, senza distrazioni, a cui siamo costretti in questi giorni forse si possono capire meglio i nostri desideri più profondi
Alimenti e Covid-19 Rassicurazioni e consigli su come trattare il cibo durante quest’epidemia pagina 18
Non solo polenta La Valle d’Aosta ha trasformato il suo isolamento geografico in una forza gastronomica
Un caldo che abbatte Il cambiamento climatico in atto sta mettendo in crisi l’esistenza dell’abete rosso
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Vero o falso?
Salute L’importanza di discernere
Maria Grazia Buletti Le indicazioni che le autorità ci chiedono di seguire confermano la pericolosità di questo virus. Abbiamo scoperto termini come anticorpi, infettivologo, virologo, respiratori, picco, zoonosi e via dicendo, familiarizzando con mascherine, guanti e disinfettanti fino a oggi ad appannaggio dei presidi ospedalieri che pure abbiamo imparato a conoscere nel loro cuore operativo. Siamo sommersi di notizie da ogni dove. Monotematiche: il coronavirus ha catalizzato tutta la nostra attenzione. Abbiamo capito la criticità della situazione. Ora ci chiediamo dove sia la soglia fra l’offerta di notizie accurate (credibili, trasparenti e accessibili a tutti) e il bombardamento continuo di quelle «notizie» sul virus che spesso provengono da fonti diverse da quelle ufficiali. Ciò crea inevitabilmente confusione e ansia fra la popolazione già più fragile a causa di questo difficile momento. Esiste un limite all’eccesso di informazione, non sempre filtrata a dovere, e non fa bene a nessuno. «Come consumatori di notizie, dovremmo resistere all’ossessione di sapere quale sia l’ultimo caso, l’ultima notizia dell’ultima ora; i dati statistici di per sé non hanno senso se non con un’interpretazione nel tempo da parte di chi ne ha le competenze. Concentriamoci sull’informazione ufficiale, prestando attenzione al problema e mettendo in pratica scrupolosamente le poche efficaci e importanti indicazioni che ormai tutti conosciamo, ma abbiamo bisogno anche di altre cose», dice il dottor Christian Garzoni, infettivologo e direttore sanitario della Clinica Luganese di Moncucco oggi in prima linea nella lotta al Covid-19. Abbiamo bisogno di storie che non riguardino esclusivamente il coronavirus per il quale lo specialista ribadisce l’invito di cercare le informazioni «da fonti e commentatori oggettivi» perché: «Malgrado si possa passare ore a informarsi, le vere novità sono poche
e sono note. Ignoriamo i commenti più o meno allarmisti, ipotetici, di improbabili scoperte di farmaci miracolosi ma ben lungi dall’essere disponibili». Sarà una lunga maratona: «Oggi tutti parlano di picco che in realtà è solo l’apice dell’aumento dei casi diagnosticati in un giorno. Lo abbiamo aspettato perché significa solo che quando i nuovi casi cominciano a diminuire, i contagi si abbassano e le persone ammalate pure», ammonisce Garzoni invitando a non abbassare la guardia: «Dopo la discesa dei casi, ci saranno delle aperture parziali e controllate, e ci aspettiamo nuove risalite. Il virus non potrà essere eradicato dalla terra, la specie umana dovrà perciò trovare delle strategie di convivenza. Nei mesi futuri prevediamo quindi delle fasi di apertura modulata e susseguenti fluttuazioni». Allora: «Il virus circolerà, le persone continueranno ad ammalarsi, ma il loro numero sarà tenuto basso grazie alle misure di chiusure che saranno valutate in questi giorni e adattate nel prosieguo». Una riapertura generale non sarà quindi possibile a tempi brevi e le persone si ammaleranno ancora: «Però in modo che gli ospedali saranno in grado di curarle: durerà qualche mese e dovremo cominciare a riflettere sul dopo». Allora, potremo riprendere solo molto gradualmente le nostre abitudini, tenendo conto del cambiamento culturale importante che conseguirà: «Dovremo rivalutare le nostre distanze sociali: cambieranno dagli abituali 30 centimetri a un metro, staremo insieme in gruppi più piccoli di persone, non daremo la mano sempre a tutti, il saluto dei “tre bacini” dovrà essere accantonato», Garzoni porta ad esempio il Giappone: «Lì si ammalano di meno perché già tra amici tengono una grande distanza sociale». Con lui ci facciamo portavoce di alcune smentite su improbabili notizie e pregiudizi circolanti al momento, a cominciare dall’atteggiamento di alcuni giovani e giovani adulti che si sen-
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fra le notizie che ci bombardano nei giorni di pandemia
tono, pericolosamente a torto, immuni e un po’ spavaldi: «È vero che i giovani tendono ad ammalarsi di meno, ma in Cure intense abbiamo avuto al respiratore anche persone con meno di 30 anni. Invito i giovani a riflettere sull’assenza di rispetto che un loro atteggiamento sottovalutante produce: l’assenza di coscienza sociale è egoistica e anche i giovani non sono comunque immuni al cento per cento a questo virus». A livello mondiale si dice che non c’è una produzione sufficiente di guanti e mascherine: «La distanza sociale è sufficiente per le persone sane. La coscienza sociale impone che la mascherina debba essere lasciata al personale sanitario e ai malati. Inoltre, quando una persona sana la indossa, tende a rispettare meno la distanza sociale, quando anche una persona in buona salute deve mettersi in condizione di non entrare in contatto con gli altri e in questi giorni di chiusura deve restare al suo domicilio». Sulle credenze di grappa, succo
d’arancia e bicarbonato come miracolosi rimedi antivirus: «Restano importanti gli universali principi di una vita sana, nessuna di queste misure ha dato prova particolare di efficacia né contro questo virus né contro quelli influenzali». Su voci più serie circa la ricerca e la sperimentazione su persone puntualizza: «Oggi non c’è alcun farmaco registrato e in vendita attivo contro questo virus. Alcuni farmaci hanno dato prova della loro efficacia in laboratorio, ci sono studi discordanti sulla reale efficacia di altri e l’unico ora usato nell’ambito di studi clinici o di cura compassionevole è di norma usato per le malattie autoimmuni». Anche su ciò lasciamo ai medici il timone della situazione. Garzoni sconfessa categoricamente voci e timori di un triage già in atto nei nostri ospedali: «Questa malattia può avere un altissimo grado di mortalità; nelle Direttive dell’Accademia svizzera delle scienze mediche si ribadisce che bisogna dare a tutti le eque chances di accesso alle cure, conside-
rando anche la probabilità di guarigione. Esse non precludono a nessuno l’accesso alle cure, ma aiutano i medici a trovare per ciascuna persona il corretto tetto curativo massimo, evitando l’accanimento terapeutico». Ci mancherebbe che, bisognosi di altre cure mediche o interventi non procrastinabili, non si possa accedere serenamente agli ospedali: «Ma certo che curiamo tutti! Ad esempio, sia a Locarno che Moncucco abbiamo annullato il programma operatorio elettivo, trasformando le sale in letti di cure intensive, salvo una sala operatoria a disposizione per gli interventi necessari che si svolgono in tutta sicurezza». Sulla sopravvivenza del virus sulle superfici lo stesso mantra: «Tutta teoria; vale la regola dell’igiene corretta e il frequente lavaggio delle mani. Rispettandole, sappiamo che in casa non c’è il virus e non dobbiamo compulsivamente disinfettare l’ambiente». Seguiamo l’invito di Garzoni, affinché Homo homini virus: l’uomo non diventi il virus di se stesso.
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Ambiente e Benessere
Dove andremo dopo la pandemia?
Ritorno al selvaggio Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Viaggiatori d’Occidente Gli ultimi ritorni già si mescolano a progetti di nuove partenze
Claudio Visentin È uno strano tempo, uscito dai suoi cardini, dove tutto sembra rallentare sino a fermarsi. Qualche settimane fa negli aeroporti c’era ancora movimento; molti si affrettavano a rientrare finché era possibile. Ora gli ultimi ritardatari postano su Instagram e Twitter fotografie di sale d’attesa e aeroplani desolatamente vuoti. Per esempio, la drammaturga Lindsey Ferrentino aveva prenotato ben tre posti sul volo da Newark a Orlando, per essere sicura di avere abbastanza spazio tutto per sé; soldi sprecati, poiché sull’Airbus A320, capace di centocinquanta posti, non c’era nessun altro passeggero. Il fotografo di «National Geographic» Pete McBride era da tempo sperduto nella Georgia del sud, in pieno Atlantico meridionale, circa milletrecento chilometri a sud-est dalle isole Falkland, in compagnia di pochissimi uomini ma ben duecentomila pinguini. È riuscito a tornare nelle Montagne rocciose del Colorado, dove vive, con uno degli ultimi voli e nell’ultima tratta da Chicago era l’unico passeggero: «Gli assistenti di volo, che sarebbero andati in Colorado anche senza di me, mi hanno offerto subito un upgrade (“Puoi sederti dove vuoi”) e snack infiniti. Poi ci siamo scattati dei selfie». Pete ha colto strane affinità tra luoghi molto diversi: «Quando lasciai casa, il mondo era ancora frenetico e io ero attratto dalla solitudine del deserto della Georgia del sud. Ma sono tornato in un mondo altrettanto silenzioso, per effetto dell’epidemia». Al momento Pete McBride è chiuso in casa come tutti e sta componendo una canzone, ispirata al verso dei pinguini, accompagnandosi con la chitarra. Per chi nutre la passione dell’altrove, la lettura della sezione dedicata ai viaggi nelle maggiori testate internazionali non è di grande conforto. Si va avanti con materiali d’archivio e i giornalisti di viaggio naturalmente sono sprofondati nella tristezza, come Toby Skinner, BBC Travel: «Lo so, c’è chi sta peggio di me, ma questo è un momento davvero difficile per un freelance. I miei progetti di viaggio nel Charyn Canyon in Kazakistan e nel Canyon Point nello Utah sono rinviati a tempo indeterminato. La maggior parte dei miei incarichi sono stati semplicemente annul-
«Sono alla fine del viaggio e avanzo con leggerezza, estasiato. Fiocco è libero e bruca sereno poco lontano da me. La luce del mattino illumina le graminacee ondeggianti e, oltre, le montagne sono ben delineate sul cielo chiaro… La bellezza è nella mia testa, sono carico dei momenti vissuti in questi undici giorni di cammino. Mi commuove la vicinanza di Fiocco, questo animale grande che per tutto il tempo mi è stato accanto senza chiedere nulla e donandomi tantissimo. Accanto a lui le preoccupazioni iniziali si sono trasformate in spensieratezza. Cammino sulle nuvole e non desidero niente di più…».
Quando tutto sarà passato una spiaggia assolata sarà il primo desiderio. (needpix.com)
lati. Per un breve periodo di tempo mi sono cullato nell’idea di noleggiare un camper e guidare verso l’isola di Eigg, a ovest della Scozia. Ora, come molti in tutto il mondo, devo stare a casa». Lizzie Frainier, «The Telegraph», ha riassunto la sorpresa di un’intera generazione: «I millennial come me davano il viaggio per scontato, ora comprendiamo quanto fosse invece un privilegio. Il coronavirus ci ha dato il tempo per riflettere e capire quanto siamo stati fortunati per aver potuto vedere così tanti Paesi del mondo. Negli anni scorsi le vacanze erano diventate più economiche che mai (sia pure ai danni dell’ambiente) e ognuno di noi poteva raccontare storie di city break e lunghi viaggi avventurosi. In qualche modo il viaggio non era più un privilegio, quanto un diritto, parte della mia vita quotidiana. In questo modo però avevano forse perso qualcosa del suo splendore. Per esempio, mi è capitato di mandare un’e-mail mentre attraversavo le straordinarie montagne della Colombia o di scorrere i social su una panchina di Budapest invece di ascoltare il canto degli uccelli intorno a me». Questa sosta forzata potrebbe essere un’occasione per stabilire un nuovo rapporto con la nostra casa. Come ha sottolineato lo scrittore Simone Perotti, dopo tutto investiamo la maggior parte
del nostro tempo e dei nostri guadagni per comprare e mantenere la nostra casa, eppure ci passiamo solo il tempo residuale dopo il lavoro e gli svaghi. Qualche anno fa Perotti ha lasciato una redditizia carriera per scrivere e navigare. All’inizio della nuova vita ha comprato per poco e risistemato con le proprie mani un vecchio fienile del Seicento in Val di Vara: «Un uomo dovrebbe sempre costruire la casa in cui si ripara. La manualità, fare le cose, stancarsi fisicamente è una questione di senso della vita. Farlo recuperando, riusando, aggiustando, è una diga contro l’assurdo». Questo tempo sospeso nella sicurezza delle nostre case è perfetto per immaginare i viaggi che faremo quando torneremo alla normalità. Nell’immobilità, senza distrazioni, capiamo meglio i nostri desideri più profondi. Per parte mia, non appena sarà possibile, voglio attraversare la Romania con un vecchio sidecar sovietico, da Bucarest sino alle leggendarie Porte di ferro del Danubio, la profonda gola scavata dal fiume al confine tra Serbia e Romania (l’idea è nata in margine alla lettura del bel libro di Mario Casella, Oltre Dracula. Un cammino invernale nei Carpazi). Anche gli Inglesi sembrano avere le idee ben chiare e sulla base delle loro ricerche online (fonte Sojern/«Daily
Mail») sappiamo che sognano le spiagge della Spagna (+1600% rispetto a un anno fa) e dell’Italia. E poi la Francia naturalmente, come sottolinea Anthony Peregrine, «The Telegraph»: «Tutto questo non può durare per sempre. O almeno voglio pensare che sarà così. E poi? E poi dovremo allungare le gambe. Dove? Francia, ovviamente. Perché? È più vicina che qualunque altro posto (a parte l’Irlanda). È più facile da raggiungere. Ed è dove andiamo sempre. Pensiamo che i francesi siano perfidi, arroganti e misteriosamente infatuati di Johnny Hallyday, ma non riusciamo a stare lontani da loro. Li visitiamo tredici milioni di volte ogni anno, siamo i loro migliori clienti e senza dubbio lo saremo di nuovo quando finalmente il virus si leverà di torno». Anthony trova poi venti diverse ragioni per assecondare il suo desiderio, a cominciare dal cibo. «The Guardian» ha chiesto invece ai suoi lettori dove vorranno tornare. Mary O’Keeffe ha proposto l’antico, perfetto teatro di Epidauro, in Grecia: «Dieci anni fa eravamo a Epidauro e a turno scendevamo nell’orchestra per recitare passi da Sofocle o Euripide, due tra gli scrittori più profondi di tutti i tempi. Sono stati dieci anni turbolenti per la Grecia e per noi. Ma quando la polvere si sarà posata, ci farà bene tornare qui e ricordare a noi stessi l’eterna saggezza e la gioia di vivere».
Camminare nei boschi in compagnia di un asino: ecco un altro viaggio perfetto per quando potremo nuovamente uscire di casa. Qualcuno si spinge sino a parlare, in tutta serietà, di onoterapia: ovvero l’asino come cura, medicina per le malattie dello spirito. La Svizzera è uno dei Paesi dove è più diffusa. Di certo l’asino è un ottimo compagno di viaggio ed è di grande aiuto per ristabilire una connessione profonda con la natura. L’asino invita ad abbandonare la strada maestra, a riscoprire sentieri dimenticati, campi inselvatichiti, paesi abbandonati: tutta la bellezza nascosta nelle pieghe del paesaggio. Alfio è un giardiniere specializzato nella potatura di grandi alberi in arrampicata (tree climbing). Intorno ai quarant’anni si accorge che nel lavoro, nel rugby, persino nei cammini in montagna cerca di essere sempre più veloce, efficace, produttivo, schiavo del risultato. Sarà l’asino Fiocco a cambiare questa prospettiva. Dapprima le cure al giovane asino malato, poi i primi viaggi nei dintorni, presto seguiti da altri più impegnativi ma al tempo stesso sempre più lenti... Bibliografia
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Ambiente e Benessere
Come contrastare il virus sui cibi?
La nutrizionista Gli alimenti non trasmettono direttamente il Covid-19, tuttavia si possono attuare facili
e utili accorgimenti per contenere il rischio legato a un eventuale contagio indiretto
Laura Botticelli Cari lettori, per il contributo di questo mese ho deciso di non rispondere alle vostre domande (di cui vi ringrazio, come sempre, di tutto cuore), ma di darvi alcune informazioni, spero utili, riguardo al Covid-19 in correlazione all’alimentazione. È fondamentale dirvi, a mio parere, che secondo le attuali evidenze scientifiche il Covid-19 non si trasmette direttamente col cibo e infatti non è stato segnalato nessun caso di contagio collegato alla contaminazione da esso. SARS-CoV-2, che causa COVID-19, non si trasmette attraverso la sua introduzione nell’apparato digerente, ma solo quando entra nell’apparato respiratorio. Giova, infatti, ricordare che il virus viene comunemente trasmesso direttamente, da persona a persona, quando si è in stretto contatto, attraverso goccioline respiratorie prodotte se una persona infetta tossisce o starnutisce. Queste goccioline infatti possono atterrare nella bocca o nel naso di persone che si trovano nelle vicinanze o possono essere inalate e trasportate fin nei polmoni. Il virus si trasmette anche indirettamente, attraverso il contatto con superfici che una persona infetta ha contaminato tossendo o starnutendo o con le mani sporche. Le attuali informazioni suggeriscono che il virus potrebbe soprav-
Gli alimenti crudi è meglio lasciarli in «quarantena» a casa per 2-3 giorni e poi lavarli e sbucciarli prima di mangiarli. (Pexels.com)
vivere fino a 72 ore (3 giorni) su superfici dure, a seconda del materiale. Tuttavia, il numero di virus si ridurrà considerevolmente nel tempo man mano che si estingue e i disinfettanti domestici semplici possono ucciderlo. A questo punto la domanda, più che lecita, è se il cibo possa essere paragonato a una qualunque altra superficie come plastica, vetro eccetera. Al momento ci sono poche informazioni scientifiche sulla sopravvivenza del COVID-19 sulla superficie
del cibo aperto (carne dal macellaio, verdura, frutta e via elencando). In linea più generale, lavorare con virus simili mostra che alcune superfici alimentari non consentono al virus di sopravvivere affatto, ma alcuni lo fanno. Il cibo quindi potrebbe accogliere il virus in forma inattiva: non si può moltiplicare su di esso ma vivere lì come «parassita» aspettando un essere vivente per poi infettarlo. Cosa fare quindi? Le filiere alimentari seguono già normalmente
protocolli sulla igiene e sicurezza alimentare e sicuramente in questo periodo li hanno incrementati. A casa, se si consumano alimenti crudi come frutta e verdura è meglio non mangiarli appena comprati ma lasciarli, mi si conceda il termine, in quarantena in casa per 2-3 giorni e poi lavarli e sbucciarli. L’OMS suggerisce di pulire sempre mani e alimenti prima del consumo; consumare alimenti cotti, in particolare carne e pesce poiché il virus viene inattivato a partire da
70°C; utilizzare taglieri e utensili separati per la lavorazione di cibi crudi e cotti. Lavare e asciugare i piatti in lavastoviglie a una temperatura di 60°C o superiore è efficace per eliminare qualsiasi rischio. Per quel che concerne la prevenzione del virus, sono girate news sull’efficacia di integratori vari o protocolli alimentari specifici finalizzati al miglioramento del sistema immunitario contro il virus, ma gli esperti avvisano che, per quanto si sa scientificamente su questo argomento, le misure hanno senso e sono state verificate per setting in condizioni standard, non in una fase di acuzie e soprattutto in presenza di un germe così poco conosciuto. Chi fa già da tempo uso di vitamina C, vitamina D, micoterapici può continuare senza necessità di sospenderli, ma pensare di prenderli per contrastare il virus come suggeriscono alcuni blog o link è un modo triste di alcune aziende di sfruttare la tragedia del momento. Mangiate bene seguendo i principi della piramide alimentare, state a casa e cerchiamo di essere fiduciosi. Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
La cucina creativa della Valle d’Aosta Gastronomia Quando si può fare affidamento solo su un numero ristretto di prodotti, si tiene solida
La Valle d’Aosta ha trasformato il suo isolamento in una forza gastronomica. Da sempre la regione fa affidamento sui prodotti dell’allevamento (carne, latte, burro, formaggio), sui frutti del bosco (castagne, noci, nocciole, frutti selvatici) e sulle poche coltivazioni possibili, in particolare mele, pere e cereali (mais, grano saraceno e segale). L’isolamento di molte aree ha stimolato la creatività in cucina, il resto lo fa il solido attaccamento alle tradizioni regionali.
Carne, latte e burro, poi polenta, quasi nessun piatto di pasta, qualche zuppa, e pesce limitato alla trota da torrente Quasi tutti i piatti valdostani profumano di burro e annoverano tra gli ingredienti fondamentali il latte e il formaggio, in particolar modo la fontina. Immancabile la polenta, di sola farina gialla integrale, oppure di farina di mais e saraceno: può essere tagliata a fette e alternata con ragù, salsiccia e fontina, oppure condita con fontina, burro e parmigiano (e allora prende il nome di concia); sostituisce il primo piatto di pasta (rarissimo) e si accompagna sempre agli stufati di carne o al formaggio. Può essere anche preceduta da antipasti come salumi e insaccati locali come il saporito lardo di Arnad e la gustosa mocetta (prosciutto un tempo preparato con la coscia dello stambecco, oggi con manzo, camoscio o capra); il «selvatico» prosciutto di Bosses; il teteun, mammella di mucca bollita e affettata, dal delicato sapore di latte; l’antipasto alla chaumière, patate bollite servite calde con sanguinacci e salsicce, come i boudin, preparati con patate o bar-
babietole, sangue di maiale, lardo e spezie; i tomini alle erbe di Peranche, insaporiti con olio, aceto, timo, prezzemolo, salvia, sedano, peperoncino e noce moscata; le castagne lessate e caramellate con burro e zucchero, una variante meno comune, ma interessante, tra gli antipasti. Ampio l’assortimento di zuppe, spesso preparate con il buon pane di segale, che tagliato a pezzetti dà il tocco finale alla seupetta à la cogneintze (o risotto di Cogne), un primo piatto piuttosto brodoso arricchito di fontina. Sempre con il pane di segale si preparano la soupe paysanne (toma, cipolle e burro), la zuppa alla ueca (orzo, fontina e pancetta) e la seupa à la vapelenentse (cavolo e fontina). Altre preparazioni brodose sono la minestra di riso e rape, condita con il burro; l’insolita zuppa di Arey, con uova, latte, vino rosso, zucchero, noci, cannella, grissini spezzettati e noce moscata; la gustosa minestra con le castagne, sempre a base di latte. Lo stesso ripieno di prosciutto e fontina insaporisce la cotoletta alla valdostana, una tasca di vitello impanata e fritta. La fontina è poi alla base di un’altra celebre ricetta della regione, la fonduta, molto simile alla variante piemontese, servita con crostini, o come alternativa, con la polenta. Quest’ultima è immancabile anche con la carne. Accompagna per esempio la selvaggina in umido (capriolo, camoscio) ma dà il meglio di sé con la carbonata (o carbonnade): spezzatino di manzo e cipolle, preparato con carne fresca o con carne salata affettata o a dadi alternata a strati di sale, aglio, salvia e rosmarino. Il consumo di pesce è limitato alla trota di torrente, cucinata alla mugnaia o in padella con le mandorle. Tra i contorni dominano le patate e i cavoli, che possono essere stufati con patate, prosciutto e salsiccia. Tra i dolci, sono famose soprattutto le tegole di Aosta, sottili biscotti a base di nocciole, noci e miele.
CSF (come si fa)
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Allan Bay
Ferruccio Zanone
la tradizione ma si può anche aguzzare l’ingegno
Vediamo come si fanno 4 semplicissime (che proprio di più non si può) ricette con la verza. È inutile parlare bene di questa verdura: in gran sintesi, nutrizionalmente corretta più di tutte le altre. E poi è anche buona: chi non lo condivide, esca da questa pagina! Verza con la maionese (ingredienti per 4 persone). Mondate 400 g di verza e tagliatela a julienne. Dissalate una manciata di capperi sotto sale. Lavate una manciata di olive nere, denoccio-
latele e spezzettatele a piacere. Mettete in una ciotola la verza, le olive e i capperi e mescolateli con 8-10 cucchiai di maionese. Insalata di verza e lardo (per 4 persone). Tagliate a julienne 80 g di lardo. Mondate e tagliate a julienne 500 g di verza, lavatela e sciacquatela. Fate sciogliere il lardo in un tegamino antiaderente, con un pizzico di sale e di pepe, unite 4 cucchiai di aceto e fatelo appena riscaldare. Mescolatelo con la verza e servite. Verza al pomodoro (per 4 persone). Mondate 500 g di verza e tagliatela a julienne. Scaldate in una casseruola un filo d’olio con uno spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato e rosolate il cavolo per 4 minuti. Unite 150 g di salsa di pomodoro, 4 cucchiai di soffritto di cipolle e un bicchierino
d’acqua bollente e cuocete per 6 minuti, mescolando. Regolate di sale e di peperoncino. Verzata in crema (per 4 persone). Mondate 500 g di verza, spezzettatela e sbollentatela per 5 minuti. Mondate e tritate un porro e rosolatelo con poco olio per 5 minuti, unite la verza e cuocetela per 20 minuti, versando poca acqua bollente se asciugasse troppo. Alla fine frullatela, poi rimettetela in padella e aggiungete 200 g di grana grattugiato; cuocete a fuoco dolcissimo per pochi minuti, mescolando e unendo poca acqua bollente solo se necessario. Regolate di sale e di pepe e profumate con abbondante noce moscata. Servite questa robusta crema accompagnata con carne lessa a piacere, meglio se di gallina, cotechino o salame cotto.
Ballando coi gusti Oggi, due ricette a base di merluzzo: per la prima va bene fresco o decongelato, per la seconda va bene quello salato, il baccalà.
Merluzzo coi peperoni
Baccalà con le fave
Ingredienti per 4 persone: 800 g di merluzzetti mondati 1 peperone giallo · 1 cipolla rossa · 1 foglia di alloro · limone · capperi sotto sale · sale e pepe. Per la salsa: prezzemolo · succo di limone · olio di oliva · sale e pepe.
Ingredienti per 4 persone: 600 g di baccalà bagnato · 300 g di fave secche · il succo di 1 limone · 2 spicchi di aglio · alloro · olio di oliva · sale e pepe.
Mettete sul fuoco un’ampia casseruola con abbondante acqua e aromatizzatela con fette di limone, alloro, sale e qualche grano di pepe. Appena bolle, abbassate la fiamma e cuocete i merluzzetti per 3 minuti. Scolateli e levate la pelle. Per la salsa, versate in un vasetto di vetro a chiusura ermetica l’olio con il succo dei limoni filtrato, un trito di prezzemolo, sale e pepe. Chiudete e agitate energicamente. Lavate il peperone, privatelo dei semi e dei filamenti e tagliatelo a listarelle. Mondate e tagliate a fette la cipolla. Dissalate i capperi. Spezzettate i merluzzetti, impiattateli. Sistemate sul pesce il peperone, la cipolla e i capperi, condite con la salsa e servite.
Lasciate le fave in ammollo per un giorno intero, rinnovando l’acqua almeno 2 volte. Lessatele in acqua sobbollente con una foglia di alloro finché saranno tenere, quindi da 1 ora in su. Scolatele. Lessate in acqua salata il baccalà per 2 minuti. Sgocciolate il pesce e mondatelo, privandolo delle lische e, se volete ma non è indispensabile, della pelle, quindi riducetelo a pezzi non troppo piccoli. Emulsionate il succo del limone con l’olio; unite l’aglio schiacciato, salate, pepate e mescolate fino ad avere una salsa. Disponete il baccalà nei piatti, copritelo con le fave, condite con l’emulsione e servite.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 aprile 2020 • N. 16
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Ambiente e Benessere
II boreale abete rosso soffre il caldo Clima Il surriscaldamento terrestre consente di arginare il massiccio impianto di abeti rossi, pini e larici,
a favore dei nativi faggi e querce, fisiologicamente meglio attrezzati
Pian di Peccia. (Claudio Vosti)
Alessandro Focarile «La pescia l’è l’arbor dii dispiasée», rifletteva un vecchio forestale della Valle Blenio nell’Alto Ticino. Questo albero è, infatti, fonte di serie preoccupazioni per quanto riguarda il suo stato di salute e la sua stessa sopravvivenza sull’Altopiano svizzero, nelle Alpi, e nell’Europa centrale. Soprattutto in quei vasti territori europei dove è stato artificialmente piantato dall’uomo durante gli ultimi 200 anni, dopo avere distrutto la foresta primaria, formata di faggi, querce, olmi, aceri e frassini. È in seguito a questo massiccio intervento che l’abete rosso costituisce l’elemento dominante del paesaggio forestale attuale su superfici di migliaia di chilometri quadrati. In epoca attuale, dalle peccete della Leventina fino alla Scandinavia nei territori non occupati dalle infrastrutture create dall’uomo, il bosco contiene anche monotone distese di abete rosso. Distese di alberi piantati con rigorosa geometria di militaresca concezione. Sotto l’energico impulso di potenti interessi economici, in passato l’impostazione della gestione forestale era volta all’imperativa coniferazione:
piantare abeti, pini e larici. Questa politica attuata dapprima in Germania, era ripresa da tutti i Paesi del Centro Europa, fino nei Balcani. In tal modo, si era venuto a creare un proficuo sodalizio di interessi (Forst-Kapitalismus), che vedeva il potere politico (e quindi decisionale) dettare le regole del gioco attraverso la selvicoltura statale. Tale situazione si coniugava con il potere di influenti produttori e mercanti di legname.
I «bostrici» sono la conseguenza e non la causa della morte dell’abete rosso L’abete rosso, con la sua struttura lineare, i tronchi privi di nodi, la relativa rapida crescita, era (ed è) l’albero ideale per una fiorente industria forestale. La selvicoltura classica dovrebbe rispettare le esigenze della Natura nel suo complesso (il concetto di ecosistema forestale). Ma non è così, quando essa asseconda soltanto gli interessi
Localizzazione dei bostrici e di un coleottero curculioide sulle differenti parti dell’albero. (A. Focarile)
economici, cioè lo sfruttamento intensivo del bosco, e non la sua salvaguardia, e il suo razionale e compatibile utilizzo. A questo proposito, grande è il dissenso dei selvicoltori e dei mercanti di legname in merito alla proposta del governo tedesco di mettere sotto integrale tutela il cinque per cento della superficie forestale della Germania (Wohlleben, 2017). Per fortuna, il cambiamento climatico in atto consente di arginare il massiccio impianto di abeti rossi, pini e larici. Faggi e querce sono fisiologicamente attrezzati per affrontare i cambiamenti climatici. Invece, saranno le specie non indigene (allòctone) come le conifere, già problematiche a basse quote, che saranno in difficoltà per sopravvivere. Il quadro climatico che favoriva l’impianto dell’abete rosso (Picea abies) ai primordi della massiccia coniferazione, era caratterizzato dall’avvento della «piccola era glaciale» (1450-1850). Quattrocento anni in cui le estati furono più fredde, gli inverni più nevosi e i ghiacciai alpini ebbero un notevole sviluppo, con drammatiche conseguenze per la vita e le attività umane: abbandono delle alte terre messe a coltura e utilizzate per la pastorizia durante diversi secoli, cessazione dei proficui traffici attraverso gli alti colli delle Alpi occidentali, l’abbandono dei canali faticosamente costruiti per l’irrigazione. Molti fattori minacciano attualmente il bosco nella sua interezza. Innanzitutto, gli ossidi d’azoto rilasciati da milioni di veicoli (nonostante i catalizzatori), a cui fanno seguito gli spargimenti di liquami con i trattori, i gas intestinali generati dal bestiame, i concimi azotati, usati dall’agricoltura. Tutto questo va a formare una pioggia di ammoniaca, che ricade nel bosco, e che oltre agli acidi, fa assorbire a ogni albero abbondanti quantità di azoto. Infine, va annoverato anche il danno prodotto dalle macchine impiegate per la raccolta del legname, che schiacciano le radici superficiali, caratteristica morfologica dell’abete rosso. Lo stato di sofferenza è una costante per l’abete rosso che, lontano dalle sue terre d’origine, patisce il caldo (foto) e la siccità. Nonostante la notevole «plasticità ecologica», espressa attraverso la varietà di adattamento morfologico, questo albero non può
Termometri sul tronco di un abete rosso: all’ombra a sinistra, e in pieno sole a destra. (Alessandro Focarile)
tollerare, oltre una certa soglia, i limiti fisici che gli consentono di vivere in buone condizioni. Segni incipienti di deperienza sono palesati dall’eccesso di traspirazione, dallo scoppio dei canali resiniferi per i colpi di calore, dall’abbondante formazione di pigne (stròbili), detta «pasciona». Sono tutti sintomi di debolezza, che favoriscono l’insorgere di patologie: funghi, bostrici, insetti defogliatori, e succhiatori (afidi). Picea abies, e il fratello Picea obovata (entrambi abeti rossi), hanno una differente struttura e architettura. Ricordando che il loro apparato radicale superficiale è protetto nella loro patria d’origine con un materasso di muschi, rododendri e mirtilli. Questa caratteristica evidenzia l’assenza di violenti venti. A seguito della differente qualità e quantità della copertura nevosa, Picea abies ha una ramificazione prevalentemente orizzontale per sopportare il peso della neve: i rami più elevati poggiano su quelli più bassi, conferendo all’albero il suo caratteristico aspetto piramidale. Per contro, Picea obovata, il nome è evocativo, ha una ramificazione meno sviluppata verso il basso, per evitare i freddi intensi prossimi al suolo. Diverse sono le cause che provocano la progressiva deperienza e morte di questi alberi. Cause fisiche: incendi, eccesso di calore, siccità. Cause traumatiche: vento, fulmini, alluvioni, frane. Trentacinque specie di coleotteri scolitidi (bostrici) sono infeudate all’abete rosso nell’Eurasia. Esse popolano l’albero nelle sue differenti parti in funzione dell’altezza (v. disegno): dalle radici fino ai rami più alti, magari a 40 m d’altezza.
Ciò che permette un razionale e non conflittuale utilizzo del substrato organico da parte degli insetti. I «bostrici» sono dunque la conseguenza e non la causa della morte dell’abete rosso! Che tempo fa in Siberia? Non è una terra per alberi e uomini deboli. La taiga siberiana, la più vasta superficie forestale esistente sulla Terra con i suoi sei milioni di chilometri quadrati, è formata di abeti rossi, pini e larici, secondariamente di pioppi tremuli, sorbi e betulle. Quali sono le caratteristiche climatiche di questa imponente e ininterrotta foresta? Essa conosce innanzitutto la più elevata escursione termica registrata a livello mondiale, pari a 60°C/70°C, e cioè la differenza tra la temperatura media estiva (pari a +10°C) e quella minima invernale (–50°C, con valori estremi di 70/80 gradi sotto zero). Per confronto, l’escursione termica a Faido in Leventina è pari a 14°C, e quella di Aosta a 22°C. Le precipitazioni (pioggia + neve) sono modeste. 200-250 millimetri annui, compensate da un elevato tasso di umidità atmosferica durante il corto periodo estivo. Una prolungata presenza della neve al suolo: da ottobre a giugno. Una differente qualità della neve, presente sotto forma di ammassi di cristalli di ghiaccio. 20-30 centimetri originati soltanto da qualche sporadica nevicata. Da confrontare con le più o meno numerose nevicate che si succedono nel corso della stagione in Scandinavia, nell’Europa centrale e sulle Alpi. Queste cifre fanno riflettere sull’entità delle sollecitazioni fisiologiche alle quali è sottoposta la vita degli alberi. È evidente la notevole differenza dei fattori climatici e quindi ambientali, che conosce l’abete rosso in Siberia e nelle regioni europee. Qui, tempi grami lo attendono. Bibliografia
Paul Gensac. Les pessières de Tarentaise comparées aux autres pessières.: alpestres. In: Vegetation und Flora der Westalpen. (Veröffentl. Geobotan. Institut der EFT, Stiftung Rübel (Zürich 1970, 43:104-139. Schmidt Vogt. Die Fichte. Paul Parey Verlag (Hamburg), 1977, 2 voll. Peter Wohlleben. La saggezza degli alberi. Garzanti Editore (Milano) 2017, 209 pp.
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Ambiente e Benessere
Aiuta gli altri, e alimenta se stesso
Ferma la slow Up, rimandata la Stralugano Agenda Cambio
Sport Sono numerose le iniziative nel mondo dello sport a favore della lotta al Coronavirus
Giancarlo Dionisio Lockout e mobilitazione. Sono le parole-chiave del lessico sportivo di queste settimane. La prima è chiara: significa «serrata», «chiusura» totale di tutti gli impianti sportivi, e blocco assoluto delle attività agonistiche. Il rischio di contagio ha ricondotto a più miti consigli anche i più spregiudicati. La seconda significa: «mettiamo mano ai cordoni della borsa». Da un lato perché il sistema sanitario ha bisogno di qualsiasi forma di sostegno finanziario. Quindi, facendo delle donazioni, lo sport si rende protagonista di una prestazione eticamente encomiabile. Dall’altro perché aiutando i suoi datori di lavoro, riducendo i salari, gli atleti contribuiscono a salvare l’humus economico in cui si muovono, e di conseguenza garantiscono continuità alle loro attività, una volta che si sarà tornati alla normalità.
Lo sport pensa alla ripresa, sperando che le ferite non siano troppo profonde Non ho nessuna intenzione di stilare classifiche, e tanto meno di dividere gli sportivi in buoni e cattivi. Non posso escludere che ci siano molte persone che hanno agito nel totale anonimato, senza pubblicizzare il proprio operato. Mi limito quindi a sottolineare quanto hanno fatto, in questi giorni, alcuni personaggi-icona. Il tennis, attraverso le sue star, è stato uno dei primi ambiti a mobilitarsi. Si è mosso subito Roger Federer, con la moglie Mirka, donando
un milione di franchi alle famiglie svizzere più bisognose. «Questo nostro contributo – ha dichiarato l’asso della racchetta – è solo un inizio. Speriamo che altri ci seguano». Così è stato. Gli ha fatto subito eco Rafael Nadal, che unitamente alla stella della NBA Pau Gasol, ha lanciato una raccolta di fondi a favore della Croce Rossa spagnola, facendo appello alla generosità di tutti gli sportivi del suo paese. L’obiettivo è raggiungere quota 11 milioni di euro. C’è da credere che il contributo iniziale dei due promotori sia stato cospicuo. Non poteva restare inattivo il terzo fenomeno, l’attuale numero uno della classifica mondiale. Novak Djokovic e la consorte Jelena si sono pure lanciati in questa sfida di generosità, mettendo a disposizione della Serbia un milione di euro per l’acquisto di respiratori e di altro materiale sanitario. Qualcuno dirà: «Se lo possono permettere». Vero, ma nessuno li ha costretti. Il fatto di essersi messi in campo, implica il riconoscere il loro statuto di esseri umani privilegiati, ricoperti di onori e denaro, ma anche di cittadini pronti a rendere qualcosa a chi sta soffrendo in un momento drammatico della storia recente. Chapeau! Non si è fatta attendere la risposta del mondo del calcio. C’è chi, come Cristiano Ronaldo si è impegnato a favore del suo Portogallo; chi come Pep Guardiola e Leo Messi, ha voluto versare un milione di euro a strutture sanitarie attive in Catalogna; e chi, come Pippo Inzaghi, Ciro Immobile e moltissimi altri loro colleghi, oltre a donare un proprio contributo, ha messo a disposizione la propria immagine per favorire la raccolta di fondi, perché «ogni gesto può fare la differenza». Alcune società sportive – citarle
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Tanti del mondo dello sport scommettono contro il Covid-19, puntando tutto quello che possono. (pexels.com)
tutte ci porterebbe lontano – hanno stanziato fondi mirati per l’acquisto di mascherine, un bene tanto prezioso quanto difficilmente reperibile. I grandi club della Bundesliga hanno devoluto 20 milioni di euro alle società finanziariamente più deboli. Si tratta di gesti importanti, solidali, anche se non strettamente votati alla lotta contro il Covid 19. Così come lo sono state le trattative tra società e calciatori in merito alla riduzione dei salari. Le sorvoliamo con leggerezza, per evitare di addentrarci in un terreno minato. Credo sia opportuno sottolineare la diversità di ambiti: da un lato troviamo la generosità e la solidarietà, figlie di slanci volontari e individuali; dall’altro il rapporto contrattuale tra due partner sociali, non necessariamente obbligati a fare delle concessioni.
Concludo con tre immagini: i leggendari stadi del Maracanà e del Santiago Bernabeu, e il Centro del CONI di Coverciano. Tre luoghi simbolo dello sport brasiliano, spagnolo e italiano, trasformati in ospedali di fortuna. Italia e Spagna, sono tristemente in testa alla classifica dei contagi e dei decessi. Il Brasile, ha preso da poco la rincorsa, solo perché laggiù la pandemia è arrivata e decollata con un paio di settimane di ritardo. Dopo uno scellerato periodo in cui il presidente Jair Bolsonaro aveva sottovalutato il fenomeno e aveva stabilito un piano di intervento sciaguratamente minimalista, da pochi giorni sta tornando sui suoi passi onde evitare che il suo paese metta la freccia ed effettui il più periglioso dei sorpassi. E sorpassare in galleria, lo si sa, può avere degli effetti devastanti. Che arrivi in fretta la luce.
I motivi di sicurezza legati all’attuale situazione sanitaria stanno rivoluzionando il calendario delle manifestazioni programmate nel nostro cantone. L’incertezza generale consiglia a molti organizzatori di rinunciare o rinviare gli eventi previsti, per assecondare le normative delle autorità e per la sicurezza dei loro utenti. Sarà quindi annullata la prevista giornata dedicata alla mobilità lenta, slowUp, che quest’anno avrebbe dovuto proporre il 19 aprile la propria edizione sul tradizionale percorso lungo il fiume Ticino, sul piano di Magadino. Per contro è stata spostata al 29 e 30 agosto l’attesissima StraLugano 2020, gara podistica che si terrà per la 15ma volta nella città sul Ceresio. Le iscrizioni già registrate fino a oggi, verranno considerate valide per la nuova data, alle stesse condizioni attualmente in vigore e proseguono quindi attraverso i canali abituali sul sito www.stralugano.ch.
Entrambi gli eventi sono sostenuti da tempo da Migros Ticino.
Le vincite di carte regalo da 50 franchi per le soluzioni del cruciverba e del sudoku sono sospese fino al termine dell’emergenza di Covid-19
Cruciverba Sapresti dire come si chiama il verso del gufo e quello del pavone? Scoprilo rispondendo alle definizioni e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 8, 9)
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di programma per le due giornate
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ORIZZONTALI 1. Foro 4. Prima del presidente Trump (Iniz.) 6. Articolo spagnolo 7. Una fase del sonno 8. Sono pari nel guado 9. Se è caldo è fresco 10. Si controlla alla stazione 13. Isola francese 14. Arbusto spinoso 18. Un condottiero biblico 20. Avverbio di tempo 21. È sbagliato metterlo prima di zero... 22. Isabella per gli amici 23. Cortile delle case spagnole 25. «Ut» per Guido d’Arezzo 26. Capitale della Lettonia 27. Abbreviazione di titolo onorifico 29. Il famoso Carrisi 30. Lo sono alcune barbe VERTICALI 1. C’è anche quello «elettrico» 2. Corso d’acqua nei deserti africani 3. Le iniziali dell’attore Slater 4. Hanno un valore economico 5. In opposizione all’allopata 7. Sporadiche 9. Ci sono anche eoliche 11. Un anagramma di arsi 12. Non del tutto bagnata 15. I vicoli di Venezia 16. Lettera dell’alfabeto greco 17. Verdi anche se mature 19. Spesso involucro del nucleo terrestre 20. Personaggio delle fiabe 23. Un codice d’accesso 24. Ha una pelle famosa 26. Le iniziali dell’attore Alpi 28. Le iniziali del Duca della Vittoria
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Soluzione della settimana precedente
IL SIGNIFICATO DELLE PAROLE – Parola e significato risultante: FILAUTIA, AMORE ECCESSIVO DI SÉ. F I A T O C O N O
I L A R E M I R R M O A R A R A E C I A S I E N A I O T R V A C L O D I A S S E O
A I T A A C C A
B R A D I E C E A V O A R E E’ R
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Per piante vigorose e tappeti erbosi verdissimi.
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Terriccio universale di qualità COMPO SANA Per tutte le piante da appartamento e da balcone, 20 l 6580.160
Sufficiente per 800 m2
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a partire da finora 8.95
finora 9.95
Concime universale e concime per giardino GESAL öko balance
Terriccio universale COMPO öko balance Per tutte le piante da appartamento, da balcone e da giardino, bio/vegano, 20 l 6581.142
Sufficiente per 250 m2
Bio/vegano Per es. concime universale, 1 l, ora 6.95, finora 8.95 Per es. concime per giardino, 2 kg, ora 7.95, finora 9.95 6582.434/436
Sufficiente per 125 m2
33% 41.50 finora 62.40
20% 47.95 finora 59.95
20% 29.95
Concime per tappeti erbosi a effetto prolungato GESAL
Sementi per prati da gioco e sport GESAL
Risemina prato GESAL, per un prato verde e folto
Agisce fino a 3 mesi, 20 kg per 800 m2 6582.331
Per un prato folto e resistente, 5 kg per 250 m2 6580.133
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Politica e Economia La Cina è ripartita Il cambio della narrazione della pandemia voluto da Pechino è un fattore per capire quale ruolo giocherà la Cina in futuro
Newsletter della pandemia Dalla «liberazione» di Wuhan al clima da Grande Depressione negli Stati Uniti. Sono due esempi di prefigurazioni del mondo che verrà dopo il grande contagio da Covid-19 e che non sarà più quello che avevamo conosciuto pagina 25
La primavera non sbocciata La toccante testimonianza di Francesca Mannocchi che racconta come il Covid è una malattia che non colpisce un singolo, ma ci colpisce tutti e che ci costringe a chiederci: Perché proprio a noi? pagina 26
pagina 24 Ad allargare la frattura fra europei, oltre all’aspetto economico c’è anche quello sanitario. (AFP)
La faglia europea
Nord contro Sud La battaglia scatenata soprattutto da Italia e Spagna per chiedere aiuti alla loro economia
mette in questione le radici stesse dell’Unione
Lucio Caracciolo Ci può essere un’Unione Europea, o un’Eurozona, se gli interessi dei soci che la compongono divergono radicalmente? Anzi, sono percepiti a somma zero? Il tabù europeista ha finora evitato di rispondere a questa domanda. La crisi scatenata dal Covid-19 l’ha resa attualissima. Cogente. In gioco è in questi mesi non semplicemente la solidarietà tra gli associati di fronte a una tempesta economica e finanziaria, oltre che sanitaria, senza precedenti. Molto più: si tratta di verificare la ragione sociale dell’impresa. E non in base a criteri puramente economici, tanto meno a breve termine. La battaglia scatenata in Europa da Italia, Spagna e Francia, con la richiesta di emissioni speciali di titoli europei a basso costo e lunga scadenza – eurobond o coronabond, il nome conta poco – per sostenere il finan-
ziamento di investimenti necessari a tenere in piedi le loro economie, in ultima analisi lo Stato e la società stessa, mette in questione le radici stesse dell’Unione. A partire dall’Eurozona. La resistenza olandese, più moderatamente tedesca, e in genere nordica alla richiesta dei «latini», vissuta come una estorsione, è violenta. Il compromesso di basso profilo che potrà uscirne non sarà tale da rispondere positivamente alla domanda iniziale. Le ragioni dell’Unione Europea sono in crisi e potrebbero essere spazzate via dalle conseguenze dell’epidemia. Al di là degli strumenti finanziari su cui i ministri delle Finanze e i capi di governo battagliano e continueranno a litigare in assenza di una prospettiva di concreta risalita dal baratro, il problema è infatti culturale e geopolitico. Culturale, perché nella partita della mutualizzazione o meno del
debito, in una forma o nell’altra, non sono in ballo solo criteri e politiche strettamente economiche e finanziarie. Si scontrano culture, non solo economiche. Sul fronte Nord le «formiche», forti della relativa saldezza di base delle strutture produttive e di bilanci pubblici sostenibili, non sono disposte a compromettersi con le «cicale» meridionali, scialacquatrici e inaffidabili: chi li garantisce che i «latini» non prendano i soldi e scappino, continuando ad accumulare montagne di debito? Sul fronte Sud, italiani e spagnoli in testa, con il supporto piuttosto peloso dei francesi, invocano la solidarietà degli altri soci nell’ora più grave. E insistono che in ballo c’è molto più dei conti pubblici. C’è la capacità di reagire insieme a una emergenza mai vista. Ad allargare la faglia fra europei, e a confermarne la radice culturale, il diverso approccio all’emergenza sa-
nitaria. Gli italiani, in ritardo, hanno infine deciso di chiudersi in casa e di limitare al minimo il motore produttivo. Così come, ancora più tardi, francesi e soprattutto spagnoli. Tedeschi, austriaci, olandesi e scandinavi hanno invece attuato blande misure di protezione della salute, per lo più affidate al buon senso, proteggendo invece al massimo le catene di produzione e di commercio. Risultato: godono di un vantaggio competitivo sulle «cicale». È probabile che l’inerzia tenga in piedi anche durante questa crisi le strutture formali dell’Unione Europea. Le burocrazie hanno una loro vita autonoma, che prescinde dalla funzionalità. Gli Stati membri costruiranno tuttavia legami e regole parallele, al di fuori dei trattati. Varranno quelle, non questi. Ognuno per sé e insieme a chi dimostrerà un grado di affinità culturale e d’interessi. Sotto questo profilo, l’attuale bipartizione fra Nord e Sud si
rivelerà duratura, a sua volta con suddivisioni interne. La Germania, per la sua centralità economica, cercherà di tenere in piedi il più largo gruppo di suoi associati possibile, a protezione della sua catena del valore. Allo stesso tempo, lo spazio europeo sarà sempre più conteso fra Stati Uniti e Cina, con in più la Russia. La crisi attuale segnala il crescente distacco fra i paesi atlantici, con notevole perdita d’influenza e di prestigio da parte americana. Significativo al riguardo un recente sondaggio che avverte come il 52% degli italiani consideri la Cina il paese più amico, seguito dalla Russia al 32%, con gli Stati Uniti al 17% e la Spagna al 16%. Germania e Francia guidano la lista dei nemici, rispettivamente con il 45% e il 38%, poi Regno Unito (17%) e Stati Uniti (16%). Quasi un rovesciamento delle alleanze. Per ora solo quanto a opinione pubblica. Domani chissà.
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Politica e Economia
Altro che cigno nero La pandemia cinese La strategia
propagandistica di Xi sul piano interno e internazionale sta risultando molto efficace Giulia Pompili Il 23 gennaio scorso, quando Pechino ha ordinato la chiusura totale di un’intera provincia cinese – lo Hubei, il cuore pulsante della Cina produttiva – chiunque segua le questioni asiatiche, studiosi, analisti, professori, politici hanno pensato: ecco, è arrivato, è il cigno nero. L’evento inaspettato che può cambiare il corso degli eventi, e modificare alle fondamenta la leadership cinese. Il presidente Xi Jinping, il secondo uomo più potente del mondo, dopo aver lanciato la rincorsa al nuovo Sogno cinese, aver dato nuova vita al nazionalismo, al patriottismo, e aver rinvigorito il grande progetto strategico di influenza cinese nel mondo, potrebbe essere indebolito. A distanza di tempo, sono state forse premonitrici le parole di Xi Jinping pronunciate un anno fa durante un incontro con i funzionari del partito locali. Xi aveva detto che la Cina deve essere molto attenta ai cigni neri e ai rinoceronti grigi, l’espressione che si usa per definire una minaccia prevedibile e ignorata. Il leader cinese si riferiva all’economia cinese, il fattore fondamentale che ha permesso la riscossa del Paese asiatico: il patto sociale tra il Partito comunista e i cittadini, il motivo dell’accettazione dell’autoritarismo risiede esclusivamente nel fatto che i cinesi si sono arricchiti, che i numeri della povertà sono stati quasi azzerati, e negli ultimi quindici anni Pechino è riuscita a governare un Paese sterminato trasformando le città in megalopoli tecnologiche, le campagne in sistemi produttivi capillari, la Cina nell’alfiere della globalizzazione. Xi Jinping metteva in guardia i suoi funzionari sui cigni neri che
avrebbero potuto minare la sicurezza della crescita economica un anno prima della realizzazione di una catastrofe che in poche settimane avrebbe coinvolto il mondo interno. Kerry Brown, sinologo e storico della Cina, il 2 febbraio su «Inside Story» scriveva che «i cigni neri sono ciò che il Partito comunista cinese teme di più», perché la storia della Cina è fatta di catastrofi naturali, enormi shock sociali che portano a un periodo di caos pericoloso per la leadership. «Di tutti gli eventi pericolosi, ce ne sono due che il partito teme di più: la carestia e le emergenze di salute pubblica. Per il caos a Hong Kong si può dare la colpa agli stranieri. Lo stesso vale per i problemi economici». Per le crisi sanitarie tutto è diverso. E lo abbiamo visto in passato: nel 2007 la crisi del latte contaminato subito prima delle Olimpiadi di Pechino «ha sollevato dei dubbi profondi sul fatto che il Partito fosse davvero pronto a un compito di tale portata», scriveva Brown. Ma ci sono anche altri esempi di eventi che hanno minato la fiducia dei cittadini nei confronti del Partito quando si tratta di salute pubblica: nel 2008 il terremoto del Sichuan, cinque anni prima l’epidemia di Sars, cioè la prova generale per l’Asia di una malattia simil-influenzale epidemica e che ha cambiato quasi tutti i protocolli sanitari del mondo. Anche in quell’occasione il governo di Pechino aveva cercato di minimizzare la situazione, e di gestire le notizie più che l’epidemia, che invece ha provocato almeno 349 morti nella Cina continentale e quasi trecento a Hong Kong. Sono numeri incomparabili con la pandemia che stiamo vivendo oggi, ma tutti questi casi hanno contribuito a
Manifesto nelle vie di Belgrado ringrazia Xi per gli aiuti sanitari del suo Paese. (AFP)
minare il rapporto fiduciario tra governanti e governati. Questa volta, però, Xi Jinping era preparato, e sapeva come affrontare il suo cigno nero. Durante il mese di gennaio e fino alla «prima liberazione di Wuhan», la città dove tutto è iniziato, la propaganda interna cinese ha lavorato molto per incolpare della cattiva gestione dell’epidemia i governanti locali. È stato un lavoro piuttosto facile: Xi ha fatto sapere di aver dato istruzioni su come gestire l’epidemia già il 6 gennaio, ma nessuno dei funzionari – il sindaco di Wuhan, gli ufficiali di Partito – hanno dato seguito alle sue richieste, organizzando comunque banchetti e feste per il Capodanno cinese. Subito dopo gli alti rappresentanti del Partito nello Hubei sono stati sostituiti. È un metodo consolidato in Cina, anche con la «guerra totale contro la corruzione» Xi Jinping era riuscito a fare un repulisti all’interno del Partito per consolidare il suo potere ed eliminare le correnti avversarie. All’inizio di febbraio, durante una visita a Wuhan di Sun Chunlan, 70 anni, vicepremier con delega alla Sanità e unica donna del Politburo, i cittadini della capitale dello Hubei hanno inscenato una protesta: non era contro Sun – e quindi contro il governo centrale – ma contro i funzionari che la stavano accompagnando per le strade isolate e deserte della città. Le urlavano:
«Non è vero niente!», come a dire che gli sforzi delle autorità locali non erano stati affatto all’altezza. Subito dopo i media ufficiali hanno riportato di aver aperto un’inchiesta sulle reali condizioni dei cittadini di Wuhan durante il lockdown. La morte del medico Li Wenliang, il primo ad aver dato l’allarme all’ospedale di Wuhan di ciò che stava succedendo, ha provocato sui social network cinesi un’ondata di indignazione che è riuscita ad aggirare la censura. Anche qui, il governo di Pechino ha usato quell’indignazione per dare la colpa alla polizia locale – colpevole di essere esagerata nel controllo delle notizie – e poi si è impossessato della figura di Li Wenliang. Dal punto di vista della propaganda interna, l’evoluzione della narrazione di Xi non ha fatto che rafforzare il potere del governo centrale. In cinese la parola per indicare «crisi» è composta da due caratteri, che singolarmente significano sia «pericolo» sia «opportunità». Ogni crisi può essere un’opportunità se sfruttata a proprio favore. Sulla propaganda esterna, cioè quella rivolta alle relazioni internazionali, la strategia di Xi Jinping è stata altrettanto efficace. Sin dai primi giorni il leader ha cercato di usare metafore che sottolineassero l’epicità di una battaglia condotta dal popolo cinese contro «il diavolo che si nasconde», cioè il virus. Il 10 marzo è il giorno della
riconquista trionfale di Wuhan, quando Xi Jinping visita la città. Il nemico è battuto. La realtà, come sappiamo, è molto diversa: soltanto un mese dopo il lockdown della città e delle aree circostanti è stato alleggerito, e non è certo un ritorno alla normalità. Ma quella visita serviva alla leadership cinese per annunciare al mondo di essere il primo Paese ad aver sconfitto il virus, di averlo sotto controllo e di poter iniziare a insegnare agli altri come si fa. È per questo che a marzo sono iniziati gli aiuti e le donazioni di materiale di protezione cinesi in Europa, e soprattutto in Italia, il paese che a quel tempo era il più colpito dall’epidemia e soprattutto il più amico di Pechino. Le donazioni umanitarie cinesi hanno sempre un significato politico, e l’invio, oltre che delle mascherine e di respiratori, anche di team di medici, dimostra la necessità di mostrarsi influenti, indispensabili, e di capovolgere nel giro di poche settimane la narrazione sulla pandemia. La Cina di Xi Jinping vuole mostrarsi al mondo come la potenza responsabile in grado di aiutare i paesi amici in difficoltà – un’immagine completamente diversa da quella che solo un mese fa i paesi europei avevano del governo cinese, cioè il vero responsabile dell’inizio di una pandemia. Ma il Sogno cinese di Xi Jinping è ancora lì.
Corea del Sud e Israele più forti per natura
Sistemi a confronto Abituati a vivere in uno stato di minaccia perenne, sono i Paesi che di fronte all’emergenza
Covid hanno reagito meglio e più tempestivamente A poco più di tre mesi dall’inizio della pandemia, i paesi che finora hanno reagito meglio e tempestivamente per bloccare i contagi di Covid e ridurre la mortalità sono quelli che convivono da sempre con una minaccia esistenziale che mette in pericolo l’incolumità della popolazione. È un dato interessante, che non può essere preso a modello ma di certo può aiutare a capire dove gli altri paesi, europei e asiatici, sono più fragili nella catena di comando in caso d’emergenza. Corea del Sud, Israele, ma perfino la piccola Taiwan, l’isola rivendicata da Pechino e guidata da un combattivo governo indipendente, sono paesi in equilibrio tra oriente e occidente, democratici, che non solo si sono ritrovati all’inizio dell’epidemia con protocolli sanitari studiati ed efficaci, ma hanno potuto contare sulla capacità, della politica e dei cittadini, di prendere contromisure immediate. Avere una minaccia esistenziale al di là dei confini vuol dire anche che le autorità sono capaci – potremmo dire quasi abituate – a prendere decisioni in modo immediato: in caso d’emergenza la burocrazia può essere scavalcata, e i dibattiti rimandati, e questo non significa mettere da parte la democrazia, ma anzi mettere la protezione della popolazione davanti a tutto, prima ancora del consenso politico. La guerra contro il Sars-CoV-2,
il nuovo coronavirus saltato da un pipistrello all’uomo, forse attraverso un secondo animale, e diffuso nel mercato di Wuhan, in Cina, sembrava una minaccia lontana dalla Corea del Sud all’inizio di febbraio. Il governo guidato dal democratico Moon Jae-in aveva mantenuto attivi tutti i collegamenti con la Cina, un modo per non mandare messaggi diplomatici ostili a Pechino, dopo anni di tensioni recentemente risolte. Poi però il primo focolaio di Covid è stato individuato nella città di Daegu, e il 23 febbraio è stato dichiarato lo stato d’emergenza. Quel giorno il governo di Seul ha indossato la giacca gialla, quella che i funzionari dell’esecutivo mettono per mostrare ai cittadini coordinamento e operatività. Ed è scattato un protocollo che Seul ha perfezionato sin dal 2015, l’anno dell’epidemia di Mers che in Corea del Sud ha fatto 36 morti. Il sistema sudcoreano si basa sulle tre T, «trace, test and treat», traccia, testa e cura. Nessun lockdown, ma uno sforzo enorme per controllare ogni possibile contagiato, avvertire tutte le persone che sono state a contatto con un infetto, isolarle, testarle con kit rapidi, e infine curarle in strutture d’emergenza. La tempestività è tutto in questi casi, ripetono i funzionari del governo sudcoreano. Ma come si può essere pronti a uno sforzo simile? Seul si trova a soli 56 chilometri dal confine nordcoreano.
Testing kits a Cheongiu, Corea. (AFP)
Il 38º parallelo, fino a poco prima del disgelo voluto da Moon Jae-in, era tra i luoghi più militarizzati del mondo. Le provocazioni nordcoreane si fanno periodicamente sempre più pericolose, tra test missilistici e nucleari che hanno raggiunto una frequenza inquietante nel 2017. Anche per questo sin dal 1957 per tutti gli uomini il servizio di leva è obbligatorio, le esenzioni sono pochissime e la durata dipende dal servizio reso: per i ruoli attivi poco più di un anno, per i professionisti come i medici può durare anche tre anni. Le Forze armate sudcoreane sono tra le più numerose al mondo, con seicentomila mili-
tari attivi e oltre tre milioni di riservisti. Dopo l’inizio dell’epidemia, i militari con ruoli di combattimento sono stati messi in lockdown per assicurare una continuità nella sicurezza dalle minacce esterne, mentre i riservisti e i volontari sono stati impiegati per i controlli e le operazioni di sanificazione. Caserme, strutture militari sono state in poco tempo modificate e impiegate per gli isolamenti, e i lavori sono stati effettuati in tempo record dai militari. Test, disinfettante, produzione di mascherine: il governo ha partecipato economicamente a tutti gli sforzi delle aziende private per rendere il Paese autosufficiente sui beni essenziali per combattere l’epidemia. Che è un po’ quello che è successo a Taiwan, che ha chiuso i suoi confini e messo subito in lockdown la capitale Taipei, limitando gli spostamenti: oggi i protocolli di Taiwan sono considerati tra i migliori al mondo. In Israele la pandemia è arrivata in un momento di grave crisi politica. Le elezioni generali da celebrare, il 2 marzo scorso, una maggioranza impossibile da trovare e una specie di leadership a rotazione che si dividono Benjamin Netanyahu e Benjamin «Benny» Gantz. Quando i casi di Covid sono iniziati a crescere, l’ufficio del primo ministro ha ordinato che il Ministero della difesa e l’Home Front Command, cioè il comando che si occupa delle emergen-
ze su territorio israeliano, lavorassero insieme al ministero della Salute per combattere l’epidemia. Anche Israele ha a disposizione un numero enorme di militari del servizio di leva e riservisti. Lo stato d’emergenza è stato dichiarato a metà marzo, e il lockdown implementato in vari passaggi. Il 2 aprile anche il ministro della Salute Yaakov Litzman è risultato positivo al coronavirus. Il ministero della Difesa ha assunto la gestione di tutti i dispositivi di protezione per gli operatori sanitari, sia quelli disponibili in Israele sia quelli importati. Ma Israele è anche un paese che ha a disposizione tecnologia e laboratori di ricerca di altissimo livello, sempre per motivi che riguardano una tradizione di difesa che arriva da lontano. Da un lato c’è l’Iibr, l’Israel Institute of Biologic Research, centro specializzato nella difesa da attacchi batteriologici, che è stato uno dei primi al mondo ad aver annunciato seri progressi sul vaccino per il Covid. D’altra parte c’è la tecnologia, di solito usata per monitorare i terroristi e le minacce esterne, che è stata messa in campo per tracciare i contagiati. L’uso di certi metodi ha creato parecchie polemiche sulla sorveglianza di stato, ma dopo la sua messa online, un milione e mezzo di israeliani ha scaricato l’applicazione «HaMagen», perfezionata dal governo per controllare il virus. / GP
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Politica e Economia
Nuove regole. Questo il dopo Newsletter della pandemia In America il dibattito sul ritorno graduale all’attività economica è già esploso
e guarda a come la Cina ha gestito il suo. Già nell’ottica del 3 novembre e in un clima da Grande Depressione Federico Rampini Drammatico è l’aumento della disoccupazione americana: 6,6 milioni di disoccupati in più in una sola settimana, il totale di quelli che hanno perso il lavoro supera già i 16 milioni. Cominciano a vedersi scene da Grande Depressione: la Guardia Nazionale mobilitata a distribuire pasti ai nuovi poveri. Continuano i problemi di gestione amministrativa per gli aiuti alle famiglie e alle imprese. Le grandi aziende non incontrano difficoltà di accesso ai nuovi crediti agevolati. Ma una miriade di piccole imprese stanno facendo una fatica enorme. Certe banche si rifiutano di fare da tramite tra i fondi federali e le piccole imprese, se queste non sono già loro clienti. Le denunce di ritardi si accumulano. Sul versante delle famiglie continua il caos amministrativo in molti Stati che devono smaltire un volume di domande di indennità di disoccupazione venti volte superiore al normale. Per molti – lavoratori e imprenditori – i soldi dell’aiuto pubblico rimangono un titolo sui giornali. Mentre a Washington democratici e repubblicani preparano la nuova manovra per almeno 250 miliardi, il problema sul terreno è il collasso burocratico. Intanto il dibattito americano sulla pianificazione di un ritorno graduale all’attività economica è già esploso, e guarda a diversi precedenti: come la Cina gestisce il suo, come l’Italia e l’Austria si preparano alla fase due. L’idea è di attrezzarsi per test di massa che possano selezionare la popolazione a rischio e separarla da chi invece può tornare al lavoro. Sapendo che non sarà lo stesso lavoro di prima. Per due ragioni. Primo, alcuni settori come ristorazione, spettacoli, turismo e viaggi, si preparano ad affrontare un dopo-Coronavirus che a prescindere dai divieti dall’alto prolungherà paure e precauzioni spontanee da parte dei consumatori. Secondo, anche negli altri settori di attività già si elaborano strategie per «distanziare» i lavoratori, per esempio una rivoluzione negli uffici, la morte dell’open space, il ritorno di paratie e separazioni. Il futuro si progetta già adesso.
Lufthansa trasporterà 40 milioni di mascherine made in China che garantiscono standard di qualità elevati In Cina la «liberazione» di Wuhan dalle restrizioni ha dato il via ad un esodo: solo nel primo giorno di libertà dopo i 77 giorni di reclusioone, in 55’000 hanno lasciato il capoluogo dello Hubei. Molti sono lavoratori migranti che erano stati bloccati durante le vacanze del Capodanno lunare ma erano attesi dalle aziende in altre zone della Cina. Il rischio è che cominci una seconda ondata di contagi se fra loro ci sono dei portatori di virus asintomatici. Per prevenire questo pericolo, ma più in generale per alzare il livello di protezione sanitaria, le grandi aziende cinesi tornate in attività adottano una serie di nuove
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Mascherine e temperatura: due obblighi a cui ci dovremo abituare. (AFP)
regole che dobbiamo osservare con attenzione. È un’altra prefigurazione del mondo che verrà. Da un lato ci sono delle norme sanitarie imposte a tutte le aziende dal governo, e già queste sono stringenti: obbligo di maschere per tutti i dipendenti, obbligo di misurare la febbre ogni giorno, e di trasmettere un bollettino sanitario individuale alle autorità sanitarie, ogni 24 ore per ogni addetto. Le singole aziende ci aggiungono precauzioni supplementari. La Foxconn (quella che produce per Apple gli iPhone e iPad ed è il più grosso datore di lavoro privato con un milione di dipendenti) ha riorganizzato le mense. È proibito sedersi a tavola di fronte a un collega. Ogni sedile alla mensa aziendale ha un codice digitale Qr che il lavoratore deve scannerizzare, così l’azienda traccia esattamente chi si è seduto dove. All’ingresso e all’uscita dalla fabbrica vengono disinfettati gli effetti personali, dalle borse ai vestiti. Le squadre di lavoro diventano fisse in modo da avere sempre gli stessi operai che si frequentano (anche questo aumenta la tracciabilità degli eventuali futuri contagi). Le videocamere a raggi infrarossi che misurano la temperatura corporea sono state piazzate in molti corridoi. Nei bagni possono entrare solo due persone alla volta. Se la Cina è davanti a noi di un mese, cosa ci sta indicando il suo ciclo economico? Oltre al bollettino ufficiale che ci annuncia zero decessi riceviamo immagini confortanti del primo weekend di ripresa dei viaggi. L’occasione è una delle feste più antiche e più sacre, dedicata a visitare le tombe degli antenati. Con la levata di molte restrizioni le prenotazioni alle agenzie di viaggio hanno avuto un’impennata del 50% rispetto al weekend precedente, gli hotel hanno registrato +60%, naturalmente queste percentuali elevate sono
rispetto a un livello precedente che era di semi-paralisi. Altri indicatori sono meno rassicuranti. Pechino continua a ordinare la chiusura dei ristoranti, Shanghai quella di molte attrazioni pubbliche, segno che i timori di una seconda ondata di contagi rimangono acuti. Le prime stime dell’impatto della recessione globale parlano di 4 o 6 milioni di disoccupati in più e un tasso di disoccupazione in aumento di un punto percentuale al 6,2%. Preoccupano soprattutto i consumatori che ancora sembrano ben lungi dal ritrovare fiducia. Una chiave va cercata nell’alto indebitamento dei consumatori. Le famiglie cinesi erano arrivate alla crisi del 2009 con debiti pari al 56% del reddito disponibile, mentre nel 2019 i loro debiti erano il 124% del reddito. La Corea del Sud è diventata in poco tempo la terza produttrice mondiale di test diagnostici dietro Cina e Stati Uniti, e li sta esportando in 22 paesi. È una storia da studiare perché buona parte delle 22 aziende sudcoreane che esportano test si sono riconvertite solo di recente. La velocità di adattamento e la riconversione massiccia di pezzi del tessuto industriale verso i nuovi bisogni sanitari, può diventare un fattore vincente anche nella fase due, per organizzare la rinascita economica usando come traino una domanda mondiale di sicurezza sanitaria. La Germania non vuole correre il rischio di rimanere senza mascherine. La Merkel ha raggiunto un accordo speciale con Xi Jinping. Lufthansa trasporterà in Germania 40 milioni di mascherine made in China. Sono tutte prodotte da aziende di Stato che garantiscono standard di qualità elevati (dopo gli scandali di mascherine scadenti consegnate in Spagna e Olanda). Continua così l’offensiva diplomatica della Cina per usare il coronavirus
come un’opportunità geopolitica; mentre l’Occidente è diviso. A proposito del mondo che verrà, tanti settori rischiano di essere irriconoscibili nel dopo-epidemia. Uno è la grande distribuzione: giganti dei grandi magazzini, degli shopping mall, catene dell’abbigliamento hanno smesso di pagare stipendi e affitti e sono alle prese con debiti che vengono velocemente a scadenza. Per chi vende attraverso questi canali distribuitivi, un’ecatombe di fallimenti rischia di creare nuovi problemi quando si aprirà la fase due. La società di consulenza Bain ha fatto un’indagine tra i manager americani da cui risulta che in un biennio puntano a raddoppiare gli investimenti in automazione e software di intelligenza artificiale. È soprattutto il settore amministrativo, dalla gestione del personale alla contabilità, quello dove le aziende si vogliono emancipare dalla vulnerabilità della manodopera umana. Quali le conseguenze sulla campagna elettorale americana? Bernie Sanders si ritira. Joe Biden è il candidato dei democratici per l’elezione presidenziale del 3 novembre. «La mia campagna finisce, ma il nostro movimento continua», ha detto il 78enne senatore del Vermont, sconfitto per la seconda volta: era già stato in lizza nel 2016 contro Hillary Clinton. Sanders ha un seguito forte tra i giovani, e in alcune élite delle due coste. Ma in quella frase «il movimento continua» c’è la speranza di Sanders di poter condizionare ancora questa campagna elettorale. Secondo lui la devastazione umana ed economica della pandemia è una rivincita delle sue tesi, per esempio sulla necessità di adottare un sistema sanitario nazionale sul modello europeo, unificato sotto la gestione pubblica e gratuito, invece della sanità privata americana. Più in generale la depressione economica in atto
dovrebbe spingere ad una massiccia espansione del ruolo dello Stato, quel socialismo che invoca da una vita Sanders, e che lo rende popolare nei campus universitari. Ma questa narrazione cozza contro alcuni fatti. Biden nell’ultimo duello tv che li oppose fu duro nel respingere l’opzione della sanità pubblica: «È quella che hanno in Italia e non ha funzionato». Certi sistemi pubblici europei sono in affanno quanto la sanità americana. In quanto al ruolo dello Stato per attutire lo shock della crisi economica, si sta già allargando a dismisura dopo il varo della maxi-manovra da 2000 miliardi di dollari, approvata con un consenso bipartisan fra Casa Bianca, Senato a maggioranza repubblicana, Camera a maggioranza democratica. Ma l’amministrazione pubblica è segnata da inefficienze e disservizi. Il ritiro di Sanders è giunto dopo una disastrosa primaria del Wisconsin. I democratici volevano rinviarla, i repubblicani hanno prevalso. L’affluenza è stata minima, circa il 16%, tra polemiche sui rischi di contagio e una fuga in massa di scrutatori e presidenti di seggi. Donald Trump ha già cominciato a parlare di «brogli» legandoli all’uso del voto per corrispondenza. È un assaggio di quel che potrebbe accadere il 3 novembre al voto finale. La destra boicotta con ogni appiglio il voto per corrispondenza. Trump ha sempre sostenuto – senza prove – che «Hillary Clinton ebbe milioni di voti falsi, grazie ai brogli». L’incubo di un’elezione rinviata in extremis, oppure turbata da irregolarità, ricorsi, diventa realistico. Tanto più che Trump ha già esaurito il breve rimbalzo nei sondaggi. A novembre il presidente che si vantava di aver governato l’America nella fase della sua massima prosperità, dovrà vedersela con trenta o quaranta milioni di disoccupati.
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Politica e Economia
Le nostre finestre sono diventate tappeti volanti Testimonianza Il Covid è uguale per tutti, ci fa riscoprire un mondo nuovo che si apre quando la porta si chiude
e noi restiamo dentro. Con il nostro dolore e le nostre paure
Mi sono chiesta spesso in queste settimane cosa avrebbe scritto Pierluigi Cappello di quello che stiamo vivendo. Friuliano, poeta, mancato nel 2017 a cinquant’anni. Un incidente stradale da giovane gli causò la recisione del midollo spinale e nessuna delle operazioni cui si sottopose riuscì a cambiare la sua condizione di immobilità. In una delle sue poesie Cappello scrive: «Non si tratta di riempire, si tratta di far parlare il vuoto». E lui c’era riuscito in versi, facendo diventare col tempo «il letto un tappeto volante». Da un mese il midollo spinale della nostra società è reciso e le nostre finestre sono diventate tappeti volanti. I risparmiati di noi, i non toccati dal virus, sono seduti di fronte alle finestre in un tempo immobile, con l’ingrato compito di scoprire un mondo nuovo, e fare la mappa del mondo che si spalanca quando la porta si chiude e noi restiamo dentro. Dovessi parafrasare Cappello direi che oggi non si tratta di riempire, si tratta di trasformare il dentro in fuori. Il silenzio che ci circonda è la voce delle nostre vulnerabilità, siamo spaesati e distratti. E riluttanti ad ascoltare questa voce, perché tra le cose che ci sono mancate c’è l’educazione a dirsi fragili. Ci hanno insegnato i codici della buona educazione, la mano davanti alla bocca di fronte a uno starnuto, ci hanno insegnato a dire grazie, prego e per favore. Ci hanno insegnato a voler eccellere, a desiderare di essere i primi della classe. I più fortunati sono stati cresciuti senza rabbia e nel rispetto degli altri, ci è stato detto di tendere la mano a chi ha bisogno, di non ignorare le ingiustizie. Ma nessuno ci ha insegnato a cadere. Nessuno ci ha insegnato a dire: mi sento perso. E ora siamo smarriti in un tempo nostro, disorientati nel nostro spazio. Esposti, nudi, e smascherati. La fragilità che non ci hanno insegnato ad amare e maneggiare, ora è nuda. E ci imbarazza. È una forza sbriciolata fitta fitta sulla tovaglia di un tavolo spopolato dalla nostra vita com’era e popolato di fantasmi. C’è la nostra identità, presunta marmorea fino a ieri, che oggi si scopre trasparente. E ora che il tempo è un incantesimo di istanti invariati, mi trovo seduta sulla poltrona verde che mi ha visto bambina e poi donna e guardo fuori dalla finestra, cerco il tappeto volante, guardo le luci degli altri, che si accendono all’imbrunire, sento i piedi dei figli degli altri, costretti a correre in casa, perché è precluso loro il mondo esterno. Sento il rumore di fondo del telegiornale, e gli elicotteri che passano più di prima sulle nostre teste e sento il rumore delle ambulanze. Nuove forse no, forse ora sono in ascolto di quello che prima ignoravo. Come il silenzio mentre parla della mia fragilità. Una malattia è sempre fare un patto con la rabbia. E la forma della rabbia si esprime in parole semplici, violente. Perché a me? Perché ha scelto me e non un altro? Frase ingiusta, come talvolta lo sono le cose umane. Ci penso da tre anni, da quando mi hanno diagnosticato una malattia
A. Romenzi
Francesca Mannocchi
degenerativa. Da quando l’accidente, l’imponderabilità del male è entrata nel mio presente e in ogni giorno dei miei giorni a venire. Oggi questo «Perché proprio a me?», è diventato un «Perché proprio a noi?». Che non ha ancora risposte convincenti, o forse ne ha una per ognuno. Una malattia che non colpisce un singolo, ma ci colpisce tutti. I sani e i malati, e ci costringe a isolarci per riconoscerci comunità. Tra febbraio e marzo sono stata in Libia e nelle isole greche di Lesbos e Samos, dove 44 mila persone migranti sono bloccate dalle politiche di contenimento europee. Quando sono atterrata a Roma, il nove marzo, una colonna di voli sul tabellone all’aeroporto di Fiumicino era rossa: cancellati. Mascherine e guanti ovunque. Da quando sono tornata da questi viaggi, che probabilmente saranno gli ultimi per molto tempo, mio figlio Pietro ha smesso di andare a scuola, ci mettiamo in fila per fare la spesa, manteniamo una distanza di un metro e più nelle botteghe e anche se incidentalmente incontriamo il vicino di casa al portone, evitiamo l’ascensore e indossiamo guanti e mascherina anche per andare a buttare l’immondizia, laviamo le mani col disinfettante, abbiamo imparato a parlare a lungo con i nostri amici lontani. Da quando sono tornata, il 9 marzo scorso, mio zio è risultato positivo al Covid19. Da undici giorni è in terapia intensiva. Ha settant’anni, vive con sua moglie – mia zia – in un piccolo paese alle porte di Roma, uno di quei paesi tipici dell’Italia centrale di pendolari, una vita fatta di bar e piccole botteghe, orti e parenti che si parlano dai balconi. Tutti si conoscono e il medico di base conosce tutti per nome. «Qui il Covid non arriverà», avranno di sicuro pensato tutti, peccando della hybris dei protetti. Troppo al sicuro, troppo custodita la tranquillità della nostra dimora per essere incrinata dall’ignoto. Troppo lontano quel virus, per toccare proprio noi. Eppure il Covid è arrivato. Perché è così: imprevedibile e subdolo. Perché così sono le nostre certezze ora, le certezze che custodivamo:
indifese, disarmate. Al quinto giorno di febbre mio zio ha chiamato il suo medico di base, che allarmato e preoccupato, ha richiesto un’ambulanza per un sospetto caso Covid, attivando un protocollo di sicurezza. Significa che a tarda sera di un sabato che si affaccia alla primavera, arriva in casa di due pensionati una squadra di medici e infermieri con dispositivi di sicurezza anticontagio, tute bianche li coprono fino ai piedi, una maschera a proteggere il volto.
Questo virus che si muove in mezzo a noi malgrado noi ha la forma dell’impossibilità di accudire chi amiamo Un’astronave da un’altra dimensione e una barella che porta via un uomo con la febbre, saluta sua moglie e sale sull’ambulanza con i suoi piedi, scendendo le scale della casa sudata per gli anni della pensione dopo una vita di lavoro e tra un colpo di tosse e l’altro che sussurra solo: pensa a nostra figlia, pensa a Sara. La nipote. Il domani, il futuro. A che serve il futuro se non ci salva? Mi ha detto un’amica cara in questi giorni. A che serve il futuro se non ci salva? Il nostro futuro, i nostri figli. I nostri desideri, certo. Ma anche il dialogo con la paura. Sono le 22.30 di sabato 14 marzo. Alle cinque della mattina dopo mio zio era uno dei 29 ricoverati di allora in terapia intensiva della regione Lazio, la regione in cui viviamo tutti, sebbene in comuni diversi. Poche ore e si passa dalla febbre alta alla tosse, dalla tosse al fiato corto, dal medico di base al protocollo Covid, dalla penicillina al tampone e il tampone passa al test. Positivo. Polmonite acuta. Sedazione e poi intubato. In uno stato di incoscienza indotta e senza tempo. E fin qui la parte medica. Questo virus che si muove in mezzo a noi malgrado noi ha la forma dell’impossibilità di accudire chi amiamo.
Impensabile per chi ha fatto – come la nostra cultura, le nostre tradizioni – della cura al malato e il congedo dai vivi una parte fondativa dell’identità familiare, dunque collettiva, e individuale. Il male cammina nelle nostre giornate, abita i nostri amati eppure ci è inaccessibile, ce li rende inaccessibili. Qual è la cosa peggiore? chiedo a mia cugina. Non potergli tenere la mano, dirgli ad un orecchio, anche se sedato: papà, ti aspetto a casa. Mia zia, sua figlia e il resto della loro famiglia sono costretti da quella notte di quasi primavera a isolamento domiciliare, in due domicili diversi. Significa non sostenere il malato e non sostenere i vivi. Non possono andare in ospedale, non possono telefonare a nessuno per avere aggiornamenti. Trascorrono le giornate in attesa di una telefonata, il bollettino quotidiano che i medici dell’ospedale con devozione fanno per ogni paziente positivo al Covid. Sostituendosi alle famiglie. Con il corpo, il loro, al posto del nostro sulla soglia del dolore a fare da tramite di un accudimento tra sconosciuti. Da undici giorni la telefonata ha un unico contenuto, un solo tono, attento ma ridigo: è stabile ma grave. Ci sono giorni in cui ci concentriamo tutti sulla parola stabile. E giorni in cui vediamo solo il peso solenne della parola grave. Il tempo dell’attesa si consuma in telefonate sempre uguali, come le nostre giornate. «Come state, avete sintomi?» – chiedo ai miei cari, per essere certa che non siano stati contagiati, sapendo però che siamo di nuovo di fronte a un paradosso. I parenti di un positivo vengono isolati ma non testati, finché non sono sintomatici. Finché – dicono i medici – non hanno febbre e alta e da non confondersi con l’influenza stagionale. «No, nessun sintomo», risponde mia cugina. Che nella vita lavora a scuola con un contratto precario, mentre suo marito lavora in aeroporto anche lui con un contratto precario e mentre aspettano notizie dall’ospedale si chiedono già, come tanti, se saranno le prossime
vittime di questo contagio, quelle economiche. La seconda domanda ogni giorno è: Come stai? «Sono bloccata in un buco nero scandito da ansia e inerzia», mi ha detto martedì scorso. La nostra educazione ci ha liberate delle frasi di circostanza, sappiamo che nei silenzi delle telefonate ci sono sorrisi. Li lasciamo brillare nel muto di quel nero. Cerchiamo di affrancare l’attesa dalla speranza, cerchiamo di riempirla di lucidità prima che diventi rabbia. In poco meno di un mese nel nostro Paese l’entusiasmo della riscoperta si è talvolta trasformato in grida verso gli incolpevoli e delazione. Dagli stessi balconi da cui si cantava l’inno nazionale nei primi dieci giorni di quarantena, oggi qualcuno grida contro chi corre in strada, i vicini si spiano dalla finestra, in cerca dell’untore, del responsabile, di uno qualsiasi cui dare la colpa del virus, del contagio, della paura, dell’ignoto, di un futuro che ha il colore tetro dell’incertezza. A che serve il futuro se non ci salva? Stamattina sono uscita e ho citofonato a mia cugina. Mi sono aggrappata alla ringhiera e lei mi parlava dal balcone della cameretta di Sara, sua figlia. Avevo voglia di liberare i sorrisi dagli angoli muti delle nostre telefonate. Mentre mi salutava ha incrociato le braccia, la destra sopra la sinistra e le ha incrociate battendole sul petto. Era la cosa più simile a un abbraccio, forse se chiudo gli occhi l’abbraccio più stretto che io abbia ricevuto. Mio zio, suo padre, è stato portato via da un’astronave anticontagio in un giorno di quasi primavera, in un paese con le bare accatastate e i fiorai chiusi e i cimiteri senza fiori. Lo aspettiamo seduti accanto al nostro dolore recluso. E un dolore, se lo ingabbi, non riesce a diventare identità, non si può processare. E resta lì come una scoria che non si consuma, né col tempo, né con la natura. Una scoria che resiste, innaturale come un’infelicità non vissuta. Come le gemme di questa primavera che aspettano di sbocciare, mentre le curiamo in silenzio sui tappeti volanti delle nostre case.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 aprile 2020 • N. 16
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Politica e Economia
Quali effetti a medio-lungo termine?
Covid-19 L’economia svizzera non sfuggirà alla prevista recessione mondiale. Ne soffriranno anche le assicurazioni
sociali, come dimostra il caso dell’AVS, alle prese con la riforma ancora contestata
Ignazio Bonoli Pur con tempi diversi, e anche qualche ritardo, tutti i paesi stanno pensando a come risollevare le proprie economie dall’importante impatto che la pandemia da Covid-19 avrà avuto. Già le spese che si sono avute – e si avranno ancora – nel settore sanitario stesso avranno un peso importante sui bilanci pubblici a ogni livello. Tuttavia l’effetto maggiore l’economia lo subirà dalle drastiche misure che si sono dovute adottare per contenere l’impatto del virus sulla popolazione.
Per la Svizzera le previsioni sono ottimistiche: la SECO stima un calo dello 0,5% del Pil a lungo termine Misure che si ripercuotono con effetti pesanti sulle attività economiche con conseguenze particolari sulle piccole e medie aziende e sulle attività economiche di piccole dimensioni. Conseguenze dirette sui singoli interessati, ma anche sulle collettività pubbliche. Conseguenze che appariranno presto nei bilanci pubblici a causa sia delle spese sostenute, sia anche dei mancati introiti di imposte e contributi. A livello mondiale si stima un crollo del prodotto interno lordo che, nella media mondiale, dovrebbe essere
ancora dello 0,4%. Ma questo solo grazie al +5,8% della Cina. La situazione è però in piena evoluzione: le stime di MacKinsey e quelle dell’OCSE prevedono già un –15% del PIL. In Svizzera, si è un po’ più ottimisti. La SECO prevede un calo dello 0,5% del PIL a lunga scadenza, mentre UBS va da uno 0,7% a uno 0,9%. La Svizzera ha comunque messo in atto un piano senza precedenti, i cui effetti dipendono – come per tutti gli altri paesi – dalla durata dell’epidemia. Sostanzialmente il piano si basa su una garanzia per le liquidità delle imprese, su un’estensione delle indennità per lavoro ridotto, sul sostegno alle IPG e in aiuti a turismo e politiche regionali, con allentamenti delle leggi sul lavoro e protezione della salute sul posto di lavoro, nonché sostegni a cultura e altri casi minimi. Sforzi analoghi stanno compiendo anche Cantoni e Comuni. Difficile dire oggi quale sarà l’impatto sui bilanci pubblici. Molto dipenderà anche dalla durata dei provvedimenti in atto, il cui costo aumenta quasi di giorno in giorno. La Confederazione stima per ora un costo di 60 miliardi di franchi, divisi in vari livelli di intervento, ma ci sono settori che saranno indirettamente toccati dalla crisi sanitaria, tra cui, per esempio, l’assicurazione contro la disoccupazione. Ma le preoccupazioni maggiori saranno ancora una volta rivolte verso l’AVS. Sappiamo già delle difficoltà a mantenere un fondo di finanziamento di lunga durata. La riforma AVS21,
Insieme contro il nuovo coronavirus. Informazioni su ufsp-coronavirus.ch
accettata in un secondo tempo, grazie proprio al contenuto finanziario della riforma fiscale (2 miliardi all’AVS) accoppiata, ha garantito una copertura sufficiente fino al 2030. Ma proprio nei prossimi anni stanno andando in pensione i nati fra il 1955 e il 1970, di modo che nel 2045 mancheranno al fondo AVS 80 miliardi di franchi. Questa previsione che non tiene ancora conto degli effetti della crisi del «coronavirus». Durante questo periodo l’AVS soffrirà di due effetti derivati: se, nel caso peggiore, i disoccupati dovessero raggiungere un livello tra i 300’000 e i 400’000, i contributi degli assicurati calerebbero vistosamente. La recessione farebbe diminuire anche le entrate dovute alla percentuale di IVA destinata all’AVS. Si è perciò già chiesto all’Ufficio federale delle assicurazioni sociali di rivedere gli scenari sul futuro dell’AVS. Come noto, la riforma contempla l’aumento di un anno dell’età di pensionamento delle donne e una percentuale dello 0,7% dell’IVA da dedicare all’AVS. Questo comporta per una durata media di vita di un giovane 20’000 franchi di contributi. Il debito del fondo AVS sarebbe limitato a 74 miliardi, invece dei 160 miliardi senza riforma, nel 2045. A condizione che il salario reale degli assicurati attivi salga dell’1,1% all’anno. Se, durante un anno, non ci sarà questo incremento, il recupero dovrà essere del 2,2% all’anno, ritmo già difficile da raggiungere in caso di «boom» economico. Gli
Più a lungo dura l’emergenza, maggiori saranno le difficoltà per le aziende e più alta la disoccupazione. (Keystone)
effetti della crisi del «coronavirus» potrebbero però essere anche più pesanti. I sindacati si oppongono tuttora all’aumento dell’età di pensionamento delle donne e chiedono una 13esima rendita mensile con un’iniziativa popolare, finanziandola mediante un aumento dei contributi e della quota di IVA, nonché con gli utili della Banca Nazionale. La SECO prevede già una netta diminuzione della crescita economica, al
minimo dello 0,5%, e una diminuzione del numero di lavoratori a fronte di un aumento dei pensionati. Inoltre l’immigrazione netta (essenziale per l’AVS) di 60’000 lavoratori sembra oggi irrealistica. Si sa che le assicurazioni sociali sono particolarmente sensibili alle crisi economiche. Motivo in più per sperare che la prevista recessione sia di breve durata e non provochi seri danni, come l’esempio dell’AVS sembra già dimostrare.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 14 aprile 2020 • N. 16
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi L’impatto iniziale del coronavirus sulla congiuntura Quando uscirà quest’articolo, la pandemia da coronavirus avrà probabilmente raggiunto il suo acme in Svizzera e in Spagna. Francia e Germania staranno pure avvicinandosi al punto massimo della crisi pandemica, mentre l’Italia lo avrà già superato. Le misure di contenimento resteranno in vigore ancora per settimane e le conseguenze negative per le attività economiche si faranno sentire ancora per mesi. Ma l’incertezza sulla portata e sulla durata nel tempo di queste conseguenze non è la sola difficoltà che si pone attualmente agli esperti che devono stimare l’impatto economico della pandemia. Queste stime sono infatti difficili da fare perché, Stati Uniti a parte, non si dispone di nessun dato su quello che è stato l’impatto negativo nei mesi di febbraio e di marzo, ossia nei mesi in cui la pandemia ha cominciato a manifestarsi in Europa.
Nonostante queste difficoltà, un giorno sì e uno no, vi sono istituti e gruppi di esperti nazionali e internazionali che pubblicano nuove stime sull’evoluzione del prodotto interno lordo per il 2020, tenendo conto per l’appunto dell’impatto negativo del coronavirus. Così hanno fatto gli esperti dell’OCSE che, ancora prima della fine del mese di marzo hanno pubblicato un rapporto nel quale affermano che le conseguenze negative della pandemia saranno più ampie di quelle provocate dalla crisi finanziaria degli anni 20082009. E questi esperti propongono anche un parametro per stimare l’ampiezza della recessione prevista. Per ogni mese di sospensione delle attività economiche il Pil dovrebbe, secondo loro, diminuire, nell’arco del 2020, del 2%. Così se la chiusura dovesse durare tre mesi, il calo del prodotto interno lordo sarebbe dell’ordine del 6%. Nel
caso della Svizzera, che, prima della pandemia, prevedeva una crescita del Pil pari all’1,7%, una sospensione delle attività economiche della durata di tre mesi provocherebbe dunque una recessione del Pil dell’ordine del 4,3% (cioè 6% –1,7%) nel 2020. Con un calo del Pil di questo tipo è probabile che la disoccupazione risalga ai livelli che aveva toccato nel 2009, superando quindi ampiamente la quota del 4%. Ricordiamo che, per il momento (fine marzo) ancora non supera il 3% a livello nazionale; tuttavia l’aumento del mese di marzo, rispetto a febbraio, è stato rilevante: +16%. Stando al rapporto dell’OCSE sono i Servizi legati al turismo, i Trasporti, il Commercio al dettaglio e le Costruzioni i rami che sopporteranno i cali di cifra d’affari maggiori. Il rapporto dell’OCSE non offre stime per la Svizzera ma precisa che Germania, Italia, Francia e
Spagna, saranno tra le economie nelle quali il calo di fatturato si farà più sentire. Siccome queste nazioni sono tra i nostri migliori clienti è probabile che anche in Svizzera dovremo confrontarci con riduzioni delle cifre d’affari più o meno della medesima ampiezza. Gli esperti dell’OCSE sottolineano da ultimo, nel loro rapporto, che, per il momento, esiste ancora una grande incertezza sulla durata della ripresa. Più ottimisti sono invece gli esperti del governo tedesco e la nostra Seco. In due rapporti, praticamente contemporanei di quello dell’OCSE, essi avanzano previsioni meno negative sul calo del Pil delle loro economie nazionali nel 2020. In Germania il calo previsto varia, a seconda della durata della pandemia, tra il 2,8 e il 5,4%. In Svizzera il gruppo di esperti della Confederazione che segue la congiuntura
prevede una riduzione del Pil pari a –1,5%. Essi precisano però che questa previsione non tiene conto dell’influenza negativa che potrebbero avere sulla crescita le soppressioni di avvenimenti sportivi quali i campionati del mondo di hockey, le Olimpiadi e i campionati europei di calcio. Si sa che l’economia svizzera, per il fatto che da noi sono localizzate le organizzazioni sportive internazionali, trae sempre grandi benefici da questi avvenimenti. Se un campionato del mondo di calcio può avere un impatto positivo sulla crescita dell’economia svizzera dell’ordine dello 0,3-0,4%, Olimpiadi e campionati europei assieme – per non parlare dei mondiali di hockey – potrebbero di sicuro avere un impatto della medesima ampiezza se non superiore. Come dire che difficilmente il calo del Pil svizzero per il 2020 sarà inferiore al 2%.
così) più sulla Brexit che su tutto il resto. Questo governo all’inizio della crisi parlava di «immunità di gregge», di contagi inarrestabili, «preparatevi a salutare molti vostri cari», aveva detto Johnson: poi il Regno Unito si è messo sulla scia della maggior parte dei paesi, ma quell’aria di sacrificio iniziale è ancora lì, la respirano tutti, è rimasta appiccicata negli appelli di medici e infermieri che dicono che manca il materiale sanitario, che denunciano una superficialità sciagurata da parte del governo. L’incertezza non riguarda soltanto il passato: ora che si contano i danni economici oltre a quelli umani e si vuol guardare avanti, alla agognata «fase due» dell’allentamento del lockdown, gli inglesi non sanno chi, come e quando qualcuno potrà prendere le decisioni – decisioni cruciali. Ogni paese si sta interrogando sui prossimi passi, c’è chi già si avvia verso la riapertura con andatura cauta, e gli inglesi che pure fremono come tutti non sanno neppure chi li guiderà in questa transizione complicata. La Regina è arrivata a spazzare via per quanto possibile l’aria di sacrificio e in-
certezza, il vento che allontana le nuvole più nere: non può fermare la tempesta, la Regina, nessuno lo può fare, ma può dare gli strumenti storici, mentali, culturali per affrontarla nel migliore dei modi. Il parallelismo più immediato, considerata la retorica da guerra che permea i discorsi di molti leader politici, è quello con la Seconda guerra mondiale, che come si sa la Regina conosce molto bene. In realtà Elisabetta II ha fatto un solo riferimento esplicito al conflitto mondiale, ma ha disseminato il suo discorso di simboli e di ritornelli che suonano familiari agli inglesi e che costruiscono – ribadiscono – il carattere britannico. La Regina parla dell’oggi e agli inglesi di oggi ed è straordinario come una signora ultranovantenne che rappresenta una delle istituzioni più anacronistiche della modernità riesca a trovare le parole giuste per rassicurare e motivare l’attualissima società odierna. Ha detto che gli applausi ai medici e agli infermieri sono «l’espressione dello spirito nazionale», ben rappresentato dagli arcobaleni che disegnano i bambini per ricordarci che andrà tutto bene; non ha parlato di battaglie e di sacrifici e di pene, ma della disciplina
degli inglesi, della loro determinazione tranquilla nel rispettare le regole e prendersi cura degli altri, dell’orgoglio britannico come carattere e non come supremazia. Per questo il discorso è piaciuto anche a chi inglese non è e a chi non ama particolarmente le monarchie: le parole di unità e orgoglio della Regina avevano un carattere universale, ci hanno messo tutti di fronte alla necessità di superare insieme – solo insieme si può – l’emergenza, facendo attenzione anche alle azioni più banali, perché il virus sta spezzando i patti sociali uno dopo l’altro: basta guardare le statistiche per capire che non è tanto l’età il problema, quanto la povertà e la zona in cui si abita (in America la tragedia è fin troppo evidente visto l’impatto del virus sulla comunità afroamericana). E guardandoci tutti negli occhi la Regina ha detto la frase più potente e più emozionante: «We will meet again», ci rincontreremo. È una citazione della canzone che Vera Lynn cantava per i soldati in guerra, ma è attuale e universale: di tutte le promesse la più concreta, una carezza che sa d’amore e che riempie il vuoto delle città, con la sua sfumatura verde smeraldo.
era sbagliato: ragionare in termini di uguaglianza delle tre stirpi dinanzi alla costituzione e alla legge – osservò l’avvocato Fulvio Bolla, presidente della commissione granconsigliare – era come porre sul medesimo piano «la volpe e la cicogna di fronte alla bottiglia dal collo lungo…». Nel secondo dopoguerra le campagne rivendicative s’incentrarono sulla necessità di integrare pienamente il cantone nella rete autostradale nazionale. Lo sviluppo vertiginoso del traffico veicolare rendeva ormai improcrastinabile lo scavo di un tunnel stradale sotto il massiccio del Gottardo. Parallelamente si richiedeva alla Confederazione un più sostanzioso aiuto finanziario per la tutela e la promozione dell’italianità. Insomma, continue petizioni per correggere le distorsioni e per esigere dalle autorità centrali un trattamento che tenesse conto delle disparità di
fatto. Ancora nel 1995, il Consiglio di Stato constatava che le sue preoccupazioni trovavano «solo raramente» la comprensione che si attendeva. Ciò nonostante la fiducia nel sistema, se non nell’amministrazione centrale, rimaneva intatta; capitava, è vero, che l’ingranaggio federalistico ogni tanto s’inceppasse, ma in tali occasioni Berna aveva sempre dimostrato benevolenza e sollecitudine nei confronti degli anelli più deboli della famiglia confederale. «La Svizzera sarà giusta», confidava nel 1938 il deputato liberale in Gran Consiglio Aleardo Pini: «è questa la ferma convinzione che ogni ticinese esprime oggi nell’imminenza di un nuovo passo del Governo cantonale a Berna sicuro che una politica federale saggia e chiaroveggente aiuterà una tale rinascita economica e spirituale del Ticino…». Un’attestazione di affetto, ma anche un invito a non mollare la presa.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Una Regina per tutti nascoste e sguardi indecifrabili) e le sue implicazioni nel rapporto tra la monarchia e gli inglesi. Non sapremo mai se la rappresentazione televisiva è fedele alla realtà, sappiamo di certo che le parole della Regina sono state un balsamo, una cura per il popolo britannico che oltre a dover affrontare la pandemia da coronavirus – come tutti – si ritrova con il primo ministro, Boris Johnson, in terapia intensiva e con una catena di comando incerta e preparata (diciamo
AFP
Il volto della Regina d’Inghilterra (foto) compare sui cartelloni del Regno Unito rimasti senza pubblicità, il verde smeraldo del vestito che indossava durante il discorso alla nazione del 5 aprile è fisso sulla retina dei britannici come la sfumatura cui affidarsi e aggrapparsi, da cui farsi rassicurare e sorreggere. Elisabetta II si rivolge di rado ai suoi sudditi oltre le occasioni tradizionali: la serie televisiva «The Crown» ricostruisce questa reticenza (con molte lacrime
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La Svizzera sarà giusta, Berna capirà… Per un attimo si è temuto che la «Virusfrage» riaprisse antiche ferite tra Bellinzona e Berna: un nuovo strappo, a sfilacciare un tessuto che non è mai stato saldissimo negli ultimi due secoli. Già nell’Ottocento era sorto, impellente, l’interrogativo su come la giovane repubblica potesse agganciarsi al carro federale attraverso un collegamento viario stabile, non più dipendente dai capricci meteorologici e dai rigori dell’inverno. Per i politici di allora, in primis per Stefano Franscini, quello dell’isolamento era un cruccio costante: «Tutto il Cantone Ticino ne’ mesi di novembre, dicembre, gennaio, febbraio e marzo puossi quasi dire tagliato fuori dal resto de’ suoi confederati oltramontani. Tre vie ci mettono in diretta comunicazione con essi nella bella stagione, due sole e non sempre praticabili nella trista. Ond’è che in generale noi troviamo più agevole il cambio dei
prodotti con Piemontesi e Lombardi» (Statistica della Svizzera, 1837-38). L’apertura dell’asse ferroviario del San Gottardo, nel 1882, ridiede speranza e ossigeno all’anemica economia ticinese. A bordo delle traballanti carrozze della «Gotthardbahn», compagnia privata con sede a Lucerna, arrivarono capitali e imprenditori. Sulle rive del Ceresio e del Verbano spuntarono grandi alberghi, i borghi lacustri divennero animate cittadine percorse da tramvie. Ai porticcioli attraccavano battelli gremiti di turisti nordici. Ma l’agognata ferrovia non fu benefica per tutti i rami economici. I settori che intendevano smerciare i loro prodotti oltralpe si ritrovarono gravati da tariffe esorbitanti e quindi anti-economiche: erano le famigerate «soprattasse di montagna» ch’erano rimaste anche dopo la nazionalizzazione della «Gotthardbahn». A pagarne lo scotto
era soprattutto l’industria del granito. Ancora negli anni Trenta del Novecento risultava che un gradino di un metro lineare costasse a Osogna fr. 12, mentre le spese di trasporto Osogna-Berna ammontassero a fr. 10.50… Queste crasse discriminazioni generarono ripetute arrabbiature e ondate di proteste, soprattutto durante il periodo interbellico. Bellinzona fece presente più volte la particolare situazione in cui versava il Ticino attraverso «memoriali» passati alla storia come «rivendicazioni». Il primo fu inviato nel 1925, il secondo nel 1938. La sensazione generale era che gli «orsi bernesi» non capissero, che fossero sordi alle esigenze di una regione apprezzata unicamente per le sue bellezze naturali, come «Ferienland», ma non come comunità in carne ed ossa alle prese con i bisogni della vita quotidiana. Considerare il Ticino alla stregua degli altri cantoni
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Idee e acquisti per la settimana
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Cultura e Spettacoli Una mostra che non c’è Un giro virtuale nella grande mostra sugli Etruschi al Museo Civico Archeologico di Bologna
Cartoline dalla quarantena Vinicio Capossela e Angelo Ferracuti raccontano le loro impressioni dalla quarantena domestica
Annamaria balla Per la giovane e affascinante Annamaria Ajmone la danza è materia viva malleabile
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Tears For Fears reloaded A distanza di 35 anni esce un cofanetto celebrativo della storica band britannica pagina 35
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Per sempre uniti dalla letteratura
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Grass: storia di un rapporto travagliato
Natascha Fioretti In tempi in cui Tamedia annuncia che i settori sapere, cultura e società scompariranno e saranno riuniti in un unico grande ressort chiamato Vita (Leben) perché meglio risponde alle aspettative dei lettori contemporanei, vale più che mai la pena tuffarsi nel libro del giornalista e critico letterario tedesco Volker Weidermann che con grande passione, ricchezza di dettagli storici e personali racconta l’inseparabile e più famosa coppia della letteratura tedesca del secolo scorso. Soprattutto narra di un tempo in cui le pagine di cultura non solo erano il fiore all’occhiello dei giornali, ma uno spazio animato da una critica dissacrante e costruttiva, pagine in cui la società si identificava e trovava ispirazione in una dialettica del confronto. Ad unire il premio Nobel per la letteratura Günter Grass e il papa della critica letteraria tedesca Marcel Reich- Ranicki non furono soltanto le origini polacche (nato a Danzica il 16 ottobre 1927 il primo, a Woclawek nel 1920, il secondo). I due hanno condiviso il terreno di gioco di una vita, una passione viscerale per la letteratura che in modi e circostanze diversi ha segnato il loro destino e rappresentato la loro ragione di vita. L’uomo delle SS e l’ebreo, il poeta e il suo critico sopravvissuto al nazismo non si sono scelti. Erano due avversari che si affrontavano a colpi di fioretto in nome di una certa idea di letteratura e di una certa idea di critica. Secondo Marcel Reich-Ranicki il critico «deve saper decidere, deve dire chiaramente sì o no e assumersi il rischio del suo giudizio». Non solo, il critico deve sapersi confrontare con le questioni morali, filosofiche e ideologiche del suo tempo. Deve esercitare il suo influsso sulla letteratura e sugli autori. Ne segue che la letteratura deve essere impegnata, capace di confrontarsi con le grandi questioni morali del presente. Per Günter Grass, invece, deve alimentare il dubbio. Occasioni, rare, di riconciliazione tra i due ci sono state, una stretta di mano o un pranzo a base di pesce cucinato dallo scrittore nella sua casa berlinese che al critico è andato di traverso. Era terrorizzato dalle spine.
Il primo incontro avviene a Varsavia nella lobby dell’Hotel Bristol. È il giugno del 1958. Marcel in quei giorni pensa a fuggire dalla Polonia per tornare in Germania. Günter Grass non gli piace, lo descrive come un uomo trasandato, dall’abbigliamento zingaresco che gli incute paura. Si rallegra del suo buon tedesco e delle sue buone maniere. Più tardi, all’amico comune Andrzej Wirth, che li ha presentati, scriverà «Stai attento! Non è uno scrittore tedesco ma un agente bulgaro». Il secondo avviene qualche mese dopo in Germania alla riunione del Gruppo 47, il più importante collettivo di scrittori della Germania ovest del secondo dopoguerra. È la prima in pubblico del tamburino nano Oskar Matzerath. In quell’occasione Günter Grass chiede a Marcel Reich-Ranicki: «che cos’è lei, un polacco, un tedesco o cosa?». Il critico letterario della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» gli risponde «sono per metà polacco, per metà tedesco e per intero ebreo». È l’alba di una carriera di successo per entrambi, ma anche l’inizio di una relazione travagliata e appassionata. Il primo gennaio 1960 Marcel Reich-Ranicki firma l’articolo che inaugura la sua storica collaborazione con l’illustre settimanale di Amburgo «Die Zeit». È la sua critica al Tamburo di latta uscito nell’autunno del 1959 e, a dispetto delle più lusinghiere e favorevoli dei colleghi, è una stroncatura del romanzo («non vale molto») e una bacchettata all’autore («il suo grande talento stilistico è anche la sua rovina»). Lo invita a combattere i nemici che si annidano nel suo petto e conclude «Gli auguriamo molta fortuna». Poche, negli anni a seguire, sono le eccezioni in cui il critico concede allo scrittore il suo apprezzamento. Avviene per i suoi versi, Marcel Reich-Ranicki ha sempre amato il poeta Günter Grass «da nessuna parte è più ardito, naturale e sincero che nelle sue poesie». Tra i romanzi apprezza particolarmente Dal diario di una lumaca pubblicato nel 1972 in cui quattro storie tracciano il disegno di una colpa storica, nazionale e personale. Una è quella di Zweifel, sopravvissuto nella cantina di un uomo al quale ogni sera raccontava delle storie tratte dalla letteratura
Il critico tedesco Marcel Reich-Ranicki (chiamato anche «Literaturpapst») nacque nel 1920. (Keystone)
mondiale. Un’altra quella di un uomo delle SS che dopo la guerra diventò di sinistra. E se nel 1964 Marcel Reich-Ranicki aveva duramente condannato gli scrittori tedeschi, Günter Grass in primis, per aver taciuto in occasione dei processi di Auschwitz a Francoforte, nel 1973 capitò anche a lui di tacere. Da poco nominato responsabile delle pagine letterarie della «FAZ», insieme a sua moglie Tosia prese parte a un ricevimento a casa dell’editore Wolf Jobst Siedler. Grande fu lo sgomento quando vide Joachim Fest e scoprì che avrebbe presentato la sua monumentale biografia su Hitler. Una barbarie invitare dei sopravvissuti all’Olocausto a un evento simile. Ma il critico tacque. Era entrato nella stanza del potere dell’editoria tedesca e non intendeva uscirne, tacque per essere finalmente uno di loro. Tra il 1980 e il 1993 i due affilarono le lame. Una prima volta fu duran-
te la puntata della storica trasmissione televisiva di Marcel Reich-Ranicki Das literarische Quartett che consacrò definitivamente la sua fama e il suo potere. Lui e i suoi ospiti criticarono duramente il diario-reportage sull’India dello scrittore. Ma a far precipitare la relazione fu la famosa copertina del settimanale «Der Spiegel» nel 1995 in cui la caricatura di un indispettito Marcel Reich-Ranicki strappa in diretta il romanzo Ein weites Feld (Un lungo anno) che Günter Grass dedica alla riunificazione tedesca. Titolo e sottotitolo di copertina recitano «Mio caro Günter Grass… Marcel Reich-Ranicki sul fallimento di un grande scrittore». Non c’è che dire, tra i due, il più irruento, rumoroso, il più intransigente e ruvido, talvolta cattivo, fu Marcel ReichRanicki, perché con lui la vita era stata dura e impietosa. Quando poi nel 1999 Grass riceve il premio Nobel per la letteratura, il critico in un’intervista allo «Spiegel»
dice: «chi altri se non Günter Grass? Si immagini se lo avesse ricevuto Martin Walser, sarebbe stato un colpo tremendo. O lo stupido Peter Handke. Sarebbe stata una catastrofe!». I due, alla fine, si saluteranno in un grande abbraccio fraterno, l’abbraccio di chi nel bene e nel male ha condiviso un’esistenza. Marcel Reich-Ranicki gli dedicherà una poesia nella quale definisce lo scrittore «il poeta della nostra generazione». Günter Grass contribuirà al volume in omaggio agli 85 anni del critico ricordando il loro ultimo incontro «consapevoli di dipendere l’uno dall’altra ci siamo affrontati con delicatezza. Avrei dovuto abbracciarla. Lo faccio ora». Bibliografia
Volker Weidermann, Das Duell. Die Geschichte von Günter Grass und Marcel Reich-Ranicki, Colonia, 2019, Kiepenheuer & Witsch, 2019
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Cultura e Spettacoli
Nelle terre dei Rasna
Mostre Anche il Museo Civico Archeologico di Bologna ha dovuto chiudere i battenti: la grande mostra
sugli Etruschi in programma fino al 25 maggio è temporaneamente chiusa
Marco Horat Con i musei di mezzo mondo chiusi al pubblico e con l’impossibilità di viaggiare non resta che tentare qualche avventura virtuale, approfittando del fatto che molte istituzioni e siti archeologici propongono visite senza muoversi di casa. Non è la stessa cosa che vedere di persona ma, come si dice, meglio di niente. La grande mostra sugli Etruschi è attualmente chiusa, ma l’intenzione è quella di tornare presto a riaprire al pubblico le sale del Museo archeologico di Bologna, appena la situazione sanitaria lo permetterà. Chi non volesse aspettare può averne un assaggio cliccando su youtube (youtube.com/ watch?v=5ietqZJGX7c) e su www.lepida.tv/video/museo-archeologico-dibologna . Quella di Bologna una mostra che racconta la vita degli Etruschi (vent’anni dopo quella famosa di Palazzo Grassi a Venezia dove furono definiti riduttivamente «i giapponesi dell’antichità») che, oltre al piacere di presentare reperti noti di rilevanza archeologica e di grande valore estetico, aggiunge ulteriori elementi di conoscenza. Infatti negli ultimi decenni sono state effettuate nuove ricerche, acquisiti reperti importanti e ri-studiati oggetti nei depositi dei musei che hanno un po’ cambiato le carte in tavola e che ora la mostra vuole illustrare, dando agli Etruschi il ruolo centrale che spetta loro nella storia; con prestiti da una sessantina di istituzioni italiane ed estere per un totale di 1400 oggetti e
Urna cineraria in alabastro policromo con coppia banchettante, PerugiaBottarone,I metà IV sec. a.C.. (Firenze, Mus. arch. Naz., Polo museale Toscana)
un catalogo con saggi inediti che fanno il punto sulle ricerche. Vent’anni orsono Massimo Pallottino aveva dato una sterzata alle interpretazioni sull’origine degli Etruschi introducendo il concetto di formazione in loco di una cultura (poi definibile come etrusca), abbandonando quindi le teorie di una migrazione massiccia da terre lontane; ma recentemente notizie di iscrizioni in una lingua apparentata con l’etrusco sono saltate fuori sull’isola greca di Lemnos (terra metallifera per eccellenza) già considerata dagli studiosi possibile tappa del loro viag-
gio verso occidente. Comunque sia, le recenti acquisizioni sembrano portare alla conclusione che tra il XII e il X sec. a.C. abbia cominciato a prendere lentamente forma nell’Italia centrale una cultura originale, sfaccettata ma con caratteristiche comuni, grazie all’incontro di genti locali e di gruppi di popolazione provenienti dalla Grecia, abili navigatori e artigiani metallurgici. Una civiltà che nel I millennio a.C. ha marcato, in modi e fasi diversi, la penisola italiana dalla Lombardia alla Campania, passando per la Toscana, l’EmiliaRomagna e il Lazio, con intensi contatti
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commerciali e culturali, scambi di persone e idee con altri popoli del bacino mediterraneo e con quelli circostanti: Latini, Galli, Veneti, Liguri, Sanniti e naturalmente i Romani, che poi assorbirono il tutto. La mostra Viaggio nelle terre dei Rasna (come gli Etruschi chiamavano sé stessi) è un doppio invito che oggi rimane purtroppo sospeso in attesa di tempi migliori: da una parte a conoscere la civiltà etrusca partendo dalle origini per proseguire con la nascita delle città, il potere dei Principi nell’VIII-VI secolo, lo sviluppo di una forma di de-
mocrazia e la fine del mondo etrusco verso il I secolo a.C.; dall’altra a percorrere in prima persona, quando sarà possibile, le regioni d’Italia dove questo straordinario popolo ha lasciato tracce fondamentali alla scoperta di alcuni significativi paesaggi naturali e culturali, non limitandosi alle necropoli ma parlando anche di architettura civile, templi ed empori commerciali: Pyrgi, Cerveteri, Veio, Vulci, Populonia, Tarquinia e tanti altri ancora, dal Po a Pompei. Per l’occasione sono esposti una serie di reperti di grande impatto emotivo ed estetico in una cornice museografica moderna ed essenziale. Spettacolare la celebre tomba delle hydriae di Meidias con oggetti di tradizione greca, quali suppellettili in bronzo e i due grandi vasi dipinti a figure rosse che danno il nome alla tomba principesca di fine V sec. a.C.; oppure la curiosa sepoltura bolognese con un corredo in legno (un soppalco sul quale era deposto il cinerario coperto da un manto in pelle dal quale spuntavano i piedi rifatti in legno, sgabelli e un tavolo a 12 zampe con offerte votive) perfettamente conservatisi nei secoli. Ancora, un grande vaso da Chianciano con la rappresentazione simbolica in rilievo del viaggio di un’anima verso l’eternità, un trono pieghevole di magistrato in zanne di elefante e una tavola con la rappresentazione della città celeste in parallelo con quella terrestre. Per intanto vediamoceli virtualmente con la speranza di poterli godere presto con gli occhi e con il cuore.
Riempire di musica la clausura Jazz Due nuovi album da gustare
di questi tempi, firmati Border 4tet e Stahlwerk
DENTI PIÙ BIANCHI – SORRISO PIÙ SMAGLIANTE
Tornare alle vecchie abitudini: leggere buoni libri (magari quelli parcheggiati da tempo nella libreria, in attesa di un momento indefinito del futuro), ascoltare buona musica. Specialmente gli appassionati di jazz, di questi tempi, in mancanza di concerti e di esibizioni dal vivo potrebbero essere interessati a qualche suggerimento di ascolto. Tanto più che gli acquisti via web sono sempre più comodi e affidabili. Il primo disco che vorremmo segnalarvi è quello di una formazione veramente piacevole e (se il termine può essere usato in una recensione seria) «simpatica». Sì, perché questo gruppo, composto da strumentisti che si collocano geograficamente sui due versanti della frontiera ticinese, persegue da anni un progetto artistico permeato da una forte coerenza stilistica e da un grande senso dello humor. Pubblicato dopo sei anni dalla loro precedente uscita discografica, il nuovo Different Roads ci presenta perfettamente intatta la natura gioco-
Grazie allo xilitolo, questa gomma da masticare senza zucchero aiuta a mantenere a lungo un alito fresco. Favorisce la prevenzione della colorazione superficiale dei denti.
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Un nuovo disco dopo sei anni.
sa e la volontà di compattezza dell’ensemble Border 4tet. Danilo Moccia al trombone, Marco Bianchi al vibrafono, Stefano Dall’Ora al contrabbasso e Silvano Borzacchiello alla batteria sono un «vero gruppo» e, rimanendo legati alla matrice mainstream del loro jazz, riescono comunque a impartire una lezione di stile e di compiutezza esecutiva come raramente capita di ascoltare. Different Roads (il titolo riecheggia il disco di Moccia e dei suoi Slidestream, Strade diverse, di cui qui troviamo un nuovo arrangiamento del brano eponimo) è un album che ci riconcilia con il piacere della musica, quello che spesso le esperienze esecutive contemporanee cercano di forzare e superare, in nome di una concezione estetica moderna. Proprio su un versante più sperimentale si colloca un altro disco proposto dal trio Stahlwerk, di cui fa parte il bassista ticinese Francesco Rezzonico. In collaborazione col pianista Dominic Stahl e il batterista Tobias Schmid, il trio propone nel suo primo album un’incursione nei territori dell’improvvisazione pura, accompagnata da brani a firma del pianista. L’atmosfera è naturalmente diversa da quella del disco precedente e, trattandosi di un trio per pianoforte, diremmo più scandinava. Non manca anche qui il senso di un progetto compatto e con ambizioni quasi classiche: la musica si dispone in quattro sezioni che sono state assemblate e articolate nella forma di una suite. Nel disco si gustano momenti lirici di grande piacevolezza, come nei brani Winter e Flug. Ottimo il lavoro di Rezzonico. /AZ
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Cartoline dalla quarantena
Cultura e Spettacoli
Il mondo degli scrittori visto dalla finestra di casa
Dalla finestra
Milano Siamo tutti all’angolo in questo momento, ma io ci sto
da una ventina d’anni
Vinicio Capossela Sto all’angolo, su un incrocio vicino alla stazione centrale. Il pavé è solcato dai binari del tram, linea numero uno. Corre da sempre da un capo all’altro dell’oscurità. Corre nel buio come lanciato verso lo strike. La strada ora è libera. Solo le corse del numero uno la solcano a intermittenza. Sono carrozze costruite nel 1928, così ben accessoriate, la lampadina, i sedili di legno lucido, le vetrate incorniciate dalla zigrinatura per i finestrini. I tram continuano a passare come a ricordarci del vivere civile. Il fatto che scorrono vuoti li rendi quasi sacri. Sottratti all’uso, ma presenti a ricordare il vivere cittadino, la gentilezza, le buone maniere, una certa aristocrazia del passato. Il loro clacson che suona come un campanello di albergo notturno, il fanale a monocolo sul muso. Restano i tram a ricordarci della città. Ora è arrivato uno strano camion, piuttosto alto e stretto. Un mezzo inconsueto. Ne sono scesi due uomini con tute antisettiche bianche, le mascherine. Hanno l’aria di dovere disinfestare qualcosa. Il loro strano mezzo passa un liquido sulle rotaie e le rende lucide, come quando è piovuto. Quando piove la strada diventa elegante come un vinile, ci si può pattinare sopra, è un nero da abito da sera, e poi quegli orologi che stanno ai polsi delle strade. Ma da un poco non ci si pattina più. Sono tre settimane. Vado a memoria. L’orologio è fermo, sa di buone maniere dimenticate. Nella immobilità forzata degli uomini gli oggetti diventano animistici. L’arredamento urbano, non più nascosto dal traffico, viene fuori nelle sue miserie e nelle nobiltà. Gli orologi fermi sembrano adeguarsi a questa dilatazione del tempo. Ne vedo pochi e ognuno segna un orario diverso. I tagli alla sanità che tanto si stanno facendo sentire devono avere riguardato anche gli orologi da polso delle strade. La decadenza del vivere civile inizia con l’abbandono degli orologi e delle cabine del
telefono e finisce con la mancanza dei posti in rianimazione, con la mancanza di mascherine e camici per i medici. Con la mancanza di un posto letto che porta a sostituire la carità cristiana reclamata dalle campane, con la selezione darwiniana in atto. Da qualche giorno le campane hanno preso a suonare a mezzogiorno, come per infondere coraggio. Hanno suonato anche a morto per parecchi pomeriggi. Il tram numero uno è già passato altre tre volte. Infonde ancora più conforto delle campane. Sembra dire nella sua non utilità che ci si può permettere di farlo circolare per ricordarci che si tornerà a prenderlo. All’angolo di fronte alla finestra c’è un piccolo supermercato. Un Pam di quelli con solo prodotti preconfezionati. La fila inizia dalla mattina. Ci sarebbe da fotografare l’angolo alla stessa ora, come nel bel film Smoke, con Harvey Keitel. Si vedrebbero file di persone ogni giorno un poco differenti. La maggior parte ha la mascherina e viene difficile riconoscerli. Anche se sono del quartiere e ci si incrocia da anni, improvvisamente si è diventati non riconoscibili. Potremmo essere tutti adatti alla rapina del supermercato e invece mai la gente è apparsa così docile e obbediente. Non si sa se per senso civico o per paura. Di fronte al Pam è la farmacia. C’è una piccola fila anche lì fuori. Dall’altro spicchio dell’angolo la ferramenta. Ci sono entrato tre settimane fa per comprare una lampadina. Stavano mettendo della plastica trasparente tra il banco e il pubblico. E avevano attaccato cartelli in una ventina di alfabeti diversi, tenere la distanza di un metro. Non avrei mai pensato che potessero essere necessari tanti alfabeti. E poi ci sono i cani. Dietro i loro padroni. I cani non hanno cambiato abitudini. I padroni cercano di guadagnare il marciapiede libero. C’è stato un notevole aumento di uccelli e i loro versi si sono resi udibili. Forse sono aumentati o forse è per via del silenzio. Il silenzio è un fatto totalmente insolito.
Ecco un altro tram è passato. Vuoto e illuminato. Mi sono impigliato in questo quartiere molti anni fa e ci staziono moderatamente. L’ho scelto perché mi sembrava adatto alle assenze. Ora è diventato un teatro dell’assenza. La voce di Annibal Troilo si accomoda su tutto quello che non c’è. Canta il suo nocturno al quartiere… «Mi dissero una volta che me ne ero andato, ma quando, però quando? Se sempre sto tornando, qui dove anche le stelle trattenendomi come mani amiche mi dicono …fermati qua... fermati qua». Da quanto desideravo un quartiere me lo sono inventato qui in questo luogo d’assenza. Ora le musiche d’assenza suonano ancora più adatte. Siamo tutti esuli. Tanti anni fa mi capitò di passeggiare col poeta Gregory Corso. Nel cuore della notte si mise a urlare per le strade alle case silenti... dove siete tutti ? Perché dormite? Lo stesso faceva Chinaski dando calci alle macchine. Volevano svegliare questo mondo addormentato. Un mondo dove solo le vetrine dei negozi di marca restano a illuminare le strade. La gente sparita da un pezzo. Le restrizioni imposte dal virus sembrano segnare con l’evidenziatore il nostro vivere a distanza, distanza mediata dalla tecnologia. Il nostro vivere serviti a domicilio. La realtà è che non c’è niente di così innaturale in questa situazione. Sembra solo il nostro usuale modo di vivere portato alle estreme conseguenze. L’individualismo collettivo si è fatto individualità e separazione, ma in modo conforme alla linea intrapresa. La strada ora è vuota, sì, ma di assenze di lungo corso. Salvatore, il senza tetto continua a venire al suo posto. Non ci sono più passanti per la sua elemosina, ma viene a mettersi al solito posto. Lo vedo dalla finestra. «Allora tutti a cuccia! Vi hanno messo la museruola e ora tutti a cuccia dovete stare!». Ride con la sua solita causticità verso il sistema. In tutta la strada è il più libero. I vagabondi ancora percorrono i loro passi. Ecco passare «il profeta». Ha una aria mediorentale. Parla da
Il tram numero 1 continua a passare sotto la finestra di Capossela.
solo ma con un tono magniloquente. Sembra Gesù al sinedrio. Cammina a piedi scalzi. Passano diversi ragazzi di colore in bicicletta con le loro scatole termiche. Il mondo della consegna a casa ha fatto un ulteriore passo avanti. Oggi sarà il primo aprile. Se penso a un pesce d’aprile penso al più grosso: la balena. C’è un film di Béla Tarr, Le armonie di Werckmeister. Lì c’è una grande balena imbalsamata che arriva su un rimorchio, condotta da un nano dell’apocalisse. La sua venuta provoca la cessazione dell’ordine. Libera il tabù della violenza. L’ordine viene ripristinato a mezzo dell’esercito. Col ripristino dell’ordine viene il silenzio, quello delle ossa imbiancate. Delle strade deserte, dell’ordine della dittatura. Mi viene in mente oggi che a Budapest profittando dell’emergenza sanitaria sono state promulgate disposizioni da colpo di stato. Ogni occupazione ha avuto come prima conseguenza il silenzio e le strade deserte. Non è difficile sentirlo nell’aria. Eppure c’è anche un’attenzione diversa. Si inizia a fare caso a tutto. A fare i conti con tutto. Ci si concede il lusso della profondità. Lo spazio ci si è ristretto attorno. Non resta che scavare in profondità. Gli uomini con la tuta ora hanno aperto un bocchettone. Era nascosto sotto la strada. L’acqua ha iniziato a scorrere potente. Hanno fatto il pieno. Con le tute e pieni di precauzioni, ma tutti noi stiamo aprendo i rubinetti. Le cose interrate affluiscono in noi con forza. Non è tempo
da ammazzare questo. Ha un prezzo troppo alto per sprecarlo. Tutto questo getto interno va convogliato, perché non si traduca in paralisi. È energia in potenza, come quando la molla si mette sotto carica. Gli uomini in tuta fuori hanno fatto il pieno. Proseguono il loro giro a pulire binari. La strada resta vuota e silente. Quello che conta è sempre quello che non si vede. È li che avviene l’essenziale. Il vederci tutti adottare comportamenti apparentemente ridicoli avviene perché si cerca di difendersi da qualcosa che non si vede. Di visibile ci sono i nostri limiti, i nuovi gesti, i nuovi goffi accessori. Di visibile i proclami, l’infodemia che ha travolto ogni minuto delle nostre nuove esistenze. Di invisibili ci sono le manovre, il riassestarsi del potere. I nuovi territori di controllo che si aprono. Di visibile il volto dei governanti, di invisibile il capitale che li governa e scarica loro la responsabilità. Di visibile c’è l’uomo che si è messo a correre nella strada, di invisibile la moria nelle case di riposo e i responsabili di quella moria. Di visibile ci sono le finestre, di invisibili le violenze domestiche. Di visibile c’è la sicurezza, il bisogno della sicurezza. Di invisibile la libertà. Di invisibile ci sono gli spazi interiori che si aprono nel silenzio. Ho cercato di descrivere quel che si vede da questa finestra, ma quel che davvero conta è quel che non si vede. Di quello soprattutto occorre avere cura. La stessa che hanno di noi questi tram che continuano a passare. Non invano.
fatto strane idee sul mio conto. Prima non avevamo mai scambiato una parola. Se faccio mente locale, comprendo che da 50 giorni non vado a passeggiare nella piazza principale e da altrettanti diserto il mio ufficio, dove mi reco da 35 anni, già la fine della via per me è l’ignoto, la notte scendo a fumare il sigaro e mi pare di vagare in un mondo disabitato, l’ultimo volo per Manaus è un ricordo lontano, mi dico che appena tutto questo finirà atterrerò di nuovo in Amazzonia, negli spazi infiniti delle foreste pluviali, per un reporter è dura la stanzialità. Adesso devo accontentarmi delle passeggiate con mia moglie Alessandra che sembrano gite avventurose, intrepide, vertiginose, spingersi per esempio verso la Clinica privata Villa Verde, non più di duecento metri dal nostro civico, chissà come sarà tutto oltre la strada? Mentre in casa s’inganna il tempo, si fa melina della vita, «la nostra separazione era destinata a durare e dovevamo imparare a scendere a patti con il tempo,» come ha scritto ne La peste Albert Camus.
Quando mi allontano, sento quasi una fitta allo stomaco, un piccolo senso di spaesamento, arrivo giusto alla fine del muraglione, dove ci sono i manifesti funebri. Adesso si muore soli, senza la carezza di una persona cara, senza poter guardare negli occhi un figlio, un amico, un’amante. La settimana scorsa nella via per due volte è arrivata l’ambulanza. Sono scesi infermieri e portantini, medici con le tute verdi, i volti seriosi dietro le mascherine, «sono venuti a prendere una persona» ho detto a mia moglie quando sono rientrato. In quel momento molti guardavano morbosi dalle finestre, anch’io mi sono fermato, temporeggiavo, non riuscivo ad aprire il portone del palazzo, a girare la chiave. Sono sicuro che molti avranno pensato che sarebbero potuti tornare. Mi è subito venuto in mente il vecchio signore del piano di sotto, perché l’angoscia bisogna spostarla da qualche parte, poi ho pensato che potevano venire anche a prendere me, ma è durato pochissimo, il tempo di salire le scale.
Scendere a patti con il tempo
Fermo Quando tutto ciò che è famigliare di colpo si fa estraneo
Angelo Ferracuti Prima della clausura, quando uscivo da casa, vedevo soprattutto persone e automobili e andavo di fretta, i rumori erano i rombi dei motori, lo stridio dei freni, il suono dei clacson, quei rumori di sottofondo che m’impedivano di ascoltare il canto soave degli uccelli, la musica o le voci dai balconi delle case che sento ora. Tutti vivevamo dentro quel rumore, che cancellava la natura e la profondità dei sensi nella via dove in questi giorni passeggio con Buck, il mio boxer londoniano, un’estensione della mia libertà in tempi cupi di divieti. Adesso però tutto sembra più prossimo. Mi sono accorto che c’è un piccolo bosco fitto di sempreverdi rigogliosi che non guardavo mai, ora distinguo i faggi dagli abeti e dai lecci. E dalla mia finestra in questi giorni scorgo di sotto un ciliegio fiorito, che continua solitario la sua vita naturale, e non sa niente dei contagi, dei morti, della gente intubata nei reparti di terapia intensiva. I suoi fiori sono della tonalità del rosa in
Dalla finestra di Angelo Ferracuti.
piccoli grappoli e sbocciano come ogni primavera. Gli incontri per strada sono più intensi, seppure a distanza, protetti dalle mascherine, gente con la quale non ho mai parlato mi saluta, vuole dirmi qualcosa, un uomo che incontro a pas-
seggio da almeno sei anni, un paio di giorni fa davanti ai bidoncini della raccolta differenziata, un’altra meta molto ambita, mi ha detto che ha letto il mio ultimo libro, «adesso mi ronzano molte cose in testa, un giorno ne parliamo» gli è venuto da dire sibillino. Forse si è
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Cultura e Spettacoli
Ajmone, ballare fa bene
Personaggi La danza di Annamaria Ajmone abita e riempie spazi immaginari
Giorgia Del Don Nell’universo della danza contemporanea italiana Annamaria Ajmone è di sicuro una figura a parte. Malgrado sia ancora relativamente giovane (è nata nel 1981), la sua singolarità ha da subito sedotto pubblico e critica che non esita a definirla come «una delle danzatrici più talentuose del panorama italiano». Un riconoscimento che sembra non spaventarla ma che al contrario nutre la sua innata curiosità e rende la sua riservatezza ancora più affascinante. Paladina di una danza malleabile che si trasforma in materia porosa e fluida, al contempo umana e vegetale, Annamaria Ajmone fa parte di quel gruppo di interpreti e coreografe (insieme all’immancabile Cristina Kristal Rizzo, la discepola di Romeo Castellucci Silvia Costa, l’inclassificabile Silvia Calderoni o ancora la rivoluzionaria Chiara Bersani) che destrutturano e riconsiderano non solo il ruolo della danza, ma anche quello della donna. Un’impresa di certo non facile se consideriamo le logiche patriarcali che regolamentano purtroppo troppo spesso il panorama della danza contemporanea italiana (e non solo). Il corpo, le relazioni complesse che instaura con il luogo che lo accoglie e che lui stesso ingloba e trasforma, diventa strumento plasmabile e in costante mutazione: né maschile né femminile, né umano né animale, ma nemmeno vegetale o virtuale, bensì tutte queste cose insieme verso la costruzione di qualcosa di nuo-
vo e inafferrabile. Quella di Annamaria Ajmone è una danza che respira, ampia e allo stesso tempo satura di piccoli dettagli che la rendono grandiosa. Una danza che ci invita a esplorare paesaggi inaspettati. Sebbene il linguaggio del corpo sembri per Ajmone una seconda natura, si avvicina alla danza contemporanea abbastanza tardi, a ventitré anni, dopo una laurea in Lettere Moderne all’Università di Milano. È al corso per danzatori dell’Accademia Paolo Grassi, dove si privilegia la tecnica del così detto «teatrodanza» basata sul lavoro di Pina Bausch, che si forma. Fra le sue referenze cita tanto ballerine e coreografe come l’islandese Erna Omarsdóttir e la sua danza ibrida, Ariella Vidach che esplora le relazioni possibili fra danza e nuove tecnologie, o più in generale la corrente detta della «danza belga», precisa e fluida come la lava di un vulcano, quanto filosofi: Heidegger in primis (il suo riferimento teorico) o biologi (con i quali ammette che amerebbe collaborare). Una passione per la contaminazione delle discipline che si sente nella sua danza, sorta di catalizzatore di un mondo originalissimo. Se dovessimo definire il lavoro di Annamaria Ajmone in due parole, queste sarebbero «corpo» e «spazio» in quanto strumenti d’indagine del mondo che ci circonda, così come ognuno di noi lo percepisce. Il corpo come architetto di uno spazio che solo lui sa abitare, che ingloba e fagocita prima di essere a sua volta trasformato da esso.
Un andirivieni fra soggettività e oggettività, diluizione e concentrazione, che trasforma ogni piccolo movimento (delle mani, delle dita dei piedi, del viso) in qualcosa di prezioso e fondamentale. Il vissuto è sempre il punto di partenza dei suoi lavori che, a parte Tiny (premio DNA 2014), non sono mai concepiti per una scena teatrale ma al contrario nascono proprio dall’incontro del suo corpo, e quindi della sua propria soggettività, con lo spazio che la circonda. Il corpo atletico e poroso di Annamaria Ajmone assomiglia a una pianta parassita che si insinua in uno spazio per trasformarlo in scena, in un luogo abitato, esplorato, annusato, assaporato. Allo stesso tempo, gli oggetti che esplora (un camino antico, per esempio, come nel caso di Innesti, progetto creato per l’Istituto Italiano di cultura di Parigi nell’ambito del Progetto di pratiche d’abitazione contemporanea) ne plasmano il corpo; la storia che abita i luoghi che «innesta» ne influenzano i movimenti. Come una vera e propria urbanista, la coreografa abita con la sua danza una serie di spazi atipici (rispetto alla scena teatrale), entra in osmosi con essi, instaura un dialogo con la superficie che li compone e con la storia che li accompagna. Regala al luogo le sue sensazioni corporali, le ritrascrive coreograficamente trascinando con sé gli spettatori che riscoprono letteralmente lo spazio che li attornia. Trigger (con musiche di Palm Wine, non a caso fedele collaboratore
Annamaria Ajmone (a sin.) nello spettacolo Mash. (Jacopo Jenna)
di Cristina Kristal Rizzo) è emblematico di questo potente rituale. Sistema mobile composto da un rettangolo lungo il quale si siedono gli spettatori, l’apparato scenico si organizza in modo differente secondo lo spazio che occupa, come un ring dentro al quale si concentra l’essenza stessa del luogo che lo ospita. Il rettangolo introdotto nello spazio prescelto dalla coreografa ne ridisegna le proporzioni e allo stesso tempo condiziona la sua danza, rimettendo in questione la nostra stessa oggettività.
Paesaggi coreografici in costante mutazione che fanno parte di un solo e unico immaginario: originale e mutevole. Al di là delle riflessioni teoriche che la compongono, la danza di Annamaria Ajmone resta comunque sempre ludica e intrigante (affascinante l’utilizzo di gesti e suoni che rimandano al mondo animale) perché come dice lei stessa «ballare fa bene». Una gioia che si legge sul suo viso, espressivo come pochi: senza tempo e senza genere, giocoso ed enigmatico, costantemente abitato. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Una nostalgia ben riposta
Musica Dalla sedia dell’analista: 35 anni dopo, il capolavoro dei Tears for Fears riacquista
nuova vita grazie a un cofanetto celebrativo a dir poco magistrale
Benedicta Froelich Nella storia del pop-rock di matrice anglosassone, vi sono album che hanno segnato indelebilmente l’immaginario della propria generazione d’appartenenza; e sebbene l’effetto nostalgia e il rimpianto per la giovinezza perduta giochino senz’altro un ruolo di rilievo nell’odierna rivalutazione della musica anni 80, non c’è bisogno di essere degli esperti per rendersi conto di come la formazione inglese dei Tears for Fears non corrisponda affatto all’identikit della tipica «meteora» degli eighties – ovvero, a quell’effimera tipologia di one hit wonders che, dopo un solo 45 giri di successo, sono state presto inghiottite dall’anonimato. In realtà, il duo fondato nel 1981 da Roland Orzabal e Curt Smith si è dimostrato ben più creativo e artisticamente solido della maggior parte dei gruppi del tempo, al punto da aver proseguito il proprio sodalizio ben oltre l’epoca d’oro, conquistandosi nel frattempo una folta schiera internazionale di fan. E a detta di molti di essi, l’album forse più rappresentativo della band (e senz’altro quello di maggior successo critico e commerciale) è Songs from the Big Chair, che oggi, in occasione del 35mo anniversario della pubblicazione, beneficia di una riedizione a dir poco lussuosa. Si tratta della ristampa di un cofanetto originariamente pubblicato nel 2014, ormai da tempo esaurito – e ora, infine, riproposto ai molti fan ansiosi di approfittare dei ben sei dischi in esso racchiusi; i quali, sebbene traboccanti delle solite, inevitabili quanto superflue, versoni remix, offrono all’ascoltatore anche una miriade di inediti e vari lati B – insieme a selezioni live tratte dal ben noto concerto alla Massey Hall di Toronto e dalle favoleggiate sessioni con Richard Skinner; materiale che, a distanza di oltre tre decen-
ni, appare particolarmente prezioso, e che è qui accompagnato da due booklet commemorativi. Del resto, nel 1985, il successo di Songs from the Big Chair finì per stupire i suoi stessi autori: infatti, benché, due anni prima, l’esordio The Hurting fosse stato accolto da ottimi riscontri, il secondo album costituiva una sorta di azzardo per Orzabal e Smith, i quali scelsero di convertire il synth-pop del disco precedente in atmosfere di più ampio respiro, in grado di spaziare dal sound cantautorale e intimista della ballata Woman in Chains alle sonorità quasi orchestrali e polifoniche del tormentone radiofonico Shout, forse la hit più nota del duo. Tali suggestioni appaiono valorizzate appieno da questo nuovo box set, nel quale l’album viene presentato in ben due versioni rimasterizzate (di cui una in surround 5.1, a opera di Steven Wilson), il che dona a ogni traccia una purezza di suono assoluta, a esaltare la forza e pulizia degli arrangiamenti – confermando, una volta di più, come il disco risulti tuttora moderno, grazie alla potenza di un sound raffinato e a una perfetta fusione tra testo e musica. Soprattutto, Songs from the Big Chair mostra la versatilità del songwriting di Orzabal, principale autore del repertorio dei Tears for Fears, il quale si cimenta qui con brani assolutamente delicati e struggenti – su tutti, I Believe, dedicato allo storico musicista progressive Robert Wyatt – senza, tuttavia, disdegnare le sperimentazioni (si vedano The Working Hour e Broken, intrisi di influenze jazz di matrice statunitense). Il disco conduce così le suggestioni tematiche degli esordi a un livello ancor maggiore di consapevolezza, riprendendo l’interesse di Roland per la psicoanalisi, fortemente legato alla sua infanzia traumatica e qui evidente fin dal titolo – riferimento alla «big chair» dell’analista di Sybil, donna dalle personalità multiple
Nicola Mazzi
Un capolavoro resta sempre un capolavoro.
protagonista di una celebre miniserie televisiva anni 80. E in effetti, l’unica, inspiegabile mancanza di questa pur accuratissima edizione risiede nell’assenza delle bonus tracks già incluse nella prima ristampa commemorativa del 1999: su tutte, la misconosciuta «title track» The Big Chair, la quale riproduceva tutta la destabilizzante angoscia della malattia mentale di Sybil. A parte ciò, comunque, il cofanetto realizza ogni possibile desiderio degli ascoltatori, offrendo ben tre dischi di remix, outtakes, missaggi alternativi ed esibizioni live delle varie tracce, tra cui tutte le versioni esistenti (singolo, videoclip e radio edit d’epoca) di ogni hit. Non solo: i due DVD che chiudono
il ricco box set includono anche il documentario Scenes from the Big Chair e svariate esibizioni live presso la BBC, mentre una guida completa ai contenuti è poi fornita dai booklet, vere e proprie rarità per completisti. Così, questa riedizione di Songs from the Big Chair rappresenta una preziosa occasione per riscoprire il contributo fornito alla storia del poprock da un gruppo d’indubbio valore, ma troppo spesso relegato nell’ambito delle «macchine da hit’ tipiche degli anni 80; oltre che per ricordare come, lungi dall’adagiarsi sugli allori, Roland e Curt siano a tutt’oggi attivi come live performers. In barba ad ogni facile nostalgia.
Linguistica Esigenze e necessità del parlare bene dei medici e della medicina, soprattutto
quando la tensione si alza ed è importante trovare parole e frasi adeguate
«Ed hanno pure in questo genere di scritture non poco adito all’eloquenza. Quella stessa felice disposizione al ben parlare che rende accetto al malato piuttosto uno che l’altro medico, quella stessa rende preferibile, riferita allo scrivere, i consulti dell’uno a quelli d’un altro». Nel popoloso e disomogeneo mondo delle scienze naturali e di quelle esatte, la medicina ha, dal punto di vista della comunicazione, doveri e responsabilità decisamente superiori a quelli delle altre discipline. I medici hanno, insieme ai redattori dei foglietti illustrativi dei farmaci, un dovere comunicativo che impone loro di conoscere e sapere usare diversi canoni, diverse varietà della loro stessa lingua specialistica; perché ne va della salute dei loro interlocutori principali. I contesti nei quali i medici operano impongono che essi sappiano parlare con precisione e oggettività, assicurando comprensibilità a innumerevoli destinatari: ai colleghi, alla ricerca su libri e riviste, al mondo dell’università degli studenti e dei manuali e, in ultima analisi, al paziente. Il discorso sarà, di volta in volta, scientifico specializzato, divulgativo, pedagogico, ufficiale, colloquia-
L’importanza di dire le cose nel modo giusto. (Keystone)
le, e i suoi caratteri generali eviteranno le ambiguità e saranno coerenti dal punto di vista logico; preferibilmente non porteranno sentimenti e stati d’animo, privilegiando tutt’al più e tra le righe un po’ di sana e utile empatia. Il repertorio si compone di più varietà di lingua, ma anche di più codici linguistici. Perché il linguaggio della medicina preso in astratto e sul piano generale ha una sua precisa identità, sa da dove viene e dove va: ha il latino e il greco come basi lessicali storiche e
Serie TV Su Netflix
la quarta stagione non convince
Con le parole del medico Stefano Vassere
Un castello di carta, più che una casa
l’inglese come inevitabile orizzonte contemporaneo. Di più, esso deve ricorrere alle lingue nazionali per il nodo comunicativo terminale, quello con il paziente, ma anche per la manualistica scolastica e universitaria, la documentazione ospedaliera e per tutta una serie di domini che sono centrali magari per altri ambiti, come per esempio quello della medicina aziendale o quello della medicina legale. È fuori discussione che la parte più sensibile sia rappresentata dal lessico. In uno dei migliori lavori in assoluto dedicati al linguaggio della medicina (un libro di un quindicennio fa intitolato Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente), il linguista Luca Serianni calcolava che la terminologia medica o di ambiti affini rappresentava in un dizionario importante come il Sabatini Coletti circa il 5,5% delle entrate (una parola su venti), più o meno il totale delle parole di fisica, matematica, geometria, statistica, biologia e chimica messe insieme. Il lessico è anche però la parte più esposta e molle del sistema linguistico, una sorta di buccia che cede più debolmente alle lusinghe e alle seduzioni dell’inglese; il che può andare benissimo per il medico-ricercatore e malissimo per il medico di famiglia,
quello che deve spiegare ai suoi connazionali e nella loro lingua i loro disagi e le cure per porvi rimedio. Insomma, la lingua dei medici e della medicina non è mai una sola lingua, e nemmeno parla mai con le stesse parole. Il medico deve certamente avere riguardo per la comunicazione e coltivare nella pratica quotidiana una specie di multilinguismo; sembra – lo nota Serianni nel suo studio – che la divaricazione tra i diversi tipi di lingua utilizzati dai medici nelle varie situazioni apra addirittura, con tutte quelle parole, a possibili difficoltà di intesa all’interno della stessa loro comunità; e ciò a fronte dell’affermazione generale (in inglese o in altra lingua che sia) di «un linguaggio iperspecialistico, che rischia di essere criptico per gli stessi medici con altra specializzazione: per esempio, per l’internista che deve interpretare che cosa voglia dire un neurologo quando, nella relazione di dimissione di un paziente, parla di eminattenzione sinistra». Bibliografia
Luca Serianni, Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente, Milano, Garzanti, 2005.
Le aspettative erano molto alte per la quarta stagione di una delle serie tv più popolari degli ultimi anni: La casa di carta. Aspettative, diciamolo subito, che in buona parte sono state disattese. I famosi rapinatori spagnoli con la maschera di Dalì, guidati dall’altrettanto noto Professore, non sono riusciti a confermare quanto di buono erano riusciti a fare nelle prime due stagioni. E se la terza era stata una serie di transizione, dove si potevano comunque già vedere diversi pilastri che si stavano sgretolando, quest’ultima ha confermato la brutta piega. I personaggi si sfilacciano cadendo spesso nel ridicolo e la trama precipita pericolosamente nella soap opera. Sono questi gli aspetti principali che colpiscono in modo negativo, soprattutto nella prima parte della nuova serie. Per fortuna, verso la fine, il thriller prende il sopravvento e la fiction si salva in corner. È utile ricordare ai pochi che non conoscono La casa di carta un minimo di trama: dopo che nelle prime due stagioni ci siamo appassionati al colpo nella Banca di Spagna, dalla terza siamo all’interno di un altro simbolo della ricchezza: la Zecca di Stato, che i «nostri» vogliono svaligiare.
La nuova stagione non convince né pubblico né critica.
Dicevamo dei personaggi e della trama. Se nei primi anni La casa di carta aveva trovato un punto di forza nella caratterizzazione precisa dei vari personaggi chiamati con nomi di città (la bella e misteriosa Tokyo, la diretta e allegra Nairobi, l’aggressivo ma dolce Denver, ecc.) in queste ultime stagioni cambiano in maniera inverosimile. E i legami tra di loro mutano costantemente lasciando sconcertati gli spettatori. Di più: ci sono molte scene che iniziano in modo drammatico e nello spazio di poche battute virano al grottesco. Ecco: la scrittura meno controllata, rispetto alle prime stagioni, di Alex Pina è un altro fattore che contribuisce a rendere il tutto un po’ assurdo. Inoltre i numerosi flashback, soprattutto quelli del matrimonio di Berlino (l’ex capo della banda), oltre a non essere funzionali al proseguimento della storia, sono anche piuttosto imbarazzanti, come il momento in cui si mettono a cantare in coro Ti amo di Umberto Tozzi o Cerco un centro di gravità permanente di Franco Battiato. Per fortuna, gli ultimi episodi focalizzati più sulla rapina, risollevano La casa di carta. Così come tiene in vita la serie Alicia Sierra, la spietata e furba ispettrice di Polizia che riesce a essere l’unico personaggio interessante e forte di quest’ultima (ma lo sceneggiatore ha già annunciato che ci saranno due sequel) stagione e a fungere da antagonista ai nostri Robin Hood moderni.
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