Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Intervista a Maria Chiara Ferrazzo Arcidiacono Coordinatrice della task force psicologica allestita dal Cantone per sostenere i curanti
Ambiente e Benessere Il professor Paolo Merlani, direttore sanitario dell’Ospedale Regionale di Lugano, assicura che in caso di una seconda ondata di Covid-19 in 48 ore la sanità risponderebbe e si riorganizzerebbe come ha già fatto
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 11 maggio 2020
Azione 20 Politica e Economia L’Italia ai tempi di Covid-19 corteggiata da russi, cinesi e americani come non si era mai visto
Cultura e Spettacoli Con Giorgio Vasari inizia una serie di ritratti di straordinari protagonisti dell’arte passata
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Tracciabili per contenere il contagio
di Luca Beti pagina 12
Keystone
Si riparte, guardinghi ma decisi di Peter Schiesser E adesso riprendiamo a camminare, con le gambe forse un po’ anchilosate dopo la paralisi provocata dalla lunga serrata, dalla paura del Coronavirus, ma ripartiamo, riappropriamoci della realtà. Lo sappiamo tutti che non è finita, quindi prudenza; e capiremo presto se le misure di protezione saranno sufficienti per evitare che la curva dei contagi torni a crescere, ora che le scuole dell’obbligo riaprono, che si tornerà a frequentare luoghi pubblici, ristoranti e bar. Certo, non è facile superare un trauma che è collettivo e individuale. La nuova normalità emergerà e si consoliderà solo dopo aver spazzato e raccolto i cocci, riparato quel che si può riparare, immaginato nuovi modi per ripartire. Intanto, non dimentichiamo i lutti e le sofferenze fisiche ed emotive che la pandemia ha causato e causerà ancora attorno a noi, continuiamo ad interrogarci sugli errori compiuti, sulla correttezza e sull’opportunità delle scelte delle autorità, nazionali e cantonali, riappropriamoci degli strumenti democratici e delle libertà in parte sospesi durante lo stato di emergenza (tuttora in vigore), come hanno fatto i deputati federali la settimana scorsa nel padiglio-
ne di Bernexpo. Riprenda quindi la dialettica politica, dopo due mesi in cui ci si è affidati al potere degli esecutivi. Ma se guardiamo alle nostre spalle, penso che si possa essere soddisfatti di come le autorità svizzere si sono comportate, in modo egregio nel complesso, soprattutto se le paragoniamo a quelle di altri paesi: tanti governi del mondo occidentale hanno promesso aiuti miliardari, ma quanti come la Svizzera sono stati capaci e intenzionati a distribuirli immediatamente? E questo fa la differenza: con le promesse non si mangia né si pagano gli stipendi e i fornitori. Inoltre, è vero che anche qui molti temono che si stia riaprendo tutto un po’ troppo in fretta, un azzardo che si potrebbe anche pagar caro, ma perlomeno in questo momento la Svizzera riparte mentre il numero dei contagi e dei ricoveri è basso; al contrario, negli Stati Uniti, dove il picco dei decessi secondo studi commissionati dal governo federale è atteso a fine maggio, con 3000 vittime al giorno, l’Amministrazione Trump intende riaprire al più presto, prima di avere un controllo sulla pandemia, dimostrando che negli Stati Uniti, in cui oltre 33 milioni di persone hanno perso il lavoro (e solo una parte lo ritroverà), gli interessi economici, materiali, pesano più della salute della popolazione. Un dilemma atroce.
Tuttavia, anche a noi, nel nostro piccolo, resteranno molti dilemmi e problemi da risolvere. Ci vorrà ancora una forte solidarietà. In un intervento davanti al parlamento in trasferta, il consigliere federale Ueli Maurer si è rivolto ai deputati invitandoli a farsi testimoni di un ottimismo e di un amor patrio che potrà favorire la ripresa economica del paese, spendendo in Svizzera, facendo le vacanze in Svizzera, mangiando e divertendosi in Svizzera, luogo meraviglioso, con i cibi e i vini migliori al mondo (qui Maurer si è un po’ lasciato prendere dall’entusiasmo...). Il ministro delle finanze trasmette in questa crisi una sensazione di solidità e un ottimismo costruttivo, incarnando quell’energia che fa della Svizzera un paese fuori dall’ordinario. E il suo appello ci sta, penso che spontaneamente una parte della popolazione desideri innanzitutto favorire l’economia locale e nazionale. Ma non dimentichiamo che dobbiamo una buona parte della ricchezza al fatto di essere un paese aperto al mondo. Nessuno, alla lunga, può vivere e prosperare stando isolato, nessuno può affrontare e superare ostacoli, crisi, lutti senza la solidarietà degli altri. Viceversa, anche il resto del mondo si aspetta solidarietà da parte nostra.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Attualità Migros
La scommessa sulle lingue, ponte verso il futuro Scuola Club di Migros Ticino L’impegno per la promozione dell’apprendimento linguistico,
tra tradizione e innovazione Il 1944 è un anno drammatico e confuso della storia mondiale. Nel pieno di un conflitto bellico che stravolge la vita di milioni di persone è difficile guardare avanti e pensare al futuro con fiducia. Solo grandi innovatori sanno riaprire gli orizzonti con scelte che lasciano il segno. È una di queste la decisione del fondatore di Migros, Gottlieb Duttweiler, di lanciare corsi di lingua a 5 franchi al mese. Prevedendo la riapertura delle frontiere e l’accelerazione di nuove possibilità di lavoro e di realizzazione personale, in un clima di grave incertezza
Esami CELI Martedì 23 giugno 2020 Sede di Lugano A1 A2 B1 B2 C1 C2
CELI Impatto CELI 1 CELI 2 CELI 3 CELI 4 CELI 5
Fr. 190.– Fr. 230.– Fr. 300.– Fr. 330.– Fr. 350.– Fr. 370.–
Iscrizioni entro il 19 maggio 2020 presso le nostre sedi o via e-mail: scuolaclub.diploma@migrosticino.ch Corso di preparazione all’esame Dal 9 al 17 giugno 2020 12 ore-lezione, Fr. 228.– Maggiori informazioni www.scuola-club.ch Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 77 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60
economica e sociale, Duttweiler invita a imparare sempre più le lingue straniere. Da questa geniale intuizione prenderà forma la Scuola Club Migros. A Zurigo, partono così i primi corsi di italiano, francese, spagnolo, persino di russo, in una formula originale: insieme uomini e donne, benestanti e classi popolari, in piccole classi di massimo 10 persone che si ritrovano per un’ora e un quarto ogni settimana, al pomeriggio o alla sera. Cose mai viste. Il riscontro del pubblico supererà ogni più ottimistica previsione dimostrando la validità dell’intuizione: le lingue sono una delle chiavi per riaprire il domani. Dopo due sole settimane le richieste sono già più di mille. Dieci anni più tardi gli iscritti ai corsi saliranno a 50’000. Oggi, con 50 sedi in Svizzera e 75 anni di storia alle spalle, la Scuola Club Migros è leader nazionale nella formazione continua degli adulti e punto di riferimento sicuro per chi vuole apprendere o migliorare la conoscenza di una lingua straniera. È in questo quadro che si colloca l’impegno della Scuola Club di Migros Ticino che, negli anni, ha sviluppato un ventaglio di proposte diversificate per formula oraria, ritmo di apprendimento e didattica per ben 13 lingue. Il piccolo gruppo resta la formula vincente, ma non mancano corsi one-to-one per rispondere alle domande individuali di accompagnamento. L’investimento tecnologico avviato già da alcuni anni ha consentito alla scuola di rispondere con flessibilità all’accelerazione digitale provocata dal Covid-19. È una «nuova vicinanza» capace di superare la distanza fisica con
formule diversificate d’apprendimento e sostegno, nello spirito di una scuola che ha come vocazione quella di pensare a tutti, in attesa di una ritrovata normalità. Grande cura viene offerta alla certificazione che, ieri come oggi, può fare la differenza in un Curriculum Vitae. Da anni la Scuola Club di Migros Ticino è sede ufficiale d’esame per i certifi-
Prolungati gli annullamenti
cati di lingua italiana CELI rilasciati da un’istituzione di prestigio quale l’Università per Stranieri di Perugia. Un servizio importante per il territorio, a supporto dei percorsi di integrazione culturale e socio-economica, che si rinnova con nuove date d’esame organizzate nel rispetto delle nuove misure di igiene e distanza sociale.
In attesa di una piena ripresa in presenza è in cantiere una nuovissima Summer School ideata quest’anno a misura delle disposizioni cantonali per soddisfare la domanda di ritrovato benessere e, insieme, le esigenze mai ferme di una formazione che, come ai tempi di Duttweiler, si riconferma un ponte per accedere al domani.
Let’s «DisDance»!
Hotelplan Ultimi sviluppi situazione Covid19: spostata ora a fine
Festa Danzante 2020 La manifestazione
Hotelplan Suisse – con i marchi di proprietà Globus Voyages, Travelhouse, Tourisme Pour Tous, Hotelplan e Vacances Migros – ha deciso di sospendere la sua programmazione di viaggi all’estero fino alla fine di maggio. Di conseguenza, tutti i viaggi con destinazione estero già prenotati con i marchi
annullato. L’evasione dei rimborsi potrà richiedere fino a tre settimane. Anche le prestazioni individuali prenotate con Hotelplan Suisse con partenza entro la data indicata, quali ad esempio il solo biglietto aereo, verranno automaticamente cancellate. Per prestazioni individuali i clienti riceveranno il rimborso effettivo concesso dal fornitore di servizi. Nuove prenotazioni per viaggi e vacanze all’estero verranno accettate a partire dal 1. giugno 2020. «Tutto lascia supporre che la maggior parte degli alberghi all’estero non aprirà prima dell’inizio del mese di giugno. Al momento vacanze nel Mediterraneo o viaggi di lungo raggio non sono ancora possibili. Nell’interesse dei nostri clienti abbiamo dunque deciso di prolungare la temporanea cessazione della nostra programmazione all’estero fino a fine maggio», afferma Daniel Bühlmann, COO Hotelplan Suisse. I clienti interessati verranno informati nel corso dei prossimi giorni.
«Anche se la Festa danzante è stata annullata, non si può fare a meno di ballare!». Questo il messaggio lanciato di recente dagli organizzatori della giornata nazionale dedicata alla danza che si sarebbe dovuta tenere dal 13 al 17 maggio. Cogliendo lo spunto dall’attuale e necessaria situazione di distanziamento sociale eccoli però rilanciare con una proposta originale e digitale: la festa «DisDance». Dal 15 al 17 maggio saranno quindi tenuti sui social della Festa danzante alcuni corsi introduttivi e lezioni di danza offerte da insegnanti provenienti da tutta la Svizzera. In collaborazione con i vincitori dei premi della danza svizzera e del progetto nazionale Out & About sono previsti programmi per i bambini, per chi ama sperimentare, per chi è stufo di stare seduto e per tutti i festaioli. Oltre a ciò, nel pomeriggio di domenica 17 maggiosarà lanciata una festa online con Edouard Hue, premiato quale «Danzatore eccezionale 2019».
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11
Tiratura 101’634 copie
maggio la programmazione dei viaggi all’estero
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
di Hotelplan Suisse per partenze fino al 31 maggio 2020 compreso verranno proattivamente cancellati. Ai clienti che avessero prenotato pacchetti di viaggio con i marchi suindicati, ad esempio voli e hotel oppure crociere, verrà automaticamente rimborsato il costo del pacchetto di viaggio
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
nazionale sarà in programma online
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Il programma definitivo con tutti i link che permetteranno la partecipazione sarà pubblicato il 12 maggio sulla pagina Facebook e sul sito ufficiale www.festadanzante.ch. In collaborazione con
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Società e Territorio Giocare, socializzare online L’isolamento domestico non ha spento la voglia di giocare con i propri amici e ha reso popolari molti servizi online
Covid-19, un aiuto ai curanti Il Cantone ha allestito una task force psicologica per sostenere i curanti confrontati con la presa a carico dei malati. Intervista alla Coordinatrice Maria Chiara Ferrazzo Arcidiacono
La scienza della personalità Anche da adulti possiamo modificare gli atteggiamenti di noi stessi che non ci piacciono migliorandoci: lo assicurano Gary Small e Gigi Vorgan nel loro libro pagina 12
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Il palazzo dell’amministrazione cantonale a Bellinzona. (Ti-Press)
Stato, informazione e trasparenza
Ticino La legge del 2013 introduce il diritto di ogni cittadino di accedere ai documenti ufficiali senza dover motivare
la propria richiesta. In questi 7 anni le domande sono state in continua crescita Roberto Porta Forse ce ne siamo dimenticati o non ci abbiamo mai fatto davvero caso, anche se in gioco c’è un diritto basilare per ogni cittadino. Vale dunque la pena ricordare che nella Costituzione cantonale è iscritto un principio sacrosanto, voluto in nome della trasparenza e in definitiva della legittimità delle diverse attività compiute dalla mano pubblica. All’articolo 56 si legge: «Ogni autorità informa adeguatamente sulla propria attività. Non devono essere lesi interessi pubblici o privati preponderanti». Un principio fondamentale che è stato ribadito dalla Legge sull’informazione e sulla trasparenza dello Stato (LIT), in vigore dal 2013. Ma la vera novità di questa legge è stata l’introduzione del diritto per ogni persona di accedere ai documenti ufficiali senza dover motivare la propria domanda. Siamo giunti al settimo anno di applicazione, e il rapporto relativo al 2019 ci dice in sostanza che la sete di informazione dei ticinesi è aumentata. L’anno scorso sono state presentate 209 domande di accesso a documenti ufficiali, con un aumento del 13% rispetto al 2018, l’incremento annuale più elevato da quando la leg-
ge è in vigore. «Evidentemente anche prima si poteva avere accesso ai documenti – sottolinea Filippo Santellocco, responsabile della legislazione e della trasparenza presso i Servizi giuridici del Consiglio di Stato – occorreva però essere parte di un procedimento, avere un interesse. Oggi invece si può domandare di accedere a tutti i documenti ufficiali, si tratta delle informazioni in possesso delle autorità che riguardano l’adempimento di un compito pubblico. Questo diritto può essere negato solo in alcuni casi, ad esempio quando i documenti concernono procedimenti in corso oppure se ci sono interessi pubblici o privati preponderanti da tutelare». Come del resto era successo anche in passato, l’anno scorso le sollecitazioni maggiori sono state quelle rivolte a autorità comunali. In effetti sulle 209 richieste totali del 2019, ben 170 sono state rivolte ai comuni. In generale le autorità hanno quasi sempre accolto le domande, quasi 9 volte su 10. L’ambito che solleva il maggior numero di richieste è quello dell’edilizia privata, spesso per questioni di vicinato. In questi casi a volte lo scopo principale di chi presenta domande di accesso non è tanto quello di far luce sulle decisioni
delle autorità, quanto piuttosto quello di verificare l’operato del vicino di casa. E questo ben spiega la consistenza di questo genere di richieste. Il diritto di accedere ai documenti ufficiali è anche definito «informazione passiva», cioè un’informazione che le autorità non forniscono spontaneamente ma su richiesta. Questo diritto è oggi garantito a livello federale e in venti cantoni; a livello internazionale è riconosciuto da oltre cento Stati. L’informazione attiva è invece quella che potremmo definire l’informazione «classica», fornita tramite conferenze stampa, interviste, comunicati e soprattutto tramite le pagine internet di cui dispongono le autorità, che rappresentano oggi il maggior vettore di divulgazione pubblica. Non tutte le richieste vengono accettate, ci possono essere anche dei dinieghi; lo scorso anno l’11% delle domande è stato respinto, una percentuale che viene considerata bassa tenuto conto che vi sono anche altre eccezioni al diritto di accesso. «Eventuali interessi pubblici o privati, quando sono preponderanti rispetto all’obiettivo della trasparenza, possono precludere l’accessibilità dei documenti. Ad esempio, in un documento possono esserci dati personali di cittadini, che natural-
mente non apprezzano che finiscano in mano di estranei. Oppure, l’accesso a documenti contenenti informazioni di un’azienda potrebbe implicare la rivelazione di segreti professionali, commerciali o di affari, danneggiandone l’attività. Perciò le autorità, per decidere se accordare o meno l’accesso, devono spesso soppesare interessi contrastanti». Comunque in caso di rifiuto, chi richiede i documenti ma anche chi vi si oppone può rivolgersi ad una commissione di mediazione indipendente e/o ricorrere alla Commissione cantonale per la protezione dei dati e la trasparenza ed eventualmente rivolgersi al Tribunale cantonale amministrativo. C’è comunque un altro ambito in cui il diritto d’accesso è parzialmente escluso, quello degli organismi che deliberano a porte chiuse: per tutelare la massima libertà possibile nell’adozione delle loro decisioni non sono accessibili i verbali e le registrazioni degli esecutivi e delle commissioni dei legislativi, cantonali e comunali. Fin qui la parte della legge che riguarda il rapporto tra cittadino e autorità, cosa dire invece della relazione tra l’ente pubblico e i media? «Non sono disponibili dati precisi sul numero di domande di accesso presentate dai gior-
nalisti ma posso dire che negli ultimi anni i media hanno iniziato a servirsi della LIT per le loro inchieste». Probabilmente i giornalisti sono abituati ad usare altre fonti e ancora non sfruttano appieno gli strumenti messi a disposizione dalla legge sulla trasparenza. «In un contesto in cui siamo sommersi da informazioni di ogni genere, non sempre attendibili – conclude Filippo Santellocco – è fondamentale che le autorità forniscano ai cittadini informazioni oggettive e permettano di accedere facilmente ai documenti ufficiali». C’è una certezza legata alla natura stessa della legge sull’informazione e sulla trasparenza dello Stato: più le autorità si impegneranno nell’informazione attiva e meno i cittadini e media dovranno ricorrere all’informazione passiva. Due strumenti in ogni caso essenziali, visto che in democrazia la trasparenza è fondamentale, soprattutto quando in gioco c’è il denaro pubblico. Ne sono un esempio gli ultimi sorpassi di spesa emersi a Bellinzona, dove le autorità si sono già mosse per far al più presto la dovuta chiarezza su questa vicenda. Informazioni
www.ti.ch/trasparenza
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Idee e acquisti per la settimana
Finalmente le fragole ticinesi Attualità Grazie alla loro straordinaria dolcezza i rossi frutti locali seducono i palati
della clientela Migros a poche ore dalla raccolta. Dietro la loro produzione c’è la mano di una giovane imprenditrice
La giovane frutticoltrice Sevenja Krauss.
La ventunenne Sevenja, figlia dell’orticoltrice Manuela Krauss, «storica» fornitrice di Migros Ticino, gestisce insieme ad altri due soci l’azienda frutticola Frutta & Bacche Sagl di S. Antonino. Qui, su una superficie di 15 mila metri quadri, l’azienda coltiva sotto tunnel uno dei frutti più amati dai consumatori. Per la gioia di chi predilige i prodotti a km 0, da qualche giorno le sue fragole sono disponibili in tutti i supermercati Migros nella vaschetta da 250 grammi, e a breve in quella da 500 grammi. «Mi sono lanciata in questa avventura un paio di anni fa, spronata da mia mam-
ma», ci spiega Sevenja. «Sono cresciuta nell’azienda orticola di famiglia e ho sempre visto solo la produzione di ortaggi quali zucchine, pomodori, melanzane, finocchi e insalate. Quando si è presentata l’occasione di coltivare delle fragole, mi sono subito incuriosita e ho voluto mettermi alla prova. E vista l’ottima risposta da parte dei consumatori, la scelta è stata sicuramente azzeccata». Un lavoro appassionante ma anche impegnativo quello della giovane frutticoltrice, che dalla mamma ha potuto e continua ad imparare molte cose. «Il tempo libero si è certamente
ridotto, ma questo viene ripagato dalla soddisfazione di stare all’aperto e vedere crescere i prodotti della terra nel modo più sostenibile possibile. Inoltre è un mestiere che ti consente di liberare la mente per qualche attimo dalle preoccupazioni, come quelle legate alla difficile situazione attuale». Le fragole coltivate dall’azienda appartengono ad alcune varietà appositamente selezionate per il grosso calibro del frutto e il sapore molto dolce. Sono ottime gustate da sole così come sono, nelle macedonie, nei dessert oppure aggiunte a dello yogurt al naturale.
Notizie e consigli Le fragole sono conosciute fin dai tempi dei Greci e dei Romani. In realtà sono dei falsi frutti: infatti i veri frutti della pianta sono i piccoli semi bruni di cui sono cosparse. Le fragole posseggono notevoli proprietà benefiche: hanno poche calorie e una porzione da 200 grammi copre il fabbisogno quotidiano di vitamina C. Contengono inoltre acido
folico ed esercitano un’azione diuretica, depurativa e rinfrescante. Una volta acquistate, conservarle nel frigorifero senza lavarle e consumarle entro 2-3 giorni. Devono essere lavate sotto l’acqua corrente, con il loro picciolo, ad una a una, poco prima del consumo. Il picciolo va eliminato torcendolo, ma non strappandolo, per non rovinare il frutto.
Voglia di costine Attualità Un grande classico tra
le pietanze alla griglia che trovate questa settimana in offerta
Le spare ribs, o costine carré di maiale, sono uno dei tagli preferiti dagli aficionados delle grigliate. Impossibile resistere a queste succose e saporite specialità da gustare con le mani, con la carne che si stacca dall’osso che è una meraviglia! Inoltre permette ai grigliatori di dar libero sfogo alla propria fantasia aromatizzando le costine con i condimenti più svariati. Per una pietanza semplice e gustosa che piacerà a tutti, marinate le costine per qualche ora con una salsa composta da olio di oliva, senape, sale, pepe macinato fresco,
rosmarino e… un cucchiaio di miele. Cuocete le costine sulla griglia a fuoco vivo per 15 minuti fino a che si formi una bella crosticina sulla superficie, rigirandole regolarmente e spennellandole di tanto in tanto con la marinata rimasta. Abbassare il calore della griglia e continuare lentamente la cottura per altri 45 minuti, rigirandole spesso e irrorandole con un po’ di birra. Offerta Hit Costine carré di maiale (Spare Ribs) Svizzera, imballate, per 100 g Fr. 2.20 dal 12 al 18.5
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Idee e acquisti per la settimana
Mani ben curate
Novità Una crema vegana e a base
di ingredienti naturali biologici per la cura intensiva delle mani
L’utilizzo regolare di disinfettanti mette a dura prova la pelle delle mani. Per prevenire l’eccessiva essiccazione della cute, è consigliabile l’utilizzo di una crema di qualità, meglio ancora se a base di ingredienti naturali. Il marchio Lavera, da poco introdotto nell’assortimento Migros con una serie di cosmetici naturali specifici per ogni tipo di pelle, offre anche una crema per le mani delicata a base di ingredienti bio, come l’olio di mandorle e il burro di karité. La speciale formula intensiva e idratante risponde alle esigenze delle mani particolarmente secche. Grazie alla sua texture di facile assorbimento, è ideale per l’utilizzo regolare quotidiano. Il marchio Lavera nasce nel 1987 con l’obiettivo di sviluppare dei prodotti curativi a base di componenti naturali che permettano di sentirsi bene nella propria pelle. La qualità è una priorità assoluta per il marchio, ecco perché tutti i cosmetici sono prodotti dal marchio stesso nella regione di Hannover, in Germania. Lavera è certificato 100% cosmetica naturale e assicura una qualità ecce-
zionale dei suoi prodotti, che sono per la maggior parte vegani. La società elabora qualcosa come 300 componenti biologici e oltre 300 ingredienti naturali.
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Società e Territorio
La voglia di giocare ai tempi del virus Tecnologia Il periodo di isolamento forzato ha fatto apprezzare videochiamate, videogiochi multiplayer,
servizi di giochi da tavola online, nuove app e in Ticino è nata anche una escape room interamente digitale
Davide Canavesi La pandemia di Covid-19 ha toccato virtualmente ogni parte della nostra società. Attività commerciali, scuole, servizi pubblici, ristorazione. Gli effetti non si sono limitati alle attività economiche: anche i contatti sociali sono stati severamente limitati. Per proteggere noi stessi e gli altri siamo costretti a restare a casa, in quarantena. Tuttavia, l’essere umano è un essere estremamente sociale e ben presto abbiamo dovuto scoprire nuovi modi per entrare in contatto con amici e parenti. Dalle videochiamate Skype a nuove app che sono spuntate dal nulla sugli smartphone, la tecnologia sta dando un contributo non indifferente per abbattere alcuni dei muri che abbiamo dovuto erigere attorno a noi. Nelle scorse settimane si è vista molta creatività e desiderio di comunicare: meritatissimi applausi quotidiani a tutti coloro che lavorano nel settore sanitario, aperitivi via videochiamata e, ovviamente, giochi online. Il comun denominatore è, beninteso, quello di condividere un’esperienza con amici, parenti ma anche con sconosciuti, senza doversi trovare fisicamente insieme. Per questo motivo, molti servizi online hanno guadagnato popolarità, altri sono stati scoperti e alcuni sono stati creati dal nulla. Pensiamo ad esempio alla crescente diffusione del servizio di chat Discord, che da applicazione conosciuta soltanto dalla comunità dei
gamer è divenuta molto più mainstream. Troviamo poi il già citato Skype, Whatsapp, Houseparty, Zoom, Teams e via dicendo. Tuttavia, un servizio di chat vocale o video non è nulla più di questo: un modo per parlare con altri. Il che va benissimo per raccontarsi qualche novità o indulgere in aperitivi via remoto, ma non lo si può definire davvero un’attività da condividere in modo attivo. Molti, dopo le prime settimane di aggiustamento, hanno cercato soluzioni per effettivamente fare qualcosa con gli amici. Citiamo ad esempio Parsec, un nuovo sistema che permette di condividere un PC tra diversi amici. Tramite Parsec è possibile giocare a giochi su computer come se ci si trovasse tutti nella stessa stanza con un gamepad in mano. C’è chi, come il sottoscritto, ha fatto alcune partite all’adattamento videoludico del popolarissimo gioco da tavolo Pandemia, forse con un pizzico di black humor. I videogiochi multiplayer online ovviamente non sono stati dimenticati, mondi virtuali in cui gli amici hanno avuto modo di ritrovarsi per vivere avventure tutti assieme. Da Destiny 2 a Minecraft, senza dimenticare titoli quali Fortnite o Call of Duty Warzone e una marea d’altri. Tuttavia, i videogiochi non sono per tutti. Un’altra fascia di persone si è quindi indirizzata verso i giochi da tavola online, sfruttando servizi quali il sito boardgamearena, letteralmente presi d’assalto dagli utenti tanto da do-
L’isolamento domestico ha reso popolari molti servizi online. (Pexels)
ver limitare l’accesso tramite numeri chiusi. La voglia di giocare assieme è davvero qualcosa di straordinario. Altri hanno invece optato per soluzioni più casalinghe, collegando webcam, condividendo schermi e usando le chat vocali per giocare a giochi da tavola non concepiti per essere fruiti via inter-
net. Tra i migliori che abbiamo trovato, dobbiamo citare la seconda edizione di Descent: Viaggi nelle Tenebre, il quale si adatta in modo sorprendentemente semplice ad essere giocato via internet. Non vanno nemmeno dimenticati i classici giochi di ruolo cartacei, la cui natura si rivela perfetta per partite in
remoto, visto che bastano una manciata di dadi, una scheda personaggio e un master di gioco competente. Addirittura, nella Svizzera italiana, c’è chi ha creato una escape room interamente digitale. Il concetto proposto da escapedigitale.ch è senza dubbio interessante e la premessa intrigante: il giocatore viene reclutato in qualità di agente segreto alla ricerca di un misterioso malfattore chiamato «il cuoco». L’avventura, che richiederà ai giocatori di osservare attentamente immagini, scoprire indizi, visitare diverse pagine web e di risolvere diversi enigmi, è sicuramente un’attività che può aiutare a spezzare la monotonia dei fine settimana chiusi in casa. Sebbene l’esperienza sia stata creata pensando a una coppia di giocatori, è senza dubbio possibile condividerla con più persone, anche se la difficoltà (e di conseguenza il tempo di gioco) ne saranno anche logicamente ridotte. Durante questo periodo, difficile per tutti, le alternative al trovarsi di persona stanno aiutando molti a sentirsi meno isolati. Un modo per restare in contatto con amici e parenti e per mantenere la propria sanità mentale, tra una maratona di serie TV e l’ennesima infornata di pane, torte e chissà quali altre delizie. Forse perché, ancora più indomito di un virus misterioso, l’essere umano ha fame di contatti sociali. Siamo fortunati ad avere tutte queste alternative digitali. In attesa di poter tornare a ritrovarci nella «vita vera». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Società e Territorio
Una cura per i curanti
I bambini e la riapertura delle scuole
e psicoterapeuti OSC, che è la Coordinatrice della task force psicologica allestita dal Cantone per sostenere i curanti confrontati con la presa a carico dei malati nelle strutture ticinesi
In casa Riflessioni
durante la pandemia
Alessandro Zanoli
Silvia Vegetti Finzi
Signora Ferrazzo, in cosa consiste e da chi è formata la task force psicologica Covid-19?
La nostra vita, dopo settant’anni di pace e di prosperità, è stata sconvolta da un terribile pandemia, una piaga biblica che ci ha trovati impreparati a fronteggiare l’emergenza nonostante tante voci, tra cui quella di una ragazzina, ci avessero avvertiti dei pericoli imminenti. Due mesi d’isolamento domestico hanno inciso sulla nostra personalità mettendo in luce aspetti di debolezza e di forza: ci siamo riconosciuti fragili e soli ma anche forti e solidali. Ora l’apertura delle scuole fa temere a molti genitori e insegnanti che l’inevitabile aumento di contatti interpersonali rinfocoli il contagio da Coronavirus. La decisione non è stata presa a cuor leggero: nessuno sottovaluta i pericoli che si corrono anticipando la fine della reclusione domiciliare. Ma ogni scelta comporta rischi e ogni decisione margini d’azzardo. Si tratta allora di stabilire delle priorità e di mettere in campo delle prevenzioni. La Fase 2, situandosi a metà strada tra il tutto e il niente, esprime un «sì ma»: non certezze ma «ragionevoli rischi», assunti con senso di responsabilità. Non si tratta di un algoritmo matematico ma di valutazioni scientifiche e istituzionali, familiari e personali. Una psicologa esperta mette in luce come questo provvedimento risponda al desiderio dei bambini di incontrare gli insegnanti e i compagni; una mamma costretta a riprendere il lavoro esterno, sottolinea piuttosto la necessità di affidare la figlia alla scuola. Alcuni bambini, dopo mesi d’isolamento, hanno paura di uscire di casa e non pochi adolescenti si stanno adagiando in una condizione di clausura che asseconda i loro desideri d’isolamento, di scambi virtuali, di fuga nella fantasia. La salute è essenziale ma siamo esseri complessi che vivono in una società complessa, per cui ogni decisione rappresenta una mediazione. Da oggi le Scuole dell’obbligo, con molte limitazioni di tempo e di spazio, funzionano regolarmente, ma è fondamentale che i bambini non rientrino per obbligo ma per convinzione. Prima di riprendere il programma però devono essere informati (F. Dolto: «dite quello che fate e fate quello che dite»), motivati e rassicurati. Tutti, soprattutto i più piccoli, di fronte a un evento improvviso si volgono alla madre e, identificandosi con lei, fanno proprio il suo stato d’animo. Il senso di sicurezza dei «non adulti» poggia sulla tranquillità dei genitori, confermata dagli educatori. Non so se, come dice uno slogan diffuso, «andrà tutto bene» ma andrà certamente meglio se riusciremo a controllare l’ansia e a condividere un clima di fiducia e speranza.
Covid-19 A colloquio con Maria Chiara Ferrazzo Arcidiacono, Capo equipe psicologi
È stata attivata dal Medico cantonale, dottor Giorgio Merlani, a partire da quando il virus ha cominciato a manifestarsi alle nostre latitudini e ancor prima che l’emergenza sanitaria assumesse le dimensioni che conosciamo. È composta da me, insieme a Stefano Barbero e Nicola Grignoli (psicologi OSC), in rappresentanza del DSS/OSC; da Marina Lang e Raffaello Giussani per il servizio di psicologia della Polizia Cantonale, che rappresentano lo Stato Maggiore di Condotta. Ci sono poi il Prof. Lorenzo Pezzoli, responsabile dell’Unità di psicologia applicata della SUPSI e i due presidenti delle associazioni di Categoria Psicologi e Psichiatri: Nicholas Sacchi (ATP) e Dr. Paolo Bausch (STPP). La prima curiosità è capire come, dai reparti, sia possibile accedere a questo tipo di consulenza. Ci sono problemi anche logistici, di questi tempi, e anche di rispetto della privacy...
Andando con ordine: l’accesso per una consulenza nelle strutture viene richiesto dall’Ufficio del medico cantonale. Le stesse strutture hanno ricevuto l’informativa dell’esistenza della nostra cellula di intervento. A seguito della domanda, si procede a colloqui tramite piattaforme digitali (Teams) o telefonici. Nel caso fosse richiesto intervento
L’équipe della task force psicologica.
con l’Altro (la mimica, gli sguardi e il corpo, in quanto sovente l’inquadratura è a mezzobusto), ma viene preservata la capacità di contatto relazionale e accoglienza delle tematiche dolorose. In questo periodo la grande difficoltà è il rischio di isolamento, il fatto che una persona si possa aprire al mondo attraverso il canale telematico diventa un’opportunità. Come tutte le cose, tuttavia è importante evitare i fondamentalismi, ovvero, una volta terminato il periodo di emergenza sanitaria, tale canale non dovrebbe restare l’unico a cui la persona si appoggia per accedere alla relazione. Il sistema che avete strutturato ha qualche analogia con le tecniche di debriefing già utilizzate per i soccorritori? Come si aiuta una persona a «elaborare» questo tipo di disagio?
in loco, nel rispetto delle disposizioni di sicurezza per prevenzione contagio, i nostri operatori svolgono i colloqui in una tendina esterna alla struttura, messa a disposizione dalla Protezione civile. L’istituzione di una hotline dedicata all’ascolto, dapprima dei sanitari, poi estesa alla popolazione dal 1. aprile 2020, mette a disposizione volontaria diversi specialisti (psicologi, psicoterapeuti e psichiatri) che operano su tutto il territorio cantonale. La garanzia della privacy degli accessi è regolamentata dal segreto professionale che vige nella nostra categoria; per quanto riguarda la sicurezza dei dati, sulla piattaforma Teams vigila il supporto dei nostri informatici (CSI).
A proposito del contatto telematico, così utilizzato in questi tempi. Si riesce a garantire uno spazio affettivo, in questa modalità relazionale?
Il contatto telematico è una «vecchia futura» modalità di organizzazione dei colloqui. I recenti dati su suolo elvetico ci parlano di un progresso del 30% circa di telelavoro dei nostri concittadini. La telemedicina è sicuramente un settore in espansione e adesso le contingenze ci stanno portando ad applicarla anche ai colloqui psicoterapeutici o psichiatrici. Questo sicuramente comporta un cambio di paradigma perché, da un lato si modifica tutta la parte di contatto e sintonizzazione sull’immediatezza
Rispetto all’attuale emergenza sanitaria, possiamo attingere a riferimenti storici circa le pregresse pandemie (peste alcuni secoli orsono o più recentemente influenza Spagnola, Asiatica, Sars). L’aspetto che probabilmente le accomuna ai tempi moderni è il clima di profonda incertezza, che comporta uno stato psicologico di allarme continuativo, percepito come interno e/o esterno. La conseguenza è il farci sentire vulnerabili, impotenti e con un ridotto controllo sulle situazioni. È quindi fondamentale saper instaurare e promuovere un clima di sostegno e solidarietà. Le persone devono maturare la consapevolezza di non essere sole dinanzi alla precarietà degli eventi contingenti. Il debriefing risulta una delle tecniche preventive maggiormente trattate nella letteratura sui traumi ed è sicuramente una buona base da cui partire. In parallelo vi sono tecniche psicologiche che sono mirate ad accogliere, sostenere e reindirizzare le tensioni provocate da situazioni di stress cronico. La letteratura rispetto al trattamento del trauma ci porta evidenze circa alcune tecniche specifiche, quale l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), tra i più citati. Quest’ultimo è un particolare tipo di approccio terapeutico impiegato per il trattamento di traumi e stress psicologici di entità più o meno grave, ma deve essere svolto da professionisti specializzati e formati.
La presa a carico è di quelle «rapide», fondata su un intervento immediato e limitato, o nel contatto con le varie persone si possono prevedere un numero di incontri successivi, simili a un setting terapeutico psicologico a medio termine?
Innanzitutto bisogna dire che possono esserci diverse reazioni emozionali che riflettono altrettanti processi di reazione soggettiva. I tratti personologici, la storia famigliare di ognuno di noi, fattori di resilienza determinano la traiettoria della reazione dinanzi ad un evento stressogeno. La letteratura e l’esperienza clinica ci insegnano che gli individui che stanno vivendo l’emergenza sanitaria ritorneranno in buona parte ad uno stato di stabilizzazione e non presenteranno difficoltà, per altri invece si manifesteranno stati di sofferenza. I tempi psicologici e della sofferenza psichica possono essere prolungati o differiti, ma quello che riteniamo importante è una rapida segnalazione, secondo il principio che prima ci accorgiamo che qualcosa non va e prima evitiamo che si producano ferite maggiori o pseudo-indelebili. L’approccio che abbiamo utilizzato per strutturare il nostro intervento si è basato quindi sulla psicologia dell’emergenza: un approccio il cui obiettivo è prevenire, superare il momento di fase acuta (pensiamo a come da un giorno all’altro abbiamo stravolto le nostre abitudini, ci siamo allontanati fisicamente dai nostri cari e abbiamo sacrificato parte della nostra quotidianità) per evitare lo sviluppo di un disturbo durante o dopo il trauma. Cosa ha di diverso, nelle vostre osservazioni, il quadro delle reazioni di disagio generato dal Covid-19?
Nel caso dell’epidemia di Covid-19 la medicina intensiva è stata riorganizzata in una dimensione di urgenza portando gli operatori sanitari a operare in un contesto inabituale. Molti sono stati trasferiti da altri reparti e hanno assunto ruoli diversi e con turnistiche elevate ed estese. Questa riorganizzazione ospedaliera ha richiesto grandi capacità di adattamento, creato solidarietà e nuove competenze, ma anche rappresentato un fattore di stress psicofisico. Negli ospedali dedicati al Covid un adeguato servizio di assistenza diretta è stato organizzato sul piano psicologico. Un’altra particolarità delle terapie intensive in contesto epidemico è il ruolo di supporto al paziente svolto primariamente dagli operatori sanitari che si sono occupati anche essenzialmente della comunicazione con le famiglie confinate fuori dall’ospedale. L’assunzione in parallelo di un ruolo tecnico ed emotivo è una caratteristica delle terapie intensive, ma si è rivelata particolarmente preziosa nel contesto epidemico attuale. Esprimersi sulle differenze dei vissuti provati dagli operatori ospedalieri che in queste
settimane sono confrontati con la cura dei pazienti affetti da Covid-19 è probabilmente prematuro in quanto, dal nostro osservatorio è emersa l’urgenza dell’operatività e del mantenimento di routine lavorative. Si sono rilevate infatti poche richieste specifiche e tale dato era in qualche modo prevedibile, in accordo anche con le linee guida internazionali. Tale dato può essere interpretato secondo vari fattori: lo stato di emergenza acuto; la gestione efficace dell’emergenza da parte del sistema sanitario, la presenza di risorse interne (area di supporto Eoc, iniziative individuali) e la necessità di rispondere a bisogni primari e messa in atto di difese mentali che non richiedono nell’urgenza intervento psicologico. Tuttavia possiamo ipotizzare un aumento di richieste specifiche, sia rispetto a una seconda fase della diffusione epidemica, sia in concomitanza di un calo della pressione sugli operatori sanitari. C’è qualcosa che personalmente avrebbe voglia di condividere con noi, qualcosa che l’ha particolarmente colpita, in questo periodo e che le sembra significativo, per fare in modo che i lettori si immedesimino nel ruolo di chi ascolta questi problemi?
In questo periodo ho in mente tante immagini e tante parole delle persone che ho incontrato. L’aspetto più evidente, è sicuramente quello della fatica, della sofferenza e della fragilità che ha amplificato una serie di vissuti spiacevoli portando tante persone a non più riconoscersi, rispecchiate nei loro limiti. Tuttavia, la specificità della nostra professione è quella di ricercare i fiori nel deserto, se mi passa l’immagine e quindi ci dovremmo tutti riorientare anche verso altri aspetti che attualmente ci sembrano messi in ombra. In concreto mi riferisco alle diverse iniziative di solidarietà che si sono manifestate e concretizzate a più livelli all’interno della nostra comunità. La solidarietà ha permesso di moderare gli atteggiamenti individualistici/narcisistici in cui ci eravamo rintanati e ha ingenerato diversi percorsi interiori di cambiamento di credenze e di abitudini, al momento personali, ma l’auspicio è che possano essere promossi all’interno della collettività. Questo processo di riflessione individuale, di cui rilevo i germogli, è nutrito anche dalla speranza e per me è assolutamente importante che questo valore permanga nei cuori di tutti. (La versione completa dell’intervista è pubblicata sul sito www.azione.ch)
È auspicabile un rientro a scuola per convinzione, non per obbligo. (Pixabay)
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Società e Territorio L’applicazione per il tracciamento di prossimità è stata sviluppata dai Politecnici di Zurigo e Losanna. (Keystone)
Migliorare è possibile Pubblicazioni Non siamo destinati
a convivere con i tratti negativi della nostra personalità: anche da adulti possiamo modificare gli atteggiamenti che non ci piacciono Stefania Prandi
Un’app per ritornare alla normalità
Pandemia Il Parlamento federale frena l’introduzione su larga scala
dell’applicazione per il tracciamento dei contatti. Vuole una base legale. In attesa della legge, il Consiglio federale intende testare l’app
Luca Beti È difficile immaginarsi una vita senza smartphone. Era un nostro prezioso compagno prima della pandemia provocata dal nuovo coronavirus e lo è stato durante il confinamento, quando ci ha permesso di evadere per incontrare, almeno virtualmente, amici e parenti. E ora, con l’inizio della seconda fase che prevede la riapertura di scuole, negozi, ristoranti e mercati, il cellulare potrebbe aiutarci a uscire dal lockdown, dal blocco delle attività, e a ritornare alla vita di prima. Ma per tornare alla normalità bisogna riuscire a contenere la diffusione del virus. Stando agli esperti, un vaccino non sarà infatti disponibile prima di 15-18 mesi. Da una parte le autorità continuano a puntare sulle regole del distanziamento sociale e d’igiene e sui test generalizzati, dall’altra vogliono ricostruire in modo capillare le catene di trasmissione per individuare il prima possibile le persone infette. Per farlo si affidano al tracciamento dei contatti mirato, già impiegato dai cantoni all’inizio dell’epidemia quando le nuove infezioni erano inferiori ai 100 casi al giorno in Svizzera. L’obiettivo è di rintracciare e mettere in quarantena le persone entrate in contatto stretto, ossia a una distanza inferiore ai 2 metri e per più di 15 minuti, con chi è risultato positivo al test. Inoltre, il Consiglio federale vuole mettere a disposizione della popolazione un’applicazione digitale per il tracciamento di prossimità. Si tratta di un’app per smartphone sviluppata dai Politecnici federali di Zurigo (ETH) e Losanna (EPFL) in collaborazione con la Confederazione e la COVID-19 Science Task Force. L’obiettivo rimane lo stesso: individuare e interrompere le catene di infezione, ma in maniera più semplice, veloce e a buon mercato. Il parlamento ha deciso però che l’introduzione di una simile applicazione potrà avvenire soltanto dopo aver creato le basi legali necessarie. Durante la sessione straordinaria tenuta la settimana scorsa, il Consiglio degli Stati prima, quello nazionale poi hanno approvato la mozione delle rispettive Commissioni delle istituzioni politiche che chiede al governo di proporre una legge specifica al vaglio del parlamento. Le perplessità di senatori e deputati riguardano soprattutto la protezione dei dati e l’impiego su base volontaria del sistema di tracciamento digitale. Questa decisione significa la fine
dell’applicazione? No. Il Consiglio federale è chiamato ora a presentare una legge federale urgente affinché il legislativo la possa discutere durante la sessione ordinaria di giugno. L’impiego su ampia scala dell’app potrà quindi essere lanciato soltanto in estate. In attesa della legge, da lunedì 11 maggio il governo intende testare l’applicazione per alcune settimane su un campione di popolazione. Ciò permetterà agli sviluppatori di mettere alla prova l’app in vista di un impiego generalizzato. L’app PT, questo l’acronimo dei termini inglesi «proximity tracing», si basa sulla tecnologia bluetooth. Dopo averla scaricata sul nostro smartphone, l’applicazione registra i «contatti» a una distanza inferiore a due metri e che sono durati più di 15 minuti tra due cellulari. Nella vita quotidiana, per noi non cambia nulla. Dobbiamo semplicemente continuare a portarci il telefonino quando andiamo a fare la spesa o al ristorante. Se rimaniamo vicini a una persona con l’app attivata per più di un quarto d’ora, situazione che potrebbe portare a un contagio, gli smartphone si scambiano il rispettivo numero di identificazione, ossia dei dati crittografati e protetti. Queste informazioni vengono salvate sul cellulare in modo decentralizzato e anonimo. Se una persona è risultata positiva al test, riceve dal medico curante o dal centro cantonale per il tracciamento dei contatti l’autorizzazione di notificare l’infezione in forma anonima tramite un codice apposito. Ciò permette all’applicazione di informare tutte le persone che sono entrate in contatto con la persona infetta nel periodo di contagiosità, invitandole a sottoporsi a un test e a mettersi in auto-quarantena. Va ricordato che il successo di un’applicazione di tracciamento dipende dal grado di diffusione tra la popolazione. I ricercatori dell’Università di Oxford hanno calcolato che l’app può essere un fattore determinante per contenere la propagazione del nuovo Coronavirus e favorire l’allentamento dei provvedimenti, ma solo se circa il 60 per cento della popolazione la installa sul proprio smartphone. Stando a un sondaggio condotto dall’Università di Zurigo a metà aprile su un campione di popolazione rappresentativo, il 72 per cento degli svizzeri ha dichiarato di essere disposto a installare una tale app se dovesse contribuire a rallentare la diffusione del virus e ad accorciare la durata del lockdown. Dopo settimane
di confinamento, il desiderio di ritornare alla normalità e la paura di una «seconda ondata epidemica» sono giudicati dalla maggioranza degli svizzeri più importanti della salvaguardia della propria privacy. Invece, per il parlamento, l’incaricato federale della protezione dei dati e della trasparenza e la Commissione nazionale d’etica vanno chiarite prima alcune criticità, ad esempio l’impiego su base volontaria e la protezione dei dati. «Il proprietario di un ristorante potrebbe chiedere a un cliente di installare l’app per accedere al suo locale», ha indicato Balthasar Glättli, portavoce della Commissione delle istituzioni politiche del Consiglio nazionale durante il dibattito parlamentare. Il Consiglio federale è quindi chiamato ad elaborare una legge che impedisca qualsiasi svantaggio per chi non installa o non utilizza l’applicazione di tracciamento. Inoltre, il suo impiego deve avvenire senza pressioni esterne. La protezione della privacy e degli abusi è un altro elemento centrale della questione. All’inizio di aprile, oltre 130 ricercatori, esperti di protezione dei dati e sviluppatori di programmi informatici di otto Stati europei si sono uniti per creare un software che permettesse ai singoli Paesi di ideare applicazioni di tracciabilità digitale compatibili tra di loro. Tra le forze trainanti del progetto paneuropeo «Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing» (PEPP-PT) c’era l’epidemiologo Marcel Salathé del Politecnico federale di Losanna. A metà aprile questa collaborazione è finita però a porte sbattute. La Svizzera ha abbandonato il consorzio poiché quest’ultimo puntava su una registrazione centralizzata dei dati. Stando ai critici, questo metodo permette di risalire più facilmente ai dati personali di una persona infetta ed è meno sicuro rispetto al sistema decentrale di registrazione delle informazioni, sistema scelto dai Politecnici federali di Losanna e Zurigo e dalla maggior parte dei Paesi, tra cui anche da Germania e Italia. Rimane solamente il rammarico che per il momento i ricercatori non sono riusciti a sviluppare a livello europeo un’applicazione che permetta il tracciamento dei contatti a livello internazionale. Una caratteristica fondamentale per le regioni di confine in Svizzera, come il Ticino, cantone che più di altri ha sofferto a causa dalla pandemia causata dal nuovo Coronavirus.
Non siamo destinati a convivere con i tratti negativi della nostra personalità: possiamo diventare la versione migliore di noi stessi, modificando gli atteggiamenti che non ci piacciono. Secondo un celebre studio realizzato da Nathan W. Hudson, professore associato di Psicologia alla Southern Methodist University di Dallas, in Texas, e Brent W. Roberts, docente al dipartimento di Psicologia della University of Illinois, la maggior parte delle persone vorrebbe cambiare il proprio carattere, diventando più estroversa, disponibile, emozionalmente stabile, gentile e aperta a nuove esperienze. Il desiderio di essere diversi si basa sull’insoddisfazione che riguarda vari ambiti della vita, dalle amicizie, alla situazione lavorativa e finanziaria, alle proprie passioni. Non sempre, però, è semplice passare dall’idea all’azione: bisogna accettare la fatica, con pazienza, spingendosi fuori dalla «zona di comfort». Il cambiamento può essere innescato da esperienze intense come la perdita di una persona cara, sopravvivere a un incidente, avere un figlio oppure essere licenziati. Un altro fattore scatenante è quello che lo psicologo Ruy Baumeister chiama «la cristallizzazione del malcontento», cioè la somma dalle frustrazioni che si susseguono negli anni e che a un certo punto – come la goccia che fa traboccare il vaso – appaiono nel loro complesso, portando a vedere con improvvisa lucidità la situazione che non si tollera più. Gary Small, esperto di neuroscienze e comportamento umano, docente di Psichiatria e direttore del Longevity Center della University of California, Los Angeles, ha dedicato a questo tema un libro appena pubblicato in italiano, La scienza della personalità. Come cambiare quello che non ci piace di noi (Feltrinelli). Coautrice è la scrittrice Gigi Vorgan. Come spiegano i due autori, per molto tempo, psichiatri e psicologi sono stati convinti che la personalità (la somma dei tratti che compone il nostro carattere e definisce chi siamo come individui) si formasse nella prima infanzia e non potesse cambiare. «Tuttavia le ultime evidenze scientifiche contraddicono questa tesi. Nuove e convincenti prove dimostrano che possiamo evolvere – da soli, con il supporto di un terapeuta o con una combinazione delle due soluzioni – in un breve lasso di tempo, anche di soli trenta giorni». Gary Small ha ideato il Metodo Cpas, acronimo di Considerare, pia-
nificare, agire e sostenere. Secondo lo psichiatra, con la giusta motivazione, la maggior parte delle persone è in grado di procedere attraverso le quattro fasi del Cpas e raggiungere i propri obiettivi, che possono andare dall’avere più cura del proprio fisico (con un’alimentazione sana ed esercizio fisico regolare), al miglioramento delle relazioni, al diventare più assertive. Si può avere molto più controllo della propria personalità di quanto si creda. Infatti, il peso dei fattori ereditari, cioè la proporzione del carattere che si «prende in dote» dai genitori, oscilla fra il quaranta e il sessanta percento, a seconda dello specifico tratto considerato. Resta quindi, in media, un cinquanta per cento di margine sul quale agire. La scienza della personalità alterna pagine di approfondimento a consigli e test per capirsi meglio, analizzando i tratti che compongono l’indole, riconducibili a cinque «grandi categorie»: estroversione, apertura mentale, stabilità emotiva, gentilezza e coscienziosità. La nostra individualità è determinata dal modo in cui ci collochiamo nello spettro di queste categorie. Migliorare non significa stravolgersi, con estenuanti lotte interne, ma imparare a valorizzare la propria complessità, «aggiustando» gli aspetti che impediscono una piena affermazione di se stessi. Consideriamo l’introversione, ad esempio: non è una caratteristica negativa in sé, perché rende più riflessivi, porta a trascorrere tempo da soli, dedicandosi alla lettura e ad attività creative. Ma l’introversione esaspera i dialoghi interiori e le elucubrazioni mentali, rendendo socialmente goffi, snob o maleducati. Per aggirare l’ansia sociale, gli introversi tendono a mimetizzarsi, facendosi notare poco anche nelle situazioni da cui potrebbero trarre beneficio, faticano a fare nuove amicizie, a uscire e a sviluppare relazioni. Come suggeriscono Gary Small e Gigi Vorgan, se si è penalizzati dall’introversione, ci si può ammorbidire socializzando, compiendo piccoli passi per volta, anche quando non se ne ha molta voglia. Non serve andare a una festa con venti persone, ma fissare un obiettivo più modesto, magari incontrando una o due nuove persone, in compagnia di un amico. Ci si può anche sforzare di parlare a voce, al telefono, invece di mandare sempre e-mail e messaggi scritti. Un tratto della personalità che è auspicabile coltivare è la gentilezza, anche se è bene non esagerare perché altrimenti si rischia di venire «sfruttati» dagli altri. Le persone gentili tendono a essere amichevoli, disponibili e affidabili: è per questo che si ha piacere a stare con loro. I genitori gentili sono motivatori e in grado di trasmettere calore e sostegno, il che aiuta i figli a sentirsi al sicuro. La gentilezza, inoltre, rafforza le relazioni e il fatto di poter contare su legami sociali più solidi è collegato a una migliore salute e a una maggiore longevità. Per riuscire a diventare più cortesi, si può imparare a esprimere disappunto senza cadere sul personale, senza attaccare gli altri. Un altro suggerimento è imparare a perdonare. Lasciare andare i rancori riduce lo stress e fa sentire più positivi. Infine, con l’empatia si riesce a comprendere meglio il punto di vista di chi ci circonda, liberando i risentimenti e sentendosi più vicini agli altri.
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Il valore della fiducia Durante questa pandemia siamo stati e continuiamo ad essere sollecitati e incoraggiati all’esercizio della nostra responsabilità individuale. Nello stesso tempo, però, siamo invitati a lasciar entrare nelle nostre vite, a volte in modo pervasivo, forme molteplici di controllo. E ciò perché sembra assolutamente necessario controllare i nostri comportamenti, anche se questi dovrebbero ispirarsi all’accresciuta responsabilità di ognuno di noi. E qui nasce un bel pasticcio etico, perché la responsabilità richiede fiducia mentre nel controllo si insinua sempre il sospetto di una sempre possibile trasgressione. Fiducia e sospetto, ovviamente, non possono convivere. In realtà questo conflitto etico è sempre esistito ma oggi si mostra in modo più evidente. Crea disorientamento, anche se a volte in modo impercettibile, e merita perciò qualche riflessione che potrebbe anche aiutarci, una volta
passata l’emergenza, a correggere alcuni aspetti sempre più problematici della nostra convivenza. Il bisogno di controllo è una vecchia storia che attraversa tutta la nostra civiltà. Tanto per fare solo qualche richiamo, l’etica degli antichi filosofi ha incoraggiato, in forme anche molto diverse, l’esercizio del controllo su di sé che ogni individuo deve realizzare nelle proprie scelte. Controllare gli istinti, i desideri, la volontà: dalla virtù, che sta sempre nel giusto mezzo, di Aristotele, alla rinuncia ai piaceri non necessari di Epicuro, fino alla stoica accettazione del fato, forma sublime di controllo della propria volontà. Poi ci si è messa, con rinnovato vigore, la scienza moderna. A questo punto si è trattato di controllo del mondo: un mondo reso oggetto di conoscenza, da controllare nei suoi effetti proprio con la conoscenza delle cause. Conoscere è prevedere e, parola di Bacone, impa-
rare, quanto più possibile, a dominare la natura. I progressi della conoscenza, e questa è storia di oggi, ci inducono a credere, illusoriamente, che sia possibile controllare tutto. E che il controllo offra alle nostre vite lo splendido dono della sicurezza. Facile allora comprendere come, in momenti di grande incertezza e spaesamento, le forme di controllo siano perlopiù accolte, anzi, siano benvenute. Non ci accorgiamo però che questa accoglienza del controllo confligge con un altro aspetto, altrettanto sentito in questo momento, ovvero con l’esercizio delle nostre responsabilità. La responsabilità personale è l’esito più luminoso della forma più autentica di libertà, e cioè dell’autonomia, della capacità di dare leggi a sé stessi, come indica la parola stessa: la forma più autentica di libertà contiene il nomos, la legge. Ma è una legge che nasce in me:
devo perché devo, diceva Kant, non in vista di una possibile conseguenza, come potrebbe essere, in questa e in molte altre situazioni, il rischio di una punizione. L’uomo può essere un soggetto morale, bisogna dargli fiducia. E l’Illuminismo ha riposto molta fiducia nell’umanità. Fiducia: come quella di una mamma che uscendo di casa, invece di lasciare ai figli un elenco di cose da fare o da non fare, lascia loro un semplice messaggio: comportatevi bene! Fiducia nel fatto che l’educarsi, ovvero il viaggio verso noi stessi che ci accompagna per tutta la vita, passi attraverso la fioritura della nostra intima autonomia. Ma fiducia anche come elemento inaugurale della vita: come lo è la fiducia del neonato che viene alla luce affidandosi alle braccia della mamma. Controllo significa invece sospetto che questa intima fioritura della propria
autonomia possa anche non avvenire. Aspettative negative, insomma, di cui tanta psicologia ha raccontato gli effetti nefasti. Autonomia e controllo, fiducia e sospetto: ecco il conflitto etico che oggi sembra mostrarsi irrisolvibile. O forse no, forse ci può aiutare a meglio comprendere e proteggere il valore inestimabile della fiducia. Che è un rischio, certo, ma forse è l’unico nutrimento capace di far crescere in noi il sentimento del valore e le nostre responsabilità verso ciò che ha valore. L’etica, prima di essere rispetto dei valori di una società e delle sue regole di convivenza che si offrono a noi dall’esterno, è il riconoscimento del valore. E ciò non può che accadere dentro di noi, perché l’etica, come dice il suo etimo oikos, è la nostra dimora interiore. Il luogo intimo da cui ci apriamo, con fiducia, al nostro vivere e convivere.
a morte, finendo esiliato qui, per via di una calunnia nei suoi confronti riguardo a uno scandalo sessuale. Un frate sta trapanando una statuetta lignea. Cerca, credo, di fissare, facendo dei buchi con il trapano elettrico, tutto sudato e rosso in viso, dei tulipanini inutili imprigionati nella plastica. Cerco veloce con lo sguardo di acciuffare la reliquia di Sant’Otmaro portata qui nel 1767 che provocò, pare, un afflusso crescente di pellegrini. Il frate non smette di utilizzare il trapano elettrico, senza pace abbastanza non riesco bene a cercare. Esco fuori, rammaricato di non aver visto neanche una rappresentazione di Sant’Otmaro, la cui iconografia prevede sempre un barilotto. Si racconta che trasportando la sua salma in barca, verso San Gallo, il vino dei barcaioli, sarebbe miracolosamente aumentato. Su una panchina riparata da un nocciòlo, mi siedo per il pranzo al sacco: panino imbottito di peperoni arrostiti, tè freddo, fragole al limone e zucchero. L’isoletta monastico-avifaunicola turgoviese di un ettaro e mezzo è presto
perlustrata: gran parte è indicata dai frati come Privat, il resto è sbarrata da uno sgraziato nastro di plastica perché è zona protetta per la natura. Eppure non ho ancora trovato il masso erratico detto Elfistein. Nessuna leggenda a proposito di elfi, ma elfi è l’orario in cui, quando non c’è nessuno in vista, la pietra gira su sé stessa. Altre pietre delle undici conosciute, si trovano a Meilen, sul lago di Zurigo, e altrove. Aguzzando la vista, sulla spiaggetta, avvisto l’Elfistein emergere dall’acqua. Non lontano dall’erratico delle undici, degli scavi archeologici negli anni trenta, portarono alla luce reperti della tarda età del bronzo, tra millecinquecentocinquanta e milleduecento anni avanti Cristo. Ritrovamenti magnetici, affiorati in mezzo al fango, chiamati Mondhörner o Mondidol. Mezzalunecorna in terracotta: presunti alari per il fuoco o solo degli idoli così, a forma di luna crescente, come gli amuleti della Roma antica noti come lunule. Salici piangenti si chinano verso l’acqua tra lago e fiume, su quest’isoletta verde ai confini della defluenza e del divenire.
dall’agenda mainstream e sono però vitali per la società civile. È stupefacente come alcuni media ancora si illudano di poter essere gli esclusivi gestori dell’informazione. Senza voler nulla togliere alla competenza e all’autorevolezza di nessuno il messaggio è chiaro: chi non cambia, chi non è in grado di dare voce alla società tutta, di rappresentarla nella sua interezza, diversità e complessità, chi non è in grado di capire che le competenze delle donne sono indispensabili in qualsiasi ambito e in qualsiasi momento, non deve stupirsi se l’agenda all’improvviso viene stravolta, se perde lettori (spettatori, ascoltatori) o non conquista l’attenzione dei più giovani. È tempo di accettare l’idea che la realtà non può essere spiegata o raccontata soltanto attraverso le lenti maschili. Le giornaliste competenti e capaci in questo Cantone non mancano, oltre a fare il lavoro di cucina delle notizie o di redazione, dovrebbero firmare i pezzi
in prima pagina, scrivere gli editoriali, condurre i programmi di punta e perché no, dirigere una testata. Interessante negli Stati Uniti il progetto di un gruppo di quattro giornaliste professioniste (tra queste la fondatrice Emily Ramshaw, ex direttrice della start up di informazione digitale The Texas Tribune e Amanda Zamora editor digitale, responsabile del prodotto e della strategia del pubblico per «ProPublica» e il «Washington Post»), una nuova testata digitale di politica e di informazione. Si chiama «The 19th» come il diciannovesimo emendamento della Costituzione americana che è stato il culmine dei movimenti per il suffragio femminile negli Stati Uniti. Cento anni dopo, l’emendamento è stato adottato il 18 agosto 1920, nasce una nuova testata digitale che intende portare avanti il lavoro iniziato. Torneremo a parlarne. Il mondo va avanti e le donne ci saranno.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’isola Werd Sant’Otmaro muore, il sedici novembre 759, sull’isoletta lacustre nel canton Turgovia che sto cercando di scorgere invano una fine mattina piovigginosa ai primi di maggio. Sceso a Eschenz, comune al quale l’isola appartiene anche se di proprietà dell’abbazia benedettina di Einsiedeln e data in affitto ai francescani, alla fermata dell’autopostale mi accoglie un passaggio a livello nel nulla. A parte un ristorante thai e una vecchia gatta cicciona che si muove a fatica, stile ippopotamo, ma fa ancora ron ron. A naso vado verso il lago che non si vede ancora, tra casette con giardino, prati con mucche, canneti. Eccola là, in fondo al pontile. All’estremità occidentale del lago inferiore di Costanza che sta per ridiventare Reno. Rheinsee, non per niente è chiamato così questo braccio esiguo di lago che defluisce tra poco nell’Alto Reno. Tra seicento metri circa, all’altezza del ponte per Stein am Rhein, meta turistica-pittoresca per via di antiche case a traliccio e facciate dipinte che si nota bene laggiù, sulla riva opposta, nel Canton Sciaffusa.
Alle sue spalle, in cima a una collina, in mezzo al bosco, spunta un castello. Sullo sfondo, dall’altra parte, sprazzi quasi fluo del giallo colza in Germania. L’acqua è bassa e limpidissima. Una ballerina bianca e nera, si posa sul corrimano del pontile lungo duecentotrenta passi. Domina la scena, seppur con discrezione, il frontone a gradoni del convento tutto bianco come la cappella di Sant’Otmaro attaccata. Sant’Otmaro avrebbe potuto benissimo chiamarsi tutta l’isola, in onore del monaco alemanno confinato qui fino alla fine dei suoi giorni. Werd, invece, tratto da un vocabolo tedesco antico, è sinonimo di isola fluviale. Che fantasia, un po’ come il bassethound del tenente Colombo che si chiama Cane. La corrente poi, a essere precisi, qui non si vede scorrere per niente, perciò, da umile islomane, la riterrei lacustre, al limitare della defluenza. Come le sue due sorelline minori disabitate – le Werdli – che si distinguono a malapena, appena dietro, già sul territorio di Sciaffusa ma in possesso dell’avifauna. Spiccano sulla facciata del piccolo con-
vento antico, le sedici persiane tipiche svizzere, dipinte con fiamme optical gialle su sfondo nero. L’isola Werd (398 m) da una cinquantina d’anni è abitata da frati francescani, sei adesso. Sotto le otto finestre, sul prato, c’è un labirinto come quello sul pavimento della cattedrale di Chartres. Riprodotto con erba e ghiaia, idea dell’associazione femminista Labyrinth international, dal 2006 esiste questo labirinto di Chartres che, tanto per, incomincio a percorrere. Una parte è cosparsa di petali rosa caduti da un pruno ornamentale. Senza fretta, però a un certo punto mi sento come criceto nella ruota, passatempo per i frati. Al centro un po’ una delusione, un aggeggio pseudoscultoreo di metallo sembra un posacenere poco meditativo. «Pace e bene»: il famoso slogan francescano si legge in latino sulla porta del convento. Piove sul serio ora, mi rifugio nella chiesetta dedicata a Sant’Otmaro. Co-fondatore dell’abbazia di San Gallo e protettore, tra gli altri, dei calunniati, visto che per un soffio è scampato a una condanna
La società connessa di Natascha Fioretti Le donne ci saranno In questi ultimi mesi oltre a leggere i giornali digitali ho seguito i commenti e le notizie sui social. E confrontando il discorso online con l’agenda tematica dei giornali spesso ho avuto come l’impressione di vivere in due mondi paralleli. Scrive qualche giorno fa la giornalista femminista Silvia Neonato sulla sua bacheca «Che mondo verrà? Rispondono tutti maschi, dodici come gli apostoli. Non ci credete? È la “Repubblica” di oggi, l’inserto culturale chiamato Robinson. Grazie. E dire che buona parte dell’Europa politica e finanziaria è in mano a tre donne. Siamo un Paese terribilmente arretrato. Ma perché non ci arrabbiamo terribilmente? Due domeniche fa l’inserto culturale domenicale de “Il Sole 24 ORE” era identico, due firme di donne su quaranta. Sono inferocita da queste cancellazioni violente». Provate a guardare le pagine dei quotidiani nostrani e vi accorgerete di come
soprattutto in questi mesi lo spazio ai commenti, alle opinioni, agli editoriali in prima pagina siano stati appannaggio dei maschi. Idem nei programmi televisivi della RSI. È infatti nato un gruppo di donne ticinesi chiamato Gender_Covid19, di cui sono venuta a conoscenza sui social, che nel nome delle parità costituzionali si interrogano sul futuro immediato della parità di genere visto che alle conferenze stampa, fra gli intervistati di spicco, negli studi televisivi dei programmi di punta, ovunque si parlasse di emergenza Covid 19, fatto salvo rare eccezioni, c’erano sempre e soltanto uomini. «Fra i tanti nuovi inizi post pandemia auspichiamo vi sia anche quello della visibilità del ruolo delle donne e un decisivo riconoscimento delle competenze». Tra l’altro, duole dirlo, anche la BBC non ha saputo fare meglio, ce lo dice l’inequivocabile articolo del «Guardian»: «Gli esperti maschi dominano gli show d’informa-
zione durante la crisi del coronavirus». Secondo lo studio dell’Expert Women project (EWP) della City University of London, il numero degli esperti uomini invitati nei programmi è stato tre volte quello delle donne sia in TV che in radio. La disparità maggiore si è registrata all’inizio, quando ancora si ragionava sulla strategia da adottare. In quel caso tutti i politici o i consiglieri proposti dal governo per intervenire nelle trasmissioni erano uomini. Nella fase del lockdown invece, quando i giochi erano fatti e l’attenzione dei media si è spostata sulle cure sanitarie, la disparità è diminuita. Quello che voglio dire con questi esempi (ce ne sono molti altri come il flash mob virtuale #DateciVoce per chiedere più competenze femminili nella taskforce voluta da Conte) è che sui social, per fortuna, o comunque in Rete spesso nascono narrazioni, spazi, piazze di dibattito e confronto che esulano
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Ambiente e Benessere Viaggi senza folla Il futuro delle agenzie? Più ecoturismo nei boschi che weekend urbani
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Luoghi come piante I topónimi nelle Alpi rivelano una storia umana millenaria in correlazione agli alberi
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È prioritario lo sport? Non vitale, forse, ma di certo, come lo sono cultura e turismo, l’attività sportiva è fondamentale pagina 25
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La sanità ticinese si reinventa Covid-19 L’emergenza coronavirus
ha abbattuto le barriere a favore dell’unità di intenti
Maria Grazia Buletti Gli ospedali ticinesi ritornano gradualmente alla quotidianità dopo l’emergenza Covid-19: La Carità di Locarno e l’Italiano di Viganello riprendono quindi l’attività chirurgica elettiva (precedentemente sospesa) anche per i pazienti non Covid-19. Chiusura e riorganizzazione dell’intera rete ospedaliera, pubblica e privata, si erano rese necessarie per combattere in modo opportuno questo virus e non far trovare impreparata la nostra sanità a cui è stata richiesta la massima vigilanza nel raggiungimento del tanto atteso «picco», come è successo poche settimane fa. Un picco artificiale che non assicura l’immunità di gregge, ma permette alla popolazione di ammalarsi in modo progressivo così da essere curata adeguatamente dal sistema sanitario riorganizzatosi per questo. «Dovremo imparare a convivere col virus, alcune misure di igiene e distanziamento sociale dovranno entrare a far parte della nostra quotidianità come già è in nazioni come il Giappone dove, ad esempio, la distanza sociale, non starnutire e non toccarsi sono sinonimo di grande educazione e civiltà» dice il professor Paolo Merlani, direttore sanitario dell’Ospedale Regionale di Lugano. Dall’inizio dell’emergenza è alle redini dell’organizzazione sanitaria della Medicina Intensiva ticinese per affrontare i veloci e grandi cambiamenti. Prima e dopo il raggiungimento del picco, lo abbiamo incontrato per capire come la sanità abbia affrontato l’intera situazione, e quali risorse sanitarie siano state poste in atto perché tutti, ammalati di Covid-19 e non, possano sempre ricevere in tutta sicurezza e completezza le cure appropriate. «La diffusione del virus continuerà, e dovremo capire come si propagherà una volta allentate le misure: qualcuno si ammalerà, qualcuno avrà bisogno di essere ricoverato in ospedale, e pian piano si andrà verso l’immunità di gregge» spiega Merlani sottolineando l’importanza di tenere sotto controllo le nuove ondate il cui picco potrebbe essere «più grave del precedente». Ammette la difficoltà di prevedere quando tutto sarà davvero alle spalle: «Dipenderà dall’allentamento e dalla restrizione a singhiozzo delle misure
(ndr. politiche), come si fa con l’acqua di una diga, e dall’incognita della scoperta di un vaccino». Con questa chiara premessa, parliamo delle ansie e paure della popolazione di recarsi in ospedale, della difficoltà di capire le differenze fra quelli che abbiamo imparato a conoscere come ospedali dedicati alla cura di pazienti covid positivi, e gli ospedali liberi da Covid-19. Durante la prima chiusura, puntualizza Merlani, «bisogna informare adeguatamente e rassicurare gli ammalati che si tengono alla larga da medici e ospedali col timore di essere infettati e i pazienti cronici come ad esempio diabetici, cardiopatici e via dicendo, che non recarsi all’ospedale per l’infondato timore di contrarvi il virus comporta il rischio di conseguenze negative sullo stato di salute e magari arrivare troppo tardi». Ribadisce che, nonostante l’epidemia, all’ospedale (e sicuramente pure negli studi medici) ci sono sempre risorse sufficienti e soprattutto un ambiente sicuro per chi necessita di cure, se sono davvero necessarie. In merito alla prima riorganizzazione avvenuta in un incredibile minimo lasso di tempo della sanità, ribadisce che, anche all’inizio dell’emergenza, sarebbe comunque stato sbagliato considerare separati il «mondo covid» dal «mondo non covid» ospedalieri: «Abbiamo ridisegnato tutto il sistema sanitario. Non è, infatti, possibile immaginare due sanità distinte: per questo gli ospedali preposti a cure di pazienti non covid sono stati riorganizzati per permettere agli avamposti di Moncucco e Locarno di prendersi cura dei pazienti covid positivi. È stata inoltre creata una task force di Cure intense che ha coordinato in modo strettamente legato il funzionamento delle due realtà di cure intense covid e non». Sanità pubblica e privata hanno collaborato allo stesso tavolo verso un unico obiettivo. Il modo di curare è essenzialmente cambiato nella riorganizzazione e nello spostamento del personale medico-sanitario, garantendo l’eccellenza delle cure in ogni ambito: «Abbiamo dovuto ripensare a un sufficiente numero di posti di ventilazione e covid intubati, sulla base delle cifre di Cina e Italia. In questo primo tempo, i modelli ci hanno portato a realizzare 107 posti per pazienti covid intubati e
Il professor Paolo Merlani, direttore sanitario dell’Ospedale Regionale di Lugano. (Vincenzo Cammarata)
per 29 pazienti non covid intubati allo scopo di coprire un’onda, la più alta possibile, a fronte dei circa 51 posti di Cure intense disponibili prima in tutto il Cantone». Ma la difficoltà dell’esercizio non stava nel moltiplicare le apparecchiature, bensì, «bisognava creare in tempo record i locali con monitoraggi, disporre di farmaci che vanno esaurendosi in fretta, delle protezioni per il personale difficili da reperire e, ancor più essenziale, avere personale medico-infermieristico altamente qualificato i cui turni sono passati da 8 a 12 ore». La sanità ticinese ha dimostrato un’unità di intenti mai immaginata prima: «In due settimane abbiamo attuato questi cambiamenti rivoluzionari, spostando personale medico e sanitario in modo da razionalizzare e rendere le cure efficaci per tutti i pazienti».
Essenziali restano sempre prudenza e disciplina della popolazione, aperture e chiusure ragionate, parziali e coordinate per contenere i contagi in modo da poter curare le persone. Merlani riassume: «In fondo, nel funzionamento sanitario globale della prima fase di riorganizzazione ed emergenza, covid e non covid sono stati una sola cosa; gli ospedali non covid sono sempre stati sicuri e controllati; la disinfezione e pulizia di locali comuni e di cura continua è stata assicurata; le malattie croniche sono state curate adeguatamente e per tempo». Oggi si va, come detto, verso il graduale ritorno alla normalità. Arrivasse un secondo picco e la relativa emergenza, ci viene assicurato che in 48 ore la sanità risponderebbe e si riorganizzerebbe come già ha fatto. Il poi: «Sarà uno stimolo per la ricerca soprattutto
sugli antivirali. Alla luce di quanto viviamo, dovremo forse riconsiderare il sistema sanitario ottimizzandone le risorse e preparando uno stato di prontezza perenne a simili eventi sanitari. Il messaggio per tutti noi: l’uomo moderno non è invulnerabile, la sanità può contenere tanto ma non tutto come erroneamente si pensava». Merlani non si esime dal confidarci un intenso ricordo: «Quando erano paventate le chiusure delle frontiere, medici e sanitari frontalieri si sono presentati la notte prima per poter prendere comunque servizio, consci che il sistema sanitario ticinese sarebbe crollato senza il loro contributo. Non dimenticherò quella grande generosità. Dovremo continuare a collaborare tutti così, come ora, e le frontiere non dovrebbero più essere un tema».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Ambiente e Benessere
Scrutando nella sfera di cristallo
Di corsa da Atene alla Cina
Viaggiatori d’Occidente L’orizzonte più attendibile è una lenta e faticosa transizione
verso la normalità
letture per viaggiare «Correre oggi è assai più che un esercizio fisico. Le maratone non sono più soltanto un fenomeno per fanatici e la corsa ha generato una subcultura dinamica e variegata (…) Per la maggior parte dei runner la corsa rende più intenso il senso di appartenenza a un luogo…».
Claudio Visentin Passata la prima fase dell’emergenza – rimpatri, cancellazioni e rimborsi, chiusure – è inevitabile gettare uno sguardo verso il futuro. «E adesso? Quando torneremo a viaggiare? Cosa cambierà?» sono le domande ricorrenti. Purtroppo, la risposta non c’è; ci vorrebbe la sfera di cristallo dei maghi di un tempo. Nessuno sa cosa accadrà la prossima settimana, figurarsi tra tre anni. Oltretutto abbiamo pochissimi dati affidabili perché siamo davanti a una situazione mai affrontata prima. L’ultimo caso comparabile è la spagnola, 1919, ma allora la Grande guerra era appena finita e il turismo era l’ultimo dei pensieri. Ci sono tre scenari alternativi. Il primo, auspicabile ma non probabile, è legato alla scoperta di una cura efficace, di un vaccino o a un arretramento definitivo del morbo. In questo caso è probabile che si tornerebbe semplicemente al mondo di ieri e queste settimane resterebbero un bizzarro intervallo nelle nostre vite. Ma appunto questo scenario è improbabile, al pari di un peggioramento radicale della malattia (secondo scenario). L’orizzonte più attendibile è dunque una lenta e faticosa transizione verso la normalità, da oggi alla fine del 2021. I governi dovranno fare attenzione a non lasciar collassare le imprese nell’immediato e sostenerle poi con linee di credito, ma se non sono già pesantemente indebitati – come l’Italia – possono prendere a prestito denaro a ottime condizioni e girarlo poi alle aziende con un tasso di poco superiore. Sul fronte dei consumatori, la voglia di viaggiare è intatta e anzi aumentata dalla forzata immobilità. Ma i turisti torneranno a viaggiare solo quando sarà possibile, se avranno abbastanza soldi e se i mezzi di trasporto funzioneranno; sono già tre variabili e potrebbero essere venti. Ovviamente la sicurezza sarà in primo piano: «Per un paio d’anni i viaggiatori non vorranno toccare nulla e cercheranno di avere più spazio possibile tutto per sé. I viaggi senza folla e senza problemi sono il futuro»: così si esprime Alex Wilcox, amministratore delegato di JSX, una compagnia di voli privati (per inciso un settore con ottime prospettive). Su un punto tutti sono d’accordo: «Le precedenti crisi insegnano che in
Bussole I nviti a
Per avviare la ripresa turistica potrebbe essere buona cosa puntare sulle escursioni in montagna. (Julian Kwasniewski)
un primo momento i viaggiatori tendono a restare vicino a casa: si comincia con un ristorante locale, un fine settimana nella propria regione, poi qualche timido viaggio dentro i confini nazionali, infine una convinta ripresa dei viaggi internazionali»: così Shannon McMahon, Trip Advisor. Per i viaggiatori, questo è un tempo di rischi, frustrazioni e forzata immobilità ma, come sempre accade nei momenti di crisi e di transizione, potrebbe improvvisamente presentarsi un’opportunità, per esempio il viaggio che avete sempre sognato. «Alla ripresa si potranno fare grandi affari per un po’ di tempo perché ci saranno stanze disponibili e posti vuoti sugli aerei che devono essere riempiti rapidamente. Scompariranno quando la domanda di viaggi tornerà consistente» sostiene per esempio Gary Leff, fondatore del blog View From the Wing. E in quella fase di ritorno alla normalità un buon agente di viaggio potrebbe rivelarsi un alleato prezioso, anche solo per avere un avvocato nel proprio angolo se qualcosa dovesse andare storto. Gli agenti di viaggio a loro volta dovranno rinno-
vare i loro prodotti adattandoli ai tempi nuovi: esperienze di ecoturismo nei boschi saranno più richieste di week-end urbani. Gli imprenditori devono gestire bene la ripartenza e non sbagliare la scelta del momento giusto per rientrare in gioco: chi ha qualche margine e non ha rivali troppo attivi potrebbe anche decidere di stare fermo un giro, in attesa di migliori condizioni; gli altri dovranno giocoforza andare alla guerra. Il turismo sarà migliore, quando tutto questo sarà finito? Mi piacerebbe, ma ne dubito. Già da tempo l’emergenza climatica ha reso evidente la necessità di cambiare modello di sviluppo. Ora il nostro pianeta si sta prendendo una pausa anche dal turismo, il cui impatto ambientale è spesso sottovalutato, ma alla ripresa, senza interventi politici, si baderà solo all’essenziale: pochi investimenti e massima attenzione al profitto. Per esempio, le compagnie aeree – sostiene l’esperto di aviazione Henry Harteveldt (Atmosphere Research Group) – «faranno di tutto per generare entrate e per non perdere posizioni rispetto alla concorrenza, ma si
tireranno indietro quando si tratterà di adeguare le loro flotte con nuovi aerei meno inquinanti». Naturalmente ci sono differenze marcate tra Paese e Paese. Chi dipende interamente dal turismo internazionale – possono essere le Maldive, la Turchia, Dubai o i Paesi del Nordafrica – se la passerà male finché resterà prevalente il turismo domestico e di prossimità. Chi dispone di un buon mercato interno – per esempio gli Stati Uniti o l’Italia – può invece sperare di limitare i danni. La Svizzera, nonostante le dimensioni ridotte, appartiene a questa seconda categoria. E nella Confederazione, il Ticino è da sempre una meta rassicurante, quando il mondo appare troppo complicato o pericoloso. Il Tour Operator Hotelplan, legato a Migros, fu fondato nel 1935 da Gottlieb Duttweiler per sostenere gli albergatori svizzeri scossi dagli effetti della Grande crisi del ’29. Grazie a offerte dedicate e convenienti («Una settimana a Lugano», 57 CHF), per qualche anno gli svizzeri presero il posto della tradizionale clientela internazionale. Torneremo a quella stagione?
Da qualche anno parecchi quarantenni o cinquantenni si mettono alla prova con una corsa impegnativa, per dimostrare prima di tutto a sé stessi di essere ancora quelli di un tempo. E così, passo dopo passo, dopo essere sopravvissuti alla prima mezza maratona nella propria città, si formano gruppi di amici e si finisce per iscriversi a corse in giro per il mondo. Questo libro coinvolgente offre le informazioni necessarie sulle diverse possibilità e al tempo stesso, attraverso il racconto di un partecipante, restituisce l’esperienza personale. Misurate le vostre forze! Soprattutto all’inizio state alla larga da esperienze come la durissima Barkley Marathons (Wartburg, Tennessee) ispirata alla tentata fuga dell’assassino di Martin Luther King dal Brushy Mountain State Penitentiary. Di leggendaria durezza è anche la Marathon des sables, 7 giorni e 240 km attraverso lo spietato Sahara marocchino, portandosi nello zaino tutto il necessario a parte l’acqua (se ne ricevono 9 litri al giorno). Sempre in Africa, potreste correre in casa dei kenyani, leggendari fondisti, tra gli animali selvaggi di una riserva naturale (Safaricom Half Marathon) o partecipare alla Great Ethiopian Run. O forse meglio partire dall’inizio e coprire l’epico percorso tra Maratona e Atene, dove tutto cominciò nel 490 a.C. con la leggendaria impresa del soldato Filippide, per annunciare la vittoria dei greci sui Persiani. La più antica maratona del nostro tempo è invece quella di Boston (si corre regolarmente dal 1897). Si resta nella storia correndo sulle sezioni restaurate della Grande Muraglia (Maratona di Jinshanling, ad aprile). Inevitabile prima o poi attraversare New York la prima domenica di novembre con oltre 50mila partecipanti. O ancora Londra, Berlino, il lungomare dell’Avana (il Malecón) o Québec City in inverno... / CV Bibliografia
Corse leggendarie in tutto il mondo. 200 proposte per correre in 60 paesi nei 5 continenti, EDT, 2020, pp. 328, € 32.–.
Sinonimi cantati Giochi di parole Un quiz enigmatico da risolvere secondo logica e memoria riesce a rievocarla dal magazzino della propria memoria). Se si intende proporre dei giochi di natura mnemonica a un vasto pubblico, è necessario attingere a nozioni ritenute di conoscenza comune. Il seguente gioco è stato realizzato con tali criteri. Verificate se la sua impostazione ha centrato l’obiettivo... Da ognuna delle seguenti dieci frasi, cercate di risalire al titolo di una celebre canzone italiana, sostituendo alcune loro parole con opportuni sinonimi. Ad esempio: Passato remoto → Lontano lontano (Luigi Tenco, 1966) (passato → lontano; remoto → lontano) 1. Arie turbate – 2. Concetti e vocaboli – 3. Finalissima addio – 4. Folla rilevante – 5. Grosso adulto maturo – 6. Il cimento della mongolfiera – 7. Il
Paradiso in un ambiente – 8. Infantile giocatore – 9. Ingresso di gruppo – 10. La corrente d’Oriente – 11. La domesti-
ca fuoriclasse – 12. La regina inanellata – 13. Possibilità del settore – 14. Spirito divino – 15. Superficie impegnata.
Soluzione
Nel linguaggio comune, esiste una diffusa tendenza a confondere i significati dei termini quiz ed enigma. A livello formale, questi due tipi di giochi richiedono entrambi di trovare una risposta corretta a una determinata domanda. Le loro rispettive impostazioni, però, presentano delle differenze sostanziali, che è opportuno non sottovalutare. Sull’origine del vocabolo quiz circolano varie versioni, tutte poco convincenti. Secondo una delle più fantasiose, un impresario teatrale di Lublino (Polonia), un certo Daly, scommise d’introdurre in 24 ore, nel linguaggio parlato della sua città, un vocabolo qualsiasi, senza senso, e cominciò
quindi a scrivere con la vernice rossa, su tutti i muri, le prime quattro lettere che gli passarono per la mente, ovvero, appunto: «Quiz». Tutti si chiesero che cosa significasse quella parola e perché fosse stata dipinta così vistosamente; questa curiosità interrogativa conferì alla parola «Quiz» il significato di domanda, interrogazione, gioco di memoria, che ha tuttora. In assoluto, dovrebbe essere definito enigma, sia in ambito linguistico, sia logico–matematico, un problema ludico contenente nel proprio enunciato (in forma abilmente dissimulata) tutte le indicazioni necessarie per poter essere risolto. Al contrario, la risposta esatta di un quiz, non può essere ricavata analizzando logicamente la sua formulazione, ma solo se la si conosce già (e se si
1. 1. Arie turbate → Canzoni stonate (Gianni Morandi, 1981) 2. Concetti e vocaboli → Pensieri e parole (Lucio Battisti, 1971) 3. Finalissima addio → Bella ciao (Canto popolare) 4. Folla rilevante → Piazza Grande (Lucio Dalla, 1971) 5. Grosso adulto maturo → Grande grande grande (Mina, 1971) 6. Il cimento della mongolfiera → La partita di pallone (Rita Pavone, 1962) 7. Il Paradiso in un ambiente → Il cielo in una stanza (Gino Paoli, 1960) 8. Infantile giocatore → Piccolo uomo (Mia Martini, 1972) 9. Ingresso di gruppo → Bocca di rosa (Fabrizio De Andrè, 1967) 10. La corrente d’Oriente → Il vento dell’Est (Gian Pieretti, 1966) 11. La domestica fuoriclasse → La donna cannone (Francesco De Gregori, 1983) 12. La regina inanellata → La donna riccia (Domenico Modugno, 1954) 13. Possibilità del settore → Via del Campo (Fabrizio De Andrè, 1967) 14. Spirito divino → Pensiero stupendo (Patty Pravo, 1978) 15. Superficie impegnata → Terra promessa (Eros Ramazzotti, 1984)
Ennio Peres
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Ambiente e Benessere
Un «intruglio miracoloso» contro il colesterolo
La nutrizionista A dispetto delle affermazioni che vantano le proprietà curative di aglio e limone,
non esistono evidenze scientifiche circa la loro effettiva efficacia
Laura Botticelli Gentile Laura, ho sentito dire che per abbassare il colesterolo potrebbe far bene una specie di intruglio di acqua, limone e aglio. Può avere un qualche valenza, non dico proprio scientifica, ma «logica»? / Sandra Gentile Sandra, sinceramente non ero a conoscenza di questo metodo per abbassare il colesterolo. Personalmente trovo che ci voglia del coraggio a berlo, ma de gustibus non est disputandum, e capisco che molte persone preferiscano dei «rimedi naturali» piuttosto che «chimici». La sua domanda è, del resto, già abbastanza di parte, dacché parla d’intruglio, che è notoriamente qualcosa che non invoglia a essere consumato. Analizzando, comunque, i singoli ingredienti posso dirle che l’aglio – insieme a cipolle, erba cipollina, porri e scalogni – appartiene alla famiglia dei gigli. Ha origine in Asia, è consumato da oltre 5mila anni e gli vengono riconosciute da sempre proprietà medicinali nel trattamento dei livelli di colesterolo alto, dell’ipertensione e per prevenire il cancro, il raffreddore comune e altre condizioni di salute. La comunità scientifica attuale sta effettuando numerosi studi in merito, ma purtroppo molti di essi sono di dimensioni troppo ridotte o sono troppo
preliminari o non sufficientemente rigorosi per essere esaustivi. È stata eseguita una ricerca che indaga proprio se l’aglio può abbassare i livelli di colesterolo, ma ha mostrato un effetto molto piccolo o nessun effetto sul colesterolo lipoproteico a bassa densità (LDL, di cui ho anche recentemente scritto sempre in questa rubrica), che è il colesterolo «cattivo». Si è anche visto che l’aglio può essere di aiuto per la pressione sanguigna; tuttavia, l’evidenza non è così forte come dovrebbe essere. L’aglio è ricco di nutrienti come potassio, calcio, magnesio, fosforo, selenio e vitamine B e C. Per quel che concerne il limone, la sua origine resta sconosciuta, forse anch’esso ha avuto i natali in Cina, o comunque in Asia. Il limone è ricco di vitamina C, è una fonte di vitamina B6, e ha una buona quantità di magnesio e potassio. Alcuni elementi presenti possono abbassare il colesterolo: più precisamente secondo l’American Dietetic Association, il composto terpenoide chiamato limonene può abbassare il colesterolo LDL e i livelli di colesterolo totale. Questo, a sua volta, può anche aiutare a prevenire le malattie cardiache. Lo stesso vale per la vitamina C, che ha effetto antiossidante, e dunque impedirebbe al colesterolo di attaccarsi alle pareti delle arterie. Cosa posso dirle quindi sull’«intruglio»? Non ci sono prove scien-
Il naturale non sempre è sinonimo di salutare. (goodfreephotos. com)
tifiche sufficienti per affermare che I’aglio possa aiutare ad abbassare il colesterolo, tuttavia gli studi effettuati non hanno neppure smentito finora le proprietà benefiche per la salute che gli sono stati attribuiti per migliaia di anni. La sostanza sicuramente sarà ricca di micronutrienti ma è sempre importante ribadire che, in generale, se già si assumono dei farmaci prescritti da un medico essi non dovrebbero mai essere sostituiti, neanche da «intrugli naturali» e, se si volessero consumare,
sarebbe prima opportuno parlarne col proprio medico per capire eventuali effetti secondari ai farmaci o alla propria salute. Il naturale infatti non sempre è sinonimo di salutare; l’aglio, per esempio, può essere pericoloso perché può aumentare il rischio di emorragie, oltre a dare disturbi a livello gastrointestinale. In conclusione, anche se la tentazione di «risolvere» il problema bevendo un intruglio è forte perché semplice, è sempre meglio percorrere la via
più impegnativa ma sicura nel lungo periodo, cioè cercando di cambiare le proprie abitudini alimentari sbagliate con l’aiuto di una dietista riconosciuta. Informazioni
Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
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per la tortiera · legumi secchi per la cottura in bianco · 200 g di cioccolato fondente · 50 g di burro · 200 g di crème fraîche · 1 presa di fleur de sel · 500 g di fragole · 2 c di gelatina di fragole. Pasta al cacao: 180 g di farina · 1 presa di sale · 3 c di cacao in polvere · 50 g di zucchero di canna, semolato · 100 g di burro · 1 uovo. 1. Per la pasta al cacao, mescolate in una scodella farina, sale, cacao e zucchero. Incorporate il burro a pezzetti sfregando con le mani. Unite l’uovo e impastate velocemente. Avvolgete la pasta nella pellicola trasparente e mettete in frigo per 30 minuti. 2. Scaldate il forno a 180 °C. Imburrate e infarinate la tortiera. Spianate la pasta su poca farina in una sfoglia spessa circa 3 mm e accomodatela nella tortiera. Bucherellate il fondo con una forchetta e copritelo con un disco di carta da forno. Appesantite con i legumi secchi e cuocete al centro del forno per circa 15 minuti. Togliete carta e legumi secchi e infornate ancora per 5 minuti il fondo. Sfornate e lasciate raffreddare. 3. Fate fondere lentamente a bagnomaria il cioccolato e il burro. Incorporate a cucchiaiate la crème fraîche con la frusta, salate. Versate la crema di cioccolato sul fondo di pasta frolla e mettete in frigo per circa 10 minuti. Dividete le fragole in otto spicchietti e disponetele in cerchio sulla torta. Scaldate la gelatina e spennellatela sulle fragole. Mettete in frigo la torta per circa 1 ora.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Ambiente e Benessere
In cerca di alberi nel bosco dei nomi Dendronimia La toponomastica alpina indica la stretta relazione che intercorre da millenni tra uomo e alberi
Alessandro Focarile Come una buona torta millefoglie, i nomi dei luoghi (topónimi) nelle Alpi rivelano una storia umana millenaria, costruita attraverso la sovrapposizione di alterne presenze Liguri, Celtiche, Romane, Franche, Longobarde, Saracene, Germaniche e Slave, nell’arco temporale di oltre 5mila anni. In un incessante «andare di popoli», da Est a Ovest, dal settentrione al meridione. Oetzi, la mummia del Similaun, percorreva un tratto delle Alpi orientali 5400 anni or sono. E da sempre, il destino degli uomini è stato associato a quello degli alberi.
«Pare assai verosimile che vi sia stata un’epoca post-glaciale in condizioni climatiche tali che i valichi alpini, ora spogli di foreste, (…) dovevano nereggiare di folte selve di Cembri» Fino a una certa quota, gli alberi erano una parte fondamentale e costitutiva della vita quotidiana, scandita attraverso una serie di azioni e funzioni vitali. Taluni boschi erano considerati sacri (le silvae sacrae dei Romani), dimora di divinità venerate e temute, alle quali si chiedeva benevolenza e protezione. Altri boschi erano da sfruttare per il legname, per la selvaggina che ospitavano, e per i frutti che offrivano. In definitiva, negli stessi luoghi, ogni popolo che si è succeduto nel possesso del territorio ha lasciato la sua traccia linguistica, dando un nome a
ciascun albero, che costituiva la cornice del suo vivere quotidiano. La toponomastica alpina, giunta fino ai nostri giorni, è infarcita con questi nomi (dendrónimi, dal Greco dendros = albero), i quali, nel corso del tempo, hanno subìto molte variazioni anche errate di scrittura, e in funzione della posizione geografica di essi. Un esempio molto evidente ci è offerto dal nome dell’Abete rosso (Picea abies). Albero di origine siberiana, ha colonizzato un po’ alla volta le Alpi da Nord-Est dopo la ritirata dei ghiacciai (12mila-15mila anni da oggi). Grazie alle analisi dei suoi pollini contenuti nelle torbiere studiate, sappiamo che questo albero era presente in Carinzia circa 10mila anni or sono. Spostandosi lentamente, ma inesorabilmente, verso Ovest, l’Abete rosso è penetrato nel Vallese 4mila anni fa, per terminare la sua avanzata in Valle d’Aosta e in Savoia poco meno di 2mila anni da oggi. Da Est verso Ovest il suo nome è mutato di poco: da Cortina d’Ampezzo alla Valle d’Aosta intercorrono circa 500 chilometri. Da pez, attraverso peccia, pescen, si è addolcito nel francofono pessey (fig. 1). Ben differente è il caso del Pino cembro (cirmolo, fig. 2), albero che si è conservato in distretti di rifugio delle Alpi sud-occidentali anche durante le avanzate glaciali dell’ultimo periodo Quaternario, oltre ad avere conosciuta una successiva migrazione dalla taiga siberiana, sua patria primaria di origine. Una duplice colonizzazione che ha configurato, nel tempo, il suo areale alpino. «Oggi nelle Alpi rappresenta un relitto, anche in confronto a tempi storici non antichissimi nei quali dovette aver diffusione ben più estesa. Ne fanno testimonianza gli esemplari rimasti qua e là solitari, molto al disopra dei limiti at-
Diffusione nelle Alpi dei nomi riferentisi all’Abete rosso e al Pino Cembro.
Agra, frazione di Collina d’Oro, prende il nome dall’Acero. (Hadi)
tuali delle foreste, i resti subfossili delle torbiere, la diffusione dei toponimi derivati dai nomi volgari dell’albero. Pare assai verosimile che vi sia stata un’epoca post-glaciale in condizioni climatiche tali che i valichi alpini, ora spogli di foreste, del Grimsel, del Gottardo (del Lucomagno = grande bosco), del Bernina, dovevano nereggiare di folte selve di Cembri» (Penaroli & Giacomini, 1958). Non a caso, il Pino cembro (cirmolo) ha tutt’oggi nomi che rivelano una sua presenza molto più antica rispetto a quella dell’Abete rosso. Dall’arcaico elv delle Alpi piemontesi fino a Zirben del Tirolo, attraverso arolley, arolla, arbola, arbeola, Arven. Il nome dell’albero, attribuito dai primi occupatori del territorio, si è conservato fino ai nostri giorni, vero fossile vivente della toponomastica alpina. Inoltre, i nomi degli alberi, in vernacolo, documentano spesso l’esistenza del bosco a quote notevolmente superiori (200-400 metri) rispetto al limite altimetrico attuale, testimo-
Pini cembri al Lago Ritom (Ticino). (Alessandro Focarile)
niando la presenza umana passata in località alpine per noi oggi impensabili. In altri casi, il bosco attuale non ha più le stesse presenze arboree rispetto al passato, ma il nome primigenio si è conservato. Per esempio, dove c’erano i pini silvestri (dasei, dal Maghrebino dasà, dajey Valdostano, dailley Vallesano), oggi vegetano i castagni piantati dall’uomo. Oppure, dove prosperavano i pini cembri (arolley), oggi non c’è
più un albero. In quanto la copertura boschiva, attraverso i secoli, è stata fortemente depauperata e penalizzata dai disboscamenti finalizzati all’estensione di vaste aree destinate al pascolo. In Valle Bedretto, per restare in terra ticinese, è ubicata la vasta Alpe Pesciora, il cui nome testimonia la remota presenza del pesc (peccia, Abete rosso). Agra per l’acero, eghen e igher per il maggiociondolo, roveredo per la quercia rovere. L’esplorazione linguistica dei nomi di luoghi, attribuiti agli alberi, potrebbe continuare a lungo: c’è solo l’imbarazzo della scelta, e la curiosità di apprendere. L’ultima curiosità: Zerbion, ovvero grande zirben, a testimoniare la presenza del germanofono popolo Walser in Valle d’Ayas, 800 anni or sono. Bibliografia
Fenaroli L. & Giacomini V., La Flora. Conosci l’Italia vol. II, Touring Club Italiano (Milano, 1958), 272 pp.
Nuvole fiorite: il «Velo da sposa» Mondo verde Giunta dall’Oriente, il suo nome è Gipsofila e invece di essere foriera d’acqua,
come suggerisce la sua forma, porta allegria e movimento Anita Negretti Quand’ero bambina, in fondo alla strada della casa in cui vivevo, abitava una coppia di persone anziane. Erano appassionati di piante e arbusti, ma il loro giardino era circondato da una fitta siepe che lo nascondeva alla mia curiosa vista. La coppia usciva di casa raramente e quelle altrettante poche volte che mi capitava di passare davanti al loro cancello ancora socchiuso, sbirciavo per vedere quali fiori coltivassero. Ricordo che, proprio lungo il camminamento dell’ingresso, vi era un bellissimo cespuglio di fiori bianchi e soffici: si trattava di Gipsofila, nota ai più con il nome di velo da sposa. Protagonista immancabile nei bouquet dei fioristi – grazie alla vaporosità dei suoi fiorellini bianchi portati su sottili steli verde oliva – questa bella e facile erbacea perenne può essere coltivata in giardino, per poi essere recisa in piena estate così da adornare i vasi di casa. Contando più di centotrenta specie, la Gypsophila appartiene alla
famiglia delle Caryophyllaceae ed è originaria della Cina, dell’Asia e del Mediterraneo più orientale. Possiamo suddividerla in base all’altezza di sviluppo. Le prime sono, dunque, le tappezzanti come G. repens o G. prostrata oppure ancora G. cerastoides che non superano i venti centimetri di altezza, ma che si espandono velocemente formando cuscini compatti e larghi fino
a sessanta centimetri. Molto utilizzate nei giardini rocciosi, le gipsofile striscianti possono essere inserite alla base delle aiuole, accanto a rose, ad alti Flox e ai Coreopsidi color del sole. Oltre a quelle che hanno il fiore bianco, vi sono anche le varietà con sfumature rosate e ne è un esempio G. repens «Rosea Schönheit» dai petali porpora. Molto più alte sono invece quel-
Una nuvola di Gypsophila paniculata. (Matt Lavin)
le della specie G. paniculata, con fusti nodosi che raggiungono il metro, dove ogni stelo si divide in rami sempre più piccoli e sull’apice troviamo i piccoli fiori ricchi di petali a forma di stella. Le foglie sono lanceolate, di un verde quasi glauco e accompagnano i fiori che sbocciano da maggio in avanti. Tra le G. paniculate la più classica è la varietà «Bristol Fairy» alta tra i 90 e i 100 centimetri, con fiori bianchi che sbocciano dalla fine di giugno, mentre «Pink Festival» risulta essere più compatta, raggiungendo solo i 60-80 centimetri e portando capolini rosa-lilla da inizio giugno. In generale, le gipsofile sopportano bene il caldo ma tendono a morire rapidamente se vi sono ristagni d’acqua nel suolo, ed è quindi consigliabile aggiungere al momento della piantagione alcune manciate di sabbia o ghiaia nel buco che ospiterà le radici. Le irrigazioni successive all’impianto dovranno essere scarse, per cui è importante lasciare ogni volta asciugare il terreno tra una bagnatura e l’altra, mentre le con-
cimazioni andranno eseguite in primavera alla ripresa vegetativa. Per avere piante rigogliose per tutta l’estate, è consigliabile accorciare di quasi la metà i fusti nel mese di agosto, per quanto riguarda le varietà alte; mentre le tappezzanti, che fioriscono prima, andranno potate in giugno, così da stimolare in tutte le varietà l’emissione di nuovi fiori e mantenere una forma tondeggiante e compatta delle piante. Con gli scarti della potatura si possono ottenere nuove piante mediante la tecnica della talea: basterà interrarle a mezz’ombra e, tenendole umide, in soli dieci giorni radicheranno regalandoci nuove gipsofile da sistemare in giardino la primavera successiva. Nel tardo autunno quando incominceranno le prime gelate notturne si provvederà invece a un taglio più decisivo, in particolare per le specie alte, recidendo gli steli all’altezza del terreno, certi che ai primi tepori di marzo le vedremo nuovamente spuntare in giardino.
SensibilitĂ femminile
Solo le mamme sanno cosa significa partorire. Fatta eccezione per i maschi di cavalluccio marino. Le femmine depongono infatti le uova in un apposito marsupio dei maschi che provvedono a fecondarle, nutrirle e covarle. Dopo circa dodici giorni, sono loro che danno alla luce i piccoli, passando attraverso le doglie del parto. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch
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Il mammo, una meraviglia dei mari
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Ambiente e Benessere
Caos calmo? No, distillato di frenesia Sport È stata una delle prime a fermarsi, ma c’è da credere che l’attività sportiva sarà una delle ultime a ripartire
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Giancarlo Dionisio Se penso all’orizzonte odierno del mondo dello sport, mi tornano alla mente alcuni inquietanti versi di Giosuè Carducci: «Stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri, nel vespero migrar». Sono passati 77 giorni dal primo contagio in Ticino. Era il 25 febbraio, martedì grasso, e il Cantone ancora non aveva metabolizzato la vicenda che stava cambiando il mondo. La polemica «carnevale sì, carnevale no» sarebbe scoppiata solo a Rabadan concluso, inducendo l’autorità cantonale a bloccare il Carnevale ambrosiano. Su scala planetaria, lo tsunami Covid-19 non era molto più vecchio: il 23 gennaio, la città cinese di Wuhan veniva messa in isolamento; otto giorni più tardi si verificavano i primi contagi in Italia. Il mondo dello sport aveva reagito con prontezza, soprattutto dalle nostre parti. L’ultimo derby della storia fra Lugano e Ambrì Piotta era andato in scena a tribune deserte, solo quattro giorni dopo il primo contagio. Da lì abbiamo assistito a un progressivo susseguirsi di rinvii e di annullamenti, di cui abbiamo già ampiamente scritto. Oggi si agisce su due fronti. C’è ancora chi punta sul virtuale e sull’online. Ad esempio Mark Cavendish, col suo connazionale Luke Rowe, ha scalato gli 8848 metri dell’Everest, da casa, sui rulli. Sì, proprio lui, Cannonball, il velocista che nel ciclismo reale si stacca ad ogni cavalcavia. D’altro canto, chi gestisce lo sport sta giustamente pensando alla ripartenza. L’impressione che si coglie, sfogliando giornali e riviste, ed esplorando siti, è che la parola-chiave sia disorientamento.
Non ci sono idee chiare, manca una visione globale, ognuno pensa al proprio orto, nessun massimo organismo mondiale è in grado di tracciare un percorso sicuro e sostenibile. È una constatazione, non un’accusa. Sono consapevole del fatto che l’impresa sia titanica. Sta di fatto che, ogni giorno che passa, la situazione diventa sempre più drammatica, soprattutto dal punto di vista finanziario. Mi sorge spontanea una domanda. La ripartenza dello sport è prioritaria? Una domanda che mi potrei porre anche per tutto quanto attiene alla cultura e al turismo. Rispetto al poter disporre di cibo, casa, igiene, abiti, cure adeguate, tutto il resto scivola in secondo piano. Si può sopravvivere senza andare in vacanza a Miami o ad Acapulco; senza entrare al LAC per ascoltare la Nona di Beethoven, o vedere il Re Lear di Shakespeare; senza vibrare a Cornaredo, alla Resega o alla Valascia per le prestazioni dei nostri beneamati. Appunto. Si può sopravvivere. Ci sono infatti due aspetti che mi spingono ad auspicare una resurrezione, se possibile rapida e sicura, di sport, cultura e turismo. In primo luogo perché l’essere umano non è solo una macchina che si limita a respirare, nutrirsi, dormire, svegliarsi, e via di seguito. Siamo un distillato di corpo, anima, mente, emotività. Abbiamo bisogno, di leggere, ascoltare, viaggiare, amare, emozionarci, commuoverci, confrontarci. Abbiamo bisogno anche di sport, cultura e turismo. Senza dimenticare che questi ambiti sono importantissimi anche dal punto di vista economico e finanziario. Oggi riaprono, oltre alle scuole,
Manuel Akanji e per i suoi compagni N. 13 FACILE del Borussia Dortmund; infine, pochi giorni più tardi tocca a Denis Zakaria, e Schema
8 5 1 6 Il primo importante evento planetario in cartellone è il Tour de France. (needpix.com)
anche bar, ristoranti, alberghi, musei e ma, non si ha il coraggio di convocare biblioteche. Sia pure nel rispetto delle venti dirigenti in un’ampia sala, ma9si misure igieniche e del distanziamento pretende che da un giorno all’altro vensociale, da oggi si potrà recuperare una tidue calciatori, arbitri, assistenti, panbuona fetta della perduta normalità. chinari, allenatori, massaggiatori e acLo sport, invece, è ancora in alto mare, compagnatori mescolino il loro sudore poiché manca una visione unitaria. e la loro saliva, a volte anche il loro san4è praticamenEd è impossibile che ci sia. Anzitutto, gue, in un contesto in cui ogni nazione, ogni federazione, ogni te impossibile rispettare le prescrizioni disciplina sportiva, è confrontata con le relative al distanziamento sociale. proprie specificità di fronte al Covid-19. Il ministro tedesco degli Interni e Prendete, ad esempio, il calcio: alcune dello Sport, Horst Seehofer, ha dichia9 nazioni, come Francia e Olanda, hanno rato che «le società dovranno rispettare già archiviato la stagione; la Swiss Foot- le regole, non ci sarà alcun privilegia1 ball League è profondamente indecisa to. Se ci fosse un caso all’interno dei e dovrebbe fornire in giornata Giochi delle inclub, le- Aprile persone implicate andranno in per “Azione” 2020 dicazioni; la Bundesliga auspica un’imquarantena Stefania Sargentini per due settimane». 5 Imminente ripresa; in Italia la Lega calcio maginate la scena! Il 16 giugno risulta (N. 13 - Bubolare - Paupulare) spinge per una rapida ripartenza, ma lo positivo Robert Lewandowski, ed ecco 7 B U che C O O fa con i venti rappresentanti delle societutto Bil Bayern Monaco si ritrova L A segregato. S R EIl 19 M giugno stessa sorte per tà riuniti in conferenza online. Insom-
N. 14 MEDIO
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Cruciverba Forse non tutti sanno che il coccodrillo non può… Scopri il resto della frase completando il cruciverba e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 6, 5, 2, 6, 5, 5)
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
(N. 18 - Margherita Carmen Cansino)
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ORIZZONTALI 1. con un ferro caldo (N. Si 14fa - Molti ci lasciano le penne) Soluzione: 7. Centro Assistenza Fiscale M O L L E i3 T I A R A 8. Possessivo Scoprire R T corretti A S C I A 9. Le iniziali dell’attrice Rossellini O M Enumeri I inserire T E nelle S O R O 10. Gruppo che lavora per gli stessi L A da obiettivi T R caselle C Ocolorate. R A L I A 11. Soprabito invernale O N O M A D E T L 12. Un colore E T O S E T 13. Tessuti estivi T A SUDOKU P E N APER AZIONE - APRILE 2020 17. Inconveniente, disgrazia R N E T R 18. Un indimenticabile Lucio cantante O P E R A R E N. 13 FACILE 19. Cosparso d’olio Schema Soluzione 20. Vento freddo e impetuoso (N. 15 - ... un pezzo di pane secco) 21. Topo francese 6 9 2 1 3 4 7 6 8 9 5 22. Addebito per un ritardo di U V A N2 O I 3 8 6 8 7 9 5 1 2 4 3 pagamento N I N A S L 7 5 9 4 8 3 2 6 7 1 23. Le iniziali della cantante Consoli 5 T A P E S I 24. Persona furente 1 1 3 2 6 9 4 7 5 8 E P 4 A L I O8 25. Questa cosa 9 4 5 7 1 8 3 2 6 O Z I O N A 8 T I3 A2 6 VERTICALI L I Z 6 P 5O 2D I O P4 8 7 6 5 2 3 9 1 4 1. Una traccia nell’aria C A N O A N O 2. Tribunale Amministrativo RegionaleI A 4 9 7 6 8 1 4 9 5 3 2 N E G E V S E C 3. Le iniziali del cantautore Fossati V 8A C E4 T O 3 5 1 2 8 7 4 6 9 A M A T A Soluzione della settimana precedente 4. Isolotto tipico dell’Oceano Pacifico 9 3 più lunga del mondo 7 è quella di servizio 4 della 2 9funicolare 3 6 5 1 8 7 La scalinata Niesenbahn e Indiano in Svizzera. Scalini risultanti: UNDICIMILASEICENTOSETTANTAQUATTRO. 5. Gira su sé stessa (N. 16 - Undicimilaseicentosettantaquattro)N. 14 MEDIO 6. Dio 2sbuffante 1 3 4 5 6 7 8 9 10. Gara tra rioni 4 7 8 3 1 9 2 5 6 4 F A U N O 2M E D I C I 10 11 12 11. Contengono vivande A M2 I 7 L C A N O A 5 3 6 2 7 4 8 1 9 1 13 12.14Ogni tanto15 è piena S E9 I6 P E D R 4I N I 1 2 9 6 8 5 3 7 4 16 18 13. Nome femminile 17 T O D A R O U N I C 6 4 1 7 2 3 5 9 8 1 3 9 14. Piccola rana 19 20 verde 21 22 I L E O N U O T O 15. Gemelle in gonnella 3 5 2 1 9 8 4 6 7 23 24 25 26 27 5 1 S E T A T A R D O 16. Personaggio della mitologia greca 28 29 30 8 9 7 5 4 6 1 3 2 7 6 17. Guida spirituale indiana I N E T I D E A R E 31 32 9 8 3 4 5 7 6 2 1 9 8 3 4 7 2 18. I fiumi Riparia e Baltea B A R E L L E T E A 33 34 20. Buono Ordinario del Tesoro 2 6 4 9 3 1 7 8 5 2 Q U O9 T A 5T T E N 22. Stretto parente di però 35 36 7 1 5 8 6 2 9 4 3 7 B A S I R E B 3R O D O 23. A noi N. 15 DIFFICILE Partecipazione online: inserire la luzione, corredata da nome, cogno- concorsi. Le vie legali sono escluse. 4 indirizzo, 9 2 4 9 un 7 pagamento 8 1 3 in 5 con2 soluzione del cruciverba o del sudoku me, email del5 partecipanNon è6possibile nell’apposito formulario pubblicato 5 te deve essere spedita a «Redazione tanti dei premi. I vincitori saranno 9 5 3 7 2 6 9 4 8 1 sulla pagina del sito. Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 avvertiti per iscritto. Partecipazione 3 8 1 2 5 3 4 7 9 6 Partecipazione postale: la lettera o Lugano». riservata esclusivamente a lettori che 4 intratterrà 6 1 5 9 8in Svizzera. 4 6 1 2 5 3 7 la cartolina postale che riporti la so- Non si corrispondenza sui risiedono 20
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9 il cruciverba O Vinci una delle 3 carte regalo daR U50N2franchi con I L e una delle 2 carte regalo da 50II franchi con il sudoku O 7I 25
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ai suoi colleghi del M’gladbach. Ovviamente auguro salute eterna a 6 descritto non 9 è un fantutti, ma quello tascenario. Che campionato ne scaturirebbe? Sorvolo sulla2 questione pubbli3 co, sulle tribune desolatamente deserte, un fattore che snaturerebbe alla radice 7 il fenomeno calcio, e che non consentirebbe ai Club di risolvere i problemi 4 si sono venuti a creare 8 di liquidità, che dopo la diffusione del virus. A meno di rivoluzionare di fruizione 8 il sistema 3 2 6 del fenomeno calcio attraverso le Pay TV. 5 Ma2sarebbe un’opzione di difficile 4 attuazione, visto che sono in vigore dei contratti di diffusione, e che nessuno 4 sarebbe 9 disposto a perdedei detentori re i propri diritti. 8 importante 4 evento planeIl primo tario in cartellone è il Tour de France, che 3 dovrebbe andare in scena dal 7 29 agosto al 20 settembre. Ebbene, ci sono paesi in cui solo da pochi giorni è scattata l’autorizzazione di tornare in sella a una bici, ma non in gruppo. Si ha l’impressione, se non la certezza, che le regole di igiene e 2 di distanziamento sociale ce le porteremo appresso ancora per 2 parecchi 7 mesi, probabilmente 1 fino alla scoperta di un vaccino efficace. per il 6 Fino ad allora, la vedo dura 4 calcio, così come per l’hockey svizzero che conta di tornare in pista a settembre. La vedo 3 durissima per9il ciclismo e il suo oceanico seguito di pubblico difficilmente gestibile. Vorrei sbagliare. 1 Me lo auguro. Ma nella mia mente gli uccelli neri del 6 Carducci, si sono trasformati negli inquietanti gabbiani di Alfred Hitchcock.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Politica e Economia Disoccupazione virale USA L’entità del danno sul mercato del lavoro ha già superato ampiamente la crisi del 2008 ed equivale alla Depressione del 1929
Covid-19 e regioni d’Italia In questa terza puntata si parla del Piemonte, una delle regioni d’Italia più colpite dal Coronavirus; si fa sempre più stretta la correlazione fra diffusione del virus e territorio pagina 29
Come consumeremo? Dopo la paralisi del lockdown, le attività produttive ripartono, ma il volto della ripresa deve ancora essere disegnato, di certo sarà influenzato dai consumi
Gli anelli più fragili La pandemia peserà sulle piccole e medie imprese, molte rischiano di chiudere, in cima a tutte bar e ristoranti
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AFP
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Il Belpaese sempre più corteggiato Scenari L’attuale emergenza virale impatta su un Paese dotato di un valore simbolico formidabile e di asset
invidiabili in campo industriale, tecnologico e culturale che fanno gola a russi, cinesi e americani
Lucio Caracciolo L’Italia non è mai stata così malmessa e così contesa come in questa emergenza virale. Le previsioni di crollo del pil, che minacciano di esprimersi in due cifre, sono solo la punta dell’iceberg di un disastro sociale, più che economico, che si rifletterà inevitabilmente sull’assetto politico, fors’anche istituzionale del Belpaese. Ma questa depressione impatta su un Paese dotato di un valore simbolico formidabile e di asset invidiabili in campo industriale, tecnologico e culturale. Oltre alla posizione geostrategica nel centro del Mediterraneo, ponte fra l’Europa transalpina e l’Africa, confermata dalla presenza di un contingente militare americano di prim’ordine. Il convergere di fattori ultranegativi e ultrapositivi spiega lo strano incrocio fra crisi italiana e interesse altrui per lo Stivale. Il riferimento è anzitutto al triangolo strategico Usa-Cina-Russia in
cui tutto ciò che conta, Europa e Italia inclusa, è ricompreso. L’Italia è dal 1949 parte dell’impero informale a stelle e strisce, codificato dalla Nato. E da altrettanto tempo è oggetto delle attenzioni prima sovietiche poi russe, tese ad allentare se non scompigliare il vincolo della Penisola con la superpotenza americana. Da anni più recenti è però anche oggetto di speciali attenzioni cinesi, nell’ambito delle cosiddette nuove vie della seta, denominazione ufficiale del progetto di contro-globalizzazione in salsa sinica coltivato da Pechino. In questo contesto vanno letti gli aiuti all’Italia nell’epidemia da Covid-19. Prima, incredibilmente, è arrivata la Cina, scaricando con gran fanfara sul suolo italiano una quantità di mascherine e altro materiale sanitario, accompagnata da medici esperti nella cura dei Coronavirus che periodicamente infettano la Cina e da essa il mondo. Poco dopo, ecco calare sull’a-
eroporto di Pratica di Mare, presso Roma, aerei militari russi con tanto di ufficiali dell’intelligence e dell’esercito in mimetica. Scena da film bellico durante la Guerra fredda, oggi passata come fraterna solidarietà degli amici russi all’amato popolo italiano. Gli ufficiali russi erano in realtà soprattutto interessati a verificare in Lombardia l’origine del virus, sperando di poterne stabilire la produzione dal famigerato laboratorio di Wuhan. Carta di ricatto nei confronti dei non troppo amati partner cinesi, e segnale di apertura all’America, o almeno a Trump. Operazioni entrambe di tale successo propagandistico – con i sondaggi d’opinione a stabilire che nelle preferenze degli italiani oggi vengono prima la Cina e seconda la Russia, molto dopo l’America – da costringere la Casa Bianca a improvvisare un tentativo di recupero. Segnalato da un memorandum della Casa Bianca sugli aiuti degli Stati Uniti all’alleato italia-
no, però tardivo e poco concreto. Tale da far passare in seconda linea quel poco che effettivamente gli americani hanno fatto per l’Italia, non molto meno di quanto prodotto da russi e cinesi. Nella prima battaglia di soft power combattuta in Italia durante la crisi del Coronavirus, l’alleato americano ha straperso nei confronti dell’«asse» nemico. Quanto agli europei, in particolare a francesi e tedeschi, il loro interesse si è concentrato, come almeno dal Cinquecento a oggi, sul Nord italiano. Da tempo la parte più ricca e dotata di appetibili risorse nel Belpaese. Ma anche quella più devastata dal Coronavirus. La somma algebrica dei due fattori significa un bottino di qualità a prezzi di svendita. L’attenzione tedesca e francese (ma anche di altri attori, cinesi inclusi) per asset di sicuro rilievo, anche nel settore della piccola e media industria, significa un serio rischio di spoliazione e declassamento
dell’Italia nella competizione globale. E allunga di molto il percorso verso il riassesto di un’economia e di una società che non si erano ancora riprese dalla botta di due gravi recessioni nello scorso decennio. Tutto questo annuncia anni di dura competizione per profittare delle opportunità che inevitabilmente una crisi produce, specie di dimensioni così profonde. Nessuno sa quanto la crisi potrà durare, ma certo non sarà questione di un anno o due. Fra non meno di cinque anni la carta geoeconomica e geopolitica dell’Italia, dell’Europa e del mondo assumerà una configurazione più stabile e prevedibile. Ma quale sarà questa nuova normalità lo determineranno in buona parte le competizioni di questi mesi. Di sicuro, il rango dell’Italia ne sarà seriamente alterato. E la stessa appartenenza del Belpaese alla famiglia euroatlantica sarà messa a dura prova.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Politica e Economia
Dal lockdown alla Grande Depressione
Newsletter della pandemia L’America si prepara alle elezioni di novembre con 33,5 milioni di disoccupati
e uno scontro ideologico per governare il mercato del lavoro. Oltre a un’emergenza sanitaria esportata dalla Cina che Trump definisce l’equivalente di Pearl Harbor
Federico Rampini Nuovo balzo della disoccupazione americana: 3,2 milioni di persone si sono aggiunte nell’ultima settimana alle liste di coloro che richiedono le indennità. In sette settimane, da quando sono iniziati i primi lockdown, il totale degli americani senza lavoro ha raggiunto i 33,5 milioni. Ma sono cifre che rischiano di essere sottostimate, anche perché negli Stati più colpiti le amministrazioni locali che gestiscono le domande di indennità sono al collasso. Secondo alcune stime la disoccupazione reale potrebbe raggiungere il 25% della forza lavoro. È una situazione in evoluzione costante, visto che una parte degli Stati Uniti sono usciti dal lockdown e altri stanno per allentare le restrizioni. Tuttavia l’entità del danno sul mercato del lavoro ha già superato ampiamente la crisi del 20082009 ed equivale alla depressione che seguì il crack di Borsa del 1929. Negli anni 30 del secolo scorso, però, la crisi e i licenziamenti di massa si svilupparono gradualmente, mentre stavolta tutto è avvenuto in meno di due mesi. Tanto che le maximanovre di aiuti già varate – per un totale di 3500 miliardi di dollari – sono insufficienti e ne sta arrivando un’altra, ormai la quarta dall’inizio della pandemia. La composizione di questa ulteriore iniezione di spesa pubblica è oggetto di un braccio di ferro tra la Casa Bianca e il Senato da una parte, la Camera a maggioranza democratica dall’altra. I democratici vogliono più fondi per i food-stamp, i buoni pasto spendibili nei supermercati che sono uno degli strumenti più antichi e collaudati del Welfare americano. I repubblicani invece vogliono più aiuti alle imprese. La sinistra vuole che l’uscita dalla crisi sia affidata a politiche redistributive che diano potere d’acquisto ai meno abbienti. Per la destra il settore privato è l’unico che può risollevarsi rapidamente e riprendere a creare lavoro. Ci saranno compromessi perché il Congresso funziona solo se raggiunge intese bipartisan. Ma questa linea di frattura e il discrimine politico-ideologico sarà una costante fino all’elezione presidenziale. Altri scontri politici riguardano la distribuzione degli aiuti già erogati, su basi geografiche e aziendali. I prestiti alle imprese, che dovevano andare alle aziende di piccole dimensioni, sono spesso stati accaparrati da grandi società. Alcune, denunciate dai media, hanno accettato di restituirli. Resta il problema che l’accesso al credito è molto diseguale. La distribuzione geografica sembra aver destinato fondi in modo non proporzionale alla gravità della pandemia. Alcuni Stati del Sud e dell’Ovest, governati dai repubblicani e con tassi di contagio molto ridotti, sembrano aver ricevuto aiuti pubblici eccessivi rispetto alle loro necessità. Calano le importazioni della Cina dal resto del mondo: meno 14% ad aprile. Pessimo segnale per tutti. Ma a sorpresa aumenta l’export cinese. E questo è foriero di nuove tensioni con gli Stati Uniti. Trump annuncia che entro due settimane sarà in grado di dire se la Cina sta rispettando i suoi obblighi rispetto alla Fase 1 dell’accordo commerciale firmato a gennaio. La Cina, dice il presidente, sta acquistando molti prodotti agricoli americani,
Donald Trump visita una fabbrica di mascherine in Arizona. (AFP)
ma non è certo che sia il livello necessario a soddisfare gli accordi. Secondo la Casa Bianca la Cina si è impegnata a spendere in America 200 miliardi di dollari in 2 anni, 77 nel primo anno. Ma non c’è mai stata una conferma da Pechino su queste cifre.
Dall’inizio della pandemia gli Usa sono già alla quarta manovra, oggetto di un braccio di ferro politico Dicendo che il Coronavirus è la nuova Pearl Harbor, Trump ha maneggiato una metafora molto densa. Per almeno tre ragioni. Anzitutto, Pearl Harbor nella memoria storica degli americani è «l’Asia infida che ci attacca alle spalle». Nel dicembre 1941 fu il bombardamento del Giappone su una base militare e navale nelle Hawaii, senza dichiarazione di guerra preventiva. Oggi l’equivalente attacco non dichiarato sarebbe il Coronavirus di Wuhan, su cui la Cina nascose a lungo delle notizie che potevano prevenire il contagio in altri paesi. Un secondo significato di Pearl Harbor è l’inizio della grande guerra del Pacifico. Che per gli Stati Uniti fu a lungo più importante del fronte europeo contro la Germania nazista. Già allora per Franklin Roosevelt il Pacifico cominciò ad essere il nuovo centro del mondo, dove si giocava la sfida per la supremazia globale. Terza ragione per cui il paragone con Pearl Harbor è «denso»: allude al possibile inizio di una guerra vera, non più solo Guerra fredda, come scenario possibile. In una fase in cui nei mari d’Oriente si moltiplicano le tensioni tra la US Navy e la marina cinese, soprattutto in «zone grigie», frontiere marit-
time contestate, isole contese, dove Pechino vuole allargare la sua sovranità e la sua sfera militare a scapito di alleati dell’America come il Giappone e le Filippine. Tra le cause scatenanti di una crisi va aggiunta sempre Taiwan, isola «ribelle» che la Cina considera sua ma che gli Stati Uniti s’impegnano a difendere da un’invasione. È in atto un pressing diplomatico di Trump perché Taiwan partecipi a una conferenza dell’Organizzazione mondiale della sanità (WHO) a maggio. Poiché la conferenza è dedicata al Coronavirus, sembra logico che partecipi una nazione-modello che ha gestito la pandemia con risultati esemplari. Però per la Cina escludere Taiwan dalle organizzazioni internazionali è un principio inderogabile. Dai tempi del disgelo Nixon-Mao nel 1972, la diplomazia americana si è rassegnata a non urtare la suscettibilità di Pechino sul tabù di Taiwan. Trump ha deciso di urtarla. Per finire, entro due settimane la Casa Bianca vuole verificare che Xi Jinping rispetti la promessa di un consistente aumento di acquisti di derrate agricole americane. Fu su quella base che la guerra dei dazi conobbe un armistizio a gennaio. Quella tregua potrebbe avere i giorni contati. Per capire la tensione crescente fra Cina e Stati Uniti è utile sbirciare le indiscrezioni filtrate da Pechino, su un rapporto presentato a Xi Jinping e al gruppo dirigente dal ministero della Sicurezza nazionale. La sostanza è questa: il rapporto avverte che i sentimenti di ostilità verso la Cina nel resto del mondo sono ai massimi dal 1989, l’anno in cui la rivolta democratica di Piazza Tienanmen fu soffocata nel sangue dalla repressione militare. Il rapporto attribuisce quest’atmosfera anti-cinese o sinofobica agli Stati Uniti, e include negli scenari a cui prepararsi anche quello di un conflitto militare fra le due superpotenze. Gli autori
sono per lo più esperti del China Institute of Contemporary International Relations (CICIR), un think tank legato all’intelligence. Viene considerato un documento chiave per capire come Pechino percepisce la nuova guerra fredda. In un reportage in prima pagina sul «Wall Street Journal» c’è un dato emblematico: è sull’80% delle imprese tedesche rimaste aperte anche a marzo e aprile. È chiaro che la Germania ha potuto farlo perché ha contenuto l’epidemia. Con una popolazione superiore a quella di Regno Unito, Francia o Italia, la Germania ha avuto solo un quarto delle vittime dei maggiori partner europei. È altrettanto chiaro che chi ha saputo mantenere la propria economia in condizioni di attività quasi normali, è in condizioni di forza per ripartire. Riaprire prima degli altri dà un vantaggio competitivo: i tuoi prodotti sono disponibili, quelli della concorrenza no. E questo squilibrio nei rapporti di forza tra la Germania e il resto d’Europa viene accentuato dall’ulteriore sproporzione nelle manovre di spesa pubblica anti-recessione. La Germania può spendere di più e sta spendendo molto di più. La sentenza della sua Corte costituzionale che pone limiti all’azione della BCE aggiunge squilibrio allo squilibrio. Tant’è che la Commissione europea lancia l’allarme su «gravi distorsioni nel mercato unico», in conseguenza degli «andamenti divergenti sul piano economico finanziario e sociale che minacciano la stabilità dell’Unione». I forti usciranno sempre più forti, la distanza dai deboli si allunga. A questo rischia di contribuire però una proposta avanzata dalla stessa Commissione di Bruxelles, cioè di trasformare i prestiti pubblici alle aziende in difficoltà in partecipazioni azionarie. Questo è più facile nelle nazio-
ni dove il tessuto economico vede un forte peso delle aziende medio-grandi. Ma in Italia il tessuto più colpito è fatto di aziende familiari che non hanno neppure lo statuto di società per azioni e quindi un ingresso dello Stato (o di un fondo sovrano) nel loro capitale è impossibile. Il deficit pubblico americano – e la conseguente emissione di titoli – sta salendo a una velocità vertiginosa verso vette mai raggiunte nella storia. In sole cinque settimane il Congresso di Washington ha varato manovre di spesa per 3500 miliardi di dollari. In proporzione al Pil degli Stati Uniti questo volume di spesa fu messo in campo in cinque anni dopo la crisi del 2008. Da qui a settembre il Tesoro Usa emetterà titoli per 3700 miliardi di dollari spingendo il debito federale al 101% del Pil, il più alto dalla Seconda guerra mondiale. Già quest’anno il deficit/Pil salirà al 18%. Intanto la California è il primo degli Stati Usa a ottenere un prestito federale per pagare le indennità di disoccupazione. Dopo lo tsunami di spesa pubblica tornerà la stagflazione, come negli anni Settanta? È la previsione che formula Stephen Roach, docente a Yale ed ex presidente di Morgan Stanley Asia, in un’analisi sul «Financial Times». Stagnazione economica, alta disoccupazione, insieme con l’inflazione. Fu il mondo della mia adolescenza e dei miei vent’anni: i terribili anni Settanta. Roach pensa che l’inflazione, o addirittura l’iperinflazione, sarà l’inevitabile conseguenza dell’accumulazione di debiti. L’ultimo record nel debito pubblico americano si toccò a quota 106% del Pil alla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi l’America secondo Roach è avviata verso un debito/Pil del 120% entro un quinquennio. E un classico modo per uscirne è svalutarlo attraverso l’aumento dei prezzi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Politica e Economia Al centro, il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio. (Keystone)
Haftar, l’uomo forte non troppo forte Libia Il generale sembra oggi battuto
sia sul piano militare che politico Daniele Raineri
Piemonte – 3. parte Il governatore Alberto Cirio concentrato
su una ripartenza prudente. I contagi nella sanità e i morti nelle Rsa Alfio Caruso Passa e ripassa nei tg di parecchie reti il ragazzo in bici, che imboccando il viale dalle parti del Po lascia il manubrio, alza le braccia al cielo, lancia l’urlo «Libertà». Anche Torino e il Piemonte festeggiano da giorni la fine dell’isolamento, ma con il tremore quotidiano che dai numeri possa giungere l’obbligo di tornare a chiudere tutto. La regione è infatti salita al secondo posto fra quelle più esposte al virus e senza esser ancora riuscita a individuarne le cause. In Lombardia è avvenuta la mattanza delle case di riposo, del mancato allarme a Codogno e ad Alzano, della tardiva applicazione della zona rossa a Bergamo. Il Piemonte, invece, è precipitato in aprile con un aumento esponenziale dei morti quando in marzo stava in una fascia di mezzo, diciamo di misurato allarme con ricoveri negli ospedali e nei reparti di terapia intensiva abbastanza contenuti. Al massimo s’ironizzava sul suo presidente Alberto Cirio, unico fra i colleghi al vertice delle regioni ad aver contratto il virus. Cirio se l’è cavata in quattro settimane, ma 3500 suoi corregionali, no. Al solito sono mancati tamponi, mascherine, guanti, ma per lunghe settimane nessuno se n’è curato. Allorché è scattato l’allarme era troppo tardi, le strutture sanitarie hanno dovuto affrontare un’esposizione alla quale non erano preparate. Cirio ha avuto il buon gusto di non incolpare il predecessore, il democratico Chiamparino: ha soltanto invocato l’attenuante di essere in carica da soli sette mesi. Anche in Piemonte non ha funzionato la medicina sul territorio, la capacità d’intercettare i contagiati prima che invadessero gli ospedali. Ma le carenze sono state pure altrove. Tutte le email inviate alla Asl di Torino con la segnalazione dei casi sospetti di Coronavirus sono andate misteriosamente smarrite. Dentro le case di riposo il contagio ha dilagato. Nel caos molti hanno perso la testa: la dottoressa Renata Gili della guardia medica di Cuneo ha raccontato di esser risultata positiva al tampone, tuttavia costretta a lavorare a causa dell’emergenza totale. Avrà infettato i suoi pazienti? Una delle tante domande senza risposte. Lo stesso dicasi dei casi in provincia di Alessandria, la più colpita in percentuale. E per la neomamma di Dogliani tornata a casa guarita, un mese dopo aver dato alla luce la secondogenita, troppi hanno dovuto dire
addio alla vita lontani da ogni conforto, da ogni affetto. «Sto combattendo la più grande battaglia che il Piemonte si sia trovato ad affrontare dalla fine della Seconda guerra mondiale con l’esercito che ho ereditato», ha affermato Cirio guardato ora in maniera interrogativa dagli ex della Lega. Lui, infatti, è stato uno dei pochissimi ad aver fatto il cammino inverso: nel 2004 ha lasciato la creatura allora di Bossi per approdare in Forza Italia. Si disse che l’aveva cercato Berlusconi in persona, intrigato dal cammino del giovanissimo agricoltore laureato in legge, che nel 1995 aveva esordito raggranellando 100 misere preferenze alle elezioni comunali di Alba, la patria del tartufo. In seguito non ha sbagliato un colpo: dal seggio in Europa fino alla sfida per la presidenza dello scorso luglio contro un mostro sacro della Sinistra, Sergio Chiamparino, amato e stimato pure fuori dal proprio recinto. Per Cirio era stato un successo eclatante, ben oltre l’evidente disparità delle forze in campo: quasi il 50 per cento contro il 35, l’immediata telefonata di Chiamparino con l’augurio di fare meglio di quanto non avesse fatto lui. A sparigliare le carte ha provveduto la pandemia. Cirio è conscio di giocarsi la rielezione, pur essendo quasi all’inizio del mandato, e forse il futuro. La Lega non dimentica l’antico tradimento e si chiede per quale motivo abbia dovuto lasciare la presidenza a un partito che ha un quarto dei suoi voti. Gli avversari lo accusano di trascorrere troppo tempo su Facebook, di andare al traino della corrente senza curarsi di fortificare le difese in vista di una possibile ripresa del contagio. Lui ha risposto ricordando che viene da una terra, in cui la natura da secoli insegna agli uomini che bisogna saper aspettare. In realtà ha reso obbligatorie le mascherine per chi esce di casa e prolungato il periodo di serrande abbassate per negozi, chioschi, circoli. È stata così bruciata la rinascita del Valentino, il famoso parco torinese: per l’estate avevano programmato la riapertura di discoteche e cocktail bar in tandem con la riapertura dei locali negli storici Murazzi, la suggestione della movida lungo il Po. Tutto cancellato. Anzi, le previsioni della statistica danno i brividi con più morti della stessa Lombardia entro la fine di maggio. La regione ha destinato 800 milioni di Euro, la gran parte a fondo perduto, per la ripartenza economica. Tutta-
via la cura massima è nello stabilire le responsabilità dei decessi nelle case di riposo. Per allontanare da sé ogni sospetto Cirio ricorda l’ordinanza del 23 febbraio: chiusura di tutti gli accessi alle strutture assistenziali del Piemonte, sanificazione dei percorsi, precise regole comportamentali del personale sanitario. È bastato per il primo mese, non per il secondo, malgrado il sacrificio di medici e infermieri. Cirio insiste sulla precaria organizzazione dei medici di base. Ha istituito l’immancabile task force, guidata dall’ex ministro della Salute Fazio, per capire che cosa sia avvenuto e che cosa, soprattutto, bisognerà fare. Benché non lo dica, Cirio confida che l’accertamento delle responsabilità riguarderà medici e dirigenti nominati dalla precedente gestione. Per un domani, al quale non vuole rinunciare, il territorio si organizza come può. A Saluzzo nella casa di riposo Tapparelli hanno ricoperto il cancello d’ingresso con uno strato di plexiglas. Così gli anziani ospiti, anche quelli guariti, hanno potuto rivedere figli e nipoti, allungare una mano con l’illusione di poter toccare le loro. Dalla Regione era giunto il consiglio di non far entrare i visitatori sino a giugno, allora Cristina Bernardi, la coordinatrice dei servizi, ha studiato la fantasiosa soluzione. Il suo immediato successo ha spinto altre case di riposo ad adottarla. Il plexiglas viene sfruttato anche nell’antica basilica di Oropa a Biella. Serve a isolare le posizioni dei fedeli nei banchi, dove non si possono rispettare le distanze. A Casale Monferrato hanno predisposto ciotole con cibo nella speranza di attrarre nuovamente i due caprioli venuti a passeggiare in centro. Nel Parco Valgrande, dalle parti di Verbania, via libera alle escursioni, ma con l’obbligo di rientrare a casa la sera; proibito l’impiego della tenda, rifugi chiusi. Considerato il divieto di usare i bagni dei bivacchi, non restano che i cespugli. L’assessore regionale Matteo Marnati ha inviato una lettera alla presidente della Confederazione Elvetica, Simonetta Sommaruga, per chiedere la riapertura del valico minore Ponte Ribellasca/Camedo. La sua chiusura, dovuta al contenimento del virus, ha creato parecchi disagi ai transfrontalieri italiani, costretti a percorrere un tragitto più lungo di diversi chilometri per raggiungere il posto di lavoro. Nella speranza che domani sia davvero un altro giorno.
AFP
Ecco che cosa non ha funzionato
La sera del 27 aprile il generale libico Khalifa Haftar (foto) si è presentato in televisione per dichiarare che accetta il mandato del popolo, che gli chiede unanime di considerare nullo un vecchio accordo politico del 2015 e di dare tutto il potere al Comando Generale dell’Esercito nazionale. Sono necessarie tre precisazioni veloci. Non esiste alcun mandato unanime del popolo perché la Libia non soltanto è spaccata in due da una guerra civile ma ciascuno dei due fronti è a sua volta diviso in fazioni, brigate e partitini che si contendono anche villaggi insignificanti. Dire che c’è un mandato unanime dei libici è il solito vecchio trucco retorico: «Me lo chiede il popolo». Seconda precisazione: l’accordo politico del 2015 che ora Haftar considera nullo è quello mediato dalle Nazioni Unite e su di esso si reggeva qualsiasi possibilità di un negoziato di pace. Haftar in pratica ha detto che non si sente più vincolato a nessuna trattativa internazionale per risolvere la situazione in modo pacifico e vuole una guerra a oltranza. Terza precisazione, quasi superflua: quando il generale di Bengasi dice che il popolo vuole dare tutto il potere, anche quello civile, al Comando Generale dell’esercito vuol dire che se lo sta prendendo lui. Haftar ha in testa una giunta militare che governi la metà della Libia già sotto il suo controllo – quella a est, la Cirenaica – come se ci fosse di nuovo l’uomo forte Muammar Gheddafi in attesa di prendersi anche la metà ovest, la Tripolitania che include la capitale Tripoli. Ora, c’è un punto tecnico interessante nel discorso di Haftar in tv. Non era rivolto soltanto ai nemici – con voi non voglio trattare, voglio la guerra – e non era diretto soltanto alla comunità internazionale – non pensate che io mi senta più in obbligo di negoziare, non so se vi è chiaro ma prenderò tutta la Libia con la forza – ma era rivolto anche alle istituzioni civili della sua parte, quindi alla Camera dei rappresentanti di Tobruk. La Camera è un resto del processo politico del dopo-rivoluzione, quindi una rarità, e fu eletta nel 2014 con il voto di tutti i libici. Tutti si fa per dire perché l’affluenza alle urne fu molto scarsa, attorno al diciotto per cento, ma così vanno le cose. Il generale ora diffida la Camera dal diventare un ostacolo al suo progetto politicomilitare. In un altro paese sarebbe un golpe, in Libia invece è qualcosa di meno perché non c’è un centro chiaro del potere – si tratta più di una minaccia, di un nuvolone nero che ancora deve prendere consistenza e lo potrebbe fare ma potrebbe anche dissolversi. Del resto Haftar aveva già annunciato in televisione un golpe militare anche nel 2014,
che però non funzionò perché i libici semplicemente si comportarono come se nulla fosse successo. Da allora però è diventato molto più potente. Haftar forza la mano perché sente la sua importanza perdere quota. Da tredici mesi tenta di conquistare la capitale Tripoli con un’offensiva chiamata «Inondazione di dignità», che nei suoi piani avrebbe dovuto spazzare via i nemici e consegnargli la città in meno di due giorni. Invece è cominciata una guerra civile penosissima, le sue forze sono rimaste inchiodate nei sobborghi sud di Tripoli, per mesi hanno fatto un passo avanti e due indietro e hanno confermato il sospetto che il generale non sia così bravo come dice a vincere le guerre. Il problema di ogni uomo forte è che deve dimostrare sul campo di essere davvero forte. A nulla è valso l’aiuto dei suoi sponsor internazionali, che hanno violato in tutti i modi l’embargo delle Nazioni Unite che proibisce il trasferimento di materiale bellico in Libia. Gli Emirati arabi uniti, la Russia e l’Egitto hanno mandato un assortimento micidiale di armi, munizioni, droni, blindati, consiglieri militari, cecchini e specialisti vari per aprirgli la strada al potere, ma per ora non ha funzionato. Quando proprio è sembrato che il generale fosse sul punto di riuscire nell’impresa, è intervenuta la Turchia di Erdogan che con un paio di manovre militari sfacciate ha azzerato i suoi progressi. I turchi prima hanno rifornito di armi e mezzi gli assediati di Tripoli per metterli a pari livello con gli assedianti e poi hanno inviato dei droni militari. A parlarne sembra uno scenario da cattiva fantascienza, ma è quello che sta succedendo in Libia da mesi: a un’ora di volo dall’Europa, droni della Turchia e droni degli Emirati si incrociano nei cieli attorno a Tripoli per andare a caccia dei rispettivi nemici. Inquadrano i veicoli nel loro occhio elettronico, li fanno saltare in aria con un missile e poi passano al bersaglio dopo. E tutto questo senza che la comunità internazionale, ormai assuefatta allo sfacelo libico e distratta dalla pandemia, abbia da ridire nulla. I droni turchi per ora si sono dimostrati più efficienti, perché non soltanto hanno fatto sloggiare le truppe di Haftar da molte posizioni, ma le hanno anche costrette a chiudersi dentro Tarhouna, una città vicino Tripoli. Gli eventi hanno preso una piega poco gloriosa per il generale Haftar ed ecco il motivo del discorso in televisione, al quale ha fatto seguito una tregua unilaterale annunciata per tutto il mese sacro di Ramadan (che non si sarebbe sognato di concedere se si fosse trovato in un periodo vincente). A questo punto la decisione passa agli sponsor internazionali del generale. O lo lasciano e si trovano un altro interlocutore oppure raddoppiano gli sforzi per farlo vincere, ormai non ci sono più strade alternative. Gli Emirati potrebbero avere già scelto la seconda opzione perché in settimana sei aerei da combattimento Mirage 2000-9 sono apparsi sulle piste della base egiziana di Sidi Barrani, che serve da scalo logistico per le operazioni militari in Libia – è vicinissima al confine fra i due Paesi. Il portavoce di Haftar ha annunciato una nuova offensiva militare e ha citato gli ababil, gli uccelli che nel Corano difendono la Mecca lasciando cadere pietre sulle armate nemiche in avvicinamento. E questo fa pensare che la Libia sia alla vigilia di una escalation nella quale gli aerei prenderanno il posto dei droni, ci saranno ancora più danni e l’intervento straniero diverrà sempre più ovvio.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Politica e Economia
I consumi dopo la pandemia Commercio al dettaglio L a condizione eccezionale portata dal Covid-19 ci ha costretto a cambiare le nostre
esperienze quotidiane di consumo. Alcune torneranno come prima ed altre hanno aperto la porta a nuove e migliori possibilità di scelta
Mirko Nesurini Il Covid-19 ci lascia ancora in una situazione in continua evoluzione, in cui è difficile fare previsioni. Niente ci vieta di provare a disegnare alcuni scenari futuri. Il mercato è ora in una fase di timida ripartenza in tutto il mondo. Le attività produttive ed economiche si stanno rimettendo gradualmente in moto lasciandosi alle spalle la parte più intensa della crisi. Ma come sarà questa ripresa? Molto dipenderà dai consumi, un terreno che il Covid-19 continua a marcare, influenzando a fasi alterne i nostri comportamenti quotidiani. Appare sicuro che si tornerà a consumare. Ma come? Per descrivere il ritorno al consumo di massa, aggressivo nei modi e affamato nel bisogno di appagamento, in Cina è stata coniata l’espressione revenge spending. Definisce una dinamica compulsiva da parte del pubblico, simile a quella già registrata durante la cosiddetta Golden Week dell’ottobre 2003, la prima occasione festiva dopo la crisi Sars. È una dinamica che ricorda il «rimbalzo del gatto morto», un effetto ben conosciuto dagli operatori di borsa: durante un movimento discendente si registra un significativo aumento del prezzo, e il prezzo, però, non prosegue il suo rimbalzo verso l’alto ma riprende ben presto la sua discesa. Per un breve periodo, quindi, si può attendere un aumento della domanda che superi i parametri considerati normali prima della crisi, perché si ricomincia a fare acquisti e a «premiare» se stessi nel periodo successivo all’isolamento, poi si tornerà negli standard. Ma come potranno essere questi standard? Molto dipenderà dalle caratteristiche e modalità di acquisto che abbiamo sperimentato in queste settimane difficili. E da quali di queste si affermeranno come nuove abitudini durature. La prima è l’accumulo. Nelle ultime settimane abbiamo tutti fatto scorte così incredibili di prodotti alimentari a lunga conservazione, di prodotti per la cura della persona e dalla casa, tanto che la domanda di queste categorie, dopo l’esaurimento delle scorte, probabilmente scenderà per tornare ai livelli pre-crisi. È anche probabile che, tra tutte le categorie accumulate, l’esperienza Covid-19 conservi l’esigenza di acquisto dei prodotti come le ma-
scherine, i guanti e i detergenti; e ci lasci anche la propensione verso gli acquisti multipack… per non rimanere mai più senza carta igienica. Qualcosa resterà a lungo, mentre l’acquisto per reazione, che poi si ridurrà, potrà interessare probabilmente i beni ed i servizi trascurati durante la quarantena, come beni di lusso e l’abbigliamento, che vedranno appunto un rimbalzo di vendita rispetto alla tendenza di stagione. C’è poi una parte dei nostri acquisti rivolta alle spese superflue, che di solito si affronta in due modi: qualcuno se le può permettere sempre, altri risparmiano e le pianificano per il tempo dei saldi, facendo comunque buoni affari. E se il Covid-19 ha inibito entrambi, provati dalla perdita di guadagni, serviranno nuovi modi creativi per proporre loro valore, sia in stagione che fuori. È indubbio che siamo di fronte a un momento di discontinuità che avrà ripercussioni sull’economia, sulle abitudini di consumo e sul paniere della spesa. Gli esperimenti di acquisto di queste settimane sono tanti, ed è naturale che le imprese cercheranno di favorirli, trovando precise strategie per incontrare le nuove esigenze diffuse. Per molte imprese non basterà una lunga apnea sperando che tutto passi presto. Molte società dovranno probabilmente cambiare modello di business o perlomeno dovranno ripensarlo. Alcune tendenze chiare sono già in atto. Per cominciare, in occasione della riapertura dei punti vendita, i commercianti dovranno avere una strategia promozionale da offrire al mercato. Per molti, esporre in vetrina un bel «Fuori tutto» pensando ai magazzini pieni della stagione compromessa potrebbe apparire la via più facile. Invece no, è la via per farsi ancora più male. Quei commercianti che si faranno prendere dal panico offrendo sconti significativi bruceranno lo stock e comunque perderanno una valanga di denaro. Le imprese più avvedute, quindi, favoriranno i clienti in termini di sconto, ma senza esagerare. Poi ci si può attendere una tendenza all’acquisto «geografico»: un po’ per amor di patria e un po’ perché ci sarà una forma di involontario protezionismo, avanzerà questo pensiero: «sono svizzero, compro prodotti svizzeri in Svizzera». Ed è giusto che, dentro questa tendenza, anche in un’ottica di
Può darsi che in futuro ci resti la propensione per gli acquisti multipack... (Keystone)
solidarietà collettiva, le aziende sensibilizzino i clienti comunicando la loro volontà di proteggere la loro filiera produttiva. I consumatori sono diventati maggiormente consapevoli, disposti ad informarsi per capire cosa si compra e perché. È un passo importante, che porta a scegliere i produttori più che i prodotti, conoscendo il valore di quello che si fa. Per questo è probabile che vengano premiati i private label delle insegne distributive che si approvvigionano a chilometro zero, e che danno una mano ai produttori locali. Potrebbe essere il risveglio di un nazionalismo sano. Questa crescente consapevolezza nelle scelte, accompagnata dalla diminuzione della spesa generale nella fase del rilancio economico, può favorire una comunicazione che investe sempre più nel brand e meno sul prodotto. Infatti, una delle evoluzioni già consolidate in questo campo è il puntare proprio sull’insieme di valori che caratterizzano un marchio, anziché spingere sui prodotti. E la sicurezza, molto concretamente, è uno di questi. Infatti, il lungo periodo di epidemia e di astinenza forzata dagli acquisti, oltre al suo effetto sulla domanda, ha influenzato l’atteggiamento dei consumatori nei confronti della sicurezza dei prodotti, dell’ambiente e di stili di vita sani. Si tratta di una inclinazione già in crescita prima dell’epidemia, ma ora un numero crescente di consumatori
si aspetta garanzie di sicurezza sui prodotti anche dopo la crisi, con un occhio particolare a quelli Made in China, non sempre eccellenti da questo punto di vista, e con un’impronta ambientale molto elevata, non fosse altro per l’energia necessaria al loro trasporto nel mondo. Questo sarà in linea con la richiesta altrettanto crescente di prodotti rispettosi dell’ambiente e la maggiore attenzione alla salute e all’esercizio fisico, accompagnata da un’alimentazione sana e stagionale. Proprio sulla stagionalità dei consumi, arrivano nuovi spunti dalla moda. La tendenza è infatti di rallentare, e l’invito è di Giorgio Armani, che afferma «questa crisi è una meravigliosa opportunità per rallentare e riallineare tutto; per disegnare un orizzonte più vero». Così l’obiettivo è puntare sulle collezioni di stagione, tenere le collezioni in negozio più a lungo e rallentare quei ritmi forsennati che il sistema della moda ha avuto in questi anni, evitando invece gli sprechi e creando capi duraturi. È infatti probabile che la crisi dei grandi magazzini e delle grandi superfici commerciali non food diventerà più profonda, ancora più minacciata dalla vendita online. Proprio il ricorso all’e-commerce è il fenomeno più esplosivo di questi giorni in cui la spesa fisica è complicata da code, attese, distanze, norme igieniche restrittive e controlli sanitari. L’«economia senza contatto» del Co-
vid-19 potrebbe quindi rivelarsi una svolta decisiva per consolidare proprio questo fenomeno, che era già prima molto significativo e ben visibile, ed ora vive un’accelerazione incredibile nelle abitudini di acquisto. L’e-Commerce si inserisce perfettamente in un quel concetto di «fine della distanza», tornato d’attualità in modo forzato, che era in voga a metà degli anni 90, secondo cui il commercio, il lavoro e le relazioni umane basate sul web avrebbero reso possibile comunicare e lavorare riducendo drasticamente il valore della fisicità e la necessità della prossimità. La distanza obbligata ha evidenziato l’importanza dei canali digitali, facendoli diventare un’urgenza nella relazione tra azienda e consumatore, e quindi una priorità su cui le imprese dovranno investire, per soddisfarne una richiesta sempre maggiore. Per tutte queste evoluzioni particolari, c’è un prezioso tratto comune, che può consolidare il rapporto anche emotivo tra chi consuma e chi produce e distribuisce. Come nelle relazioni umane, anche in quelle commerciali la condivisione di un momento difficile può creare una fiducia indissolubile. Consegne a casa, aperture prolungate, vicinanza in un momento difficile possono diventare un punto di contatto importante, che rafforza la fedeltà futura. Covid-19, per molti anni verrà vissuto come «un pezzo di strada che abbiamo fatto insieme». Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Politica e Economia
Piccole e medie imprese: le più minacciate dalla crisi epidemica Covid-19 L’aiuto della Confederazione si giustifica anche perché la lunga fase di chiusura potrebbe causare
un aumento della povertà. Lo dice uno studio diretto dal professor Rafael Lalive di Losanna Ignazio Bonoli L’intervento del Consiglio federale, per parare il colpo provocato dalla pandemia del Coronavirus, è stato accolto favorevolmente da una buona parte delle circa 600’000 piccole e medie aziende in Svizzera. La crisi ha infatti avuto l’effetto immediato, con la chiusura, di provocare grossi problemi di liquidità, da risolvere con il preciso scopo di salvare strutture e personale, per essere pronti al momento della ripresa. Ovviamente il prolungarsi del «lockdown» ha accentuato questi problemi e suscitato in parecchi imprenditori il timore che il nuovo debito (anche se a condizioni di favore) avrebbe pesato sui bilanci aziendali, in un futuro che appare ancora incerto. Il successo dell’azione di governo dimostra che c’è un reale problema di salute finanziaria di molte PMI, ma ha anche sollevato il problema della scarsa conoscenza di questa situazione e quindi anche della previsione di quanti fallimenti si sarebbero potuti registrare nel settore. Per ovviare a questa lacuna, il professor Rafael Lalive, dell’Università di Losanna, con il sostegno del KOF del Politecnico di Zurigo, ha eseguito un’indagine a campione su circa mille imprese del settore, con lo scopo di farsi un’idea sulla loro situazione finanziaria. Una prima constatazione evidenziata dallo studio indica che il 30% di queste PMI in Svizzera gode di una liquidità di meno di 50’000 franchi, per cui, già dopo pochi giorni di chiusura molte di esse stavano lottando per la sopravvivenza. Le perdite del solo mese di aprile superano già la metà del capitale disponibile. Per le aziende con un capitale superiore ai 50’000 franchi la situazione è meno grave. Le perdite di cifra d’affari superiori alla metà del capitale sono annunciate dal 10% circa delle imprese. In queste situazioni il problema dei costi fissi, che non si possono ridurre, è cruciale. Lo studio conferma anche le sensibili differenze da settore a settore. Una situazione molto tesa è verificabile presso i parrucchieri, i terapisti e an-
Bar e ristoranti sono le piccole e medie imprese che più di altre rischiano di dover chiudere. (Keystone)
che i ristoranti. In questi settori oltre la metà degli operatori dicono di poter resistere al massimo a un mese di chiusura e solo un quarto delle aziende dice di poter resistere al massimo tre mesi. In campo turistico si constata una solidità maggiore. La metà degli albergatori, probabilmente perché abituati ad aperture stagionali, dice di poter resistere anche più di sei mesi. La situazione ha indotto il Consiglio federale ad allentare più presto le misure di contenimento. Per i ristoranti, infatti, ben il 68% teme per la propria esistenza. Timori che sono condivisi anche in parecchi rami del commercio e della cultura, oltre a quelli citati. E proprio in questo campo delle piccole e medie aziende, l’essere costretto a non fare niente ha anche un impatto psicologico importante. I responsabili hanno tempi di lavoro spesso di più di 50 ore settimanali e investono i loro risparmi nell’azienda. Molti rinunciano anche a una cassa
pensione o a risparmi per la vecchiaia. Ma anche l’aiuto della Confederazione è molto contenuto. Il dirigente di una società propria può contare su 3320 franchi mensili a forfait, mentre l’imprenditore singolo riceve 2000 franchi mensili in media, secondo la Cassa di compensazione. In molti casi si tratta di una goccia nel mare delle necessità finanziarie. Eppure – secondo lo studio citato – l’intervento è stato bene accolto da oltre la metà dei beneficiari, ma per parecchie aziende, soprattutto in Ticino (10%) e in Romandia (11%), sarebbe nettamente insufficiente, o poco sufficiente rispettivamente per il 32% in Ticino e il 23% in Romandia. Un’ulteriore conferma dei danni maggiori della crisi nella Svizzera latina. D’altro canto si può però constatare che molte piccole aziende hanno reagito di propria iniziativa, sviluppando nuove idee o incrementando la digitalizzazione. Resta aperta la questione su come
reagiranno i consumi dopo la riapertura. Molti temono che i clienti saranno molto più prudenti a causa di eventuali contagi. Lo temono soprattutto coloro che non possono lavorare rispettando la distanza fisica (per es. coiffeur, fisioterapisti, ma anche bar e ristoranti). Normalmente lo Stato non dovrebbe intervenire in questi casi, ma la crisi è tale da mettere in pericolo l’intera sostanza imprenditoriale di un settore economico importante. Non solo, ma vista la situazione degli interessati, c’è anche un rischio di impoverimento. Altri studi hanno constatato che nel mese di marzo il 40% delle domande di assistenza proviene da imprenditori indipendenti. Finora queste domande erano opera soltanto del 4% degli indipendenti, che solitamente sono restii nel rivolgersi agli enti assistenziali. La prova del fuoco del settore la vivremo dopo 35'000 la riapertura delle attività. Una nuova 34'000 indagine – annunciata per l’estate – ci
dirà se si otterranno i risultati sperati e quindi anche se l’aiuto statale sarà stato opportuno e giustificato.
Quota aziende a rischio chiusura Ristoranti e bar 68% Alberghi e turismo 50% Coiffeur e cosmetica 50% Negozi non food 49% Arte e cultura 46% Salute 36% Negozi food e chioschi 36% Formazione 34% Edilizia 34% Avvocati e fiduciari 28% Ramo IT 25% Agricoltura 12% Fonte: Uni Losanna, KOF
33'000
Perché le banche centrali puntano sull’oro 32'000 31'000 30'000
La consulenza della Banca Migros
29'000
Christoph Sax
Scorte d’oro delle banche centrali in tonnellate 35'000
3'000
34'000
2'500
33'000
2'000
32'000
1'500
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1'000
30'000
500
29'000
0
Mondo
e yen. L’aumento del prezzo dell’oro ri3'000 flette il deprezzamento di queste valute non 2'500 garantite in seguito alla politica monetaria estremamente espansiva. 2'000 A ciò si è aggiunto un costante calo della1'500 remunerazione dei titoli di Stato in queste valute, anche se il debito 1'000
Russia
Cina
pubblico continua ad aumentare. L’oro non frutta interessi, ma in compenso non può essere moltiplicato a piacere. L’oro fisico non presenta neppure un rischio debitore. Esso gode pertanto di un bonus di fiducia millenario. Le crisi finanziarie possono comportare una
Svizzera
India
Turchia
Fonte: World Gold Council
Christoph Sax è capo economista della Banca Migros
Negli ultimi anni molte banche centrali hanno aumentato le loro giacenze auree. Ogni anno, dal 2010, le banche centrali sono diventate acquirenti nette sul mercato dell’oro. Hanno acquistato molto più oro di quanto ne abbiano venduto. Soprattutto nei mercati emergenti, la domanda di oro da parte delle banche centrali è aumentata notevolmente dopo la crisi finanziaria ed economica del 2008/2009. Dietro il nuovo interesse delle banche centrali per l’oro si celano, tra l’altro, considerazioni di carattere geopolitico: i principali mercati emergenti si stanno sforzando per uscire dal dominio del dollaro che funge da valuta mondiale e ridurre la loro dipendenza dagli Stati Uniti. Un altro motivo fondamentale della crescente domanda di oro è probabilmente il fatto che le banche centrali di Stati Uniti, Giappone e zona euro non hanno mai abbandonato del tutto la modalità di crisi dal 2008/2009, con inevitabili conseguenze per le tradizionali valute di riserva dollaro, euro
Mondo
forte riduzione del valore delle riserve in valuta estera, sia sulle valute stesse che sugli investimenti finanziari in queste valute (obbligazioni, azioni). D’altra parte, l’oro conferisce al bilancio di una banca centrale una certa protezione contro le crisi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Home-office, vantaggi e limiti La necessità di ridurre i contatti, imposta dalla pandemia del coronavirus, ha rilanciato il lavoro a domicilio, oggi ribattezzato, come è giusto che sia in un’economia oramai terziarizzata, «home-office». Si tratta della possibilità di svolgere al proprio domicilio le mansioni di lavoro per eseguire le quali, di solito, ci si deve recare in ufficio, nel negozio, o in fabbrica. Ora c’è già chi afferma che la pandemia ha fatto scoprire una forma nuova di lavoro e prevede che l’home-office sia destinato a diventare il posto di lavoro del futuro. Andiamoci piano! Intanto osserviamo che il lavoro a domicilio esisteva già prima che la rivoluzione industriale facesse apparire la fabbrica come nuova possibilità di concentrare in un solo luogo la produzione. In secondo luogo aggiungiamo che il fenomeno dell’industrializzazione non fece mai scomparire il lavoro a domicilio anche se ne ridusse di molto la sua
importanza. Per fare un solo esempio: all’uscita dal secondo conflitto mondiale erano ancora diverse centinaia le pantalonaie in Ticino che lavoravano a domicilio per aziende della Svizzera tedesca. Era questa una possibilità per molte donne delle nostre valli, celibi o sposate, di ottenere una modesta remunerazione senza dover spostarsi giornalmente, o addirittura emigrare, verso i centri di attività del piano. Il lavoro a domicilio diventò poi «homeoffice» negli anni Novanta dello scorso secolo, grazie ai progressi dell’informatica. Con l’arrivo sul mercato dei PC – i cosiddetti «personal computer» – e con l’introduzione dell’internet, esistevano ora tutte le premesse per poter svolgere molte attività di lavoro a casa. Negli anni Novanta questa nuova possibilità venne considerata come l’uovo di Colombo per risolvere i problemi di circolazione dei grandi agglomerati ur-
bani, diminuendo sia i costi creati dalle code, sia quelli dovuti alle immissioni del traffico pendolare. Dai numerosi studi di quel periodo risulta che se è vero che l’attività home-office presenta molti vantaggi, a livello della comunità, non sempre riesce a sostituire, in modo efficace, il lavoro svolto in ufficio, in negozio o in fabbrica. Di conseguenza il lavoro nell’home-office non soltanto non può essere esteso a tutte le categorie di lavoratori, ma, di più, non può applicarsi a tutte le attività che un lavoratore deve svolgere. In generale si può affermare che lavorare a domicilio è tanto più facile quanto minori sono i contatti personali, necessari per svolgere la propria attività. Vi sono però intere categorie di lavoratori – si pensi a quelli della sanità, ai lavoratori del settore dei trasporti, ma anche a funzionari, avvocati e rappresentanti – per i quali il contatto
con il cliente è indispensabile e che non possono quindi trincerarsi dietro i muri di casa. Gli autori degli studi sul lavoro a domicilio, versione digitale, concludevano affermando che, nella maggioranza dei casi, non sarebbe stato possibile sostituire il lavoro in ufficio, in negozio o in fabbrica, interamente con il lavoro a domicilio. La soluzione da cercare per i lavoratori, le loro aziende e la comunità sarebbe stata quella di trovare il miscuglio ideale tra attività da condurre sul posto di lavoro tradizionale e attività che potevano essere svolte a domicilio, in modo da ridurre gli spostamenti pendolari dei lavoratori, garantendo però il necessario numero di contatti personali, non solo con i clienti, ma anche con i colleghi di lavoro. Con il coronavirus l’home-office sembra essere entrato in una nuova fase di sviluppo. In primo luogo per l’importante quota di lavoratori che,
durante il periodo di isolamento, ha effettivamente cominciato a lavorare a casa. In secondo luogo per l’apparire di nuove difficoltà a svolgere la propria attività di lavoro a casa quando in casa ci sono bambini. In effetti questo aspetto, vale a dire quello della divisione tra le necessità dell’attività lavorativa, i compiti casalinghi e quelli educativi non era stato finora esaminato negli studi sul lavoro a domicilio. Nelle inchieste e nelle analisi, che cominciano ora ad apparire, riguardanti il lavoro a casa nel periodo della pandemia, sembra invece che la presenza dei bambini costituisca l’ostacolo maggiore allo svolgimento regolare dell’attività di lavoro in casa. A lamentarsi sono soprattutto le donne che, tra l’altro temono, se lo home office dovesse continuare, di restare per sempre confinate in casa, anche quando il pericolo di contagio sarà terminato.
è cambiato è che oggi li vediamo tutti meglio, e non ne subiamo il fascino. Preferiamo seguire media autorevoli, virologi esperti, statistici precisi, leader di buon senso: la propaganda e la paura creata a tavolino sono scomparse in quest’epoca di pandemia. Persino i social media così restii a mettere mano alle informazioni, nascosti a lungo dietro le Ads targetizzate di cui non si può avere traccia, ora cacciano fuori leader come il presidente brasiliano Bolsonaro: non c’è spazio per le fake news né per le interpretazioni fantasiose o complottiste, ci vogliono fatti, numeri, competenza. E poi c’è la voglia di normalità, proprio ora che nessuno può ridarcela indietro. Al momento gli autocrati – con tutte le loro sfumature – potrebbero passarsela meglio, insomma. Non che stiano con le mani in mano, anzi, ma i limiti di un potere senza contrappesi si vedono a occhio nudo. Basti pensare a Donald Trump, un paradosso vivente, il presidente che guida la più grande democrazia del mondo con metodi autocratici improvvisati: l’assenza di
preparazione, la campagna elettorale permanente, il disinfettante iniettato per guarire dal Covid. L’impreparazione viene registrata anche nella popolarità di Trump, e non era mai accaduto in modo tanto chiaro: questo non significa che Trump sarà cacciato dalla Casa Bianca alle elezioni di novembre, chissà come arriveremo tutti a quel momento, ma l’assenza di competenza nel suo entourage è per la prima volta lampante e pericoloso – per non parlare del fatto che ancora questa settimana il presidente americano è andato in visita a una fabbrica di mascherine senza indossarne una. Se così non fosse, non si spiegherebbe la popolarità inaspettata di personaggi come il virologo in chief Anthony Fauci (foto), costretto a smentire ogni giorno il suo presidente. Se così non fosse, non si spiegherebbe l’effetto distorto che fanno le proteste anti lockdown che si moltiplicano negli Stati Uniti, con tutte quelle armi e nemmeno una mascherina. La faccia triste dell’America: eccola. Ma domani? Domani gli effetti economici diventeranno più concreti di
adesso, l’impoverimento sarà palpabile, e il risentimento pure. È a quel punto che le ideologie populiste troveranno nuovo carburante: nel discontento, come è sempre stato. La Federal Reserve di New York ha pubblicato un report sugli effetti della influenza spagnola negli anni 1918-1920 sulla Germania in cui mostra una correlazione con l’ascesa del nazismo. Non si vuole fare un parallelismo con gli effetti del Coronavirus, ma il messaggio è chiaro: il risentimento porta a confidare di più nei movimenti estremisti. Sono passati cent’anni da allora e se non abbiamo gli anticorpi al virus attuale di certo li abbiamo formati nei confronti del totalitarismo, ma la vittoria del buon senso oggi potrebbe essere temporanea. È per questo che la fase 2 è ben più delicata dei lockdown, non tanto per questa smaniosa ricerca di normalità che ci caratterizza tutti, quanto perché il test di fiducia oggi diventa più complesso, e necessario. E non potremo dire come abbiamo fatto, a volte con leggerezza, con il Coronavirus, che non potevamo essere pronti.
d’ingresso del verme nell’organismo umano e i rimedi terapeutici. La risposta giunse da alcuni luminari della parassitologia italiana, con alla testa il professor Edoardo Perroncito, docente all’università di Torino. Circa il primo punto, era stato possibile appurare che il contagio avveniva attraverso l’epidermide degli arti immersi nell’acqua fangosa del tunnel: il verme era in grado di sfruttare ogni piccola lesione, ogni ragade, ogni screpolatura della cute per raggiungere l’intestino e qui riprodursi velocemente. Sul lato della cura, la soluzione fu individuata nel trattamento a base di estratto di felce maschio somministrato in forti dosi. Questa ampia mobilitazione di studiosi di elmintologia (la branca che si occupa dei parassiti) permise di risolvere entro pochi anni un’anemia che, se non contrastata, avrebbe decimato un’intera generazione di minatori impegnati nei trafori alpini.
Il focolaio del Gottardo fece scuola: la ricostruzione del ciclo vitale del verme consentì di mettere a punto un efficace dispositivo di cura e profilassi, tant’è che lo stesso Perroncito poté affermare nel 1910 che la questione poteva dirsi risolta. La vicenda dell’anemia – che il dottor Raffaele Peduzzi ha ripercorso accuratamente in numerosi saggi – conserva dunque una sua esemplarità per come si è svolta e per come è stata affrontata dalla scienza medica del tempo: prima lo stupore, il senso di impotenza e le diagnosi errate; poi la scoperta del patogeno, il dibattito tra specialisti, l’approntamento della terapia. Da quell’iter scientifico conclusosi felicemente derivarono protocolli preventivi fondamentali per le successive grandi opere del genio civile (Sempione-Lötschberg). Un percorso che val la pena di ricordare, anche se molto probabilmente questa volta il cammino sarà più tortuoso e sfiancante.
Affari Esteri di Paola Peduzzi Populismo senza benzina Recessione, disoccupazione, impoverimento, solitudine. Gli effetti della pandemia stanno creando una catastrofe globale, e l’unica cosa su cui possiamo contare oggi è: trovarsi pronti. I mesi di lockdown sono stati paradossalmente i più semplici: molti sostengono – a partire da un lungo e articolato dossier dell’«Economist» – che sono stati in realtà un gran regalo per i regimi autoritari. Approfittando della distrazione
collettiva, molti leader illiberali hanno introdotto leggi d’emergenza oscurantiste, o hanno mentito sui dati del contagio, o hanno semplicemente fatto finta di niente, è un’influenza stagionale, state tranquilli. Gli effetti di queste prese di potere saranno a lungo andare più pesanti, però oggi si può dire che se è vero che Vladimir Putin ha rivisto al ribasso i numeri del contagio, se è vero che la Cina ci ha fatto perdere tempo preziosissimo non dando contezza della gravità del virus, se è vero che il Brasile sta creando una bomba pandemica deliberatamente, è anche vero che i trucchi si vedono, li vedono tutti, non solo chi fa inchieste giornalistiche. In Europa i partiti nazionalisti che pure in un mondo tutto chiuso dovrebbero prosperare faticano a trovare una loro posizione: prima erano contro i lockdown, poi a favore, poi ora dicono che si va lenti nella riapertura, o troppo veloci. Opposizione giusto per farla, senza fornire alternative: il cosiddetto popolo non ci casca più. I regimi fanno i regimi, insomma, i sovranisti fanno i sovranisti, ma quel che
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti I minatori e il parassita dai denti aguzzi Lo sconquasso provocato dal coronavirus ha riportato al centro della scena il rapporto tra la politica, la medicina, gli esperti e, più in generale, il ruolo della scienza nella nostra società. Una concezione di solito fondata sulla fiducia, ma anche venata di dubbi e pregiudizi, perfino di superstizioni, com’è accaduto intorno alla questione delle vaccinazioni («movimento novax»). Questa volta, forse in modo più nitido che in precedenti occasioni, ci si è resi conto che la medicina non è una scienza esatta e onnisciente; anzi, si è scoperto che anche del settore di cui si occupa, la salute umana, esistono terre incognite ancora da esplorare, in grado di riservare sorprese amare, com’è appunto l’universo virale. Parecchio stupore ha destato nell’opinione pubblica il disaccordo regnante tra gli stessi specialisti, virologi in lite tra loro sull’effettiva gravità del fenomeno e sulle misure per combatterlo. Un disorientamento comprensibile.
Ma proprio qui risiede la forza della scienza, nella capacità di riconoscere gli errori, di farne tesoro e di procedere oltre. Di questa faticosa indagine, tra tentativi e ripensamenti, successi parziali e fallimenti, la storia della scienza abbonda di esempi. Uno di questi, e non di secondaria importanza, ebbe come teatro anche le nostre contrade, in particolare il massiccio del San Gottardo durante la costruzione della galleria ferroviaria, aperta al traffico nel 1882. Era successo che due anni prima l’inaugurazione s’era propagata negli addetti allo scavo una strana malattia, definita come «anemia dei minatori». Gli effetti sull’organismo erano visibili e tangibili (pallore, aspetto cadaverico, debolezza cronica), ma l’eziologia rimaneva oscura. I medici condotti propendevano per l’ipotesi dell’intossicazione, derivata dalle precarie condizioni di lavoro e dai fumi sprigionati dalle perforatrici
all’avanzamento. No, non era questa la causa, come dimostrarono anatomisti italiani dopo aver sezionato i corpi di alcuni lavoratori rientrati al loro domicilio in Piemonte. Il morbo dato per indecifrabile altro non era che l’anchilostoma («Ancylostoma duodenale»), un parassita vermiforme d’origine tropicale e particolarmente attivo in ambienti umidi come le paludi, le miniere e le risaie. Le autopsie sui deceduti avevano portato alla luce copiose colonie di questi vermi annidati nel duodeno. All’esame microscopico il parassita si presentava sotto forma di un «filamento» (nematode) dotato di una bocca a ventosa dalla quale spuntavano denti aguzzi piegati ad uncino: un dispositivo che gli permetteva di aggrapparsi alla mucosa intestinale per succhiare il sangue di cui era ghiotto. Di qui l’anemia, che col tempo avrebbe portato il portatore alla morte. Rimanevano da chiarire il canale
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Cultura e Spettacoli Chi è il re del blues? Nic Niedermann ci racconta la sua esaltante esperienza a Memphis con Justina Lee Brown pagina 36
Un piano contro Hitler Lo studente di teologia svizzero Maurice Bavaud pagò con la vita i propri reiterati tentativi di uccidere il Führer
pagina 37
Dimchev, sfuggente genio Eccellente performer, ma anche grande provocatore: un ritratto della star queer Ivo Dimchev
In un mondo distopico Molti i premi alla scrittrice Sibylle Berg per il suo romanzo distopico GRM Brainfuck pagina 39
pagina 38
Giorgio Vasari, cantore delle arti Trattati Pittore, scultore, storico, vissuto
dal 1511 al 1574, ci ha lasciato un importante patrimonio artistico e critico
Gianluigi Bellei Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574) svolge l’apprendistato nella sua città natale con il pittore francese Guglielmo de Marcillat. Arriva a Firenze nel 1524 e prende contatto con le novità di Michelangelo e Andrea del Sarto. Segue un breve periodo romano e nel 1532 diventa pittore di corte di Alessandro de’ Medici. Tra il 1537 al 1550 viaggia a Camaldoli, Bologna, Venezia, Napoli, Roma. Mentre dipinge porta a termine la prima edizione delle Vite nel 1550. Nel 1555 è impiegato nell’ammodernamento di Palazzo Vecchio a Firenze. Ridisegna gli ambienti interni detenendo il monopolio dei lavori che esibiscono le glorie della famiglia Medici secondo le istruzioni di Cosimo I. Splendida la Sala degli Elementi (1555-1562), recentemente restaurata, dedicata alle divinità legate appunto all’aria, all’acqua, alla terra e al fuoco. Le decorazioni sono piene di rimandi allegorici e se lo stesso Vasari non avesse scritto i Ragionamenti nei quali descrive i suoi lavori – un finto dialogo fra l’autore e Francesco de’ Medici, primogenito di Cosimo I – non saremmo stati in grado di decifrarli. La sala viene realizzata in collaborazione con Cristoforo Gherardi che affresca le pareti, Marco da Faenza a cui spetta lo zoccolo della sala, mentre Vasari realizza i dipinti a olio del soffitto. Decora il Salone dei Cinquecento che all’inizio avrebbe dovuto celebrare le glorie della città e le vittorie contro Siena e Pisa ma che alla fine diventa un’esaltazione di Cosimo I raffigurato nel tondo centrale del soffitto. Cosimo
viene incoronato da un’allegoria della città di Firenze e circondato dagli stemmi delle Arti, simbolo di «un passato su cui il Duca fonda il prestigio del proprio governo». Alle pareti le battaglie vinte dallo stesso Cosimo I dipinte con toni smorzati per non mettere in ombra la figura di Cosimo. Naturalmente l’artista si avvale di una nutrita équipe di collaboratori che lavora per lui; da Giovanni Battista Naldini a Jacopo Zucchi fino a Giovanni Stradano. Due anni di lavoro fra il 1563 e il 1565 per i dipinti del soffitto, mentre gli affreschi alle pareti iniziano nel 1566 e terminano nel 1571. Nel frattempo pubblica nel 1568 la seconda edizione aggiornata e accresciuta delle Vite. Oramai sessantenne Vasari si accinge a decorare lo Studiolo di Francesco I con la consulenza dell’amico Vincenzo Borghini. Qui tra armadietti misteriosi con materiali alchemici, porte segrete, dispositivi mnemotecnici ed episodi mitologici si sviluppa un complicato programma iconografico e simbolico che vede come collaboratori del Vasari una trentina di artisti fra i quali Giovanni Stradano, Sebastiano Marsili, Girolamo Macchietti, Battista Cardini, Maso di San Friano, Santi di Tito, Jacopo Zucchi e Mirabello Cavatori. Particolare il dipinto Gli alchimisti nel quale Francesco è ritratto seduto mentre mescola un liquido in una padella sul fuoco. Michelangelo, suo amico e al quale Vasari realizza la monumentale tomba in Santa Croce a Firenze, sostiene che eccelle soprattutto come architetto e per questo ricordiamo il suo Palazzo con la chiesa di Santo Stefano a Pisa.
Giorgio Vasari, Autoritratto (1566-68). (Keystone)
Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari sono probabilmente la fonte maggiormente citata negli studi che riguardano l’arte antica. Ancor oggi dopo che l’esplorazione degli archivi ha mostrato alcune inesattezze ed errori in cui era incorso. Per un approccio si può fare riferimento all’edizione Torrentiniana del 1550 a cura di Luciano Bellosi e Aldo Rossi stampata nei Millenni di Einaudi e alla Giuntina del 1568 a cura di Paola Della Pergola, Luigi Grassi e Giovanni Previtali dell’Istituto grafico de Agostini. Ma l’edizione più importante è quella storico-critica a cura di Rosanna Bettarini con il commento secolare di Paola Barocchi che mette a confronto le due redazioni delle Vite. Stampata in duemila esemplari in piombo da Giovanni Mardersteig
della Stamperia Valdonega di Verona. Undici tomi in ottavo grande; il primo datato 1964 e l’ultimo 1987. La prima edizione, quella Torrentiania del 1550, secondo alcuni critici è probabilmente la migliore e anche la più succinta. Vasari racconta la vita di alcuni artisti in ordine cronologico. La struttura del testo segue uno schema preciso. Una introduzione, l’infanzia, la giovinezza e infine la descrizione e la valutazione delle opere. Il libro è diviso in tre età, seguendo un preciso schema evolutivo dell’arte. Si parte con la Prima età con Cimabue che nasce nel 1240 e termina con Lorenzo di Bicci. I maestri del Quattrocento sono inseriti nella Seconda età e infine Leonardo da Vinci apre la Terza età: quella «che noi vogliamo chiamare moderna», scrive. Questa termina trionfalmente con il sommo Michelangelo. Nell’edizione
Giuntina del 1568 Vasari aggiunge trenta biografie rivedute e ampliate e termina con la vita dello stesso Vasari. Lo scopo delle Vite lo specifica lo stesso Vasari nella dedica a Cosimo I: salvare alla memoria umana «le vite, i lavori, le maniere e le condizioni di tutti quelli che, essendo le arti già spente, l’hanno primariamente risuscitate, dipoi di tempo in tempo accresciute». Ma non solo. All’inizio delle Vite fa «una introduzzione a quelle tre arti, nelle quali valsero coloro di che io debba scrivere»: architettura, scultura, pittura. Nel volume Giorgio Vasari, storico e critico di Mario Pozzi ed Enrico Mattioda si afferma che la sua «era una cultura che – come quella del primo Cinquecento – mirava non a definire il bello in sé ma a ricercarlo, già realizzato, in opere perfette».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Cultura e Spettacoli
Il blues è una ricerca costante Intervista Un incontro con Nic Niedermann, bluesman svizzero reduce con il suo gruppo
dall’International Blues Challenge di Memphis
Esiste una generazione di musicisti svizzeri che si dedica al blues con grande impegno e capacità. Dopo aver intervistato Philipp Fankhauser, («Azione 51» del 2019) è ora la volta di Nic Niedermann, chitarrista di Baden che è reduce da un’esperienza entusiasmante. Qualche settimana fa ha infatti rappresentato la Svizzera all’International Blues Challenge di Memphis. Attivo sulle scene nazionali da decenni, Niedermann è un musicista eclettico che, insieme alla cantante nigeriana Justina Lee Brown, sta sperimentando un’evoluzione delle forme di blues. La prima domanda, Nic, è quasi obbligatoria: come sta trascorrendo questo periodo, cosa sta facendo?
Passo questi giorni così particolari rilasciando molte interviste e dando concerti in streaming. Ho molto tempo per studiare musica o per comporre nuovi pezzi. Mi manca un po’ la motivazione, però, perché non so quando potrò farmi ascoltare ancora e soprattutto con quel che faccio non guadagno nulla. Dopo un grande lavoro di preparazione dobbiamo invece incassare quasi giornalmente annullamenti di concerti, ad esempio per il Bellinzona Blues Festival e il Vallemaggia Magic Blues. Questo certo non tira su di morale.
Dopo aver avuto un’esperienza musicale di vari anni con Tonic Strings, un duo di chitarre acustiche, ha intrapreso un percorso musicale nel mondo del blues. Chi sono gli artisti che preferisce in questo genere musicale e cos’è per lei il blues?
Credo di essere un tipico chitarrista svizzero, influenzato in gioventù dagli assoli dei virtuosi degli anni 70 e 80. Noi svizzeri non possiamo dire di possedere delle nostre radici culturali in questo contesto. Io ascoltavo e suonavo tutto quello che mi pareva bello, appassionante. Il rock di Jimi Hendrix, di Santana, dei Deep Purple e studiavo le loro radici nel blues e nella musica latina. Mi sono sempre piaciuti comunque anche il flamenco e il Gipsy Jazz, e anche il repertorio
classico per chitarra jazz. Ho suonato tutti questi stili in vari gruppi. È stata un’esperienza che mi ha dato delle idee ed è anche un buon modo per sopravvivere come musicista professionista in Svizzera.
Negli ultimi anni ha iniziato una collaborazione molto stretta con la cantante nigeriana Justina Lee Brown. Come è cambiato il suo stile al contatto diretto con un’artista che porta le proprie radici africane nella musica?
Justina Lee Brown è una cantante dalla bravura di livello mondiale. A me e alla band ha dato la grande possibilità di esibirci sui palcoscenici più importanti. Ho scritto e prodotto con lei le nuove canzoni. Non volevamo seguire nessuno stile particolare, ma volevamo fare una musica onesta, diretta e soprattutto piena di emozione. In questo modo abbiamo potuto contare sulle sue radici blues di origine africana. Lei è reduce da un’esperienza molto importante con il suo gruppo e con Justina: avendo vinto lo scorso anno il Blues Contest 2019 svizzero, siete stati invitati a Memphis per partecipare al Blues Challenge 2020. Ma il blues è veramente una lingua internazionale? In altre parole: può un europeo suonarlo con il giusto sentimento e la giusta ispirazione?
Il blues, e tutta la musica in fondo, non ha un colore della pelle. Appartiene a tutti e a nessuno. Chiunque sia in grado di sentire la profonda sincerità e immediatezza del blues fa parte di questa lingua universale. È stata una vera sfida entrare con la nostra musica nella patria del blues. Anche perché noi non suoniamo il blues tradizionale, quello in 12 battute. In quel contesto ci sono molti puristi che non accettano le nuove interpretazioni. E questo ha suscitato anche grandi discussioni. La nostra musica, con inflessioni ed elementi africani, è ancora blues? In ogni caso abbiamo avuto sempre un pubblico entusiasta e grandi complimenti dai cultori più quotati. Ci hanno fatto molte interviste e hanno addirittura girato un film su di noi. Nel blues ci sono molti
Nic Niedermann (il secondo da destra) e la sua band, con Justina Lee Brown, al loro arrivo a Memphis. (zenzfotografie)
tradizionalisti, ma io preferisco seguire la mia strada.
Come avete vissuto il confronto con altri gruppi che venivano da tutto il mondo?
L’intestazione del festival, International Blues Challenge, non corrisponde per nulla all’idea comunitaria che caratterizza il blues. Non abbiamo mai suonato «contro» un altro gruppo, anzi, al contrario, gli scambi con gli altri musicisti sono stati eccezionali.
E alla fine siete riusciti a entrare in semifinale: viene da chiedersi come possono i giurati di una simile competizione «misurare» il potenziale di una band.
Guarda, posso dirti che siamo arrivati solo in semifinale perché si è messo di traverso un giurato del campo più tradizionalista: solo questo, a dispetto dell’entusiasmo del pubblico, ci ha impedito di entrare nella finale. Guardiamo al futuro; siete sempre
convinti di continuare la vostra esperienza nel mondo del blues, o avete voglia di scoprire ancora nuova musica?
A conti fatti, il tour a Memphis e New Orleans è stato per noi una bellissima conferma del fatto che come band svizzera possiamo riscuotere un successo internazionale. La musica, da parte sua, continuerà a evolvere. La tradizione non deve chiudere la strada all’innovazione e alla scoperta. /AZ
Sapere inventare il bello Pubblicazioni In un libro i saggi, i diari e le interviste al compositore tedesco Hans Werner Henze
Giovanni Gavazzeni In Nessun tempo. Hans Werner Henze. Diari, saggi e interviste (LIM, pp. 295, € 30) è un libro che trasmette l’energia vivificante di un compositore «che ha fatto con le sue “Opere e i suoi Giorni” la propria parte di uomo civile contro le violenze e i soprusi dell’uomo sull’uomo», come scrive Franco Serpa nella luminosa Prefazione al volume. La raccolta, curata da Riccardo Panfili e Clemens Wolken, offre rare analisi musicali (la Nona di Beethoven), vivide pagine diaristiche e risposte «rapide, schiette, intelligenti» a intervistatori. Parole che tracciano il percorso solitario del giovane Henze nella musica del secondo dopoguerra: una strada dove «le vecchie forme lottano per riacquistare un significato, anche lì dove le sonorità della nuova musica non le fanno quasi più emergere (…) un mondo dove alzano la voce e vogliono diventare visibili Mercurio e Giove, Virgilio, fauni, Arlecchini, tritoni, Leonce, Amleto e Gloucester». Ideali visibili a distanza, «ostacolati dall’immensa oscurità di quest’epoca:
Hans Werner Henze (1926-2012) visse anche in Italia. (Keystone)
unica follia per la quale valga la pena vivere». Perché l’arte di Henze trae origine dalla ferita di essere nato nella provincia tedesca nazificata, sapendo cosa il suo popolo subiva e perpetra-
va. «Quando ero soldato i più anziani di servizio mi dissero di quei campi, di quanti russi, ebrei, omosessuali venivano uccisi… così… per il semplice fatto di essere russi, ebrei, omosessuali (dove lo avrebbe voluto mandare il pa-
dre quando sospettava “potessi essere omosessuale”). Tutta la mia vita del dopoguerra è stata segnata da queste esperienze di violenza. Ebbene, la musica è stata la mia forma di evasione». L’atmosfera chiusa della Germania di Adeunauer, la rimozione strisciante della colpa, spinsero il compositore tedesco a migrare nell’Italia neorealista, prima a Ischia, la greca Pythaecusa, poi a Napoli e Roma, approdando infine ad un’erma lepraia sui colli laziali nei pressi di Marino. Là, fra la gioia di vivere dei discendenti dei romani e dei greci, imparato «a conoscere l’italiano, una lingua solenne e oscura, provando ad ascoltare con orecchie napoletane», si definì anche il suo atteggiamento verso la musica: «oscillante tra pezzi cantabili e contrappuntistici: temperare la natura nordico-polifonica con l’arioso del Sud potrebbe essere interpretato come un’indecisione, ma anche come un mezzo artistico per evidenziare elementi quasi teatrali: la tensione e la dissoluzione, la severità e la leggerezza, la luminosità e l’oscurità. Tutto tende verso il teatro e da lì torna indietro». Scomunicato per la sua indipen-
denza dai colleghi-pontefici della Nuova Musica, quando l’arte diventò «ricerca di potere, di influenze, di rapporti, di conformismo politico e morale», Henze continuò ad ammirare la forza teatrale di Verdi, lo Stravinskij neoclassico e Alban Berg, a rileggere il suo Vangelo: Le Nozze di Figaro (fin da bambino l’ascolto alla radio di Mozart «era una promessa d’amore che mi era caduta dal cielo»), a scrivere musica «impura» (come la poesia per Neruda), «“macchiata” di debolezze, svantaggi, imperfezioni». Soprattutto a scrivere magnifiche opere di teatro in musica che hanno corso e corrono il mondo (Boulevard Solitude, König Hirsch, Die Bassariden, fino alla miracolosa estate di San Martino con le ultime Upupa, Phaedra, Gogo no Eiko, Gisela), insieme a collaboratori e poeti come W.H. Auden & C. Kallman, Ingeborg Bachmann, H.M. Enzenberger, Y. Mishima, artisti che «mi hanno concesso uno sguardo nel loro mondo ideale e hanno arricchito il mio pensiero», perché «inventare qualcosa che non c’è già stato», è «inventare il Bello».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 11 maggio 2020 • N. 20
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Cultura e Spettacoli
Bavaud, in difesa della libertà sottotono
Curiosità e rottura, l’eredità del critico Germano Celant
fa, lo svizzero Maurice Bavaud trovava la morte dopo aver tentato di assassinare Hitler
In memoriam F ondatore dell’Arte Povera,
Personaggi Oltre la neutralità, per il bene comune: quasi ottant’anni
Benedicta Froelich Dopo anni di relativo silenzio, negli ultimi tempi diversi libri, spettacoli e film di alto profilo si sono infine soffermati sulle tragiche vicende dei molti coraggiosi che, nel periodo a cavallo tra il 1932 e il 1944, attentarono alla vita di Adolf Hitler allo scopo di salvare il mondo da quella che avevano intuito essere una catastrofe di proporzioni disastrose. Eppure, quasi il dramma che attendeva l’umanità fosse destinato a compiersi fino in fondo, ognuno di questi innumerevoli attentati fallì per un soffio; e colui che era ormai l’uomo più odiato del pianeta finì per attraversare l’intera guerra perlopiù illeso, mentre chiunque avesse osato mettersi sulla sua strada veniva invariabilmente scoperto e massacrato.
Le gesta dell’oppositore del regime hitleriano furono riconosciute come eroiche solamente nel 2008 E potrebbe forse apparire singolare che, tra i tanti a tentare di eliminare alla radice la minaccia hitleriana, l’unico straniero della lista (eccettuando il generale polacco Karaszewicz-Tokarzewski) sia stato proprio un cittadino svizzero, appartenente quindi a una nazione neutrale, tra le poche a poter sperare di sfuggire alla follia nazista. Soprattutto, ciò che distingue Maurice Bavaud dagli altri attentatori (in tutto oltre una trentina) è la sua totale estraneità al mondo militare o a qualsiasi movimento o partito politico. Bavaud era infatti nientemeno che uno studente di teologia, il che, data la natura del suo gesto, potrebbe suonare come un controsenso; in realtà, il suo identikit psicologico appare ben più complesso – e, sebbene a tutt’oggi poco esplorato – rivela come egli avesse fortemente subìto il fascino oratorio di un nostalgico dell’ex Impero Russo quale il compagno di studi Marcel Gerbohay, con il quale fondò la società segreta anti-comunista Compagnie du Mystère. In realtà, una delle poche «incursioni» a noi concesse nella mente di Bavaud viene dall’ultima lettera da lui scritta ai genitori, la notte prima dell’esecuzione: «è un momento terribile, e sarebbe insopportabile senza la speranza in un Dio che ricompensi i buoni e punisca i malvagi (…). Chiedo perdono a coloro che hanno qualcosa da rimproverarmi; nel corso della mia breve vita, il mio cuore non ha mai provato reale odio». Tuttavia queste parole, per quanto intrise del profondo spirito cristiano che da sempre animava Maurice, non bastano a spiegare il grande mistero della sua anima: perché nulla, nella scarna biografia del giovane teologo, avrebbe mai lasciato presagire un gesto tanto drastico. Nato a Neuchâtel nel 1916, Bavaud si era infatti sempre distinto per un carattere piuttosto solitario e sognatore; eppure, d’un tratto, nell’ottobre 1938, lasciò il suo seminario bretone per recarsi dapprima a Baden-Baden e Basilea (luogo in cui avrebbe acquistato una piccola pistola semiautomatica), e poi, dopo una perlustrazione del ritiro privato di Hitler a Berchtesgaden, fino a Monaco, dove
si sarebbe fatto passare per un giornalista inviato ad assistere all’annuale parata per l’anniversario del colpo di stato hitleriano del ’23. Ed è a questo punto che diviene evidente la fermezza di Bavaud – la sua insistenza a sfidare il destino e persistere nella decisione presa: tra la folla assembrata lungo la strada durante la parata, Maurice non riuscì infatti ad avvicinarsi a sufficienza a Hitler da potergli sparare a bruciapelo (la sua pistola non era adatta a tiri da distanza). Un uomo meno persuaso dell’importanza della propria missione avrebbe forse rinunciato a un piano tanto azzardato; ma Bavaud, spinto da una sorta di «sacro fuoco», cambiò invece tattica e, falsificata una lettera di raccomandazione per un incontro personale con il Führer, salì sull’ennesimo treno, deciso a seguire gli spostamenti di Hitler – solo per rincorrerlo inutilmente per giorni prima che, una volta finiti i soldi e costretto a viaggiare senza biglietto, venisse scoperto da un capotreno sospettoso. Arrestato dalla Gestapo, Maurice venne interrogato sotto tortura: e alla domanda per quale motivo intendesse assassinare il Führer, dichiarò di considerare Hitler una minaccia non solo per l’intera umanità e le dottrine cristiana e cattolica, ma anche per la fondamentale indipendenza dello Stato svizzero – quasi in risposta al polverone che il suo caso avrebbe presto sollevato in patria. Di fatto, l’epilogo inevitabilmente tragico della vicenda costituisce a tutt’oggi un capitolo alquanto controverso, a causa di quello che viene percepito come il palpabile imbarazzo della nazione svizzera – la quale, sia
prima che durante la guerra, si trovava certo in una posizione difficile: Stato di dimensioni ridotte, collocato nel centro d’Europa e direttamente confinante con la Germania, era fin troppo esposta ad attacchi che avrebbero potuto minarne la fragile neutralità. Così, il gesto di Bavaud venne condannato dall’ambasciatore svizzero a Berlino Hans Frölicher, e la Confederazione finì per abbandonare lo studente al proprio destino, addirittura rifiutando uno scambio di prigioneri proposto dal Reich. Il 14 maggio 1941, all’alba, Maurice venne infine ghigliottinato nella prigione di Plötzensee: aveva 25 anni. Oggi, dell’atto disperato – eppure, al contempo, lucidissimo – del giovane teologo rimane un ricordo per molti versi «scomodo», almeno in terra elvetica; e chissà se lo stesso Bavaud avrebbe mai immaginato, a distanza di ottant’anni, di divenire una sorta di folk hero, ufficialmente riabilitato dal Consiglio federale soltanto nel 2008, grazie anche ai continui sforzi del padre Alfred e, in seguito, del fratello Adrien. Tuttavia, laddove molti ferventi oppositori del regime hitleriano sono stati, negli ultimi decenni, esaltati nella memoria storica collettiva, lo schivo studente svizzero è a lungo rimasto pressoché dimenticato – forse per via dell’apparente mancanza di «epicità» del suo tentativo solitario, compiuto quasi sottotono, senza alzare la voce; secondo uno stile che, in fondo, si confaceva al proprio ruolo di sincero idealista – così come il suo silenzioso congedo, solo e ignorato dai più, in quella lontana alba di tanti anni fa.
Lo svizzero Maurice Bavaud fu giustiziato a Berlino nel 1941. (Keystone)
è stato tra i protagonisti della cultura italiana e internazionale Alessia Brughera Si è spento lo scorso 29 aprile, all’età di ottant’anni, Germano Celant, voce stimatissima della critica d’arte internazionale. Dopo aver manifestato i primi sintomi del Coronavirus di ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, dove si era recato all’inizio di marzo per partecipare all’Armory Show di New York, da alcune settimane era ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di Milano. Nato a Genova nel 1940, Celant è stato una figura centrale nella costruzione del pensiero artistico contemporaneo. Storico, critico, teorico dell’arte nonché curatore di mostre memorabili, fino a poco prima che l’Italia e il mondo intero venissero sottoposti all’isolamento ha portato avanti alacremente il proprio lavoro. A Milano, nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, ancora nei primi giorni di febbraio si poteva visitare la retrospettiva dedicata a Emilio Vedova, da lui curata e allestita con quella scrupolosità e quel piglio innovativo che da sempre hanno contraddistinto il suo operato. Il MART di Rovereto, poi, nello stesso periodo ospitava la grande antologica dello scultore americano Richard Artschwager, un progetto che Celant aveva firmato in collaborazione con il Guggenheim di Bilbao. Grazie alla sua vocazione cosmopolita, uno dei più grandi meriti di Celant è stato far conoscere al mondo l’arte italiana. Il suo nome rimane infatti indissolubilmente legato a una delle più note correnti artistiche italiche dal secondo dopoguerra, quel movimento nato alla fine degli anni Sessanta sotto il nome di Arte Povera che lui ha fondato raccogliendo attorno a sé maestri quali Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Pino Pascali e Luciano Fabro, tutt’oggi tra i personaggi più conosciuti e apprezzati del panorama artistico internazionale. In un’acuta visione d’insieme Celant è riuscito a cogliere le affinità tra questi artisti esponendone dapprima le opere nella mostra alla Galleria La Bertesca di Genova, nel 1967, per poi definire i principi guida del gruppo nel celebre scritto Conceptual Art, Arte Povera, Land Art, del 1970. Sebbene unanimemente riconosciuto come il padre dei poveristi, ha però sempre rifiutato in maniera decisa questo epiteto: «Non ho inventato niente» diceva, «Arte Povera è un’espressione così ampia da non significare nulla». Percorrendo la direzione opposta a ciò che in quegli anni la società dei consumi imponeva, Celant ha dato vita a un filone di ricerca basato sulla riappropriazione del legame tra uomo e natura, lontano, almeno all’inizio, dalla mercificazione dell’arte e dalle regole imposte da aspettative codificate. «Là un’arte complessa, qui un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, col presente, con la concezione antropologica, con l’uomo “reale”, la speranza, diventata sicurezza, di gettare alle ortiche ogni discorso visualmente unico e coerente (la coerenza è un dogma che bisogna infrangere!), l’univocità appartiene all’individuo e non alla sua immagine e ai suoi prodotti» scriveva in Appunti per una guerriglia, testo fondamentale stilato nel 1967. L’estrema curiosità intellettuale e la capacità di guardare lontano hanno portato Celant a operare nell’arte in
Germano Celant in occasione dell’allestimento di The Floating Piers di Christo. (Keystone)
maniera multiforme, sorretto sempre da una lucida e puntuale visione critica. A caratterizzare il suo lavoro, sia negli scritti sia nelle esposizioni, è stato soprattutto l’approccio storico, laddove lo studio del contesto sociale ed economico risulta fondamentale per legittimare l’opera d’arte, svelarne il significato e connetterla alla sua genesi. Celant è stato autore di più di cinquanta pubblicazioni, tra cataloghi, saggi teorici e approfondimenti su singoli artisti. Numerosi anche gli incarichi che gli sono stati affidati nella sua lunga attività, a partire da quello di senior curator dell’arte del XX secolo al Guggenheim Museum di New York, grazie al quale ha creato un ponte tra arte italiana e cultura americana. Nel 1996 ha diretto la prima Biennale di Firenze Arte e Moda e l’anno seguente la 47esima edizione della Biennale di Venezia. Dal 1995 al 2014 è stato Direttore artistico di Fondazione Prada, di cui nel 2015 ha assunto il ruolo di Soprintendente artistico e scientifico. Lunga è la lista delle mostre da lui ideate. Da quelle degli anni Ottanta, allestite in prestigiosi musei quali il Centre Pompidou di Parigi, la Royal Academy of Arts di Londra e Palazzo Grassi a Venezia, alla storica esposizione The Italian Metamorphosis 19431968 tenutasi al Guggenheim di New York nel 1994. Da citare, poi, l’ambizioso evento che nel 2013 Celant ha organizzato a Ca’ Corner della Regina, sul Canal Grande, una sorta di remake dell’iconica rassegna When Attitudes Become Form che lo storico dell’arte svizzero Harald Szeemann aveva curato alla fine degli anni Sessanta a Berna. Uno degli ultimi progetti seguiti da Celant è stata l’importante retrospettiva del 2019 dedicata a Jannis Kounellis nella sede veneziana di Fondazione Prada, una mostra omaggio a un grande maestro che rivela il profondo rispetto del critico genovese per gli artisti e per il loro lavoro. Artisti per i quali, spesso, egli non è stato solo interprete teorico ma amico fidato e insostituibile compagno di avventura. In questo tempo in cui tutti noi ci sentiamo privati della nostra libertà e tanti interrogativi affollano la nostra mente, le parole di uno spirito disinvolto che sapeva arrivare al punto di rottura per ricordare che ogni cosa è transitoria ci appaiono più che mai significative: «Il contemporaneo è una presenza sfuggente in via di estinzione. Le sue manifestazioni si svolgono sotto ai nostri occhi senza che lo sguardo riesca a controllarle e a definirle. È un’energia a perdere, senza limiti: tutto è identicamente contemporaneo, ma la definizione lo smarrisce, ne attua la perdita».
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Cultura e Spettacoli
Dimchev, camaleontico e irriverente Personaggi Ivo Dimchev, dal teatro sperimentale a X Factor
Muriel Del Don L’ultima volta che Ivo Dimchev si è esibito in Svizzera, al festival Antigel di Ginevra (nella sua «nuova» veste di cantautore), è stato un meraviglioso delirio. Il pubblico rideva, si commuoveva, gridava il suo nome su scena come durante un concerto rock, ma senza quella dose massiccia di testosterone che guasta troppo spesso la festa. Perché diciamolo sin dall’inizio, Ivo Dimchev è un personaggio che con le frontiere e le categorizzazioni ci ha sempre allegramente giocato, abbattendole per creare quel qualcosa di unico che lo rende «al di là dei generi». Uomo, donna, animale, vegetale o androide dai mille volti, il suo corpo incarna tutte queste realtà restituendone un’essenza ibrida, misteriosa e incredibilmente attraente. Insomma, le sue esibizioni non lasciano certo indifferenti e ci rimangono attaccate addosso ben al di là delle mura rassicuranti dei teatri. La sua ultima tournée fatta di concerti dal vivo durante i quali incarna personaggi sempre diversi grazie a parrucche multicolore dal taglio rigorosamente a «tazzina», tatuaggi sibillini e giacche vintage, è stata un successo di critica e pubblico. Non lasciamoci fuorviare però, la carriera del nostro multisfaccettato artista bulgaro non è certo cominciata nel mainstream, anzi. Per gli «insider» e per chi lo segue ormai da anni (ben prima che le sue canzoni lo rendessero «famoso»), Ivo Dimchev incarna la quintessenza dell’artista contemporaneo impegnato
e radicale. Coreografo, artista visivo, militante per i diritti della comunità LGBTIQ+, nonché cantautore nato a Sofia ma emigrato ad Amsterdam per studiare coreografia alla DAS Arts Academy, Ivo Dimchev sembra un essere in costante mutazione. Mutazione geografica: da Amsterdam si è spostato a Bruxelles, capitale europea delle arti della scena dove è stato per quattro anni artista in residenza al prestigioso e avanguardistico Kaaitheater nonché iniziatore, tra le mura del suo atelier Volksroom, di sorprendenti serate dedicate a giovani artisti internazionali, per poi lasciarsi andare a nuove avventure nella sua città natale, Sofia, dove ha aperto uno spazio dedicato all’arte contemporanea e alla musica, finendo poi a Londra, sua (effimera) città d’adozione. Ma anche e soprattutto contaminazione di generi (artistici e identitari): il suo lavoro radicale comprende performance dove il corpo diventa strumento rivoluzionario che trasmette messaggi militanti (imperdibile il solo show Lili Handel nel quale incarna un artista al crepuscolo della sua carriera, vestito da drag con un tanga di perle e tacchi neri) e altre in cui l’ironia e l’autoderisione, soprattutto in legame con il mondo dell’arte, sembrano prendere il sopravvento (emblematici P project e Fest). Il climax di questo suo navigare tra i generi artistici, dall’underground alla cultura pop è stato raggiunto nel 2018 con la partecipazione a X Factor UK. Le sue performance, spesso parassitate da inaspettati momenti di canto, sono sempre state caratterizzate dalla
Dimchev nella sua performance di Kill. (YouTube)
sua voce inconfondibile, ma nessuno si sarebbe aspettato di vederlo calcare il palcoscenico di una trasmissione che con il maistream ci va a nozze. Eppure Ivo ha accettato la sfida (seppur alle sue condizioni), fregandosene dell’inevitabile giudizio dell’élite culturale che di certi spettacoli farebbe volentieri a meno. Come affermato dal coreografo stesso, passare dal mondo delle arti della scena, nel quale si è sempre sentito a suo agio, a un altro a lui completamente estraneo non è stato facile. Ma è proprio questa pericolosità che l’ha sedotto! Come conciliare due mondi in apparenza agli antipodi? Ivo Dimchev ha vissuto l’avventura come un esperimento, un modo per testare la potenza
delle sue canzoni al di fuori dei teatri e delle convenzioni performative. Il successo è stato inaspettato e il pubblico, in un primo momento destabilizzato dalla sua presenza scenica imponente e queer, ha ceduto alle sue bizzarre canzoni d’amore tra melodie pop e sperimentazione. Il risultato sono due album pubblicati nel 2017: Songs From My Show-Live e SCULPTURES. Un repentino e inaspettato salto nel vuoto che si addice alla perfezione a un artista che non ha mai smesso di abbattere le barriere e le convenzioni imponendosi in quanto artista camaleontico che della radicalità e del rapporto fusionale con il pubblico ha fatto il suo credo. Che si tratti di concerti intimisti
dominati dalla sua toccante voce cristallina che canta canzoni in apparenza innocue (basta ascoltare con un po’ di attenzione i testi per rendersi conto del contrario) o di performance estreme dove il suo corpo è messo alla prova come nel caso di Avoiding deLIFEath o Facebook Theatre, Ivo Dimchev rimane fedele a sé stesso. Poco importa il genere di pubblico: intellettuali al limite dell’hipster o frequentatori occasionali dei teatri, quello che conta è la sincerità disarmante con la quale il nostro menestrello bulgaro interagisce con ognuno di loro. Forse la performance più rappresentativa di questa tendenza a considerare l’arte come forza liberatoria e catartica da condividere con il pubblico è I Cure. Con questo suo lavoro Dimchev, sorta di guru queer, si prefigge l’arduo compito di risolvere i problemi fisici e psicologici di quanti hanno deciso di partecipare al suo rituale. Ogni spettatore riceve una I-Cure card che gli serve da strumento di interazione «esoterica» con il performer stesso. Dimchev: vestito da drag, occupato con canti e danze, allusioni sessuali, spiritualità e sciamanismo pop si rivolge al pubblico in uno spettacolo terapeutico che trasforma la comicità in catarsi. Mr. Dimchev è riuscito a fare della scena un mondo parallelo dove tutto è possibile, dove dare libero sfogo a quello che Paul B. Preciado chiama «l’animalismo», sorta di sistema rituale totale che non sottostà a nessuna gerarchia o sovranità ma che, al contrario, produce la propria coscienza collettiva. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Nell’era delle nuove crudeltà
Notizie dal pianeta Marsalis
ha vinto tre prestigiosi premi letterari
Jazz Due iniziative
Pubblicazioni Grazie al romanzo distopico GRM. Brainfuck, Sibylle Berg
musicali eccellenti, targate New Orleans
Natascha Fioretti Se in tempi di pandemia vi siete convinti della necessità di ripensare il vostro stile di vita e le vostre priorità, non perdetevi il capolavoro distopico GRM. Brainfuck (2019, Kiepenheuer & Witsch) valso a Sibylle Berg tre premi importanti: il Bertolt-Brecht-Preis 2020, lo Schweizer Buchpreis 2019 e il Grand Prix Literatur ricevuto proprio poche settimane fa. Riguardo al primo, nel motivare la scelta, la giuria ha colto in pieno le peculiarità della cifra stilistica della scrittrice weimariana cresciuta nella ex DDR e da anni di casa a Zurigo: «Sibylle Berg è una virtuosa della freddezza e della chiarezza letteraria, una maestra dello sguardo sobrio e dell’analisi disillusa». Il suo cinismo e la sua violenza lessicale ricca di anglismi (Fucking Rochdale) e intercalari (dito per dire idem), la sua scrittura asciutta che va sempre dritta al punto, l’anonima schedatura dei personaggi, non lasciano scampo: come in una serie TV di Netflix (e penso in particolare a Person of Interest), un frame via l’altro, il destino di quattro bambini della periferia inglese di Rochdale ci colpisce con la forza di un treno in corsa. Attraverso le storie di Don, Peter, Hannah e Karen, Sibylle Berg ci dice come sarà il nostro prossimo futuro e, vi assicuro, non è divertente né rassicurante. Non per nulla il settimanale tedesco «Die Zeit» ha scritto che «il libro è dinamite». Non tanto per gli scenari tecnologici che prospetta ma per il decadimento e l’impoverimento umano che racconta, frutto di un profondo scollamento tra mondo reale e mondo digitale. In un’Inghilterra post Brexit e neo liberale, l’autrice ci narra di un tempo in cui alla crudeltà umana si aggiunge quella virtuale, in cui la nostalgia per la conoscenza si è trasformata in rabbia per ciò che non si conosce, le teorie del complotto si diffondono a macchia d’olio mentre diviene naturale diffidare dello Stato, della stampa, dei libri, dei vaccini, degli scienziati e delle donne. Un tempo in cui uno Stato sfacciatamente classista riduce le prestazioni sociali al minimo e aumenta il divario sociale e in cui il disprezzo dei capitalisti per i poveri è manifesto e legittimato. Aumentano i senzatetto, i disoccupati, gli invalidi, i malati, i deboli
L’autrice germanicosvizzera in occasione dello Schweizer Buchpreis, novembre 2019. (Keystone)
che devono destreggiarsi tra scartoffie burocratiche inverosimili per ottenere un importo minimo e mantenere una dignitosa parvenza. Scompaiono le professioni, crescono la disoccupazione e lo scontento. Cambia la topografia delle città senza uffici postali e senza cinema. In questo scenario, nella periferia urbana e depressa di Rochdale, Peter, Hannah, Don e Karen crescono a suon di grime, genere musicale inglese tra i più significativi degli ultimi due decenni al quale fa riferimento l’acronomimo GRM nel titolo del libro. Somiglia al rap, ma è più veloce, duro e critico nei confronti della società. Finché un giorno decidono di svoltare e di andare a Londra dove, hanno sentito dire, le cose funzionano. Scoprono che nella capitale del Regno Unito si è cittadini in piena regola soltanto se si permette al governo di impiantarti un microchip sottopelle. Questo dà diritto al reddito di cittadinanza e alla possibilità di accumulare punti, se obbedisci al sistema, di perderli se dissenti. Il cittadino modello, dunque, è dotato di microchip e regala i suoi dati e accumula punti per migliorare la sua condizione sociale. Nel freddo scenario urbano londinese che accoglie le speranze dei giovani a dettare legge e a determinare i confini di azione sono la videosorveglianza, il riconoscimento facciale, gli edifici smart e gli uomini bodycam. Le
regole sono semplici, chi non si conforma è fuori dai giochi. Attenta all’innovazione, convinta che i nerd salveranno il mondo, tra i firmatari della carta dei diritti digitali fondamentali dell’Unione europea, attiva su Twitter con più di 100’000 follower, persona molto riservata e schiva nella vita privata, per Sibylle Berg quella della sorveglianza e del diritto alla privacy è una questone cruciale. Criticando l’ingerenza e l’impatto negativo del digitale sulle qualità umane, l’autrice ricorda Greta Thunberg. In primis ci fa sentire il peso e la responsabilità delle scelte sbagliate, in seconda battuta ci dice che se non comprendiamo gli effetti e i rischi dello strapotere tecnologico e non lo arginiamo per tempo, presto ci sveglieremo in una società disumanizzata, segnata da profonde diseguaglianze sociali, in cui le decisioni le prenderanno macchine e algoritmi e l’intelligenza artificiale mapperà e manipolerà le nostre vite. Noi nel mentre avremo disimparato ad abbracciarci e a toccarci privandoci di quel meraviglioso riverbero che l’incontro fisico accende nelle nostre onde interiori. GRM. Brainfuck ci dice che la digitalizzazione non è stata un bene per le persone. Ci dice che la tecnologia non è democratica ma aiuta a convalidare il potere nelle mani di pochi che manipolano, sorvegliano, diffondono Fake News, pilo-
tano elezioni e consensi a suon di bots. In questo scenario inquietante e senza speranza i giovani non si fottono il cervello, come dice il titolo, ma compiono un atto rivoluzionario (di nuovo penso a Greta Thunberg e alle migliaia di ragazzi che hanno manifestato per l’ambiente e per le donne in Svizzera lo scorso anno): rifiutano di assoggettarsi al potere della sorveglianza, rifiutano il microchip e sotterrano in una buca i loro smartphone e i loro dispositivi digitali. All’inizio i loro corpi reagiscono come quelli di un tossicodipendente in astinenza poi Hannah trova sollievo nel fare lunghe passeggiate nel verde, Don nell’abbracciare gli alberi. Nel commentare il suo romanzo l’autrice e drammaturga svizzera dice che la sua non è una visione pessimista o una critica all’innovazione, semplicemente dobbiamo abituarci all’idea che in futuro il mondo sarà diverso, né migliore né peggiore, profondamente diverso. Ma un piccolo passaggio nostalgico nel libro l’ho trovato e cioè quando il consulente finanziario, che sognava di diventare professore di letteratura inglese e tedesca, in un’eco del passato ricorda le sue letture di Goethe, gli odori e le atmosfere del camino acceso in biblioteca, ricorda un tempo in cui gli acquisti non soddisfacevano bisogni, ma colmavano desideri.
I trabocchetti dell’italiano, fra errori fittizi e orrori reali La lingua batte Si può chiudere un occhio sull’usatissimo «cosa ne pensi di…?».
«Mi auspico» invece è da bocciare. O forse no?
Laila Meroni Petrantoni Non ci sono solo dubbi, incertezze e timori in questo 2020 strano e decisamente bisestile. In questo tempo fuori dal tempo siamo confrontati con molti pensieri, opinioni e auspici, frutto delle nostre riflessioni più intime oppure sbandierati (a ragione o a casaccio) sui media. E in questo ambito l’occasione è ghiotta per vederci chiaro, se la lingua suo malgrado batte dove il dente duole. Manuali di grammatica alla mano. Il punto di partenza si trova nel campo del pensiero positivo: di qualsiasi tema si tratti, ognuno di noi si augura che tutto vada bene. L’animo vola alto quando si serve delle ali della speranza; poi però un inciampo linguistico appesantisce di colpo lo spirito. Succede quando invece di augurarsi un rapido ritorno alla vita normale, l’oratore di turno sceglie un «mi auspico che l’eco-
nomia riparta con vigore». Duole davvero dover dubitare di una frase così carica di fiducia e aspettativa, purtroppo però è utile ricordare anche all’ottimista che la forma auspicarsi è sostanzialmente sbagliata. Non scatta alcuna bacchettata sulle dita, stavolta, perché di fronte a una pandemia che ci vede tutti sulla stessa barca è ancora più importante bandire ogni forma di violenza. Tuttavia: i due verbi hanno significati simili ma non si comportano allo stesso modo, sarebbe meglio non inquinare il verbo auspicare mischiandolo con augurarsi, che (lui sì, a buon diritto) è verbo pronominale. «La forma auspicarsi è errata» – spiega l’Enciclopedia Treccani – mentre il Vocabolario online della stessa famiglia la ammette; in mezzo ai due fronti, sul tema l’Accademia della Crusca si mostra piuttosto indulgente e ammette che «È probabile che […] auspicarsi […] sia trascinato dalla conti-
guità con augurarsi a un valore intransitivo pronominale e a un significato che non gli sono del tutto propri». Le regole, anche nella lingua, sembrano fatte per essere messe in discussione. Detto degli auspici, passiamo ai pensieri e alle opinioni. E qui confesso una debolezza personale che sto comunque curando. Ogni volta che sento una domanda del tipo «cosa ne pensi di quel libro?» scatta mio malgrado una reazione automatica e un campanello mi squilla nella testa. «E che sarà mai?!», direte giustamente: nessuno si scandalizza di fronte a questa abbondanza, questa convivenza nella medesima frase della particella pronominale ne e del complemento introdotto dalla preposizione di, riferite allo stesso oggetto. Le bacchettate sulle dita per ipersensibilità linguistica me le do da sola, ma chiedo almeno la soddisfazione di dire che la forma «cosa pensi di quel libro?» è quel-
la più corretta. Il tema non è raro fra i professionisti e gli appassionati della lingua italiana, tanto che si parla di «ne pleonastico», quindi superfluo; tuttavia pare essere stato sdoganato da tempo e accettato come forma derivante dal gergo colloquiale e utile per rafforzare ciò che viene enunciato. Questo non significa che ci si permetta orrori come, ad esempio, «Il giardino era pieno di fiori, di cui ne ho visti alcuni molto rari»: no, no, e ancora no. Come detto, sto imparando a mettere a tacere quel campanello mentale che in fondo mi segnala come errore ciò che errore non è. Un difetto, questo, che ricorda la sproporzionata sensibilità uditiva di Superman e la sua proverbiale vista a raggi X: nel mio caso si tratta di difetto e non di superpoteri, che tuttavia come noto possono creare al grande eroe anche fisime e fastidi. Ma già che ci sono, perché non usarli?
Prima la triste attualità. Uno dei rimproveri mossi all’attuale presidente degli Stati Uniti è stato quello di non avere speso un tempo ragionevole a ricordare e celebrare le numerose vittime del terribile virus mortifero che sta mettendo in ginocchio il mondo intero. Lo ha fatto, invece, con la sua indiscutibile bravura e con lo stile che lo contraddistingue, il trombettista Wynton Marsalis. Insieme ad alcuni musicisti di New Orleans e ad alcuni membri della sua stratosferica Lincoln Center Orchestra, Marsalis ha messo in rete su Youtube un vero funerale in stile Crescent City (il link è www.youtube.com/watch?v=qnb5duYcwb0). Secondo tradizione le note solenni di Didn’t He Ramble vengono intonate in un primo tempo seguendo una scansione ritmica lenta e sofferta, con i tonfi della grancassa a scandire il triste passo del corteo funebre. I musicisti del gruppo, vestiti con la divisa tipica delle «corporazioni» di New Orleans, partecipano al rito naturalmente in una videosessione multipla, ognuno con il suo strumento in un riquadro del visore e con la necessaria compunzione. Una volta terminata la prima esecuzione, scorrono in sovrimpressione su sfondo viola (il colore della capitale della Louisiana) i nomi dei deceduti che non hanno potuto avere un funerale in questo periodo. Al termine della commemorazione, ecco che l’orchestra riprende il tema con un piglio vivace ed energico e sancisce la gioia del ritorno alla vita, nel caratteristico stile della città sul Mississippi. Questa celebrazione, denominata «Memorial For Us All» si terrà ogni domenica mattina nelle prossime settimane (www.lincolncenter.org/memorialforusall). Su un versante invece molto più ottimistico e piacevole (ci vuole anche questo) vogliamo segnalare qui il recentissimo album di uno degli straordinari fratelli di Wynton, il trombonista Delfeayo Marsalis. Segnalatosi da tempo come un solista di grandissima qualità, ma anche come produttore, arrangiatore e compositore di colonne sonore, Delfeayo ha fatto uscire di recente un disco esemplare, degno di ogni discoteca danzereccia che si rispetti. Il nuovissimo Jazz Party (Troubadour Jass, TRJ083119), realizzato con la collaborazione di alcuni tra i giovani solisti più in vista nella città natale del jazz, è un vero fuoco d’artificio di energia. Registrato con una cura davvero eccellente (incredibile il modo con cui in particolare si è voluto far risaltare il suono legnoso del contrabbasso) il disco offre un ventaglio di brani ambiziosi per cura degli arrangiamenti, ma allo stesso tempo godibili e caldi. Senza scendere a compromessi con il gusto e la qualità, in puro stile Marsalis, Delfeayo afferma il senso e la portata di una tradizione inossidabile. /AZ
La copertina dell’album. Per info: www.dmarsalis.com.
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