Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Lo psicanalista Roberto Pozzetti ci parla delle conseguenze dell’isolamento sulla coppia
Ambiente e Benessere Il dottor Francesco Volonté, responsabile del centro di chirurgia dell’obesità EOC e direttore sanitario della Clinica Sant’Anna di Sorengo spiega l’importanza e le possibilità della chirurgia bariatrica contro l’obesità
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 25 maggio 2020
Azione 22 Politica e Economia Che ne sarà della globalizzazione dopo questa pandemia?
Cultura e Spettacoli Il lockdown pandemico visto dalla prospettiva a fumetti di Zerocalcare
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Accusare l’OMS per celare propri errori
Il secolo di Modigliani
di Peter Schiesser
di Alessia Brughera
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Dunque, alla fine l’Assemblea generale dell’organizzazione mondiale della sanità un accordo l’ha trovato, la settimana scorsa: ci sarà un’indagine indipendente sulla gestione della pandemia da Coronavirus da parte della comunità internazionale; si analizzerà il comportamento dell’OMS ma anche quello dei singoli paesi. La mozione presentata dall’Unione europea con l’appoggio di 115 Stati è stata accolta anche dalla Cina e ufficialmente salutata pure dagli Stati Uniti, inizialmente piuttosto scettici. Il direttore generale dell’OMS Tedros Ghebreyesus ha dichiarato che l’inchiesta partirà al più presto, anche se in precedenza era parso incline a iniziarla solo a pandemia superata. Armonia ritrovata all’interno dell’OMS, dopo le accuse di Stati Uniti e Australia all’organizzazione (accompagnate dal congelamento dei versamenti americani) e soprattutto alla Cina, con richieste di risarcimenti che avevano avvelenato il dibattito internazionale e messo in pericolo la funzionalità dell’OMS? Restiamo cauti: che la Cina e gli Stati Uniti accettino di partecipare all’inchiesta non vuol ancora dire che siano disposti a garantire la massima trasparenza e partecipazione qualora questo dovesse esporli a forti critiche per palesi errori commessi. Finora il presidente Xi Jinping ha difeso ad oltranza la linea secondo cui Pechino ha fatto tutto in modo trasparente ed eccellente e a Ginevra ha cercato di ingraziarsi l’Assemblea generale dell’OMS promettendo aiuti per 2 miliardi di dollari ai paesi poveri e di mettere a disposizione di tutti i paesi del mondo i vaccini cinesi, quando saranno pronti; Donald Trump dal canto suo ha dimostrato una volta di più che rispetta le istanze e gli accordi multilaterali solo se rispecchiano gli interessi degli Stati Uniti, e fin qui non ha nascosto l’intenzione di accaparrarsi un vaccino da distribuire dapprima ai cittadini degli Stati Uniti. In effetti, il sospetto è che le accuse formulate all’indirizzo dell’OMS e della Cina siano state (anche) strumentali per nascondere i propri errori. L’organizzazione dell’ONU con sede a Ginevra ha certamente dei compiti precisi, ma le International Health Regulations varate nel 2005 all’indomani dell’epidemia di SARS (2002-2004), che rappresentano un piano pandemico globale, impongono ai 194 Stati membri (molto gelosi della propria sovranità in materia) di approntare piani pandemici per prepararsi a riconoscere e fronteggiare focolai di epidemie, come pure di segnalarle immediatamente all’OMS. E qui, dopo che l’epidemia di SARS è stata soffocata, la volontà della comunità internazionale è presto venuta a mancare: nel 2019 nell’ambito del Global-Health-Security-Index, un dettagliato studio sull’implementazione delle IHR in tutto il mondo, si è giunti alla conclusione che su una scala da 1 a 100 il mondo era mediamente assai poco preparato ad affrontare una pandemia (punteggio: 40,2 su 100). Persino in Svizzera non avevamo tutto il materiale necessario previsto dal piano pandemico, ma in modo molto più grave questo lo si è visto negli Stati Uniti e in altri paesi. Probabilmente, da un’inchiesta seria e indipendente pochi paesi ne uscirebbero bene. D’altra parte, le critiche alla Cina sono giustificate: non c’è ancora certezza sull’origine del Sars-Cov-2, non sappiamo se davvero è passato da un animale selvatico all’essere umano in un wet market di Wuhan o se, come sostengono virologi rinomati come Luc Montagnier e Peter Chumakow, possa essere sfuggito da un laboratorio a Wuhan. Conoscerne l’origine e le cause è importante per affrontare nuove ondate di contagio. La Cina ha il dovere di chiarire in modo trasparente quel che è successo. Lo farà? L’OMS può solo cercare di convincerla, non ha i poteri di imporlo. Aiuta poco se gli Stati Uniti la indeboliscono ulteriormente, congelando e forse tagliando i fondi: lascerebbero solo più spazio a Xi Jinping. Fra i 194 Stati membri andrebbe invece urgentemente recuperato lo spirito d’intesa di 15 anni fa.
richiamo VOTAZIONE GENERALE 2020
SABATO 6 GIUGNO 2020
Keystone
Rinnoviamo a tutti i soci l’invito a partecipare alla votazione generale. Ultimo termine per la spedizione della scheda
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Attualità Migros
Lortobio riapre ai «giardineri in erba»
Ambiente Con la primavera riprende l’attività didattica legata al ciclo di crescita di fiori e ortaggi per avvicinare
i bambini alla natura, un progetto sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino Un’idea in linea con il desiderio, espresso oggi ormai a molti livelli, di riprendere il contatto con il mondo naturale per conoscere meglio i prodotti della terra e le fasi della loro crescita. Lortobio, sostenuto anche quest’anno dal Percento culturale di Migros Ticino, è pronto a ripartire e a ripetere il successo della sua scorsa edizione, di cui ci siamo occupati tra l’altro proprio sulle pagine del nostro giornale («Azione 37» del 2019). Di quello che succede al Lortobio abbiamo parlato con una della animatrici, Chiara Buletti. «Nonostante il blocco causato dall’emergenza Covid-19, dopo la bella esperienza dell’anno scorso noi siamo stati molto determinati a continuare le nostre attività del progetto “Giardinieri in erba”. Con le precauzioni del caso e seguendo le direttive delle autorità, i lavori al Lortobio proseguono e acquistano un valore ancora più significativo. Durante le mattinate del sabato accogliamo un massimo di 10 bambini dalle 9.00 alle 12.00. Possiamo così suddividerli in gruppetti di tre o quattro bambini in modo che è più facile tenere le distanze sia quando lavoriamo fra le aiuole, sia quando siamo seduti in cerchio per discutere, riflettere, scambiarci opinioni e fare delle pause per giocare, bere...» ci racconta Buletti. Lortobio è un grande spazio di terreno, non lontano dalla stazione di
Sant’Antonino, nei pressi della fattoria Colombera. «L’area comprende un orto di erbe aromatiche e medicinali, un orto sinergico, alcuni campetti di mais, patate, zucche e asparagi, un frutteto di meli di varietà antiche, un giardino di fiori e aiuole di bacche, diversi cumuli di composto, diversi habitat, un prato magro, ed anche una piccola casetta in sasso con un fienile». Il progetto si può dire sia ben consolidato e seguito da tempo: «Il nostro orto esiste ormai da più di dieci anni» conferma Chiara Buletti «ed è un orto collettivo dove tutti sono ben accolti e tutti hanno la possibilità di svolgere delle attività orticole. L’attività prende spunto da un’iniziativa promossa da *Bioterra*, l’associazione nazionale che vuole promuovere l’agricoltura biologica in Svizzera, con lo scopo di favorire l’accesso dei bambini al di fuori degli orari scolastici a orti e giardini biologici. Dal canto nostro, ogni primo sabato del mese ci dedichiamo ad organizzare e a proporre delle attività didattiche con i nostri piccoli utenti». Le attività di lavoro propongono vari tipi di lavoretti, per rendere la giornata variata e sempre interessante. «Durante la mattinata, a dipendenza delle stagioni e del tempo, sono previsti momenti molto diversificati fra loro e adatti ad ogni età. In primavera si preparano le aiuole, si semina, si trapianta,
Lo spazio verde per sperimentare e divertirsi nella natura.
Una foto scattata durante l’attività dello scorso anno.
si zappetta... In estate ci sarà da annaffiare alcuni ortaggi, attingendo l’acqua dalla falda freatica pedalando sulla pompa a pedali, si preparano i macerati, si raccolgono diversi ortaggi, si fa il fieno per la pacciamatura delle aiuole... In autunno si raccolgono verdure e semi, si seminano verdure invernali, si annaffia e si prepara l’orto per l’inverno». Ma le attività pratiche non esauriscono il programma delle giornate. Come ci spiega Chiara Buletti «mentre si svolgono tutti questi piccoli lavori vogliamo creare anche momenti di scambio, di socializzazione e condivisione; osservando il nostro orto sinergico, il frutteto, il giardino dei fiori e delle erbe aromatiche si scoprono anche tanti animaletti che vivono nella terra, si percepisce l’importanza della biodiversità». Il progetto del Lortobio, insomma, va un po’ oltre la semplice pratica del giardinaggio. «Sì, vogliamo dare ai bambini delle opportunità per trovare
il piacere di stare insieme, di meravigliarsi, di imparare e sperimentare che colore e che odore ha un buon suolo, quando e come si seminano le varie qualità di ortaggi, come un giardino diventa multicolore grazie alle mille varietà di fiori ed a tutti gli insetti e farfalle che nutre. Come ci si prende cura di ciò che sta crescendo e di tutte le espressioni di vita che si manifestano, l’importanza di produrre cibo e cultura sani, basandoci su principi di economia circolare e sistemi di progettazione permaculturali che creino presupposti d’abbondanza per tutte e tutti». Osservando la crescita armoniosa delle varie specie, insomma, ci spiega l’animatrice, «coltiviamo anche i nostri ideali e un modello di vita che sentiamo più vicino ai nostri bisogni, coltiviamo il giardino che è dentro di noi, con gli altri, in armonia con i cicli naturali della terra e del cielo». Per quello che riguarda gli aspetti
L’istruttore nel telefono
Wellness Alimentazione sana ed esercizio fisico con l’iMpuls Coach personalizzato
Dopo numerose settimane di home office la voglia di fare attività fisica è tanta. iMpuls Coach, l’app di fitness della Migros, ti aiuta a perdere i chili di troppo grazie a piani alimentari e di allenamento personalizzati. I 36 diversi programmi sono stati messi a punto con l’aiuto di esperti interni dei centri fitness Migros e di Medbase. Dal suo lancio nel 2017, l’app iMpuls Coach è stata scaricata già 136’000 volte. Per numerose persone costituisce un valido alleato quotidiano per il conseguimento dei propri obiettivi nel campo della salute. Ora l’iMpuls Coach (in versione app o web) propone anche piani alimentari e di allenamento personalizzati. Oltre agli obiettivi di allenamento, d’ora in poi i programmi proposti terranno conto anche delle intolleranze e delle abitudini alimenta-
ri, nonché dell’intensità auspicata per i workout nel proprio profilo. Come funziona questo servizio? Innanzitutto occorre stabilire il proprio obiettivo: dimagrire, ritrovare la forma,
Azione
Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
vivere in modo più sano. Dopodiché è possibile scegliere fra tre diversi livelli di intensità: basso, medio, elevato. Per ricevere, oltre alle sessioni di allenamento personalizzate, anche delle ri-
Un’app per mantenere la forma: su Google Play o Apple Store.
La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
cette su misura è possibile indicare nel profilo se si è onnivori, vegetariani o vegani. Si possono inoltre inserire le proprie intolleranze alimentari, ad esempio al lattosio o al glutine. Alimentazione sana è il tema in primo piano. Sette dei 36 programmi sono dedicati esclusivamente all’alimentazione. Sono disponibili piani alimentari per chi vuole dimagrire, per chi è molto impegnato, per chi pratica sport di resistenza, per chi vuole aumentare il proprio benessere o la propria massa muscolare, per chi desidera un corpo tonico e per chi ama la buona cucina. I programmi dedicati esclusivamente all’alimentazione sono contraddistinti da un elemento di richiamo giallo nell’iMpuls Coach. Le ricette sono state elaborate dagli esperti di cucina di Migusto, il club culinario della Migros. Tiratura 101’634 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
concreti della partecipazione, al Lortobio possono iscriversi tutti i bambini dai sei fino ai dieci anni, e prendere parte a uno o più sabati mattina. Per annunciarsi basta scrivere una email all’indirizzo: info@lortobio.ch oppure telefonando a Chiara Buletti (078 823 71 49). Da notare che al Lortobio si può arrivare facilmente anche in treno o in bicicletta... Per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito: www.lortobio.ch
Il calendario degli incontri 6 giugno; 20 giugno; 4 luglio; 18 luglio; 8 agosto; 5 settembre; 3 ottobre. Importante: per partecipare occorre iscriversi! Tel: +41 78 823 71 49 email: info@lortobio.ch
Prolungati gli annullamenti hotelplan Viaggi
all’estero annullati fino al 14 giugno Hotelplan Suisse ha deciso di sospendere la sua programmazione di viaggi all’estero per partenze fino al 14 giugno 2020. I clienti riceveranno il rimborso del costo del pacchetto di viaggio annullato nel corso delle prossime settimane. I clienti interessati da questa procedura verranno informati proattivamente nel corso dei prossimi giorni. Per prenotazioni di viaggi in mete quali ad esempio la Svezia dove l’ingresso, in linea di massima, è consentito, i clienti verranno contattati nel corso dei prossimi giorni per stabilire se desiderano effettuare il viaggio. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Società e Territorio Bici e pedoni dove una volta c’era il tram La pista ciclopedonale tra Canobbio e Tesserete è stata inaugurata due anni fa ed è sempre più apprezzata. E in Capriasca si guarda al futuro Ponte di Spada pagina 9
Le relazioni sociali dopo la pandemia Niente strette di mano, niente baci, distanza tra le persone aumentata: le regole della convivenza sociale sono cambiate con quali conseguenze? Intervista a Nathalie Luisoni, esperta di comunicazione
Marka
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La coppia tra quattro mura
Psicologia Quali conseguenze può avere l’isolamento sulla relazione e sul desiderio? Lo psicanalista Roberto Pozzetti
sottolinea l’importanza di coltivare il mistero Valentina Grignoli Che cosa succede quando una coppia si ritrova chiusa in casa per molto tempo senza possibilità di fuga? Scoppia? Si reinventa? Il desiderio aumenta o diminuisce? Letteratura e cinema hanno descritto spesso emozioni e tensioni contrastanti che prendono vita all’interno di una stanza o di un appartamento (e solitamente le cose non vanno a finire molto bene…). Spesso questo accade con il mondo esterno in subbuglio e divenuto luogo tanto inospitale che conviene starsene chiusi al sicuro. In lockdown insomma. Come in questa quarantena. Nei mesi che stiamo vivendo mi sono tornati alla memoria libri e spettacoli teatrali che raccontano, più che l’isolamento, l’intreccio delle relazioni e il desiderio quando una famiglia, una coppia, o un gruppo di persone eterogeneo rimane intrappolato (anche metaforicamente) tra quattro mura. Penso a Le Dieu du Carnage di Yazmina Reza, a Chi ha paura di Virginia Woolf di Edward Albee, ma anche Persona di Ingmar Bergman. Al contempo ho iniziato a interrogarmi circa la nascita o la morte del desiderio nelle coppie oggi, in questa inedita situazione. Ho interpellato quindi uno psicoanali-
sta vicino al pensiero di Jacques Lacan – lo psicoanalista che ha posto al centro dei suoi scritti e del suo approccio clinico il rapporto fra la parola e il desiderio. Si tratta di Roberto Pozzetti, membro della Scuola Lacaniana e dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, autore di diversi libri tra cui, per NeP edizioni nel 2016, Esiste un amore felice? Sul trattamento psicoanalitico delle crisi di coppia. Dottore, che cosa accade al desiderio nelle coppie costrette oggi in questo Huis clos inedito? Trovarsi intrappolati a stretto contatto con il proprio partner può essere controproducente per la relazione stessa oppure favorevole?
A proposito del confinamento, che ha imposto a coppie e famiglie una condivisione obbligata talora insopportabile, lei cita il dramma teatrale di Sartre, nel quale si trova uno dei suoi aforismi più noti: «l’inferno sono gli altri». Sia Sartre sia lo psicoanalista Jacques Lacan pongono in risalto il desiderio. Da un lato, si lotta per il riconoscimento del proprio desiderio da parte dell’altro. D’altro canto, si desidera l’oggetto del desiderio dell’altro, che diventa nostro. Cruciale nella dimensione del desiderio è tuttavia la mancanza. Si desidera sulla scorta
della propria mancanza, della propria incompletezza; si desidera chi ci manca, chi si allontana per poi eventualmente tornare a farsi presente. Quando vi è sempre presenza, quando manca la mancanza, il desiderio si affievolisce ed emerge l’affetto d’angoscia. Questo è il rischio per le coppie in quarantena: a fronte di un appassire del desiderio, vedere salire all’apice l’angoscia.
Lei mi parla d’angoscia. Che impatto ha questa, legata al tema della morte, sulla vita di coppia? Penso al fatto che passiamo le giornate stando attenti a non sfiorare gli altri, fuori. Dentro casa ritrovare l’intimità non è scontato.
Le coppie, a meno che non abbiano evitato completamente ogni contatto esterno, temono di contagiarsi. La vita erotica ne risulta intaccata in modo drastico, a cominciare da quella manifestazione primaria di affettività che è il bacio. L’angoscia diviene angoscia di morte e tende, dunque, a determinare un differimento dell’intimità e una vita intima più morigerata. A cosa bisogna stare attenti affinché il desiderio non si trasformi in uno spettro, un vago ricordo?
Lacan non è molto d’accordo con la tesi di Sartre circa l’intersoggettività come inferno; a questo proposito, scrive di
oscurantismo sartriano. Non è affatto detto che stare confinati in casa, come coppia o come famiglia, si riveli sempre così infernale. Vivere come si fosse fratello e sorella non impedisce una qualche forma di passione. Lo psicoanalista Erich Fromm, che trascorse gli ultimi anni della sua vita a Locarno, scriveva dell’amore fraterno come fondamentale forma di sentimento. Evidentemente, vi è anche una differenza da sottolineare quanto al trovare degli spazi autonomi fra l’abitare in una villa con giardino e il convivere in un bilocale opprimente, magari senza neppure un balcone. Comunque, il desiderio si fonda su una certa insoddisfazione. Per questo, rimane vivo se ciascuno riesce a trovare degli spazi per assentarsi, ad esempio erigendo metaforicamente un velo. E come fare per uscire dall’impasse psicologica posta dall’onnipresenza del partner nella quotidianità e la necessità, in questo periodo dettato dalla paura, di contatto?
Amore e desiderio si rilanciano attraverso la funzione del terzo: Lacan diceva che bisogna essere in tre per amare anziché in due soltanto. Terzo non vuol dire necessariamente una persona: si intende una fantasia erotica, il progetto di avere un bimbo, un interesse
in comune cui dedicarsi (un film, un album musicale, un romanzo, realizzare un video insieme). Ai tempi del Covid-19, un importante ruolo in questi termini lo stanno assumendo i dispositivi digitali. In primo piano, vi è la sublimazione ovvero l’elevare la spinta che mira al soddisfacimento pulsionale verso forme di piacere centrate su un oggetto culturale, artistico, che implica un’opera creativa. Per concludere, è possibile mantenere quel mistero necessario al desiderio nella situazione di ipercontrollo in cui ci troviamo?
Vi è, in effetti, il rischio di un’unione simbiotica, senza misteri. Le coppie non conviventi, pur soffrendo per la difficoltà di incontrarsi, si scoprono facilitate nel conservare qualcosa di enigmatico. Uno dei pochi consigli erotici di Lacan sta nel mostrarsi coperti dietro un velo: l’effetto è garantito. Con un pizzico di pudore, si tratta di fare in modo che non tutto sia immediatamente mostrato, che vi sia ancora qualcosa da togliere, qualcosa da scoprire, al fine di coltivare mistero e desiderio. Non dimenticarsi di mantenere il mistero, paradossalmente un’altra cosa a cui dobbiamo prestare particolare attenzione, di questi tempi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Idee e acquisti per la settimana
Pan Val Muröbia
Novità Il noto pane bigio della Migros entra a far parte della grande famiglia
dei Nostrani del Ticino
Azione 20% Pane Val Morobbia 550 g Fr. 3.05 invece di 3.85 dal 26.05 al 1.06
Ingredienti locali
Uno dei valori aggiunti del Pane Val Morobbia è ora l’utilizzo di farine provenienti esclusivamente dai cereali prodotti sul territorio ticinese, sul Piano di Magadino e nel Mendrisiotto. Il frumento è coltivato nel rispetto dei criteri IP-Suisse. Gli agricoltori non solo rinunciano all’impiego di fungicidi, insetticidi e regolatori della crescita, ma si impegnano a promuovere la biodiversità sui loro campi. La macinazione delicata avviene presso il Mulino di Maroggia, azienda attiva nel settore fin dal 1888.
Tresol Group/Däwis Pulga
Lunga lavorazione artigianale
Il Pane Val Morobbia è un pane bigio a base di farina di frumento e farina di segale che si caratterizza per la lavorazione tradizionale, perlopiù manuale, e per la lunga lievitazione a basse temperature, ciò che permette di ottenere un impasto molto morbido. La tipicità del pane non viene in nessun caso modificata. L’utilizzo di pasta acida di frumento conferisce al prodotto finale un aroma e un gusto intensi, favorendone la bella alveolatura e permettendo altresì una migliore conservabilità del
L’estate è in tavola
pane. Crosta croccante e mollica morbida sono pure segni distintivi di questo prodotto a km zero. La trasformazione è affidata agli abili panettieri della Jowa di S. Antonino. Abbinamenti ideali
Il sapore intenso del Pane Val Morobbia si presta bene per essere abbinato a molte pietanze tipiche del nostro territorio. C’è chi lo apprezza per esempio accompagnato da qualche fettina di carne secca o salame nostrano per preparare un delizioso sandwich. I vegetariani lo gustano volentieri con della mozzarella, qualche fettina di pomodoro e foglioline di basilico fresco. Oppure perché non servirlo con le pietanze alla griglia: davvero impagabile! Una valle affascinante
Il Pane Val Morobbia nasce una ventina di anni fa con l’idea di omaggiare questa incantevole vallata del Bellinzonese. Tra le attrazioni più conosciute della Valle Morobbia c’è sicuramente la Via del Ferro, a Carena, l’ultimo paese della valle. In questo sito si può scoprire come lo sfruttamento delle vene ferrose fosse diffuso nei secoli scorsi.
Sapore «Intense»
Attualità Ritornano alcune tipiche specialità fredde pronte
da mangiare dove vuoi tu
Attualità Una varietà di
pomodoro che si caratterizza per sua la versatilità
La trota in carpione: una delizia!
Il ritorno della stagione calda risveglia la voglia di saporiti piatti freddi, ideali da gustare all’aria aperta durante la pausa pranzo, per una cenetta sul balcone o nel giardino di casa oppure da portare con sé per un picnic, in occasione della scampagnata domenicale in famiglia alla scoperta del nostro bel Cantone. Per questi piacevoli momenti all’insegna del gusto, le specialità stagionali fresche dei reparti gastronomia Migros
sono sicuramente da tenere in considerazione, vista la varietà della proposta e l’ottima qualità degli ingredienti utilizzati. Inoltre sono preparate secondo ricette tipiche da collaudati chef professionisti. Come detto in precedenza, l’offerta, ampia e varia, è capace di accontentare anche i palati più esigenti. Ecco qualche idea golosa. Chi ama il pesce, potrà scegliere tra carpaccio di polipo, polipo con patate, cocktail di gambe-
retti, filetti di alici marinate, oppure un grande classico della nostra tradizione: la trota in carpione. Un contorno per le tue grigliate all’aperto? Lasciati tentare dalle insalate di spelta-pomodori-feta-olive, orzo-fagioli-pesto, dal bulgur con verdure, dall’insalata di farro oppure ancora dalle insalate di riso, patate o cervelas. Infine, non manca il vitello tonnato, un piatto sempre amatissimo da grandi e piccini.
Giovanni Barberis
Azione 40%
Da alcuni anni, accanto alle varietà tradizionali, diversi orticoltori locali si sono cimentati nella coltivazione del pomodoro Intense. Un prodotto dalle caratteristiche interessanti che non ha mancato di stuzzicare i palati dei consumatori ticinesi, che ne hanno apprezzato il suo aroma delicato e, soprattutto, la sua versatilità culinaria. Rispetto ad altri pomodori, l’Intense
Pomodori Intense Ticino, imballati 700 g Fr. 2.90 invece di 4.90 dal 26.05 all’1.06
perde pochissimo succo una volta tagliato. Inoltre mantiene bene la sua consistenza carnosa, come pure il colore e il sapore dopo la preparazione. Grazie a queste qualità, si presta bene per la preparazione di sandwich, insalate, carpacci di verdura, pizza, zuppe e decorazioni varie. Un altro modo per gustarlo è grigliato: una vera bontà tutta da provare!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Idee e acquisti per la settimana
Biciclette haibike da SportXX
richiamo di prodotto
su due ruote, anche dei marchi più rinomati
secchi Alnatura
SportXX rafforza ulteriormente la sua competenza nel campo del ciclismo grazie all’introduzione di alcuni modelli elettrici del prestigioso marchio tedesco Haibike. Innovazione e prestazioni eccellenti sono i segni distintivi dei prodotti di questa azienda specializzata nel settore delle mountain bike da oltre vent’anni. Ingegneri lavorano giorno dopo giorno nello sviluppo di modelli esclusivi in grado di rivoluzionare il mondo delle bike. Le biciclette elettriche Haibike non rappresentano solo il massimo delle prestazioni tecniche, ma convincono anche per il loro design accattivante. Senza dimenticare i potenti motori Yamaha e le batterie completamente integrate di cui sono dotate che garantiscono delle performance senza precedenti. La gamma include i modelli da donna SDURO Trekking 4.0 per agili pedalate in città o campagna grazie al mo-
Il prodotto in questione può contenere frammenti di vetro. Può essere restituito in una filiale Migros o in una filiale Alnatura. Il richiamo riguarda il seguente articolo: Nome: ceci secchi Alnatura Codice a barre: 4104420022683 Da consumare preferibilmente entro il: 14.1.2021 e 27.1.2021 Peso: 500 g Prezzo di vendita: Fr. 2.45 Punti vendita: filiali Migros, LeShop, Alnatura Misura da adottare: non consumare il prodotto e riportarlo in filiale dove sarà rimborsato. Il prodotto è già stato rimosso dagli scaffali.
Attualità Presso i nostri negozi specializzati trovi tutto l’occorrente per le tue avventure
Pronti per l’avventura con le biciclette Haibike.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Società e Territorio
Una pista sempre più apprezzata
Capriasca Inaugurata due anni fa la pista ciclopedonale Tesserete-Canobbio ha fatto rinascere, dopo 50 anni d’oblio,
il tragitto del tram che qui viaggiò dal 1909 al 1967. E in futuro si guarda al collegamento tra Cagiallo e Sonvico
Elia Stampanoni C’è un bel movimento in alcuni giorni e in alcuni orari sul tragitto Tesserete-Canobbio. Non parliamo di auto, ma di biciclette e di persone che transitano sulla pista ciclopedonale inaugurata nel settembre del 2017 e che dopo i primi due anni si sta confermando come un’arteria amata e prediletta non solo dai ciclisti, ma anche dai pedoni, siano essi camminatori a spasso o podisti di corsa. Questo segmento di circa tre chilometri e mezzo permette di percorrere il suggestivo percorso da Tesserete a Canobbio (e viceversa) lontani dal traffico automobilistico e si sta facendo apprezzare sempre più. La strada, con un manto asfaltato e quindi adatta a tutti i tipi di bicicletta o passeggini, ha anche una pendenza piacevole, con un’inclinazione massima del 6%, e permette di superare il dislivello di circa 100 metri esistente tra Canobbio e Tesserete senza dover affrontare ripide salite o discese. Un tragitto gradevole anche dal punto di vista paesaggistico, sviluppandosi in gran parte sotto le chiome degli alberi, lambendo prati o pascoli e sbucando poi ai lati dei borghi di Lugaggia, Sureggio e quindi Canobbio. A tratti si può pure ammirare il bel panorama sul golfo di Lugano con il Ceresio, il monte San Salvatore e più in giù il ponte-diga di Melide, il San Giorgio e le altre montagne da corollario. Scendendo, la nuova tratta sbocca in zona Ganna a Canobbio, mentre il punto di
partenza è facilmente individuabile a un centinaio di metri dalla stazione di Tesserete, dove il tram aveva il suo capolinea nel periodo del suo funzionamento, dal 1909 al 1967. La ciclopedonale è infatti sorta due anni fa sulle vestigia della vecchia tratta del tram, quel convoglio blu che per quasi sessant’anni è stato un punto di riferimento per molti capriaschesi e non solo. Proprio per ricordare questo passato ormai lontano, ma di certo non da tutti dimenticato, lungo la pista sono stati posti alcuni cartelloni che mostrano com’era percorso il tragitto fino al 1967, quando i convogli effettuarono la loro ultima corsa. Una storia, quella del tram tra Lugano e Tesserete, che era iniziata nel 1897 con la concessione dell’Assemblea federale per la costruzione di una ferrovia elettrica tra le due località. I lavori iniziarono nel 1907 e dopo due anni la ferrovia fu inaugurata il 25 luglio del 1909. L’arteria avvicinò in modo considerevole la campagna alla città, permettendo alla popolazione di coprire la distanza da Tesserete a Lugano in 26 minuti, come riporta la fotografia del primo orario, esposta in uno dei cartelloni oggi collocati ai lati della strada ciclopedonale. Per il viaggio di ritorno, leggermente in salita, nel 1909 ci volevano invece trenta minuti, mentre un biglietto giornaliero a metà prezzo costava due franchi. Nelle altre tavole collocate lungo il tragitto sono riprodotte delle belle
Immagini del passato lungo l’attuale pista ciclopedonale. (E.Stampanoni)
immagini del passato rurale, quando con il tram si trasportavano anche il tannino o il bestiame, «aggiungendo i vagoni K e L al tram», come leggiamo su una delle brevi didascalie. Completano la piacevole esposizione alcune testimonianze di persone che la ferrovia l’hanno vissuta, amata e odiata, oppure altre fotografie suggestive, come quella del libro paga, del passaggio sui vecchi ponti o della cerimonia dell’ultimo giorno d’esercizio della ferrovia, il 27 maggio del 1967. Da quel giorno e fino alla sua riabilitazione quale pista ciclopedonale, la tratta è caduta più o meno nell’oblio,
ma nella popolazione, o almeno in parte di essa, c’è sempre stata l’idea e la speranza che un giorno il tram potesse tornare, oppure che la tratta potesse essere valorizzata in altro modo, come è infatti avvenuto 50 anni dopo. Per permettere questa metamorfosi, da ferrovia a strada per biciclette e pedoni, sono stati necessari anni di lavoro e circa tre milioni d’investimento, finanziati quasi in egual modo dalla Confederazione (nell’ambito del programma d’agglomerato del Luganese), dal Cantone e dai comuni del Luganese. Oltre all’assestamento e livellamento del terreno, poi asfaltato, i lavori più
importanti e anche visibili percorrendo la ciclopista, sono stati il risanamento di due ponti, la ricostruzione di un altro e la creazione della passerella in località di Lugaggia. Un ulteriore intervento ha permesso la percorribilità in sicurezza anche durante le ore buie, grazie alla posa di un’illuminazione dinamica, dove i circa 60 punti luce s’accendono solamente in relazione a un sensore di movimento. Una scelta che risparmia energia oltre a rispettare maggiormente la quiete notturna della fauna. La pista ha una larghezza variabile tra i 2,5 e i 3 metri ed è di seguito stata completata da un marciapiede ciclopedonale nei pressi di Canobbio per permettere il congiungimento e la continuazione verso Lugano. A monte, ulteriori sviluppi nel contesto di una mobilità lenta sono invece in avanzata fase di progettazione tra Cagiallo e Sonvico, dove si vuole, da anni, collegare le due sponde con un ponte, il Ponte di Spada. Lo scorso anno è stato scelto il progetto vincitore del concorso di progettazione della nuova passerella ciclopedonale «Ponte di Spada», indetto dal Dipartimento del territorio. Il manufatto, alla pari del percorso Canobbio-Tesserete, rientra nelle opere previste dai Programmi di agglomerato del Luganese che includono la realizzazione di complessivi 120 chilometri d’itinerari ciclabili con l’obiettivo di collegare parte dei centri abitati alle principali fermate del trasporto pubblico e ai poli d’interesse. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Più lontani, più vicini Intervista Nathalie Luisoni, esperta di comunicazione,
spiega l’influenza delle misure anticontagio sulle relazioni sociali
Yoga per crescere
Il Caffè delle mamme Le lezioni di Yoga
online coinvolgono con successo tutta la famiglia. Ne parliamo con Francesca Senette
Simona Ravizza
Un gesto universalmente riconosciuto a cui abbiamo dovuto rinunciare. (Pxhere.com)
Stefania Hubmann Gesti convenzionali che in passato erano compiuti in segno di cortesia, oggi possono creare imbarazzo o addirittura suscitare reazioni diametralmente opposte. La stretta di mano e i baci sulle guance ne sono due esempi emblematici. Il Coronavirus ha stravolto di colpo anche le abitudini della buona educazione e le regole della comunicazione sociale. Con quali conseguenze? Come e in quale misura questi cambiamenti potrebbero tradursi in nuove convenzioni? Per rispondere a questi interrogativi «Azione» si è rivolta a Nathalie Luisoni, esperta di comunicazione, contitolare con Shari Keller di Formamentis, realtà formativa specializzata in training e coaching con sede a Lugano e Zurigo. I comportamenti introdotti nelle relazioni sociali per ridurre il rischio di contagio sono destinati a perdurare una volta superata la pandemia?
Benché sia difficile fare proiezioni certe sull’evoluzione dei comportamenti sociali, tornare a poco a poco alla normalità non sarà come riaccendere un interruttore dopo un black out. In questi mesi tutte le persone – chi più, chi meno e chi prima, chi poi – si sono infatti adeguate al social distancing. Anche i bambini progressivamente hanno interiorizzato queste norme comportamentali, reprimendo il primo istinto di correre ad abbracciare le persone che conoscono quando le incontrano. Proprio perché interiorizzati, questi comportamenti tenderanno a caratterizzare la fase di «normalità limitata», una sorta di riabilitazione post traumatica, come avviene a livello fisico dopo la rottura di un arto. Per il prosieguo molto dipenderà da fattori quali l’età, il contesto e le caratteristiche personali di ciascuno, intese non solo in termini di introversione o estroversione, ma anche quali percezioni individuali sull’evoluzione e sul ripristino della situazione. Va inoltre tenuto in considerazione il fattore culturale. È lecito supporre che le cosiddette culture fredde (cold culture), in cui gesti come la stretta di mano sono meno diffusi, soffriranno meno delle culture calde o latine (hot culture). Svariati studi hanno però dimostrato sin dalla notte dei tempi che la vicinanza fisica non solo favorisce il nostro benessere sul piano psicologico, ma si riflette anche sulla nostra salute a tutti gli effetti. Il bisogno di contatto è infatti una necessità primaria insita in ciascuno di noi. Lo testimoniano gli studi di Harry Harlock sugli scimpanzé realizzati nel secolo scorso, studi che dimostrano come nel legame madrebambino il bisogno affettivo sia più importante di quello nutrizionale.
Quali strategie alternative si possono mettere in atto per appagare questo bisogno, pensando in particolare alla stretta di mano?
Non è facile trovare, proprio per questo gesto, un sostituto universalmente riconosciuto e accettato. Dovendo eliminare il contatto fisico, si può pensare al namasté, in cui a unirsi sono le due mani mentre si fa un lieve inchino, oppure al saluto fatto mettendosi la mano sul cuore, a quello vulcaniano di Star Trek (di origine ebraica), al gesto diffuso in Cina di mettersi il palmo della mano sulle nocche dell’altra o ancora al east coast wave proposto dalla prima ministra neozelandese Jacinda Ardern in cui si fa un lieve cenno con la testa. Quali scenari si possono immaginare per la comunicazione futura a livello personale e professionale?
Sul piano personale vedo il perdurare, almeno a medio termine, di un atteggiamento che porta a svicolare di fronte a conoscenti con i quali prima ci si fermava a fare due chiacchiere. Nei nuovi contatti, come gli amici degli amici, non si agirà più d’istinto con baci e abbracci. Verosimilmente si studierà la situazione con maggiore circospezione, basandosi sull’atteggiamento della persona con la quale si entrerà in contatto. Ciò significa che – aspetta tu che aspetto io – non mancheranno momenti comici o imbarazzanti. Inoltre ritengo che si continuerà ad organizzare cene in casa nonostante la riapertura dei ristoranti, per poter godere di maggiore libertà. A livello professionale le comunicazioni in forma virtuale continueranno a sussistere, visto che sono state assimilate, mostrando anche tutti i loro vantaggi. Le attività più penalizzate, poiché basate sul contatto diretto, possono sfruttare l’ampio ventaglio della sfera relativa alla comunicazione non verbale che incide nella misura del 55% sulla nostra efficacia comunicativa. Alcuni suggerimenti: concentrarsi sull’impostazione della voce in modo che risulti pacata e sorridente, mantenere un contatto visivo, utilizzare le mani a sostegno delle proprie affermazioni, curare il linguaggio digitale (le parole utilizzate per esprimere un determinato concetto) ed armonizzarlo a quello analogico (comunicazione non verbale) per trasmettere calore e disponibilità a chi ci sta di fronte fisicamente o davanti allo schermo.
Queste nuove modalità di relazionarsi potrebbero incidere anche sull’uso del «lei» piuttosto che del «tu»?
La tendenza a pensare che in questi mesi siano state assorbite restrizioni comportamentali che si rifletteranno nella scelta di un linguaggio più formale esiste. Io vado però controccorrente e penso che si verificherà
esattamente l’opposto. Questo perché si sono intensificati gli scambi virtuali che sono più informali. L’uso del «tu» rappresenta inoltre una delle strategie più istintive per accorciare la lontananza comunicativa quando si è costretti ad osservare una distanza pubblica, corrispondente a diversi metri, mentre si vorrebbe trovarsi in una distanza intima (0-45 cm) o personale (45-120 cm). La correlazione fra distanza relazionale e distanza fisica fra le persone con le relative aree (intima, personale, sociale, pubblica) è stata teorizzata negli anni Sessanta del secolo scorso da Edward Hall. L’antropologo statunitense ha pure coniato il termine prossemica per indicare la disciplina che si occupa di questi studi.
Dover modificare abitudini consolidate può costituire l’occasione per riscoprire il valore di certi gesti e l’intimità che implicano?
Sicuramente. Ogni evento spiacevole presenta sempre, assieme al conto da pagare, anche un’opportunità: quella di capire chi è rimasto al nostro fianco e chi, invece, è battuto in ritirata. Si tratta in pratica di un processo grazie al quale viene fornito l’assist per fare pulizia. L’avvento del Covid-19 non fa eccezione. Ci ha confermato con quali persone compivamo determinati gesti perché li sentivamo dal profondo del cuore e con chi invece si agiva per convenzione o in una sorta di azione da pilota automatico. La pandemia ci ha offerto la possibilità di ridare valore a gesti che consideravamo parte dell’inventario. Ci ha aiutato a ricordare che – nella loro semplicità – questi gesti non sono per tutti e che, come ogni cosa esclusiva che si rispetti, dovrebbero costituire un regalo speciale da compiere solo con le persone che ci mettono a nostro agio e con cui intratteniamo un rapporto di reciprocità. Quali insegnamenti si possono trarre da queste nuove regole di comportamento?
Come già menzionato, di fronte alle limitazioni si aprono sempre nuove opportunità. Uscire dalla comfort zone fa paura, soprattutto se il cambiamento di abitudini consolidate, magari interiorizzate fin dalla nascita, è imposto «dall’alto», in questo caso dalle autorità. Dobbiamo però ricordarci che siamo noi i padroni dei nostri stati emotivi e abbiamo quindi sempre la possibilità di decidere come vivere una determinata situazione. Anche di fronte al Covid-19 si può essere propositivi. Dopo aver approfittato del confinamento per dedicarsi a quelle attività per le quali non si aveva mai tempo, ora si può cercare di mantenere parte dei nuovi atteggiamenti appresi, atteggiamenti che migliorano il nostro benessere.
Lo Yoga irrompe a Il Caffè delle mamme, che negli ultimi tempi si svolge via whattsapp, con una storia: «C’era una volta un gatto che voleva tanto essere una tigre. Un giorno, mentre si esercitava a ruggire e a balzare come una tigre, lo vide una rana e gli chiese come faceva a fare dei salti così alti: “Anche a me piace molto saltare, ma tu sei proprio bravo!”. “Perché sono una tigre coraggiosa e le tigri saltano molto in alto!” rispose il gattino presuntuoso…». Seguono le foto di uno yogino, un bambino alle prese con la disciplina che in sanscrito vuol dire «unire insieme». Durante la meditazione, la mente e il corpo – è l’insegnamento – diventano una cosa sola. Mentre la mamma legge la fiaba il bimbo prima fa la posizione del GATTO (a quattro zampe, le mani con le dita ben distese, le ginocchia leggermente divaricate: inspirando, inarcano la schiena come se qualcuno tirasse la coda in su e guardano verso l’alto; espirando, portano il mento verso il petto e curvano la schiena, proprio come fanno i gatti quando soffiano), poi la TIGRE (sempre a quattro zampe, con le mani direttamente sotto le spalle e le ginocchia sotto le anche; espirando, arrotondano la schiena e portano il ginocchio destro verso la fronte; inspirando, distendono la gamba indietro, aprono il petto e guardano verso l’alto), infine c’è la RANA (in piedi con le gambe ben allargate, mani a terra davanti ai piedi, poi mani davanti al petto in posizione di preghiera: e poi, con un bel respiro, saltano più in alto che possono). Con tanto di «Miaoooo», «Grrr» e «Cra Cra Cra». Praticanti di vecchia data, ma soprattutto dilettanti e semplici curiose: molte di noi mamme durante la quarantena da Covid-19 si sono avvicinate allo Yoga con lezioni su Instagram, Zoom e in Tv (la RSI le offre in streaming all’interno del format Mezz’ora per voi). Con i figli intorno che si lanciano entusiasti ma un po’ impacciati in tentativi di asana (posizioni) e pranayama (esercizi di respirazione). È il motivo per cui invitiamo al nostro Caffè la giornalista e conduttrice Tv Francesca Senette, insegnante di Yoga, autrice del nuovo saggio Il piccolo libro dello Yoga (ed. Sonda) e ormai da quattro anni volto di Yo YoGa!, il primo programma per bambini dedicato alla disciplina orientale in onda su DeAJunionr (Sky, canale 623), da cui è nato anche YoYoGa! Un libro per fare Yoga con il tuo bambino (ed. DeAgostini). Durante il lockdown le sue free hatha Yoga su Instagram sono state seguitissime, compresa quella di domenica mattina alle 11 dedicata a tutta la famiglia. «Dal punto di vista fisico, la pratica permette ai bimbi di mantenere la schiena forte e flessibile, assumere una postura corretta, aumentare l’equilibrio, acquistare una maggiore consapevolezza corporea, migliorare le abilità motorie e la coordinazione, rinforzare e allungare i muscoli in modi nuovi e diversi dal solito – spiega Senet-
te ad Azione –. Dal punto di vista psicologico, lo Yoga insegna a perseverare, essere pazienti e a lavorare per ottenere un risultato. Grazie all’apprendimento di una respirazione corretta aiuta i bimbi a rilassarsi e a calmarsi, a ridurre lo stress e l’ansia, a dormire meglio. Non solo: aumenta la soglia dell’attenzione e la capacità di concentrazione. E contribuisce a sviluppare la fiducia in se stessi facendo crescere l’autostima». I bimbi un po’ ridono, un po’ cadono. Grazie ai nomi delle asana la pratica può diventare un gioco. Ci sono gli animali come il CANE (a quattro zampe, distendiamo le gambe; soffiando fuori l’aria spingiamo bene con le mani al pavimento, portiamo la nostra coda verso l’alto e i talloni verso il pavimento; allunghiamo tutto il busto e le gambe, dalle anche fino ai piedi, formando una V rovesciata con il corpo); e come il COBRA (sdraiati di pancia sul tappetino; mettiamo le mani sotto le spalle, gomiti stretti che puntano verso l’alto, mento a terra e gambe unite a formare la coda del cobra; con un bel respiro solleviamo la testa e il petto e inarchiamo la schiena mantenendo le spalle lontane dalle orecchie; poi spingiamo un po’ sulle braccia e guardiamo verso il soffitto). Ma anche nomi che ci riportano alla natura. Dall’ALBERO (piedi uniti, solleviamo la gamba destra fino ad appoggiare il piede sull’interno della coscia sinistra; uniamo le mani in preghiera davanti al cuore; con lo sguardo fisso su un punto davanti a noi solleviamo le braccia verso l’alto); alla MONTAGNA (posizione eretta, portiamo l’attenzione ai nostri piedi: teniamoli leggermente distanziati tra loro e apriamo bene le dita a terra; solleviamo le braccia verso l’alto, tenendo i palmi delle mani rivolti uno verso l’altro; abbassiamo le braccia e respiriamo, rilassiamo le spalle e teniamo il collo lungo e dritto). E, come in un cartoon, compare anche il GUERRIERO (in piedi con le gambe allargate, apriamo le braccia all’altezza delle spalle, palmi rivolti verso il basso; giriamo la punta del piede destro in fuori e pieghiamo la gamba destra; giriamo la testa e guardiamo la punta delle dita della mano destra). I consigli di Senette: «Valorizzate lo sforzo che fa il vostro bambino quando prova a restare nella posizione. Se si impegna è bello che sia gratificato, e questo gli darà la carica per continuare a fare meglio – sottolinea –. Praticare Yoga insieme offre un’incredibile opportunità di scambio e un importante momento di condivisione. Scandito da riti come una musica di sottofondo, una candela accesa, un angolo della casa riservato alla pratica. Bastano 15 minuti. L’importante è che il cellulare sia sempre spento». Serenità, lentezza, silenzio, attenzione, concentrazione, gentilezza, calma, ascolto, disponibilità. Sono leitmotiv cari al Caffè delle mamme: «Nella mia esperienza personale e nel mio percorso di questi anni è una disciplina che ha migliorato e migliora la mia quotidianità – dice Senette –. Lo Yoga ha apportato e apporta benefici alla mia salute, al mio corpo, al mio equilibrio psicofisico; mi rende più centrata e consapevole, equilibrata, più calma, in ultima istanza più serena e soddisfatta della mia vita così com’è e di me stessa come sono oggi. Vivo con più intensità ogni momento e, con tutti i miei limiti e i miei momenti no, provo gioia e gratitudine per tutto quello che la vita mi offre». Ciascuna di noi può tentarci anche da sola a casa, a tu per tu con il proprio figlio. La promessa è che la disciplina dello Yoga tra tecniche di respirazione e di concentrazione mentale, può fornire un momento speciale da trascorrere insieme. E, allora: Namasté.
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Un intreccio di speranza e paura Parco Ciani, la mattina presto, nel giorno della sua riapertura. Per due mesi, là dentro, tutto è accaduto lontano dai nostri sguardi. Erbe, fiori, cespugli e alberi hanno danzato in incognita tra le albe e i tramonti. Un paesaggio nuovo mi viene incontro, liberato dai suoi ordinati disegni, sempre troppo addomesticati da una certa visione della bellezza. Così, la splendida Foce mi accoglie con una luce nuova, a illuminare un’inattesa, e un po’ magica esplosione della vita. Tanti piccoli arbusti si erano impadroniti dei nostri passaggi. Fragili nel vento, erano saltati fuori come dal nulla, squarciando impercettibili spiragli sul sentiero di legno che accoglie il nostro camminare. Gli spazi ci parlano e ci sorprendono, bisogna imparare ad ascoltarli. Queste nuove geometrie, un po’ ribelli e trasgressive, hanno evocato in me il volto della speranza che sempre muove e alimenta la vita. Quella speranza
sbocciata da sotto la sabbia mi ha parlato di un sentimento che ci interpella, oggi più che mai, quando ci chiediamo come saremo dopo. La speranza è un sentimento forte, di adesione e di fiducia nella vita, ma è un sentimento che sa custodire, ed anche accogliere, le nostre fragilità e incertezze. E questo perché è sempre intrecciata con la paura: la paura che ciò in cui speriamo possa anche non accadere. Ce lo ricorda bene Esiodo nel racconto del vaso di Pandora, la bellissima creatura che trasgredì il divieto di Zeus, e lo aprì, e sparse fra gli uomini tutti i mali. Nel vaso restò solo il Timor del futuro, ovvero la speranza. Esiodo racconta come una presenza inquietante andasse errando tra gli uomini e come la speranza che tutti questi mali non si realizzassero, rimasta da sola rinchiusa nel vaso, fosse tutta intrisa di timore. Questo intreccio di sentimenti tanto contrastanti, come lo sono la speranza
e la paura, è stato spesso rappresentato, nella storia del pensiero, come un limite della condizione umana. Era così per gli stoici: saggio è colui che sa vivere senza speranza e senza paura, adeguandosi con distacco all’ordine razionale dell’universo. Ed era così anche per Spinoza: letizia incostante, chiamava la speranza, e tristezza incostante, la paura. Questo limite a me pare tuttavia l’espressione più autentica della nostra umanità. Un limite che è anche la sua forza, proprio perché il nostro vivere dentro questo delicato intreccio è un invito a riconoscere e ad accogliere ogni incertezza che si disegna all’orizzonte come una bella opportunità. In questi mesi siamo stati messi alla prova, e abbiamo capito, forse, come sia necessario imparare anche ad attendere ciò che è inatteso. «L’atteso non si realizza, all’inatteso un dio apre la strada»: con queste parole di Euripide,
Edgar Morin, straordinario interprete del nostro tempo, ricorda spesso come tutto ciò che abbiamo atteso, nella storia, non si sia mai realizzato. Messi alla prova, abbiamo anche compreso l’importanza di riuscire a vedere il «non ancora visto». Non quello che abita un altrove di luoghi sconosciuti ma, al contrario, quello che nutre silenzioso e invisibile i panorami più consueti e familiari del nostro vivere. Riuscire a vedere il non ancora visto: qui la speranza può mostrare il suo sguardo più intenso e diventare utopia, un luogo che ancora non c’è, ma che già esiste. Quanti «non-ancora» sono già presenti in ciò che è? Quanti mondi possibili ci attendono, o non ci attendono, dopo? Sono domande ineludibili, oggi, e sono tutte nutrite dalla speranza, che non si limita certo ad essere una pia illusione, ma diventa invece l’orizzonte in cui
far affiorare nuovi scenari possibili. Diventa utopia. Perché l’utopia non è mai un sogno irrealizzabile ma sempre un approdo, uno spazio di senso che già abita in noi. Come saremo dopo? Come vorremo o potremo essere? La speranza non sa dare risposte; sa solo esserci, sostare, danzare nell’animo come preziosa compagna di viaggio. Quanto alla necessità di rinunciare alle certezze navigando sulle rotte della speranza, ecco le straordinarie parole del poeta Fernando Pessoa: «Di tutto restano tre cose: / la certezza/ che stiamo sempre iniziando / la certezza / che abbiamo bisogno di continuare/ la certezza / che saremo interrotti prima di finire. / Pertanto, dobbiamo fare: / dell’interruzione, / un nuovo cammino, / della caduta, / un passo di danza, / della paura, / una scala, /del sogno, / un ponte, / del bisogno, / un incontro».
castello. Il giovane di cui era innamorata viene a salvarla in barca, una notte quando la luna era tra i due Mythen. Tuffo coraggioso, senza però fare i conti con le ninfee: così innocenti in apparenza, ma che sotto la superficie dell’acqua nascondono un intrico di steli insidiosi; si attorcigliano attorno alle caviglie. La storia di Gemma, annegata qui tra le ninfee, ha ispirato un dramma popolare in cinque atti del teologo Thomas Bornhauser: Gemma von Arth (1828). Da qui deriva il nome dell’imbarcazione. Schwanau invece, viene naturale pensare ai cigni – Schwan in tedesco – eppure la pedanteria o stupidità della toponomastica lo esclude, convinta del verbo schwenden: debbiare, dissodare incendiando. Partito presto stamattina e venuto qui a piedi dalla stazione di Arth-Goldau, per me oggi è già ora di pranzo. Mi siedo fuori in terrazza, su una panca ancora di quercia, a un tavolino sempre di quercia adiacente alla chiesetta. Le tipiche persiane dipinte a fiamme dello chalet-gasthaus, un tempo rifugio degli eremiti scappati dopo lo tsunami del 1806 causato dalla frana di Goldau,
sono di un optical spinto. Il vortice rosso su sfondo bianco, mi ricorda tanto i titoli di testa di Vertigo ad opera di Saul Bass. Zuppa di asparagi niente male: servita in un bicchierone come un milkshake, il burro alle erbe cosparso di petali si fonde con il resto in cui si nota la presenza del latte di cocco. I campanacci delle mucche sui prati scoscesi che salgono su verso il massiccio del Rigi, s’intrecciano con il brusìo delle macchine che passano sulla Seestrasse. Sui sedici tavoli all’aperto, le luci per la sera sembrano delle case per uccellini. Il sorriso e l’accoglienza della moglie di Hugo e la gentilezza del cameriere non guastano. La tarte tatin con gelato alla vaniglia, va detto, è una cannonata. Se volete, per pranzare, c’è anche la Goethe-Stube. Ricercando a fondo girano due date, diciassette giugno o luglio 1775, plausibili ma non c’è nessuna traccia scritta da Goethe riguardo a una sua visita. Del resto, un po’ come le locande dappertutto dove ha dormito Napoleone, facendo un’indagine seria sulle Goethe-Stuben di mezza Europa, dovrebbero essere una quarantina circa.
impressioni su Youtube. Entusiasta Nicola Lagioia, il direttore del Salone andato in onda dal 14 al 17 maggio dal titolo Altre forme di vita: «Siamo andati su un altro pianeta. E ci hanno accolti molto bene». Tant’è che questa formula probabilmente si ripeterà à côté della prossima edizione in carne e ossa. Tra i tanti incontri in video-chiamata (si possono rivedere su youtube) trasmessi in diretta sui social, i dialoghi e le lectiones offerte, ho seguito con grande interesse la performance inaugurale di Alessandro Barbero, professore di storia medievale, dalla Mole Antonelliana. Il titolo è perfetto: Conseguenze inattese. Come l’umanità reagisce alle catastrofi. Per capire il presente ci dice che dobbiamo interrogare la storia, «l’immenso catalogo di tutte le cose umane fatte prima di oggi. La storia è la collezione dei racconti e dell’analisi di come gli
esseri umani si sono comportati di fronte a qualunque problema, qualunque sfida». In particolare nel suo discorso fa riferimento alla peste antonina che colpì l’impero romano alla fine del secondo secolo d.C. e alla peste nera del 1348. La verità è che le conseguenze dei più grandi avvenimenti storici sono inattese ma l’umanità ha sempre avuto la forza di intercettare nuove opportunità. E rispetto ai grandi proclami collettivi di questi mesi dobbiamo fare attenzione perché dopo una grande pandemia la mentalità collettiva e con essa i modi di ragionare e i nostri valori non cambiano automaticamente. «I cambiamenti culturali non sono garantiti, bisogna volerli». Ergo, se l’umanità ha una straordinaria capacità di ripartire e di imboccare strade nuove, quando quelle vecchie si dimostrano vicoli ciechi, non resta che rimboccarci le maniche.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’isola Schwanau Catturata da Turner con un acquerello che sprigiona tutta la forza dell’evanescenza, l’isola Schwanau si trova sul lago di Lauerz, nel canton Svitto. Sullo sfondo, come fantasmi quasi sul punto di evaporare, appaiono i due Mythen. Meno sognante di quella trasfigurata in The Lauerzersee with the Mythens (1848 circa) conservato al Victoria & Albert Museum, ma con tutto intorno una bruma onirica degna del miglior Turner che avvolge in parte il paesaggio intorno, camminando la vedo laggiù. E mi sembra più bella nella realtà. Irreale davvero: isoletta verde scuro con battellino blu attraccato, campanile a cipolla rosso cremisi, chalet, torre. Non lontano, l’isolino disabitato che un tempo, come si vede in un dipinto di Caspar Wolf intitolato Lauerzersee mit Insel Schwanau (1777) dove l’isola Schwanau è ritratta guardando a nordovest con il Rigi sullo sfondo, aveva anche il suo chalet. Pescatori girano silenti sulle loro barchette sognando lucci. Salpo a bordo della Gemma von Arth, battellino blu retrò a energia elettrica e solare, capitanato per il primo viaggio
della giornata, alle undici in punto, dallo chef Hugo sceso un attimo a riva per prendere la posta. Al timone, a fare la spola ci sarà poi Simone, capitana di Küssnacht am Rigi salita a bordo con me. La traversata dura un batter d’occhio. A ridosso delle fronde degli alberi, in prossimità delle ninfee non ancora in fiore, vedo la barca con un trio di ragazzi che pesca. Metto così piede sull’isola Schwanau (469 m) una fine mattina di maggio inoltrato. Eremitica fino a inizio Ottocento, l’isoletta lacustre dirupata e dotata da un decennio di scale moderne che portano alla chiesetta e al ristorantechalet con terrazza, è legata da sempre a una leggenda tragica a proposito della torre e una fanciulla. Un cerino è acceso in chiesa. Scolpita nella pietra, una spatafiata in latino in onore di Ludovicus Carolus Auf der Maur. Ludwig Auf der Maur (1779-1836), tra le varie cose comandante del reggimento cattolico svizzero in Olanda che inizia la sua carriera militare come paggio a Napoli, compra l’isola di poco più di mezzo ettaro nel 1808 autoproclamandosi cavaliere di Schwanau. Rimane di
proprietà della famiglia Auf der Maur fino al 1967, quando viene venduta al canton Svitto. Tra i resti del castello risalente al XII secolo, spunta il viola dell’Aquilegia atrata e il lilla azzurrato di una campanula. Nel praticello un bombo si posa su una bugola, balza poi da una bugola all’altra. Una struttura leggiadra ben mimetizzata, a forma di torre smilza fatta di assicelle di quercia slavate, è attaccata alla torre antica. È la riuscita rampa di scale, ideata dallo studio di architetti paesaggisti Fischer di Richterswil e lo studio di architettura ARDE di Brunnen che nel 2007 vincono il concorso per ristrutturare tutto quanto sull’isola. Salgo su nella torre, dove da una piattaforma sempre di legno di quercia che invecchia bene rendendosi discreto e sfuggente, si ammira il lago placido. Le mura sono habitat per diverse sassifraghe, scovo del timo selvatico. Ne raccolgo quanto basta per una tisana stasera. Da questa torre, si racconta che una bella fanciulla di nome Gemma si è tuffata nel lago per sfuggire al landfogto che l’aveva rapita ad Arth e imprigionata nel suo
La società connessa di Natascha Fioretti I cambiamenti culturali bisogna volerli Scrive un lettore del quotidiano digitale «Die Republik»: «Apprezzo gli articoli d’insieme capaci di fornire un quadro generale e approfondito. A seguire i media quotidiani non si capisce più dove mettere la testa». Il magazine digitale zurighese senza pubblicità, all’inizio dell’anno rischiava grosso. Se per marzo non si fossero raggiunti i 19’000 abbonati e trovati altri 2,2 milioni di franchi attraverso investitori e donazioni, il giornale avrebbe chiuso. Per la felicità di molte testate tradizionali come la NZZ che ha sempre guardato con scetticismo e pronta alla critica un’iniziativa editoriale che gioca secondo altre regole. Oggi, invece, la testata è più in forma che mai e può contare su 22’969 abbonati e 2’766’859 milioni di franchi in più. La pandemia sembra aver portato fortuna perché soltanto nel mese di marzo sono arrivati 3750 nuovi abbonati confermando
la tendenza generale per cui in questi mesi (c’è da vedere se ora continuerà) è cresciuta l’attenzione per il valore delle notizie e del giornalismo di qualità. Se il modello della testata zurighese è vincente ce lo dirà il tempo, in ogni caso è chiaro che queste iniziative editoriali rappresentano il domani e aprono la strada a un giornalismo digitale indipendente dalla pubblicità. La stessa che oggi tiene in scacco grandi gruppi come TX Group (ex Tamedia) e NZZ che hanno introdotto l’indennità per il lavoro ridotto senza però rinunciare a distribuire i dividendi ai propri azionisti e annunciando imminenti licenziamenti. Un atteggiamento ambiguo che da lettrice non ho apprezzato. Ben venga in quest’ottica il pacchetto di aiuti ai media deciso dal Consiglio federale che include anche la promozione dei media online: «la popolazione si informa sempre di più
attraverso la crescente offerta informativa digitale. Il loro peso democratico e politico cresce. Per sostenere il settore nel processo di trasformazione digitale è tempo che anche i media digitali ricevano un sostegno. Per questo il Consiglio federale si impegna a stanziare ogni anno 30 milioni di franchi. In particolare si sostengono quei media che si fondano sulle entrate provenienti dai lettori». Un incentivo necessario e importante che dovrebbe invitare a lanciare nuovi progetti di cui, a mio avviso, nel nostro Cantone ci sarebbe un forte bisogno. A proposito di opportunità e di cambiamenti c’è l’esperimento digitale appena concluso con successo del Salone del libro di Torino. Un programma, stando ai dati, che ha conquistato la Rete con la partecipazione di cinque milioni di persone, 2’004’459 utenti raggiunti su Facebook, e 2’909’154
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Ambiente e Benessere Prima la sicurezza igienica Covid-19 ha cambiato i criteri di giudizio e ribaltato le gerarchie turistiche
È profumato e decorativo Il Timo, sia quello selvatico, sia quello domestico, è resistente alla siccità e perfetto dunque in vista delle estati sempre più calde
Un’edilizia di nanofossili Le Gole della Breggia vantano strati di maiolica antica 145 milioni di anni
Filetti di pesce profumati Branzino od orata più saporiti se cotti in forno con limone, erbe, aglio, olio d’oliva e olive pagina 24
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Cento chili in meno sono un’altra vita
Medicina operatoria L’intervento bariatrico
è l’opzione chirurgica di reset nella lotta all’obesità
Maria Grazia Buletti «Fin da piccola ho sempre dovuto sottopormi a cure per mantenere il mio peso: diete più disparate, palestra e via dicendo. Da 120 arrivavo a 85 chili e poi mi fermavo malgrado tutti gli sforzi di questo mondo». Natascia, 37 anni, è una donna normopeso ma ci mostra i suoi pantaloni «di prima», il cui girovita pare riuscire a contenere due persone. «Dopo qualche mese di preparazione adeguata, alla fine del 2018 sono stata operata». L’intervento di chirurgia bariatrica ha cambiato radicalmente la sua vita: «Fiducia nel chirurgo, preparazione ad hoc e percorso nel post operatorio con un’alimentazione adeguata, mi hanno permesso di scendere da 124 a 67 chili in circa un anno e mezzo». Sono migliorati tanti aspetti che mai avrebbe associato al peso: «Dormo molto meglio, non sono più sempre affaticata, mi sento più leggera e ho molta più energia di prima. Anche l’atteggiamento degli altri nei miei confronti è radicalmente migliorato». Bojan è un infermiere di 43 anni e ha seguito un percorso simile. Dopo l’intervento ha perso circa cento chili in un anno e mezzo: «Insieme al chirurgo, abbiamo deciso di risolvere il problema del mio sovrappeso permanente, iniziando il percorso di accertamenti e visite mediche che precedono l’operazione vera e propria». Il ricordo di quel giorno di luglio 2018: «Mi sono risvegliato bene, dopo tre giorni ero a casa, potevo fare piccole passeggiate e cominciavano a scendere i primi chili». La sua bilancia è passata da 190 chili a 90: «Scesi 20 chili cambia già tanto, con 40 in meno è un’altra marcia, 100 chili sono un’altra vita». Gli è tornata la voglia di vivere: «Ho sempre lavorato a tempo pieno ma una volta arrivato a casa, prima, ero svogliato, gonfio e affaticato. Oggi faccio ciò che prima i chili in eccesso non mi permettevano di fare, non ho più dolori alle articolazioni, sono migliorati i problemi di ipertensione, basta edemi e acidità di stomaco. Ho energia, più autostima, voglia di uscire e i miei pazienti mi prendono pure ad esempio».
Parliamo di obesità, una «piaga in aumento ogni anno» a livello nazionale e internazionale. La chirurgia bariatrica può rappresentare una valida opzione terapeutica quando questa condizione cronica è difficile da trattare con la semplice dieta associata all’esercizio fisico regolare. «In Svizzera circa il 15 per cento della popolazione è obesa», afferma il dottor Francesco Volonté, responsabile del centro di chirurgia dell’obesità EOC e direttore sanitario della Clinica Sant’Anna di Sorengo. Insieme a un team multidisciplinare di esperti altamente qualificati, fra la Clinica Luganese e l’Ospedale Regionale di Lugano, egli opera i pazienti che necessitano di questo tipo di intervento: «I tipi di operazione più comunemente praticati sono il bypass gastrico e la “sleeve”, scelti in funzione delle caratteristiche individuali del paziente». Non è però la soluzione semplice a tutti i problemi: «Sono fondamentali la storia personale del paziente, il suo equilibrio e la sua profonda motivazione che precedono una preparazione preoperatoria (metabolico-nutrizionale, psichiatrica-comportamentale e dietetica) e il follow up postoperatorio». Un percorso non adatto a chiunque: «Possiamo pensare alla chirurgia bariatrica quando si è provato, senza successo, tutto ciò che è conservativo: dopo almeno un paio d’anni di diversi tentativi seri e concreti che non hanno permesso al BMI di restare al di sotto del valore 35, con effetto yo-yo del peso malgrado il programma di dietetica e di movimento. Bisogna inoltre avere compiuto 18 anni (gli interventi al di sotto della maggiore età sono rarissimi e giustificati solo da gravissime comorbidità)». Emerge il problema metabolico che richiede l’intervento chirurgico: «Perché, rispetto al binomio dietaesercizio fisico, la chirurgia bariatrica innesca una sorta di reset della macchina-corpo e dei meccanismi che la mantengono nell’obesità». È perciò una «prossima tappa» di un lungo percorso: «Un punto nel cammino e non la bacchetta magica». Volonté spiega che nei mesi successivi il paziente riprende le buone abitudini acquisite con risulta-
Il dottor Francesco Volonté con la paziente Natascha. (Stefano Spinelli)
ti evidenti, come abbiamo d’altronde constatato dalle due testimonianze raccolte. Una chirurgia personalizzata e finalizzata al recupero e mantenimento del nuovo peso forma che, come tutte le operazioni, non è priva di qualche minimo rischio: «Oggi, in Europa, ha lo stesso rischio di una colecistectomia, è della durata di un’ora e mezza circa, si esegue in laparoscopia con 3 o 4 buchini , richiede una degenza di 2 o 3 giorni, ma è pur sempre un intervento chirurgico, giustificato però dal fatto che rimanere in classe di obesità è più rischioso dell’intervento stesso». Un fattore di rischio dell’obesità è oggi correlato al Covid-19: «Sappiamo che il Covid-19 non è una malattia polmonare bensì vascolare. Fra le comorbidità, l’obeso presenta quella del sistema circolatorio e perciò diventa
paziente a rischio. Anche se una piccolissima percentuale, inspiegabilmente, non svilupperà nella sua intera vita una sindrome metabolica, né complicanze cardiache o diabete. Dunque, abbiamo visto che, in genere, i pazienti covid obesi e ipertesi sono più a rischio di complicazioni». Durante la riorganizzazione ospedaliera causata dall’emergenza Coronavirus, anche questi interventi si sono dovuti fermare: «Da poco abbiamo iniziato a recuperare e riprogrammare le operazioni dei pazienti con poche comorbidità (BMI discreto) che sappiamo avere un decorso subito favorevole e non necessitano di stazionare in Cure intense. Avevamo dovuto sospendere quelli all’inizio del percorso preoperatorio perché le investigazioni elettive erano pure state sospese nell’attività ospedaliera. La necessità di questo stop
è stata capita e accettata di buon grado, anche perché le persone sono relativamente bene informate, ben comprendono e seguono le nostre indicazioni». In questo momento di ripresa, però, i pazienti tornano nelle strutture sanitarie non senza qualche timore: «Tutti esprimono il dubbio legittimo sulla sicurezza degli ospedali per rapporto al contagio da Covid-19 e sta a noi rassicurarli perché dovunque l’attenzione sanitaria è massima: dal momento che qualcuno è sospetto, o ha problemi respiratori, la filiera è completamente separata e gli ambienti sono pure separati fisicamente». D’altronde, questo virus potrebbe rimanere per più mesi: «Dobbiamo essere in grado di prevedere ogni possibilità e, come stiamo facendo, continuare a prendere a carico in tutta sicurezza i nostri pazienti per più mesi a venire».
Insieme contro il nuovo coronavirus. Informazioni su ufsp-coronavirus.ch
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Ambiente e Benessere
La lunga strada verso casa
Calligrafare il mondo
della prossima estate
letture per viaggiare
Viaggiatori d’Occidente Il virus sta trasformando in profondità le vacanze
Bussole Inviti a
Claudio Visentin «Primo: non sappiamo esattamente quando torneremo a viaggiare; secondo: quando torneremo a viaggiare, il viaggio avrà un aspetto diverso». Con questi due punti Brian Chesky, cofondatore e amministratore delegato di Airbnb, ha aperto una lunga lettera ai suoi dipendenti; per molti di loro conteneva anche l’annuncio del licenziamento. Solo pochi mesi fa Airbnb registrava una crescita esplosiva ed era presa a modello, oggi lotta per sopravvivere. Il suo punto di forza, l’idea di affittare una camera in casa d’altri, d’improvviso ci sembra rischiosa e quasi stravagante dal punto di vista sanitario. Covid-19 ha cambiato i criteri di giudizio e ribaltato le gerarchie turistiche. Per esempio, i villaggi vacanze, e più ampiamente le spiagge, sono molto meno attraenti se non possiamo interagire con le altre persone. Ma forse è ancora più impressionante il caso delle navi da crociera. Sino a pochi mesi fa erano amatissime dal pubblico, specie americano, ora stazionano pigramente al largo dei Caraibi sia perché poco gradite nei porti, sia per ridurre gli elevati costi di esercizio. La «Diamond Princess», trattenuta a lungo nel porto di Yokohama con il suo carico di tremilasettecento persone e il contagio serpeggiante a bordo, è diventata un simbolo, ma quasi tutti i giganti del mare hanno avuto sorti simili.
Solo pochi mesi fa Airbnb registrava una crescita esplosiva ed era presa a modello, oggi lotta per sopravvivere Le agenzie di viaggio, da settant’anni abituate a vendere il mare in tutte le sue declinazioni, almeno per quest’anno guardano in altre direzioni. Il prodotto più richiesto sono ora le case vacanza indipendenti, raggiungibili con la propria auto e magari dotate di una piscina. Da anni il Tour Operator Hotelplan affitta case in tutta Europa attraverso Interhome (www.interhome.ch), organizzazione acquistata nel 1989. Negli ultimi mesi però le richieste dei clienti si sono concentrate sulla Svizzera. E d’improvviso – ma non è una sorpresa – vanno per la maggiore i rustici della Valle di Blenio e della Leventina, così come i Grigioni e il Vallese; duecento-
«Sarà un viaggio ricco di scoperte, dove l’orizzonte si sposta con noi ogni giorno e appare sempre diverso, come quando in viaggio ci mettiamo davvero. La ricerca sembrerà senza fine, la visione dell’inizio si farà progressivamente più complessa. Sarà come aprire una porta e trovare un universo nuovo. A farvi proseguire saranno la sorpresa e la disciplina. Quali che siano le motivazioni o i casi che conducono a esplorare il mondo delle lettere, crediamo che qualcosa accomuni tutte le persone che vi arrivano: la ricerca della bellezza, che trova qui innumerevoli declinazioni; la necessità di esprimersi attraverso un mezzo artistico; il piacere di condividere, di sentirsi parte di una comunità che non ha confini geografici…».
Una delle spese necessarie per queste ferie potrebbe essere la tenda di ultima generazione, leggera e pratica. (Pexels.com)
cinquanta prenotazioni solo in Ticino nelle ultime settimane e prospettive da tutto esaurito nonostante l’aumento dell’offerta. Se tuttavia non avete risorse sufficienti per affittare un’intera casa oppure se volete vacanze più avventurose, applicando le stesse parole d’ordine – solitudine, isolamento, distanza, natura – potreste orientarvi verso i cammini a piedi. Sono comunque una scelta perfetta per tenersi a debita distanza dagli altri e al tempo stesso scoprire il mondo in tutta la sua bellezza. Bisogna solo superare qualche resistenza psicologica. I giornali (anche il nostro) parlano spesso di cammini e trovano molti lettori entusiasti ma poi, con l’eccezione del Cammino di Santiago, i sentieri non sono certo affollati. Chi non ha mai fatto quell’esperienza accarezza a lungo l’idea ma poi al momento di partire esita, schiacciato da dubbi e timori: sarò in grado? Sarà faticoso? Sarà pericoloso? In passato una buona soluzione per i principianti poteva essere un viaggio a piedi di gruppo con un organizzatore
specializzato (per esempio www.cammini.eu) ma naturalmente al momento queste associazioni hanno sospeso le loro attività per prudenza. E tuttavia anche il mare e la montagna hanno i loro problemi: stabilimenti balneari e rifugi saranno in grado di aprire al pubblico in sicurezza? Dunque, proprio questo potrebbe essere l’anno buono per sperimentare un cammino. Alcuni consigli pratici. Scegliete un percorso meno conosciuto. In Italia alla Via Francigena preferite il Cammino di Francesco o il Cammino di San Benedetto. Nel nostro Paese poi – con 65mila chilometri di sentieri segnalati – le possibilità sono infinite. È stato aperto da poco il Sentiero di Leonardo da Vinci (da Lecco a San Bernardino); personalmente mi attraggono anche il Cammino degli Anabattisti nel Giura, la Via Stockalper da Briga a Gondo attraverso il Passo del Sempione, il Sentiero Cristallina da Bignasco (Valle Maggia) ad Airolo in Val Bedretto (tutte le informazioni su www.myswitzerland.com). Se non siete ben allenati, evitate i
percorsi con dislivelli troppo accentuati e ad alta quota. Solitamente sotto ai mille metri i paesaggi sono più vari (boschi di querce, castagni, faggi) e gli uomini hanno lasciato il loro segno tra storia e arte. Lungo gli itinerari meno battuti, contattate una guida specializzata: chiedetele di accompagnarvi per i primi due giorni di cammino, mentre imparate tutti i segreti della strada, e di restare poi facilmente raggiungibile nel caso (improbabile) di un’emergenza. Zaino il più leggero possibile (sotto i dieci chili). Per un’escursionista possono bastare scarpe comode (mai nuove) e abiti confortevoli, anche senza eccessi di tecnica. È poi anche l’anno della tenda (questa sì di ultima generazione, leggera e con accessori essenziali): non solo per praticare il campeggio libero, dove permesso, ma anche per appoggiarvi a strutture come ostelli, rifugi o fattorie, utilizzando i loro servizi, in caso di distanziamento e altre limitazioni nell’uso degli spazi a causa del virus. Soprattutto non esitate. Affidatevi con fiducia alla strada e alla sua saggezza.
Sara Pellicoro ha spesso raccontato su queste pagine i suoi viaggi attraverso eleganti tavole, dove combina la scrittura e il disegno. Dopotutto, ogni viaggiatore legge il mondo, decifra i segni della natura nel paesaggio e li distingue da quelli lasciati dalle diverse generazioni di uomini, li interpreta e li riproduce sulle pagine del suo taccuino. Negli ultimi anni si è risvegliato con forza l’interesse per la calligrafia, troppo a lungo considerata un residuo del passato. Perché non si scrive solo sulla carta, nella quiete di una stanza; si grida la propria protesta con un graffito sul muro, si decorano le insegne dei negozi sudamericani, si scrive su cartelli, automezzi, edifici, vetrine. In questo suo viaggio nell’affascinante mondo della calligrafia, Sara Pellicoro si è fatta accompagnare da alcuni dei maggiori calligrafi contemporanei, con una bella varietà di voci. Infine, gli ultimi capitoli offrono anche insegnamenti concreti, informazioni sugli strumenti necessari ed esercizi pratici. / CV Bibliografia
Elena e Sara Pellicoro, Calligrafia. La via della scrittura, Altrimedia, 2020, pp. 160, € 30.–.
Strategie ottimali
Giochi di parole Ne ha una ogni gioco di competizione a due, che non preveda mosse nascoste o affidate al caso
e nemmeno un risultato finale di parità
più complessi (come Scacchi, Dama, Go, eccetera), non è stata ancora trovata una strategia ottimale, neanche ricorrendo a sofisticate tecniche informatiche. In ogni caso, lo studio delle strategie ottimali costituisce un ottimo esercizio per affinare le proprie capacità logiche. Analizziamo, ad esempio, questo semplice gioco di strategia, per due giocatori (denominato Spaccacento). – Il primo giocatore dà inizio al gioco pronunciando un numero intero compreso tra «1» e «10». – Al proprio turno, ognuno dei due giocatori deve pronunciare un altro numero intero che superi, per un valore compreso tra 1 e 10, quello appena detto dall’avversario. – Vince il primo dei due giocatori che è in grado di dichiarare: «100».
Soluzione
Un teorema della Teoria dei Giochi, dovuto a Morgestern e Von Neumann, sostiene l’esistenza teorica di una strategia ottimale per ogni gioco di competizione a due che, come gli scacchi, non preveda mosse nascoste o affidate al caso e termini sempre con un preciso risultato. In particolare, se un gioco di tale tipo (che viene detto determinato) non prevede un risultato finale di parità, la strategia ottimale è vincente per uno solo dei due giocatori. La garanzia dell’esistenza di una tale strategia non aggiunge però alcuna informazione, né sulla sua struttura, né su quale dei due giocatori favorisce. Per poter applicare, in pratica, una strategia vincente bisogna essere in grado di
riconoscere quali configurazioni, ottenibili nel corso di una partita, debbano considerarsi vincenti e quali perdenti, secondo le seguenti definizioni: – una configurazione è detta vincente per il giocatore a cui tocca muovere, se determina la sua vittoria immediata o se gli consente di poter compiere almeno una mossa che generi una configurazione perdente per il proprio avversario; – una configurazione è detta perdente per il giocatore a cui tocca muovere, se determina la sua sconfitta immediata o se gli consente di compiere solo mosse che generano configurazioni vincenti per il proprio avversario. È possibile ricavare delle strategie ottimali complete solo se i giochi presi in considerazione sono relativamente semplici. Per la quasi totalità dei giochi
Non è difficile rendersi conto che chi riesce a dire: «89» per primo vince, perché pone l’avversario in una configurazione perdente. Infatti, ognuno dei numeri che questo ha la facoltà di dichiarare («90», «91», «92», ... «98», «99»), offre all’altro l’opportunità di arrivare immediatamente a 100. Il numero «89», quindi, diventa un traguardo da raggiungere, analogo a «100». Siccome: 100–89 = 11, se ne deduce che, per essere sicuri di poter annunciare «89» per primi, bisogna pronunciare il numero che precede «89» di 11 unità, ovvero: 89–11 = 78. Procedendo in questo modo a ritroso, si possono individuare tutte le configurazioni perdenti per l’avversario, sottraendo 11, di volta in volta: «89», «78», «67», «56», «45», «34», «23», «12», «1». Di conseguenza, per potere impostare una strategia vincente, il primo giocatore deve dire: «1», come primo numero; successivamente, deve aggiungere al numero detto dall’avversario un valore tale che gli consenta di ottenere, uno dopo l’altro, i numeri: «12», «23»,«34», «45», «56», «67», «78», «89» e (naturalmente…) «100». Nota – Questi numeri vincenti possono essere memorizzati facilmente tenendo conto che, tranne gli estremi 1 e 100, sono tutti composti da due cifre di valore contiguo, disposte in ordine crescente.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Ambiente e Benessere
Le mille qualità del timo
Mondoverde Non solo per scopi enologici, farmaceutici o attività casearie, ma anche quale piantina
decorativa e profumata
Anita Negretti Utilizzato molto spesso in cucina o coltivato per avere bassi cespugli profumati, Thymus vulgaris appartiene alla famiglia delle Lamiaceae ed è originario del Mediterraneo. Si tratta di una piantina perenne che raggiunge un’altezza pari a 25-30 centimetri, sviluppando un fusto ben ramificato.
Il timo predilige i terreni sciolti e ben drenati esposti a pieno sole, e si adegua pure bene ai suoli poveri e sassosi Le sue foglie, prive di picciolo, sono tra di loro opposte e dalla forma ellittico lanceolata, mentre i fiori sono bianco rosati. Questi ultimo sbocciano da maggio e per tutta l’estate. Oltre al piacevole profumo rilasciato dalle sue foglioline, se sfregate tra le dita, ha anche la capacità di tenere lontani i parassiti che solitamente attaccano gli ortaggi negli orti. Per averne una prova concreta, basterà piantare un timo accanto a dei cavoli: l’intenso aroma del primo terrà a distanza la farfalla cavolaia dai secondi. Il timo trova largo uso anche in erboristeria, nell’industria conserviera, farmaceutica, casearia e anche enologica, ma non occorre per forza avere uno
Un cuscino di Thymus serpyllum. (Galliano)
scopo per metterlo a dimora nel nostro giardino: possiamo coltivarlo anche solo per il piacere di veder crescere le piccole foglioline verdi o variegate ai bordi delle aiuole, o in un vaso sul terrazzo. Il timo predilige una buona esposizione al pieno sole, con terreni sciolti e ben drenati, ma molto bene sa altret-
tanto adeguarsi a quei suoli poveri e sassosi. Detto questo, resta che non disdegna una buona concimazione organica primaverile. È resistente alla siccità e dopo la fioritura è opportuno cimarlo per mantenere la forma a cuscinetto tipica del timo. Molte sono le varietà coltivabili, come Thymus vulgaris «Faustini», dal
profumo intenso e carico di fiori violetti, che quando sbocciano tutti insieme sembrano un fitto tappeto e che ben si accompagna a T. «Silver Queen», che presenta foglioline variegate di bianco, dal fresco sapore di limone. Della stessa fragranza anche T. vulgaris x citriodorus. Se invece preferite abbinarle se-
guendo o comunque privilegiando una selezione cromatica, ad esempio diversificando le varietà secondo il colore delle foglie, o se volete garantirvi la loro persistenza anche in autunno-inverno, cercate nei vivai T. «Doone Valley», una varietà con foglioline apicali giallo oro, oppure optate per una T. vulgaris «Chateau Chèribus» che è di un bel verde intenso e produce fiori di color rosa- violetto. Utilizzate T. «Silver Posie» invece se cercate una piantina dalle piccole foglie tonde o T. vulgaris «Compactus» alto solo una quindicina di centimetri, per sistemarlo come tappezzante nei giardini rocciosi o sui muretti a secco, così da generare un effetto scenografico garantito. Vi è anche un timo in grado di crescere spontaneamente nei prati, si tratta di Thymus serpyllum o pepolino, pipernia oppure semplicemente timo selvatico. Questa specie ha un portamento strisciante, e ostenta con coraggio piccole foglie verde scuro e fiori rosati in tarda primavera. Le sue varietà, come T. serpyllum «Albus» a fiori bianchi o «Coccineus» a fiori rossi sono molto utilizzate come tappezzanti tra le piante dei camminamenti. Le varie piante di timo si moltiplicano tramite la semina in questo periodo, cioè a maggio, utilizzando un terriccio molto sabbioso, oppure per talea tra maggio e giugno o, ancora, praticando la divisione dei cespi già ben sviluppati a primavera o in autunno. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere I resti del cementificio Saceba e la parete della cava di Maiolica, all’imbocco delle Gole della Breggia. (R. Stockar)
Di Maiolica e «Livello Faraoni» Geologia Estratta fino agli anni Ottanta per produrre cemento, la roccia delle Gole della Breggia
conserva l’impronta di una crisi climatica globale, avvenuta 131 milioni di anni or sono Rudolf Stockar «Un paesaggio di gusto leonardesco, dove l’orrore si temperava in un senso di favola: frane, burroni, boschi, un mulino, orizzonti improvvisamente chiusi, mitici». Così, nel 1965, Pio Fontana descriveva le Gole della Breggia, affondate nel Mendrisiotto della sua giovinezza. Lo ricorda Alberto Nessi in apertura del libro Il cementificio del parco – Storia della Saceba e della riqualifica territoriale realizzata dopo la sua chiusura, pubblicato nel 2012 per le Edizione Casagrande. All’apice di una pianura dall’anacronistico toponimo «Molini», i resti del cementificio Saceba sono oggi archeologia industriale mentre i calcari della vecchia cava di Maiolica si stagliano verso il cielo, austeri testimoni di un paesaggio amputato. Il «Biancone», infatti, non costringe più la valle «in gola scoscesa lasciando il passo al solo torrente», come annotava Luigi Lavizzari nel 1850. Oggi, le gole esordiscono 150 metri più a monte, nella formazione del Rosso ad Aptici, più antica e sopravvissuta poiché inutile alla produzione di cemento. L’anfiteatro della cava ha foraggiato il boom edilizio del Ticino, al ritmo di 150mila tonnellate di cemento l’anno, prodotte tra il 1963 e il 1980 aggiungendo l’argilla della formazione della Scaglia al carbonato di calcio della Maiolica. La parete di Maiolica ha però un significato che supera il valore del minerale che la compone. «Maiolica» è un termine usato dai cavatori lombardi per definire un calcare fine, bianco, dalla frattura liscia e curva come la superficie di una conchiglia. Esordisce in letteratura 200 anni or sono, quando Giovanni Maironi da Ponte nel suo Dizionario Odeporico della Provincia Bergamasca (1819) nota ad Almenno presso Bergamo «una cava di marmo bianco chiamato Maiolica, il quale è molto pregiato e atto a essere impiegato ne’ più fini lavori». Il suo candore è una presenza ricorrente sui rilievi estesi dalle Alpi
all’Himalaya. Riflette, infatti, la natura oceanica dell’antica Tetide, culla di quelle catene montuose, e dei diversi bacini che la componevano. Alcuni di questi vecchi mari sono poi divenuti giovani montagne, come il Generoso. Altri, al contrario continuano a espandersi, come l’Oceano Atlantico Centrale, conservando nei fondali sedimenti analoghi a quelli delle Gole della Breggia. Gli strati di Maiolica dell’ex cava Saceba raggiungono uno spessore di 130 metri e si sono depositati tra 145 e 125 milioni di anni or sono, all’alba del Cretaceo, periodo geologico che, dal latino creta, deve il nome proprio alla diffusione globale di un calcare bianco a grana fine. I francesi lo chiamano craie, i tedeschi Kreide, gli inglesi chalk, facendone una vera e propria icona. Le bianche scogliere di Dover, alte oltre cento metri, sono, infatti, cornice a drammi di Shakespeare che, nel Riccardo II, celebra proprio «this precious stone set in the silver sea». La Maiolica ha origine analoga, legata alla diffusione esplosiva di un plancton calcareo dai connotati moderni. È composto di minuscole alghe unicellulari, i coccolitoforidi, rivestite
da ancor più minuscoli scudi di carbonato di calcio detti coccoliti. Negli oceani attuali possono riprodursi fino a quattro volte al giorno arrivando facilmente a 100mila individui per litro d’acqua e generando fioriture lattiginose visibili dallo spazio. Alla loro morte, la corazza si disgrega in singoli coccoliti che ammantano il fondale marino di un fango impalpabile. Hanno, infatti, dimensioni di pochi millesimi di millimetri, tanto da definirli nannofossili, e il loro studio è iniziato grazie all’introduzione del microscopio elettronico, una cinquantina di anni fa. Un cubetto di Maiolica grande come un dado da gioco è composto facilmente da milioni di coccoliti e altri nannofossili, forse affini ma di cui mancano controparti attuali. La formazione delle Alpi ha inclinato gli strati di 50° verso sud, permettendo di attraversare cronologicamente tutta la successione lungo il piede della parete di cava, nel verso della corrente del fiume. Un vero e proprio archivio della storia del nostro pianeta, lungo 20 milioni di anni e scandito al ritmo di 6 mm ogni 1000 anni. Un archivio la cui lettura è quanto mai di attualità. A più riprese, l’atmosfera
Argille nere del Livello Faraoni intercalate nei calcari bianchi della Maiolica. Ex cava Saceba. (R. Stockar)
cretacea fu, infatti, alterata da massicce emissioni di CO2 e conseguenti periodi segnati da effetto serra, riscaldamento globale, fusione completa dei ghiacci polari e innalzamento del livello marino di 200 metri rispetto a oggi. La diffusione dei coccolitoforidi fu anche una risposta a quelle crisi climatiche: aggiungendo alla CO2 un po’ del calcio disciolto nell’acqua marina, le microscopiche alghe hanno prodotto quegli scudi di carbonato di calcio (CaCO3) che ricoprivano la loro cellula e, una volta depositati sul fondale e poi trasformati in roccia, riempirono infine i sacchi di cemento della Saceba. Dobbiamo pertanto al plancton di un oceano di 140 milioni di anni or sono il carbonato di calcio che ha sostenuto il boom edilizio del nostro cantone. Sono tuttavia alcuni strati di argilla nera, spessi pochi centimetri e intercalati negli ultimi 20 metri dei calcari bianchi della Maiolica, che dovrebbero farci riflettere. E preoccupare. Nel 2002, gli studiosi dell’Università di Milano hanno correlato tre di essi al cosiddetto «Livello Faraoni» dell’Appennino Umbro-Marchigiano, dove fu individuato da Paolo Faraoni per poi essere pubblicato nel 1994. Risale a 131 milioni di anni or sono ed è l’espressione del primo di una serie di sette «Eventi Anossici Oceanici» avvenuti nel Cretaceo. Si tratta di episodi legati a mancanza di ossigenazione sui fondali marini (anossia, appunto) e registrati dai sedimenti a scala globale. Esprimono picchi di emissione di gas serra, a loro volta causa di un riscaldamento globale con condizioni tropicali estese fino alle nostre latitudini e temperate fino ai poli. Il livellamento termico tra acque marine tropicali e polari frenò la circolazione oceanica provocando una stagnazione sui fondali, con accumulo della sostanza organica prodotta in un clima caldo e umido. Nel corso del Cretaceo, in soli 30 milioni di anni si formò così la metà dei giacimenti di idrocarburi noti oggi, inclusi quelli del Golfo Persico e del Golfo del Messico. Le argille nere del Livello Fara-
oni della Breggia contengono fino al 12 per cento di carbonio organico, in parte derivato da resti vegetali di terraferma, in parte dal plancton marino. La sua formazione è conseguenza delle estese eruzioni laviche del Plateau del Paraná-Etendeka: si tratta di una colata basaltica estesa quanto 40 volte la Svizzera e oggi frammentata tra Sudamerica e Africa dalla successiva apertura dell’Oceano Atlantico. Iniziata 134 milioni di anni or sono, l’eruzione iniettò in atmosfera enormi quantità di CO2 e altri gas serra, raggiungendo l’acme proprio 131 milioni di anni or sono, in concomitanza col Livello Faraoni. Quest’ultimo, immobilizzando la sostanza organica in fondo al mare, in pratica seppellì la CO2 presente in eccesso, ristabilendo così condizioni climatiche «normali», testimoniate dalla rinnovata formazione di strati bianchi di Maiolica. Bruciando gli idrocarburi estratti da rocce di questo tipo liberiamo quella CO2 cretacea iniettandola di nuovo in atmosfera, questa volta nel giro di pochi decenni anziché di milioni di anni. Potremmo confidare che di nuovo la CO2 sia usata da vegetali terrestri e plancton producendo una sostanza organica che di nuovo finisca immobilizzata sui fondali in conseguenza di un imminente Evento Anossico Oceanico. Dovremmo tuttavia chiederci quanto tempo sia stato necessario alla Terra per uscire da simili crisi climatiche, una volta innescate. La risposta è nelle moderne datazioni degli strati neri del Livello Faraoni. In quel caso, almeno 100mila anni. Ben di più, da 600mila a un milione, per gli altri sei Eventi Anossici del Cretaceo. Informazioni utili
La Maiolica è descritta dai geostop 11-13 del sentiero geologico del Parco delle Gole della Breggia, che offre anche il «Percorso del cemento» comprendente l’eventuale entrata nelle gallerie di estrazione. www.parcobreggia.ch
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
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Ambiente e Benessere
Ticino, terra di ciclisti?
Sport Un tempo sì. Oggi sulle nostre strade vediamo sfrecciare molti campioni che hanno scelto
il nostro Cantone come terra di adozione Giancarlo Dionisio «Siamo stati sgridati dalla polizia come degli scolaretti perché giravamo in bicicletta in quattro o cinque, molto vicini». A raccontare l’episodio, accaduto poche settimane fa in pieno lockdown, è Vincenzo Nibali. Per chi non segue da vicino le vicende del ciclismo, ricordiamo che il corridore messinese, lo «Squalo dello Stretto», vive da anni nel Sottoceneri. Dapprima a Lugano, da un po’ di tempo nel comune di Collina d’Oro. Vincenzo è una delle star dell’ultimo decennio. Uno dei rari fenomeni capaci di addomesticare tutte e tre le grandi corse a tappe, Giro d’Italia,Tour de France e Vuelta di Spagna. Inoltre, si è messo in bacheca anche due Classiche Monumento come la Milano Sanremo e il Giro di Lombardia. Insomma, avrebbe di che tirarsela. Ma non è da lui. Salvo qualche rarissimo e comprensibile screzio in corsa, vedi ad esempio la «querelle» con lo sloveno Primož Roglič al Giro dello scorso anno, ha sempre saputo mantenere quel suo carattere timidamente gioviale di ragazzo rispettoso di tutto e di tutti. In primo luogo, rispetto per la Svizzera, la terra che ha scelto per viverci con la famiglia, dopo che dalla sua Sicilia si era dapprima spostato in Toscana per formarsi come ciclista. Perché la Svizzera? Le ragioni sono molteplici, non da ultimo la pressione fiscale, molto più lieve rispetto a quella italiana. Ma anche per la possibilità di vivere un’esistenza lontano dai riflettori. Quanti cicloamatori hanno
incontrato Vincenzo sulle strade della Capriasca, del Malcantone o del Mendrisiotto? Moltissimi. Fra questi, molti lo hanno senza dubbio riconosciuto. Ma solo una microscopica minoranza si è permessa di fermarlo per un autografo, un selfie o due parole. Non è un caso che il nostro cantone abbia ospitato in passato, nella massima discrezione, campionissimi come Óscar Freire Góme e Alberto Contador, i quali a fine carriera hanno tuttavia preferito tornare al sole della loro bella Spagna. Oppure Cadel Lee Evans, che, una volta sceso di sella, ha invece deciso di non prendere il volo per la sua Tasmania, ma di rimanere a Stabio, a poche centinaia di metri dal traguardo che nel 2009 lo aveva laureato Campione del Mondo. A tutt’oggi, se potessimo naturalizzare i corridori italiani che abitano in Ticino, la Svizzera diventerebbe una delle nazioni più forti del ciclismo mondiale. Oltre a Vincenzo Nibali, fra gli altri, hanno varcato la dogana Fabio Aru, Diego Ulissi, Alberto Bettiol, Domenico Pozzovivo ed Enrico Gasparotto. La loro presenza colma un vuoto. Negli anni Ottanta il Ticino offriva al circuito professionistico una decina di buoni corridori. Con l’uscita di scena della generazione Calcagni, Zucconi, Bertogliatti, siamo rimasti a secco. Le ragioni? Sono assai complesse e potrebbero essere oggetto di una nostra prossima incursione. Dei numerosi ciclisti ospiti, solo Gasparotto ha effettuato il cambio di casacca. Dallo scorso anno è cittadino svizzero e in settembre, pande-
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Enrico Gasparotto (sn) e Danilo Wyss, della squadra svizzera di ciclismo. (Keystone)
mia permettendo, potrebbe fungere da «Capitaine de Route» in maglia rossocrociata, nel Mondiale di AigleMartigny. Chi attualmente vive e si allena in Svizzera potrebbe ripartire con qualche vantaggio rispetto ai colleghi dell’Europa centrale e meridionale. Nibali stesso lo ha riconosciuto. «In fondo il mio programma non è stato molto diverso rispetto alle scorse stagioni. Quando è scoppiata la pandemia ho fatto uno stacco di una settimana in cui mi sono limitato a pedalare in casa sui rulli. Poi ho cominciato a uscire da solo, mentre i miei colleghi che vivono in altre nazioni erano confinati in casa». Con il progressivo allentamento
delle misure di protezione si è dapprima aggregato Alberto Bettiol. Il vincitore del Giro delle Fiandre 2019 vive da poco tempo a Canobbio. Ha quindi approfittato della conoscenza del territorio maturata in questi anni da Vincenzo Nibali. Infine, a poco a poco, si sono agganciati anche alcuni degli altri. Ed è proprio in occasione di un’uscita collettiva che l’allegra brigata è stata fermata e redarguita da una pattuglia della polizia. «Eravamo in cinque – racconta Vincenzo – Hanno capito che eravamo dei professionisti che si stavano allenando, e si sono limitati a raccomandarci un po’ più di prudenza nel mantenere le distanze». Ma, in definitiva, a che cosa servirà
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essere meglio allenati dei colleghi italiani, francesi, tedeschi e inglesi? Tutte le corse del World Tour sono state messe in naftalina. Teoricamente la ripartenza è prevista per il 1. di agosto con la neoclassica Strade Bianche, seguita sette giorni più tardi dalla Milano-Sanremo. Giro di Polonia e Criterium del Delfinato saranno l’antipasto del piatto forte, il Tour de France. Dopo i mondiali in Svizzera, dal 20 al 27 settembre, Giro d’Italia e Vuelta di Spagna saranno sovrapposti alle classiche non disputate in primavera. Dovranno quindi sgomitare con Liegi, Amstel, Roubaix, e Lombardia per tentare di accaparrarsi, se non un «parterre de roi», perlomeno un «parterre de prince». I corridori si rendono conto che non sarà facile ripartire. Tutto cambia, dal punto di vista tecnico, meteorologico e mentale. Si ha la sensazione che la pandemia si porterà appresso strascichi d’una pesantezza disarmante. Ce la faranno i corridori a mantenere alta la guardia, e a continuare ad allenarsi in questo clima di incertezza e di disorientamento? Riusciranno le squadre ad ossequiare i loro impegni finanziari? E gli organizzatori? Qualcuno rischia di soccombere. Vincenzo Nibali e amici, sia pure con qualche comprensibile preoccupazione, guardano avanti e continuano a pedalare sulle nostre strade, con la speranza che anche il prossimo poliziotto che li fermerà, sia un indulgente appassionato di ciclismo che, invece di affibbiare loro una multa, si limiti a richiedere un selfie.
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regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
OrIZZONTALI 1. Sperimentare qualcosa 7. Automa 8. Prodi 9. Sei romani 10. Aggettivo possessivo 11. Reparto d’Investigazione Scientifica 12. Una mezza idea 13. Schiacciati quelli dei pechinesi 14. L’attore Selleck 17. Vi tramonta il sole 19. Lo è La Marsigliese 21. Un pezzo per... uno 23. Preposizione francese 24. Si subisce 26. Termine di diminutivi maschili plurali 28. Pianta grassa usata in erboristeria 29. Privazioni, patimenti VErTICALI 1. Li ottengono i migliori 2. Bagnato di rugiada 3. Strumento a fiato 4. Tu e lui 5. Le iniziali della cantante Tatangelo 6. Campi mitologici dell’oltretomba 9. Guardato 11. Una lingua 13. Tristi, malinconiche 14. Torna... se ora non c’è 15. Un quinto di five 16. Si smuovono insieme ai mari 18. Il «battesimo» della nave 19. Particella atomica 20. Andata in disuso 22. Il letto dei wagons 25. Due gocce d’olio... 27. La domenica su Rai uno... Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
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Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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Soluzione della settimana precedente
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Politica e Economia Putin in calo La Russia, Mosca in particolare, conquista il 2. posto nella graduatoria dei paesi più colpiti dal Covid-19
roma e il Lazio: 5. parte La lotta al virus si mescola alle prossime elezioni comunali. Il M5S vorrebbe ricandidare la Raggi a sindaco di Roma, forte della buona tenuta regionale nei confronti della pandemia
Salvataggio riuscito L’economia svizzera è ripartita, pur fra difficoltà e incertezze, dimostrando l’efficacia delle misure varate dal Governo
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Il Sud paga doppio La crisi mondiale provocata dal Coronavirus colpisce doppiamente i Paesi poveri: si riducono drasticamente anche le rimesse degli emigranti
Cosa verrà dopo la globalizzazione?
Scenari La pandemia da Covid-19 impone un ripensamento delle regole globali che hanno tenuto fino ad ora Lucio Caracciolo Il bersaglio preferito del Covid-19 è la cosiddetta globalizzazione. Termine volutamente ambiguo. Usato infatti nei modi più diversi. In geopolitica, è sinonimo di americanizzazione. Ovvero dell’informale quanto potente impero americano, basato sull’interdipendenza economica e finanziaria fra i paesi del mondo che contano, sulla base di regole, controlli e deterrenza a stelle e strisce. Un sistema che dalla fine della Guerra fredda fino ai primi anni del secolo è stato accettato dalla gran parte dei paesi, Cina e Russia comprese. Fin quando, con la crisi finanziaria scoppiata nella pancia di Wall Street nel 2008 e diventata crisi economica e sociale globale, quell’equilibrio ha cominciato a mostrare la corda. Oggi gli Stati Uniti restano di gran lunga la principale potenza militare, ma la loro egemonia globale è sotto stress. Soprattutto a causa della sfida con la Cina.
Il virus che sta provocando centinaia di migliaia di morti nel mondo infierisce in modo specialmente doloroso sugli Stati Uniti, anche a causa dell’inefficienza del sistema sanitario e politico americano. Il presidente Trump ha a lungo cercato di allontanare da sé questo tema troppo stridente rispetto alla narrazione trionfalistica che gli è propria. Non è più possibile. Anzi, il boomerang del Covid-19 rischia di impedirgli la rielezione alla Casa Bianca. Ad oggi, con gli Stati Uniti in recessione e forse presto in depressione, con decine di milioni di disoccupati e settori rilevanti dell’economia in stallo, solo la debolezza dello sfidante, «Sleepy Joe» Biden, può consentire a Trump di sperare nella rielezione. Ma in gioco è molto più della poltrona di presidente degli Stati Uniti. Il fatto che questa epidemia abbia colpito e quasi spezzato la rete dei trasporti e dei commerci mondiali significa un colpo al cuore della globalizzazione così come l’abbiamo intesa. Per ripren-
dere un certo grado di interdipendenza ci vorranno anni e probabilmente nuove regole del gioco. Alla ridefinizione di queste regole parteciperanno, con gli Stati Uniti, anche la Cina, la Russia, il Giappone e alcune potenze europee, tra cui Francia e Germania. Ma di qui a tanto cambio di paradigma passerà ancora molto tempo, perché siamo solo alle prime luci dell’alba della fase iniziata a febbraio con l’emersione della minaccia epidemica fino ad allora nascosta o sottovalutata. Una delle poste in gioco in questo periodo è l’attribuzione delle responsabilità. Di chi è la «colpa» di questa crisi? È chiaro che i riflettori sono puntati sulla Cina, dove per quanto sappiamo il Covid-19 si è generato. Pechino risponde profittando del fatto di aver superato la prima fase dell’emergenza prima degli altri e offrendosi come sostegno per i paesi in difficoltà, distribuendo finanziamenti e aiuti. Ma negli Stati Uniti e in altri paesi si moltiplicano le richieste di risarcimento alla Cina
per i danni subiti. L’impatto di queste attività giuridiche, al di là dell’esito specifico delle richieste di rimborso, sarà sicuramente incisivo. Il fatto di essere sotto accusa per non aver saputo prevenire l’epidemia, avendo alle spalle casi meno eclatanti ma altrettanto rivelatori di problemi sanitari di base (caso Sars), contribuisce a rendere meno credibile la retorica cinese nel mondo. Allo stesso tempo, la prestazione piuttosto imbarazzante degli Stati Uniti e la loro incapacità – non volontà – di offrirsi come riferimento e sostegno anche solo ai paesi amici e alleati non è fattore trascurabile. Oggi più che mai lo slogan trumpiano «America First» sembra tradursi in un «America Alone» non adeguato al formato e alle ambizioni di una superpotenza che si vuole egemone planetaria. Si è anche evidenziata in questi mesi l’inefficacia degli europei, o meglio il loro considerarsi interni a una partita a somma zero. L’Unione Eu-
ropea è una sigla che copre una realtà perfettamente opposta. Disunione, anzi competizione in cui non ci si risparmiano colpi bassi fra paesi formalmente impegnati nella cosiddetta «integrazione», in un impalpabile «progetto europeo». Ad oggi è la Germania il paese che esce meno peggio dall’emergenza, per aver saputo calibrare il difficile equilibrio fra protezione della salute dei cittadini e salvaguardia dell’economia e delle strutture sociali. La Francia ha cercato di contenere la centralità tedesca ricorrendo alla vecchia tattica che consiste nel controbilanciare il fronte germanico – esteso alla Mitteleuropa, Italia settentrionale inclusa – con un’improbabile famiglia «mediterranea» imperniata anche su Italia e Spagna. Ne è scaturito più caos che sostanza. Dei famosi fondi europei si è visto solo il nome. Motivo di più per considerare improbabile che anche i più rilevanti Stati europei possano giocare un ruolo determinante nella revisione delle regole globali.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 25 maggio 2020 • N. 22
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Politica e Economia
Putin nei guai
Fra i libri
russia Festeggia 20 anni di potere fra crisi economica, uscita dal lockdown al picco
AFP
dell’epidemia, polemiche sul numero delle vittime, proteste dei medici e aiuti che arrivano da Trump e da Xi
Anna Zafesova Vladimir Putin ha celebrato i vent’anni dalla sua prima investitura ufficiale a presidente in lockdown, isolato nella sua dacia di Novo-Ogariovo, mentre la Russia conquistava il secondo posto nella graduatoria mondiale dei Paesi più colpiti dall’epidemia di Covid-19. Il suo nuovo premier Mikhail Mishustin è ricoverato, come anche il suo portavoce Dmitry Peskov e diversi altri ministri e deputati, oligarchi e star dello spettacolo. In Russia, il Coronavirus ha colpito soprattutto i ricchi e famosi: è una malattia d’importazione, i primi pazienti certificati erano scesi da aerei provenienti dall’Italia, e la città in assoluto più colpita è la globalizzata Mosca. Ma il contagio si è espanso ormai per tutta la Russia, e in sette regioni la situazione resta particolarmente grave, anche se il leader del Cremlino ha revocato dal 12 maggio le «settimane non lavorative», l’eufemismo utilizzato in Russia per il lockdown, che resta comunque in vigore a discrezione dei governatori. È una tempesta perfetta, quella che ha investito la Russia, nell’emergenza del Coronavirus che si è sovrapposta al crollo del prezzo del petrolio – principale risorsa di esportazione russa insieme al gas – e alla crisi politica alla quale Putin aveva intenzione di rimediare con il referendum sugli emendamenti costituzionali che gli avrebbe dovuto permettere di farsi rieleggere per altri due mandati, fino al 2036. Il voto avrebbe dovuto tenersi il 22 aprile, e il desiderio di arrivare al plebiscito è stato uno dei motivi per cui Putin ha ordinato ai russi di restare a casa soltanto il 25 marzo scorso, molto più tardi di altri Paesi colpiti dall’epidemia, abolendo il voto. Solo grazie
al decisionismo del sindaco di Mosca Sergey Sobianin l’autoisolamento nella capitale da volontario è diventato obbligatorio, con però eccessi polizieschi come multe a pioggia per chi portava fuori i cani e una ressa in metropolitana il 15 aprile, quando si sono formate code chilometriche di passeggeri in attesa di farsi controllare i pass digitali rilasciati dal comune da poliziotti molto «analogici». Due settimane dopo, i contagi sono schizzati in alto.
La gestione della crisi è stata in buona parte delegata dal Cremlino ai governatori e ai sindaci, in una sorta di neofederalismo inedito, un’inversione di tendenza dopo due decenni di progressivo accentramento Il costo di una quarantena nazionale però si è rivelato troppo alto, e a metà maggio la Russia ha di fatto iniziato a uscire dalle misure di contenimento mentre il picco dell’epidemia non era stato ancora raggiunto, anche se a Mosca le mascherine, i guanti e i permessi per uscire di casa restano obbligatori. Mosca e la regione circostante, Pietroburgo e la terza città russa, Nizhnij Novgorod, sono le più colpite, ma anche nel Caucaso ci sono focolai importanti. La gestione dell’epidemia è stata in buona parte delegata dal Cremlino ai governatori e ai sindaci, in una sorta di neofederalismo inedito, un’inversione di tendenza dopo due decenni
di progressivo accentramento. Ma le proteste dei medici – che lamentano l’assenza di dispositivi di sicurezza e il mancato pagamento dei supplementi salariali promessi da Putin a chi sta combattendo l’epidemia – sono sempre più numerose, e dirette al presidente, che nelle videoconferenze con il governo rimprovera i suoi burocrati e licenzia primari nel tentativo di spostare il peso della crisi sui responsabili locali. I tagli degli ultimi anni per la «ottimizzazione» della sanità, insieme con l’aumento delle spese militari e le sanzioni russe contro farmaci e apparecchiature mediche di produzione occidentali, hanno prodotto un disastro annunciato. Decine di ospedali sono diventati focolaio di contagio e centinaia di medici sono morti. Nei certificati di morte però figurano cause di decesso non collegate al Coronavirus, per non dover pagare la cospicua compensazione di circa 35 mila euro promessa da Putin alle famiglie degli operatori sanitari caduti sul fronte della lotta all’epidemia. Il numero delle vittime resta «inferiore di 7,5 volte alla media mondiale, siamo invidiati da altri Paesi», si vanta la vicepremier responsabile del welfare Tatiana Golikova. Ma un’inchiesta della testata indipendente «Meduza» afferma che i responsabili della Sanità, federali e locali, hanno ordinato agli ospedali di non mettere come causa di morte il Covid-19, ma altre malattie oppure «polmonite extraospedaliera» senza causa specifica. Una tattica che segue la linea della propaganda ufficiale delle prime settimane della diffusione del virus, che tendeva a sminuirne la pericolosità e l’impatto. Il risultato è che appena poco più della metà dei russi sono con-
vinti che il Coronavirus sia un pericolo reale, e l’osservazione delle regole del lockdown è stata all’inizio molto a macchia di leopardo, con numerose chiese che non hanno chiuso le porte a Pasqua, nonostante la richiesta del patriarca Kirill: oggi, il clero ortodosso moscovita è tra le categorie più colpite dai contagi, e diversi vescovi e abati di monasteri importanti hanno pagato le aperture con la vita. Numerosi i contagi anche tra i militari, impegnati a migliaia nelle esercitazioni per la parata della vittoria sul nazismo, che il presidente ha cancellato soltanto dopo le pressioni dell’opinione pubblica. Focolai di Coronavirus sono nati anche tra gli operai dei giacimenti di gas nell’Artico, e delle miniere d’oro in Siberia. Una crisi sanitaria, economica e sociale che non poteva non diventare anche politica, soprattutto in un sistema abituato a incentrare tutta la responsabilità – e gli eventuali successi – su un’unica persona. La gestione indecisa e tardiva dell’epidemia da parte del Cremlino ha deluso molti russi, e il tentativo di Putin di approfittare dell’emergenza per mosse diplomatiche come l’invio di aiuti e medici in Italia, Serbia e Stati Uniti ha provocato rabbia all’interno del Paese. La «diplomazia dei ventilatori» si è anzi ritorta contro Mosca, dopo che i macchinari dello stesso tipo di quelli inviati in Occidente si sono incendiati, provocando la morte di 6 pazienti in ospedali di Mosca e Pietroburgo. Ora, è Donald Trump a inviare duecento ventilatori alla Russia che definisce «bisognosa di aiuto». Arrivano anche aiuti dalla Cina, insieme a un velato risentimento per i contagi dall’altra parte della frontiera: il maggior numero dei malati in Cina oggi proviene dalla Russia.
FEDErICO rAMPINI, Oriente e Occidente. Massa e individuo, Einaudi 2020 Oriente, Occidente. Quale vi fa sognare? Quale vi ispira inquietudine? Chiudete gli occhi e pensate l’Oriente. Se siete occidentali del XXI secolo, questo termine vi trasporta in un luogo magico. Ricordi di terre lontane, letture, contatti con religioni esotiche. La pratica dello yoga o del tai-chi o di arti marziali. L’arte del tè; dei giardini e delle composizioni floreali. Civiltà dalle origini ben piú remote della nostra greco-romana o giudaico cristiana. La spiritualità, è là che siamo andati a cercarla spesso. Soprattutto da tre secoli, da quando la rivoluzione industriale, la competizione per arricchirsi hanno stravolto le nostre vite. Dunque l’Oriente è anima, l’Occidente materia. Là il regno del silenzio, di qua il rumore. Continuando questa introspezione, per cercare tutto ciò che l’Oriente reale o immaginario ha sedimentato nell’anima, si scopre un’idea di umanità primordiale – l’India come origine delle nostre popolazioni, etnie, lingue e civiltà. La Cina e il Giappone come l’Altro assoluto, civiltà buddhiste e confuciane che un papa polacco definí «religioni senza Dio». Qui c’è l’idea che l’Asia è quella parte del mondo dove la comunità prevale sull’individuo, anche schiacciandolo. I doveri verso gli altri vengono prima dei diritti. Grandi imperi comandano su masse sterminate, da cui esigono obbedienza. Di recente si è aggiunto un significato nuovo: l’Asia è laboratorio della modernità, là si è spostato il dinamismo, la costruzione del futuro. Per le nostre generazioni quest’ultimo episodio è uno strato sottilissimo, ma ai tempi del Rinascimento l’Asia aveva inventato tutto prima di noi. L’Oriente è un luogo dell’anima oltre che della geografia. Da più di duemila anni ne abbiamo fatto un mito, una costruzione culturale. A cominciare da Omero, Erodoto e Alessandro Magno. Il fascino che esercita su di noi è comprensibile. Da là sono arrivate orde umane che ci hanno invaso, conquistato, civilizzato. E anche contagiato di germi. Qualche volta abbiamo restituito il colpo, andando a colonizzarli noi; nei tempi lunghi ha prevalso il flusso contrario. Poiché siamo più piccoli, cominciammo a formarci un concetto dell’Oriente basato sulla sproporzione. Noi in embrione abbiamo un’idea dei diritti e delle libertà; gli orientali sono eserciti disciplinati e obbedienti. Regno del silenzio, della trascendenza, l’Oriente lo diventa dopo la Prima rivoluzione industriale. È il Romanticismo tedesco, nell’Ottocento, a imporre due convinzioni: l’India è la culla primordiale di tutte le nostre civiltà; il buddhismo è un antidoto ai mali della modernità. Dopo i romantici arrivano Nietzsche e Schopenhauer. Poi Hermann Hesse col Siddharta forma generazioni di giovani europei e americani. Il Giappone ci influenza col minimalismo della sua architettura, del suo design, a conquistare Steve Jobs e la Silicon Valley. «Zen» entra nel linguaggio di tutti i giorni negli Stati Uniti fin dagli anni Settanta. Ma lo stesso Giappone ci costringe a fare i conti con una realtà rovesciata; un paradosso che la Cina vive in maniera ancora più evidente. Queste due civiltà ci hanno superato in molti campi della tecnologia e dell’economia. Il risultato dà le vertigini. Dov’è finito l’Oriente che abbiamo vagheggiato per generazioni? Qual è la vera identità degli uni e degli altri? Sono domande che ci stiamo facendo da duemila anni. Vista da Pechino, Singapore o Yokohama, la nostra attenzione verso l’individualità e i diritti è una forza o una debolezza? Ci credono avviati verso un caotico declino?
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Politica e Economia
Fra virus e prossime elezioni
roma e il Lazio-5. parte Il M5S vorrebbe sfruttare la buona tenuta regionale nei confronti della pandemia
per ricandidare la Raggi a sindaco di Roma con il sostegno del Pd che però non ci sente Alfio Caruso In principio fu «uno vale uno» capace di conquistare i cuori dei semplici e soprattutto i voti per trasformare i Cinque Stelle da movimento di quattro scappati di casa nella principale forza del Parlamento. Poi ci si accorse che quell’uno poteva valere di più o di meno a secondo dei ghiribizzi di Grillo, delle paturnie del figlio del profeta, cioè Casaleggio jr, dei tornaconti del bugiardo Di Maio, degli assalti alla geografia e alla sintassi dell’allegro cazzaro Di Battista. In seguito perfino gl’indefessi sognatori, i declamatori alla luna, i miracolati dalle bizze del voto on line dovettero arrendersi all’evidenza che in talune situazioni valeva uno solo e tutti gli altri erano nessuno. Infine, la svolta epocale: «uno contro uno» elevato all’ennesima potenza sino al tutti contro tutti, che ha stravolto deputati e senatori, ma che è stata solo una semplice esercitazione al cospetto di quanto sta accadendo a Roma in vista delle elezioni per il sindaco fra un anno. È l’effetto all’incontrario del Coronavirus. Nel senso che il modestissimo impatto avuto dalla pandemia sul Lazio (positivi sotto i 4mila; guariti quasi 3100; morti meno di 700) e più ancora sulla Capitale e dintorni (5500 contagiati su oltre 4 milioni 340mila abitanti con una percentuale dello 0,126 per cento) hanno indotto l’amministrazione regionale e soprattutto quella cittadina a menar vanto del colpo di fortuna. Ma se Zingaretti ha dovuto privilegiare l’esser segretario del Pd sull’essere presidente del Lazio, quindi profilo basso, nessun proclama, sostegno sparato ai protocolli di cura e ai suggerimenti del rinomato ospedale Spallanzani, la Raggi, al contrario, ha cercato il suo quarto d’ora di gloria positiva e di legittimazione dopo quattro anni bui. Ed ecco allora lanciata dai suoi aedi l’ipotesi di una ricandidatura. Non l’avessero fatto: sono stati capaci di smentire financo l’assunto di Andy Warhol, per altro rubato al fotografo Nat Finkelstein, sul quarto d’ora di
fama. L’alleata più fedele della Raggi, la presidentessa del IV municipio, Roberta Della Casa, è stata sfiduciata all’unanimità su una mozione presentata dalla stessa delegazione dei Cinque Stelle. Il IV municipio è quello del Tiburtino, quartiere popolare per eccellenza, un tempo il più rosso della Capitale. Quando il Movimento nel 2016 vi conquistò la maggioranza assoluta equivalse alla caduta del muro di Berlino sui Sette Colli. Cronache, però, del trapassato. La realtà odierna specifica che prima del IV la Raggi aveva perso altri tre municipi, il III, l’VIII, l’XI. Le elezioni suppletive dei mesi scorsi si sono risolte in altrettante scoppole per il partito della sindaca. Nella Roma chiusa in casa per il totale rispetto dell’isolamento è migliorata la qualità dell’aria, però gli autobus hanno continuato a prender fuoco e la spazzatura a intasare le vie. Nelle strade ancora vuote Totti e la moglie Ilary, nascosti dietro vistose mascherine e berretti con visiere, hanno potuto passeggiare indisturbati fino alla fontana di Trevi. La sospensione delle vecchie abitudini per due mesi ha rappresentato una tregua: dalle parti della Raggi l’hanno interpretata come un’inversione di tendenza. Viceversa, è bastato che la sindaca andasse a Ostia per ingraziarsi gli ambulanti ed è riesplosa la contestazione. Anzi, i facinorosi di Casa Pound, spesso coccolati dalla giunta capitolina, le hanno addirittura impedito di scendere dall’auto. L’annuncio che i negozi potranno effettuare i saldi per l’intero anno non è valso a riconquistare la simpatia dei commercianti, esasperati dalla lotta quotidiana contro l’immondizia dinanzi alle vetrine e dal dover dare la caccia ai topi. Eppure la frenesia è oramai riesplosa: da piazza di Spagna a Castel Sant’Angelo, dalle banchine del Tevere al Tiburtino, dal Prenestino a Tor Tre Teste, da Torre Angela a San Giovanni, dall’Esquilino a via Merulana tutti fuori a riassaporare l’antico tran tran, benché un terzo di ristoranti, trattorie, caffè rimanga chiuso in attesa che di-
naggi giovanili. L’annuncio che si faceva solo asporto è stato cancellato dal desiderio di stringere un bicchiere in mano, senza guanto. Sui social hanno impazzato le foto di ragazzi seduti sui divisori dell’area pedonali. Pochissimi con la mascherina, ma non sul volto, bensì al collo o al gomito secondo i dettami dell’ultimissima moda. Dopo il deserto delle scorse settimane, Villa Pamphilj è giornalmente presa d’assalto. I rari presidi di vigili vengono con eleganza dribblati. Si sono riempite le tradizionali aree della movida: da Monti a Ostiense, dal Centro storico a Ponte Milvio fino a San Lorenzo. Nella folla di romani, individuata e multata per duemila euro (mille a testa)
una coppia di stranieri diretta a visitare la Fontana di Trevi: un cittadino tedesco e una giovane colombiana residente in Germania. Nello stupore della polizia si è scoperto che avevano attraversato il valico del Brennero e imboccato l’autostrada fino a Roma. In tale guazzabuglio qual è il senso di ricandidare la sempre più indesiderata Raggi? Difendere il ridotto nella disputa interna, che vede Di Maio contrapporsi a Di Battista e all’unica scelta sensata del Movimento, Roberta Lombardi. La speranza di Di Maio risiede nella benevolenza del Pd, in primis di Zingaretti: per garantirsi la neutralità nei confronti della Raggi, tradotto in soldoni nessun candidato pieddino, prospetta un’alleanza che si prolunghi alle prossime elezioni nazionali, in calendario nel 2023, e poi si spinga fino al 2028. Sterminate ere geologiche in termini di politica fingendo d’ignorare che l’attuale quadripartito di governo potrebbe saltare già in autunno, se davvero si fosse costretti a varare un esecutivo di salute pubblica con la guida di Draghi. Ma anche se la compagine di Conti dovesse arrivare al termine del mandato, potrebbe mai il pacioso Zingaretti rinunciare alla riconquista di Roma? Il Pd è, infatti, considerato il grande favorito. Nella sua disponibilità nomi prestigiosi: l’ex presidente del consiglio Letta, che grazie all’eterno zio Gianni potrebbe pescare anche nel fronte conservatore; l’economista Cottarelli, vivificato da una quotidiana presenza sulle emittenti televisive con la nomea del tecnico super partes; l’ex ministro Calenda, magnifico propagandista di se stesso con l’unico problema di avere spesso più ambizioni che voti. Senza dire dell’incognita centrodestra. Lì, però, l’unica candidata con chance è la sorella d’Italia Meloni: Salvini farebbe bingo liberandosi della sola in grado di contendergli la leadership. Ma la diretta interessata è ovviamente indisponibile essendo, per l’appunto, ben altre le sue mire. E senza di lei c’è soltanto l’imbarazzo di scegliere con chi perdere.
in carica incolpare l’uscente Macri per l’impossibilità attuale di Buenos Aires di pagare debiti e interessi sui debiti. E cavarsela propagandisticamente così. D’altra parte il Fmi ai tempi della direzione generale di Christine Lagarde (ora alla presidenza della Banca centrale europea) ha elargito l’incredibile cifra di 57 miliardi di dollari di prestito al governo Macri, passato per affidabilissimo creditore nonostante i conti drammatici argentini non fossero un segreto. Mai tanti soldi erano stati prestati tutti insieme dal Fmi a un Paese. Nel luglio del 2019 Lagarde disse di aver «sottostimato un po’ la crisi argentina». E nel febbraio scorso il Fmi se ne è uscito con la raccomandazione ai creditori privati di collaborare con Buenos Aires. Per questo il ministro dell’Economia, Martin Guzman, ha potuto presentare una proposta di rinegoziazione del debito che prevede per l’Argentina uno sconto del 5,4% sul capitale investito dai creditori e di ben il 62% di sconto sugli interessi con buone speranze di non vedersela respingere subito con una porta in faccia. La condizione più pesante per i creditori messa da Guzman è un periodo di grazia (ossia un periodo durante il quale nemmeno un centesimo gli può essere richiesto indietro) di tre anni. Quindi
Buenos Aires non pagherebbe un dollaro fino al 2023. Molti creditori possono essere indotti a pensare che sia sconveniente rifiutare di netto la proposta e ricorrere a un tribunale per dirimere il caso proprio perché ci sono almeno tre anni di attesa prima di poter reclamare il primo pagamento. E tre anni sono un tempo lunghissimo, può succedere di tutto nel frattempo. A chi di certo non conviene che loro ricorrano a un tribunale e provochino così il default con tonfo assordante dell’Argentina è il Fondo monetario internazionale. Buenos Aires, proprio in virtù di quel gigantesco prestito fatto ai tempi del governo Macri, occupa da sola quasi la metà del credito a Paesi in difficoltà finanziaria concesso dal Fmi. Se non paga i detentori stranieri di bonus, tanto meno pagherà il Fondo. Ma, soprattutto, essendo stato proprio il Fondo a spalancare la borsa con Buenos Aires, se quest’ultima dovesse crollare sotto il peso di un default insostenibile il Fondo perderebbe la sua credibilità come organismo internazionale arbitro nelle partite di finanza globale. Quindi non ha tutti i torti il sornione Fernandez quando sibila sotto i baffi: «Nessuno cade da solo». Il suo è un avvertimento. Forse poco elegante, ma non infondato.
Il presidente della regione Lazio e leader dem Nicola Zingaretti. (Keystone)
minuiscano le restrizioni. Sotto il sole e dentro un caldo estivo Villa Torlonia, Villa Borghese, Villa Gordiani sono tornate a riempirsi. Le gelaterie, i bar, i locali con i tavolini all’aperto hanno messo in fila i tanti vogliosi di riprendere i riti del prima. I prezzi sono aumentati del 20-30 per cento, ma le proteste sono state flebili. Le scritte in terra di rispettare il metro di distanziamento sono apparse l’eredità di un’altra epoca. Finora la voglia di vivere, di riappropriarsi degli spazi ha prevalso sul buonsenso. All’ora dell’aperitivo, che dura almeno cinque ore, la statua di Giordano Bruno, in piazza San Calisto a Trastevere, è tornata a essere la meta dei pellegri-
Argentina a rischio default
Crisi Il tempo stringe per riuscire a pagare i prestiti internazionali Angela Nocioni Dietro le quinte si continua a negoziare per evitare che l’Argentina cada in un default rotondo, sonoro e totale. Sarebbe il nono default della sua storia. Per ora Buenos Aires, al terzo anno consecutivo di recessione economica e con una previsione di caduta della produzione economica che supera il 6%, rimane nell’ombra non drammaticissima del default tecnico. Il governo federale non riesce a pagare i 503 milioni di dollari di bonus scaduti il 22 maggio, ma i contatti per negoziare un nuovo accordo su condizioni e scadenze fervono. Il governo neoperonista di Anibal Fernandez – la cui vice è l’ex presidente Cristina Kirchner che fu protagonista nel 2014 di una spettacolare propaganda per non pagare i fondi pensione stranieri ai suoi creditori quando, da presidente, avvolse Buenos Aires di milioni di manifesti con scritto «non pagheremo i fondi avvoltoi» – sa di poter contare su una comoda e taciuta realtà: ai suoi creditori conviene trattare tanto quanto a lui. Il Fondo monetario internazionale infatti, in un’analisi dettagliata della situazione argentina, ha messo nero su bianco che, poiché per l’Argentina sarebbe impossibile onorare i suoi debiti
Il presidente Fernandez con la sua vice Cristina Kirchner. (AFP)
nei modi e nei tempi previsti, i creditori stranieri avranno la possibilità di veder ripagato in parte il loro credito soltanto se accetteranno di ricevere meno soldi di quanti ne dovrebbero avere. Ha detto sostanzialmente il Fmi: trattate, è un ordine. Fernandez va fierissimo di questa manna dal cielo targata Fmi e da settimane va ripetendo: «Nessuno cade da solo». I principali creditori dell’Argentina hanno capito l’antifona e, messisi insieme in tre distinti gruppi ciascuno creato sulla base delle caratteristiche
del debito che ha in mano, stanno discutendo come rinegoziare ciascuno le proprie proposte di riduzione del credito. Non è impossibile un accordo già nelle prossime settimane. Anibal Fernandez ha buon gioco. L’Argentina alle ultime elezioni ha ribaltato il colore del suo governo. Sconfitto il liberista Maurico Macri è tornata alla sua eterna passione: il sempre verde peronismo nella sua declinazione radical, tanto che la campagna per Fernandez l’ha fatta l’ex presidente Cristina. È facile quindi per il governo
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Politica e Economia
Un salvataggio salato ma riuscito
Pandemia La SECO fa le prime valutazioni sui costi economici delle operazioni di sostegno alle imprese
colpite dalla crisi generata dal Covid-19. Si stima un calo della produzione lorda tra i 30 e gli 80 miliardi di franchi Ignazio Bonoli La fase di riapertura delle attività economiche, dopo il lockdown durato parecchie settimane a causa del «Covid-19», ha incontrato inizialmente alcune difficoltà, ma poi si è avviata con una certa intensità. Questi movimenti sono seguiti con particolare attenzione tanto dagli economisti, quanto dalle autorità politiche. Da essi dipendono, infatti, i segni di ripresa e il loro ritmo, che accompagnano e sostengono le possibilità di uscire dalla crisi entro tempi ragionevoli. Ancora una volta, però, il ritorno alla normalità è accompagnato da parecchie preoccupazioni e inevitabilmente da qualche pessimismo sulla riuscita dell’operazione di ripresa dell’economia e quindi sull’efficacia delle misure messe in atto e dal loro utilizzo. Sotto questo aspetto il modello svizzero sembra aver avuto il successo sperato e – paradossalmente – viene confermato anche dal fatto che non tutto il credito messo a disposizione è stato utilizzato. In sostanza, questo fatto sottolinea che l’economia svizzera, globalmente, poteva disporre di riserve di capitali che le permettono di resistere ai rovesci congiunturali di qualsiasi tipo per una durata di una certa consistenza. Considerazione quest’ultima forse un po’ trascurata in piena crisi o magari nascosta per paura di suscitare effetti contrari alla politica di sostegno messa in atto dalle autorità politiche.
Molto colpiti dalla crisi anche i mezzi pubblici, con un crollo dell’utenza. (Keystone)
Sta di fatto, comunque che le previsioni molto fosche di qualche tempo fa – ancorché avvolte da molte incertezze – sono in sostanza state smentite dalle prime valutazioni del dopo crisi, anche queste, però condizionate da un futuro ancora incerto. Così, se da un lato non si può ancora parlare in termini positivi per l’anno in corso, per il 2021 le cose dovrebbero cambiare radicalmente. Di conseguenza, i dati negativi sull’evoluzione del PIL nel 2020 (-6,7% per il SECO, - 6% per il FMI e -5% per l’UE) dovrebbero trasformarsi in dati positivi (+5,2% per il SECO, +2,7% per il FMI e +4,5% per l’UE). Una delle incognite maggiori, che potrebbero condizionare l’andamento
della ripresa economica nel 2021, è riassunta nei dati sulla disoccupazione. Il tasso di disoccupazione in Svizzera potrebbe salire in media ancora al 3,9% quest’anno e al 4,1% nel 2021. Il dato è di metà aprile e, alla vista delle ultimissime valutazioni, potrebbe sembrare un po’ troppo ottimistico. Tuttavia, secondo il FMI, potrebbe anche essere inferiore (2,6%), mentre per l’UE potrebbe essere ben superiore (5,0%) nel 2021. L’occupazione – e di conseguenza la disoccupazione – non sono una causa della crescita economica, ma un effetto. La disoccupazione cresce se l’economia rallenta, mentre diminuisce se l’economia migliora. La crisi provocata dal Covid-19 (con le misure adottate per
combatterla) non è paragonabile a una recessione economica normale. Essa ha, infatti, colpito tanto la domanda, quanto l’offerta. Questo spiega perché le autorità politiche hanno dovuto adottare provvedimenti eccezionali, a volte anche con effetti contrastanti. In sostanza, hanno creato difficoltà alla produzione (l’offerta) per dover privilegiare l’aspetto sanitario rispetto a quello economico. Ma poi hanno dovuto fornire mezzi finanziari corposi, da un lato per impedire il tracollo dell’economia, e poi sostenere con altrettanta forza il potere d’acquisto della popolazione per evitare un tracollo dei consumi, cioè la domanda interna, mentre quella esterna (esportazioni, turismo) stava già scomparendo per conto suo.
L’operazione è costata molto, non solo alle finanze della Confederazione, dei Cantoni e dei Comuni. Secondo le prime indicazioni fornite dalla SECO, basate sulle cifre del lavoro ridotto, delle cifre d’affari delle aziende, delle esportazioni, nonché su interviste e stime interne nei vari settori, nel mese d’aprile il prodotto dell’economia dovrebbe essersi ridotto fra il 20 e il 28 per cento rispetto all’aprile del 2017. Cifre che nascondono la perdita di molti posti di lavoro, il fallimento di aziende, soprattutto nei settori che danno il contributo maggiore al prodotto interno lordo. Il tutto per un costo che può essere valutato oggi tra i 30 e gli 80 miliardi di franchi. Le sofferenze maggiori sono visibili nei settori nel traffico aereo, nel turismo, nella ristorazione, negli alberghi e nei servizi personali. Da qui la necessità di aiuti immediati a questi settori. Ma anche l’industria e l’artigianato hanno sofferto parecchio, come del resto i mezzi pubblici, la logistica, l’edilizia, con cali di produzione tra il 20 e il 50 per cento. Hanno invece subito effetti positivi la posta, il settore farmaceutico e la pubblica amministrazione. Utilizzando il metodo per il calcolo del PIL, si può stimare che, nei quasi due mesi di chiusura, si sono persi dai 21 ai 30 miliardi di franchi. Ma non è finita, poiché la ripresa sarà molto lenta e si deve poter contare su una normalizzazione della situazione, non solo in Svizzera, ma in Europa e nel mondo, prima di poter tornare alla cosiddetta normalità. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
La crisi del coronavirus colpisce molto duramente i Paesi poveri La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy
Quest’anno le rimesse sono in calo in tutte le regioni del mondo (Afflussi di capitale per regione)
0 –5 –10 –15 –20 –25 –30
Europa e Asia Africa Asia Medio Oriente centrale subsahariana meridionale e Nordafrica
America Latina e Caraibi
Asia orientale e Pacifico
Calo previsto delle rimesse rispetto al 2019 in percentuale
del 2009 le rimesse si sono ridotte solo del 5%. Ciononostante, i flussi delle rimesse, come fonte di finanziamento esterna, sono ora ancora più importanti di quanto non lo siano stati finora. Infatti, secondo la Banca mondiale, gli
investimenti diretti esteri nei Paesi a basso e medio reddito diminuiranno ancora di più, ossia di oltre il 35%. Per il 2021 si prevede una ripresa delle rimesse del 5,6% a 470 miliardi di dollari. Gli studi dimostrano che le
Fonte: Banca mondiale
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
Per molti Paesi in via di sviluppo le rimesse sono la principale fonte di valuta estera. Sono considerate rimesse i contanti o le merci che i migranti e i lavoratori stranieri trasferiscono nella propria patria. La maggior parte delle rimesse, che sono per lo più monetarie, sono utilizzate per sostenere le famiglie nel Paese d’origine. Questi trasferimenti generalmente transitano dai Paesi ricchi verso quelli più poveri. La Svizzera è per tradizione uno dei principali Paesi di provenienza delle rimesse. È difficile determinare con precisione l’entità delle rimesse. In molti casi i trasferimenti vengono effettuati attraverso canali informali. Ciò significa, ad esempio, che i migranti portano con sé il denaro e i beni quando visitano i propri familiari in patria. Secondo i dati della Banca mondiale, tuttavia, nel 2019 le rimesse raggiungevano la cifra record di 554 miliardi di dollari. Per molti Paesi sono state più consistenti rispetto agli investimenti diretti esteri. Sulla scia della crisi del coronavirus, quest’anno le rimesse subiranno un forte calo: i flussi di denaro riversati in patria diminuiranno del 20% circa. Ne sono interessate tutte le regioni del mondo prese in esame dalla Banca mondiale. Ciò corrisponde al crollo più netto mai registrato. A titolo di confronto, durante la crisi finanziaria
rimesse alleviano la povertà nei Paesi a basso e medio reddito, migliorano la situazione alimentare, sono correlate a una spesa superiore per l’istruzione e riducono il lavoro minorile nelle famiglie svantaggiate. Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi È arrivata l’ora degli scenari La pandemia da Coronavirus in corso provocherà la recessione economica più ampia che si sia vista dalla fine della seconda guerra mondiale. Questo non è ancora un dato di fatto accertato, ma, purtroppo, una previsione molto affidabile. Tenendo conto di questo, gli interrogativi ai quali gli esperti attualmente cercano di rispondere sono due. In primo luogo ci si chiede come la recessione in corso evolverà nei prossimi mesi e, in secondo luogo, si desidererebbe sapere se saranno necessarie ulteriori misure di stimolo da parte dello Stato per far ripartire l’economia. Nell’attesa di ottenere un vaccino per combattere il virus è evidente che il giudizio sulla necessità di un nuovo programma di misure, come pure il suo possibile contenuto, dipenderanno dall’andamento della congiuntura nel secondo semestre di quest’anno e nel primo del 2021. Ce lo ha spiegato di recente,
in un interessante articolo apparso sulla NZZ, Aymo Brunetti, professore all’università di Berna, ed esperto prossimo a quella che Nenni definiva la «stanza dei bottoni», ossia il luogo nel quale vengono prese le decisioni politiche importanti, a livello federale. In quell’articolo Brunetti affermava che la recessione in corso potrebbe dar luogo a tre possibili scenari. Il primo scenario è quello sul quale molti contano, ossia quello della ripresa abbastanza rapida delle attività economiche. Se il numero delle aziende che dovranno chiudere restasse minimo, la produzione potrebbe riprendere, a pieno ritmo, già nel secondo semestre del 2020. Anche i consumi ricomincerebbero ad aumentare inducendo quindi, a loro volta, una ripresa degli investimenti. Se questo circolo virtuoso dovesse manifestarsi anche nei paesi nei quali la Svizzera esporta, la domanda di esportazioni ri-
salirebbe e la recessione sarebbe presto dimenticata. Dovesse realizzarsi questo scenario, non ci sarebbe bisogno di nessun programma di sostegno particolare oltre alle misure che già sono state prese dalla Confederazione e dai Cantoni. Stando a Brunetti vi è però purtroppo anche la possibilità che il futuro sia più nero di quello che ci dipingono le nostre aspettative del momento. Sarebbe questo sicuramente il caso se, nelle prossime settimane, dovesse manifestarsi una seconda ondata di contagi obbligando le autorità a decretare un nuovo lock-down. In questo caso, ovviamente, la produzione non riprenderebbe ancora per mesi e questa stasi si rifletterebbe in modo negativo anche su consumi, investimenti e esportazioni. Nella variante peggiore una recessione di questa portata potrebbe inoltre determinare una tendenza alla deflazione con riduzione dei prezzi ma anche, come fu
il caso nella crisi degli anni Trenta dello scorso secolo, dei salari. Molte aziende dovrebbero dichiarare il fallimento e questo, ovviamente, inciderebbe in modo negativo anche sull’evoluzione delle banche. La recessione della produzione e della domanda globale sarebbe così seguita, quasi sicuramente, da una crisi finanziaria. In questo caso un nuovo intervento di sostegno dello Stato diventerebbe necessario: oltre alle misure già in corso, occorrerebbe pensare a un programma di rilancio della domanda globale. Brunetti, da buon neo-liberale, pensa che la strada da seguire sarebbe quella di una riduzione delle imposte piuttosto che quella di un aumento della spesa pubblica. Ma veniamo alla terza alternativa. Si tratta di quella che, di solito, si manifesta dopo lunghe crisi dovute a diminuzioni della produzione. In molti casi le stesse sono seguite da una situazione di
iperinflazione. Stando a Brunetti, ma anche ad altri esperti della nostra economia, questo scenario è però il meno probabile. È possibile che, nei prossimi mesi, i prezzi di molti beni di consumo primario salgano, ma, a livello di indice generale dei prezzi al consumo, i loro aumenti saranno compensati dai prezzi bassi della benzina e da possibili riduzioni dei canoni di affitto. Tuttavia, avverte Brunetti, su questo terzo scenario pesano due grosse incognite. La prima è data da quello che lui definisce «l’oceano di liquidità creato dalle banche centrali» che di fatto potrebbe provocare una marea inflazionistica. La seconda è rappresentata dalla spinta che la pandemia potrebbe dare alla marcia in avanti del protezionismo. Se la stessa dovesse portare a proteggere una quota crescente della produzione nazionale non potremmo scampare all’inflazione.
un’altra una vittoria nazionale da celebrare. Non è questo il caso. Non mi pare lesa maestà criticare la corsa ad annunciare la liberazione di Silvia Romano via twitter, prima ancora di avvertire la famiglia, e poi la gara ad andare a prenderla in aeroporto, con il presidente del Consiglio che è parso contendere la photo opportunity al ministro degli Esteri con mascherina tricolore. Bene ha fatto invece il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, il filoatlantico del governo, a non farsi vedere. Purtroppo, l’Italia non ha sgominato gli assassini di Al Shabaab; li ha finanziati con il denaro pubblico. Ne valeva la pena per salvare una vita; ma in questi casi la discrezione è preferibile all’ostentazione. Quanto alle conversioni, sono sempre un affare del cuore, e quindi privato; è legittimo però chiedersi quanto sia libera la scelta di convertirsi in prigionia alla religione dei carcerieri. Lo slancio umanitario è sempre da apprezzare: non possiamo dire a ogni occasione «aiutiamoli a casa loro», e poi lamentarci di chi tenta di farlo. Ma è doveroso, anche
per il futuro, ragionare bene prima di affidarsi a una ong qualsiasi. Un conto è andare in Africa, ad esempio, con Sant’Egidio: forse l’organizzazione non governativa più radicata nel continente, dove è presente da decenni, dove è in grado di valutare opportunità e pericoli, in Paesi che conosce bene e talora ha contribuito a pacificare. Un altro è affidarsi a una ong semisconosciuta, che all’evidenza non ha saputo difendere Silvia. Nei giorni successivi alla liberazione, in Italia è accaduto anche di peggio. Gli imam si sono contesi la convertita, che ha assunto il nome di Aisha. I soliti odiatori le hanno augurato la morte, lanciando pure bottiglie contro la sua casa. L’atteggiamento della ragazza non ha brillato per accortezza, dalla veste islamica esibita dopo la sua liberazione alle sue prime parole che rivendicavano la conversione; considerato l’enorme lavoro fatto per liberarla – e il sacrificio economico sostenuto dallo Stato in un momento drammatico per molti italiani – sarebbe stata preferibile un’attitudine diversa. Tuttavia una ragazza
prigioniera per così tanto tempo va rispettata e lasciata in pace. I suoi odiatori invece vanno rintuzzati e condannati: le parole che hanno usato sono davvero inaccettabili. Non ha fatto gran figura neppure la ong che l’ha mandata in Africa, che non ha saputo spiegare né la mansione affidata a Silvia, né il modo in cui si è tentato – invano – di organizzare la sua protezione. Qualcuno ha ricordato la legge con cui negli anni 80 e 90 lo Stato è riuscito a sconfiggere l’Anonima sequestri: bloccando i beni dei familiari, impedendo di pagare il riscatto. Una legge dura, quasi crudele, che però ha reso i sequestri non più remunerativi. Forse è necessario un ripensamento: se passa l’idea che l’Italia paga, gli italiani diventano bersagli, un po’ in tutto il mondo. Però si deve essere consapevoli che la linea dura può comportare un prezzo morale ed emotivo ancora più grande. Siamo disposti a pagarlo? E se un domani una famiglia dovesse chiedere conto allo Stato perché ha pagato per altri e non per il proprio caro?
alcuni iniziata nel 1914, per altri già nel 1870). I costruttori dell’edificio comunitario miravano in primo luogo a questo: a non più riaccendere la miccia che aveva ridotto in cenere il continente. La Svizzera rimaneva alla finestra, nella nicchia dell’Associazione del libero scambio, ma molti giovani, che in seguito avrebbero ricoperto funzioni dirigenziali (nella politica, nell’economia, nell’insegnamento e nell’informazione), seguirono con attenzione e passione quel processo di costruzione, garante di pace e foriero di prosperità. Tutto questo ha forgiato nei giovani del dopoguerra un «imprinting» che ora ritroviamo negli orientamenti, negli stili di vita, nelle scelte culturali delle pantere grigie: quante offerte cadrebbero oggi nel vuoto – dalle mostre alle conferenze, dagli spettacoli teatrali ai concerti – senza l’apporto del pubblico attempato, partecipazione resa possibile dal meccanismo delle rendite. L’im-
pianto assicurativo congegnato dal 1948 in poi ha permesso di lasciarsi alle spalle le angustie conosciute dagli antenati. L’approvazione in votazione popolare (6 luglio 1947) della legge applicativa dell’Avs fu salutata dalla stragrande maggioranza della popolazione come una conquista civile memorabile: «Con l’Assicurazione vecchiaia e superstiti» osservò il «Giornale del Popolo» in prima pagina «entra in vigore una provvidenziale legge di solidarietà. Il popolo sapeva che le prestazioni previste dalla legge importano sacrifici, sapeva che per ricevere bisogna dare. Coscientemente ha accettato tutti i sacrifici, tutti gli oneri per garantire ai vecchi, alle vedove e agli orfani una esistenza meno incerta e penosa. È una decisione che fa onore al popolo svizzero, ai suoi sentimenti cristiani, alla sua solidarietà». Schiacciante il consenso nel canton Ticino: 28’193 sì contro 2920 no. Da ultimo va ricordato che le premesse
dell’attuale era informatica furono in buona parte poste dagli odierni neo-pensionati («jeunes retraités»). Furono loro – con alla testa Steve Jobs e Bill Gates, entrambi nati nel 1955 – a progettare i primi computer domestici, dal Commodore al Macintosh, entrati nelle nostre case nella prima metà degli anni 80. Un’innovazione che ha rivoluzionato sia i processi di produzione e comunicazione, sia le abitudini di consumo. Inserire la generazione dei microchip e del web nei gruppi a rischio è dunque parso esagerato, quasi un affronto. Però attenzione: ostentare un baldanzoso giovanilismo potrebbe anche rivelarsi controproducente, ovvero portare acqua al mulino di chi auspica l’innalzamento dell’età di pensionamento a 67-70 anni… Le casse pensioni hanno già lanciato l’allarme sulla tenuta dell’intero sistema previdenziale, primo e secondo pilastro.
In&outlet di Aldo Cazzullo Una liberazione che fa discutere La liberazione di una giovane donna, tenuta prigioniera da un gruppo terroristico per un anno e mezzo in terra straniera, è sempre una buona notizia. A volte, nei commenti sentiti e letti in Italia in queste settimane a proposito della vicenda di Silvia Romano, si è
riaffacciata l’antica mentalità per cui le donne dovrebbero stare a casa, e se incappano in una disavventura «se la sono andata a cercare». Si tratta di una mentalità da respingere con nettezza e da superare. Un conto però è una buona notizia;
Silvia Romano libera dopo 18 mesi di prigionia in Kenya. (AFP)
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La vecchiaia può attendere, ma... Molti «anziani» si sono inalberati quando le autorità hanno imposto loro (o energicamente suggerito) di ritirarsi in letargo. Questo perché trattare in tal modo un «over-65» non è stato percepito come un complimento; anzi, qualcuno si è offeso, rammentando che la vecchiaia di oggi non è paragonabile alla senilità di ieri, allorché la speranza di vita era inferiore di dieci-quindici anni. Ciò detto, la questione dell’invecchiamento della popolazione rimane. Era già presente nell’era a.C. (avanti-Covid) e rimarrà anche negli anni d.C. (dopoCovid). Nel nostro cantone, i pensionati sono all’incirca 80mila, una bella porzione di società, attiva in molteplici settori, soprattutto nelle organizzazioni di volontariato, senza dimenticare il contributo, non solo assistenziale, a figli e nipoti. La generazione che ha appena varcato la soglia della terza età è una genera-
zione fortunata. Nata e cresciuta dopo il secondo conflitto mondiale, non ha conosciuto le ansie e le privazioni dei genitori; è anzi vissuta nel clima euforico degli anni 60, un periodo di rapida crescita economica, tanto che allora il governo dovette intervenire per frenare gli eccessi sistemici, ovvero il «surriscaldamento» della macchina produttiva. Ottimismo e immigrazione avevano ridato slancio alla curva demografica («baby boom») e democratizzato l’accesso alle scuole superiori e alle università, fino a quel momento riservate alle élites. Più facili i viaggi, più impellente il desiderio di lasciare il focolare domestico e partire per il mondo. Anche le frontiere assumevano tratti meno arcigni e minacciosi, almeno all’interno della Comunità economica europea, iniziativa che riuniva sotto lo stesso tetto nazioni che avevano da poco deposto le armi, protagoniste di una lunga guerra civile europea (per
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Cultura e Spettacoli Nel Marocco di Polillo La mostra del fotografo italiano Roberto Polillo a Lugano ci regala un Marocco inedito e irriconoscibile
Un racconto asciutto e preciso Dello scrittore svizzero Peter Stamm è da poco uscito per i tipi di Casagrande La dolce indifferenza del mondo
Un premio fatto in casa Francesca Mazzoleni, vincitrice del Sesterzio d’oro a Nyon racconta il festival in quarantena
L’amore per la musica Ci ha lasciati Ezio Bosso, artista che ha incoraggiato alla vita chi ha avuto la gioia di conoscerlo
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Modì, il maledetto
ritratti Cento anni fa si spegneva a Parigi
il grande artista italiano Alessia Brughera Aveva solo trentacinque anni, Amedeo Modigliani, quando, un secolo fa, moriva a causa di una meningite tubercolare all’Hôpital de la Charité di Parigi. La sua breve esistenza era trascorsa tra eccessi, travagli sentimentali, miseria e malanni. Una vita di certo dissennata, quella del maestro livornese, resa però dalla storia forse ancor più decadente di quanto fosse in realtà, soprattutto se si pensa che, a quei tempi, per molti artisti non era così inusuale avere condotte simili alla sua. Eppure a Modigliani, che girava per Montmartre sempre squattrinato e spesso ubriaco, ma che piaceva a tutti per il suo fascino e la battuta pronta, l’etichetta di pittore dannato è stata affibbiata con estrema facilità, rendendo leggendaria la sua tribolata vicenda di bohémien. «Dedo» nacque nel 1884 da una famiglia di origini ebraiche in difficoltà economiche (si narra che mentre l’artista veniva alla luce, gli esattori bussassero alla porta) e fin dalla tenera età dovette fare i conti con gravi problemi di salute. Con la complicità della madre, donna acculturata e intraprendente, Modigliani incominciò a frequentare a Livorno la bottega di Guglielmo Micheli, tra i migliori allievi di Giovanni Fattori, per poi studiare all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Il suo sogno, però, era andare a Parigi e nel 1906 vi arrivò poco più che ventenne stabilendosi a Montmartre, quartiere della Ville Lumière che pullulava di artisti in cerca di ispirazione e di fama. Qui conobbe Picasso, Renoir, Cézanne, Utrillo (suo celebre compagno di bevute e di litigi nelle osterie), Toulouse-Lautrec, Soutine e molti altri. E qui «Dedo» diventò «Modì», soprannome giocato sulla pronuncia della parola francese maudit, «maledetto», che per fatale assonanza era identica alle prime lettere del suo cognome. La vita parigina di Modigliani fu economicamente e sentimentalmente precaria. Spesso, per pagarsi da bere, il pittore scarabocchiava su tovaglioli di carta piccoli disegni che poi offriva ai clienti in cambio di qualche soldo. In quegli anni e in quella condizione di perenne instabilità, però, l’artista maturò un linguaggio peculiare, una ricerca concentrata sulle forme del viso e del corpo rese essenziali da un arcaismo mutuato dai manufatti africani che, grazie ai traffici con le colonie, giungevano copiosi nella capitale francese. Con un segno veloce e sottilmente virtuoso, Modigliani delineava i suoi volti dai lunghi colli e dagli occhi vitrei e i suoi nudi dal taglio ravvicinato e dalle linee sinuose.
Proprio i nudi suscitarono enorme scalpore a Parigi quando, nel 1917, vennero esposti alla mostra allestita presso la Galleria Berthe Weill (l’unica esposizione dedicata a Modì ancora in vita), che la polizia fece chiudere in men che non si dica per togliere dallo sguardo dei passanti quelle «porcherie». Tra i soggetti prediletti da Modigliani c’erano le sue amanti, come Beatrice Hastings, scrittrice e giornalista inglese alla quale l’artista rimase legato per due anni, la sua storica compagna Jeanne Hébuterne, anche lei pittrice, e molti suoi colleghi che a quel tempo frequentavano Montmartre e Montparnasse, come Moïse Kisling e Diego Rivera. Modigliani si dedicò anche alla tecnica scultorea realizzando opere dalla purezza avvolgente e dalle forme enigmatiche lavorate attraverso il taglio diretto della pietra. Il tempo della scultura, però, durò per lui solo pochi anni, dal 1909 fino al 1914, quando dovette abbandonarla poiché le polveri dei materiali risultavano nocive ai suoi polmoni già molto deboli. L’artista incominciò a destare con i suoi dipinti l’interesse di alcuni collezionisti e mercanti d’arte. Tra questi Jonas Netter, ebreo alsaziano che diventò uno dei suoi più importanti acquirenti, Paul Alexandre, suo mentore e principale fonte di sostentamento (soprattutto nei primi anni parigini) che arrivò ad acquistare più di cinquecento suoi disegni e una dozzina di suoi quadri, Paul Guillaume, suo mercante fino al 1916, e, ancora, Léopold Zborowski, gallerista, poeta e scrittore che mise a sua disposizione un atelier e che molto si adoperò per far conoscere al pubblico il suo lavoro. Sebbene stessero incominciando ad arrivare i primi riconoscimenti, lo stato di salute dell’artista, però, non accennava a migliorare. Modigliani si spense il 24 gennaio del 1920, consumato da quei disturbi polmonari che per tutta la vita non gli avevano dato tregua. Accanto a lui c’era l’ultima giovane compagna, Jeanne Hébuterne, già madre di una bimba di un anno e al nono mese di gravidanza, che si sarebbe suicidata il giorno seguente. Proprio Zborowski, in una lettera indirizzata al fratello del pittore qualche giorno dopo la sua morte scrisse: «Tutta la gioventù artistica ha fatto un funerale commovente e trionfale al nostro più caro amico e il più dotato del nostro tempo». Da quel momento nacque il mito di Modì. Da un secolo si moltiplicano i falsi. Quel tratto dell’artista così rapido e straordinario ma così facilmente ri-
Amedeo Modigliani in una fotografia non datata. (Keystone, Collezione privata)
producibile, seppur spesso in maniera grossolana, gli ha infatti consegnato il triste primato dell’autore più contraffatto della storia dell’arte. Basti pensare che le opere registrate nel catalogo ragionato di Ambrogio Ceroni, ancora oggi il più accreditato, sono poco più di trecento, mentre sul mercato circolano a sua firma quasi milleduecento lavori, facendo ironicamente sostenere agli storici che il pittore abbia prodotto più da morto che da vivo. Da un secolo si susseguono le burle. Celebre la beffa delle false teste gettate nel Fosso Reale di Livorno che negli
anni Ottanta ha sconvolto il mondo dell’arte. Da un secolo si avvicendano le mostre. Tanto gli è stato dedicato in Italia e all’estero, soprattutto negli ultimi decenni. Per il centenario della sua morte, però, non sembra sia stato fatto molto. Di sicuro Modigliani è un artista difficile da esporre ed è quindi lecito che attorno alla sua figura ci sia una certa prudenza. Qualche rassegna di valore è stata pur organizzata, come quella allestita presso il Museo della Città di Livorno che ha chiuso i battenti a metà
febbraio, giusto poco prima della pandemia. Una mostra, questa, che proponeva una quindicina di opere su carta e nove dipinti di Modigliani per poi focalizzarsi sull’ambiente di Montparnasse, con oltre cento lavori di artisti con cui il pittore italiano aveva stretto amicizia. È mancato però un evento di vasta portata per questa ricorrenza, un’esposizione che, come spesso accade in occasione degli anniversari dei nomi più illustri, fosse frutto di un progetto scientifico solido e potesse omaggiare in maniera seria e completa uno dei grandi maestri dell’arte.
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Cultura e Spettacoli
Carlo Cesare Malvasia
Trattati Le sue Vite dei pittori bolognesi è uno dei molti libri che in Italia applicano
il modello critico del Vasari alle scuole pittoriche delle diverse città – Seconda parte
Gabai e quel rapporto con la poesia Pubblicazioni Uscita
la terza serie dei Quaderni in ottavo Gianluigi Bellei Il conte Carlo Cesare Malvasia (1616 -1693) discendeva da una nobile famiglia bolognese. I suoi studi erano tipici della sua condizione sociale. I corsi di Lettere e poi quelli di Diritto. Nel 1638 ottiene la laurea «in utroque iure». Si trasferisce a Roma dove prende l’abito sacerdotale. Ritorna a Bologna e ottiene la pubblica lettura di Diritto all’università. L’Università bolognese era in quegli anni in crisi. Nei primi del ’500 passa sotto il governo pontificio e, dopo il Concilio di Trento, il controllo religioso diviene via via più rigoroso. Un luogo di tradizione dove l’attività culturale dipendeva dai Gesuiti. Insomma, censura e baronato: la scelta dei collegi dottorali e dei professori era limitata unicamente ai bolognesi. Malvasia si muove in quest’ambito. La sua attività letteraria è influenzata da quella in voga di Giovan Battista Marino (1569-1626): un modello barocco e pittorico. Il marinismo bolognese è rappresentato da Claudio Achillini (1574-1642) dal quale il Malvasia si lascia attrarre. Di ben altro valore – scrive Marcella Brascaglia – è l’approccio di Malvasia all’ambiente pittorico cittadino. Il conte frequentava con una certa regolarità gli studi degli artisti. Anzi, lui stesso aveva appreso e praticato l’arte come allievo del Campana e del Cavedone, due discepoli dei Carracci.
Le varie biografie della Felsina pittrice sottolineano spesso gli aspetti più singolari nel carattere degli artisti Nel 1647 esce la ristampa delle Vite di Giorgio Vasari, suscitando discussioni e interesse. Vasari incentra il suo lavoro sugli artisti fiorentini. Dopo la prima edizione delle Vite cresce la storiografia artistica locale, da una parte, e teorica, dell’altra: il Baglione
Ludovico Carracci, Il matrimonio della Vergine, 1587, particolare. (Wikimedia)
con le vite dei romani (1642), il Ridolfi dei veneti (1648), il Soprani con i liguri (1674)… Malvasia lavora per più di un ventennio alla Felsina pittrice e per documentarsi viaggia, ricerca documenti e notizie. Lo schema del libro ricalca quello del Vasari. Una visione progressiva della pittura che va dalla rozzezza dei primitivi alla perfezione dei contemporanei. Da Manno e Franco passando per Vitale, poi Pietro de Lianori e Bonbologno fino a Lippo Dalmasio e Francesco Francia, per arrivare ai Carracci e a Guido Reni. Il patriottismo cittadino anima tutta la Felsina, tanto da sospettare della sua obiettività. Bologna è una città «favorita dal cielo» e di conseguenza, per dimostrarlo, si possono inventare prove o documenti come le lettere di Annibale a Lodovico nella biografia dei Carracci. Ma forse il più famoso falso è il sonetto che Malvasia attribuisce ad Agostino Carracci che
lo avrebbe composto in onore di Nicolò dell’Abate. Rispetto al Vasari il conte ha un notevole interesse per la psicologia dell’artista. A questo scopo numerosi sono gli aneddoti, i motti, le facezie, le burle che costellano le pagine della Felsina e che determinano il carattere del pittore. Il matto è Leonello Spada, quelli di bell’umore sono Baglione, Viola, Curti, Spada, il solitario Domenichino, pittore angelico e puro di cuore il Guercino, Lavinia Fontana virtuosa e buona ma è Elisabetta Sirani «il culmine della perfezione femminile». Malvasia usa un genere letterario misto che mescola uno stile narrativo elevato a uno basso. Da una parte scrive: «Eccolo (il mondo della pittura) sotto l’effigie or d’innocente fanciullo, or di venerando vecchio, or di grave matrona, or di pudica verginella: qui vil bifolco, là porporato eroe». Dall’al-
tra: «Gionto a casa burlava sempre la moglie… non vi ho gonfiat’io il busto, e fattavi venire grassa come una troia? Bella e pulita come la bertuccia di castracane?». Martino Capucci definisce il testo un «genere onnivoro», mentre Julius Schlosser Magnino ne parla come di un autore focoso con la lingua tagliente. Se per Vasari è Michelangelo il paradigma della perfezione, per Malvasia è Lodovico Carracci, il «Messia» di una nuova era. «Egli – scrive – avanti ad ogni altro, delle doti particolari di ciascheduna scuola il reciproco cambio, con felice successo, ha tentato e concluso».
Una pubblicazione bibliofila dal sapore prezioso e raro, giunta al terzo appuntamento. Dopo la triplice edizione del 2017 e quella del 2019, è sono usciti di recente tre nuovi Quaderni in ottavo, frutto di un ambizioso progetto calcografico e di poesia che pone in dialogo acqueforti originali dell’artista Samuele Gabai con alcune importanti voci della cultura contemporanea in lingua italiana. Nelle edizioni passate erano stati protagonisti Sergio Givone, Marco Ceriani, Fabio Pusterla, Antonella Anedda, Franca Grisoni e Alberto Nessi. Gli ospiti di questi tre ultimi Quaderni in ottavo 2020 sono il poeta Antonio Rossi, già vincitore del Premio Schiller alla letteratura, la scrittrice e poetessa Anna Ruchat, vincitrice del Premio svizzero di letteratura del 2019 e il poeta genovese Enrico Testa, che nel 2013 ha vinto il Premio Viareggio. Quaderni in ottavo 2020 contiene testi poetici inediti e acqueforti a tiratura limitata ed esclusiva, in una pregiata stampa artigianale su carta di cotone impressa a caratteri mobili. La composizione del testo in carattere Garamond e la stanza tipografica sono di Rodolfo Campi. Giuseppe De Giacomi ha stampato le immagini in calcografia, le copertine in serigrafia e curato la confezione presso la stamperia Hùrdega di Locarno.
Bibliografia
Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Carlo Cesare Malvasia. Felsina pittrice. Vite dei pittori bolognesi, Bologna, Edizioni Alfa, 1971.
Il quaderno che ospita Enrico Testa.
Immagini come ricordi
Fotografia Al Museo delle Culture di Lugano esposte le evocative immagini del Marocco scattate da Roberto Polillo Gian Franco Ragno Nello spazio Maraini del Museo delle Culture di Lugano, da qualche tempo a Villa Malpensata, è in corso la prima retrospettiva del viaggiatore e fotografo milanese, Roberto Polillo (1941). Un Museo, quello luganese, che ha sempre inserito nelle sue attività espositive la nuova arte nata nel diciannovesimo secolo, attraverso alcuni precisi centri di interesse: la fotografia storica di viaggio svizzera (Fosco Maraini – appunto, a cui è dedicato lo spazio – Gotthard Schuh, Walter Bosshard, Peter Werner Häberlin), autori italiani meno conosciuti dal grande pubblico (il linguista degli anni del fascismo Ugo Pellis, e, altro friulano a noi contemporaneo, Elio Ciol) oltre ad artisti più di ricerca (Roberto Stephenson), sino alle indagini approfondite, a tutto campo, sulla base di un patrimonio acquisito e custodito per quanto riguarda il Giappone, dalle albumine colorate di metà Ottocento alle diapositive storiche. Polillo è un autore autodidatta che inizia il suo percorso ritraendo in un classico bianco e nero una serie di mu-
Roberto Polillo, Fès, 2008. (© 2020 Roberto Polillo)
sicisti jazz, come un altro grande fotografo approdato all’astrattismo, Aaron Siskind. E ciò non appare un caso: per lungo tempo il jazz è stato inteso come forma d’arte simbolo di un riscatto interraziale, senza confini ideologici, aperto a molteplici influenze etniche, sinonimo – in poche parole – di un
grande laboratorio creativo. Nelle immagini in esposizione, curata da Moira Luraschi e Imogen Heitmann, ci si concentra e focalizza sul Marocco, uno dei molti viaggi di Polillo – ma in prima battuta va affrontata la tecnica alla base di tutte le immagini esposte.
Si tratta di una sorta di mosso controllato, che produce immagini frammentate in più piani secondo un asse perlopiù verticale: ciò rende le figure indefinite, galleggianti in uno spazio etereo e dominato da macchie di colore, a volte con poche dominanti – prendendo spunto visivo una veste color ocra – mentre in altre la paletta di colori risulta ricchissima di tonalità, come si trattasse un arazzo. Ciò che restituisce il fotografo rispetto al suo viaggio è, insomma, un Marocco immerso in una quantità stupefacente di luce e colore – tra Mediterraneo e Oceano Atlantico. Non vi sono ritratti nel senso stretto del termine, nemmeno precise riprese collocabili nello spazio: l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un ricordo più che a una fotografia. Il pensiero corre a quello che scrisse nel 1914 sul suo diario riguardo allo stesso Paese Paul Klee: il pittore, accompagnato dai colleghi August Macke e Louis Moilliet, ebbe una sorta di rivelazione e confessò che in quel luogo il colore lo possedeva, facendolo diventare finalmente un pittore completo. Tornando alla mostra, il merito
dell’autore milanese è quello di non riproporre l’Altrove per quello che pensiamo che sia prima di incontrarlo. Egli evita l’approccio oleografico, lo stile fotografico alla «National Geographic» – l’enfasi sulla composizione e sui paesaggi spettacolari, i ritratti in primo piano – che ha il rappresentante più conosciuto (e imitato) in Steve McCurry. Insomma, riassumendo in breve, l’Altrove, prima dell’Altro in questi tempi così svalutato, è quel luogo a cui associamo fondamentali significati simbolici e esistenziali, àncora di un percorso interiore. Come fu per un altro viaggiatore, o sarebbe meglio dire, un vero nomade contemporaneo, Bruce Chatwin. Per quest’ultimo la fotografia è un frammento di un’esperienza che ci portiamo a casa, facendoci sentire meno stanziali nella prospettiva e speranza di un’altra ripartenza. Dove e quando
Marocco. Roberto Polillo. Fotografie 2005-2018. Lugano, Musec, Villa Malpensata. Spazio Maraini. Fino al 6 settembre 2020. www.mcl.lugano.ch
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Cultura e Spettacoli È nato nel 1963 a Müsterlingen, canton Turgovia. (Keystone)
La vita (di tutti noi) secondo Zerocalcare Fumetti La prova artistica del fumettista
romano durante la quarantena Simona Sala
«Questa volta la realtà vince sulla letteratura» Incontri A colloquio con lo scrittore Peter Stamm, di cui esce
in italiano il romanzo La dolce indifferenza del mondo Natascha Fioretti I romanzi di Peter Stamm non forniscono risposte, sollevano domande, alimentano dubbi. L’abilità dell’autore turgoviese sta nell’alzare quel telo bianco davanti al quale si svolgono le nostre comuni vite, si saldano le dolci consuetudini delle nostre relazioni, per mostrarci come al di là vi sia dell’altro, un’altra verità che, nei suoi romanzi, si materializza all’improvviso facendo crollare tutte quelle certezze e quei punti di riferimento vissuti, fino a un attimo prima, come capisaldi di un’esistenza. La dolce indifferenza del mondo che nel 2018 gli è valso il Premio svizzero del libro, uscito ora in italiano per Casagrande, conferma lo stile peculiare dell’autore. La sua scrittura asciutta e precisa abbina atmosfere sospese e voluttuose a nude circostanze e smuove quel sottobosco psicologico che sottende l’esistenza umana. La storia è quella di Christoph e del suo doppio più giovane Chris, dell’amata Magdalena e del suo doppio Lena. Entrambi ambiscono a diventare scrittori, entrambe sono attrici di teatro. Il protagonista si muove tra il presente e i suoi ricordi del passato, tra sé stesso e il suo doppio secondo la morale che per ognuno di noi ce n’è un altro uguale eppure diverso. Per questo all’inizio dell’intervista non posso fare a meno di chiedere a Peter Stamm se sto parlando davvero con lui «Sono io, quello vero – mi rassicura – siamo tutti molteplici, siamo ciò che siamo ma siamo anche altro. Io esisto in quanto figlio di mia madre, compagno della mia compagna, padre dei miei figli e ogni volta nella testa delle persone, nel loro modo di vedermi, sono diverso, sono una persona differente. Poi esisto per me stesso e qui, di nuovo, non sono lo stesso Peter Stamm degli altri. Fisicamente ne esiste solo uno. In questo modo si può leggere anche il doppio nel romanzo che mette a confronto il giovane (che rivediamo attraverso i ricordi) con il più anziano Christoph, presente fisicamente. Anche il giovane Peter Stamm è ancora vivo nella mia testa». A ricoprire un ruolo centrale in questo gioco di doppi è il tempo, la percezione che ne abbiamo e i suoi effetti. Per orientarci l’autore in apertura ci regala una bussola: «Stavamo là, sdraiati, senza muoverci. Ma sotto di noi tutto si muoveva, e ci muoveva dolcemente, su e giù, da un lato all’altro». La citazione beckettiana tratta dall’opera in un unico atto L’ultimo nastro di Krapp, ritrae un anziano scrittore che ripercorre e ricorda il suo passato riascoltando le bobine registrate negli ultimi 30 anni. È un uomo solo, sfatto dall’esistenza che
si interroga sull’amore e sulla scrittura e deride sé stesso per l’effimero tentativo di dare un senso alla sua vita «il protagonista è intento a riascoltare la sua voce da giovane mentre si chiede se ha agito nel modo giusto o se ha sbagliato, se doveva decidersi in favore dell’amore o della scrittura. Il rapporto contraddittorio tra amore e scrittura gioca un ruolo importante in molti dei miei testi: chi sceglie l’amore deve rinunciare alla scrittura o viceversa?». In una narrazione articolata in salti temporali, rimandi tra doppi e variazioni di luogo (Stoccolma, Barcellona passando per l’Engadina) crescono la tensione e le perplessità di Christoph e dei più giovani Chris e Lena ai quali il protagonista racconta la sua teoria per cui tutto si sta ripetendo. Lo stesso Christoph inizia a dubitare di quel che dice e si chiede se non stia impazzendo. Se lo chiede a tratti anche il lettore e viene il dubbio che l’autore punti a destabilizzarlo: «la parola che sceglierei è disorientare. Mi fa piacere se le domande che sollevo aiutano i lettori ad abbandonare le loro sicurezze quotidiane, a chiedersi che cosa accadrebbe se le cose fossero diverse. Per me il mondo è un luogo strano, ci sono così tante cose che non capisco e ne sono affascinato, trovo eccitante il pensiero che ogni cosa sia più misteriosa di quanto si pensi. A partire dal tempo, che cos’è il tempo? Esiste ancora l’uomo che ero 30 anni fa? Nell’intento che si divertano e possano trarne beneficio, esorto le persone ad abbandonare la loro zona di comfort». Centrale, come in molti altri testi dell’autore, sono l’amore e la relazione di coppia messa sempre in discussione tra verità e apparenza «Alcune persone hanno definito i miei libri postmoderni, io credo che non si possa raccontare solo una storia nella quale si dice è successo questo e poi quell’altro. Le mie storie racchiudono altre storie, realtà diverse e possibili contemporaneamente. Soprattutto negli ultimi testi è diventata più forte la dimensione irreale, quella che scardina la realtà. Nella letteratura sono possibili cose che non lo sono altrimenti. Mi piace cogliere le opportunità che la letteratura offre». C’è un punto cruciale nella storia in cui Christoph non riesce più a sopportare il suo doppio, sente accrescere nei suoi confronti una forte gelosia e un odio che lo portano a sviluppare pensieri omicidi. Ricorda la scena del romanzo di Oscar Wilde in cui Dorian Gray fa a pezzi il suo ritratto, quel ritratto sghignazzante che come uno specchio lo confronta con i suoi errori, le sue brutture, la consapevolezza che il tempo passa e la giovinezza non ritorna «c’è questa gelosia verso l’io
più giovane ma anche lo stupore verso ciò che siamo stati. Per il nuovo libro al quale sto lavorando mi è capitato di rileggere alcuni miei carteggi di trent’anni fa e sono stupefatto dall’uomo che ero». In bene o in male? La domanda sorge spontanea. «Preferisco non dirlo!» risponde Peter Stamm con una risata. Sin dall’incipit «Viene a trovarmi spesso, di solito la notte» si ha la sensazione che Agnes, la protagonista del romanzo che lo rese famoso ai suoi esordi («Agnes è morta. L’ha uccisa un racconto»), sia tornata. «C’è un legame molto forte tra Agnes e Lena, si potrebbe dire che sia un nuovo racconto, un modo diverso di trattare lo stesso tema, di sollevare in parte le stesse domande». Ma c’è una differenza sostanziale, questa volta la donna vince o per meglio dire «la realtà vince sulla letteratura perché Lena si sottrae alla finzione, rifiuta di essere parte della storia nella quale Christoph la coinvolge». Lo saluta nella hall dell’albergo gira i tacchi e se ne va. In questo modo «la realtà di Lena ha la meglio sulla storia di Chris». Non solo, Agnes ha anche il merito dell’idea iniziale del romanzo. Peter Stamm mi racconta di essere stato a Stoccolma per incontrare la troupe che girava il film sul suo romanzo. Qui nel grande Cimitero del Bosco, il luogo letterario perfetto, ha incontrato l’attrice che interpretava il suo personaggio, la sua Agnes, e in un attimo è nato lo spunto. In chiusura non posso non chiedergli come ha vissuto da scrittore questi mesi di reclusione e con quali effetti sulla sua scrittura «all’inizio la mia attenzione si è concentrata sul virus. Poi è subentrata una sorta di abitudine e sono riuscito a scrivere molto bene, meglio del solito perché non ero distratto da sollecitazioni esterne.» Riflettendo sulle conseguenze della crisi mi dice che molti artisti e amici musicisti in questi mesi hanno perso tutte le loro entrate. Lui ha la fortuna di essere più sereno perché in questi anni ha potuto mettere da parte qualche riserva ma gli dispiacerebbe molto dover rinunciare alle presentazioni in programma per il prossimo autunno. È preoccupato per il futuro signor Stamm? «Per natura sono un ottimista, d’altro canto tendo a credere che le persone non cambiano, per questo sono del parere che una volta superata la crisi tutto tornerà come prima. La domanda è quando, quanto tempo ci vorrà e questo sì, mi preoccupa».
Ci mancherà qualcosa della quarantena? Avremo nostalgia per qualche aspetto del lockdown? Mentre qua e là si sentono (e vi è una certa ragion d’essere in tutto ciò) già le prime persone che rimpiangono il silenzio, l’aria rarefatta e il recupero di una certa intimità famigliare (laddove è stato possibile, va da sé: per molti, infatti, si è trattato di un periodo complicato, dove più che alla contemplazione ci si è dovuti dedicati a uno sfiancante jonglage organizzativo, a una difficile inerzia forzata o alle incertezze legate al futuro), vi è un appuntamento di cui con tutta probabilità più di uno sentirà la mancanza. Stiamo parlando del rendez-vous settimanale con Michele Rech, un nome che ai più non dirà molto, ma che se associato al nickname Zerocalcare saprà scatenare giustificati moti di entusiasmo e ammirazione. Propaganda Live (La Sette, venerdì sera) è una trasmissione che piace molto grazie all’aplomb e all’understatement di Diego Bianchi, uomo che della semplice t-shirt con scritta è riuscito a fare una sorta di corporate identity, ma siamo certi che negli ultimi mesi è piaciuta ancora di più, per la presenza puntuale (in tuta a tre strisce) di Zerocalcare. Ogni settimana, il timido trentaseienne si è infatti presentato in studio per mostrare il suo particolare diario, una striscia animata intitolata Rebibbia Quarantine, in cui si cominciava a ridere già durante la sigla, «sgraffignata» a un altro romano de’ Roma, il giovane cantautore Giancane (un nome, una promessa): «Adesso cosa farò? / Di certo qui morirò (...) / La fame d’aria che sale, / l’ansia cresce e fa male (...)/ Lingua asciutta, /è partita la tachicardia / È solo ipocondria / Questa mia nostalgia /Ma è solo ipocondria / Questa malinconia». La quarantena di Zerocalcare è stata né più né meno come quella di milioni di italiane e di italiani, costretti in casa dal lockdown più grande della storia dell’umanità, per di più pattugliati giorno e notte dalle forze dell’ordine «che si sentono come i custodi della Rivoluzione morale in Iran» e nel nome del nuovo ordine trattano quindi i semplici cittadini che sgarrano alla stregua dei peggiori criminali. Protagonista della striscia (e come poteva essere altrimenti?) è lo stesso Rech-Zerocalcare, che con un’ironia al vetriolo coniugata a una serie di riflessioni filosofiche, è riuscito, settimana dopo settimana, a ridarci un pezzo della nostra storia che non contenesse solamente la cronaca di quanto deciso giornalmente dalla politica, ma anche di quanto pensato, provato e sperato, magari di nascosto, da ognuno di noi. Chi non si è infatti ritrovato a vivere sintonizzato su un altro fuso orario, che non deve essere ne-
cessariamente quello di Belo Horizonte come succede al fumettista italiano, ma che comunque ha portato a infischiarsene di orari, scadenze e norme sociali? E chi ancora non ha sviluppato un (nefasto) attaccamento che spesso rasentava la dipendenza, verso tutto ciò che avesse il sapore del Bollettino delle 18 della protezione civile, o delle affollatissime (di oratori) conferenze stampa federali e cantonali? Chi non ha provato moti di gioia inattesi di fronte a messaggi da parte di personaggi radiati dalla propria vita da tempo immemore, ma che di colpo diventano un simbolo di fratellanza universale e di speranza? E chi ancora, durante i primi giorni di reclusione, sulla scia di altissime ambizioni covate per una vita intera, non si è sentito pronto a dichiarare al mondo che grazie a questa sfida inedita avrebbe cominciato a vivere la vita in modo diverso e più consapevole (iniziando così a cucinare il pane, a fare tecniche di rilassamento, giochi di famiglia e quant’altro)? Zerocalcare ha raccontato tutto questo, disegnandosi come in realtà è: stralunato, occhi sgranati, stupito di fronte a un mondo per lui spesso incomprensibile, rannicchiato sul divano di casa, lo sguardo inchiodato a turno alle news che scorrono in tv e a tutto il resto che invece passa sui nostri smartphone, nel segno di una devastante infodemia. Del mix esplosivo tra una grande capacità analitica, un’ironia pungente e il tipico essere coatti dei romani coatti (e per questo un luogo come Rebibbia ha ragione di diventare ombelico del mondo), avevamo già avuto sentore in passato, con opere come Kobane calling (la cui prima parte apparve nel 2015 su «L’internazionale» e che è stato nuovamente aggiornato proprio in queste settimane), dove al terrore per l’avanzata dell’ISIS si mescolano riflessioni importanti sulla parità di genere e considerazioni esistenziali, o il più recente (2019) La scuola di pizze in faccia del professor Calcare, che sul retro di copertina riporta un grillo che annuncia: «Impara a vivere. Ti insegniamo noi. Prenota in anticipo il tuo quadrimestre. Accademia di mitomania e direzione delle vite degli altri». Qualcuno ha detto che alla fine della quarantena dovremo tutte e tutti entrare nell’ottica di «What happens in quarantine stays in quarantine» o, per dirla con le parole di Zerocalcare, dovremo farci una ragione del fatto che tutto questo non è stato che una «grande ubriacatura generale» e quindi, ora che siamo sobri, entriamo in una fase di amnistia che annulla quanto detto, fatto e deciso (per noi) fin qui. Probabilmente sono i politici e le istituzioni stessi a suggerircelo. Ci viene solo da dire che, raccontato da Zerocalcare, è un po’ più sopportabile.
Bibliografia
Peter Stamm, La dolce indifferenza del mondo, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2020, pp. 120.
Ansia, speranza e humour: nel mondo di Zerocalcare.
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Cultura e Spettacoli
Guardiane del Tevere
hotlanta, fra rock e soul, blues e jazz
Cinema Intervista a Francesca Mazzoleni, la regista del film che
si è aggiudicato il Sesterzio d’oro al festival Visions du réel di Nyon
CD Il nuovo progetto musicale dei ticinesi
Rocco Lombardi e Matteo Bertini Laura Marzi Abbiamo incontrato Francesca Mazzoleni, vincitrice del sesterzio d’oro al Festival di Nyon Visions du réel, la cui cinquantunesima edizione si è svolta interamente online dal 17 aprile al 2 maggio scorsi. Il documentario prodotto da Morel Film con Patroclo Film con cui la regista italiana si è aggiudicata il prestigioso riconoscimento, Punta Sacra, racconta la comunità dell’Idroscalo nel comune di Ostia. Si tratta delle famiglie che hanno resistito allo sgombero del 2010 e che sono rimaste a vivere nelle loro case di lamiera sul lembo di terra alla foce del fiume Tevere.
Fabrizio Coli
Prima di tutto, come va il confinamento e cosa comporta vincere un premio così importante quando non si può neanche uscire di casa?
Beh, sicuramente ha reso la solitudine un po’ meno complessa e un momento importante come la condivisione del proprio film profondamente intimo. Non credo tornerà mai più un’anteprima con questo livello di connessione e intensità tra tutti: spettatori, «attori», amici da ogni parte del mondo che si trovano a condividere la stessa storia nello stesso momento. Chiaramente tutto questo è una soluzione di compromesso e ne sto vedendo i lati positivi, Punta Sacra è un film pensato per essere visto in sala e non possiamo fare altro che attendere il momento delle riaperture…
Il festival di Nyon è stato trasmesso online: lo staff ha fatto questa scommessa, organizzando un’intera edizione web, con un successo di pubblico notevole. Cosa ne pensi?
È stata una scommessa pionieristica ed è stato tutto organizzato con enorme professionalità e velocità. Non so come abbiano fatto. È andato tutto benissimo e ho avuto modo di vedere con attenzione e tranquillità tantissimi altri documentari molti belli. Il premio oltretutto me lo sono fabbricata da sola, rubando i colori dallo studio di mio padre come facevo da piccola. È stato molto bello. È un pesce colorato con una base di cartone. Ora lo conservo sulla libreria, è un portafortuna.
Nel tuo film colpisce molto la fiducia totale delle persone nei confronti della telecamera, tanto che essa non pesa, non crea distanze tra gli spettatori e le protagoniste. Come ci sei riuscita?
La sensazione che avevo quando le va-
La regista con il premio... autoprodotto. (www.visionsdureel.ch)
rie persone della comunità mi facevano entrare nelle loro case era di continua sorpresa, non sapevo mai a cosa sarei andata incontro, ed era una intromissione in una intimità piccola e fragile, un enorme gesto di fiducia. Così tutto il documentario rincorre questa sensazione e prova a riproporla: l’entrare di casa in casa, di vita in vita, per spiarla un po’, condividendo le lotte, le confessioni, le liti. È un film fatto insieme alla comunità. Non eravamo mai lì per rubare immagini, ma per vivere un pezzetto di vita alternativa, durante la quale, quando arrivava il momento giusto, si poteva anche accendere la telecamera. Gran parte della bellezza vissuta in quel periodo di riprese, è fuori campo. Ma credo che questa cosa si senta e arrivi lo stesso. Perché dell’idroscalo hai deciso di raccontare una storia di donne?
Se si guardano le immagini dello sgombero delle 35 case del 2010, avvenuto senza preavviso una mattina gelida, si vede questo: oltre mille agenti – tra Protezione civile, polizia, carabinieri, vigili urbani, vigili del fuoco, finanzieri, Digos, – e davanti a loro in prima fila c’erano solo le donne, donne e figli con le mani alzate a difendere le
proprie case. Quell’immagine, che si intravede in una schermata alla fine del film, è emblematica del tipo di «donne guerriere» e di società di stampo matriarcale che segna la vita quotidiana e politica del luogo. Ormai fare una storia al femminile può sembrare quasi una scelta ricercata, qui è avvenuto in modo naturale e organico. Gli uomini sono al lavoro, le donne gestiscono tutto. E il loro modo di confrontarsi, anche generazionalmente, per me era bellissimo. Come hanno reagito alla notizia della vittoria?
Festeggeremo. Non l’abbiamo potuto fare ancora insieme, ma lo faremo presto. Ho ricevuto un lunghissimo vocale di Franca Vannini, tra le principali protagoniste, che urla al telefono che ce l’hanno fatta. Che questo lavoro è una vittoria sull’immagine del luogo da sempre calpestata. Come dice il prete Don Fabio nel film: «non vogliamo essere proprietari della Foce del Tevere, possiamo esserne semmai i guardiani». Ed è vero. Solo chi vive lì da anni e si prende cura di quel pezzetto di terra conosce davvero le esigenze dello spazio e il rapporto unico con la natura, con il fiume e il mare che li circondano.
Notti afose, suoni caldi... Hotlanta, così si chiama il nuovo progetto di Rocco Lombardi e Matteo Bertini. Un gioco di parole preesistente che rimanda alla città di Atlanta e tutte le cose eccitanti che possono succedere laggiù. Batterista e insegnante alla SMUM di Lugano, Lombardi ha in Bertini un sodale dalla voce sanguigna e passionale. Con lui già condivide il palco nella Luca Princiotta Band e altre avventure musicali. «Matteo è più orientato verso il cantautorato americano e la musica southern – racconta Lombardi – io più vicino al soul, al blues e al jazz: entrambi siamo attratti dalle sonorità del Sud degli Stati Uniti. Così abbiamo deciso di dare vita ad alcune canzoni, chiamando diversi ospiti. La cosa è nata abbastanza in fretta. Abbiamo ultimato la composizione a fine dicembre, poi due prove e via in studio». Oltre a quello dei due fondatori il gruppo può contare sull’apporto fisso del tastierista Matteo Ballabio mentre al basso in quattro brani c’è Francesco Rezzonico. Nessun disco in formato fisico ma cinque brani che da qualche settimana vengono pubblicati, una alla volta, sulle piattaforme digitali: la strategia serve a dare a ogni pezzo la possibilità di essere ascoltato e apprezzato come si deve e a contenere i costi. Arcade Tales e Hotlanta sono quelli già usciti. Rappresentano bene le due facce del progetto, il primo teso verso atmosfere soffuse ma con una calda vena soul al suo interno, una vena che in Hotlanta prende invece la forma di qualcosa che sembra un incontro fra gli Allman Brothers di Dreams e With a Little Help from My Friends nella versione di Joe Cocker. A fare da fil rouge in tutti i brani è la voce di Bertini. «Di base è una sorta di rock, con influenze diverse – continua Lombardi – In un paio di composizioni mie, Arcade Tales e White Orpheus ci sono delle sonorità
più vicine al jazz, più per armonie che per esecuzione. Matteo invece propone dei brani appunto un po’ più rock soul, un po’, sì, alla Allman Brothers o alla Marcus King Band. Non ci siamo posti dei limiti stilistici ben definiti, abbiamo comunque un suono di band e ci spostiamo in questi territori anche a dipendenza degli ospiti». Vere entrambe le cose. Perché il Sud di cui sopra ha confini molto larghi e indefiniti, un territorio amato e idealizzato da musicisti che sono nati lontano da lì, un po’ come Van Morrison che echeggia nel brano The Sinner’s Soul. Ed è altrettanto vero che gli ospiti lasciano il loro segno: Roberto Pianca alla chitarra su Arcade Tales e Nolan Quinn alla tromba in White Orpheus ne enfatizzano le suggestioni jazz, mentre l’organo rovente ed energico di Frank Salis e la chitarra di Mattia Mantello esaltano le vibrazioni seventies e bluesy del pezzo che prende il nome del gruppo. È un progetto di musicisti e amici questo, attivissimi su molti fronti e innamorati della musica. Registrate al BR Sound Studio di Lodano da Romeo Pazzinetti che ha collaborato anche ad alcuni arrangiamenti, le canzoni richiamano atmosfere del passato ma con un suono moderno. «Abbiamo deciso di registrare in presa diretta, senza metronomo. Rispetto alle cose superprodotte che vanno di moda oggi, siamo andati in studio come se fossimo a un concerto o durante una prova. Questo genere di brani si presta bene a essere registrato senza tanti fronzoli. È una cosa spontanea, proprio quello che volevamo». Il prossimo pezzo, Dancing on Glass, dovrebbe arrivare il 27 maggio. E una volta esauriti tutti? «L’idea è quella di tornare a comporre e registrare qualcosa in autunno – conclude Lombardi – e mettere insieme il materiale per un programma da proporre anche dal vivo, quando si potrà tornare a farlo». Il prima possibile, speriamo.
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Cultura e Spettacoli
Alla ricerca della vita e del sé
Musica Quando «indie» è sinonimo di raffinatezza: nel nuovo CD, gli Other Lives esplorano tematiche universali
quanto dolorose – senza, però, mai perdere la speranza
Benedicta Froelich Una delle caratteristiche che hanno sempre distinto e, in fondo, perfino definito la scena musicale indie (diminutivo di «independent») è senz’altro quella della sua natura relativamente «di nicchia» – motivo per cui, negli States, la maggioranza dei suoi esponenti non può ambire a raggiungere le vette di popolarità a cui le star del pop-rock mainstream sono abituate, e deve invece accontentarsi di un seguito, per così dire, «in chiave minore». Grazie alla natura sfuggente e rarefatta del proprio lavoro, la formazione degli Other Lives rientra senz’altro in questa categoria di «illustri misconosciuti»: responsabile di una strana mistura tra suggestioni riconducibili al folk-rock d’autore e al cantautorato anni 70 (il tutto condito da reminiscenze pop-soul quantomeno démodé), il trio dell’Oklahoma può, del resto, definirsi una band piuttosto atipica. Caratterizzati da rarefatta introspezione e da uno sguardo nervoso quanto profondo sul sé e sulle umane vicende, i tre multistrumentisti di Stillwater hanno impiegato ben cinque anni per dare un seguito all’intrigante Rituals, loro terzo album; ma in questo lasso di tempo sono successe molte cose, dato che Jesse Tabish, frontman della band, ha lasciato la vibrante scena artistica di Portland per trasferirsi con la moglie Kim in una suggestiva quanto isolata «cabin in the woods» nelle montagne dell’Oregon. La piccola casa in legno gioca infatti un ruolo prominente nella genesi di questo disco, inciso proprio in un salotto convertito in sala di registrazione: qui, in uno scenario reminiscente di Walt Whitman, il gruppo si è ritrovato immerso nell’ambiente e nella disposizione d’animo ideali a esplorare, in modo più analitico che mai, tematiche spesso dolenti e complesse – le cui radici affondano nella strana malinconia
Una casa nel bosco come luogo di creatività.
e nel senso d’irredenta libertà che le sterminate distese senza tempo dell’America più rurale e selvaggia hanno sempre offerto a chiunque cercasse un rifugio in cui dedicarsi all’esplorazione del sé. Con questo For Their Love, gli Other Lives hanno quindi scelto di rinnegare il sound elettronico che aveva caratterizzato Rituals per avvicinarsi piuttosto a un proto-folk più diretto (addirittura eseguito quasi dal vivo),
seppur comunque animato da orchestralità in stile cinematografico – nello specifico, da vibranti suggestioni alla Ennio Morricone; e hanno così prodotto un disco maturo e misurato, capace di passare con la massima disinvoltura da atmosfere opprimenti a momenti di struggente liberazione, i quali a tratti riecheggiano perfino la «British Invasion» di ormai mezzo secolo fa. Così, ecco che il brano certo più evocativo del CD, la straziante ballata We Wait,
utilizza echi da film western anni 60 per rivestire la catartica rievocazione della grande tragedia vissuta da Tabish in gioventù – ovvero, la morte del suo amico e mentore Tommy per mano di un killer assoldato nientemeno che dalla moglie: «alcuni potranno chiamarlo destino, / ma io chino il capo e fuggo / non era altro che una mano su di una pistola (…) / E noi aspettiamo, aspettiamo che tu possa riposare». Questo notevole sforzo narrativo traccia fin
da subito la linea seguita da For Their Love: quella di un esericizio di cantautorato d’alto livello, pervaso da un equilibrio e sintesi pressoché perfetti tra testo e musica – tra la potenza evocativa degli arrangiamenti e l’evidente eccellenza lirica di Jesse e compagni. La natura «ad alto voltaggio emotivo» del disco è così confermata dall’epica amarezza – a cavallo tra suggestioni tipicamente «lo-fi» e il miglior folk anni 60 – di Lost Day e Hey Hey I, magistrali singoli apripista dell’album; ma anche da brani rigorosi e taglienti quali Cops e Who’s Gonna Love Us. Da parte sua, lo scaltro Nites Out costituisce un esperimento in cui atmosfere gotiche da film horror d’altri tempi fungono da base per la claustrofobica narrazione di Tabish, a confermare come gli Other Lives debbano parecchio all’arte della colonna sonora. E se All Eyes e Sound of Violence preferiscono giocare la carta del flashback in salsa vintage, Dead Language addirittura restituisce l’eco di artisti quali Simon & Garfunkel, con una duttilità confermata dal toccante brano di chiusura del CD – la romantica ballata Sideways, reminiscente degli exploit dei colleghi The National e degna di entrare nelle migliori playlist «melanconiche» di sempre. Di fatto, For Their Love riesce nella difficile impresa di coniugare assoluto rigore formale e innegabile potenza emotiva, toccando argomenti che spaziano dalla disillusione avvertita dall’artista davanti al fallimento della democrazia, fino al senso intrinseco della violenza. E proprio in momenti come questi subentra il rimpianto per il fatto che artisti di tale calibro siano destinati a rimanere perlopiù sconosciuti a quella maggioranza di pubblico affezionato ai fenomeni radiofonici da classifica – facendo così, di piccoli capolavori come quest’album, vere e proprie «gemme nascoste», da portare alla luce con pazienza e amore.
Bosso, la gioia si può imparare
In memoriam Il 15 maggio se ne è andato il musicista e compositore Ezio Bosso Enrico Parola C’era un modo infallibile per irritare Ezio Bosso: domandargli della sua malattia con l’intento di dipingerlo come un eroe. «Io sono un musicista, per favore parliamo di musica» era la sua risposta, garbata ma irremovibile. Nonostante i suoi sforzi, l’annuncio della sua morte (15 maggio) è stato accompagnato inevitabilmente da tanti riferimenti alla malattia neurodegenerativa che l’aveva colto nel 2011 segnandone la vita e la carriera. Era nato nel 1971 nella periferia operaia di Torino; «erano gli anni di piombo, quando ci dicevano che una certa sera era meglio non uscire ci si barricava in casa, si sentivano anche le sparatorie» era il ricordo della sua infanzia; era nato «in una famiglia operaia politicamente impegnata, quindi con l’idea che anch’io dovessi fare l’operaio; per abbracciare la musica dovetti compiere un atto di ribellione verso i miei». Atto osteggiato in famiglia ma benedetto da un talento enorme: studente di pianoforte in Conservatorio, dove un compositore come John Cage rimproverò l’insegnante intento a criticarlo, a 16 anni già si esibiva in tournée internazionali, richiesto da direttori come Claudio Abbado. Poi si era dedicato lui stesso alla direzione, oltre che alla composizione. Nel 2011 la malattia, che ne ha mi-
nato pesantemente il fisico, arrivando a rendergli impossibile il suonare, mentre ha continuato a dirigere. Una lotta per l’arte in cui ha profuso ogni stilla d’energia attingibile dal suo corpo martoriato; arrivava a franare esausto dopo una prova o un concerto, con le membra totalmente irrigidite; e lo si doveva caricare a forza sulla carrozzina per lasciare il teatro, atteso fuori dai camerini da una folla idolatrante che gli porgeva di tutto, anche cioccolatini e peluche. Proprio il modo di vivere la sua condizione (era ostinato in tutto: pur di non farsi aiutare arrivava a scendere le scale di un ristorante sedendosi su ogni gradino e a risalirle letteralmente avvinghiandosi al corrimano) e l’amore totale alla musica l’hanno reso un’icona planetaria: «Ho imparato a rispondere alla bruttezza con la bellezza, al dolore con l’amore, ma è una cosa che vogliono tutti; il mio successo al Festival di Sanremo si spiega per questo: non è tanto per me, ma perché la gente ha voglia di sentire una musica che parli di cose grandi, che toccano il fondo del cuore e del vivere; magari non lo sa, ma quando le capita di ascoltare queste cose il cuore sobbalza; invece oggi si punta sul sentimento e non sul sentire, sull’emozione e non sulla comprensione». Non a caso l’autore più frequentato negli ultimi tempi è stato Beethoven, in particolare le sinfonie Eroica e Quinta,
Bosso in un’immagine del 2019. (Keystone)
quella del «destino che bussa alla porta». «Beethoven proprio in quegli anni capì che stava diventando sordo, e si trattenne dal suicidarsi perché doveva fissare sul pentagramma, per comunicarlo all’umanità, quello che il genio della musica sentiva suggerirgli dentro» spiegava, pronunciando queste parole con un’immedesimazione totale: il dramma di Beethoven era lo stesso dramma che lui stava vivendo; e uguale era il modo: il dolore, la fatica, gli sfor-
zi non erano negati né minimizzati, ma non erano la parola ultima, erano «solo» la circostanza datagli per continuare a godere della Bellezza (sempre si premurava che la si scrivesse con la «B» maiuscola). È l’affermazione di una grande bellezza nella sofferenza e non della sofferenza in sé che lo ha fatto suo malgrado un modello, un riferimento, anche una consolazione. Sperava che il suo sorriso arrivasse alla gente: «Io sorridevo da
bambino e sorrido ora, anche se muscolarmente ho dovuto reimparare a farlo; è un’espressione di serenità, che a sua volta nasce dall’accettare sé stessi: io mi vado bene così, mi ritengo molto fortunato perché ho sempre avuto davanti a me tanta bellezza». Una delle sue composizioni titola Sesto respiro, «il nostro ultimo respiro, che si trasmette agli altri; ma noi facciamo di tutto per dimenticare che siamo un ciclo di vita e non un ciclo di morte».
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