Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio È il momento dei podcast: i programmi audio hanno conquistato i giovani
Ambiente e Benessere Circa il 10-15 per cento delle donne in età fertile, e quasi la metà di quelle con problemi di infertilità, sono colpite da endometriosi; ce ne parla il ginecologo Giovanni De Luca
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 31 maggio 2021
Azione 22 Politica e economia Chi occuperà il posto di Angela Merkel? Il punto a pochi mesi dall’importante voto
Cultura e Spettacoli Martha Argerich, cui la città di Lugano deve molto, compie 80 anni: un omaggio
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Nessun accordo, nessuna visione
La Biennale di Venezia si interroga su come vivremo insieme
di Peter Schiesser
di Alberto Caruso
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Dunque, questo è quanto: non ci sarà accordo istituzionale con l’Unione europea, contro il parere dei Cantoni e delle commissioni di politica estera del Parlamento. Sette anni di negoziati sprecati, senza neppure un piano B degno di questo nome. Solo una lettera alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in cui il presidente della Confederazione Guy Parmelin ribadisce la volontà di mantenere e approfondire le relazioni con un dialogo politico. Buone intenzioni e uno zuccherino: l’impegno del Consiglio federale di convincere il Parlamento a sbloccare il secondo «miliardo per la coesione», che era stato congelato in risposta al mancato riconoscimento dell’Ue dell’equipollenza della Borsa svizzera. Proviamo a metterci nei panni della Commissione europea, che da due anni e mezzo attendeva di concludere un accordo che a dicembre 2018 sembrava raggiunto, con il segretario di Stato Roberto Balzaretti: per quale motivo dovrebbe avere intenzione di trovare una nuova via per cementare le relazioni, dopo aver più volte espresso il sospetto che la Svizzera stesse facendo di tutto per non concludere l’accordo quadro? Su quali basi di fiducia reciproca? Il consigliere federale Ignazio Cassis, rispondendo a un giornalista in conferenza stampa mercoledì, ha detto che anche l’Ue ha interesse a non guastare i rapporti economici con la Svizzera, avendo un surplus commerciale di oltre 20 miliardi di franchi. Va detto che Cassis ha fatto di tutto per convincere i colleghi di Governo della necessità di un accordo istituzionale, ma questa tesi non regge, anzi: è esattamente quella dell’Udc, utilizzata come mantra per contrastare volta per volta la libera circolazione delle persone. Christoph Blocher e il suo partito possono rallegrarsi di aver ottenuto una vittoria chiave senza sparare un colpo, laddove erano stati sconfitti l’ultima volta nella votazione sulla libera circolazione nel settembre scorso. Certo, gli accordi bilaterali restano in vigore, ma con la decisione di lasciare il tavolo delle trattative si ignora che se non vengono aggiornati si svuoteranno di contenuto, così come un iphone senza update dopo un po’ diventa inutilizzabile. La Commissione europea lo ha sempre ribadito. Fra i primi a rendersene conto sarà il settore medico-tecnico, i cui prodotti non potranno più essere esportati così facilmente come in passato, e via di seguito tutte le aziende che esportano nell’Ue, poiché si ritroveranno gli ostacoli al commercio (e oneri finanziari) che gli accordi bilaterali avevano eliminato. Inoltre non ci sarà accordo sul mercato dell’elettricità, cui la Svizzera teneva parecchio, e viene messa in dubbio la partecipazione dei ricercatori svizzeri al programma di ricerca Horizon 2021-2027, ciò che impoverirà, di finanziamenti e idee, la comunità scientifica svizzera. Spero di sbagliare, ma l’impressione personale è che la speranza del Consiglio federale di mantenere e approfondire le relazioni bilaterali senza accordo istituzionale sia destinata a essere delusa. Non sarebbe la prima volta che il Consiglio federale (e con esso una buona parte della popolazione) si illude di avere un peso negoziale maggiore di quanto creda. Fu così nella seconda metà degli anni Novanta, con la diatriba sugli averi ebraici nei depositi delle banche svizzere, conclusa poi a suon di miliardi pagati dalle banche, e ancora più platealmente nel 2009, quando l’allora consigliere federale Hans-Rudolf Merz dichiarò che sul segreto bancario svizzero (gli avversari) si «sarebbero spaccati i denti». Sappiamo com’è andata a finire. La Svizzera ha dimostrato più volte in passato di credere di poter resistere alle pressioni senza adeguarsi, per poi dover cedere completamente. C’è questa convinzione diffusa secondo cui ce la caviamo benissimo da soli, in realtà il nostro benessere è frutto dell’integrazione in un mondo globalizzato, nel caso specifico nell’Europa. Il tempo dirà.
RICHIAMO – VOTAZIONe GeNeRALe 2021
SABATO 5 GIUGNO 2021 (data del timbro postale)
Keystone
La votazione generale giunge al termine. Le schede di voto devono essere spedite entro
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Società e Territorio Videogiochi Mass Effect Legendary Edition: l’epopea del comandante Shepard torna per conquistare una nuova generazione di giocatori
Un sostegno per chi cura È nata SwissCaregiver, l’associazione dedicata ai familiari curanti che offre una consulenza basata sull’ascolto e il rapporto umano
Una Biennale con poca architettura Rimandata a causa della pandemia l’esposizione veneziana si interroga sul tema How will we live together? pagina 11
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Si scarica l’episodio audio sullo smartphone e lo si ascolta dove e quando si vuole: è la nuova radio amata dagli adolescenti e tratta proprio di tutto. (Shutterstock)
Podcast, la nuova mania dei giovani
Il caffè delle mamme Dopo la Tv on demand ora è il momento dei programmi audio ideati anche dai ragazzini
Simona Ravizza Solo voce e contenuti anche di un’ora. In un mondo di clip brevi e notizie flash per una soglia dell’attenzione ormai ridotta al minimo, nonché di immagini Instagram e video Youtube e TikTok h24, sta avanzando tra gli adolescenti un nuovo mezzo che sta sovvertendo tutte le regole: il podcast, la nuova radio dei giovani, informati e connessi, particolarmente social e aperti alle diverse situazioni d’ascolto. Il nome arriva dalla fusione tra «Pod» (che richiama l’Ipod dove s’ascolta musica) e «Broadcast» (ovverosia trasmissione). A Il caffè delle mamme siamo sempre intrigate da cosa guardano e ascoltano i nostri figli e da dove s’informano (la mia, ammetto, è anche una deformazione professionale da giornalista). Ormai siamo consapevoli – e ne abbiamo parlato lungamente in altri Caffè – che la generazione Z (ossia per chi è nato dopo il 1996) s’informa anche su TikTok, che lì non cerca più solo clip musicali, meme e challenge (le famose sfide con il rilancio di video), ma segue anche le vicende di cronaca e la politica, e s’appassiona alla causa Lgbt, al Black Lives Matter, fino alla lotta contro il bullismo. Così come sappiamo che la Tv è on demand su Netflix, Prime Video e Apple Tv: «In qualunque momento,
ovunque e su qualunque dispositivo». La podcast mania è una novità: programmi audio, solitamente a episodi, che si scaricano da Internet sul proprio smartphone attraverso Apple Podcast, Google Podcasts, Audible e, soprattutto, Spotify. Appoggi lì il cellulare e tieni come rumore di fondo le voci che raccontano. Definire esattamente che cos’è un podcast è difficile perché la sua grande forza è prestarsi a raccontare, parlare e far parlare di qualsiasi argomento. Il più amato dagli adolescenti di famiglia è Muschio Selvaggio, condotto da Fedez, rapper da 12,5 milioni di follower, e dallo youtuber Luis Sal, 2,2 milioni, diventato noto alle cronache familiari per il tormentone «Ciao mi chiamo Luis». Bisogna ammettere che per noi boomer è uno sforzo non da poco anche solo capire i titoli di episodi come «Passioni con Elio e Frank Matano», «Il limite non è il cielo con Adrian Fartade» e «So Lillo e Pintus». Bisogna scoprire che Frank Matano è un altro youtuber, Adrian Fartade un divulgatore scientifico, youtuber e scrittore italiano 33enne con cittadinanza rumena, che si occupa di astronomia e astronautica e che Lillo e Pintus sono due comici. Tra le new entry c’è il cantante 26enne Michele Bravi, già vincitore di X Factor, con la Voce dei Pesci, un podcast che –
come riporta la presentazione – «prova a dare voce a riflessioni e confronti solitamente muti perché è dai pensieri silenziosi che nasce la letteratura, la musica e la creatività». Altra 26enne alle prese con il podcast Maschiacci è la cantautrice Francesca Michielin sul palco all’ultimo festival di Sanremo con Fedez: «Chi ha deciso che gli uomini si possono vestire solo di certi colori? Perché le donne non possono giocare a calcio o intendersi di sport? Chi ha stabilito che c’è un femminismo giusto e uno sbagliato? Maschiacci vuole scoprire per cosa lottano le donne oggi. Lo farà intervistando donne e uomini con punti di vista differenti che l’aiuteranno a capire dove cade, e perché esiste, la linea di confine tra ciò che una donna può e non può fare». Poi c’è Tyranny di Will Media un podcast che, dicono gli ascoltatori, dovrebbe essere obbligatorio nelle scuole superiori: è una guida satirica che, insieme ad Antonio Losito (autore Tv e Digital), racconta le storie poco note (e sbalorditive) dei tiranni, per capire perché l’umanità è ancora oggi sedotta dall’Uomo Forte. The Essential con la giornalista 34enne Mia Ceran sono i 5 minuti prediletti per l’informazione. Giovani che raccontano ai giovani tant’è che, a 47 anni, l’imprenditore digitale Marco Montemagno, con il pallino delle start
up e sempre seguitissimo sui social ha chiamato il suo podcast Zio Monty. Forse bisognerebbe semplicemente rassegnarsi al fatto che a Il caffè delle mamme siamo vecchie e non cercare di capire! Siccome gli Stati Uniti sono sempre anticipatori di tendenze è interessante conoscere la Student Podcast Challenge di NPR, radio pubblica statunitense: è un concorso tra le scuole medie e superiori che quest’anno ha portato a partecipare più di 2600 podcast da 47 Stati e dal Distretto di Columbia. Con ragazzini che registrano interviste, montano virtualmente nastri, creano home studio e leggono le loro storie in un microfono. Vincitori della Student Podcast Challenge 2020 sono I Dragon Kids che, con giovanissimi come il 12enne Leo Yu, ti insegnano parole in mandarino partendo dagli eventi attuali. Tra le storie in gara adesso quelle di tre studenti delle scuole superiori del distretto scolastico di Lower Kuskokwim nel sud-ovest dell’Alaska che hanno intervistato i loro compagni di classe sulle attività familiari che li hanno legati durante la pandemia, quelle della Heathwood Hall Episcopal School che, con uno storico, due giornalisti locali, un famoso procuratore della Carolina del Sud e il pronipote della vittima, ritornano indietro nel
tempo a più di 100 anni fa, quando un politico ha sparato e ucciso un direttore di giornale in pieno giorno a Columbia, Carolina del Sud; e ancora il podcast surrealistico su «Le lumache sono sottovalutate!» con le parole della quinta elementare della Richland Avenue School di Los Angeles. E negli Usa i podcast ideati da ragazzini già spopolano: i tre fratelli Power (Lani, 12 anni, Chaska, 13 e Mirabel, 8) hanno ideato il Book Power for Kids! in cui recitano brani tratti da libri. Newsy Jacuzzi è un podcast settimanale, adatto alle famiglie, che riporta storie educative per bambini, come le elezioni negli Stati Uniti, l’ascesa dei veicoli elettrici, l’aria tossica dell’India, le stagioni delle tempeste e storie che vanno dalla neve al cioccolato in Svizzera ai dinosauri 3D. È presentato da Leela Sivasankar Prickitt, 8 anni appena che s’infila sotto il letto dei genitori per registrare le battute perché lì il suono viene perfetto, e da sua mamma Lindee, che vivono in India e vantano l’aiuto di bambini corrispondenti da tutto il mondo. Insomma, concludiamo a Il Caffè delle mamme, in futuro i podcast continueranno sempre di più ad avere un ruolo nell’ascolto on demand dei nostri figli. E chissà mai, magari, qualcuno di loro proverà a registrarne uno!
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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La pigrizia costa fatica
Intervista L’ozio forzato a cui ci ha costretti il lockdown ci ha messo di fronte alle reali difficoltà dell’essere meno
attivi, ne abbiamo parlato con la filosofa Francesca Rigotti Alessandra Ostini Sutto La storia della pigrizia ha radici antiche, che si incrociano con quelle dell’ozio e dell’accidia. L’ozio, padre di tutti i vizi, è pure virtù del letterato. Analogamente l’accidia è vizio capitale, anche se nel tempo vi sono state intere classi sociali che ne hanno fatto il loro vanto e la loro aspirazione. Passando alla pigrizia, essa si ritrova in numerosi testi letterari, in alcuni come tratto caratterizzante di un personaggio, in altri come atteggiamento di ribellione contro la società. In gioco è la rivendicazione del desiderio di riposo e dell’esigenza del non voler fare. Di questi temi si è occupato Gianfranco Marrone, ordinario di semiotica all’Università di Palermo, nel suo La fatica di essere pigri, uscito circa un anno fa, subito dopo il primo lockdown. Si tratta di un saggio fondato sul paradosso secondo il quale per essere pigri, atteggiamento duramente criticato dalla società occidentale, sia in realtà necessario darsi da fare e compiere uno sforzo sia fisico che intellettuale. In un’epoca come quella attuale, che glorifica la prestazione e in cui non esiste distinzione tra tempo libero e lavorativo, dovendo, in ognuno di questi ambiti, essere costantemente produttivi, non far nulla è infatti tutt’altro che scontato. L’arte del dolce far nulla, nucleo centrale del libro, è quindi una libertà guadagnata da chi resiste ai doveri sociali e si ribella ai ritmi frenetici della vita moderna. La prova della tesi di Marrone, secondo il quale ozio e pigrizia non sembrano appartenere all’uomo moderno, l’abbiamo avuta con i lockdown impostici per contrastare il coronavirus, durante i quali, chiusi nelle nostre case, abbiamo sperimentato un periodo di «ozio forzato» che ci ha messi di fronte alla reale difficoltà nell’essere meno attivi. Da queste considerazioni abbiamo preso spunto per riflettere sul concetto di pigrizia con Francesca Rigotti, filosofa e saggista italiana, che è stata docente presso le Università di Göttingen e Zurigo e visiting fellow all’Università di Princeton; nel 1996 ha iniziato ad insegnare alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera italiana. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano più di venti di monografie, tradotte in tredici lingue, per le quali Rigotti ha ricevuto diversi premi. La filosofa è inoltre autrice di numerosi articoli e saggi apparsi su riviste specializzate internazionali. Professoressa Rigotti, il termine «pigrizia» ha tutt’oggi una connotazione negativa, mentre l’accidia è addirittura uno dei sette vizi capitali; quali sono le loro «colpe», perché sono ritenute così gravi per l’animo umano? Quali sono, d’altra parte, i lati positivi di queste inclinazioni?
Più complessa e articolata della pigrizia, l’accidia è il vizio tipico di chi
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Ozio e pigrizia non sembrano appartenere alla nostra società sempre tesa alla prestazione. (Shutterstock)
conduce una vita isolata, contemplativa: è infatti un tratto caratteristico dei monaci medievali che talvolta si lasciavano prendere da sconforto, tristezza, inquietudine. Nel mondo greco antico invece, l’accidia era indifferenza al dolore altrui. Oggi la chiameremmo mancanza di empatia, se non depressione, trasformando in malattia quello che una volta era considerato vizio. L’antica accidia si presenta oggi nelle forme della noia di vivere e della depressione, quel «vuoto oscuro e maligno padrone della mente del depresso dei nostri tempi, che chiede aiuto alla psicoanalisi e agli psicofarmaci» di cui parla Sergio Benvenuto nel suo libro intitolato appunto Accidia. La passione dell’indifferenza. La pigrizia è una faccenda più banale: pigro è chi rifugge dallo sforzo e dalla fatica, agisce lentamente e con poca voglia, è tardo e pesante nel muoversi (il termine «pigro» è imparentato con «pingue», grasso). L’ozio, simile per significato alla pigrizia, ha più spesso una valenza positiva; come mai? Quali sono le differenze tra i due concetti?
Un momento: nell’accezione comune l’ozio non è proprio una virtù, anzi. La teologia morale ne fa una tendenza alla pigrizia e alla negligenza dei propri doveri. Nel mondo romano invece «ozio» era opposto a «negozio» cioè al tempo della vita attiva e degli affari pubblici; era il momento dedicato alla vita privata o allo studio e alle attività letterarie (otium litterarum). Oggi l’antropologia rivaluta l’ozio e la pigrizia come fattori di stimolo nell’escogitare soluzioni per risparmiare tempo e fatica. L’ozio non sarebbe più il padre Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni
di tutti i vizi, né la pigrizia un tratto da correggere, ma entrambi fattori di inventiva e creatività.
Gianfranco Marrone ha pubblicato lo scorso anno La fatica di essere pigri, un testo sull’arte del dolce far nulla, vista come una libertà che nell’attuale società viene attribuita a chi rinuncia all’operosità e alla produttività richieste in favore dell’aspirazione al riposo. Cosa pensa di questa lettura della pigrizia?
Marrone è semiologo ma anche fine antropologo della modernità e la sua analisi va nella direzione di una sorta di valorizzazione della pigrizia o in ogni caso di riflessione sul senso del nostro continuo agitarci e trovare per ogni attività un utile: si progettano vacanze intelligenti per imparare noi e i figli, si fanno giochi divertenti ma che siano istruttivi, mi raccomando, e via dicendo. Soprattutto rimpinziamo di attività la vita dei bambini togliendo loro il diritto alla noia. Anche la tradizione filosofica ha riflettuto sulla pigrizia, in molti casi valutandola negativamente, in altri con valenze positive…
Il pensiero antico ha valorizzato il cosiddetto otium philosophicum nel senso di cui abbiamo detto sopra, cioè in quanto tempo libero dal lavoro e dalle attività pubbliche (vita activa) e corrispondente a uno stato di raccoglimento e di riflessione (vita contemplativa). Il filosofo e uomo politico romano Seneca, scrisse addirittura un trattato sull’ozio, inteso però sempre come momento lontano dagli affari pubblici e dedicato a riflettere sulle grandi questioni del mondo e dell’umanità. Quindi una editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31
bella differenza con la pigrizia, anche perché il lavoro intellettuale intenso non è per nulla facile e riposante. Non è buttar giù alberi con l’accetta, d’accordo, ma anche «buttar giù» pensieri e riflessioni richiede fatica e impegno. Capita di dire – o quantomeno di sentire – che «il mondo è pieno di scansafatiche»; nella realtà dei fatti però la maggior parte delle persone si è lamentata della situazione di stop forzato con la quale ci siamo confrontati nell’ultimo anno ed ha faticato a dover essere meno attiva; come commenta questo apparente paradosso?
Non è un paradosso, semplicemente non è vero che il mondo è pieno di fannulloni; è pieno invece di pregiudizi, per esempio relativi ai popoli che indulgerebbero nella «dolce vita» invece di faticare. Ci sono persone più lente di altre ma non è detto che i risultati e le prestazioni delle une siano migliori o peggiori di quelli delle altre.
di lavorare e guadagnare in cambio di una umiliante elemosina statale. Tante persone si sono ritrovate depresse a ragione, non per malattia. È stata loro permessa unicamente una vita davanti allo schermo, anzi questa non-vita è stata esaltata con parole trionfaliste: «Guardate quant’è bello lavorare a distanza, è come prima soltanto un po’ diverso». Come se tutte le categorie di lavoratori potessero lavorare e guadagnare battendo tastini e come se le lezioni a distanza, a scuola o all’università, fossero la stessa cosa di quelle in presenza. Parlando di influenze del contesto, leggevo che la malattia del nostro tempo le sembra piuttosto «l’indugiare sul facile e immediatamente gratificante», con evidenti legami con i social media. Quali altre applicazioni vede di questa tendenza? Le motivazioni hanno a che fare con una forma di pigrizia, superficialità o c’è dell’altro?
Che spazio e che ruolo occupa quindi la pigrizia in una società della prestazione come la nostra? In che modo la pandemia in corso, con le connesse limitazioni alle nostre libertà e attività, ha avuto un’influenza su di essi?
Altre applicazioni di questa tendenza le vedo nel fatto che non si fanno figli: non che io mi auguri la crescita demografica, siamo già anche troppi. Tuttavia colgo una tendenza a non darsi da fare in attività impegnative, faticose e a lunga scadenza; perché appagarsi con un bambino che urla di notte e richiede cure costanti e non con un bel videogioco o una chattata con gli amici? Trovo corrispondenza con questo modo di comportarsi e il principio di singolarità che pervade la società. Singolarità nel senso che io sono unico e speciale nonché l’ombelico del mondo. Sto scrivendo un libro, su questo tema. Uscirà a settembre per Einaudi col titolo L’era del singolo.
Tiratura 101’262 copie
Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch
Prima della pandemia dovevamo tutti muoverci continuamente, correre come criceti sulla ruota; nemmeno in montagna si poteva più camminare, bisognava correre e correre con lo scopo di raggiungere la vetta e precipitevolissimevolmente ridiscendere. Poi le limitazioni dei diritti e delle libertà civili messe in atto per contrastare la pandemia hanno costretto moltissime persone all’inazione, impedendo loro
Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch
Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Idee e acquisti per la settimana
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Salumi ticinesi d’eccellenza
Attualità I Salumi del Pin produce per Migros Ticino diverse specialità di salumeria
Ti-Press / Elia Bianchi
secondo la migliore tradizione ticinese. Abbiamo fatto visita all’azienda, nella storica sede di Via Stella a Mendrisio, incontrando il titolare Angelo Valsangiacomo
Azione 30% Prosciutto crudo nostrano affettato in vaschetta per 100 g Fr. 4.80 invece di 6.90 dall’1 al 7.6
Signor Valsangiacomo, perché ha scelto di fare il salumiere?
Sono cresciuto in una famiglia contadina, dove l’agricoltura, gli animali e la mazza casalinga sono stati sempre parte integrante della mia vita. Nel 1976, all’età di 15 anni, quasi naturalmente, iniziai l’apprendistato di macellaio-salumiere, presso quello che all’epoca era il salumificio della famiglia Brenni. Qui ebbi modo di appassionarmi al mestiere e conoscerne tutti i segreti e i saperi. Nel 1996 diventai socio del titolare Tino Brenni, cambiando il nome in «I Salumi del Pin», ispirandomi al soprannome di mio nonno, «Pin dala Vila». Infine, nel 2006 rilevai personalmente la gestione del salumificio. Come si producono dei buoni salumi nostrani?
Innanzitutto, facendo capo a carni di qualità, che nel caso dei salumi nostrani
provengono da maiali allevati in Ticino, dove possono crescere con libertà di movimento e nutriti con foraggi appositamente selezionati. Dopodiché, c’è l’accurata lavorazione artigianale da parte dei nostri mastri salumieri, processo che si basa su antiche ricette tradizionali della regione tramandatesi da ben tre generazioni. Il tutto si conclude con la stagionatura, procedimento lento, graduale e naturale che conferisce al prodotto le sue tipiche e caratteristiche qualità organolettiche. Quali sono le specialità locali che produce per Migros sotto il marchio Nostrani del Ticino?
Per quanto riguarda la salumeria tradizionale, la gamma include mortadella di fegato, prosciutto crudo, prosciutto cotto, salame e salametti al merlot, coppa, lardo salato, pancetta arrotolata e pancetta piana. Nei salumi da cuocere
Angelo Valsangiacomo e il figlio Oscar sono titolari del salumificio «I Salumi del Pin» di Mendrisio.
abbiamo le luganighe, la luganighetta, il cotechino e, durante le festività di fine anno, lo zampone. Infine, lavoriamo e forniamo anche diversi tagli di carne fresca di maiale nostrano, disponibili presso i banchi macelleria Migros. Un prodotto di particolare pregio è sicuramente il prosciutto crudo nostrano (questa settimana in promozione). Come si prepara questa aromatica specialità?
Il crudo è sicuramente uno dei fiori all’occhiello della nostra produzione. Per realizzarlo selezioniamo le cosce migliori dei suini allevati in Ticino. Dopo la disossatura, le cosce sono aromatizzate a secco con il solo utilizzo di una miscela di spezie naturali, sale e vino ticinese. Dopo aver «riposato» per qualche giorno in modo da far assorbire bene gli aromi, i prosciutti vengono messi a stagionare in apposite celle a umidità e
temperatura controllate per un minimo di 4 mesi, dove acquisiscono il delicato sapore che li contraddistingue. Il modo migliore per apprezzarlo?
Per esempio, con un grande classico dell’estate: accostato ad un melone dolce e maturo, che contrasta idealmente la sapidità del prosciutto crudo. Ma naturalmente anche mangiato da solo ha il suo perché. Consiglio di togliere il prosciutto dal frigo almeno mezz’ora prima di gustarlo e aprire la vaschetta: in questo modo può sviluppare appieno il suo aroma. A proposito, anche i suoi figli sono attivi in azienda…
Esattamente. Recentemente i miei figli Alice e Oscar sono entrati a far parte dell’azienda di famiglia. Un buon auspicio per un prosieguo all’insegna della qualità e della tradizione.
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Idee e acquisti per la settimana
Migros Ticino lancia il sito dei Nostrani
Novità Nostranidelticino.ch è il nuovo punto di riferimento dedicato ai prodotti
della nostra regione
È finalmente online il nuovo sito internet dei Nostrani del Ticino! Gli amanti dei prodotti a km zero, chi vuole scoprire le tipicità ticinesi o coloro che semplicemente cercano nuove ispirazioni culinarie, sul portale nostranidelticino.ch trovano un mondo tutto
da scoprire, dove gli oltre 300 prodotti della gamma sono i veri protagonisti. Pensato per una navigazione molto intuitiva, il portale vuole valorizzare i pregiati prodotti e produttori della nostra regione e farli conoscere al pubblico grazie da una grafica semplice e ben
strutturata. Sotto la sezione «Prodotti» gli internauti trovano la gamma di alimenti della regione disponibile nei negozi Migros, suddivisa per categorie, con la relativa descrizione per ogni singolo articolo. La parte dedicata al «Marchio» pre-
senta la storia della coccarda dei Nostrani del Ticino e l’importanza che i prodotti con questo label hanno per l’economia locale. Viene naturalmente dato spazio anche ai «Fornitori», evidenziando la loro produzione. Infine, particolare interesse assume la
Ricette nostrane «stellate»
Gastronomia Il noto chef Lorenzo Albrici ha
preparato due semplici ricette a base di soli ingredienti della nostra regione. Seguite le sue videoricette spiegate passo dopo passo Da oltre vent’anni Lorenzo Albrici gestisce la Locanda Orico di Bellinzona, accogliente e imprescindibile luogo di ritrovo per coloro che amano la cucina ricercata e creativa. «La mia proposta gastronomica rappresenta un connubio ideale tra il gusto mediterraneo e quello francese, con un particolare occhio di riguardo per la qualità eccelsa degli ingredienti, nonché per la stagionalità e la territorialità degli stessi», ci spiega lo chef stellato bellinzonese. «Seleziono personalmente tutti gli ingredienti che utilizzo nelle mie ricette, che devono essere tutti freschissimi e di prima scelta. La mia cucina si caratterizza per la sua leggerezza e mira a valorizzare al massimo gli alimenti utilizzati senza alterarne il gusto originale». Ricette nostrane alla portata di tutti
Lorenzo Albrici ha raccolto di buon grado l’idea di preparare due ricette di stagione a base di soli ingredienti dei Nostrani del Ticino: «Sono ottimi pro-
dotti. Ne acquisto diversi con regolarità, sia privatamente che per il ristorante. Oltre alla qualità, apprezzo anche la loro vicinanza al territorio e il fatto che, acquistandoli, si promuove e sostiene l’economia ticinese. Ultimamente ne ho scoperti alcuni particolarmente interessanti per la mia cucina, come l’olio di semi di girasole e l’aceto balsamico, che mi hanno sorpreso positivamente». Le due ricette proposte dallo chef – un secondo e un dessert – sono facili e veloci da preparare anche a casa, seguendo i video tutorial che trovate al link indicato a fianco. La prima prelibatezza è un tataki di manzo nostrano con fonduta di cipollotti e pomodorini cherry, aceto balsamico giovane e cialda di pane Val Morobbia. Una golosità per tutti gli amanti dei dessert è invece la zuppetta di fragole profumata allo sciroppo di sambuco con gelato fior di latte, sbriciolata di frolla al limone della Valle Bedretto e meringata dorata.
a la prim a d r a Gu u cetta s videori o.ch/ idelticin nostran ttualita a
Lo chef stellato Lorenzo Albrici ha cucinato due ricette a base di ingredienti firmati Nostrani del Ticino.
sezione «Attualità», che verrà regolarmente aggiornata con approfondimenti e consigli utili sulle bontà regionali, come pure sulle promozioni di cui sono oggetto. Attendiamo con piacere la vostra visita nel nostro nuovo sito internet!
Apertura straordinaria
Giovedì 3 giugno Festa di Corpus Domini
Tutti i punti vendita Migros in Ticino saranno aperti dalle ore 10.00 alle 18.00 Ecco come proteggerti e come proteggere gli altri
Evita di fare la spesa all’ultimo momento.
Pianifica con anticipo i tuoi acquisti ed evita gli orari di punta.
Se possibile, solo una persona per economia domestica dovrebbe fare acquisti.
Mantieni almeno 1,5 m di distanza.
Disinfetta bene le mani ogni volta che entri in filiale.
Quando entri nei negozi, indossa sempre la mascherina.
Segui le istruzioni dei nostri collaboratori.
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Società e Territorio
Mass Effect diventa leggenda
Videogiochi L’epopea del comandante Shepard torna per conquistare una nuova generazione di giocatori
Davide Canavesi L’umanità ha da sempre guardato alle stelle chiedendosi se ci fosse qualcun altro là fuori. La risposta giunse nel 2148 quando degli esploratori trovarono un database Prothean nascosto su Marte. I dati, sebbene incompleti, diedero una svolta all’evoluzione scientifica dell’umanità, facendo guadagnare all’uomo centinaia d’anni di scoperte tecnologiche in un lampo. Lo studio dei dati portò alla scoperta del sistema dei portali galattici, lo sviluppo di navi spaziali in grado di attraversarli e la successiva realizzazione che l’umanità non era sola nella galassia con un primo, storico contatto, nel 2157. Peccato che non si trattò di un contatto pacifico ma di un vero e proprio conflitto con delle truppe della razza Turian. Fortunatamente, grazie ad intensi sforzi diplomatici da parte del Consiglio, il malinteso venne sanato e all’umanità fu concessa un’ambasciata permanente sulla Cittadella, il centro politico della comunità intergalattica. Ma la velocità con cui gli umani si imposero in forze nella più ampia società galattica creò malumori tra le altre comunità, finché, un giorno, le cose cambiarono. Il Comandante Shepard, un umano, fu ammesso tra i ranghi degli Spettri, la forza di sicurezza personale del Consiglio, per indagare sul pianeta Eden Prime. La missione era semplice: scoprire cosa stesse combinando un altro spettro di nome Saren. Peccato che gli eventi messi in moto da Saren avreb-
Liara, tra i personaggi di cui potremo scoprire storia, segreti e motivazioni personali. (2021 Electronic Arts)
bero presto messo a repentaglio l’esistenza stessa della vita nella galassia. Questo, a sommi capi, è l’incipit di una delle epopee sci-fi più famose ed osannate del mondo dei videogiochi. Le avventure del Capitano Shepard, uscite originariamente tra il 2007 e il 2012, hanno saputo catturare l’immaginario collettivo. Una trilogia dalle mille sfaccettature, personaggi carismatici, cattivi spaventosi e infinite scelte morali. Mass Effect, che esce nel
2021 con una collezione rimasterizzata per console di nuova generazione e PC, riunisce questa storica produzione di Bioware in un pacchetto unico, migliorando nettamente il gameplay del primo gioco e dando una bella spolveratina ai due successivi. La trilogia di Mass Effect ci immergerà in un gioco di ruolo con fortissime componenti action. Una volta scelta la nostra carriera e le nostre abilità di base saremo sguinzagliati
per la galassia a bordo della nave Normandy, svolgendo missioni principali e secondarie. Incontreremo tantissimi personaggi, alcuni buoni e alcuni cattivi, potremo tentare di salvare tutti o comportarci in modo ignobile e crudele. Tra una sparatoria e una spedizione mineraria, infatti, ci troveremo di fronte a tantissime discussioni in cui potremo, a seconda della nostra morale, scegliere in che modo rispondere. Potremo impersonare l’e-
roe positivo, un faro di speranza nella imminente lotta contro la distruzione totale di ogni forma di vita oppure potremo scegliere di comportarci come dei sadici tiranni. Le nostre scelte si ripercuoteranno non solo sul numero di alleati a nostra disposizione in un gioco ma anche nei successivi, visto che i salvataggi saranno cumulati tra uno e l’altro. Se, per qualche motivo, dovessimo perdere uno dei nostri alleati in Mass Effect 1, non lo rivedremo mai più, anche se ci sono diverse missioni e ore di gioco potenzialmente previste nei sequel. E di ore ne potremo spendere davvero tante tentando di massimizzare i nostri poteri, raccogliere ogni arma, percorrere ogni ramo della complessa ed intricata trama che, per essere davvero portata a termine come si deve, richiederà decine e decine di ore al giocatore. Da un punto di vista puramente ludico, Mass Effect Legendary Edition soddisfa con tanta azione divisa in esplorazione di mondi alieni, intrighi politici in sconfinate metropoli e un pizzico di politica, tradimenti e storie d’amore. Tutto questo finché non cominceremo a scoprire le motivazioni dei vari personaggi, tra drammi, tragedie, rivincite e segreti inconfessabili. Più andremo avanti con la storia e più ci ritroveremo invischiati in una sorta di soap opera spaziale, ma in senso assolutamente positivo. Sarà impossibile non restare coinvolti dalle storie di Miranda, Jack, Liara, Garrus e i tanti (tanti!) altri personaggi presenti. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Società e Territorio
In ascolto di chi cura
65piu si rinnova
di creare le migliori condizioni per l’accudimento e una comunità di mutuo aiuto
per il portale dedicato agli over 65
Caregiver Nasce la prima associazione no-profit dedicata ai familiari curanti con lo scopo
Sara Rossi Guidicelli Nella nuova pianificazione cantonale sulla salute, il familiare curante è inserito come concetto chiave, definito «uno dei principali componenti della rete sociosanitaria». E non è solo visto come risorsa fondamentale, ma anche come possibile soggetto che abbisogna di un aiuto, perché sotto pressione fisica, emotiva e psicologica, senza essere un professionista della cura. Il cosiddetto familiare curante, si sottolinea nel rapporto, non è per forza parte della famiglia: anche se molto spesso si tratta di un parente, a volte è un amico o un vicino di casa che accudisce la persona bisognosa di cure. Per questo, la parola caregiver (donatore di cure) può sembrare più adatta. In ogni caso, praticamente nessun cittadino che necessiti di cure o assistenza può trovare tutte le risposte ai propri bisogni tramite la rete formale; ecco quindi che entra in gioco l’appoggio e l’accompagnamento di una o più persone spinte dall’affetto o dal senso del dovere, che si prendono sulle spalle parte del lavoro di cura, di organizzazione, di accudimento, sostegno morale, disbrigo delle questioni pratiche e così via. Ma di loro, chi si occupa? Alcune misure sono già state prese, altre si stanno concretizzando. La Confederazione, per esempio, ha varato una legge federale per il miglioramento della conciliabilità tra attività lucrativa e assistenza ai familiari che entrerà in vigore entro la fine di quest’anno. Nel Canton Ticino sono stati aperti i centri diurni e i servizi a domicilio per persone con disabilità, per offrire al familiare curante regolari momenti di sgravio. Servizi di consegna dei pasti a domicilio, servizi per agevolare il trasporto di persone invalide e una piattaforma sul sito del Cantone appositamente dedicata, sono altre misure che mirano a facilitare la vita dei caregiver.
SwissCaregiver vuole valorizzare e sostenere tutti coloro che si prendono cura a domicilio di un parente o di una persona cara, offrendo una consulenza basata sull’ascolto e il rapporto umano Inoltre per familiari curanti è appena nata (è attiva da maggio di quest’anno) una nuova associazione: la SwissCaregiver. «Sono alcuni anni che ci costruiamo e da un mese siamo oramai attivi», spiega Davide Di Vincenzo, coordinatore di questa associazione non-profit basata a Sementina. «La nostra missione è dare un supporto ai caregiver che si occupano di un loro caro a domicilio. Vogliamo valorizzare e sostenere questi grandi esempi di solidarietà e umanità. Sappiamo che viviamo in un paese in cui il sistema di cure è eccellente, ma che purtroppo non è sempre facile sapere a chi rivolgersi per ottenere tutto ciò di cui si ha bisogno. A volte l’informazione arriva troppo tardi. La nostra funzione è quella di dare una consulenza puntuale e mirata per indirizzare le persone ai servizi presenti sul nostro territorio». Cuore dell’associazione è un centralino telefonico (091/224 72 78) attivo ogni mattina della settimana lavorativa e un gruppo di persone formate dall’associazione stessa che rispondono al telefono. Questa con-
A volte c’è bisogno di aiuto per potersi occupare di un proprio caro con serenità. (Shutterstock)
sulenza è pensata per rispondere a tutte le domande dell’utenza: come faccio ad avere un infermiere a domicilio? Di quali aiuti posso beneficiare in supporto alla cura dell’anziano? Se ho un familiare disabile con particolari esigenze di trasporto a chi mi posso rivolgere? Come posso prendermi qualche ora per me? «Queste sono solo alcune delle moltissime domande che si pone il caregiver, che spesso all’inizio del suo compito di cura si sente solo e spiazzato. L’informazione è la chiave per uscire dall’iniziale smarrimento. Io stesso ho vissuto un’esperienza personale di familiare curante», racconta Davide Di Vincenzo. «Come molti, nemmeno io sapevo a chi rivolgermi per molte questioni che ho dovuto affrontare. Quando ci si occupa di un proprio caro la pressione emotiva è forte, si sente il peso della responsabilità, ma anche dell’urgenza di trovare rapidamente delle soluzioni. Ecco perché poi ho deciso di fondare un’associazione apposita, basata sull’ascolto e il rapporto umano, perché grazie alle nostre informazioni, alla comunicazione efficace ma comunque empatica, è possibile risparmiare tempo prezioso». SwissCaregiver non offre una consulenza professionale su questioni mediche o amministrative, ma un rimando agli specialisti di ogni settore e, non da ultimo, un sostegno amichevole: è la stampella cui il familiare curante si può tranquillamente appoggiare, per il giusto sostegno. Il servizio non si limita infatti a rispondere alle chiamate degli associati, ma si mantiene in contatto con loro, richiamandoli regolarmente per sapere se i consigli sono stati utili, se c’è bisogno di altro, se le cose vanno meglio o semplicemente per fare due chiacchiere. Oltre che dal coordinatore, l’associazione è formata da due infermiere con esperienza, da due avvocati e da personale formato internamente per poter offrire informazioni sui servizi del territorio il più possibile preciso e esaustivo. Un altro obiettivo dell’associazione è di formare i caregiver volontari: possono essere ex familiari curanti che desiderano mettere a disposizione le proprie esperienze o persone che si sentono di fungere da supporto a persone che in questo momento hanno bisogno di sostegno. La formazione, a pagamento, rende consapevoli i volontari sui diritti e i doveri dei caregiver, dà una base di conoscenza sui primi soccorsi, offre una panoramica delle risorse sul territorio in ambito socio-sanitario, approfondisce l’uso corretto di alcuni dispositivi di telemedicina e esplora al-
cune tematiche delicate ma specifiche per chi sta a fianco di una persona disabile, o malata, o in fin di vita. «Stiamo lavorando a questo progetto per creare una community, capace di condividere esperienze di mutuo aiuto tra familiari curanti; un caregiver formato può recarsi a domicilio di un altro in difficoltà e fungere da persona amica, che accompagna chi ha bisogno (moglie,
marito, figli, anche i badanti della persona bisognosa di cure) nei vari iter che sta seguendo. A volte poi, sembra scontato ma è la cosa più importante, c’è “solo” bisogno di un po’ di compagnia e di molto ascolto».
Web Nuovi contenuti
Ad un anno e mezzo dalla messa online, il portale www.65piu.ch, dedicato alle persone della terza e quarta età e ai loro familiari, si rinnova nei contenuti e nelle funzionalità. La piattaforma è fin dalla sua nascita uno strumento a disposizione di tutti coloro che lavorano a contatto con gli anziani e che propongono progetti, servizi e prodotti per il loro benessere. Nel sito si trovano consigli su attività da svolgere durante il tempo libero e tante informazioni per le necessità d’aiuto e d’assistenza degli anziani, ma anche ritratti, storie, opinioni e... i consigli della nonna. Con la nuova struttura il sito vuole dare ora più voce agli over 65, raccontando le loro storie, presentando i loro hobby e le loro opinioni. Al motto «Raccontaci la tua storia, la tua esperienza ci sta a cuore» la redazione invita chiunque voglia condividere il proprio pensiero o esperienza a prendere contatto con il portale scrivendo a info@65piu. ch o telefonando allo 091 224 26 96.
Informazioni
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Società e Territorio
Una Biennale con molti pensieri ma con poca architettura
Venezia Rimandata a causa della pandemia è stata da poco inaugurata La Biennale di architettura
Alberto Caruso «Cinque persone entrano in una stanza in cui ci sono solo quattro sedie. Chi si siede e dove? Possono fare il “gioco delle sedie”. Questo è un contratto spaziale. Oppure possono allineare le sedie per formare una panchina che le possa accomodare tutte. Questo è un altro tipo di contratto spaziale...». È uno degli esempi che Hashim Sarkis, il curatore libaneseamericano di questa Biennale ha proposto per illustrare come la politica stabilisce i processi della vita collettiva, ma poi sono gli spazi nei quali si svolge la stessa vita collettiva che determinano sostanzialmente i suoi effetti. How will we live together? (Come vivremo insieme?) è il tema dell’esposizione veneziana, il cui allestimento è stato più volte rimandato a causa della pandemia, fino all’inaugurazione avvenuta lo scorso 22 maggio, un anno dopo la prevista scadenza biennale. How will we live together? è un tema molto ampio e viene declinato dallo stesso Sarkis in numerose questioni, che sono quelle che animano i movimenti sociali in tutto il mondo: dalla crisi climatica e ambientale ai massicci spostamenti di popolazione, dalle crescenti disuguaglianze economiche, sociali e razziali alle tecnologie per realizzare alloggi collettivi innovativi, dalla crisi delle città globali alla distribuzione più equa delle risorse. Mille complesse problematiche, di natura soprattutto sociale e politica, per affrontare le quali Sarkis ha invitato architetti di tutto il mondo a ricercare soluzioni e modi alternativi di vivere insieme. Sarkis sostiene che «non possiamo più aspettare che siano i politici a proporre un percorso verso un futuro migliore». L’invito a sostituire la politica è stato accolto dagli ospiti con riflessioni e installazioni comprensibili perlopiù previa lettura di lunghi e faticosi testi esplicativi. In generale, abbiamo visto molte ricerche e poca architettura. Molti degli invitati hanno presentato visioni impegnate sul futuro del mondo, difficili da leggere dal grande pubblico, perché non interpretate e tradotte con gli strumenti propri della disciplina architettonica, cioè con progetti di spazi e di forme. Come è successo anche in passato, quando il tema proposto dal curatore è poco circostanziato sono i padiglioni
Il padiglione degli Stati Uniti ispirato alle case in legno costruite con il sistema balloon frame. (Shutterstock)
nazionali, con i loro temi, a caratterizzare l’esposizione. La posticipazione dell’inaugurazione ha avuto effetti anche sui contenuti dei padiglioni e alcuni di essi sono rimasti chiusi. Il padiglione della Germania ha aperto in modo provocatorio: i quattro grandi spazi nei quali è articolato sono completamente vuoti e sul muro di fondo di ognuno è dipinto, in grande formato, un QR Code, attraverso il quale lo smartphone personale accede ai contenuti del padiglione. A volte il ritardo ha anche prodotto effetti positivi, consentendo più tempo per la progettazione e mutamenti di rotta in corsa. È il caso del padiglione svizzero, curato dai giovani architetti ginevrini Mounir Ayoub e Vanessa Lacaille con Fabrice Aragno e Pierre Szczepski e dedicato ai limiti dei territori (Orae – Experiences on the Border), un tema
cruciale per un paese confinante con tanti e diversi popoli e culture. Accompagnato da Mounir Ayoub, chi scrive ha visitato la raccolta di modelli ospitati nel padiglione e costruiti dalla squadra di curatori insieme agli abitanti di villaggi e città di frontiera durante un lungo viaggio di ascolto. Dal Grüne Grenze alla frontiera di Ginevra con la Francia, a Chiasso, la mappa complessa e molto interessante dei sentimenti e delle esperienze spaziali – dirette più ad unire che a dividere – è stata indagata senza preconcetti e rappresentata attraverso modelli elementari, a volte infantili, ed eloquenti. Il padiglione USA è il più efficace, per la secca sintesi del tema scelto: le case in legno costruite con il sistema chiamato balloon frame, che sono la quasi totalità delle abitazioni, sia povere che ricche, nei villaggi e nelle immense
periferie delle città americane. La materializzazione del tema è altrettanto chiara e diretta, con modelli e fotografie e, soprattutto, con l’allestimento di una struttura lignea alta quattro piani e praticabile dal pubblico, che chiude lo spazio antistante l’edificio realizzando una corte. Un’invenzione spaziale fortemente attrattiva, che trasforma in modo significativo la scala del paesaggio dei Giardini. Il padiglione della Danimarca offre invece ai visitatori affaticati l’occasione per una sosta rigenerativa. All’interno, un sistema di passerelle di legno consente di transitare attraversando un ruscello che scorre sul pavimento dei locali, alimentato dall’acqua piovana convogliata dalla copertura. Si può bere una tisana prodotta con l’acqua recuperata e aromatizzata con erbe coltivate in contenitori allestiti lungo il perimetro
nel Magnificat). Dall’Annunciazione, alla visita ad Elisheba (Elisabetta), ai Re Magi. Il racconto accompagna le vicende di Miryam fino alla fuga in Egitto. Ed è un racconto polifonico: ogni capitolo è scritto dal punto di vista di un personaggio, anche non umano. C’è il racconto della lettera Aleph, da cui tutto ha inizio; quello della brocca, testimone di quella dimensione Altra che a volte irrompe nell’animo di Miryam, anche quando svolge i lavori più umili; quello dell’acqua del mikvè, dove le donne si purificavano dopo il ciclo; quello della tenda del Tempio, tessuta da Miryam; quello dell’asino, animale umile che sa vedere ciò che è invisibile agli umani. Il tutto tenuto insieme da un filo rosso, il filo della porpora che Miryam tesse al telaio, letterale fil rouge della storia, un filo rosso che collega le vicende del romanzo, come a significare quella ricerca di senso a cui tutti noi tendiamo, al di là di una religione professata o meno: una ricerca di senso per tessere e tenere insieme le nostre fragili vite. Vite fatte di realtà concrete e umane, di carne
e di sangue (il rosso è anche questo, è anche il sangue mestruale il cui arrivo segna la fine della permanenza al Tempio di Miryam, la cui assenza segna lo scandalo di quella gravidanza misteriosa, è il rosso dei semi di melograno mangiati con Yoseph nella loro prima notte insieme, a segnare un’intimità ancora più intensa e toccante). Vite umane, dunque, ma anche vite in cui brilla una scintilla divina. Come quelle di tutti noi. È questo che racconta, a tutti noi, piccoli o grandi, credenti o non credenti, la storia di Miryam.
esterno del padiglione. Una dimostrazione didattica di sostenibilità circolare elementare. Insieme a quelli del Cile, dell’Ungheria, della Polonia, dei paesi scandinavi e della Francia, il padiglione del Belgio è uno dei più «architettonici». I modelli colorati e a grande scala di progetti di giovani architetti sono stati collocati uno di fianco all’altro, a formare cortine cittadine. L’effetto spettacolare e inaspettato – in quanto si tratta di progetti pensati per altri specifici contesti – mette il visitatore nella condizione di apprezzare il paesaggio della densità urbana. Il padiglione del Portogallo, che tradizionalmente è allestito fuori dai recinti della Biennale (a palazzo Giustinian Lolin) è dedicato anch’esso a progetti di architettura. In conflict è il tema della mostra, che risponde al quesito How will we live together? prendendo atto che i processi insediativi di una certa dimensione sono sempre oggetto di conflitto sociale oltre che ambientale. I progetti sono presentati con un allestimento che fornisce anche, in video, le testimonianze e i dialoghi dei testimoni del conflitto. È un salutare bagno nella realtà, che insegna la misura dell’essenza trasformativa dell’architettura e del suo valore civile, e che fa luce sulla condizione professionale perlopiù caratterizzata, in molti paesi, dalla tendenza ad emarginare la cultura architettonica dai processi di trasformazione del territorio. L’assenza quasi totale degli architetti più noti internazionalmente ha liberato molto spazio per i più giovani e per i paesi poveri, anche se si tratta di un’assenza che contribuisce a ridurre l’attrattiva per il grande pubblico. È proprio il «grande pubblico» il problema critico irrisolto di questa Biennale ordinata da Hashim Sarkis, nel senso che la comunicazione rivolta ai non addetti ai lavori non sortisce l’effetto desiderato, e quindi l’esposizione vede ridursi il suo ruolo culturale. A Rafael Moneo, al quale è stato conferito il Leone d’Oro alla carriera, è stata dedicata una piccola ma eloquente mostra, allestita nello spazio dell’ex libreria progettato da James Stirling. A Lina Bo Bardi, pressocchè sconosciuta al grande pubblico, alla quale è stato conferito il Leone d’Oro alla memoria, non è stato purtroppo dedicato alcuno spazio.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Silvia Vecchini, Miryam, San Paolo. Da 13 anni È un romanzo bellissimo. Sebbene sia stato pubblicato già da qualche anno, non ne avevamo ancora parlato, ed è il momento di farlo. Un romanzo che emoziona e non lascia uguali a prima dopo che lo si è letto. E pensare che la storia è ben nota, o crediamo che lo sia. Perché è una storia che siamo convinti di conoscere, ma spesso senza sentirne il battito profondo. È la storia di Miryam, madre di Yeshua. Di Maria, madre di Gesù. Silvia Vecchini, con la sua fine conoscenza del mondo ebraico del tempo, dà vita a questa ragazzina di Nazaret, nata inaspettatamente da due genitori ormai vecchi, Yoachim e Hanna; cresciuta tra i giochi e le corse nei campi con l’amica Rut; destinata poi per qualche anno, fino all’adolescenza, al Tempio, dove, con la scopa in mano, sentiva insegnare i maestri; e poi, di ritorno a Nazaret, fidanzata con quel carpentiere, Yoseph, quell’uomo ruvido dal cuore grande che lei già da bambina aveva notato e che saprà amarla di un amore
commovente, infinito. Miryam, fragile e forte, sa accogliere l’inaspettato: come quando avverte quella presenza sovrannaturale che le annuncia il suo destino. Un destino che sarà tuttavia lei ad accogliere, nella libertà di cui ogni creatura può disporre. In questo romanzo troviamo, rinnovati e resi più vividi dalla scrittura intensa e alta dell’autrice, tutti gli episodi che i Vangeli ci raccontano (e a volte, senza che venga perso mai il caldo fluire della narrazione, anche le parole – le poche parole – di Maria, come ad esempio
elise Gravel, Cos’è un rifugiato?, HarperCollins. Da 3 anni Ci sono domande a cui è urgente rispondere, anche se possono sembrare difficili per un bambino. Cos’è un rifugiato, è una di queste. Le parole «rifugiato», «migrante», «profugo», riecheggiano nella quotidianità dei più piccoli, così come è loro esperienza quotidiana l’accoglienza di compagni provenienti da paesi lontani. Ma perché queste persone hanno lasciato il loro paese?
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Vestirsi in modo appropriato Le chiesero se fosse in grazia di Dio. Lei rispose: «Io non so se sono in grazia di Dio, ma se non dovessi esserlo, prego Dio che mi ci metta. Se invece dovessi esserlo, lo prego che mi ci conservi. Poiché sarei l’essere più infelice del mondo se dovessi sapere di non essere nella Sua grazia». Bousguillaume, che era il notaio della corte e teneva note del processo in corso, avrebbe raccontato più tardi che, nell’udire la risposta, i giudici si erano guardati l’un l’altro stupefatti. Davanti a loro sedeva una ragazzina di diciannove anni che sarebbe passata alla storia come Giovanna d’Arco, la Pulzella di Orléans. La domanda dei giudici, apparentemente innocua, era in realtà una trappola. Occorreva in qualche modo disfarsi di quell’improbabile scomodo personaggio, new entry con devastanti risultati per la parte inglese che vedeva la monarchia francese azzuffarsi con i reali d’oltremanica per i diritti di successione al trono che era
stato di Carlomagno nella Guerra dei Cent’Anni. Era il 1431, e Giovanna era stata finalmente catturata alla Battaglia di Compiègne per mano della fazione Burgunda alleata agli inglesi. Da qui era stata consegnata al vescovo collaborazionista Pierre Cauchon: se la vedesse lui, e desse prova della sua lealtà nei confronti degli inglesi. Si trattava di una gatta ben difficile da pelare: da un lato Giovanna non era altro che uno dei combattenti per il suo re, Carlo VII. Impressionato dall’enorme carisma lealista e patriottico che sprigionava da quel corpo fragile, Carlo VII, che peraltro al tempo non era ancora stato unto come Re di Francia e sapeva pertanto che il suo trono altro ancora non era che uno sgabello, l’aveva aggregata alla spedizione di soccorso che avrebbe dovuto rompere l’assedio di Orléans da parte degli inglesi. Alla città sotto assedio Giovanna arrivò il 29 aprile del 1429. In quanto donna, e certo malvista da certi ambienti aristocratici per via delle sue
umili origini contadine, Giovanna non era invitata ai consigli di guerra dei Duchi. A quelli preferiva comunque il campo di battaglia sul quale si distinse subito per coraggio ed acume tattico uniti ad uno stupefacente potere di influencer di una soldataglia stanca e sfiduciata. Finì che l’assedio ebbe termine dopo solo nove giorni dal suo arrivo. Seguirono una serie di brillanti vittorie che finalmente misero Carlo VII in grado di farsi consacrare Re di Francia a Reims nel 1429, fino alla vittoria finale di Castillon nel 1453, che avrebbe messo fine alle velleità inglesi sul trono di Francia. La strada era lunga, e nel frattempo la fama e l’autorità di Giovanna crescevano esponenzialmente. Da analfabeta quale era, cominciò ad occuparsi di questioni dottrinali inventandosi paladina della fede cattolico romana. Come spesso succede a mistici e visionari divenuti persone scomode nei circoli dei potenti, gli intriganti di corte cominciarono a far circolare voci
sulla ortodossia di Giovanna. In risposta, il 23 marzo 1430 la Pulzella scrisse una lettera di fuoco agli eretici hussiti di Boemia mentre allo stesso tempo sfidava gli inglesi ad abbandonare il suolo francese per unirsi a lei in una campagna contro le eresie. Rimasero parole al vento, ma risultarono fondamentali nel crescente sospetto che gli stessi inglesi fossero in qualche modo compromessi con l’eresia. Dopo un breve armistizio le ostilità ripresero. Il 23 maggio 1430 Giovanna cadde in un’imboscata presso Compiègne e si trovò davanti al tribunale del Vescovo Cauchon (uno dei tanti sfortunati nomen omen della storia…) al quale toccò togliere le castagne dal fuoco e farla finita una volta per tutte con questa pestifera ragazzina. Vi era un solo modo per condannare un prigioniero di guerra a morte: dichiararlo eretico. Ci avevano già provato con l’accusa che Giovanna fosse una travestita. Oltre a portare armi e corazza in battaglia, una volta tratta
in prigione si era rifiutata di indossare abiti femminili: portare le brache dei soldati era l’unico modo per difendersi dagli stupri dei quali la minacciavano i suoi carcerieri. E – inoltre – lo stesso Tommaso d’Aquino aveva argomentato che il travestimento fosse lecito se ciò contribuiva alla purezza virginale. E poi la sagacia della risposta agli Inquisitori: avesse detto di ritenersi in Grazia di Dio sarebbe stata eretica poiché nessuno può elevarsi a proprio giudice. Avesse invece ammesso di non essere in grazia avrebbe ammesso implicitamente di essere colpevole. E invece quella piccola villanella si era smarcata con tutta l’astuzia di una millenaria cultura contadina dai lacci dei suoi giudici. Il resto del processo fu una farsa dal risultato scontato. Il 30 maggio 1431 La Pulzella d’Orléans salì al rogo. Un soldato inglese improvvisò un crocifisso con legnetti presi dalla pira e glielo mise al collo. Il 16 maggio 1920 Benedetto XV la dichiarò Santa in San Pietro, Roma.
condizione attiva (abbandonare). Ma il gioco ti è sfuggito di mano ed è scattato quel meccanismo nevrotico che si chiama «coazione a ripetere». La cosa funziona forse così: consapevolmente accetti o provochi la disponibilità o le proposte di un corteggiatore ma, inconsapevolmente, cominci a prevedere che la relazione non funzionerà, che non è la persona giusta, che sei incappata nel solito inganno. E, come si sa, le previsioni tendono ad autorealizzarsi. Per cui l’episodio si conclude con un addio e un sospiro di sollievo: lo sapevo! Scampato pericolo. Il problema di trovare l’anima gemella però persiste e, hai ragione, qualcosa bisogna fare. Innanzitutto la consapevolezza è già un primo passo per spezzare la catena della ripetizione. Sono i ricordi negativi che fanno scattare ogni volta il campanello d’allarme obbligandoti a porti sulla difensiva, col rischio di lasciarti sfuggire l’occasione buona. Nel caso comparisse il Principe Azzurro cominceresti infatti a chiederti: «possibile?», «non sarà l’ennesima illusione?», «Monica non
lasciarti ingannare!». Quando inizia una relazione effettivamente il rischio c’è ma senza rischi non si vive. Molte volte la paura di soffrire ci sottopone a una morte a piccole dosi. Il «sedicente scrittore», ad esempio, potrebbe essere una promessa della letteratura, perché no? E magari, svanita l’illusione del successo, diventare un professionista della penna apprezzato in altri ambiti, come il giornalismo o l’editoria. Per nutrire fiducia nel prossimo dovrai innanzitutto recuperare fiducia in te stessa e trovare il coraggio di immergerti nella corrente della vita senza paura di affogare. Chi rimane sulla sponda vede il tempo trascorrere restando al riparo dalla sofferenza ma, senza affrontare l’eventualità del dolore, senza mettersi in gioco, si può solo perdere. Tuttavia non disperare: questa lettera rappresenta una svolta importante perché sei passata dall’autocompatimento alla richiesta di aiuto, una richiesta che rivolgi a te stessa ancor prima che a me e che io ti rimando
sicura che saprai farne buon uso. Oggi 32 anni sono pochi, sei una giovane donna, e non puoi condannarti alla solitudine, una condizione che non fa per te e alla quale tenti di sottrarti. Certo i tempi in cui viviamo non promuovono atteggiamenti di fiducia e di speranza. La pandemia e il conseguente lockdown ci hanno obbligato a vedere nell’altro una minaccia di contagio e a porre, nei suoi confronti, comportamenti di distanziamento. Ma stiamo finalmente scorgendo la fine del tunnel e la luce che splende là in fondo promuoverà in tutti noi, e soprattutto in te che li vai cercando, cambiamenti inattesi. Con tanti auguri da parte della Stanza del dialogo, attendiamo il seguito della tua storia.
mentale, concreto e immaginario di andare, cambiare, scoprire. Sia per necessità di sopravvivenza, attraverso i movimenti migratori, costante storica, sia per un desiderio di conoscenza culturale, scientifica, un tempo privilegio esclusivo. Spettava ai giovani della nobiltà inglese, con la tradizione del Grand Tour, che, già nel XVII secolo, li portava sui siti archeologici, in Grecia e in Egitto. Itinerari, adesso accessibili alle folle mobilitate dal turismo di massa. Di cui si è diventati, tutti quanti, cultori e vittime. Si godono i vantaggi dei voli low-cost, dell’efficienza protettiva dei villaggi turistici, rischiando, però, di cadere nella trappola dell’eccesso. Al punto, in casi estremi, di fare del viaggio un permanente compagno di vita. Per certi nostri concittadini la vacanza,
e quindi il viaggio, rappresenta una nuova forma di normalità. Mentre la sedentarietà, il lavoro, la casa sono scivolati in secondo piano. Esasperazioni maniacali a parte, sta di fatto che con l’avvento del diritto alla vacanza, sancito sindacalmente, e dei trasporti veloci, si è aperta un’era, contrassegnata da nuovi usi, costumi e persino luoghi. Per viaggiare, ci si deve vestire diversamente. L’aveva presagito Coco Chanel (di cui ricorre il 50.mo della scomparsa) creando abiti di maglia, comodi e facili da sistemare nelle valigie. Per trascorrere le ferie, servono alberghi, impianti sportivi, spiagge attrezzate. Anche il paesaggio, insomma, cambia, e non solo in meglio. Il cambiamento concerne, non da ultimo, i contenuti stessi di viaggi verso mete lontane, dai nomi affascinanti. Cito,
per esperienza personale, Samarcanda: che, in definitiva, mi deluse. Colpa mia o di una mitizzazione eccessiva? In ogni caso, virtù o vizio che sia, il viaggio ci ha contaminati, al pari di un virus, privo però di vaccini. E, quindi, ci terrà compagnia, più che mai, nel dopo Covid, quando, secondo i moralizzatori di turno, saremo più saggi, capaci di rinunciare a svaghi dispersivi, persino nocivi dal profilo ambientale. Una causa, portata avanti soprattutto dai giovani. Che, però, lanciano anche segnali in direzione opposta. Basta ascoltare le dichiarazioni dei partecipanti ai giochi televisivi che, a proposito di un’eventuale vincita, parlano sempre di un nuovo viaggio, verso una destinazione lontana, che racchiude l’ignoto.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Immergersi nella corrente della vita Cara Silvia, mia mamma ti legge sempre e anch’io da un po’ di tempo ho preso questa abitudine. Mi piace conoscere i casi degli altri e vedere come li spieghi perché dei miei non ci capisco niente. Ho quasi 32 anni e, come avrai intuito, vivo ancora in famiglia. Non che sia rassegnata a starci per sempre ma il principe azzurro non si vede e la vita da single – panino la sera davanti alla tele – non fa per me. Cercare in Rete l’anima gemella mi ha sempre spaventato. Non sono Cappuccetto Rosso ma so che il bosco esiste, e anche il lupo. Sinora, lo confesso, ho collezionato una serie di sfigati senza pari: il don Giovanni che colleziona le sue vittime per vantarsene con i colleghi, quello che si fa pagare persino il cappuccino; quello che passa tutto il tempo a parlare della ex che lo ha lasciato per un altro; il sedicente scrittore e così via. Tutti impossibili. Non vorrei diventare l’Enciclopedia delle delusioni perché, a questo punto, anche le amiche sono stufe di ascoltare i miei lamenti. Cosa posso fare? Urgono consigli. Grazie. / Monica
Cara Monica, per fortuna non ti manca l’ironia e questa è già una bella consolazione. Ma la protagonista della tua vita sei tu e, quando la serie delle delusioni sembra non finire mai, quando episodi simili s’inanellano uno dopo l’altro, abbiamo a che fare con una «nevrosi del destino». Il termine è stato coniato da Freud che, nella pratica clinica, di casi simili sembra averne incontrati molti, e non solo femminili. Che cos’è una «nevrosi del destino»? Benché non emergano sintomi patologici, esiste una volontà di difendersi dalle frustrazioni che finisce paradossalmente per provocarle. Probabilmente, dopo la prima delusione, il primo abbandono, che mi sembra quello del traditore seriale che ti ha messo alla berlina con i colleghi e le colleghe, hai deciso, inconsciamente, di non soffrire più. E che cosa fai allora per non sentirti vittima? Scegli delle persone inaccettabili e le pianti in asso tu stessa. Vi è una certa soddisfazione dal passare da una condizione passiva (essere abbandonata) a una
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio In vacanza, innanzitutto Al primo momento, sembrò un’assurdità: l’inaccettabile sgarro al rispetto delle priorità, che regola i comportamenti individuali assicurando una convivenza civile. Si sta parlando della richiesta di adeguare la somministrazione dei vaccini alle esigenze dei vacanzieri. Cioè, se un cittadino cambia domicilio, spostandosi in una località di mare o di montagna, per trascorrere le ferie, dovrà trovare, pure lì, la possibilità di vaccinarsi o di ricevere il richiamo. Quindi, non sarà lui a cambiare la data della vacanza, bensì il complesso apparato di un intervento sanitario a seguirlo, come fosse una valigia. Si tratta di episodi isolati, ma non troppo, segnalati in Italia, dove hanno suscitato, nei giornali e nei social, reazioni di condanna morale
e anche d’ironia nei confronti di un vezzo tipicamente nazionale: qual è, appunto, il farsi i fatti propri, magari a costo di quelli altrui. Tuttavia, dopo la condanna, grazie alla capacità anch’essa italiana di relativizzare, doveva arrivare una sorta di assoluzione. In fin dei conti, l’idea di un servizio vaccini ambulante non era, poi, irrealizzabile. Persino il generale Figliuolo, dall’alto della sua piumata autorevolezza, si è dichiarato disposto ad assecondare, in qualche modo, la richiesta dei vacanzieri. Tanto più che, dal canto loro, svolgono un ruolo salvifico per l’industria turistica. Ma, al di là degli auspicati effetti economici, questa voglia di vacanze, riemersa dopo la tregua pandemica, esprime qualcosa di più profondo e inalienabile, che ci appartiene in pianta stabile. Ed è il bisogno fisico e
Se sopra c’è la coccinella, dentro c’è rispetto per le specie. Ora alla tua Migros: carne IP-SUISSE da allevamento rispettoso delle specie.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Ambiente e Benessere Buon vecchio bikini Compie settantacinque anni il costume a due pezzi che svelò l’ombelico
Il calore della Terra L’Islanda diversifica le opportunità nel settore della geotermia
Singolarità meteorologica Il «freddo delle pecore» ha luogo a metà giugno ed è un fenomeno curioso
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Noè, finalista continentale Da Locarno con lo sguardo puntato verso gli Stati Uniti d’America, mecca del nuoto pagina 21
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endometriosi: molto diffusa, poco conosciuta Medicina di genere Malattia benigna
ma spesso progressiva, da prendere in seria considerazione
Maria Grazia Buletti «Circa il 10-15 per cento delle donne in età fertile, e quasi la metà di quelle con problemi di infertilità, sono colpite da endometriosi: una malattia ginecologica frequente e complessa che ha un impatto sul benessere psicofisico della donna e può pesare sul rapporto di coppia», così il ginecologo Giovanni De Luca (Clinica Sant’Anna di Sorengo) giustifica l’importanza della giornata mondiale dell’endometriosi (28 marzo) che annualmente sensibilizza su questa patologia. L’eziologia non è ancora ben nota, ma si conoscono sintomatologia e conseguenze che, ribadisce, meritano una diagnosi precoce per intervenire in modo adeguato ed efficace: «Ancora oggi la diagnosi viene posta con eccessivo ritardo e pare che ci vogliano in media dieci anni prima che vi si giunga con la conseguente terapia. Un tempo troppo lungo che spesso implica l’instaurarsi di lesioni troppo estese e un rischio aumentato di infertilità e dolore cronico». È una patologia benigna ma cronicizzante: «Generata dalla anomala presenza dell’endometrio (tessuto che riveste la cavità uterina) in organi diversi dall’utero, dove determina veri e propri sanguinamenti mensili». Alcune ipotesi ne spiegherebbero l’origine: «Quella più diffusa prevede che le cellule dell’endometrio siano trasportate all’interno dell’addome dalla cosiddetta “mestruazione retrograda” (una sorta di reflusso di sangue mestruale attraverso le tube di Falloppio in direzione dell’addome) che permetterebbe alle cellule di attecchire e creare isolotti di endometrio “ectopici” (al di fuori della loro sede mestruale). Un’altra ipotesi è la “metaplasia celomatica” in cui alcune cellule esterne all’utero potrebbero trasformarsi in ghiandole simil-endometriali, mentre alcuni studi recenti suggeriscono che le cellule endometriali esterne alla cavità uterina si troverebbero in altre sedi del corpo fin dalla nascita». De Luca invita le donne a rivolgersi precocemente al medico che dovrà tenere conto dei fattori di diagnosi individuali: «Ancora oggi questo tema rimane quasi un tabù e, più che per il
sospetto di endometriosi, la donna è spinta a rivolgersi al ginecologo per il calo della fertilità dovuta al processo infiammatorio, ma ripeto che una diagnosi precoce e corretta è il presupposto per un trattamento mirato ed efficace». Diagnosi che si pone quasi esclusivamente su anamnesi e accurato esame clinico, e solamente in casi selezionati troverà riscontro con una laparoscopia esplorativa che il nostro interlocutore definisce essere «esame diagnostico elettivo per eccellenza» al quale si possono sempre coadiuvare, ove indicato, esami diagnostici come ecografia o risonanza magnetica che possono dare una mano a identificare le pazienti candidate all’intervento chirurgico. Posta la diagnosi, il trattamento individualizzato tiene conto di grado e sintomaticità dell’endometriosi: «Prevede diverse opzioni che comprendono chirurgia, terapia medica o la sola osservazione se è il caso». De Luca spiega che la chirurgia si propone di rimuovere le lesioni endometriosiche e risolvere eventuali danni di organi coinvolti, ricordando pure l’importanza di «dedicare attenzione e cura particolare alla conservazione del potenziale riproduttivo della donna»: «La chirurgia endoscopica mini-invasiva (laparoscopia) assicura i migliori risultati ed evita il ricorso alle grandi incisioni addominali, garantendo un veloce recupero post operatorio oltre che un minimo impatto estetico». Nella cura dell’endometriosi la terapia farmacologica ha un ruolo molto importante: «Parliamo di terapie ormonali spesso indicate per pazienti senza immediato desiderio di prole, in grado di “sospendere” i residui microscopici della malattia che non possono essere asportati per via chirurgica e riducendo il rischio di recidive. Non dimentichiamo che la terapia medica contribuisce significativamente alla riduzione dei disturbi e migliora la qualità di vita, fino al momento della menopausa in cui il nuovo assetto ormonale della donna determinerà la scomparsa della stimolazione del tessuto endometriosico e, di conseguenza, dei sintomi di endometriosi». Proprio la menopausa è una sorta
Il ginecologo dottor Giovanni De Luca. (Stefano Spinelli)
di «terapia finale»: «Nella presa a carico si tiene conto della vita della donna e si consiglia alle pazienti di avere dei figli se lo desiderano, e di allattarli (condizioni ormonali che sospendono la sintomatologia dell’endometriosi). In altro modo si può procedere con una terapia contraccettiva fino ad arrivare alla menopausa». Non sono più in uso le «terapie ormonali forti come la menopausa artificiale» che comportano più complicazioni che benefici: «Vogliamo evitare conseguenze come osteoporosi, caldane e peggioramento della qualità di vita che non controbilancerebbero il beneficio, perché si curerebbe il problema con un altro problema». Oggi, dice il medico, si opta piuttosto per la pillola anticoncezionale o una spirale medicata con cui si tende a fermare il ciclo mestruale mantenendo lo status pre-menopausale della donna: un ottimo compromesso per mol-
te pazienti». Poche, infatti, giungono a livelli così estremi di sofferenza da portare alla terapia chirurgica radicale come l’isterectomia e, in rari casi, l’asportazione delle ovaie: «Questa è una scelta chirurgica riservata soprattutto a quelle donne senza ulteriore desiderio di prole che non hanno beneficiato della terapia farmacologica. In altri casi, la chirurgia si rende necessaria per le pazienti con chiare lesioni endometriosiche ad altri organi che possono risultare anche gravemente danneggiati: ne sono un esempio la compromissione e occlusione dell’uretere che può comportare danni renali, oppure le lesioni che infiltrano la parete intestinale con occlusioni e sanguinamento in cui può rendersi necessaria anche l’asportazione di interi tratti di intestino. Per fortuna si tratta di situazioni rare». De Luca esprime l’importanza di una corretta igiene di vita: «Alimenta-
zione curata con un adeguato apporto di fibre, vitamine e riduzione di carni rosse, astensione dal fumo e una regolare buona attività fisica possono pure migliorare significativamente la qualità di vita della paziente». Un invito accorato va alle donne che presentano mestruazioni dolorose: «II dolore mestruale non deve essere invalidante: la donna non deve accettare il ciclo mensilmente doloroso, il dolore pelvico o la dispareunia (dolore durante rapporti sessuali), magari ritenendoli “normali”». È per contro invitata a rivolgersi a uno specialista perché tutto ciò potrebbe nascondere una soggiacente endometriosi che andrebbe diagnosticata prima possibile: «L’endometriosi non deve essere un tabù e non va tenuta nascosta, anche per l’implicazione di un’eventuale infertilità, ma soprattutto perché la terapia è possibile e migliora la qualità di vita».
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Ambiente e Benessere
L’ombelico del Bikini
Viaggiatori d’Occidente Settantacinque anni del popolare costume da bagno
Claudio Visentin È uno strano anniversario. In primo luogo perché parliamo pur sempre di un costume da bagno; e poi fa impressione celebrare i settantacinque anni del bikini, un simbolo di gioventù e bellezza, nato nello stesso anno del primo baby boomer. D’altronde le note di un gruppo trasgressivo come gli AC/DC saranno presto la colonna sonora di molte case di riposo (sarà divertente esserci, quando le infermiere cammineranno nei corridoi al ritmo di Highway to Hell), dal momento che il gruppo fu fondato nel 1973 e quindi chi aveva vent’anni allora va oggi per i settanta e magari continua ad ascoltare i suoi cantanti preferiti. Ma procediamo con ordine, senza divagazioni. Il costume da bagno intero fu inventato all’inizio del Novecento, quando le nuotatrici furono ammesse per la prima volta alle Olimpiadi nel 1912 a Stoccolma. Subito si delinearono chiaramente due tendenze in eterno conflitto: ai moralisti qualunque costume da bagno sembrava troppo audace (con tanto di processi per offesa alla pubblica morale), alle bagnanti (e agli uomini che le ammiravano) sempre troppo castigato. A partire dagli anni Trenta poi il costume da bagno entrò in conflitto con la nuova moda dell’abbronzatura, sostenuta con tutta la sua autorità dalla celebre stilista Coco Chanel. Arrotolato sui bordi, tirato da tutte le parti per scoprire quanta più pelle possibile e abbronzarsi meglio, già verso la fine degli anni Trenta il costume intero si divide in due pezzi. L’ombelico tuttavia restava ben coperto perché questa era la vera frontiera della morale. Per qualche ragione che oggi non comprendiamo più, al tempo dei nostri nonni mostrare l’ombelico era considerato una trasgressione inaccettabile (comune peraltro a molte culture nel mondo). Per esempio, negli Stati Uniti il Motion Picture Production Code, applicato dopo il 1934, proibiva l’esposizione dell’ombelico femminile nei film. In particolare Marilyn Monroe poté mostrarlo solo nella sua ultima pellicola, rimasta incompiuta per la morte dell’attrice, Something’s Got to Give (1962). La diva commentò con molto spirito: «I censori
si sono accorti che tutti abbiamo l’ombelico». Dopo la Seconda guerra mondiale la scissione dei costumi da bagno in due pezzi si rispecchiò in un’altra scissione, quella dell’atomo, con le sue tragiche conseguenze. Nel giugno 1946, la prima estate di pace, lo stilista francese Jacques Heim rispolverò un suo precedente modello lanciando il costume in due pezzi Atome (con l’ombelico ancora coperto), con lo slogan «il più piccolo costume da bagno al mondo». Ma presto un ingegnere automobilistico prestato alla casa di lingerie della madre, Louis Réard, gli rubò la scena proponendo il vero e proprio bikini. Il nome si ispirava a un recente esperimento nucleare americano nell’atollo di Bikini (Isole Marshall). Réard creò il nuovo costume utilizzando solo quattro triangoli di tessuto stampato. Poté così affermare, con tanto di pubblicità aerea, che il suo bikini era «più piccolo del più piccolo costume da bagno del mondo». Questa volta l’ombelico era bene in vista e questo provocò una lunga storia di resistenze e diffidenze. Il nuovo costume infatti era considerato troppo audace non solo dai censori, ma anche dalla maggior parte delle donne. Per la prima presentazione pubblica, sul bordo della piscina Molitor di Parigi, il 5 luglio 1946, Réard dovette affidarsi a una spogliarellista del Casino de Paris, Micheline Bernardini. Ancora nel 1960 del resto Dalida in Pezzettini di bikini (una cover di Bryan Hyland, Itsy Bitsy Teenie Weenie Yellow Polka Dot Bikini) cantava storie di timidezza: «Dalla cabina uscire non voleva / Io le chiedevo: “Piccina, perché?” / “Non voglio uscire” così rispondeva / “Son troppi gli occhi che guardano me” / Un, due, tre, dicci sotto cosa c’è». E anche dopo una fugace apparizione del bikini nella premiazione della prima edizione di Miss Mondo (1951), a causa delle proteste si dovette tornare al tradizionale abito da sera; e così la svedese Kiki Håkansson per lungo tempo rimase l’unica Miss Mondo incoronata in bikini. Negli anni Sessanta, tuttavia, il desiderio di trasgressione e di modernità è più forte dei residui di pudore. La spiaggia con la sua nuova socialità at-
Il viaggio che ci fa
Bussole Inviti a
letture per viaggiare
«Questo è un manuale per scrivere la propria autobiografia seguendo il filo conduttore del viaggio […] Un’autobiografia può prendere moltissime strade. Perché non quella dei nostri viaggi? […] I viaggi passati […] sono elementi costitutivi fondamentali della nostra storia, e quindi anche della nostra identità. I viaggi ci rendono quello che siamo: gli inglesi dicono di qualcuno che è well travelled, “ben viaggiato”. Tu fai un viaggio, e il viaggio fa te…».
Il famoso bikini indossato da Ursula Andress nei panni di Honey Ryder nel film di James Bond del 1962, in mostra nell’atrio dell’edificio TIFF a Toronto come parte di della mostra «Designing 007: 50 years of Bond Style». (Paul Gorbould)
tira sempre più le nuove generazioni. E quando le attrici più belle adottano con convinzione il bikini, le ultime resistenze si dissolvono. Tra tante francesi, a cominciare da Brigitte Bardot (E Dio creò la donna, 1956), sarà proprio una svizzera del Canton Berna a imporre il bikini. Nel 1962 Ursula Andress interpreta la bond girl Honey Rider in 007 – Licenza di uccidere. Quando Ursula esce dal mare indossando un meraviglioso bikini bianco, con cintura e fondina per un grosso coltello, il gioco è fatto; dopo quella scena (la più sexy nella storia del cinema secondo un sondaggio di Channel 4 del 2003) è nata una diva e le vendite di bikini salgono alle stelle. A partire dal 1964 poi, negli Stati Uniti, «Sports Illustrated» dedica un numero speciale annuale ai costumi da bagno; centinaia di lettori disdicono l’abbonamento indignati, ma altrettanti ne sot-
toscrivono di nuovi. Il bikini si afferma definitivamente lanciando la carriera di molte supermodelle, Elle Macpherson tra tutte. Certo le femministe protestano per questa esposizione del corpo femminile, ma la maggior parte delle donne lo considera piuttosto un simbolo di liberazione, gioco, divertimento. Diana Vreeland, fashion editor di «Harper Bazaar» e guru del gusto, scrive: «Il bikini mi suggerisce le più belle cose di una vita libera». Secondo lo storico della moda Olivier Saillard, la diffusione globale del bikini, in forme sempre diverse, testimonia «il potere delle donne, non della moda». Strada facendo il bikini ha reciso il suo legame originario con il nuoto, è prima di tutto un nuovo modo di vivere l’estate, le vacanze, la vita. Volete una prova? Secondo una ricerca, l’85 per cento di tutti i bikini non ha mai toccato l’acqua…
I ricordi di viaggio sono più intensi e durevoli di tutti gli altri. Secondo una ricerca commissionata da Swiss all’Università di Zurigo sarebbero il 10% delle nostre memorie, anche se naturalmente la percentuale di tempo trascorsa in viaggio è di solito molto inferiore. Nel suo ultimo libro lo psicologo e scrittore Andrea Bocconi, nostro collaboratore, racconta la sua vita proprio attraverso i viaggi, scoprendo che tutti, a modo loro, hanno lasciato un segno: il primo motorino, le vacanze al mare con la famiglia, il viaggio della maturità, i viaggi in terre lontane da giovane adulto, i viaggi con moglie e figli eccetera. Coinvolge poi i lettori nello stesso gioco con divertenti esercizi di scrittura alla fine di ogni capitolo. È una prospettiva nuova e affascinante. Aiuta a capire perché alcuni Paesi ci hanno attratto a preferenza di altri e al tempo stesso orienta e rende più consapevoli le nostre scelte future, al di là dei suggerimenti interessati della pubblicità turistica. Sino a quando scopriremo che un viaggio a lungo accarezzato e sempre rinviato non è più possibile, è diventato Il viaggio che non farò più (è il titolo di uno degli ultimi capitoli). / CV Bibliografia
Andrea Bocconi, Io, altrove. Quando il viaggio diventa scrittura di sé, Ediciclo, pp. 168, € 14,50.
Chiamarsi con un fischio, una meraviglia dei mari
Una voce unica Noi umani ci salutiamo chiamandoci
per nome. Per i delfini non è molto diverso: ogni cucciolo di tursiope sviluppa un fischio individuale che utilizza per avvicinare gli altri animali e comunicare con loro. Per altre meraviglie: mari.wwf.ch
Proteggiamo le meraviglie della natura.
SPINAS CIVIL VOICES
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Ambiente e Benessere
L’abbraccio caldo della Natura Geotermia Cambiamenti climatici e tensioni geopolitiche portano la gestione delle fonti energetiche al centro
dell’agenda politica internazionale e l’Islanda si fa laboratorio di geologia e vulcanologia a cielo aperto
Amanda Ronzoni, testo e foto Ci sono pochi luoghi al mondo dove si può praticamente guardare e studiare cosa succede live nelle profondità della Terra. L’Islanda è uno di quelli. Giovane dal punto di vista geologico, la sua particolare formazione ne fa un laboratorio di geologia e vulcanologia a cielo aperto. È una terra inquieta, che sotto la coltre dei suoi smisurati ghiacciai nasconde un cuore incandescente. Per fare un esempio d’attualità, il vulcano Fagradallfjall è entrato in eruzione lo scorso 19 marzo dopo mesi di sciami sismici riattivando una regione da lungo tempo relativamente tranquilla. Si tratta di un’eruzione di tipo fissurale, tipica islandese, ovvero caratterizzata dalla fuoriuscita di materiale lavico non da un’unica bocca ma lungo una frattura superficiale più o meno allungata. Fin dall’antichità quest’isola è stata fonte di ispirazione per scrittori e poeti, scienziati e viaggiatori. Giacomo Leopardi scelse proprio un islandese come paradigma dell’uomo che si confronta con la potenza/prepotenza della Natura, nel suo Dialogo della Natura e di un Islandese, forse impressionato, dai racconti che di questa remota isola faceva già nel Settecento Voltaire. Jules Verne fece iniziare il suo Viaggio al centro della Terra dal cratere di un vulcano islandese, lo Snæfell. Nessuno di loro visitò mai l’Islanda, che però nei secoli ha mantenuto la sua fama di luogo ostile e inospitale.
La spiaggia geotermale di Nauthólsvík, a Reykjavík. Le sue acque arrivano dai serbatoi di teleriscaldamento di Öskjuhlíð; sul sito www.azione.ch si trovano altre fotografie.
La coltivazione di banane più grande d’Europa dopo quelle delle isole Canarie si trova a 45 km a sud est di Reykjavík Eppure, oggi i 350mila abitanti di questa crosta lavica emersa poco sotto il Circolo Polare, sfidando il pessimismo cosmico leopardiano, appaiono spesso in cima alla classifica dei paesi più felici del mondo e hanno saputo trasformare la minaccia del fuoco che si agita sotto i loro piedi in energia pulita e in una fonte di benessere. La rivoluzione verde dell’Islanda è partita nel XX secolo: le sue uniche fonti di energia erano la torba e il carbone importato dall’estero. Da fanalino di coda dell’Europa ha raggiunto l’indipendenza energetica ed è diventato uno dei paesi con la più alta qualità della vita, grazie allo sfruttamento del calore della Terra. Circa l’85 per cento dell’energia primaria utilizzata in Islanda deriva da risorse rinnovabili locali, di queste, la geotermia rappresenta il 66 per cento. L’isola è un punto caldo di magma emerso proprio in corrispondenza della dorsale medioatlantica che la divide (semplificando) in due. In corrispondenza delle aree vulcaniche attive ci sono una ventina di zone molto calde, dove il vapore dei campi geotermali raggiunge i 250°C entro i mille metri di profondità. Lontano dalle zone di faglia, nelle regioni più «vecchie» dell’isola da un punto di vista geologico, si trovano invece circa 250 aree a temperatura più bassa, ovvero non superiore ai 150°C. In prossimità di questi luoghi sono state individuate più di 600 sorgenti naturali d’acqua calda spesso utilizzate dalla popolazione come piscine termali. Anche l’acqua, infatti, ha un ruolo fondamentale nello sfruttamento dell’energia geotermica. Con risvolti spettacolari, come i geyser, fumarole e
Sorgente termale all’interno del giardino di una casa privata.
pozze di acqua bollente. Quest’ultima, incanalata, viene portata nelle case, per lavarsi e per il riscaldamento. Attualmente circa il 90 per cento delle abitazioni in Islanda è riscaldata grazie alla geotermia (il restante 10 per cento con energia elettrica e una percentuale sempre più bassa a gasolio). Dal 2001, grazie all’acqua calda di origine geotermale, anche Reykjavík , ha la sua spiaggia dove è possibile fare il bagno nelle lunghe giornate estive: è la Nauthólsvík Geothermal Beach, dove il mare della piccola baia, protetta da una paratia, è riscaldato a 15-
19°C con l’acqua geotermale in eccesso proveniente dalle cisterne in cima alla collina (a Öskjuhlíð) che sovrasta la capitale. Nell’Islanda occidentale, a Deildartunguhver, si trova la sorgente geotermale più potente d’Europa: dal sottosuolo sgorgano 180 litri d’acqua al secondo a una temperatura di 100°C. Tutte le persone che si trovano nel raggio di 65 km da qui fanno la doccia bollente grazie a questa fonte. Una serie di centrali geotermali situate nei punti più attivi dell’isola, inoltre trasformano tutto questo calore in elet-
Una delle tante serre riscaldate e illuminate grazie all’energia geotermica.
tricità che viene mandata in giro per il paese. Ma gli islandesi sono andati oltre. Il 78 per cento del suolo non è adatto all’agricoltura: solo l’un per cento del territorio è coltivato, prevalentemente a fieno e foraggio per gli animali. Piante da frutto e verdure faticano a crescere a causa del clima imprevedibile che consente un limitato periodo di maturazione a una limitata varietà di prodotti: fino al secolo scorso si riusciva a ottenere rape, carote, cavoli, patate e cavolfiori a sufficienza, coltivate nei terreni caldi in prossimità delle aree geotermali nei giorni estivi, ma in inverno era necessario ricorrere alle costose importazioni dall’estero. Nel 1924 fecero la loro apparizione le prime serre riscaldate con energia geotermica; poi venne introdotta l’illuminazione artificiale, sempre della medesima origine. Oggi nei supermercati è possibile acquistare pomodori, cetrioli, peperoni e fragole prodotti localmente. Ma fin qui è quasi banale. Che ci crediate o no, la coltivazione di banane più grande d’Europa dopo quelle delle isole Canarie si trova a 45 km a sud est di Reykjavík, a Hveragerði, un’area geotermale che cominciò a svilupparsi intorno agli anni Venti, proprio grazie ai primi esperimenti di geotermia applicata alle coltivazioni. Il Dipartimento di Agricoltura ge-
stisce ancora oggi una serra tropicale di 1100 mq, avviata negli anni Quaranta dalla Società Islandese di Orticoltura che vi piantò appunto banane. Si trattò di un esperimento su piccola scala. Purtroppo, i tempi di maturazione non sono soddisfacenti e l’iniziativa non è redditizia. Due anni per ottenere un raccolto che in Sud America e in Africa richiede pochi mesi. L’idea di esportare banane è tramontata, ma i banani di Hveragerði sono ancora là. L’energia geotermale viene poi impiegata per l’essiccazione del pesce e delle alghe, l’allevamento ittico, la produzione di diatomite e anche quella di sale marino, prodotti per il benessere e la salute. Oltre che per sequestrare CO2 nel terreno. What else? La morfologia e la geologia dei nostri territori sono differenti. Ma la geotermia, specie quella a bassa entalpia, che sfrutta il gradiente termico, ovvero la differenza di temperatura del terreno in superficie e a basse profondità, senza ricorrere a trivellazioni profonde, è in ascesa e permette di climatizzare casa. E non solo. Fate un salto alla serra tropicale di Frutigen (www.tropenhausfrutigen.ch), che sfrutta l’acqua calda da sorgenti di montagna del Lötschberg per l’itticoltura e la produzione di calore, combinata a eliotermia, fotovoltaico e a un impianto a biogas. E la sostenibilità è servita.
Piante di banane presso le serre del Dipartimento di Agricoltura a Hveragerði.
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Ambiente e Benessere
«Denormalizzare il fumo»
Giornata mondiale senza tabacco L’Associazione svizzera per la prevenzione del tabagismo lancia una nuova
strategia decennale per ridurre il consumo di sigarette - Ne abbiamo parlato con il direttore, Luciano Ruggia
Peter Schiesser Introdotta la prima volta nel 1988 dall’Organizzazione mondiale della sanità, la Giornata mondiale senza tabacco che ricorre oggi vuole essere un’occasione per indurre i fumatori a rinunciare per 24 ore alla sigaretta e a prendere in considerazione la possibilità di smettere in via definitiva, come pure per riflettere sulle conseguenze del tabagismo sulla salute, un problema di sanità pubblica che resta di portata mondiale. Il tema è complesso, dalle mille sfaccettature e implicazioni. Lo abbiamo affrontato con Luciano Ruggia, dal 2020 direttore dell’Associazione svizzera per la prevenzione del tabagismo, che ha da poco lanciato una nuova strategia decennale nel tentativo di portare la Svizzera su un cammino più virtuoso (il nostro paese è fra gli ultimi in classifica in Europa per quanto riguarda le misure strutturali per ridurre il consumo di tabacco). Ruggia, cresciuto in Ticino, è un esperto di salute pubblica, è ricercatore presso l’università di Berna, dal 2006 al 2017 ha lavorato all’Ufficio federale della sanità pubblica, dal 2016 fa parte del board di Medicus Mundi Svizzera. In Svizzera una persona su cinque fuma tutti i giorni. Fra gli adulti la percentuale di fumatori è del 27 per cento, fra i giovani dai 15 ai 25 anni supera il 30 per cento. e altrove in europa?
In alcuni paesi, come l’Inghilterra, l’Irlanda, i paesi nordici, è stato ottenuto un abbassamento molto significativo del tasso di prevalenza del fumo fra gli adulti (la percentuale di fumatori, ndr). L’Irlanda è al 17 per cento e l’obiettivo è il 5 per cento entro il 2025; hanno ottenuto questo con diverse misure strutturali simultaneamente. In una classifica europea, la Svizzera dove si situa?
La Tobacco prevention scale elaborata dalla Lega europea contro il cancro situa la Svizzera in fondo alla classifica, solo la Germania viene dopo di noi. Ma la Germania sta migliorando, perché sta introducendo dei limiti alla pubblicità di sigarette, ciò che da noi non è ancora il caso. Noi siamo molto in basso in termini di misure strutturali e siamo fra i peggiori anche per quanto riguarda il tasso di prevalenza e l’impatto sulla salute, ricordiamoci che in Svizzera 9500 persone muoiono ogni anno per le conseguenze dirette del fumo.
«Serve un insieme di misure strutturali, fra cui il divieto della pubblicità sul tabacco e sigarette più care» L’Associazione svizzera per la prevenzione del tabagismo ha varato una nuova strategia, con una visione decennale: nel 2030 vorreste raggiungere l’obiettivo di ridurre al 15 per cento il tasso di prevalenza. Molto ambizioso, considerato che da dieci anni è restato fermo.
Per una strategia ci vuole una visione, un obiettivo, bisogna essere ambiziosi. In Svizzera c’è una popolazione appena più grande di quella irlandese, perché non potremmo essere altrettanto ambiziosi degli irlandesi? Possiamo farlo se vogliamo, lo può fare il parlamento. Le misure per arrivarci sono: vietare la pubblicità sul tabacco, sulla nicotina, sulle sigarette elettroniche, aumentare il prezzo delle sigarette. In Irlanda il pacchetto di sigarette costa
«In Irlanda un pacchetto di sigarette costa 13.60 euro, l’equivalente di una pizza, una birra e un caffè a Dublino; da noi il pacchetto dovrebbe costare 30 franchi». (L. Ruggia)
13 euro e 60, per un giovane è più del costo di una pizza, una birra e un caffè a Dublino. In Svizzera se vai in pizzeria spendi subito 30 franchi. Quindi da noi il pacchetto di sigarette dovrebbe costare 30 franchi.
Si è maturi in Svizzera per un aumento massiccio del prezzo delle sigarette?
Il pacchetto di sigarette a 30 franchi avrebbe un vero impatto sui giovani e sulle categorie più penalizzate economicamente, che sono anche quelle che fumano di più. Le incoraggerebbe a diminuire o a smettere di fumare. Il prezzo medio attuale è attorno ai 7.80, ma c’è per esempio una marca che si chiama «5.50», che corrisponde al suo prezzo. Non sono prezzi estremamente elevati. La tassazione non è più aumentata dal 2013, i prezzi sì, ma è l’industria che ha incamerato la differenza. In Francia oggi il pacchetto costa 10 euro, anche la Germania lo sta aumentando, a Londra 10 sterline, in Australia 30 dollari e stanno per passare a 40 dollari e lì si vede che il consumo scende. Siamo maturi o meno? Probabilmente no. È un lungo processo, ma mettiamolo sulla bilancia: ci sono i prezzi e i benefici dell’industria da una parte e ci sono 3 miliardi di costi per le casse malati, che paghiamo di tasca nostra, e ci sono 2 miliardi di costi per le imprese per le giornate di lavoro perse a causa di malattie provocate dal fumo.
Non sembra che il parlamento svizzero voglia un divieto della pubblicità sul tabacco.
Una Camera federale una volta fa un passo avanti, l’altra un passo indietro. Un primo progetto di legge è stato rifiutato nel 2016, al momento non sappiamo dove si andrà. Se vogliamo prendere in considerazione le raccomandazioni dell’OMS bisogna vietare la pubblicità, che ha un impatto soprattutto sui giovani. L’industria del tabacco dice che deve poter informare sui propri prodotti. Non ha senso: un fumatore di 40 anni ha già scelto la sua marca, non è influenzato dalla pubblicità, che si rivolge soprattutto ai giovani, motivo per cui oggi la troviamo sulle reti sociali. eppure nel 1964 la Svizzera aveva
introdotto il divieto di pubblicità sul fumo alla radio e televisione...
A quell’epoca nascevano le televisioni di Stato, non c’erano le reti private, c’erano forse meno queste influenze dei grandi gruppi pubblicitari e di altri interessi. È stato più facile imporre simili divieti, non solo da noi. In seguito però la Svizzera ha perso il treno. Per esempio, sui limiti di età per potere acquistare del tabacco. Il nostro è l’unico paese in Europa assieme al Kosovo che non ha un limite d’età definito a livello nazionale. I cantoni hanno introdotto limiti differenti, circa la metà lo pongono a 18 anni, un’altra metà a 16, poi ci sono due cantoni – Appenzello esterno e Obvaldo – in cui non c’è limite. In Appenzello vedi ancora bambini che a 8-9 anni ricevono dal padre la prima sigaretta come rito di passaggio all’età adulta. Sulle sigarette elettroniche non c’è limite nella maggior parte dei cantoni. Un altro vostro obiettivo è di ridurre l’esposizione al fumo passivo.
Va detto che il fumo passivo è l’unico campo in cui la Svizzera ha compiuto dei piccoli progressi, da 10 anni c’è una legge sul fumo passivo, ma è relativamente debole, se la confrontiamo con altri paesi. Permette ancora delle eccezioni cantonali. Noi chiediamo che venga vietato il fumo in tutte le zone pubbliche accessibili a giovani e bambini, dai parchi pubblici ai luoghi in cui si svolgono attività sportive, alle fermate degli autobus, all’esterno degli ospedali. C’è chi lo fa: Milano intende vietare il fumo in tutti gli spazi pubblici, la Spagna lo ha fatto in molte regioni, per il legame che c’è col covid: si stima che possa trasmettersi negli aerosol della sigaretta e della sigaretta elettronica fino a 8 metri di distanza. Perché chiedete il divieto dell’aggiunta di aromi artificiali? e che cosa è contenuto in una sigaretta?
Ci sono molti aromi artificiali aggiunti alle sigarette e alle sigarette elettroniche, per renderli più piacevoli al gusto. Noi chiediamo come prima misura di allinearci alla legislazione europea sui divieti degli aromi, in vigore dal 20 maggio del 2020. Essenzialmente il divieto del mentolo nelle sigarette, perché
il mentolo quando si fuma dà un senso di freschezza e irrita meno la gola. Noi vediamo che i giovani spesso cominciano a fumare con le sigarette al mentolo. Questo è l’aroma più conosciuto, ma ci sono migliaia di altri composti chimici aggiunti alla sigaretta. La sigaretta di oggi non è più quella di 50-60 anni fa. C’è stata un’evoluzione tecnologica enorme. Ci sono laboratori di ricerca dell’industria che hanno enormemente lavorato su ogni componente della sigaretta per migliorarla, nella loro prospettiva. La carta è trattata in modo particolare affinché bruci ad una certa velocità e non si spenga mai. Il tabacco è riempito di diverse sostanze nocive e di aromi. Il filtro è una cellulosa artificiale che in effetti è plastica e attorno al filtro ci sono dei microbuchi che, quando viene premuto, si modifica la quantità di ossigeno che viene assorbita e la velocità con la quale la nicotina arriva al cervello. Il filtro, quando si fuma, cambia colore, diventa giallo-bruno, perché così uno pensa che effettivamente filtri le sostanze contenute nel tabacco. Ma allora dovrebbe essere più colorato dalla parte in contatto col tabacco, invece cambia colore dalla parte da cui si aspira perché ha dei componenti che reagiscono al ph della saliva. È trattato così affinché si pensi inconsciamente che serva a qualcosa. In realtà il filtro non serve a nulla se non a levare le parti sgradevoli al gusto. Per riuscire a ridurre il consumo di tabacco, secondo voi serve un insieme di misure.
Si sa che una delle misure più efficaci è l’aumento dei prezzi, che ha un impatto forte sui giovani. Però non basta, bisogna avere un insieme di misure per ottenere la riduzione della prevalenza. Per questo mettiamo l’accento anche sulla protezione dell’ambiente, su tutto il ciclo di produzione del tabacco. Bisogna comunicare per far prendere coscienza alla gente su che cos’è veramente il tabacco e quale impatto ha sulla salute. Noi facciamo un discorso scientifico e cerchiamo di comunicare messaggi che diventino più comprensibili al grande pubblico. Prendiamo le shisha: la gente pensa che siccome il
fumo si raffredda passando attraverso l’acqua sia meno dannoso, invece è la peggior cosa che esista, un’ora di shisha equivale a 400 sigarette. Noi cerchiamo di comunicarlo, ma è difficile, i media non ci riprendono, se dessero il peso giusto al problema tabacco bisognerebbe parlarne tutti i giorni, ancora più del covid. In sostanza noi vorremmo denormalizzare l’immagine della sigaretta, del fumo nella società. È ancora troppo normale che si fumi dappertutto, e che si gettino i mozziconi per terra. Se abbiamo un livello di fumatori così elevato è anche per questo.
«La sigaretta non è più quella di 50 anni fa, oggi contiene migliaia di composti chimici e di aromi» Vi confrontate con le grandi multinazionali del tabacco (nel 2017 le tre grandi hanno avuto una cifra d’affari di 73 miliardi di dollari) e voi su che cosa potete contare?
Noi siamo un’associazione che esiste dal 1973 i cui membri sono altre organizzazioni, come la Lega svizzera contro il cancro, le leghe polmonari svizzere, la Fondazione svizzera di cardiologia, eccetera, e ora ci siamo aperti ai membri individuali. Vogliamo essere la piattaforma di coordinamento di tutti gli attori della salute pubblica coinvolti nella problematica del tabacco. Abbiamo anche il sostegno per le nostre attività dal Fondo di prevenzione del tabagismo, organo della Confederazione che riceve una piccola percentuale dell’imposta sul tabacco. Stimate che in Svizzera vengono gettati all’aperto ogni anno oltre 6 miliardi di mozziconi, nel mondo 6500 miliardi. Come volete agire?
Noi cerchiamo di impegnarci soprattutto a livello nazionale, pur appoggiando certe misure cantonali. Vogliamo maggiore rispetto delle norme: per esempio, le FFS hanno
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Ambiente e Benessere
Pecore tremanti e Santi di ghiaccio
Il tabacco è una pianta tropicale che viene dalle Americhe. Cresce quindi bene in certi climi, come a Cuba, in Mozambico. Bisogna ricordare che la nicotina è un pesticida naturale, che la pianta secerne per difendersi dagli insetti. La nicotina è vietata nei pesticidi utilizzati in Europa e negli Stati Uniti da più di 20 anni, però la fumiamo! Se la pianta cresce in natura va bene, ma nelle coltivazioni intensive bisogna fertilizzare il suolo, che si impoverisce, impiegare molta acqua, usare pesticidi (che il fumatore inala). Dopo il raccolto bisogna aggiungere dei fungicidi per evitare che ammuffisca. Poi bisogna trasformarlo, trasportarlo attraverso il pianeta. Infine si arriva al tabacco trasformato, che si fuma, con tutte le sue conseguenze, e al mozzicone per terra, che inquina almeno 40 litri d’acqua.
Le sigarette elettroniche per ora sono risultate meno dannose per la salute rispetto al tabacco, però non fanno diminuire il numero di fumatori.
Io non dico che sono meno dannose, dico che per il momento possiamo affermare che contengono meno sostanze nocive. Sono fatte di plastica, con una lama di metallo che viene riscaldata a 350 gradi (anziché a 700 gradi come una sigaretta normale), rilasciando anche metalli pesanti, quello che fuoriesce non è vapore acqueo, è glicerina, ci sono poi altre sostanze aggiuntive che non troviamo nelle sigarette. Non sappiamo ancora che effetto avranno a lungo termine sui polmoni. Effettivamente in Svizzera non vediamo un calo dei consumatori di tabacco, anche se sono arrivate le sigarette cosiddette elettroniche da una decina d’anni. Se uno che fuma due-tre pacchetti di sigarette passa alla sigaretta elettronica è meglio, perché ci sono meno sostanze nocive. Ma sarebbe ancora meglio se fosse un passo per smettere del tutto. Il problema vero è che la sigaretta elettronica è estremamente popolare fra i giovani e li spinge ad entrare nel consumo. Oggi vediamo un’epidemia del consumo di sigarette elettroniche nei giovani, anche nelle nostre scuole. Secondo uno studio fatto a Zurigo la metà dei quindicenni ha già fumato sigarette elettroniche, sono cifre spaventose, soprattutto se si pensa che è la nicotina a creare la dipendenza nel cervello. Se uno comincia da giovane la dipendenza diventa più forte, sarà molto più difficile smettere.
di aria fredda da nord che portano a un repentino calo delle temperature
Elia Stampanoni L’anno scorso è tornato il presunto «freddo delle pecore», ossia giornate di metà giugno con temperature più basse della norma, spesso caratterizzate da piogge abbondanti e, sulle Alpi, da nevicate. Una singolarità percepita soprattutto Oltralpe e che, in Svizzera –secondo una nota di SRF Meteo, il servizio meteorologico della radiotelevisione svizzero tedesca – non si verificava in queste dimensioni da almeno dieci anni. In effetti, anche secondo i dati di MeteoSvizzera, seppur la temperatura media nazionale del mese di giugno sia risultata nella norma del periodo 19812010, i primi venti giorni del mese sono stati freschi e per molte località molto più piovosi del normale. A livello regionale si sono verificate forti differenze nell’accumulo della precipitazione, con piogge localmente superiori al 160% della norma. Poi, verso la fine del mese il tempo ha invece assunto un carattere pienamente estivo. Il fenomeno non è quindi eccezionale ed è dovuto alle incursioni d’aria fredda da nord che portano a un repentino calo delle temperature: «In Svizzera le irruzioni di aria fredda nel mese di giugno sono accompagnate da nevicate fino alla quota dei passi alpini o, in alcuni anni, anche più in basso», specifica il sito di MeteoSvizzera, l’Ufficio federale di meteorologia e climatologia. Un esempio si può notare osservando la serie di misure della stazione di Arosa, a 1850 metri di altitudine, dove sono stati registrati diversi anni con uno o più giorni caratterizzati da neve nuova a giugno e temperature basse. Una diminuzione messa in evidenza dall’andamento delle temperature massime giornaliere, mentre per le temperature minime non è stata riscontrata un’associazione con questa singolarità. MeteoSvizzera mostra come esempio anche le serie pluriennali di Davos. Già nel periodo 1901-1930, si è notata
una marcata diminuzione delle temperature massime giornaliere fra il 13 e il 15 giugno. Nei periodi climatici successivi, 1931-1960, 1961-1990 e 1991-2020, la diminuzione è avvenuta sempre all’incirca in questo periodo: fra il 10 e il 18 giugno, il 15 e il 19 giugno e poi tra l’11 e il 13 giugno. Da notare che, nell’ultimo arco di tempo analizzato, il «freddo delle pecore» s’è presentato in una forma molto più debole rispetto al passato. Come specifica Luca Panziera di MeteoSvizzera, «una singolarità meteorologica è caratteristica di un evento che ricorre con una certa regolarità in un determinato periodo dell’anno, e che porta condizioni meteorologiche diverse da quelle che normalmente sono attese durante tale periodo». Non ogni fase fredda e umida in giugno si deve pertanto abbinare a questo fenomeno: per essere associato al «freddo delle pecore», il raffreddamento deve avvenire attorno alla metà del mese di giugno. «Nell’analisi climatica di singolarità meteorologiche la scelta del periodo su cui si effettua l’analisi incide in modo notevole nei risultati finali», aggiunge Panziera. In effetti, un esame dei dati svolto in precedenza, nel periodo 1981-2007, non aveva mostrato nessun segno associabile al «freddo delle pecore», ma piuttosto delle anomale temperature giornaliere sparse sull’intero mese in modo irregolare, dovute a deboli intrusioni d’aria fredda. «Non dobbiamo quindi stupirci se un fenomeno che si manifesta con una certa evidenza in un periodo climatico, sparisca se calcolato su un altro periodo climatico», conclude Luca Panziera. Un evento che, come detto, si è registrato in modo importante l’anno scorso e soprattutto nella Svizzera tedesca. Secondo la notizia riportata lo scorso giugno da SRF Meteo, a Zurigo, Berna o San Gallo si sono per esempio registrati otto giorni con temperature sotto della norma, in questo caso infe-
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Affermate che l’intero ciclo di produzione ha conseguenze nefaste sull’ambiente.
Meteorologia Curiosi fenomeni ricorrenti e non eccezionali dovuti a incursioni
riori a 17.5°C in un periodo solitamente già «meteorologicamente estivo». Nella letteratura di area germanofona, dove è più rilevante e riconosciuto, il «freddo delle pecore» deve il suo nome alla coincidenza con il periodo della tosatura annuale degli ovini, i quali si trovano ad affrontare il calo delle temperature con un vello esiguo. Nelle Alpi svizzere, la tosatura avviene però solitamente in aprile e MeteoSvizzera espone pertanto anche un’altra spiegazione, che fa riferimento al carico degli alpeggi con il bestiame, che avviene di solito attorno a metà giugno. In questa interpretazione, la fase di tempo freddo e umido coincide con l’arrivo in quota degli animali che devono quindi convivere i primi giorni sull’alpe con temperature poco estive. Il «freddo delle pecore», come detto non è molto conosciuto al sud delle Alpi. Nonostante l’aria fredda prove-
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vietato il fumo nelle stazioni, con pochi luoghi definiti per i fumatori, ma in realtà si vedono mozziconi ovunque, perché non ci sono controlli, non ci sono multe. Bisognerebbe multare certi comportamenti. Se a Singapore si butta un mozzicone per terra ci sono 500 dollari di multa. Da noi se qualcuno getta un sacchetto di plastica per terra tutti lo guardano male e qualcuno lo riprende, se qualcuno butta un mozzicone nessuno guarda o dice nulla. Nei mari e sulle spiagge nelle operazioni di raccolta delle plastiche e microplastiche, la prima fonte sono i mozziconi. L’informazione su questo c’è, ma non è trasmessa sufficientemente; certo, ci vorrebbero delle enormi campagne di sensibilizzazione, ma noi non abbiamo i mezzi. Facciamo quel che possiamo: per esempio si è da poco conclusa la campagna «Stop to drop», in cui durante due settimane delle classi scolastiche in Svizzera hanno raccolto 950mila mozziconi di sigarette.
niente da nord raggiunga normalmente anche il sud delle Alpi, spesso l’evento è mitigato, soprattutto a basse quote, dall’effetto del favonio che attenua il calo delle temperature. E poi ci sono i «Santi di ghiaccio». Oltre al «freddo delle pecore», negli approfondimenti climatici di MeteoSvizzera si trovano anche informazioni sui «Santi di ghiaccio». Secondo questa credenza popolare, come indica il sito dell’Ufficio federale di meteorologia e climatologia, bisogna attendersi un brusco calo delle temperature in corrispondenza di alcuni precisi giorni di maggio. Anche questa, una leggenda che si basa sulle antiche osservazioni dei contadini soprattutto d’Oltralpe, in riferimento alle gelate primaverili, ma che le pluriennali serie di misure di MeteoSvizzera non possono suffragare. Le gelate dei «Santi di ghiaccio» non sono però un’eccezione per il mese di maggio, a difesa della bontà della credenza popolare. Quale indicatore delle gelate al suolo in primavera, vengono in aiuto le serie di misurazioni pluriennali della temperatura a cinque centimetri dal suolo. Per quella di Payerne, iniziata nel 1965 e la più lunga in Svizzera, emerge una regolarità delle gelate al suolo solo fino a metà aprile, mentre tra il 1° e il 25 maggio, i giorni dei «Santi di ghiaccio», solo nel dieci per cento dei giorni si verificano delle gelate. Anche se la credenza dei «Santi di ghiaccio» non è confermata dalle serie di misure pluriennali a disposizione, MeteoSvizzera può comunque confermare come in maggio le gelate al suolo non siano una rarità: «Nella maggior parte degli anni analizzati di Payerne, per almeno uno o due giorni si sono verificate delle gelate al suolo e in circa la metà degli anni si sono osservati più di due giorni con gelate al suolo». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Da Locarno a Tokyo, con lo sguardo verso gli Usa
Sport Il percorso di Noè Ponti è passato anche dagli Europei di Budapest, riportando il nuoto ticinese
in una finale continentale
Giancarlo Dionisio «Vorrei giocarmi una finale». Così aveva dichiarato Noè Ponti la vigilia degli Europei conclusi pochi giorni fa in Ungheria. «Per poi, perché no, cercare qualcosina in più. In fondo sta a me. La testa è mia. Sto bene, in acqua vado forte, si tratta di capire come gestisco la pressione». Quel briciolo in più non è arrivato in termini di medaglie. Ma è giunto l’accesso a due finali individuali, terminate con un quinto e un settimo posto, e il consueto bottino di record svizzeri. Chi non ha seguito finora le vicende agonistiche del quasi ventenne nuotatore del Locarnese si potrà stupire. In fondo, in Ticino, siamo da sempre abituati a seguire un eccellente movimento natatorio su scala nazionale, ma, se escludiamo il fenomeno Flavia Rigamonti, e la ticinese d’adozione Maria Ugolkova, non siamo mai stati confrontati con un campione in grado di eccellere anche a livello internazionale. Noè è l’eccezione. E lo è da sempre. È un predestinato. Se spulciate la sua autobiografia sul web, scoprite il feeling che lo lega all’acqua sin dalla più tenerissima età. Impara a nuotare ancora prima di compiere tre anni. Viene presto avviato verso le competizioni da genitori che non avevano alcuna relazione con il mondo dello sport agonistico, ma che hanno presto intuito il potenziale enorme del loro figliolo. A
Noè Ponti, agli Europei in Ungheria. (Keystone)
sette anni, alla prima partecipazione a un meeting in vasca lunga, si impone sui 50 delfino. Tempo: 49 secondi e 42 centesimi. «Chissà se un giorno riuscirò a ottenere questo tempo sulla distanza doppia», scrive Noè. Erano le riflessioni e i sogni di un ragazzino. Di un atleta dallo sguardo che andava a pescare molto lontano. Attualmente il primato mondiale sui 100 delfino appartiene allo statunitense Caeleb Dressel in 49,50. Quello svizzero di Noè Ponti è di 51,11. Ciò significa che il top mondiale è ancora lon-
tano, ma la via intrapresa è quella giusta. È una via che, terminato il Liceo sportivo quinquennale, lo porterà ad allenarsi e a studiare negli Stati Uniti, la mecca del nuoto. Cresciuto nella Nuoto Sport Locarno, da circa un anno, è passato ad allenarsi e a gareggiare sotto le insegne dello Swiss Swimming Training Base, che ha sede presso il Centro Sportivo Nazionale della Gioventù di Tenero. I carichi di lavoro aumentano, settimana dopo settimana. Il tempo libero si assottiglia. Ma la forza di un atleta sta anche nel trasfor-
Giochi Cruciverba Tra amiche: «Stamattina mio marito ha trovato lo scarafaggio che avevo messo in cucina, così ha svuotato e pulito tutto perfettamente!... Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 6, 2, 7, 3, 5)
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
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Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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ORIZZONTALI 1. Un’interruzione di corrente... 4. Un dato di riconoscimento 10. Gli dei di Sigfrido 11. Auto inglese 12. Nome femminile 13. Vicino a voi 14. Il Conti conduttore tv 15. Prefisso che vuol dire somiglianza 16. Si vive nell’accordo perfetto tra amore e serenità 18. Dio greco dell’amore 19. Analisi di laboratorio 20. In posizione intermedia 22. Un numero 23. Orgogliosi, austeri 25. Sporadica 27. Se è sola non fa primavera 29. Sporgono dalla fusoliera 30. Una famosa Orietta
mare le rinunce in opportunità di crescita. Il talento non basta. Serve anche un ambiente ideale. A Locarno, lo dicono i risultati, hanno lavorato molto bene. Il passaggio a Tenero è stato un ulteriore importante step sulla via della maturazione, data la possibilità di confrontarsi e di convivere con altri talenti del nuoto elvetico. Non siamo una potenza mondiale, ma stiamo crescendo. Ai recenti Europei, la Svizzera ha conquistato tre medaglie d’argento, una di bronzo, senza dimenticare le numerose presenze in
finale. Non male, per un paese che in passato si è goduto alcune individualità eccellenti, ma ha faticato a esprimersi come movimento globale. Si diceva dello sguardo di Noè puntato sugli Stati Uniti. Se la prenderà larga. Dapprima si tratterà di passare da Tokyo, dove il 23 luglio verranno inaugurati i Giochi Olimpici. Il ragazzino che vive nel comune di Gambarogno, da mesi ha in tasca il biglietto per la capitale giapponese. Con quali obiettivi, ambizioni, sogni? L’obiettivo è quello di far bene. Oggettivamente, per ripetere quanto raccontava lui stesso prima degli Europei, l’accesso a una finale significherebbe «missione compiuta». Quanto si sogna... la testa è libera di volare e di disegnare scenari inimmaginabili. Già, la testa. È il motore indispensabile per riuscire. Ovunque. Ma ancora di più lo è in una disciplina sportiva in cui, lavorare duramente significa appoggiarla a filo d’acqua e vedere, per ore e ore, per km e km, l’azzurro del fondale e il nero delle strisce che separano le corsie. Se non hai la testa, se non riesci a fare il vuoto mentale e a entrare in una dimensione meditativa, addio sogni di gloria. Noè Ponti, per quanto sta dimostrando, ci riesce molto bene. Fra poco compirà 20 anni. È giovane. Può ancora crescere. E noi, con lui, potremo ancora sognare.
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31. Le iniziali dell’attore Quinn 32. I gatti di casa 34. Un mezzo di questo... 35. Antilope africana 36. Degne, insigni 37. Mare del Mediterraneo
Verticali
1. Il pittore Salvador 2. Dea egizia della fecondità 3. È dura in guerra 4. Si curano a bocca aperta 5. Un ripiego... marginale 6. La risposta dell’indeciso 7. Parcelle
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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8. Un appunto per ricordare 9. Lo è il prezzo troppo alto 11. Tranquille 14. Nome femminile 17. Porcospino 18. Succedono per legge 20. Colorato 21. Si intrecciano con gli orditi 23. Robusto, vigoroso 24. Vano, inutile 26. Calimero... senza cero 27. Il riposo degli inglesi 28. Giusto, obbiettivo 33. Le iniziali dell’attrice Rossellini 35. Le iniziali del comico Gnocchi
CONOSCERE GLI ANIMALI – I fenicotteri rosa devono il colore del loro piumaggio… Resto della frase:… AL LORO CIBO PREFERITO, I GAMBERETTI.
Partecipazione online: inserire la
luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
A B E T I
L L O O B P R E M I U N O S T A G I A R E I R E B E R E E S I T O
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Politica e economia Yemen, una via d’uscita? Si aprono spiragli diplomatici dopo sei anni di guerra che hanno devastato il Paese
La furia della Covid sul Nepal Mancano farmaci, posti letto negli ospedali e medici. Mentre in tutta l’Asia del sud si decantano i rimedi naturali
Dove manca l’umanità Continuano i respingimenti e l’odio si riversa su chi aiuta i migranti in fuga dalla miseria
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Votazioni del 13 giugno Contro la legge federale sul Covid 19 è stato lanciato il referendum per non legittimare lo strapotere del Consiglio federale pagina 29
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La Germania e la sua estate caldissima Il punto Mancano pochi mesi alle elezioni
per il rinnovo del Bundestag e del Governo. Occhi puntati su Annalena Baerbock dei Verdi e il candidato della Cdu-Csu Armin Laschet. Chi occuperà il posto lasciato libero da Angela Merkel?
Marzio Rigonalli La Germania sta per vivere un’estate molto calda dal punto di vista politico. Siamo a quattro mesi dalle elezioni legislative del 26 settembre. Elezioni che rinnoveranno il Bundestag, il Parlamento federale, e dalle quali emergerà anche il nuovo Governo. È un appuntamento che si ripete ogni quattro anni. Questa volta la posta in gioco è particolarmente importante perché si conclude l’era di Angela Merkel, un periodo durato ben sedici anni, che ha consentito alla cancelliera uscente di diventare una personalità politica trainante, ascoltata e ammirata, non soltanto sul piano interno, ma anche su quello internazionale, in particolare nel contesto del laborioso processo d’integrazione europea. Dopo il 26 settembre inizierà una nuova fase che segnerà sicuramente una certa continuità della linea politica adottata negli ultimi anni, ma che annovererà anche novità, dovute sia ai nuovi nomi che si affacceranno sul palcoscenico politico e all’azione che svolgeranno, nonché ai cambiamenti che subentreranno nel nuovo equilibrio delle forze politiche in presenza. Quali sono le personalità che stanno emergendo e quali sono i partiti politici che ottengono i maggiori consensi nella campagna elettorale in corso? Senza eccedere nella semplificazione, si può sostenere che l’attenzione maggiore si concentra sullo scontro tra due personalità candidate alla cancelleria e rappresentanti due diversi partiti. Si tratta di Annalena Baerbock, esponente dei Verdi, e di Armin Laschet, candidato dell’unione Cdu-Csu. Ex atleta nazionale nel trampolino elastico, Annalena Baerbock è copresidente dei Verdi dal 2018 e fa parte del Bundestag. Ha quarant’anni, è madre di due bambine e vive a Postdam, vicino a Berlino. La sua carriera politica è stata molto veloce. In pochi anni è riuscita ad imporsi in seno al suo partito e a farsi designare candidata alla Cancelleria. È la prima volta, nella loro storia di quarant’anni, che i Verdi puntano su
una donna per la carica più alta dello Stato. Annalena Baerbock ha per sé la sua giovane età, non è mai stata coinvolta in uno scandalo di larga risonanza e riscontra molte simpatie tra la popolazione. Fa parte dell’ala «Realos» dei Verdi, che si oppone all’ala «Fundis», e ciò le permette di trovare consensi anche nei partiti borghesi. Il suo principale handicap è la totale assenza d’esperienza in un qualsiasi organo Esecutivo. I sondaggi sono favorevoli sia a lei che al suo partito e si situano tra il 25% e il 30%. Sono cifre impressionanti, soprattutto se vengono paragonate a quell’8,9% che i Verdi riuscirono a conquistare alle ultime elezioni legislative del 2017. Molti osservatori attribuiscono alla candidata dei Verdi un futuro politico certo, o come cancelliera, subentrante ad Angela Merkel, o come vicecancelliera, alla testa di un importante Ministero. Armin Laschet ha vent’anni più della rivale e quindi ha un’esperienza politica più consolidata. È cresciuto nella Cdu, l’Unione cristiano-democratica, che presiede dallo scorso mese di gennaio ed è stato un fedele alleato di Angela Merkel. Nel 2017 vinse a sorpresa le elezioni nella Renania Settentrionale-Vestfalia, battendo la popolare Hannelore Kraft, della Spd, una delle donne politiche più amate in Germania. Da allora presiede il Governo di questo importante Land, che è il più popoloso della Germania con i suoi 18 milioni di abitanti. Per sei anni è stato anche parlamentare europeo e mantiene stretti rapporti con i Paesi che confinano con il suo Land, in particolare con il Belgio e l’Olanda. A più riprese ha manifestato il suo impegno e la sua simpatia per la causa europea. Laschet deve però muoversi in un contesto che non gli è molto favorevole per più ragioni. Innanzitutto, perché non è un politico brillante e non sa conquistarsi molte simpatie tra la popolazione. I sondaggi lo rivelano costantemente. Poi perché il suo partito è immerso in situazioni che allontanano gli elettori, come lo scandalo degli eletti Cdu che hanno intascato commissioni per aver
I sondaggi sono per ora favorevoli ad Annalena Baerbock, 40 anni, copresidente dei Verdi dal 2018. (Keystone)
agito tra le autorità ed i produttori di mascherine, o la designazione nella Turingia di un candidato della Cdu al Bundestag, noto difensore delle tesi di estrema destra. Infine Laschet deve convivere con le rivalità interne alla sua alleanza, con personalità come il leader della Baviera Markus Söder, che aspirava a diventare candidato alla Cancelleria, oppure Friedrich Merz, leader della destra della Cdu che ambiva a diventarne il presidente. Personalità che possono frenare la sua ascesa alla Cancelleria. Oggi i sondaggi non gli sono molto favorevoli e si situano intorno al 25%, un po’ al di sotto delle preferenze che raccoglie la candidata dei Verdi. Accanto al duello che si è ormai ben delineato, vi sono altre forze politiche che cercano di riunire consensi per potere, in qualche modo, influire sulla politica del prossimo Governo. Sono
essenzialmente tre partiti. I socialdemocratici della Spd. Sono al Governo, guidati dal vicecancelliere e ministro delle finanze Olaf Scholz, ma hanno perso molto terreno nel Paese, probabilmente vittime di quella crisi che negli ultimi anni ha colpito un po’ tutti i partiti socialdemocratici d’Europa. Nelle elezioni legislative del 2017 ottennero ancora il 24,6% dei voti ma oggi il loro consenso elettorale si è dimezzato. I liberali democratici della Fdp. In passato parteciparono più volte al Governo. Nella seconda metà dello scorso secolo, per esempio, un loro rappresentante, Hans-Dietrich Genscher, fu inistro degli Esteri per quasi 20 anni. Dal 2013 sono all’opposizione e nelle legislative del 2017 ottennero il 10,7%. Infine l’AfD l’Alternativa per la Germania, il partito d’estrema destra euroscettico e anti-immigrazione. I sondaggi dan-
no queste tre forze ciascuna intorno al 12%. Le prime due, la Spd e l’Fpd, possono ambire, se le circostanze lo permetteranno, ad entrare in un’alleanza di governo coi Verdi o con la Cdu. Nei mesi che ci porteranno al 26 settembre molte cose possono ancora succedere. La campagna elettorale avrà un crescendo di intensità nelle ultime settimane dopo le ferie estive. I colpi di scena non sono esclusi e, con essi, anche le inversioni di tendenza, le brusche frenate e le possibili sorprese, legate alla gestione della pandemia e della crisi economica. Il quadro politico che possiamo vedere oggi potrebbe ritrovarsi quasi invariato, ma potrebbe anche registrare alcune modifiche sostanziali. Intanto un primo test parziale l’avremo già il 6 giugno, quando nel Land Sassonia-Anhalt verrà eletto il nuovo Parlamento regionale.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Politica e economia
Una flebile speranza per lo Yemen Medio Oriente Dopo sei anni di guerra il Paese è allo stremo, con oltre 20 milioni di persone bisognose
di assistenza umanitaria. Dall’insediamento di Biden qualcosa si muove sul fronte diplomatico ma la strada è in salita Romina Borla Gli Stati uniti hanno di recente annunciato l’imposizione di sanzioni a due leader huthi in Yemen. Si tratta dei principali responsabili dell’offensiva lanciata dalla formazione composta da sciiti zaiditi sulla città di Marib, finora controllata dal Governo riconosciuto internazionalmente, Muhammad Abdul Karim Al-Ghamari e Youssef AlMadani. Si torna dunque a parlare, anche se timidamente, di una delle tante guerre dimenticate, quella che infuria nel Paese mediorientale dal 2015 e che non accenna a terminare. Il territorio, infatti, è sempre conteso tra il Governo yemenita – come detto riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dall’Arabia saudita – e i ribelli huthi, appoggiati dall’Iran e da alcuni gruppi tribali. Intanto nel Paese si consuma una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, denuncia l’Onu. Oltre 20 milioni di persone, pari a circa il 67 per cento della popolazione, hanno bisogno di assistenza umanitaria e protezione. Dopo 6 anni di guerra sono oltre 300 mila i rifugiati e almeno 4 milioni gli sfollati interni. Catastrofica la situazione sanitaria, con le rare strutture mediche danneggiate dai combattimenti e una forte penuria dei beni di prima necessità. Gran parte dei bambini non ha accesso all’istruzione e più di un terzo
Si inventano giochi anche nel campo per sfollati interni alla periferia della capitale Sanaa. (Keystone)
degli yemeniti soffre la carestia. La pandemia ha solo peggiorato le cose e il tasso di mortalità da Covid-19 si attesta al 22 per cento, uno dei più alti al mondo. Facciamo il punto della situazione con Eleonora Ardemagni, esperta di Yemen, monarchie del Golfo, forze militari arabe e ricercatrice associata all’Istituto per gli studi di politica
Dalla «Primavera» al conflitto senza fine ▶ Nel 2011 in Yemen scoppiano delle sommosse popolari nell’ambito delle «Primavere arabe» che spingono il presidente Ali Abdullah Saleh, al Governo dal 1978, a cedere il potere al suo vice, Abd Rabbo Mansur Hadi (febbraio 2012). ▶ Nel settembre 2014 gli huthi (sciiti zaiditi alleati alle forze che sostengono l’ex presidente Saleh) conquistano la capitale Sanaa e nel gennaio 2015 compiono un colpo di Stato. ▶ Nel marzo 2015 una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, a cui aderiscono anche gli Emirati arabi uniti, lancia un’offensiva contro gli huthi. ▶ Nel dicembre 2018 a Stoccolma si aprono i colloqui, sostenuti dall’Onu, tra il Governo yemenita in esilio e gli huthi. Si giunge a un accordo che però non è mai stato del tutto attuato. ▶ Nel gennaio 2021 l’Onu condanna la decisione presa qualche giorno pri-
ma dagli Usa di classificare gli huthi come terroristi in quanto minerebbe il processo di pace. ▶ In febbraio Joe Biden annuncia la fine del sostegno degli Usa alla campagna militare guidata dall’Arabia Saudita in Yemen. Mentre il segretario di Stato americano, Antony Blinken, comunica l’intenzione di ritirare i ribelli sciiti huthi dalla lista dei gruppi considerati terroristi dagli Stati uniti. Intanto gli insorti lanciano un’offensiva per conquistare Marib. ▶ In marzo l’Arabia Saudita propone un cessate il fuoco nazionale, con qualche apertura inedita sull’aeroporto di Sanaa e sul porto di Hodeida, i collegamenti aerei e marittimi dei territori controllati dagli insorti. Ansar Allah, il movimento politico degli huthi, respinge la proposta e chiede prima la rimozione completa dell’embargo.
internazionale (Ispi): «In questo momento l’epicentro della guerra è Marib, ultima roccaforte del Governo internazionalmente riconosciuto. Si tratta di un’area strategica: ospita i più importanti giacimenti petroliferi e gasiferi del Paese, la prima fonte di sostentamento economico per le frammentate istituzioni yemenite». La battaglia è aperta: gli insorti si trovano a pochi chilometri dal capoluogo omonimo, ma le forze filo-governative possono contare sulla copertura aerea della coalizione guidata dai sauditi. «Se gli huthi prevalessero si tratterebbe di una vittoria militareterritoriale significativa nel contesto di un conflitto rimasto finora in bilico», sottolinea Ardemagni. «Inoltre non dimentichiamo che la zona accoglie quasi un milione di sfollati interni in fuga dalla guerra. Gli scontri in atto rischiano di aggravare una situazione umanitaria già ingestibile». Combattimenti d’intensità variabile si registrano anche nella città sotto assedio di Taiz e nel governatorato di Hodeida. Ma quali sono le radici di quella che è stata denominata una guerra per procura tra Arabia Saudita (alleata agli Emirati arabi uniti) e Iran? L’esperta ricorda che il conflitto in Yemen è iniziato come intervento di una coalizione a guida saudita contro gli huthi che avevano occupato la capitale Sanaa e guidato un golpe nel 2015. «Inizialmente si trattava di una guerra politica, interna, scoppiata a causa del fallimento della transizione istituzionale segui-
ta alla rivolta anti-governativa del 2011, nell’ambito delle Primavere arabe. Gradualmente però si è trasformata in un conflitto a partecipazione regionale: per difendere i loro interessi Arabia saudita, Iran ed Emirati arabi uniti si sono schierati con gli attori yemeniti in contrapposizione tra loro». L’obiettivo dell’Arabia saudita – precisa Ardemagni – era ed è quello di riprendere il controllo della parte di Yemen conquistata dagli huthi e mettere in sicurezza l’ormai turbolenta zona di confine. Invece l’Iran, attraverso il sostegno militare agli huthi, è riuscito ad aumentare la sua influenza geopolitica sul Paese. Stessa cosa si può dire per gli Emirati arabi uniti, alleati dell’Arabia saudita, che si sono concentrati sulle operazioni di terra nelle regioni meridionali dello Yemen e hanno allacciato una serie di alleanze con gli attori locali che sostengono l’autonomia dal nord. Nel 2019 gli emiratini si sono formalmente ritirati dal conflitto ma mantengono una forte influenza sull’area grazie appunto a questi legami. Attenzione poi al ruolo dei fondamentalisti islamici. «È da diversi decenni che in Yemen operano gruppi di jihadisti, in particolare nel sud del Paese», afferma l’intervistata. «Ad esempio nel 2015 e 2016 al Qaeda era riuscita ad occupare città strategiche (come Jaar, Zinjibar, Mukalla) che poi sono state recuperate con un’azione militare congiunta dell’esercito yemenita e di milizie locali guidate dagli Emirati
arabi uniti. Adesso l’organizzazione sta rialzando la testa e mira a conquistare sempre più spazio: da inizio 2021 sono ripresi gli attacchi mirati contro esponenti delle forze di sicurezza del Governo riconosciuto o contro gruppi locali». In gioco ci sono enormi interessi. Lo Yemen – osserva l’esperta – è un Paese strategico nello scacchiere mediorientale perché unisce tre universi, essendo geograficamente collocato tra mondo arabo, il Golfo, l’Africa orientale (il Corno d’Africa) e l’Oceano indiano (l’Asia meridionale). Dalle coste yemenite passa una via marittima molto importante – quella del Bab el-Mandeb (lo stretto che collega il Mar Rosso al Golfo di Aden e quindi all’Oceano Indiano) – essenziale per il traffico commerciale e petrolifero. Per questo è una terra contesa. Quali sono i possibili sviluppi dell’intricata situazione? «L’Arabia saudita – indica Ardemagni – non è finora riuscita e probabilmente non riuscirà mai a raggiungere gli obiettivi che si era fissata nel 2015, ovvero riprendere il controllo della capitale Saana e spingere gli huthi nei loro territori di origine, nell’estremo nord del Paese. Pensava di poter vincere con una rapida azione, vista l’asimmetria militare tra Riad e gli insorti. Ma gli huthi sono stati abili nell’intrecciare alleanze politiche, militari e tribali. Si sono rafforzati soprattutto grazie al sostegno militare dell’Iran e all’appoggio del gruppo che sosteneva l’ex presidente Ali Abdullah Saleh, desideroso di riconquistare il potere perduto durante la Primavera yemenita». E adesso? Si aprono degli spiragli diplomatici con l’Amministrazione Biden che, a differenza di quella di Trump, spinge per una soluzione politica. Pensiamo alla mossa degli Usa di levare dalla lista nera del terrorismo internazionale Ansar Allah, il movimento politico degli huthi, e – dall’altra – alla volontà di calibrare la relazione strategica con l’Arabia saudita, spingendo il Paese sulla via della diplomazia. «Il momento è dunque favorevole – sottolinea l’esperta – ma lo Yemen è diventato, anche a causa di questo conflitto, un Paese decisamente frammentato, con molteplici attori politici-militari sul campo e molte agende politiche locali in conflitto l’una con l’altra. Sarà estremamente difficile arrivare a un cessate il fuoco duraturo e a un processo di pace che stabilizzi il Paese. Il primo accordo di pace deve essere siglato tra yemeniti ma questi non sembrano per il momento interessati a farlo». Annuncio pubblicitario
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Politica e economia
Decotti e urina contro la Covid Asia del sud Il virus si diffonde mentre politici e «santoni» spingono la popolazione verso i rimedi naturali
e lontano dai vaccini. La situazione in Nepal è catastrofica: mancano farmaci, posti letto negli ospedali e medici Francesca Marino «Nella valle di Kathmandu le terapie intensive dotate di respiratori sono ormai piene. Negli ospedali non c’è più un letto disponibile e non possiamo ammettere nuovi pazienti perché mancano ossigeno e medicine. Anche i vaccini sono finiti. Se non facciamo qualcosa adesso, la situazione rischia di trasformarsi in una catastrofe di proporzioni epocali». Più di quanto già non sia. Chi parla è il dottor Samir Kumar Adhikari, a capo del Centro operativo di emergenza sanitaria di Kathmandu, l’agenzia governativa nepalese che si occupa della pandemia da Coronavirus, che cerca ormai da giorni di far convergere l’attenzione del mondo sul Paese himalayano.
Un cittadino nepalese su due è positivo al Coronavirus. Ci sono circa 9 mila nuovi casi al giorno e il tasso di mortalità ha superato quello dell’India I numeri sono terrificanti. Secondo le statistiche, un cittadino nepalese su due è positivo alla Covid-19. Ci sono circa 9 mila nuovi casi al giorno, che rappresentano un incremento del 3’000 per cento rispetto al mese di aprile. Settimana scorsa il tasso di mortalità ha abbondantemente superato quello della vicina India. La seconda, letale, ondata di Coronavirus ha letteralmente travolto il Nepal, aggravata dalle condizioni della sanità pubblica e dalla quasi inesistente sanità privata della Nazione. Non solo mancano ospedali, cilindri di ossigeno e medicine, ma mancano anche i medici. In Nepal, difatti, ci sono soltanto 8 dottori per 10 mila cittadini e quasi tutti sono concentrati nelle città. Come nel caso dell’India, ma è ancora più probabile che in India, i veri numeri sono molto, molto più alti. E il Governo non soltanto non li conosce ma non è né interessato né preparato a diffonderli o anche soltanto a cercarli. Mentre gli aiuti piovono dall’Europa e dal resto del mondo, la politica locale continua a fare quello che fa praticamente dalla nascita del Nepal: corrotti giochi di potere. Nei mesi scorsi l’India ha donato al Nepal circa un milione di dosi di Astrazeneca e il Governo ha ottenuto vaccini sia dal programma Covax (che ha l’obiettivo di facilitare l’accesso ai vaccini anche ai Paesi poveri) sia dalla Cina, che con l’India si disputa l’influenza sul piccolo Paese. Dove sono finiti i vaccini? Bella domanda, perché secondo le statistiche soltanto 400 mila cittadini hanno ricevuto le due dosi canoniche. Due milioni hanno ricevuto soltanto la prima dose, secondo il Governo. Forse. Eppure le avvisaglie di una nuova ondata del virus c’erano state. Ai primi di maggio si registravano focolai di Covid nei campi base himalayani, ma le notizie non sono mai state confermate ufficialmente dal Governo. Perché? Perché l’Himalaya è una delle macchine da soldi più produttiva e gettonata del Paese. In aprile migliaia di cittadini nepalesi (il Nepal è ufficialmente di religione hindu) sono andati in India per il Kumbh Mela. E centinaia di migliaia di lavoratori stagionali nepalesi si sono riversati in patria dall’India non appena il Governo di Nuova Delhi ha imposto i primi lockdown. Senza che nessuno li testasse o li controllasse. La presidente Bidhya Devi Bhandari ha sciolto il Parlamento lo scorso 23 maggio perché i partiti non sono
Negli ospedali di Kathmandu non c’è più spazio, i pazienti vengono assistiti alla bell’e meglio all’esterno. (Keystone)
stati in grado di formare un Governo nonostante l’emergenza nazionale. E ha annunciato le elezioni per il prossimo novembre con relativi comizi e rally elettorali. Per i sopravvissuti alla pandemia, a quanto pare. Perché il primo ministro in carica Khadga Prasad Sharma Oli dovrebbe essere mandato, più che a casa, in galera. Il signore in questione, difatti, nei mesi scorsi raccomandava di bere foglie di guava bollite dentro l’acqua e fare dei gargarismi con il decotto. Efficacissimo per tenere lontano la Covid, visto che «nemmeno i vaccini sono efficaci al 100 per cento». Non solo. Secondo Khadga Prasad Sharma Oli i nepalesi sarebbero «molto più resistenti alle infezioni perché hanno un’immunità più alta» e hanno la fantastica possibilità di curarsi dal virus cinese usando rimedi antichissimi fatti con le erbe. D’altra parte, confuse idee del genere si sentono anche dall’altra parte del confine, in India e in Pakistan. Solo che in India almeno vengono riportate dalla stampa per quello che sono.
a dichiarare che la medicina «allopatica» non serve a nulla, che ci sono stati più morti a causa delle medicine che a causa della pandemia, che i respiratori e le bombole di ossigeno sono inutili
visto che basta fare yoga per sviluppare i polmoni. Aggiungendo che i medici sono degli stolti visto che con tutte i loro farmaci non sono riusciti a salvare loro stessi e che il vaccino ammazza più gen-
te del virus. Il rimedio sommo contro la Covid, l’unico davvero efficace, è un cosiddetto «farmaco» chiamato Coronil. È prodotto da un’azienda che si chiama Patanjali con sede in Haryana. Indovinate chi è socio della Patanjali? Baba Ramdev. Che è andato in televisione a ogni ora del giorno a dire che il Coronil aveva ottenuto una certificazione da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come cura riconosciuta contro la Covid. L’Oms ha smentito, ma buona parte dell’India non legge i giornali in inglese e non guarda i canali di informazione in inglese che danno notizie credibili e supportate da fatti. Così, si sono viste nei villaggi corse ad accaparrarsi i beveroni di escrementi di mucca e in Stati come l’Uttar Pradesh o il Bihar il 42 per cento della popolazione dichiara di non avere intenzione alcuna di vaccinarsi. Come, d’altra parte, in Pakistan. Dove i mullah si fanno da mesi un punto d’onore nel diffondere la notizia che i vaccini contro il Coronavirus provocano sterilità immediata e sicura e che bisogna costruire moschee per placare l’ira divina. Offrendo, ovviamente, laute donazioni a organizzazioni religiose che, nove su dieci, sono anche organizzazioni terroristiche. Le stesse che sparano addosso ai medici che portano i vaccini antipolio, anche quelli contrari al volere divino. E intanto, tra polemiche e divinità da placare, il virus importato dalla laicissima Cina, si impadronisce dell’Asia del sud. Annuncio pubblicitario
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Il Governo tende a minimizzare perché non vuole spaventare i turisti. L’Himalaya, infatti, è una delle macchine da soldi più produttiva e gettonata del Paese Pragya Singh Thakur, un politico indiano del partito al Governo, ha dichiarato che le infezioni ai polmoni causate dal Coronavirus possono essere curate bevendo urina di vacca ogni mattina. E che un mix di urina ed escrementi di mucca è efficace contro praticamente tutto, dal cancro alla Covid. E non è l’unico. Secondo Usha Thakur, ministro della cultura (sic!) dello Stato dell’Uttar Pradesh, praticare yoga per quattro giorni di seguito purifica l’ambiente e ferma la diffusione del virus. Folklore? Non solo. Perché un autoproclamatosi guru via Youtube, Baba Ramdev, nei giorni scorsi ha fatto di peggio. Ramdev, in genere, è abbastanza innocuo: diffonde un «Verbo» pasticciato di nozioni da Wikipedia, induismo condito da una buona dose di new age e consigli spiccioli su come gestire casa e famiglia nonché le proprie attività economiche. Fin che di recente si è messo
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Politica e economia
Quell’odio contro chi aiuta
Mediterraneo La volontaria insultata per avere abbracciato un migrante a Ceuta e il discusso smalto di Yosefa.
L’azione umanitaria è sempre più delegittimata mentre parte dell’Ue continua con la pratica dei respingimenti ciechi
Francesca Mannocchi Ci sono molte immagini iconiche che raccontano il dramma delle migrazioni. Le immagini dei corpi gonfi d’acqua e riversi, senza vita, sulle coste libiche dopo i naufragi. Quelle delle persone salvate in mare dalle Ong, la fotografia del piccolo Alan Kurdi morto sulle coste di Budrum, in Turchia nel 2015, mentre con la sua famiglia in fuga dalla guerra siriana cercava di raggiungere l’Europa. Anche l’inizio di questa estate è segnato da istantanee che fermano un volto, un’emozione, un abbraccio, il momento in cui il terrore di morire è finalmente alle spalle. Le immagini stavolta arrivano da Ceuta, l’enclave spagnola in Marocco, dove nelle ultime settimane sono arrivati nuotando o a piedi 9 mila migranti, molti giovanissimi, molti bambini. Una foto che racconta l’ennesimo dramma delle traversate e dei respingimenti ci restituisce il volto di un uomo della Guardia civile spagnola. Sta salvando un neonato che rischiava di annegare. L’uomo porta il bambino verso l’alto: lo sta salvando dalle onde e allo stesso tempo lo mostra alla coscienza di chi guarda. Il piccolo ha il volto rivolto verso il basso, un cappellino a coprire la nuca, sulle mani dei piccoli guanti. Un’altra immagine rappresenta un giovane ragazzo che era riuscito ad arrivare a Ceuta galleggiando su bottiglie di plastica ma a pochi metri dalla
spiaggia di El Tarajal ha notato i soldati spagnoli che lo attendevano e, disperato, ha tentato la fuga arrampicandosi su di un muro. Prima di essere catturato e accompagnato in un centro per le espulsioni. È l’immagine che tiene insieme il principio che anima chi scappa, «arriverò in Europa a tutti i costi», e le politiche che continuano a respingere. Che dire poi dell’immagine che ritrae una volontaria della Croce rossa nell’atto di abbracciare un migrante appena arrivato? A immortalare il momento l’agenzia Reuters, nel video prima che nella foto si intuisce la dinamica dell’attimo: la volontaria, Luna Reyes, aiutata da un soldato, sostiene un migrante in modo che possa espellere l’acqua di mare bevuta tentando di raggiungere la costa. La giovane prova a calmarlo. Mentre lui è diviso tra incredulità, sollievo e disperazione, lei lo abbraccia. Nel video si possono ascoltare in sottofondo le voci di altri migranti che reclamano prima di essere portati via dai funzionari dalla Guardia civile spagnola ed espulsi in Marocco. Luna Reyes ha 20 anni, sua madre è originaria di Ceuta ma la sua famiglia vive nei pressi di Madrid. È arrivata nell’enclave spagnola a marzo per un tirocinio, necessario per completare gli studi in integrazione sociale. Dopo che la fotografia con la persona migrante ha fatto il giro del mondo, anche l’odio è diventato virale. La giovane è stata
Luna Reyes sulla spiaggia di Ceuta cerca di sostenere una persona disperata. (Keystone)
sommersa di messaggi duri, insulti xenofobi e sessisti su ogni social media. In poche ore, nonostante molti utenti la supportassero con l’hashtag #GraciasLuna, ha deciso di chiudere o rendere privati i suoi profili, per cercare di lasciarsi alle spalle quel carico di violenza verbale espressa da comuni utenti e da
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gruppi più organizzati, come il partito di estrema destra Vox. «Quel ragazzo era solo disperato», ha detto Luna Reyes. «L’ho solo abbracciato e l’ho fatto perché era la cosa più normale e naturale del mondo. La più spontanea risposta a una richiesta d’aiuto». Il giovane era disperato anche perché aveva perso le tracce di un amico che aveva viaggiato con lui. In pochi giorni diverse migliaia di persone sono state respinte e riportate in Marocco sulla base degli accordi bilaterali che dal 2015 legano Rabat e Madrid in materia di immigrazione. I respingimenti spagnoli sono sotto accusa di numerose organizzazioni umanitarie poiché non considerano le ragioni individuali che inducono le persone a partire ed espongono i rimpatriati a pericoli nei Paesi di provenienza. La Spagna, lungi dal modificare le politiche attuate finora e apparentemente non preoccupata di incorrere di nuovo in una condanna da parte della Corte europea dei diritti umani, reitera la pratica dei rimpatri come unica soluzione possibile, come se non esistesse il principio sancito dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati che recita: «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà (...) un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Se diversi Stati europei sembrano coerenti e compatti nel respingere i migranti senza rischiare sanzioni, lo stesso non può dirsi per l’operato di chi accoglie. Luna Reyes, intervistata dalla televisione spagnola, ha dichiarato che «non era preparata né a un tale numero di arrivi, né a un tale carico d’odio». L’Europa è solida nel perseguire politiche di esternalizzazione dei confini. I respingimenti non vengono effettuati direttamente dalle istituzioni degli Stati membri perché vietate dal Diritto internazionale, così negli ultimi anni gli Stati più coinvolti dal fenomeno migratorio hanno finanziato e sostenuto istituzioni fragili, come la Guardia costiera libica, e stretto accordi economici con i Paesi di transito e provenienza affinché venisse impedito alle persone di partire alla volta dell’Europa. Una direzione determinata dal vento xenofobo che si è diffuso nel Vecchio Continente negli ultimi anni e che, come un effetto domino, continua a produrre le stesse condizioni che l’hanno generato. Sebbene
gli sbarchi siano crollati dopo l’attuazione di politiche di contenimento dei confini, l’opinione pubblica resta dominata dalla paura del diverso che esprime con rabbia e violenza. Come nel caso di Luna Reyes. Era già successo con Josefa, una 40.enne del Camerun salvata da Proactiva open arms nel 2018. Reduce da un naufragio e unica superstite, nei giorni successivi al salvataggio fu accudita dalle operatrici umanitarie che le posero dello smalto sulle unghie, per farla sorridere un po’. Servirono 4 giorni di navigazione per raggiungere la Spagna. Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno italiano, aveva chiuso i porti e sebbene per prossimità geografica Open arms avrebbe dovuto sbarcare in Italia, fu alla fine destinata alla Spagna. Sia Josefa che le sue soccorritrici subirono una campagna d’odio. L’Ong fu accusata di aver inventato il naufragio e aver fotografato la povera donna con il solo obiettivo di provocare compassione. Per giorni si parlò solo dello smalto di Josefa e della foto «contraffatta». Mai di politiche migratorie. Mentre la denuncia di Open arms – cioè che le persone a bordo del gommone su cui viaggiava Josefa fossero state abbandonate in mare di proposito dalla Guardia costiera libica – passò in secondo piano.
Sebbene gli sbarchi siano crollati dopo l’attuazione di politiche di contenimento, resta la paura del diverso Sono passati tre anni da allora. Le politiche europee non sono cambiate. Hanno al contrario reso più netta la linea di indirizzo: bloccare le partenze, aumentare i rimpatri. Di recente durante una operazione di sbarco a Pozzallo anche le autorità italiane, oltre alle Ong, sono state insultate da un gruppo di cittadini presenti al porto. La nave appena arrivata trasportava 400 persone, tra loro 150 minori. Le voci delle persone migranti sono sempre meno ascoltate, l’azione umanitaria sempre più delegittimata. E il circolo continua. Respingere il diverso, insultare l’azione generosa dei gruppi umanitari e non provare nemmeno una volta a risolvere un fenomeno destinato a non interrompersi e che necessita politiche con un orizzonte molto lungo. Più lungo certamente di un insulto postato su Twitter o Facebook.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 31 maggio 2021 • N. 22
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Politica e economia
In nome della democrazia
Votazioni federali 13 giugno Il referendum contro la legge Covid-19, che ha permesso l’erogazione di 38 miliardi
di franchi per sostenere l’economia, è stato lanciato per non legittimare e prolungare i poteri straordinari del governo Alessandro Carli Il sostegno alla legge Covid-19, in votazione il 13 giugno prossimo, resta alto e non dovrebbe diminuire, diversamente da quello alla legge sul CO2 e alle due iniziative agrarie concernenti l’acqua, il cibo e i pesticidi, temi in perdita di consensi. Consiglio federale e parlamento, ricordano che la legge Covid-19 garantisce un sostegno finanziario a centinaia di migliaia di persone e imprese, messe in difficoltà dalla pandemia. Essa è indispensabile per far fronte alla più grave crisi dalla Seconda Guerra mondiale. Ciononostante, lo scorso gennaio, l’associazione «Amici della Costituzione» ha inoltrato il referendum, sostenuto da quasi 90’000 firme. Per i contrari, la legge Covid-19, già in vigore, non è necessaria ed è stata messa a punto «alle spalle del cittadino». La democrazia diretta e il federalismo sono «stati calpestati». I cittadini saranno dunque chiamati a pronunciarsi. La legge Covid-19 regola prima di tutto gli aiuti finanziari per le persone e le aziende in difficoltà. Sulla base di questo testo, per il 2020 e 2021 sono stati sbloccati 38 miliardi di franchi. A causa del lockdown, ne beneficiano, oltre ai ristoranti, commercianti e indipendenti, teatri, sale cinematografiche, centri fitness e agenzie di viaggio. La legge garantisce anche l’approvvigionamento del paese in medicinali, apparecchi respiratori, equipaggiamenti di protezione e altri beni sanitari importanti. Pone pure le basi legali affinché la Confederazione si faccia carico dei test e del certificato vaccinale. Il Consiglio federale ha ripetutamente sottolineato che le misure restrittive come la chiusura di scuole, ristoranti, negozi, oppure l’obbligo del telelavoro non hanno nulla a che vedere con la legge Covid-19. Quest’ultima, non riguarda nemmeno la vaccinazione. La base legale per tutti questi provvedimenti sanitari è infatti la legge sul-
Le limitazioni alla libertà e il lockdown sono stati la scintilla che ha portato al referendum. (Keystone)
le epidemie, entrata in vigore nel 2016. Quando la pandemia si è manifestata nei primi mesi del 2020, la Svizzera non disponeva di basi legali per sostenere finanziariamente le persone e le imprese duramente colpite dalle misure di lotta contro la diffusione del coronavirus. Il Consiglio federale si è così visto costretto a varare misure urgenti. Per farlo, si è basato direttamente sulla Costituzione che, in presenza di un pericolo incombente, lo autorizza a prendere misure in virtù del diritto di necessità, oggetto di una legge urgente, la cui validità è limitata a sei mesi. La legge Covid-19 è stata adottata dal parlamento nel settembre del 2020 e l’ha dichiarata urgente affinché entrasse subito in vigore. Le Camere si sono dimostrate più generose del governo. È stato riconosciuto un aiuto alle imprese in grande difficoltà. Si è deciso di prendere in considerazione
i casi di rigore quando il fatturato annuo è inferiore al 60% di quello medio pluriennale. L’accesso alla disoccupazione parziale è stato agevolato per le imprese ed esteso ai lavoratori su chiamata. Le indennità per perdita di guadagno (IPG) sono state riconosciute agli indipendenti, alle persone con statuto di datore di lavoro e a quelle che hanno dovuto ridurre le loro attività a causa delle misure di lotta contro la pandemia. Inoltre, le leghe professionali di calcio e di hockey hanno ottenuto prestiti senza interessi. Per la cultura sono stati stanziati 100 milioni. Sono pure state decise sovvenzioni in favore dei media (distribuzione regolare dei quotidiani e settimanali), ciò che è stato criticato dai fautori del referendum. A causa del perdurare della pandemia, ci si è ben presto resi conto della necessità di estendere la cerchia dei
beneficiari dell’aiuto federale. La legge Covid-19 ha così subito varie revisioni a breve distanza, tornando in parlamento già nel dicembre del 2020. I deputati hanno deciso di estendere maggiormente il sostegno ai casi di rigore. Per accedere alle IPG, gli indipendenti devono indicare una perdita meno importante del loro fatturato. In caso di disoccupazione parziale, i bassi salari sono indennizzati al 100%. Le Camere hanno poi ancora rimpolpato gli aiuti durante la sessione di marzo 2021, aumentando la durata delle indennità giornaliere in caso di disoccupazione parziale. Maggiore generosità anche per le condizioni di accesso alle IPG (basta giustificare una perdita del 30% della cifra d’affari), mentre i club sportivi possono ottenere più facilmente contributi a fondo perso. Sul piano sanitario, i parlamentari hanno chiesto al Consiglio federa-
le di mettere l’accento sui test, la tracciabilità dei contatti e la vaccinazione. Sono state gettate anche le basi legali per l’introduzione di un passaporto d’immunità. Dei 38 miliardi di franchi sbloccati finora, la posizione di gran lunga più importante - con oltre 16 miliardi - è occupata dalle indennità di disoccupazione parziale. Seguono i casi di rigore (8 miliardi) e le IPG (5 miliardi). Altri 4 miliardi sono stati necessari per l’acquisto di materiale sanitario, medicinali, vaccini e per i test diagnostici. I promotori del referendum, ritenendo la legge non necessaria e pur non dichiarandosi contrari ai risarcimenti finanziari, vogliono impedire che i poteri straordinari ottenuti dal Consiglio federale durante la pandemia vengano legittimati in maniera retroattiva e prolungati fino al termine di quest’anno. Secondo loro, i provvedimenti governativi di lotta alla pandemia hanno «fatto ammalare le persone per paura», privandole della loro libertà. «Si devono invece prendere misure per consentire alla popolazione e all’economia di rivivere», ponendo fine al lockdown. Sottolineano che il chiaro successo del referendum è «un invito inequivocabile alle autorità a procedere con la massima cautela nella campagna di vaccinazione o, addirittura, di sospenderla fino a quando non saranno disponibili dati più affidabili». Se la legge fosse respinta, la sua validità cesserebbe il 25 settembre 2021, ossia un anno dopo la sua adozione da parte delle Camere. In tal caso non ci sarebbe la base legale per i provvedimenti di sostegno e si dovrà elaborarne una nuova. Anche se certe disposizioni potrebbero essere trasferite in vari testi legislativi non urgenti, ci sarebbe comunque un vuoto giuridico che - ha ammonito il presidente della Confederazione Guy Parmelin - «metterebbe in pericolo numerosi posti di lavoro e l’aiuto d’urgenza».
Una nuova stagione all’insegna dell’ottimismo
Lavoro e consumi Le tendenze chiave che ci stanno portando a un nuovo sentimento globale di ottimismo sono
la flessibilità, la resilienza e la creatività; queste guidano i cambiamenti del mondo a un ritmo senza precedenti Mirko Nesurini Prima della pandemia, stavamo prevedendo dei cambiamenti riguardo al nostro modo di lavorare e si delineavano alcune tendenze chiare: tra queste, una maggiore sensibilità verso l’ambiente e la spinta alla digitalizzazione. Nell’ultimo anno e mezzo, complice la paura che tutti abbiamo provato rispetto al futuro incerto, i processi di cambiamento in atto hanno avuto una accelerazione che si è manifestata in concreti cambiamenti, inclusi nuovi modi di vivere e lavorare. Le previsioni, che erano di lungo termine, hanno preso vita immediatamente, a una velocità mai vista prima, anche concretizzandosi nel corto termine. Molte persone hanno già consolidato nuovi atteggiamenti nei confronti dei consumi, per esempio la spesa online, proposta già presente prima, ma oggi diventata lo standard. Le imprese stanno vivendo un momento fantastico: si stanno immaginando prodotti ed esperienze di consumo diverse dal passato, che guardano al consumatore che emergerà dalla pandemia. Carla Buzasi, direttore dell’istituto WGSN introduce una ricerca recente affermando che «in questo
momento di turbolenza, le relazioni umane plasmeranno veramente le nostre vite». Un forte connettore di relazioni umane è il mondo digitale, e in esso la tendenza a imitare i sentimenti più diffusi o accettati. Questo spiega i tassi elevati di contagio emotivo digitale, che spingono un messaggio lanciato in un qualche luogo del mondo ad attirare l’attenzione di una parte degli abitanti del pianeta, creare una tendenza, oppure sparire dopo poche ore. Al momento, la diffusione di messaggi efficaci si basa su alcuni «sentimenti globali» come l’incertezza ambientale e finanziaria. Sul lato ambientale, le persone hanno maturato un senso di paura in forma di «eco-ansia», cioè preoccupazione verso la crisi climatica. Sul lato finanziario, le preoccupazioni di non farcela ad arrivare a fine mese erano già presenti prima della pandemia ed oggi sono aumentate di intensità. Percepiamo quindi una sorta di «contagio da paura» verso alcuni grandi temi e anche a causa di alcuni cambiamenti arrivati in fretta e che hanno modificato il nostro stile di vita. «In questi tempi», dice la psicologa Cristina Milani «le persone bramano stabilità, senso della routine e contatto umano, eppure sem-
«La routine ci manca». (Keystone)
bra che la società stia ottenendo l’opposto». Il risultato contingente è che «siamo una società desincronizzata, in cui le persone continuano a fare molte delle stesse cose che facevano prima dentro contenitori di tempo delimitati, ma ora lo fanno contemporaneamente». Per intenderci, prima si lavorava dalle 9 alle 5 in ufficio e alle 7 si ascoltavano le notizie a casa davanti a un piatto di minestra. Ora si ascoltano le notizie in continuazione e si lavora 24 ore al
giorno, dove capita o dove è necessario lavorare. Questo effetto di desincronizzazione, prosegue la psicologa «gioca un ruolo nella disgregazione delle comunità a causa della mancanza di un’interazione umana coerente, continuativa e pianificata». La «routine ci manca» perché era un «fantastico strumento di regolazione della nostra vita». Nel frattempo, le persone hanno sviluppato una coriacea capacità di resistere, assorbire, recuperare e adattarsi con successo alle avversità e ai cambiamenti delle proprie condizioni di vita, tanto che la parola resilienza viene usata a sproposito addirittura dagli influencer di Instagram, senza rendersi conto, aggiunge Cristina Milani, che «l’ossessione malsana di perseverare o andare avanti sta diventando un distintivo d’onore, invece che un problema», siamo esseri umani e non siamo tenuti a «fare i duri» a tutti i costi, tanto che spesso, troppa resilienza, si trasforma nel paradosso di «costruire finti pensieri ed emozioni positive durante i periodi difficili». Troppa positività può essere fuorviante e «inseguire la felicità può farci ossessionare dai sentimenti di non felicità». Le emozioni negative sono molto utili, laddove stimolano come risposta l’emergere di emozioni
positive; ciò spiega la tendenza attuale, dopo un periodo preoccupante, verso l’ottimismo che si tradurrà in una nuova attenzione ai sentimenti di gioia e piacere. Stiamo cercando di ridefinire il nostro ciclo di lavoro anche ipotizzando una nuova relazione con le nostre comunità, con le quali desideriamo tornare a fare attività in presenza fisica. Questo si traduce nella ricerca di un modello di lavoro che consenta di attuare la formula «meno ore di lavoro + più tempo a casa = migliore produttività». Il legante di tutti questi cambiamenti sembra essere la voglia di ottimismo. Questa tendenza è presente nel lavoro e nella vita sociale e sta guidando il business. Ci vorrà del tempo per consolidare un nuovo rapporto con i consumi, che saranno guidati da proposte chiare e che ci consentiranno di semplificare le nostre decisioni. La complessità sta diventando un nemico a livello globale in un mondo che guarda al futuro ricercando stabilità e una boccata d’aria fresca, un nuovo ottimismo. Le tendenze dietro l’angolo sembrano essere la semplicità nel commercio, il ritorno al contatto umano e un sentimento diffuso di ottimismo.
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Politica e economia
Casa di proprietà in età avanzata?
Intervista La casa o l’appartamento di proprietà come previdenza per la vecchiaia? «Sì, ma…», risponde Jeannette
Schaller, responsabile Pianificazione finanziaria di Banca Migros.
Una casa o un appartamento di proprietà costituisce una buona sicurezza finanziaria per la vecchiaia?
Un’abitazione di proprietà può essere interessante come ulteriore 4° pilastro previdenziale. Ed è perfino molto indicata nell’attuale contesto di tassi d’interesse bassi. I proprietari, infatti, abitano più a buon mercato degli inquilini. Attenzione però: la situazione potrebbe cambiare, ad esempio con i tassi ipotecari in rialzo o nel caso che il partner di vita abbia bisogno di cure oppure se dovesse morire. Anche nell’eventualità di un divorzio, l’abitazione di proprietà non rappresenta più la buona soluzione, ad esempio perché l’ipoteca non è più sostenibile da una singola persona. O se improvvisamente c’è da investire soldi nell’immobile. Sono tutte cose da tener presente ed è opportuno avere anche un piano B. A quanto deve ammontare ancora l’ipoteca in vecchiaia?
Quanto più alti sono il reddito e il patrimonio, tanto più alta può restare l’ipoteca dopo il pensionamento. Siccome, però, di solito dopo il pensionamento le entrate diminuiscono, tendenzialmente diminuisce anche la sostenibilità dell’ipoteca. Alla Banca Migros vale la regola: i tassi ipotecari, l’ammortamento, la manutenzione e le spese accessorie non dovrebbero
superare il 35% del reddito netto. Per una persona in età avanzata, noi calcoliamo come entrate anche una parte del patrimonio sotto forma di prelevamento del capitale. Contemporaneamente, stabiliamo che il valore del credito dopo il pensionamento non può superare il 67% del valore dell’immobile. Perciò, già dieci anni prima di andare in pensione, i futuri pensionati dovrebbero sicuramente pensare al rifinanziamento, ad esempio con i fondi del 3° pilastro si può ridurre il prestito ipotecario prima di andare in pensione.
Che ne pensa di un rimborso completo del prestito, ad esempio per lasciare ai figli la proprietà immobiliare senza debiti oppure per abbassare i costi di alloggio durante la vecchiaia?
Fintanto che il valore locativo sarà tassato come reddito, non conviene restituire completamente l’ipoteca. Nell’odierno contesto di tassi d’interesse bassi, è preferibile mantenere una parte dell’ipoteca. La liquidità può servire per investimenti o per una ristrutturazione improvvisa. Se si fa fatica a ripagare il finanziamento ipotecario, quali possibilità rimangono?
Ce ne sono molte. Ad esempio, una cauzione da parte dei familiari, che garantiscono “in solido” per il contraente dell’ipoteca. È anche possibile dare in pegno una parte del patrimonio. Un’altra alternativa è quella di vendere
debbano mantenere il diritto d’usufrutto o di abitazione, per poter continuare a vivervi.
Come si deve procedere, se si vuole passare da una casa grande a un appartamento condominiale più piccolo?
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Benita Vogel
la casa ai figli, che poi la riaffittano ai genitori.
e se il partner muore? Come si fa a finanziare la proprietà immobiliare con una sola pensione?
Questo è un punto fondamentale. Le coppie più giovani con figli piccoli corrono il rischio di finire in un vicolo cieco, poiché spesso i loro beni patrimoniali sono ridotti e il credito ipotecario è elevato. Si consiglia quindi di considerare un’assicurazione sulla vita. Per i coniugi più anziani vale il contrario: hanno potuto risparmiare di più e spesso hanno delle ipoteche basse. Tuttavia, anche in questo caso è consigliabile prendere le dovute precauzioni. Ad esempio, con contrat-
ti ereditari e matrimoniali favorevoli al coniuge superstite e riducendo i diritti degli eredi sul patrimonio o inserendoli addirittura nella parte obbligatoria. Quando è il momento giusto per intestare la casa ai figli?
Il primo punto da accertare è se i figli vogliono davvero acquisire casa. In caso affermativo, la decisione dovrebbe confluire già nella pianificazione finanziaria prepensionistica, ma al più tardi verso i 70 anni d’età. Più tardi si procede al trasferimento di proprietà, più problemi potrebbero sorgere, ad esempio per le prestazioni complementari. A seconda delle circostanze, bisogna anche verificare se i genitori
La miglior cosa è di riuscire a vendere la casa grande contemporaneamente all’acquisto di un appartamento in condomino. Nel caso, parte dell’ipoteca potrà essere trasferita sulla nuova proprietà, mentre la parte restante sarà rimborsata. A tal fine, è importante passare a un prodotto ipotecario a tasso variabile o all’ipoteca Saron in tempo utile prima della vendita.
Su cosa dovrebbe indirizzarsi una persona di 75 anni al momento di rinnovare l’ipoteca?
Con gli odierni tassi d’interesse bassi, un’ipoteca a tasso fisso a lungo termine offre il vantaggio di mantenere i costi bassi e stabili per un lungo periodo di tempo. D’altro canto, però, se si vende la casa e si rimborsa l’ipoteca, potrebbero essere applicate delle commissioni di uscita. Per questo motivo si consiglia una visione a breve termine. Ma per gli anziani non è troppo rischioso contrarre un’ipoteca come ad esempio la Saron?
L’ipoteca Saron offre una flessibilità elevata se si passa a un’ipoteca fissa o al momento della risoluzione. Si tratta di un vantaggio importante anche in età avanzata, quando si tende a pianificare a breve termine. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
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Politica e economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Importanza dell’indennità per lavoro ridotto Il Consiglio federale ha deciso di mantenere sino alla fine di giugno di quest’anno la procedura semplificata per il preannuncio del lavoro ridotto in caso di sospensione dell’attività aziendale in seguito a provvedimenti per lottare contro il Covid 19. Sono certamente molti gli imprenditori e i lavoratori che hanno tratto un sospiro di sollievo. È giusto però aggiungere che se l’economia svizzera è riuscita ad evitare che, nel 2020, il suo prodotto interno lordo sia diminuito di più del 5% -come è capitato a numerose altre economie europee – lo deve, in parte certamente significativa, all’indennità per lavoro ridotto. Di conseguenza, della stessa non hanno profittato solo gli imprenditori e i lavoratori direttamente interessati, ma praticamente tutta la popolazione. Fatta questa osservazione, per stabilire l’importanza economica del provvedimento, occorre aggiungere che la
misura in cui l’indennità in questione ha giovato varia da regione a regione, da ramo economico a ramo economico, e dalla prima alla seconda ondata della pandemia. Nel mese di aprile del 2020, quando la prima ondata della pandemia raggiunse il suo culmine, l’effettivo di lavoratori messi al beneficio dell’indennità per lavoro ridotto raggiunse, a livello nazionale, un massimo di 1.35 milioni di persone, il che corrispondeva a circa un quarto del totale degli occupati. Questa quota dell’occupazione variava però in modo significativo a da regione a regione. Mentre nell’Altipiano di lingua tedesca il lavoro ridotto concerneva solamente il 20% degli occupati, in Ticino, sempre nel mese di aprile dello scorso anno, la metà degli occupati riceveva l’indennità per lavoro ridotto. Queste differenze dipendono certamente da più fattori. Uno dei più importanti è rappresentato, ovviamente,
dal grado di incidenza della pandemia. Esiste una correlazione positiva tra la quota delle persone colpite dal virus nel totale della popolazione di una regione e la quota di persone obbligate a lavorare a orario ridotto. Un secondo fattore è costituito dall’incidenza delle misure adottate per combattere la pandemia sull’attività dei singoli rami di produzione dell’economia regionale colpita. Le statistiche disponibili indicano che, dal marzo 2020 al febbraio 2021, la quota di persone con indennità per lavoro ridotto è stata particolarmente elevata nei ristoranti e negli alberghi come pure nei negozi e nei garage. Un terzo fattore importante è rappresentato dall’importanza del ricorso al fattore lavoro che fanno le economie delle singole regioni. Le economie regionali che fanno ricorso, in misura maggiore della media, al fattore lavoro sono state anche quelle nelle quali la quota dei lavoratori con
indennità di lavoro ridotto è stata più elevata. L’influenza di questi tre fattori è stata, specie tra il marzo e il settembre dello scorso anno, specialmente forte nel caso dell’economia ticinese. L’economia del Canton Ticino, tradizionalmente, dipende maggiormente dal fattore lavoro di quelle degli altri Cantoni svizzeri. La pandemia, poi, specialmente durante la prima ondata, ha colpito il Ticino in misura maggiore che altre regioni della Svizzera. Infine, per l’importanza che da noi hanno le attività legate al turismo, i rami che maggiormente hanno sofferto delle misure adottate per combattere la pandemia sono nella struttura dell’economia ticinese, maggiormente presenti che nella media nazionale. Con il passare dei mesi e con il venir meno della prima ondata pandemica il ricorso all’indennità per lavoro ridotto è andato diminuendo in tutte
le regioni, anche in Ticino. Ciò nonostante nel nostro Cantone la quota dei lavoratori che ricevono l’indennità continua ad essere superiore a quella delle altre regioni svizzere. Questo sembrerebbe indicare che il maggior ricorso a questo strumento non è dato tanto dall’incidenza della pandemia quanto dalle caratteristiche della struttura di produzione dell’economia cantonale. È qui che i commentatori ortodossi insinuano i loro dubbi sull’efficacia dell’indennità per lavoro ridotto. Più d’uno di loro sospetta infatti che sia la facilità con la quale le aziende possono ricorrere a questo strumento, sia la durata nel tempo di questo tipo di aiuto per il mantenimento dell’occupazione, possano contribuire a ritardare processi di ristrutturazione aziendale e, perfino, settoriale che sarebbero indispensabili per mantenere la capacità competitiva di aziende e regioni.
carceri bielorusse, posti che vengono ogni tanto descritti da chi riesce a uscire come un inferno di torture e minacce. Il numero degli scomparsi è invece sconosciuto: ci sono tantissime segnalazioni, e quasi sempre si tratta di giovani. Poi c’è la violenza psicologica: i manifestanti vengono definiti «moscerini» o «scarafaggi». Ricordiamo che Stalin chiamava i suoi oppositori «parassiti»... Se i dissidenti sono insetti fastidiosi e invadenti, non esseri umani, non bisogna sentirsi male all’idea che vengano sterminati. C’è per questo un grosso numero di filmati resi pubblici dallo stesso regime in cui vengono riprese le ultime ore di persone che muoiono in prigione, rappresentate come deboli o colte da malori, non come sopraffatte dalle torture. Nonostante la violenza di Lukashenko sia nota e testimoniata, nonostante le sanzioni al regime e ora anche i divieti di volo imposti a molte compagnie aeree in reazione al dirottamento per catturare Protasevich, Lukashenko
ha giurato come presidente e lavora alla propria sopravvivenza grazie soprattutto al sostegno della Russia di Vladimir Putin. Da tempo si cerca di decifrare questa relazione, perché si sa che il presidente russo agisce in base alle opportunità, non alla lealtà, ma il risultato è comunque evidente. Come Bashar al Assad, rais siriano sostenuto da Putin, ha appena «rivinto» le elezioni pur avendo sterminato buona parte della sua popolazione, così Lukashenko continua a operare senza troppi ostacoli. Il patrocinio russo serve a questo: a superare indenni l’indignazione dei Paesi occidentali. L’ultimo video che è stato reso noto dal regime bielorusso è quello del dissidente Vitold Ashurok che muore cadendo in cella per un malore e batte con violenza la testa. Il cadavere è stato restituito alla famiglia tutto bendato, «scivolato mentre lo prendevamo dal frigorifero», hanno detto le autorità del carcere. La famiglia ha scelto di seppellirlo senza guardare sotto le bende.
partiti e della classe politica cantonale. La speranza più forte, ora, è che tra i 98 giovani dell’Usi, neo-laureate e neolaureati in economia, qualcuno trovi e usi il megafono giusto per scacciare lo strano e malefico torpore che avvolge questo nostro problema. Torno alla giornata delle famiglie e a un terzo segnale, il più convincente, che molti lettori di «Azione» conoscono già: è giunto dall’Italia grazie a un evento (gli «Stati generali della natalità») organizzato a Roma sul quale ha già riferito la scorsa settimana il nostro collaboratore Aldo Cazzullo che figurava tra i relatori invitati. Al centro del grande affresco di Cazzullo troneggia un suo azzeccato giudizio: «La cifra del nostro tempo è il narcisismo, che è sterile per definizione» e consente di capire perché da decenni «tendiamo un po’ a comportarci come eterni adolescenti, nella convinzione che la paternità e la maternità si possano rinviare all’infinito». Posso aggiungere solo l’esortazione di papa Francesco nel discorso inviato
all’evento: «Il coraggio di scegliere la vita è creativo, perché non accumula o moltiplica quello che già esiste, ma si apre alla novità, alle sorprese (…) Noi tutti abbiamo ricevuto questo dono irripetibile e i talenti che abbiamo servono a tramandare, di generazione in generazione, il primo dono di Dio, il dono della vita». Da altri contributi, incentrati sulle misure attuate in numerosi paesi dell’Unione europea per favorire le nascite, si può desumere invece un’incoraggiamento: i Paesi che hanno già investito per le famiglie e i figli (in particolare la Germania con il Kindergeld, un potenziamento dei servizi per l’infanzia e misure per conciliare vita e lavoro) stanno ora vedendo i tassi di fecondità risollevarsi. Quindi i provvedimenti contro l’inverno demografico ci sono e possono ancora cambiare scenario se sostenuti da partiti e governi che, lottando contro il «main stream» narcisista che penalizza famiglie e natalità, si impegnano a difendere una sostenibilità generazionale.
Affari esteri di Paola Peduzzi Quando la violenza di regime rimane impunita Quando Roman Protasevich è stato portato via assieme alla sua fidanzata dalle guardie bielorusse ha detto a un passeggero dell’aereo su cui aveva viaggiato: «Rischio la pena di morte». La pena di morte? Un attivista democratico di ventisei anni che organizza proteste contro il regime bielorusso senza viverci più, sotto quel regime, ma girando tra Polonia e Lituania, rischia la pena di morte? Sì, è accusato di terrorismo. Le sue attività eversive, secondo il regime, sono iniziate prestissimo. Era il 2011 quando Protasevich, allora sedicenne, fu espulso da scuola perché aveva partecipato a una protesta. Da quel momento è stato seguito e minacciato, fino a che nel 2019 è scappato, è diventato uno dei registi in esilio della protesta digitale contro Aleksandr Lukashenko: è stato condannato in contumacia come terrorista. La storia di Protasevich è diventata un caso internazionale dopo che le autorità bielorusse hanno fatto atterrare a Minsk l’aereo su cui viaggiava. Era
partito da Atene e andava a Vilnius, in Lituania. Un Mig-29 armato ha affiancato l’aereo di linea mentre al pilota del volo Ryanair veniva detto che c’era un allarme bomba e che avrebbe dovuto fare un atterraggio d’emergenza nell’aeroporto più vicino, quello della capitale bielorussa. Si è scoperto dopo che non c’era nessuna bomba e che Minsk non era nemmeno l’aeroporto più vicino, ma il Mig c’era e anche la volontà del regime di dirottare un aereo per poter arrestare un giovane dissidente, attivo e innovativo. Ventiquattro ore dopo la sua cattura è stato pubblicato un video in cui Roman Protasevich confessa di aver tramato contro Lukashenko e dice di essere stato trattato nel modo più corretto possibile. Nel filmato si vede un livido sulla fronte e il colore della pelle più scura fa pensare a un grosso strato di cerone per coprire la tumefazione. La «confessione» poi è forse il frutto della sua paura più grande: come stanno trattando la sua fidanzata? È sempre più diffusa in Bielorussia la
pratica del ricatto e della minaccia ai parenti: tu puoi anche scappare, eversore, ma qui resta la tua famiglia cui far pagare il prezzo della tua disobbedienza (i genitori di Protasevich sono già andati a vivere a Varsavia l’anno scorso). Roman Protasevich è l’ultimo, eclatante e doloroso esempio di come funziona la repressione del regime della Bielorussia. Le proteste sono cominciate nell’agosto dell’anno scorso quando Lukashenko, al potere da 27 anni, si è dichiarato vincitore delle elezioni pur senza esserlo. Sviatlana Tsikhanouskaya, che si era candidata quando suo marito, il candidato dell’opposizione, era stato arrestato qualche mese prima del voto, avrebbe ottenuto il 60 per cento dei voti. Ora guida l’opposizione dalla Lituania, perché anche per lei la vita in Bielorussia sarebbe stata troppo pericolosa. Da allora la violenza di Stato si è mossa in due direzioni. La prima: la violenza fisica, gli arresti, le sparizioni, le morti «improvvise». Ci sono più di 400 prigionieri politici oggi nelle
Zig-Zag di Ovidio Biffi L’inverno demografico che non finisce Non ha avuto particolare risonanza e seguito, da noi, la giornata internazionale delle famiglie celebrata il 15 maggio. La dimenticanza non deve suscitare sorpresa: solo nel mese di maggio di «giornate internazionali» ce n’erano ben 14, iniziando da quella del 2 maggio dedicata alla libertà di stampa per finire con la giornata senza tabacco di fine mese. Basta questo a giustificare se non il disinteresse, perlomeno la svista o magari anche il naturale rigetto che possono aver originato la scarsa adesione dei media. Un primo accenno l’ho comunque avvertito, al mattino. Qualcuno alla radio ha voluto precisare che non si doveva più parlare di giornata «della famiglia», al singolare, bensì di «giornata delle famiglie», al plurale: un distinguo certamente chiesto e ottenuto dalle sempre solerti truppe cammellate del politicamente corretto. Un secondo richiamo, indiretto, mi è giunto invece dall’amico che a Cham funge da mio osservatore personale dei media svizzero-tedeschi: il gior-
nale locale, la «Zuger Zeitung», senza nominare la giornata delle famiglie, ha presentato un lungo articolo che indirettamente la ricordava, visto che elencava e spiegava i vari malanni che il calo demografico sta infliggendo al Canton Ticino. L’amico osservatore, collegando i contenuti del servizio (pubblicato oltre che sul giornale di Zugo anche sulla folta rete di giornali regionali della «Luzerner Zeitung» nella Svizzera centrale) a quella che lui pensa possa essere una colpa dei media ticinesi, mi chiede un po’ inviperito: «Ma perché servizi così documentati sul nostro cantone li devo leggere sulla stampa confederata?». Io relativizzo subito la sua accusa, dicendogli che se da noi esiste un’apparente reticenza ad affrontare questo tema, lo si deve soprattutto al fatto che sui problemi legati alla demografia e alla politica delle famiglie la classe politica ticinese continua a portare avanti proposte fuori asse, mai corali e profonde. I media continuano a riferire le messe in guardia di istituti di ricerca,
sociologi ed economisti, a ricordare i pericoli collegati al calo demografico o all’esodo di giovani dal cantone, come pure a stigmatizzare le influenze negative dovute alla presenza di 70’000 frontalieri. Mancando un parallelo impegno politico questi interventi hanno però quasi sempre un impatto sfuocato. Leggendo l’articolo della «Zuger Zeitung» accade il contrario. Certo, il titolo è un pugno nello stomaco («Ein Kanton in Schrumpfmodus», Un cantone in modalità restringimento) e fa impressione. Eppure l’attento Gerhard Lob lo ha desunto da un’intervista in cui Ivano D’Andrea, economista CEO di una fiduciaria luganese, gli rilascia pareri e impressioni contenuti in un suo e-paper (ottenibile sul sito dell’editore www.coscienzasvizzera.ch) recensito su «Azione» da Fabio Giacomazzi già a inizio febbraio. È la conferma che a nascondere la recessione demografica che in Ticino galoppa non sono gli esperti o i media, ma piuttosto la già citata mancanza di un costante impegno dei
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Cultura e Spettacoli La vita crudele Conflittualità, caso e precarietà nella densa opera poetica di Charles Simic
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Addio a Carla Fracci Se ne è andata a 84 anni un’étoile indiscussa della danza internazionale
Con un altro corpo Un mix di fisicità e di grinta ha fatto di Teresa Vittucci una performerdanzatrice fuori da ogni schema pagina 39
Robin Hood elvetico La rocambolesca vicenda esistenziale di Bernhard Matter, fuorilegge d’antan pagina 41
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Un’intensa immagine della pianista. (CdT/Gonnella)
Martha Argerich, una visione esistenziale della musica
Anniversari Per il Ticino, e in particolare per la città di Lugano, la pianista è stata molto di più di una musicista grandiosa Carlo Piccardi Il compleanno di Martha Argerich che il 5 giugno festeggia gli 80 anni ci induce a considerare l’apporto che la grande artista ha dato alla nostra regione. Dal 2002 al 2016, sull’arco di 16 anni si è articolato il Progetto a lei intitolato, garantendo la sua presenza regolare a Lugano che nel 2010 le ha attribuito la cittadinanza onoraria. Sostenuto dalla Banca BSI e dalla Rete Due della RSI, esso fu ideato dal compianto Jürg Grand (produttore della EMI, la casa discografica che fu impegnata annualmente a diffonderne una sintesi attraverso i CD) e coordinato dallo scrivente. Tale rassegna ha permesso alla grande artista di dar vita nella nostra città, durante il mese di giugno, a una comunità d’intenti, di riunire intorno a sé artisti di varia provenienza, di diversa esperienza, di fama o meno, ma tutti animati dallo spirito del far musica in una sorta di cenobio, di coltivare la propria sensibilità attraverso un repertorio che spesso rivela facce nascoste di grandi compositori e qualità insospettabili fra i minori. Vi ha dominato la musica da camera, ma anche il confronto fra solista e orchestra, cioè i momenti dell’incon-
tro collettivo che Martha Argerich vive come motivazione del far musica. Martha Argerich è sulla scena da molti decenni, dopo essere approdata alla consacrazione a soli diciassette anni. La seduzione della sua arte interpretativa, identificata nella musicalità allo stato puro, nella libertà d’intuizione che fa scattare a sorpresa soluzioni ogni volta originali, spesso nell’illusione della spontaneità improvvisatoria, ha fatto parlare nel suo caso di concertismo allo stato adolescenziale. Completa e matura, quasi senza possibilità d’invecchiare, questa è la condizione che ha caratterizzato e ancora caratterizza il suo far musica, che tuttavia non l’ha mai indotta a cullarsi sugli allori o ad abbandonarsi ad atteggiamenti manierati. Essendo il vitalismo quasi selvaggio il fuoco che alimenta la sua motivazione, Martha Argerich rimane un’artista inquieta, lanciata verso il nuovo, attirata da esperienze sempre diverse, ma nel contempo ancorate a un modo diretto, concreto, militante del fare musica. Non stupisce allora che a un certo punto abbia eletto la musica da camera a luogo privilegiato di contatto con il pubblico e soprattutto con gli altri interpreti associati. Diversamente dal concerto sinfonico e dal recital, dove la corrente
è prevalentemente a senso unico tra palco e platea, il concerto cameristico stabilisce una reciprocità di reazioni a partire dalla necessità di costruire un’intesa in duo, in trio, in quartetto e in tutte le altre possibili combinazioni. Ecco allora che un’artista indomita qual è Martha Argerich vive come sfida tale condizione, in cui la forza eruttiva della sua pronuncia è chiamata a tener conto della disciplina, dell’equilibrio da costruire in modo comunitario con altre personalità spesso di tutt’altra natura, le quali a loro volta da quegli infuocati tratti sono indotti a rispondere per le rime. Il principio della parità tra le parti dialoganti affermato nella musica da camera è una regola che fa appello agli interpreti impegnati in una vera e propria concertazione, non per spiccare nel modo prevaricante a cui facilmente vengono indotti nel rapporto con l’orchestra, ma per stimolarsi a vicenda nella dialettica di quella «conversazione tra quattro persone ragionevoli», secondo la definizione data da Goethe al quartetto per archi. In quel contesto che fa capo ad Haydn – in «quel genere di musica, in cui non entra l’umana voce, ma di soli strumenti è composta» – significativamente Giuseppe Carpani nel 1812 registrava il passaggio della
musica dalla «monarchia» («sovrano il canto, sudditi gli accompagnamenti») alla moderna costituzione di «repubblica di diversi suoni e insieme uniti, nella quale ogni strumento ha diritto di figurare e figura». Nel segno di tale ideale democratico Martha Argerich ha incentrato sulla musica d’assieme un progetto che ha coinvolto via via una nutrita schiera d’artisti, dove al nucleo originale confermato da un’edizione all’altra si sono aggiunti i nuovi arrivati a consolidarne il profilo di squadra arricchita dalle loro forti identità. Nella sua ormai lunga carriera Martha Argerich ha percorso tutto il repertorio per la tastiera, distribuito su tre secoli. Il pianismo dell’Ottocento vi occupa pour cause una gran parte, soprattutto con Schumann il cui Concerto in la minore è diventato uno dei suoi cavalli di battaglia (Schumann «l’amico dell’anima» come l’ha definito, «espressione della spontaneità e della purezza, capace di toccarmi profondamente al punto da farmi venire le lacrime agli occhi»). Ma se dobbiamo definire nel profondo l’arte interpretativa della grande pianista argentina, alla ricerca di ciò che la distingue dagli altri grandi pianisti, non è a questa dimensione «femminile» che dobbiamo rifar-
ci, ma al suo piglio virilmente possente: «Suona come un uomo? No, suona come una Argerich!» – si sente ancora dire spesso. È l’elemento che si rivela nelle sue interpretazioni dei compositori del Novecento che hanno preso le distanze dal passato romantico, attraverso i quali si è affermata come personalità che incarna la modernità. Per rendersene conto basta riascoltare le sue esecuzioni del Concerto in sol di Ravel, nell’astrazione del secondo movimento e nello slancio macchinistico del terzo, o dei concerti di Prokof’ev nelle quali lo slancio è certamente derivato dal virtuosismo maturato nella lettura di Liszt, ma brilla per una vorticosa concretezza di suono in assonanza con la dimensione «tecnica» e metropolitana del Novecento. Allo stesso modo il suo Liszt, pur rivelando il possesso delle necessarie risorse per restituire la dimensione evocativa della musica romantica, è sempre tenuto sotto un controllo rigorosamente vincolato al senso moderno della plasticità del suono, che nulla concede alle facili e manierate divagazioni. È l’impostazione che la guida nell’interpretazione di Mozart e soprattutto del primo Beethoven, letti in una trasparenza di suono luccicante e in un equilibrio in cui la ragione prevale sul sentimento.
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Cultura e Spettacoli
Nel vortice crudele della vita
Poesia Il caso e la precarietà sono i protagonisti della raccolta poetica Avvicinati e ascolta
del poeta Charles Simic, nato a Belgrado ma oggi statunitense Guido Monti «Non ho trovato nessuno/della vecchia combriccola/. Devono essere ancora alla macchia,/…//Il buio arriva presto/a questo punto dell’anno/e rende difficile/ riconoscere le facce familiari/tra quelle degli sconosciuti». Così recita una poesia di Charles Simic, uscita nella nuova raccolta pubblicata dall’editore Tlon dal titolo, Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan. Per Simic, ciò che conta sono i santi giorni della vita, nel loro accendersi quotidiano, lì possiamo trovare ben scolpiti i punti cardinali dell’esistenza, è lì che ognuno deve ricercarli e possibilmente interpretarli. I fatti delle ore quindi orientano, illuminano, talvolta confondono, ma sicuramente da essi, come fecero i primi grandi filosofi d’Atene con la migliore filosofia, il poeta deduce il miglior verso. E la scrittura di questo grande scrittore di origine serba e naturalizzato americano non poteva che avere lo stigma di quella grande cultura dell’est abituata anzitutto, specie nella temperie novecentesca, a misurarsi con la dura realtà; e se è vero che nei primi 10 anni di vita si assimilano il ritmo linguistico e il cuore di una terra, ebbene Simic fece in tempo ad acquisirli, vivendo con la famiglia nei primi anni a Belgrado. Proprio lì, appena nato nel ’38, fece i conti col fuori, con la doppia violenza del nazismo prima e del socialismo reale in seguito: «Una grande città era ridotta in rovine/mentre tu ti cullavi sull’amaca/chiudendo gli occhi e lasciandoti/cadere di mano giù a terra/ il giornale che stavi leggendo,/al che il venticello pomeridiano/si è incuriosito e l’ha fatto volare/di qua e di là sul prato/…/in modo che i gufi ne studino i titoli/…». E il fuori appunto, fu molte cose assieme: visioni di orrori, trasferimenti forzosi e nel 1954 l’arrivo a Chicago significò anche una graduale mutazione identitaria, fisiologica dentro ogni cambio di lingua; ma certamente il grande salto oltre oceano non compromise il
Charles Simic è nato nel 1938. (Keystone)
cantuccio della sua memoria, che come una brace continuò a sedimentarsi e organizzarsi dietro la lingua nuova. E nel suo lungo lavoro poetico ma anche saggistico, iniziato alla fine degli anni 60, Simic non ha mai smesso di interrogarsi su uno degli archetipi per eccellenza: la conflittualità. E difatti la ferocia che introiettò nei tempi lontani non fu mai stilizzata in parole oscure, no, ma reinnestata invece in un flusso linguistico talvolta duro ma così chiaro, nelle sue metafore accecanti, piene di cortocircuiti, rimandi, a quel tempo agonico di ognuno, che si mostra anche qui in Avvicinati ed ascolta, come puntellato nella pagina in panneggi via via più tetri, traversati talvolta da chiare striature, che infiammano solo per poco la vita con quella sua dilagante oscurità, che cammina ostinata dentro queste liriche frante, dai metri corti. Nella pura osservazione, prende dunque corpo questa grande poesia, da Hotel Insonnia al libro ultimo, si immettono in pochi colpi verbali nella pagina le stratigrafie del tempo che è stato e che tornerà, magari sotto forme diverse; fioriscono realtà oniriche, che riporta-
no spesso alle tante guerre che l’uomo non cesserà mai di terminare: «Sei stato testimone/di talmente tanti crimini/ in vita tua, amico mio,/che per forza la notte spesso/ti si trova/a testimoniare in un processo/in una nazione/di cui nemmeno parli la lingua./…». Il teatro della contemporaneità offre spunti per riproporre in chiave metastorica le tante aporie di cui non ci libereremo. Le grandi domande traversano i pensieri degli uomini di strada, ignari passanti portati in scena nel verso, che rappresentano non solo le identità dubbiose dei nostri giorni ma anche al contempo certi fantasmi lontani, che con le loro smorfie, i loro tic, parlano i tanti linguaggi del mondo. Tutte figure perdute però, perché dentro una spirale di violenza variegata, che reitera con ignominia sé stessa, nel grande silenzio di Dio, altro protagonista assoluto di Simic, che certamente non è più in nessun luogo, semmai lo sia stato: «…/uno sale una scala a pioli che ha portato con sé/uno sbircia dentro una Bibbia squinternata/…//Uno apre un grosso ombrello rosso/uno si afferra a una pagliuzza che vola nell’aria/…//Tu lassù ne hai mai salvato uno?/…».
Il notturno abissale che pervade quindi la pagina, anche i suoi bordi, è stemperato forse soltanto dagli attimi dell’amore o da quei luoghi che tengono dentro la fugace giovinezza. Ma certo, questo silenzio di fondo, che percorre il libro e che tanto parla, sembra sibilare proprio come un vento ghiacciato, che tutto trascina via, i vivi e i morti e che talvolta però sembra tornare indietro, girando furioso sulla testa del poeta, che per un attimo ogni cosa rivede e tutto appuntando fa tornare in vita. Il tempo della precarietà, quindi, affacciatosi sotterraneo nel secolo scorso e fattosi oramai consustanziale alla contemporaneità, percorre tutte le pagine, sempre, assieme all’altra grande variabile che viene da una parola antica e assieme giovane, che è poi all’origine del mito classico: caso; che la società cerca di rimuovere dalla psicologia del profondo ma che il poeta con ironia reimmette in ogni suo verso, perché l’uomo non provi mai a dimenticarlo, dentro le voci fatue, sempre più presenti, nei moltiplicatori digitali: «Schiacci il naso, vecchio,/alla vetrina di un negozio dismesso/come un pesce all’oblò di una nave/che arrugginisce sul fondo del mare,/aspettandoti che un paio di fantasmi//ti seguano sulla strada deserta,/mentre entri di soppiatto in un cinema,/ti siedi tra le rovine,/come un soldato pluridecorato/in un mausoleo per i morti di guerra,//…». Ecco quindi, caso e precarietà, portati sempre nel baule linguistico dal poeta come un fagotto esperienziale e certo, la continua progressione, sembrerebbe ad libitum, della società statunitense che lo ha accolto, più di 60 anni fa, non ha di molto variato al ribasso il montante azionario di queste due parole chiave, che sono lì a puntellare la vita e la strofa di Charles Simic. Bibliografia
Charles Simic, Avvicinati e ascolta, Edizioni Tlon, 2021.
Altre parole dell’odio
Linguistica Nella serie già ricca di saggi sul linguaggio dell’odio, il contributo di una giovane
linguista napoletana Stefano Vassere
Due cose colpiscono di questo La lingua dell’odio. Deriva linguistica dell’italiano contemporaneo di Lorenza Ambrisi. L’età dell’autrice («nata a Pompei il 13 gennaio del 1996», ci avvisa la nota biografica in quarta di copertina) e l’attenzione agli aspetti pedagogici e legati al mondo giovanile. Il particolare comparto della linguistica (anche) italiana è legittimamente maturo e ha oggi una sua solidità di strumenti ed esemplificazioni. Così diventa interessante, là dove molto si è già detto, tracciare nuove prospettive e porte d’entrata. Non ultima, così, la via della pedagogia e dello sguardo sulle fasce giovanili, in prima fila di fronte a bombardamenti social di varia provenienza. Su questa linea, rileva giustamente Lorenza Ambrisi che «in questo scenario appare evidente come la “semplice” educazione al pensiero critico non basti più»; nello spazio tutt’ora incontrollato delle moralmente sgangherate ma potenti comunità digitali «i razzismi appaiono come modelli interpretativi del mondo e della società contemporanea» e i riferimenti diventano incerti e ambigui. I politici, anche se «dovrebbero essere i primi a esprimersi attraverso discorsi che non veicolino messaggi d’odio» hanno finito per cedere a un
atteggiamento che si è affermato con decisione, sospeso ad arte tra i due poli dell’autorità e dell’istigazione: «postare» una notizia apparentemente neutra su un tema caldo (i migranti è il primo che viene in mente) e scatenare i propri amici virtuali lasciando loro dirne di ogni e creando così un peritesto malefico che, si sa, finisce per contare più del testo stesso. La prima parte del libro è dedicata a un linguaggio d’odio storico, quello dei nazismi e dei fascismi del Vente-
simo secolo. Se da una parte è indubbio che grandi linguisti come Viktor Klemperer prima e Gabriella Klein poi abbiano prodotto descrizioni accurate e forse definitive su quei codici così cupi, fa un po’ strano che questa materia stia nello stesso libro insieme allo hate speech contemporaneo, quello di facebook e Twitter. E però porre il problema della eventuale continuità, «dall’uso strumentale della lingua nei regimi totalitari alla lingua dell’odio nella realtà contemporanea», è pure una delle coraggiose scelte di questa autrice. Tra le altre novità, c’è una discussione molto ampia sul ruolo dell’identità e dell’identificazione personale in rete. Da qualche tempo in qua (e questa è proprio nuova) chi odia e insulta in rete, specie se è giovane, tende a non rifugiarsi più nelle sicurezze dell’anonimato. Anzi. «I commenti che lancia hanno una corrispondenza con l’individuo stesso che vuole farsi riconoscere», contando su un ampio numero di simili, un fiero gruppo di sodali con il «petto in fuori» che rivendicano una loro personale e collettiva ribalta. Non è un caso che siano relativamente poche le pagine dedicate a soluzioni e resistenze. Dietro a un mondo digitale spietato, veloce e incisivo, il diritto e la filosofia non possono che ar-
rancare; e risulta ormai quasi simbolica l’enorme difficoltà di chi decida di chiedere una anche solo parziale rimozione di determinati contenuti d’odio (provate, per credere, a scrivere a Google di fronte a una menzogna che vi riguarda. Auguri!). Libri come questo, con la loro intelligenza e con una certa attenzione alla giustizia morale ancora prima che giuridica, tendono comunque ad aprire alla speranza di una contronarrazione dei fatti. Che ha spesso, dalla sua, il non insignificante faro della verità. (C’entra forse poco, ma ancora sul sopra richiamato Klemperer, chi abbia letto la fonte originale, il memorabile La lingua del terzo Reich, non può dimenticare il testo posto in capo al libro nel giorno di Natale del 1946 e dedicato alla moglie: «Se volessi spiegarti tutto questo nei particolari mi ci vorrebbero molte, e intime, pagine. Tu sai bene, e quanti non sanno dovranno intuirlo, a chi penso quando a chi mi ascolta parlo di eroismo». C’entra poco ma dà l’idea della gloria che talune discipline come la linguistica hanno avuto nei loro decenni più floridi).
Viaggio nel delirio di un misero impiegato In scena Emanuele
Santoro interpreta Gogol Giorgio Thoeni
Con la parziale riapertura delle sale, Emanuele Santoro, orfano del suo Cortile, sta dando fondo all’archivio di readings per colmare il vuoto forzato e i ritardi creati dalle misure dettate dall’emergenza sanitaria. Per sua predilezione – ormai è un alfiere – e per chi ama quel tipo di intrattenimento, la lettura teatrale è certo una nutriente manna. Per chi invece preferisce assistere a spettacoli è ancora tutto da discutere. Fortuna vuole, almeno per noi, che nel frattempo Santoro è riuscito a infilare un vero e proprio allestimento. Con tutti i crismi e in perfetto stile santoriano (si passi il termine), recentemente ha portato sulla scena del Teatro Foce di Lugano il Diario di un pazzo, un adattamento de Le memorie di un pazzo di Nikolaij Gogol (1809-52). Una scelta coerente con le passioni letterarie dell’attore, regista e scenografo, inclini al classico e a scelte di autori che raccontano e denunciano le stranezze e i drammi contenuti dietro le maschere sociali. Come appunto Gogol con le sue dinamiche della rappresentazione che hanno raggiunto livelli di assoluta grandezza, inserendolo fra i grandi della letteratura russa dell’Ottocento. Dalla sua straordinaria vena grottesca sono nati personaggi indimenticabili, vittime e fantocci di una società costruita sulla mediocrità per una galleria di meschini impiegatucci schiacciati da un sistema di potere e di gerarchie borghesi che fanno da sfondo ai suoi celebri racconti. Come Il naso, Il cappotto, Le memorie di un pazzo o la commedia Il revisore, conosciuta anche come L’ispettore generale. Per citare i più noti, in una sfilata di antieroi dipinti con un realismo pittorico, in un’atmosfera di pietas di cui non si intravedono i contorni ma che trasudano un incredibile senso di modernità. È la commovente e surreale psicologia del protagonista, un misero impiegato d’ufficio relegato a far la punta alle matite del capo ma innamorato perso della figlia che sogna di sposare. Ci racconta e vive il suo tormento attraverso le pagine di un diario della mente che lo porta al delirio, come nella lettura di lettere che immagina scritte dal cagnolino della giovane fino a credere di essere diventato re di Spagna per conquistare un rango per impalmare la bella. È un mondo trasognato di nonsenso, dove la follia fa da cornice a un personaggio che Santoro delinea con un’interpretazione ironica e allusiva, forse fra le sue più riuscite e mature attorno alla drammatica solitudine di una donchisciottesca pazzia. Sulla scena, il letto di contenzione e una piccola scrivania: sbilenchi. L’essenzialità della parola viaggia fino al soffio finale per mandare all’aria le sottili pagine del diario e l’accompagnamento discreto del violino di Claudia Klinzing. Efficace cornice per applausi meritati.
Bibliografia
Lorenza Ambrisi, La lingua dell’odio. Deriva linguistica dell’italiano contemporaneo, Napoli, Guida editori, 2021.
Il regista e attore Emanuele Santoro.
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Cultura e Spettacoli
Addio, Gelsomina
In memoriam All’età di 84 anni ci ha lasciati Carla Fracci, iconica ballerina che è riuscita a incantare intere
generazioni grazie a competenza e fascino Giovanni Gavazzeni Un disegno di Lila De Nobili, grande pittrice-scenografa italiana, francese di adozione e nativa di Castagnola, ritrae un terzetto di ballerini che parrebbero usciti da uno schizzo di De Pisis: a sinistra uno spavaldo giovanotto in maglietta, il gelataio Renato, sembra voler ghermire una giovane ragazza mora, Silvestra, trattenuta o difesa da un altro ragazzo, il camerierino innamorato Mario. Si tratta del terzetto protagonista del balletto Mario e il mago, azione coreografica che Luchino Visconti trasse dall’omonima novella di Thomas Mann, con il consenso (e l’apprezzamento) dell’autore. Divenne un balletto in due atti nella stagione 1956 del Teatro alla Scala, che si avvaleva nientemeno che della coreografia di Léonide Massine e si ricorda più che per la musica del cognato di Visconti, Franco Mannino, per le scene e i costumi stupendi della De Nobili, creatrice di una Versilia anni 30 sensuale e misteriosa. I tre ballerini erano, nell’ordine, Ugo Dell’Ara, Carla Fracci e Jean Babilée. Questo fu il momento in cui un’oscura giovane danzatrice di fila divenne Carla Fracci, l’étoile italiana che tutti i più importanti palcoscenici del mondo hanno applaudito. La giovane «Carlina» era stata notata da Visconti fra le ragazze della «fila»: il regista la trovava perfetta per età ed espressione per il personaggio manniano di Silvestra e volle promuoverla,
secondo le parole del terrorizzato Sovrintendente scaligero di allora, in un sol giorno da soldato semplice a generale. Alla fine si trovò un compromesso: quattro recite furono affidate alla matura e autorevole prima ballerina della Scala, Luciana Novaro e altre quattro alla debuttante, Carla Fracci, che poco dopo quell’incoronazione si sarebbe avviata a incarnare alla Scala (e ovunque) uno dei suoi ruoli feticcio, la primavera dell’amore, la gioventù sulle punte, Giulietta nel balletto shakespeariano di Sergej Prokof’ev. Non è un caso che questa artista del balletto sia stata valorizzata dall’occhio di un regista come Visconti, perché la sua unicità nasceva da un bagaglio tecnico impeccabile, frutto di anni di studio e di gavetta alla scuola di danza della Scala, affinata da una carica espressiva da grande attrice (chi non ricorda come recitò nella parte di Giuseppina Strepponi nel celebre kolossal sceneggiato televisivo Rai sulla vita di Giuseppe Verdi realizzato per la regia di Renato Castellani? Fu così idiomatica da sostituirsi totalmente nel nostro immaginario alla figura non certo esile dell’originale). Lo stesso Visconti aveva portato in quegli anni nel chiuso mondo dell’opera la leggerezza della danza, trasformando (fra mille critiche) un ruolo come quello della Sonnambula, protagonista dell’opera di Vincenzo Bellini, tradizionalmente appannaggio di floride cocorite, nella filiforme silfide con la voce camaleontica di Maria Callas. Visconti volle che Amina, la semplice paesana elvetica,
Carla Fracci a Torino in un’immagine del 2000. (Keystone)
avesse una grazia lunare, ispirata al mito del balletto romantico Marie Taglioni, la silfide sulle punte, il modello delle tante sfortunate Giselle (altro ruolo iconico della Fracci). Ma non è solo alle grandi vedette del firmamento tersicoreo che si pensa quando si parla di Carla Fracci. Nel corso degli anni la completezza del suo talento, la sua capacità di portare nel balletto insieme alle figure tecniche e alle pose, i gesti, l’espressione del volto, dello sguardo, degli occhi di un’attrice mai consumata; il magnetismo dei suoi ingressi in scena come delle uscite tramutate in magici addii, facevano pensare alla Callas (che osservava appena poteva in prova o in recita) o ad Anna Magnani (di cui condivise tanti fan, passati dall’opera al ballo, via cinema).
Lo conferma l’interpretazione senza tempo della parte di Gelsomina nel balletto che Nino Rota trasse dal film di Federico Fellini di cui aveva scritte le musiche. Erano passati dieci anni dal debutto scaligero, ormai Carla Fracci era la Scala e la sua Gelsomina era così «giusta» e completa da non far rimpiangere l’incantevole Giulietta Masina del film. Rota incantato donò a Carla Fracci un carnet ottocentesco con prenotazione scritta per tanti futuri balli «con Carla» e commise una delle sue famose candide gaffe, quando chiese a Fellini, venuto alla «prima» del balletto insieme alla Masina: «Federico, ma se avessi visto questa (indicando la Fracci in camerino) avresti dato la parte a Giulietta?»
Carla Fracci, lasciato il posto fisso alla Scala all’apice, portò il balletto a illuminare, come la Luce nella straordinaria epopea umbertina del Ballo Excelsior, ogni angolo della Penisola, i teatri più famosi e i luoghi più suggestivi all’aperto, fino ai centri considerati secondari. Un’attività costante resa possibile dalla collaborazione preziosa e indispensabile del marito, il regista Beppe Menegatti, allevato nella bottega registica di Visconti, capace di rinnovare con cultura e raffinatezza gli incontri di «Carla» con i più affascinanti miti della danza, della poesia, della pittura, della letteratura. Indomita nel difendere la sua arte contro l’esecrabile liquidazione e l’umiliante marginalizzazione del balletto nelle maggiori fondazioni liriche italiane, per altro valorizzate in qualità di Direttrice del Corpo di Ballo dell’Arena di Verona e del Teatro dell’Opera di Roma. La Fracci avrebbe dovuto terminare nella stessa carica alla Scala, ma gabole tanto turpi quanto indegne, impedirono una nomina che era già nei fatti: Carla Fracci era la Scala (e di conseguenza Milano), come diranno oggi i tanti disinformati dell’ultima ora e i coccodrilli che non l’hanno sostenuta, o peggio osteggiata. Al congedo non è possibile sottrarsi, ma lo immaginiamo sulle note struggenti del motivo di Gelsomina, con la tromba o vocalizzato a bocca chiusa. Un groppo alla gola ci serra e, come diceva Fellini, c’ingobbiamo di una malinconia che non ci lascia più. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Vittucci, la rivincita del corpo
Danza Ballerina e coreografa anticonformista, in primis a causa del suo aspetto fisico, Teresa Vittucci
è riuscita a dimostrare come il talento vero porti immancabilmente al successo
Giorgia Del Don Attribuendole nel 2018 il prestigioso «Premio riservato agli interpreti d’eccezione», la città di Zurigo si è di certo distinta. Teresa Vittucci, coreografa e interprete dal carisma dirompente, fa in effetti parte di quegli artisti che, rimanendo fedeli ad un’estetica personale non sempre facile da fare apprezzare ai più, marcano la scena che abitano in modo profondo. Nata a Vienna, la zurighese d’adozione cresce artisticamente sulle sponde della Limmat dove, alla stregua di una pianta esotica dai colori sgargianti, ammalia chi si ferma a osservarla. In quella che lei stessa definisce come una «città lavoro» che si erge su un terreno artisticamente fertile sul quale espandersi nei modi più inaspettati, Teresa Vittucci porta avanti un discorso coreografico che ha al suo centro l’idea di decostruzione. Che si tratti di questioni di genere, di rappresentazione dei corpi in tutta la loro ricca diversità, o ancora dell’indagine di mondi virtuali ormai diventati parte stessa del nostro quotidiano, Vittucci non esita a esplorare il rovescio della medaglia della nostra società ingolosita da ideali impossibili da raggiungere. Quello che la coreografa ci offre su scena è un corpo voluttuoso, morbido, quasi astratto, così maestoso da incutere immediatamente rispetto. Un corpo che rivendica il suo diritto di mostrarsi, di occupare lo spazio scenico senza il minimo imbarazzo, che sfida fieramente le
convenzioni estetiche creando un mondo utopico e inclusivo estremamente toccante e liberatorio. Se i diktat sociali che pesano sul nostro aspetto non sono certo una novità, la pressione che anche le arti della scena esercitano sui nostri corpi è decisamente più inaspettata. Indubbiamente esistono ballerine/i e coreografie che non rientrano nelle categorie prestabilite del/la grazioso/a atleta bianco/a, ma la norma in vigore resta comunque ancora quella di un corpo piacevole da vedere perché rassicurante, un corpo che non ci rimanda alle nostre stesse debolezze e paure. In sintonia con un’estetica forte e frontale, Teresa Vittucci mira a «sconvolgere» il nostro sguardo. Nel suo We Bodies la coreografa, accompagnata dal ballerino e filosofo diversamente abile Michael Turinsky e dalla coreografa e performer tedesca Claire Vivianne Sobottke, si confronta con il concetto di «mostro», una figura storicamente e culturalmente costruita che gode della sua condizione ibrida. Né uomo né donna, né umano né animale, né creazione della Natura, né artificio maligno, il «diverso» vive ai margini, cosciente della propria forza destabilizzante. Lo sguardo che viene posato su di noi e che noi stessi posiamo sugli altri, così come la dicotomia fra privato e pubblico, è sviluppato già a partire da All Eyes On, del 2017, in cui Vittucci si trasforma in una camgirl in contatto diretto con il suo pubblico e con gli estranei che decidono di interagire virtualmen-
Teresa Vittucci, Hate me, tender. (c BAK, Gregory Batardon)
te con lei. Il pubblico, alla stregua di un voyeur smascherato dalla sua stessa posizione di spettatore, penetra nello spazio privato della performer abitato da un sentimento ambiguo di disagio e curiosità. Nella sua esplorazione della frontiera sottile che separa, soprattutto in un’epoca dominata dal filtro degli schermi, spazio privato e pubblico, Teresa Vittucci fa affiorare questioni delicate ma centrali come quella del desiderio, del potere che si esercita sugli altri e della trasformazione dei corpi in puri oggetti. Se l’invisibilità implica l’esclusione dallo spazio sociale (e scenico), la (sovra) esposizione virtuale non è certo priva di rischi malgrado espanda in modo
interessante la questione dello sguardo. Se l’identità reale ci obbliga a fare delle scelte spesso vincolanti, quella virtuale lascia invece più spazio alla mutazione, alle identità ibride e fluide. In linea con la sua sete di decostruzione, l’assolo Hate me, tender, che ha il sottotitolo Solo for Future Feminism e che si è aggiudicato un «Premio per la Creazione attuale di danza» nel 2019, rivisita coraggiosamente niente meno che la figura della Vergine Maria. In quanto archetipo della madre buona e devota, questa rappresenta una delle figure femminili più importanti e iconiche della nostra cultura occidentale. Ciò che Vitucci vuole fare attraverso il
suo assolo è liberare la Vergine Maria dall’immagine stereotipata di purezza e compassione che sembra emanare, frutto di una cultura patriarcale ancora forte, per svelarne il potenziale queer. Estendere insomma la sua compassione all’umanità nel suo insieme senza escludere nessuno. Con Hate me, tender Vittucci si confronta temerariamente e «teneramente» (tender) con l’odio (hate), un sentimento estremo che confessa affascinarla e con il quale, a causa del suo corpo «atipico», si è spesso dovuta scontrare, proiettandolo sulla figura archetipa della Vergine Maria. Odiare teneramente significa allora confrontarsi senza tabù con ciò che ci disturba e turba nel profondo, con le ragioni di un rifiuto che non è che paura rispetto a ciò che non si è capaci di controllare. Come lei stessa lo ammette, «La Maria della performance è per me un modello che celebra la complessità dell’essere umano incontrando teneramente e senza paura la vulnerabilità. È una figura che mette in discussione e incoraggia». Se da bambina e adolescente i suoi insegnanti di danza hanno sempre definito il suo corpo come «inadatto», «non conforme», «da nascondere», è proprio attraverso la danza, riscoperta, ridisegnata e infine libera da ogni stereotipo, che Teresa Vittucci è riuscita a rivalutarlo. La sua danza si trasforma allora in catarsi collettiva, in modello concreto per un femminismo queer che si espande ben oltre lo spazio scenico. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Matter, un ribelle altruista
Personaggi Il fascino irresistibile del fuorilegge: Bernhard Matter, il «Robin Hood svizzero», e il sottile confine
tra ribellione e repressione all’interno della società civile
Benedicta Froelich Si sa, agli occhi di molti stranieri la Svizzera è spesso simonimo di senso civico portato quasi all’eccesso: un Paese per certi versi «inquadrato», i cui cittadini, nell’immaginario popolare, si distinguono per essere ligi al dovere e senza troppi grilli per la testa. Eppure, contrariamente ai più ovvi cliché, nel corso dei secoli la Confederazione Elvetica ha dato i natali a un insospettato numero di ribelli: figure che si sono opposte alle regole del vivere comune – tra cui, a volte, veri e propri fuorilegge, nella più pura tradizione della ballata folk di un tempo. Alcuni di essi conservano a tutt’oggi un posto d’onore nella memoria collettiva – come il leggendario «ladro gentiluomo» Bernhard Matter (1821-1854), originario della cittadina di Muhen, nel Canton Argovia.
Le gesta di Bernhard Matter furono cantate anche dall’omonimo (ma non imparentato) Mani Matter A tutt’oggi, il «caso Matter» sembrerebbe rappresentare un’opportunità succosa per qualsiasi psicologo: di fatto, colui che un suggestivo ritratto d’epoca ci mostra come un giovane affabile e piuttosto elegante, dall’aria arguta e ben poco minacciosa, sembrava, fin dall’adolescenza, ossessionato dal furto in tutte le sue forme. Arrestato per la prima volta appena quindicenne per aver derubato una gioielleria di Aarau, negli anni seguenti si ritrovò spesso in prigione; tanto che nemmeno il matrimonio con una ragazza «perbene» sarebbe stato sufficiente a impedirgli soggiorni più o meno prolungati dietro le sbarre, durante i quali avrebbe però affinato il proprio carisma e talento di negoziatore, divenendo una personalità piuttosto influente all’interno dei penitenziari. Una volta rilasciato, Matter si rese rapidamente conto di come il suo banale mestiere di muratore non potesse competere con il fascino che l’attività criminale esercitava su di lui – e, messa insieme una piccola banda, si diede così ai furti con effrazione, facendo delle regioni settentrionali della Svizzera il suo terreno di caccia. La prima di tante retate della polizia, alle quali presto avrebbe fatto l’abitudine, sembrò mettere fine alle ambizioni criminose dell’ormai celebre Bernhard: i giornali, però, lo presentavano già come un diabolico leader criminale, in grado di influenzare i compari al punto da indurli a compiere qualsiasi misfatto per lui – un’idea che certo do-
Ricostruzione dell’esecuzione di Matter in occasione del bicentenario della fondazione del Canton Argovia, nel 2003. (Keystone)
veva qualcosa al fascino innato di cui il giovane sembrava provvisto. Tuttavia, Matter stava ormai inaugurando una nuova carriera come «artista della fuga», inanellando una serie di evasioni che avrebbero fatto impallidire perfino Houdini. Confrontato a una situazione pressoché disperata – una condanna a sedici anni in condizioni brutali in una cella d’isolamento di Baden – Bernhard evase dopo appena cinque mesi, e, dopo rocambolesche avventure e svariati furti tra Muhen, Berna e Basilea, venne iniziato all’arte del contrabbando da un certo Kemar; nel mezzo, un matrimonio (sotto falso nome) con un’alsaziana ignara dei suoi traffici, e l’arresto da parte della polizia di Erlinsbach, nel febbraio 1851, conclusosi con il ferimento involontario di un passante (a causa di un colpo d’arma da fuoco partito nel corso di una colluttazione). Un evento che, secondo le autorità, provava oltre ogni dubbio la pericolosità di Matter: il quale, dopo altre due evasioni e nuovi furti, venne infine condannato a vent’anni, da trascorrersi in un luogo a prova di fuga come la fortezza di Aarburg. E benché le molteplici fughe gli fossero ormai valse una reclusione in condizioni durissime, costantemente incatenato nella propria cella, proprio questo tragico sviluppo gli offrirà l’occasione per la sua più grande impresa: nella notte di tempesta tra il 10 e l’11 gennaio 1853, dopo settimane di preparazione, Bernhard sfuggì ai secondini del castello di Aarburg, servendosi di una banale intercapedine. Dopo quest’impresa apparentemente impossibile, il fuggiasco si lanciò in un rocambolesco quanto rischioso gioco a rimpiattino con la polizia, sempre
alle sue calcagna tra un furto e l’altro; nel frattempo, sorta di Robin Hood locale, viveva dell’ospitalità dei popolani, ai quali donava gran parte dei suoi «guadagni». Seppur ricercato senza sosta in patria, Matter non riuscì ad abbandonare la Svizzera, né l’amata Argovia; e proprio qui, a Teufenthal, verrà arrestato per l’ultima volta, il giorno di Capodanno
del 1854. La rabbia e lo sdegno suscitati nelle autorità dal continuo escapismo di Matter (e dal suo talento per lo sberleffo) non tardarono a presentare il conto, spingendo i giudici a condannarlo a morte: e il 24 maggio 1854, Bernhard Matter venne pubblicamente decapitato a poca distanza da Lenzburg. Una mossa destinata a rivelarsi controproducente, poiché, come sem-
pre accade con le leggende popolari incentrate sulla figura del fuorilegge, la vicenda di Matter divenne, per i contemporanei come per i posteri, perfetto esempio del destino infausto riservato a tutti coloro non siano assimilabili alle regole della società – a riprova del fatto che a pagare sono spesso i cosiddetti «cani sciolti», in grave contrasto con l’immunità dei grandi burattinai del crimine. La natura mansueta del «playboy» Matter, refrattario a ogni forma di violenza, contribuì a farne un antieroe agli occhi dei connazionali; e in effetti, vista con occhi moderni, la sua condanna appare francamente sproporzionata per un ladro che, per quanto recidivo, non aveva comunque mai assassinato nessuno – sollevando molti quesiti sul senso della pena di morte, e sul suo ruolo e valenza dissuasiva nel passato più o meno recente del nostro Paese. Forse proprio in questo, più ancora che nell’innegabile fascino romantico rivestito dal ladro gentiluomo, sta l’attuale rilevanza di figure come quella di Matter – le quali, spingendo a interrogarsi sull’eterno dilemma insito nel rapporto tra il «delitto» perpetrato dall’individuo contro la società e il «castigo» che la stessa dovrebbe imporgli, divengono opportunità per mettere in discussione la linea di demarcazione tra la libertà istituzionale e i limiti (più o meno giustificati) che a essa si contrappongono. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Quelli che... dovresti riconoscere Quelli che hanno la pretesa che tu li riconosca.... Ma andiamo con ordine. Avere una vita ricca di relazioni comporta il fatto di incrociare molte persone e solo un collezionista di facce accoppiate ai nomi dei portatori di quelle facce, solo un praticante dello sport della memoria fisionomica può ricordarsele. Sovente non si comprendono tanto bene le generalità della persona che viene presentata. Tu pensi: pazienza, non è educato farsele ripetere. Ma per i presentati no, pazienza un corno! Diventano persecutori spietati, pretendono che tu abbia inciso a caratteri indelebili nome, ora, luogo, circostanze relative all’ultima volta in cui vi siete visti. Vi vengono incontro con un largo e cordiale sorriso, il volto illuminato dal genuino piacere di ritrovarvi, la mano destra pronta per una calorosa stretta di mano. Entrate nel panico: chi è, come si chiama, che cosa fa nella vita? Vi guardate attorno in cerca dell’aiuto di qualcuno che lo conosce e possa indirizzarvi sulla strada giusta,
niente da fare, vi trovate in mezzo al deserto. Prima tappa: ci diamo del tu o del lei? Per non sbagliare inizi con un generico: «Come va?». Lui risponde con un: «Non posso lamentarmi, grazie», che vi lascia al punto di prima. Se per prudenza lo apostrofate usando il lei arriva puntuale la sua protesta: «Ma come, mi dai del lei adesso, dopo tutto quello che abbiamo combinato? Non ti ricordi?». Vaghi nella memoria, alla vana ricerca di lontane carognate: cosa mai avremo mai commesso insieme?» Replichi: «Certo che mi ricordo. Solo che non sapevo se potevo ancora darti del tu, con la bella carriera che hai fatto». «Beh, carriera è una parola grossa, diciamo che il mio lavoro di bidello mi soddisfa e mi dà delle belle soddisfazioni». «E già, in effetti è un lavoro delicato, pieno di responsabilità». «Proprio così, anche se siamo sottopagati». Bene, se la conversazione scivola sulle rivendicazioni salariali andiamo sul sicuro: «Eh, sì... sarebbe sacrosanto adeguare gli stipendi all’importanza
del ruolo sociale che uno...» Ma lui ti interrompe: «Smettiamola con queste tristezze. Piuttosto, dimmi, hai rivisto qualcuno della nostra banda?». Banda? Di quante bande ho fatto parte nella mia vita? «No, mi pare di no?». «Strano, l’altro giorno ho incontrato davanti alla mia scuola Riccardo che era venuto a prendere suo nipote e mi ha detto che vi vedete sempre alla partita...». «Ma certo, come no? Anche lui faceva parte della nostra banda. Certo che ne abbiamo combinate di belle...». Ma l’amico misterioso non abbocca, non si sognerà di rievocare un episodio concreto. Ti congederai con un’affettuosa pacca sulle spalle con il dubbio che ti abbia scambiato per un altro. C’è poi quello che ti dà del lei ma si stupisce di trovarti lì, nello stesso posto dove si trova lui: «Ma come, anche lei qui? Chi se lo immaginava... com’è piccolo il mondo...» Stai sulle generali: «Effettivamente... Qui ci vengo volentieri. Mi fa piacere ritrovarmi tra facce amiche...» «Io invece è la prima volta che ci
vengo. Sono contento che lei sia di casa, le chiederò di presentarmi qualcuno dei presenti...» Se solo mi ricordassi il suo nome... Mi prende sottobraccio, sussurra con aria complice: «Approfitto dell’occasione per ringraziarla. Quella faccenda è poi andata in porto.» Faccenda? Abbiamo truccato un’asta? Abbiamo falsificato un testamento olografo? Vai a tentoni: «Non mi deve ringraziare, per così poco...» «E no, lei è stato la mia salvezza. Se non era per lei, per la sua telefonata... Stavo impazzendo dal dolore». Ecco, ci sono, era di passaggio a Torino e io avevo chiesto all’amico dentista di riceverlo a studio oramai chiuso e di estrargli un dente. Ma il nome chi se lo ricorda. Ci sono poi quelli o più sovente quelle che non vorrebbero essere riconosciute perché si sono fatte la plastica. Maria Rosa ti viene incontro tutta tirata e ti sottopone al quiz: «Buongiorno, scommetto che non mi riconosci. Chi sono?». «Dunque, vediamo un po’. Secondo me sei la mamma della mia amica Maria
Rosa». Che da quel momento continuerà a chiamarsi Maria Rosa ma non sarà più mia amica. Infine ci sono quelli che solo a loro sono capitate storie straordinarie. Si riconoscono per la capacità di infilarsi in una pausa dell’appassionante racconto di una tua disavventura prima che tu sia arrivato al finale, per esclamare: «Questo è niente! Sapessi cosa è capitato a me!». Parte una narrazione mirabolante. Bisognerebbe essere pronti a replicare: «Non lo so e non m’importa di saperlo!». Ma come si fa? Le convenzioni sociali non lo permettono e poi lui è stato ad ascoltarti, sia pure pronto a interrompere. E così disponiamoci ad ascoltare: «Eravamo a Miami». (Mai che succeda in Brianza o nel Monferrato) «Eravamo dentro un ascensore all’esterno di un grattacielo di 208 piani». La moglie: «No caro, ti confondi con il grattacielo di Atlanta, qui i piani erano 112». Riprende: «Avevamo pranzato al ristorante dell’ultimo piano». La moglie: «Si chiama Roof Garden». E avanti così, senza pietà.
Von Arnim rise brevemente: «Ne sarei felice, ma mia moglie è morta quattordici anni fa e beh... in ogni caso non ci sarebbe venuta volentieri. Detestava il mondo del cinema, quando Martin veniva a cena da noi salvava le apparenze con la buona educazione, ma non investiva neppure un grammo della sua notevole sagacia per conversare con noi. Lui non se ne accorgeva, ma io sì». Betta si sentì, improvvisamente, serena, come per un sortilegio. Diede un morso alla pizza che teneva in mano e tirò su dal naso masticando. Di colpo era di nuovo forte. E perciò sprezzante. Dunque il vecchio parlava con la moglie morta. Lo guardò senza dire una parola, perché misurasse tutta la sua miseria. Avrebbe voluto odiarlo, era felice di vederlo. Felice che fosse vedovo e che fosse matto. Con estrema naturalezza, Von Arnim la prese sotto braccio e si incamminò con lei verso
casa, parlando. Senza dare troppo peso alla notizia la informò che Martin di cognome faceva Scorsese. «Forse avrà visto qualche suo film», disse, svagato. Era un uomo colto e innamorato del cinema, aveva avuto cinque mogli da cui aveva ricavato tre figlie. Ma era inquieto, incapace di fermarsi: «Un cercatore di bellezza, ossessivo come i cercatori d’oro del secolo scorso», disse, con evidente compiacimento, prima di fermarsi davanti al portone e stringere tutte e due le mani di Betta fra le sue, «Non sia arrabbiata con me. Non avevo alcuna intenzione di offenderla. Ho amato mia moglie con una intensità non comune. Per questo non ho accettato la sua morte e... sono rimasto in contatto con lei. Del resto era una donna assolutamente straordinaria. Vi sareste piaciute». «Perché? Io non sono straordinaria». «Tu, mia cara, non sai niente di te. Non hai ancora capito chi sei».
Betta si vide riflessa in quegli occhi azzurri, penetranti nonostante le molte piccole rughe che il sorriso approfondiva senza scampo. Si sentì forte e affascinante. Di nuovo. Dopo giorni di smarrimento. «E l’hai capito tu, chi sono?», disse, aggressiva. Von Arnim scosse la testa e le lasciò le mani. Aveva appena visto profilarsi, alle spalle di Betta, la figura allampanata di Tom. L’aveva visto fermarsi di colpo come in un fermo fotogramma e guardarli da quella distanza ravvicinata, immobile. Valutò l’ipotesi di darsela a gambe, sgombrare il campo, battere in ritirata. Gli si formavano in mente soltanto quelle didascalie da fumetto. Perciò decise di restare. Disegnò nell’aria, con la mano, un saluto allegro a cui Tom non rispose. Poi disse, a bassa voce. «Non del tutto, non ancora, ma meglio del tuo giovane marito. Lui è proprio fuori strada».
o le musichette jazz poco edificanti fagocitate dalla nuova doxa antirazzista e militante?». La Cancel Culture nasce come antidoto all’hate speech, al linguaggio dell’odio e del razzismo ma ben presto si trasforma in una sorta di ideologia, in un manuale di comportamento (ma spesso, oltre al biasimo pubblico, c’è la volontà di far perdere la posizione professionale all’accusato, c’è risentimento, c’è mediocrità di pensiero), tanto che sulla rivista americana Harper’s Magazine è apparsa una lettera firmata da circa 150 intellettuali, preoccupati della piega illiberale di una simile tendenza. «Una lettera sulla giustizia e il dibattito aperto» denuncia un clima ostile nei confronti del «libero scambio di idee e informazioni», dominato da «un’intolleranza per le opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo, e la tendenza a risolvere complesse questioni politiche con una vincolante certezza morale». Spesso il dibattito sulla Cancel Culture
si è sovrapposto a quello sul cosiddetto «politicamente corretto», un’espressione che negli ultimi anni è arrivata a indicare un fenomeno molto più complesso e sfaccettato di quello per cui era usata qualche decennio fa. È un discorso estesissimo che avvolge molte situazioni, dai libri ritirati dal commercio per le controversie sui loro autori alle sempre più frequenti proteste sui social network quando in tv vengono dette cose razziste o sessiste. E che ha al centro le nuove e sempre più diffuse sensibilità sui linguaggi da adottare, sulle parole da evitare e su quelle invece da introdurre nel lessico comune per essere più rispettosi delle cosiddette minoranze e delle persone in generale. Il «politicamente corretto» sarebbe diventata la nuova ideologia «informale» degli ambienti universitari americani con l’obiettivo non solo di distruggere il canone tradizionale, ma anche di instaurare un meccanismo che premia la vittimizzazione, favorendo così le minoranze.
Una delle critiche più sovente rivolte alla Cancel Culture è quella, fondamentalmente, di usare gli stessi strumenti discriminatori nei confronti di chi non condivide le sue posizioni e di utilizzare un metodo censorio. Secondo la posizione di costoro, i diversi movimenti dal # MeToo a #BlackLivesMatter, sarebbero colpevoli di limitare la libertà di espressione. Così come è successo nella già citata lettera degli intellettuali a «Harper’s Magazine». I non pochi sostenitori della Cancel Culture sostengono che è errato parlare di censura, come fanno molti esponenti della destra americana ed europea, perché difendere la libertà di parola in astratto in realtà significa solo difendere una posizione di privilegio, la facoltà di dire ciò che si pensa senza conseguenza. Esiste, purtroppo, un nuovo consenso generato dai social («new consensus») secondo il quale per perseguire l’uguaglianza (il senso comune) si inibisce la libertà di espressione dei singoli.
Quaderno a quadretti di Lidia Ravera Le nuove povertà/19 Se lo vide dietro all’improvviso, mentre pagava tre euro di pizza al taglio. Si era sentita osservata. Si era voltata. Arrossì. Provò a mettere insieme un minimo di sussiego, un cipiglio respingente. Von Arnim le sorrise. «Non ha letto il mio messaggio. È un rifiuto della dimensione cartacea?» Meccanicamente, Betta tirò fuori dalla tasca dei pantaloni della tuta la busta immacolata, che non aveva aperto. Gliela tese. Le tremava la mano. Le girava la testa. Effetto del digiuno, forse. O di quella specie di sottile vergogna che si era insediata dentro di lei, da quando aveva scoperto che il vecchio aveva una moglie e che, insieme alla moglie, con la modica spesa di 500 euro, si era preso gioco di lei. Della sua povertà. Von Arnim prese la busta, che lui stesso aveva depositato nella cassetta delle lettere di Betta e la guardò, da tutti e due i lati, con rammarico. A Betta parve di vedere uno spessore sospetto che
imprimeva una curva alla carta. Altri soldi? L’imbarazzo vinse l’avidità, ma i suoi occhi, se ne accorse perfettamente, si riempirono di lacrime involontarie. «Lei mi sta molestando», disse, con un filo di voce «mi lasci in pace». Von Arnim intascò la busta. Betta gli sembrò più bella che mai, struccata, pallida, con una tuta sporca che sarebbe sembrata uno straccio su qualsiasi altro corpo. Valutò la possibilità di dirglielo, ma poi no, non era la mossa giusta. Non in quel momento. «La prego di perdonarmi», disse, e si drizzò in tutta la sua statura, come per prendere le distanze dalla sua stessa supplica. «Nella busta c’è soltanto un invito. È una cena in piedi, organizzata da un mio buon amico, di passaggio. Sta preparando un film che si svolgerà per una parte qui vicino, a Tuscania. Ecco, mi avrebbe fatto piacere ...» «Ci porti sua moglie, alla cena del suo amico», disse Betta, stridula.
A video spento di Aldo Grasso Cancel culture e nuovi consensi Spesso, volendo difendere i più deboli, si combattono battaglie di retroguardia. È il caso della cosiddetta Cancel Culture, la cultura della cancellazione, ovvero la tendenza a condannare all’oblio persone o aziende considerate colpevoli di aver sostenuto – anche in passato – valori contrari ai diritti delle minoranze, alla parità di genere, all’uguaglianza e in generale al politicamente corretto: si abbattono le statue di Cristoforo Colombo perché trattò male i nativi, Via col vento viene preceduto da una spiegazione in cui si definisce il contesto razzista del racconto. Tutto è iniziato con la Culture of Complaint, la cultura del piagnisteo. Così Robert Hughes definiva già nel 1993 quell’attitudine secondo cui si procede negando la realtà e dando tutto il potere a formule verbali o comportamenti che deformano in modo grottesco ciò che è: il mutare nome alle cose mantenendone però invariata la sostanza, come se bastasse trovare un alibi semantico. Nel dicembre 2019, l’australiano
Macquarie Dictionary elegge parola dell’anno «Cancel Culture». La definizione che ne dà è più o meno quella classica – «l’atteggiamento all’interno di una comunità che richiede o determina il ritiro del sostegno ad un personaggio pubblico» – mentre la motivazione per la scelta è che si tratta di «un atteggiamento così pervasivo che ora ha un nome, la Cancel Culture della società è diventata, nel bene e nel male, una forza potente». «Il Foglio» (dicembre 2019), nel commentare la notizia, si chiede: «Quanti sono i libri finiti al macero ancor prima di essere pubblicati? Quanti i quadri, da Balthus a Gauguin passando per Schiele e Picasso, che si è fatto o si voleva far sparire dalla vista del pubblico nei grandi musei, processandoli ex post per la condotta sessuale poco irreprensibile dei loro autori? Quanti i direttori d’orchestra, i cantanti, i ballerini, scomparsi dal mondo della musica classica e operistica? [...] Quante le statue [...] tirate giù? Quanti i cartoni animati archiviati per sempre
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