Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Il dolore è sempre più mediatizzato soprattutto attraverso i social. Intervista alla psicologa Gabriella Bianchi Micheli
Ambiente e Benessere Se da una parte il Covid-19 ha messo in crisi le attività dell’uomo, dall’altra sta dando segni positivi per la protezione dell’ambiente
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 2 giugno 2020
Azione 23 Politica e Economia Ma che fine avranno fatto i liberali?
Cultura e Spettacoli L’Angelo sterminatore di Luis Buñuel rivisto alla luce del recente lockdown
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Ah, poter ridere nella pandemia...
A bordo di un «sanpan» sul Golfo del Bengala
di Alessandro Zanoli
di Cristina Gemma
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Luigi vorrebbe vederli i manifesti di «Parole che curano», l’iniziativa messa in campo dal comune di Lugano per far pensare e infondere coraggio alla popolazione. Una raccolta di buoni propositi sparsi per la città, che possano svitare dalla testa i pensieri negativi e aprire l’immaginazione a nuove prospettive. Se scrittori, poeti, attori non riescono ad allargare le nostre menti, chi altri potrebbe farlo? Una bellissima idea, un’idea solida e altrettanto concreta quanto il virus (quello sempre invisibile e subdolo) che ci sta incatenando le giornate. Luigi, chiuso in casa da settimane si rende conto di aver bisogno di stimoli di riflessione, di nuovi orizzonti. La reclusione casalinga gli dà un certo grado di dipendenza, di abitudine alla passività, che non è sana. Quindi è abbastanza deciso, per il suo bene, a uscire e ad andarli a cercare, quei manifesti. Non sa bene dove li abbiano messi, ma non è un problema. Lugano non è grande, prima o poi li troverà. Si fermerà qualche minuto a leggerli, cercando di dimenticare per un momento la preoccupazione. Terrà la mascherina o la toglierà? La toglierà, è un gesto di sfida, in fondo, questo chiedere aiuto alle parole degli artisti, un gesto di grande fiducia nel potere delle parole. Non troppo vicino agli altri però. Se qualcun altro si fermerà vicino a lui, oserà guardarlo, rivolgergli un sorriso d’incoraggiamento? Sì, ma solo dopo aver valutato la distanza di sicurezza. Perché Luigi non ha paura; è solo prudente. Così almeno racconta a sé stesso. La settimana scorsa, in una delle sue «prudenti» passeggiate quotidiane, ha incontrato dei vecchi conoscenti. Si è avvicinato con grande piacere e ha cominciato a parlare loro della sua brutta esperienza: il virus lui l’ha provato sulla sua pelle e ha una storia da raccontare. Subito ha visto quelle persone fare uno, due passi indietro, muovere la testa intorno come a cercare delle vie di fuga. Non per altro, ma avevano parenti anziani in casa: «sa, sono cose delicate». La conversazione si è interrotta poco dopo, con qualche pretesto. Da allora Luigi si guarda bene dal riferire come sono andate davvero le cose. Finisce un po’ per avere paura di sé stesso e sta alla larga, giusto per non correre rischi, per non farsi venire delle tentazioni di socializzazione non gradita. Ha notato una cosa: il tempo gli passa più veloce di quanto succeda agli altri, quando è in compagnia. Vuole subito sganciarsi, liberarsi, tornare nel guscio protettivo della sua casa. Che non è più così piccola come gli sembrava una volta. Anzi. È perfetta, come una cella. Gli capita in mano uno dei suoi libri (Luigi ha riscoperto come è importante avere una biblioteca ben fornita, in tempo di pandemia, come se l’avesse radunata proprio in attesa di questa evenienza) e scopre che persino certi carcerati russi, nei gulag staliniani, finivano per trovare confortevoli le loro cuccette di legno. Luigi sorride dell’idea, forse un po’ cinica. Al di là di tutto quello che gli manca è il senso dell’umorismo, è trovare un modo per ridere, per sdrammatizzare. L’unica cosa che l’ha fatto veramente divertire negli ultimi giorni è il racconto di quell’anziana mamma, disperata per le insistenti raccomandazioni a non uscire di casa dei suoi figli. Le hanno proibito ogni sortita, le fanno la spesa loro, ogni giorno: basta che lei non si muova. La povera signora, pur di avere un momento di libertà, si camuffa con occhiali neri, mascherina, cappello, guanti e di nascosto va a fare acquisti, sperando che nessuno la riconosca. Soprattutto i suoi figli. Luigi sorride con piacere a questo racconto, che rende l’assurdità della situazione in cui stiamo vivendo. Di questo avrebbe bisogno, di ironia, di umorismo. Forse anche le poesie possono servire, i buoni propositi d’artista. Pur sempre un po’ sospese nell’aria, sono comunque idee nuove, nuovi pensieri. Ma anche una bella risata è un po’ che non gli esce dalla gola. Gli manca moltissimo.
la votazione generale giunge al termine – Le schede di voto devono essere spedite entro
SABATO 6 GIUGNO 2020
Cristina Gemma
RICHIAMO – VOTAZIONE GENERALE 2020
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Società e Territorio La Via del Ceneri Dal passo del Ceneri a Cadenazzo passando per Robasacco, percorriamo un nuovo itinerario didattico
La storia delle banche in Ticino Un libro edito dall’Associazione Bancaria Ticinese traccia il percorso evolutivo del mondo bancario ticinese dal 1920 e riflette sulle sfide future che lo attendono pagina 7
Affrontare le dipendenze oggi Reclusione forzata e incognite sul futuro possono avere ripercussioni sulle persone più vulnerabili o che già soffrono di una dipendenza. Intervista a Marcello Cartolano presidente di Ticino Addiction pagina 11
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Il dilemma della natura umana
Sociologia Gli esseri umani presentano
Massimo Negrotti È intuitivo che parlare di natura umana non è cosa semplice e, per farlo con la pretesa di cogliere la sua essenza ultima, è bene lasciare la parola ai filosofi o ai teologi, sebbene con scarsa fiducia di scoprire verità universalmente accettabili. Anche la scienza, d’altra parte, non ha in serbo risposte definitive se non, parzialmente, sul piano strettamente fisico. È però possibile esercitarci adottando un modello col quale, quanto meno in termini comparativi con gli altri esseri viventi, si possa scorgere una sintesi di caratteristiche umane che di norma sono separatamente considerate come esclusive della nostra specie, come la coscienza, il pensiero, la creatività e così via. Per esempio possiamo adottare, in termini semplificati, il concetto di «azione» introdotto nella teoria sociologica da Max Weber e poi da Talcott Parsons, ossia qualsiasi espressione di sé che implichi relazione con altri soggetti. È dunque azione un abbraccio ma anche un atto di violenza, una decisione aziendale ma anche la pubblicazione di un testo, l’acquisto di un bene o la difesa di un valore. Anche gli animali, ovviamente, compiono azioni ma balza subito agli occhi la loro estrema stereotipia, cioè l’esistenza, nella loro natura, di pochi obiettivi da perseguire che si trasmettono identici da generazione a generazione. La plasticità del comportamento animale consiste unicamente nel cercare, più o meno intelligentemente, di risolvere problemi immediati che ostacolino il perseguimento dell’obiettivo, generalmente riconducibile all’alimentazione o alla riproduzione. Di fronte ad una minaccia grave, tutti gli animali ricorrono ad una prevalente soluzione finale, cioè la fuga. In un articolo di un paio di anni fa (Pare che… insomma è certo, 24/9/2018) citavo una battuta di uno scrittore italiano, Giuseppe O. Longo, che risulta di estremo interesse anche in questo contesto. Longo osservava che, di fronte all’aggressione di un leone, una mandria di bufali ovviamente fugge e, arrivata in un’area più sicura, ricomincia a brucare. Anche un gruppo di uomini, se minacciato, fugge ma, raggiunto un villaggio, racconta.
Non è una differenza da poco, perché il racconto costituisce un valore aggiunto alla pura azione istintiva e introduce il tema della cultura antropologica ossia dell’insieme di conoscenze, tecniche, linguaggi, valori, norme e tradizioni che caratterizzano qualsiasi comunità umana. L’aspetto più strategico della cultura, come ci ricorda Margaret Mead, consiste nel fatto che essa viene trasmessa da generazione a generazione ma non per via genetica, come accade per gli istinti, bensì attraverso azioni coordinate di educazione e socializzazione, cioè attraverso ulteriori azioni e istituzioni di ordine culturale. La trasmissione intergenerazionale è dunque una sorta di «espediente», indotto dalla natura umana, reso necessario dal fatto che la cultura non può essere trasmessa per via genetica. In effetti, come è facile capire, senza trasmissione culturale ogni generazione dovrebbe ricominciare tutto daccapo. Quale sia la proprietà della natura umana che consente, o impone, la fantastica impresa di costruzione della cultura non è in alcun modo chiaro, anche se il cervello è sicuramente la sede più ovvia a cui pensare. In esso, insomma, risiede evidentemente qualche proprietà che spinge l’uomo, da migliaia di anni, non solo ad agire isolatamente per soddisfare esigenze di vario ordine, conoscitivo, espressivo o costruttivo, ma anche ad interagire per aumentare e condividere l’efficacia dell’azione. A questo proposito, va segnalata una recentissima, e forse abnorme, tendenza dell’intelligenza artificiale, cioè l’ipotesi tecnologica chiamata brain uploading consistente nel trasferimento di una copia del contenuto informazionale di un cervello in un computer. In questo modo la macchina sarebbe in grado di agire come il cervello originale o, più ancora, potrebbe «riversare» il suo contenuto in un altro cervello umano risolvendo radicalmente il problema della trasmissione culturale fra generazioni. Una prospettiva, questa, che non è altro se non la rinnovata illusione di poter «moltiplicare» a piacimento le abilità e le prerogative individuali, quelle degli uomini giudicati migliori, scienziati e artisti o magari inventori o filantropi, credendo, in tal modo, di contribuire
Marka
una natura predisposta alla cultura e sono orientati al racconto. Ma cosa capita in situazioni di emergenza?
al miglioramento complessivo dell’umanità. In realtà sarebbe un vero disastro poiché si metterebbe mano ad una distribuzione di personalità del tutto arbitraria e sulla base di una drastica semplificazione del problema della natura dell’uomo che, sicuramente, non consiste unicamente in informazione e intelligenza ma in più profonde e nascoste attitudini critiche e motivazioni fra loro in perenne e mutevole interazione. Ad ogni modo, pare ragionevole sostenere che, a differenza degli altri animali, gli esseri umani presentino una natura che è anche cultura o, per meglio dire, sono naturalmente orientati alla «esternalizzazione» della propria vita interiore, fatta di idee, paure, ipotesi e progetti, dando luogo alla cul-
tura. La cultura è dunque una costruzione non organica che, per certi versi, consiste in una espansione del patrimonio istintuale innato e, per altri, ne organizza o ne trasforma gli orientamenti elementari, come accade, in tutta evidenza, nel caso della speculazione filosofica, delle scienze o delle norme etiche. Lo «zoccolo duro» della natura umana rimane, comunque, l’insieme di pulsioni e istinti che nascono geneticamente con lui e che condivide largamente con tutti gli animali. L’uomo, in altre parole, può rinunciare, sebbene a fatica e solo in circostanze eccezionali, alla propria cultura ma non può rinunciare al patrimonio biologico che porta costitutivamente con sé. La cosa è più che mai evidente nelle situazioni
di emergenza, nelle quali larga parte delle regole e delle forme razionali cede rapidamente il posto all’istintualità. In queste circostanze la complessità della cultura viene compressa, ridotta e alla fine provvisoriamente espulsa dal ventaglio delle possibili azioni da compiere che vengono, o tornano, all’immediatezza dello stadio primordiale. In fondo, la cultura antropologica appare dunque una specie di arricchimento della natura biologica dell’uomo ed è un approdo verso il quale l’essere umano è naturalmente predisposto, ma essa è anche decisamente reversibile. La dialettica fra queste due realtà è il quadro entro il quale la natura umana si esprime, ma attraverso quali processi e con quali possibili sviluppi futuri è al di là delle nostre attuali conoscenze.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Quando il pianto è pubblico
La fatica di ricominciare
non deve indebolire la capacità di pensare e sentire la propria vita
durante la pandemia
Emozioni Secondo la psicoterapeuta Gabriella Bianchi Micheli la mediatizzazione del dolore
In casa Riflessioni
Maria Grazia Buletti Il dolore è una componente importantissima dell’esistenza, come la gioia del resto, che però non ci permettiamo di ascoltare profondamente come il dolore. Parlare delle proprie gioie non è proprio un fatto culturale come parlare delle proprie pene. Vale la pena interrogarsi sul pianto pubblico dilagante, in un momento storico che dimostra ampiamente come esso si trasformi spesso in gossip che produce a sua volta una sorta di voyeurismo sociale. Un dolore che diventa facilmente pettegolezzo, complici televisione e media in concomitanza coi più disparati social network, questi ultimi immediati canali di una comunicazione fai da te che trasforma la sfera privata dei sentimenti in una dimensione affettiva da esporre e condividere apertamente. «È terapeutico permettere al dolore di uscire da noi attraverso tutte le tecniche che ci permettono di verbalizzarlo senza rinchiuderlo nella cassaforte delle emozioni: parlando, scrivendo, dipingendo, disegnando», afferma la psicologa e psicoterapeuta Gabriella Bianchi Micheli che si occupa nello specifico di persone che attraversano percorsi di malattia cronica aiutandole a tematizzare il loro cammino. «Noi terapeuti diciamo ai pazienti di provare ad esprimere il loro dolore scrivendo, se non riescono a farlo con le parole: ciò porta a un’introspezione e a un’elaborazione del proprio vissuto verso una crescita personale; poco importa se altri lo leggano o lo ascoltino».
Internet non ti conosce, il tuo medico sì, e può fare da filtro a ogni informazione scaturita da un’esperienza personale di altri letta su un blog Ma l’era social e la spettacolarizzazione mediatica del dolore sono oggi favorite da una comunicazione veloce, breve e superficiale come la nostra società: «Vincente, ma poco utile: chi entra in questi blog (pensiamo a diverse donne giovani con tumori, e via dicendo, per fare un esempio) rischia di non sapere con chi sta parlando, l’ansia aumenta a dismisura perché ci si confronta con una verità personale priva di evidenze scientifiche. Chi si sta confrontando a sua volta con un percorso di malattia, dovrebbe a questo punto farsi aiutare dal team dei medici curanti per gestire la situazione: internet non ti conosce, il medico sì e può fare da filtro a ogni informazione scaturita da un’esperienza personale di altri che non sempre corrisponde alla propria realtà». Così la nostra interlocutrice dà una spiegazione dei bisogni di chi si
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
Silvia Vegetti Finzi
La psicologa Gabriella Bianchi Micheli si occupa di persone affette da malattie croniche. (Stefano Spinelli)
mette in gioco attraverso i social: «Essi usano un modo più immediato e semplice per comunicare, mentre mettersi alla scrivania e scrivere ci pone dinanzi a una valanga di emozioni che a quel punto esigono un’elaborazione introspettiva. Sui social, invece, esprimo quella cosa ma non ricevo aiuto per approfondire le emozioni e le relative sfaccettature che essa comporta». Le riflessioni della psicologa ci permettono di capire che l’immediatezza, la messa in piazza e la leggerezza che queste scelte comportano ci pongono nell’ambito di una società che vive correndo in superficie, in un tempo veloce che non comprende riflessioni e introspezioni, e che non si ferma perché allora si creerebbe un tempo verticale fatto di elaborazione e crescita che non si è disposti a vivere. Lo dimostrano i format mediatici che favoriscono questa modalità di comunicazione delle proprie vicissitudini: «Dal ’96, quando sono iniziati i programmi tipo Grande Fratello, Truman Show e via dicendo, assistiamo all’uso di mettere in piazza emozioni superficiali, non elaborate, da spettacolo. Mi chiedo quanto serva alla persona stessa e se non corra il rischio che poi, spenti i riflettori, quella stessa persona rimanga sola a gestire la sua crisi. Un meccanismo con un fondo di perversione perché non tutti si rendono conto di star mettendo in gioco la spettacolarizzazione del proprio agire emotivo, e questo non sappiamo dove li porterà». Quando la lacrima diventa comunicazione, il dolore che viene messo
in una «piazza» genera una sorta di voyeurismo finalizzato a mantenere un equilibrio emotivo apparente, una via di mezzo, un modo per edulcorare il proprio dolore rendendolo più sopportabile: «Non so se vivere “attraverso” il vissuto di altri permetta di anestetizzare la propria storia, non penso possa davvero alleviare il proprio dolore, ma si potrebbe avere l’illusione di aver trovato un percorso da seguire. Se le persone si nutrono di social e del voyeurismo del dolore altrui, dovrebbero disporre di un piccolo filtro che li faccia riflettere: se penso solo a questo, significa che sto fuggendo da una parte di me stesso che grida ascoltami». Secondo la psicologa, si rischia la dipendenza dai social: «Vediamo persone che non riescono a staccarsi da ciò e varrebbe la pena chiedersi perché ne abbiano tutto questo bisogno. Come tutte le dipendenze, rientra nel discorso “mi affido a qualcosa o a un voyeurismo sbirciando cosa scrivono gli altri per non occuparmi della mia sofferenza”. Così non si affronta un dolore interno personale che prima o poi si ripresenterà e chiederà il conto». Ci chiediamo se i media non amplifichino quell’anestesia della percezione del dolore figlia della moderna società, ma la nostra interlocutrice ci rassicura: «Non credo che i media abbiano grandi responsabilità: si è sempre faticato a vivere le emozioni nel reale, ma non è tardi per insegnare all’essere umano a parlare di emozioni: mostrando le nostre ai bambini che non dobbiamo relegare davanti ai giochini
o agli iPad, ma ai quali non bisogna nascondere le nostre emozioni, chiedendo loro di mostrarci le loro senza il triste filtro dei media. Educhiamoci ed educhiamoli a leggere le emozioni altrui e a esprimere le loro, proprio come nella società di un tempo in cui si giocava insieme, e i nonni vivevano trasmettendo la loro esperienza dove un bambino che piange, che si arrabbia non era un alieno». Sarebbe il ritorno a una dimensione di vita più reale, dove si possa parlare e ascoltare soprattutto i giovani: «Ascoltare è importante: implica stare zitti, accogliere, non insegnare, anche se le cose non ci piacciono». Si tratta di riuscire a scalfire la crescente incapacità di stare accanto al dolore reale, accanto alle persone più deboli: «È facile accorgerci che la gente attorno a noi diminuisce quando siamo in una condizione di evento traumatico della vita, un lutto, una separazione: c’è chi non è capace di stare accanto al dolore altrui, ma quelli che ce la fanno condividono, crescono e imparano. E ci sono anche giornalisti che riescono ad accogliere e ascoltare testimonianze, scrivendole e filmandole: se un giornalista si spaventa della sofferenza può solo restare nella spettacolarizzazione, mentre quando sa ascoltare senza mediatizzare superficialmente, allora diventa educativo anche per la società». Come diceva un maestro zen: «Ogni giorno bisogna innaffiare i semi della gioia, invece noi innaffiamo quelli del dolore». Cambiare si può.
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Eravamo convinti che il nostro canarino, benché confortato da un’ampia gabbia e da ottimo cibo, si sentisse in cuor suo prigioniero e anelasse la libertà. Tanto che, appena la porticina rimase inavvertitamente aperta, volò dalla finestra sparendo dietro la cupola della chiesa di fronte. Restammo dispiaciuti e al tempo stesso contenti di saperlo felice ma, con nostro stupore, la sera stessa rientrò chiedendo di riprendere la vita di sempre. Anche noi, dopo due mesi di clausura costellati da inevitabili momenti d’impazienza, ora che la segregazione è finita, siamo incerti se sia così desiderabile uscire all’aperto e riprendere gli impegni consueti: il tragitto casalavoro, l’abbigliamento opportuno, i rapporti diretti con colleghi e dirigenti, il pranzo frettoloso, le spese al supermercato prima di rientrare, la casa da rigovernare, la cena da preparare. Mentre i bambini appaiono felici di tornare a scuola, ritrovare i maestri e i compagni, riprendere gli allenamenti sportivi, gli adolescenti, contro ogni previsione, indugiano nella nicchia che si erano ricavata. Sdraiati sul divano, continuano a chattare con gli amici senza troppa urgenza di rincontrarsi nei luoghi consueti. Persino gli appuntamenti tra «fidanzati» vengono fissati con calma, quasi avessero paura di scoprirsi diversi. E con qualche ragione perché l’isolamento ha cambiato il panorama interiore, la riflessione li ha resi più sensibili e accorti, meno arresi ai valori di gruppo: la prestanza fisica, l’abbigliamento, la popolarità. Nella solitudine della propria camera si sono abbandonati a sentimenti di noia, a voli di fantasia, a progetti improbabili, scolasticamente poco apprezzati eppure importanti per attivare processi mentali innovativi e creativi, particolarmente richiesti in momenti di crisi. E ora, tornare alla vita di prima, incalzati da prestazioni e competizioni, può sembrare sgradevole come tuffarsi, caldi di sole, nell’acqua gelida . Anche noi nonni, particolarmente minacciati dal Coronavirus, costretti a fare i conti con la vulnerabilità della vecchiaia e la brevità degli anni che ci restano, esitiamo a riprendere il passo. Eppure per mesi ci siamo trovati, come adolescenti, a desiderare ardentemente di abbracciare i nostri cari, a chiederci con trepidazione se i nipoti ci ameranno ancora e i figli saranno delusi vedendoci più fragili e stanchi. Mentre noi ci sentiamo sempre gli stessi. Per fortuna le vacanze sono vicine e solo in autunno comincerà la vera ripresa, quella che Peter Schiesser definisce efficacemente «una normalità da reinventare». Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
Tutto per il grill
Attualità Grigliate perfettamente riuscite grazie ai numerosi grill e accessori dell’assortimento Do it + Garden Migros
Non c’è niente di più invitante del profumo di una grigliata in giardino o in terrazzo con tante variegate specialità da leccarsi i baffi. Divertimento e piacere culinario sono assicurati con la variegata offerta di articoli per il grill proposta dai negozi specializzati Do it + Garden Migros di Serfontana, Gran-
cia, Agno, Taverne e Losone. Anche quest’anno non mancano novità per ogni gusto, esigenza e budget, che trasformeranno l’esperienza del grill in qualcosa di unico. Modelli che si adattano alla perfezione a qualsiasi spazio esterno. Accanto ai classici grill a carbonella per delle pietanze dall’inconfondibile aroma affumicato, i fan delle grigliate apprezzeranno anche gli apparecchi a gas ed elettrici, pronti all’uso in pochissimo tempo e che offrono
ormai prestazioni culinarie elevate. Tra le marche disponibili nell’assortimento, segnaliamo i prodotti del celebre marchio internazionale Weber, azienda leader presente sul mercato da oltre sessant’anni con prodotti sempre all’avanguardia. Chi cerca prodotti innovativi di qualità svizzera, potrà invece lasciarsi ispirare dai marchi Outdoorchef e Sunset BBQ, che offrono soluzioni ideali per ogni momento culinario all’aria aperta. E che dire degli acces-
sori? Da noi ne troverai di tanti tipi che renderanno le tue pietanze alla griglia ancora più irresistibili per un piacere a 360 gradi. Vieni a trovarci nella tua filiale Do it + Garden di fiducia per una consulenza personalizzata sul tema grill. A proposito, conosci già la nostra fantastica app dedicata ai Griglietariani? Scaricala subito sul tuo cellulare dal sito Griglietariani.ch e scopri i nostri consigli per un’estate a tutto grill. Qui
troverai non solo ricette e suggerimenti ad hoc, ma anche un originale timer da grill per risultati pienamente riusciti. Inoltre potrai ordinare direttamente squisiti pacchetti grill, vincere fantastici premi ogni giorno ed essere sempre aggiornato sulle nostre imperdibili offerte o azioni. Per saperne di più
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Voglia di una tartare di manzo? Il sushi del mese L’Angolo del Buongustaio Un aromatico piatto a base di carne
Attualità Vieni ad assaggiare la nostra
cruda che non delude mai nessuno
specialità asiatica mensile
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Tartare di manzo pronta Svizzera, prodotta in filiale, imballata, per 100 g Fr 4.55 invece di 5.70 dal 2 all’8 giugno
Si suppone che l’origine di questa pietanza di carne cruda sia da far risalire alle antiche popolazioni mongole dei Tartari. Durante i loro spostamenti a cavallo nelle vaste e infinite steppe, usavano collocare un pezzo di carne salata sotto le loro selle, con lo scopo di ammorbidirlo e fargli perdere il sangue in eccesso. Al momento di rifocillarsi,
recuperavano la carne e, dopo averla sminuzzata per renderla ancora più tenera, la consumavano senza cuocerla. Da allora la preparazione si è naturalmente evoluta, e oggi esistono numerose ricette che valorizzano al meglio questa appetitosa specialità. Secondo i più tradizionalisti, una vera tartare è composta da carne di manzo magra
tagliata al coltello, condita con capperi, senape, olio, cipolla, prezzemolo, succo di limone, salsa worcester, tabasco e tuorlo d’uovo. Presso i supermercati Migros, vi aspetta la tartare preparata sul posto dagli specialisti dell’Angolo del Buongustaio: un’autentica gioia per le vostre papille gustative.
Sushi Minazuki 290 g Fr. 15.90
Perfetto equilibrio tra gusto e leggerezza caratterizzano il sushi Minazuki di giugno. Ideale per un pasto fresco e nutriente in ufficio o all’aria aperta, è composto da nigiri al salmone e tilapia, hoso-maki al rafano marinato, chu-maki salmone teriyaki e chu-maki caprese. Come vuole la tradizione, è accompagnato da salsa piccante al wa-
sabi, salsa di soia e lamelle di zenzero. Tutte le specialità di sushi vendute alla Migros sono prodotte dalla Sushimania, azienda friburghese specializzata in gastronomia giapponese e asiatica fin dal 2002. Varietà della scelta, massima freschezza degli ingredienti utilizzati e competenza di lunga data sono il fiore all’occhiello di Sushimania.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
Vinci con LEGO
Attualità Fino al 30 giugno potrai vincere fantastici premi
con il grande concorso del famoso marchio LEGO è sicuramente uno dei marchi di giocattoli più conosciuti e ammirati al mondo, che da generazioni diverte e stimola la creatività di milioni di bambini e ragazzi di tutto il mondo. Con un po’ di fortuna, con LEGO fino a fine giugno potrai vincere bellissimi premi, partecipando al grande concorso online. Il funzionamento è semplice: all’acquisto di un prodotto LEGO, dovrai conservare lo scontrino di cassa. Collegati quindi al sito www. lego-gewinnspiel.com (in tedesco e francese), registrati con i tuoi dati personali, carica lo scontrino, immetti il codice di vincita generato e scopri subito la tua vincita. In palio vi sono fantastici premi, tra cui fino a un’autovettura Audi E-Tron del valore di 87’700 CHF, fino a 11 buoni viaggio del valore di 2’200 CHF ciascuno, fino a 111 biciclette elettriche Fischer del valore di 1’100 CHF l’una e fino a 1111 set LEGO del valore di 65 CHF ciascuno, oppure ancora delle cartoline postali fotografiche. Regolamento e condizioni di partecipazioni sul sito. Possibilità di partecipazione gratuita. A proposito: alla Migros è disponibile un ampio assortimento di prodotti LEGO per ogni gusto e fascia d’età.
Zanzare addio!
Attualità La pianta antizanzare Catambra
di nuovo disponibile presso i reparti fiori Migros e Do it + Garden
Catambra Fr. 29.–
Le fastidiose zanzare non sono più un problema con la pianta antizanzare Catambra. Grazie a una particolare sostanza naturale – il catalpolo - contenuta in grandi quantità nelle sue foglie, gli insetti vengono allontanati in modo efficace, duraturo e assolutamente sostenibile. La sostanza è innocua per l’uo-
mo e gli animali. La pianta è facile da coltivare sia in vaso che in piena terra ed è ideale per gli spazi interni ed esterni. Si annaffia solo al bisogno, assicura una protezione ottimale con qualsiasi condizione meteo e può essere posizionata sia all’ombra che al sole. Inoltre non teme né il freddo né il gelo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Società e Territorio
Una via per varcare il Ceneri
Escursioni È stato da poco creato un nuovo itinerario tematico, dal passo del Ceneri a Cadenazzo, passando
per Robasacco, inserito in un più ampio progetto di valorizzazione territoriale Elia Stampanoni Ci sono diverse possibilità per muoversi sul territorio tra il Sotto e il Sopraceneri: ferrovia, strada, autostrada e anche alcuni sentieri o percorsi, sia ciclabili sia pedonali. Tra di questi una via è quella del Montecenerino, anche detta vecchio o piccolo Ceneri, che dal passo scende su un suggestivo selciato per raggiungere velocemente Quartino e il Piano di Magadino. Sul medesimo versante ma verso nord, c’è invece la Via del Ceneri, un passaggio esistente che è stato rivalorizzato con la creazione di un itinerario tematico ed escursionistico, inserito nel progetto Le Terre del Ceneri (vedi riquadro). La tratta ricalca dei sentieri già fruibili e costituisce un segmento della Via Gottardo, riprendendo anche parte di quella che un tempo era chiamata Strada Francesca. La prima parte, di circa sette chilometri e mezzo con un dislivello altimetrico di oltre 350 metri, conduce dal passo del Ceneri a Cadenazzo ed è stata ultimata di recente, proprio a cavallo dell’emergenza sanitaria. La sua inaugurazione, inizialmente prevista a marzo, è slittata a data da definire, ma il percorso è già percorribile. La seconda tratta, invece, collega Cadenazzo a Bellinzona lungo un percorso di circa 10 chilometri quasi interamente pianeggianti e verrà con ogni probabilità ultimata ancora nel corso di questo difficile 2020.
Tra i punti d’interesse che scandiscono la prima tratta della Via del Ceneri si trovano sia peculiarità del territorio sia nuovi spazi o arredi fruibili al visitatore. Un esempio è Piazza Ticino, luogo di partenza o d’arrivo del tragitto, nata a lato della strada cantonale sul passo del Ceneri. Qui, su una piazza ellittica, è stato innalzato a inizio marzo un totem di dieci metri, una scultura formata con le rocce estratte dagli scavi eseguiti per la galleria di Alp Transit e che vuole riprodurre la conformazione geologica del Sopra e Sottoceneri. Oltre a segnare il punto d’avvio o d’arrivo, lo spiazzo, corredato da alberi e altri elementi, vuole anche rappresentare simbolicamente un luogo d’incontro, come lo auspicava nell’Ottocento Stefano Franscini. Lasciata alle spalle Piazza Ticino, la Via del Ceneri sfrutta il sottopassaggio della strada cantonale per spostarsi dall’altra parte e, poco dopo, è segnalata la presenza del Museo della radio all’interno della vecchia stazione di Radio Monteceneri. Seguendo la nuova segnaletica ci si dirige quindi verso un roccolo che si conquista dopo un’erta salita immersi nel bosco e nel silenzio. Quiete che viene solo disturbata in avvicinamento alle varie vie di comunicazione che il percorso incontra. Raggiunto il punto più alto del percorso a circa 620 metri d’altitudine, la Via del Ceneri imbocca quindi la Via dei briganti, a cui è dedicato uno dei
Il roccolo è il punto più alto del percorso a 620 metri d’altitudine, poi si imbocca la Via dei briganti. (Elia Stampanoni)
cartelli didattici che, assieme agli altri collocati nei luoghi d’interesse selezionati, vogliono essere vivaci, basandosi sull’idea del «portarsi a casa un’esperienza». Sono pertanto costituiti da im-
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magini, illustrazioni, brevi testi e a volte arricchiti con proposte d’attività da svolgere, mentre la versione in tedesco, francese o inglese si può visualizzare tramite un codice QR. Dopo il roccolo la strada scende dolcemente in direzione delle selve castanili per poi raggiungere Robasacco che, dopo essere divenuto indipendente nell’Ottocento a seguito di un lungo contenzioso, s’accorpò a Cadenazzo nel 2005. Poco sotto il villaggio, nei pressi della sosta autostradale, è stato recuperato un vasto spazio ricreativo, grazie alla disponibilità dell’USTRA, Ufficio federale delle strade. Una volta raggiungibile dall’autostrada, la zona è oggi accessibile ai pedoni dal tracciato ed è stata trasformata in un luogo di riposo, svago e didattica. Sono anche state ideate attività dedicate all’equilibrio o ai sensi (vista, udito, olfatto e tatto), rendendola un’area adatta per una breve pausa e denominata anche Sosta dei viandanti contemporanei. S’arriva quindi velocemente a un altro importante tassello della Via del Ceneri, la Galleria del racconto, uno spazio creato nel sottopassaggio autostradale esistente, divenuto un posto dove scoprire l’evoluzione dei mezzi di trasporto e delle vie di comunicazione negli ultimi tre secoli. Nel tunnel, lungo un centinaio di metri, si vogliono spiegare come sono mutati i modi di viaggiare: da un lato sei ampi pannelli ripercorrono i principali eventi storici, mutamenti tecnologici e sociali, avvenuti nel mondo, in Europa, in Svizzera e in Ticino dal 1750; dall’altro lato, in 24 pannelli, si ripercorre l’evoluzione dei trasporti negli ultimi 300 anni, con una particolare attenzione alla realtà locale e nazionale e all’appuntamento con l’apertura del traforo di base del Ceneri.
Le luci nella Galleria del racconto s’attivano al passaggio dei visitatori, facendo anche dimenticare per un po’ il fatto di trovarsi proprio al di sotto dell’autostrada A2. All’esterno della galleria pedonale è stata infine creata un’aula didattica con un grande pannello, dove la sfida è quella d’inserire correttamente, lungo la linea del tempo, personaggi storici e mezzi di trasporto. Il sentiero sbuca di seguito nei pressi della linea ferroviaria, che viene varcata grazie a un altro breve tunnel per poi piombare rapidamente, verso il mulino e la pesta di Precassino in territorio di Cadenazzo, dopo aver affrontato anche alcuni scalini. Si tratta di un antico macchinario utilizzato in passato per macinare orzo e altri cereali e di cui oggi rimangono le pietre originali, mentre l’edificio, la ruota e diversi muri a secco sono stati ricostruiti grazie all’intervento dall’Associazione antico mulino del Precassino che ha effettuato una serie d’interventi (sostenuti anche dalla Commissione culturale di Migros Ticino). All’uscita dal bosco, da dove è pure previsto il prolungamento verso Bellinzona, è segnalato uno dei «cassinelli», ossia quelle costruzioni tipiche per la conservazione del latte, che s’incontrano spesso anche in altri itinerari in riferimento alla civiltà contadina. Questi edifici in pietra erano diffusi e numerosi nella regione, garantendo la bassa temperatura necessaria alla conservazione del latte grazie all’acqua di un ruscello che scorreva al centro del locale. L’itinerario si conclude (o inizia, per chi lo volesse percorrere nel senso inverso) presso la stazione ferroviaria di Cadenazzo, che da sempre si trova all’incrocio d’importanti vie di comunicazione.
Le Terre del Ceneri La realizzazione del nuovo itinerario segna la nascita di un più ampio progetto, frutto dell’alleanza dei comuni di Monteceneri, Cadenazzo e Gambarogno che, con il sostengo di diversi partner, hanno dato vita a Le Terre del Ceneri. Un’iniziativa che permetterà di unire una già ampia offerta di sentieri e itinerari storici (alcuni già proposti su «Azione» negli anni passati), come la strada storica del Montecenerino, la
Strada Regina, il sentiero Tra Monti e Lago, i tragitti di ForTi e, chiaramente, la rinnovata Via del Ceneri. Un nuovo tassello si è quindi aggiunto alle possibilità pedestri presenti sul territorio, la cui offerta verrà presto valorizzata con l’apertura della galleria di base del Monteceneri, la quale andrà a completare l’infrastruttura di AlpTransit e segnerà un altro momento significativo per la mobilità del Ticino.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Società e Territorio
Il Ticino delle banche
Pubblicazioni È uscito Un secolo di storia bancaria ticinese, libro edito per i 100 anni
dell’Associazione Bancaria Ticinese Si tratta di un volume celebrativo, che però può fungere (anche per un lettore non specialista) da agile introduzione allo studio di un tema economico di grande importanza per il nostro cantone. Se non è forse particolarmente originale l’idea che l’Associazione Bancaria Ticinese, la quale riunisce 28 banche ticinesi, cioè il 90% del personale attivo nel settore, abbia deciso di sottolineare il proprio secolo di vita con una pubblicazione, è però significativo che abbia pensato di affidare a un valente storico il compito di tracciare il percorso evolutivo del mondo bancario ticinese, dal 1920, data della fondazione dell’ABT, ad oggi. E soprattutto, è interessante che il volume non si configuri solo come un documento rivolto al passato, ma come un’occasione di riflessione per fare il punto sulle sfide future che le banche ticinesi dovranno affrontare domani. Lasciando da parte gli aspetti encomiastici, infatti, il volume affronta di petto, grazie a vari contributi e ad alcune significative interviste, i temi fondamentali che caratterizzeranno l’attività bancaria del futuro. La sezione storica di Pietro Nosetti (studioso che ha di recente pubblicato il bellissimo Le secteur bancaire tessinois, volume di cui parleremo più sotto) sottolinea come l’attività degli istituti e l’evoluzione del settore sia stata eccezionale nel corso del secolo scorso, fondamentalmente grazie alla prossimità del Ticino con la realtà economica della vicina Lombardia. Al saggio di Nosetti seguono poi i contributi di Tamara Erez, Direttri-
L’immagine sulla copertina del volume. (©Associazione Bancaria Ticinese)
ce del Centro Studi Villa Negroni, e di René Chopard, che ha occupato la stessa carica in precedenza. Il testo della Erez, intitolato La normativa dei mercati finanziari in Svizzera, vuole sintetizzare la complessità delle regole che occorre osservare per operare sui mercati ottemperando alle nuove regolamentazioni internazionali. Chopard, invece, nel suo La formazione: da conoscenze finanziarie individuali a fattore d’integrazione interdisciplinare, dimostra quanto la formazione continua e la creatività operativa che nasce dalla preparazione professionale siano carte
vincenti nel nuovo contesto dell’attività finanziaria attuale. In questo discorso viene così posto l’accento sulla funzione del Centro Studi Bancari stesso, che è forse l’istituzione più conosciuta e prestigiosa messa in opera dall’ABT. Il volume si conclude con tre interviste, a loro modo molto significative, perché anch’esse cercano di scandagliare il futuro, più che celebrare il passato. Ignazio Cassis, nelle sue vesti di Consigliere federale disegna con un certo ottimismo (e non potrebbe fare altrimenti) le possibili prospettive nell’evoluzione del settore, determina-
ta dall’enorme know-how sviluppato nel corso degli anni dalla Svizzera. Dal canto suo, Sergio Ermotti, CEO di UBS Group, riprende il leitmotiv dell’importanza della formazione, ricordando quanto la passione per la propria professione possa permettere ai giovani di intraprendere una carriera con ottime possibilità di evoluzione. Infine, Thomas J. Jordan, Presidente della Banca Nazionale Svizzera, chiarisce il punto di vista «regolatore » della BNS, che ha tra i suoi obiettivi quello di sostenere l’attività economica nazionale, tenendo in considerazione le esigenze dei vari settori economici, tra cui appunto, l’attività bancaria. La lettura del volume è, secondo il nostro modesto avviso, utile e consigliata. Forse più che per queste sezioni in un certo senso specialistiche e motivazionali, per la precisione e la stringatezza che caratterizza la ricostruzione storica di Nosetti. Sicuramente il suo volume scientifico, Le secteur bancaire tessinos. Origines, crises et transformations (1861-1939), di tema analogo ma diverso per taglio cronologico, è più completo e circostanziato e vale la pena qui di soffermarsi un momento per segnalarlo ai nostri lettori. Pubblicato nel 2018 dalle Editions Alphil – Presses Universitaires Suisses, il libro è nato innanzitutto come una tesi di dottorato discussa dall’autore nel 2017. Rielaborata nella sua forma per renderla più adatta a una pubblicazione vera e propria, la ricerca di Nosetti si può dire rappresenti il primo studio approfondito sulla na-
scita in Ticino di un settore economico che con il passare degli anni è diventato di fondamentale importanza e di respiro internazionale. Al di là dei suoi aspetti più specificamente legati alla riflessione sulla dinamica del settore, il testo è senz’altro fondamentale per ogni storico il quale voglia conoscere meglio gli enjeux economici che sottendevano, ad esempio, ai rapporti tra Ticino e Italia fascista. Nelle sezioni dedicate da Nosetti all’argomento, sarà possibile comprendere ancora meglio i legami finanziari che legavano le due realtà, ciò che sicuramente contribuirà a gettare qualche luce, di riflesso, anche sui legami culturali che tali stretti contatti economici avevano provocato. Ma per tornare ora al volume dell’ABT, Nosetti, disegnando il suo «specchietto riassuntivo» L’evoluzione della struttura e dell’attività bancaria in Ticino (1920-2018) e ripercorrendo la storia delle banche ticinesi dalla fine della Grande guerra fino al presente, offre spunti di riflessione utili sia a rinfrescare la memoria, sia a disegnare una immagine più chiara e concreta della nostra realtà economica e sociale. Ad essa il mercato bancario e finanziario ha dato, nel secolo scorso, e dà oggi, un impulso assolutamente determinante e, senza alcun dubbio, straordinario. / AZ Bibliografia
Un secolo di storia bancaria ticinese, Lugano, ABT, 2020 Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Società e Territorio
Se il comportamento è patologico
Dipendenze Reclusione forzata e incognite sul futuro, il periodo che stiamo vivendo può avere ripercussioni
www.bag.admin.ch/sucht
su chi già soffre di una dipendenza. Ne abbiamo parlato con Marcello Cartolano presidente di Ticino Addiction Alessandra Ostini Sutto La crisi provocata dal Covid-19 sta esercitando i propri effetti non solo sull’economia, ma pure sulla psiche della popolazione. Le restrizioni, le paure, le incognite sul futuro che si sono accumulate negli ultimi mesi sono di fatto un elemento destabilizzante, che può avere ripercussioni soprattutto sulle persone più vulnerabili. «Ci troviamo in un momento anomalo. Dovremo valutare cosa ci lascerà il periodo di forzata reclusione a casa e quello successivo della nuova “normalità”», afferma Marcello Cartolano, responsabile dei servizi ambulatoriali di Ingrado e presidente di Ticino Addiction. Il settore delle dipendenze rientra tra quelli che devono fare i conti con le conseguenze delle nuove modalità di vita imposte dal Coronavirus. «In un periodo di crisi, le instabilità psichiche – quali tensioni, ansie, conflitti e aggressività – sono maggiori e ciò può portare chi segue un percorso di riabilitazione ad essere meno motivato in quanto impegnato nel mantenere una sorta di equilibrio – spiega Cartolano – altro problema è quello dell’accessibilità delle sostanze. Soprattutto nelle settimane di “forzata reclusione”, il consumatore saltuario può essere stato portato ad utilizzare sostanze facilmente accessibili, come alcol o farmaci. Per le sostanze stupefacenti invece, il rischio è quello di trovarle di qualità inferiore o ad un prezzo superiore rispetto ad una situazione di normalità, con la conseguenza di dover adattare il consumo ai propri mezzi di sussistenza. Alcuni saranno riusciti a ridurlo, altri saranno stati confrontati con delle difficoltà esacerbate, per esempio astinenze pericolose o forti conflitti». Da qui la necessità delle associazioni attive in questo ambito di dare delle risposte ai nuovi bisogni, sia di chi è già seguito sia di chi si affaccia a queste problematiche. Ciò si traduce in un costante adeguamento dell’offerta da parte dei principali servizi che si occupano di dipendenze, nel rispetto delle raccomandazioni sanitarie. «Durante la fase di lockdown, i servizi preposti si sono occupati, per esempio, di distribuzione di materiale di consumo, materiale sterile e trattamenti, come pure dell’offerta di consulenze e psicoterapie, via chiamata o videochiamata. Nella fase
di allentamento, l’abbassamento della soglia di accessibilità di certe offerte permette di mettere a disposizione di chi ne ha più bisogno determinati trattamenti e misure di riduzione dei rischi», continua Cartolano, che ha assunto la presidenza di Ticino Addiction alla fine di agosto 2019: «A livello di Associazione, un gruppo di comitato si è chinato sulle nuove modalità di prestazione nei diversi ambiti – ambulatoriale, semi-stazionario, residenziale, oltre che negli gli approcci di prossimità –, sul capitolo della prevenzione e quello della riduzione del danno». Ticino Addiction è stata costituita nel 2010, con l’obiettivo di creare sul territorio cantonale una piattaforma che mettesse in contatto i professionisti del settore e desse modo di trattare di addictions e dipendenze anche con persone vicine o sensibili a quello che è un tema trasversale. «Attualmente nell’associazione c’è un’equilibrata rappresentanza delle varie professionalità come pure degli enti e servizi presenti sul territorio – aggiunge il presidente – con le corrispettive Grea (Groupement romand d’études des addictions) e Fachverband Sucht, Ticino Addiction costituisce una federazione, la quale, collaborando con le varie istanze cantonali e federali, può dare il proprio contributo nelle scelte politiche». Ticino Addiction si occupa poi di forma-
zione, perfezionamento, studio e diffusione della conoscenza nel campo delle dipendenze e delle addictions. Già, ma perché «addiction»? «Semplificando, con “dipendenza” si intende una condizione in cui l’organismo ha un bisogno fisico-chimico di una sostanza per funzionare; l’“addiction” spinge invece l’individuo alla ricerca dell’oggetto “del desiderio”, senza il quale fa fatica a portare avanti la sua esistenza», continua Cartolano. La differenza sta quindi tra l’oggetto del desiderio e il desiderio stesso. «Nell’ultimo decennio c’è stata una notevole dilatazione dei concetti di abuso e dipendenza: se prima si riferivano esclusivamente a sostanze come l’alcol e l’eroina, oggi includono un gruppo multiforme di disturbi, in cui l’oggetto non è necessariamente qualcosa che si consuma, ma pure un’attività, che peraltro può essere lecita – afferma il presidente di Ticino Addiction – a riguardo, va precisato che pure alcune sostanze sono socialmente accettate, quando non addirittura incoraggiate; basti pensare alle pubblicità di bevande alcoliche». Questa evoluzione ha cambiato in modo significativo il settore delle dipendenze, che vede i suoi «classici» affiancati da novità, le new addictions, tra cui rientrano, per esempio, il gioco d’azzardo, internet, il sesso (online e offline), il gaming desorder e la dipenden-
za da smartphone. Se nelle forme «classiche» c’è sempre l’assunzione di una sostanza psicotropa, le nuove dipendenze hanno come oggetto dei comportamenti accettabili in dosi moderate, i quali ad un certo punto sfuggono al controllo del soggetto, ricreando lo scenario classico del dipendente con i suoi sintomi. Si tratta quindi di forme più sfuggevoli, perché inserite in comportamenti normali: tutti lavorano, ma quando il mio impegno diventa patologico? Tutti fanno acquisti, ma quando il mio shopping diventa compulsivo? Appare così chiaro come queste nuove dipendenze siano in grado di interessare un numero maggiore di persone. «Esse possono venir considerate delle “malattie della post modernità”, dal momento che rispecchiano appieno tempi, modi e abitudini della nostra società, quali iperconnettività, velocità, immediatezza, abbondanza e banalizzazione», commenta Marcello Cartolano. Una società, quella attuale, in cui si assiste pure a quello che viene definito «policonsumo», il consumo cioè di diverse sostanze o la convivenza di più dipendenze: «Chi ha una dipendenza da sesso più facilmente potrà svilupparne una da sostanze stupefacenti, mentre chi ha una dipendenza da gaming potrebbe essere portato a fare uso di anfetamine, le quali, tra i loro effetti, hanno quello alienante», esemplifica Cartolano.
con sviluppi interessanti e originali, così come il richiamo a certi aspetti del Giardino Segreto, e persino di Heidi: basta guardare la prima illustrazione del volume (la Schaap naturalmente è anche l’autrice delle illustrazioni), dove si vede una donna che trascina per mano una bimbetta recalcitrante portandola alla Casa Nera da dove inizierà il suo viaggio iniziatico. La donna qui è una gelida maestra che svolge funzioni di «servizio sociale», lo scenario è il mare e non la montagna, ma sembra di vedere zia Dete che trascina Heidi (anche lei eroina di luce) all’isolata baita del Vecchio dell’Alpe. Può anche venire in mente – oltre agli archetipi dei freaks, degli ibridi, dei fenomeni da baraccone, ben presenti nel romanzo, che ha a cuore l’emarginazione e la diversità – nel commovente rapporto tra Lenny (il figlio grande e grosso ma ritardato della governante) e il bambino «pesce» (con un handicap fisico, almeno per quanto riguarda la vita sulla terraferma, ma molto colto e intelligente) quel meraviglioso classico moderno che è Basta guardare il cielo di Rodman Philbrick. Tutti questi riferimenti, inconsci o no
che siano, lungi dal togliere freschezza e originalità alla storia, la rendono più potente, nonché ben condotta da una scrittura (e dall’ottima traduzione di Anna Patrucco Becchi) che non rischia mai di diventare enfatica. Ben ritmato e tutt’altro che piatto è anche il meccanismo narrativo, basato sull’alternanza delle prospettive dei personaggi principali e su minimi scivolamenti avanti o indietro dell’asse temporale, a seconda del personaggio in cui in quel momento è focalizzata la storia.
Come detto in precedenza, nel caso delle new addictions il limite tra un comportamento condiviso e uno stato di dipendenza è sottile. Un elemento per identificare il limite è la percezione di perdita del controllo: «il soggetto vive con la convinzione di non riuscire a smettere, nonostante i tentativi», spiega Cartolano. Un altro elemento è la sempre maggiore centralità assunta dal comportamento problematico, al punto che esso diventa più importante delle attività quotidiane e prioritario sugli altri interessi della vita, nonostante crei conseguenze negative a livello personale, familiare, sociale o occupazionale. «Il senso del modo di dire “La dipendenza rende schiavi” è proprio quello che si entra nel patologico quando non si può più fare a meno di un consumo, comportamento o oggetto. Se il bisogno non può essere soddisfatto, gli effetti non tardano a farsi sentire: per esempio, uno stato di manco se non si assume cocaina, ansia e angoscia se non ci si può connettere o non si può soddisfare un desiderio di acquisto», afferma Marcello Cartolano. In questo «classiche» e «nuove» dipendenze sono simili. Nelle due categorie in effetti i meccanismi che si innescano sono gli stessi; a cambiare sono – come visto – gli oggetti del disturbo. «La “dominanza”, il fatto cioè che la sostanza o l’attività dominino, appunto, pensieri, sentimenti e comportamento, è collegata al meccanismo del “conflitto”, che si esprime in forma inter – o intrapersonale», spiega il presidente di Ticino Addiction. Anche l’«effetto di gratificazione», il fatto cioè di sentirsi appagati a breve termine, caratterizza, in generale, le dipendenze. «Nel tempo però, per ottenere i medesimi effetti positivi, è necessario aumentare l’attività da cui si è dipendenti – aggiunge Cartolano – e questo per mantenere un equilibrio, la “tolleranza”, e non andare in uno stato di astinenza». Per uscire da tali situazioni, nel caso di dipendenze classiche, si parte dalle terapie sostitutive, che consentono di prendere le distanze dalla sostanza ed iniziare un percorso di disassuefazione; queste vengono affiancate da una psicoterapia, centrale nelle dipendenze comportamentali, la quale mira a far sì che il soggetto possa riequilibrarsi rispetto ad un comportamento che condiziona la propria vita.
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Annet Schaap, Lucilla, La Nuova Frontiera Junior. Da 11 anni Lampje, «piccola luce» in olandese, diventa Lucilla nel titolo italiano: sebbene per noi esso sia un nome proprio, non dobbiamo dimenticarne il significato, relativo appunto alla luce, che la bambina protagonista – coraggiosa, resiliente, «con la stoffa dell’eroe» – espande attorno a sé. E dire che all’inizio tutto precipita proprio per un’assenza di luce, di quei fiammiferi che lei, figlia di un guardiano del faro depresso e alcolizzato, dimentica di comprare. La lanterna del faro non si accende, e una nave finisce contro gli scogli. Per riuscire a rimborsare il danno, Lucilla sarà costretta a lavorare come inserviente alla casa dell’Ammiraglio, la Casa Nera, su cui circolano cupe dicerie. E da qui, con un ritmo molto ben gestito da un’autrice al suo esordio (Annet Schaap è un’illustratrice affermata ma questa è la sua prima prova letteraria), si dipana l’avventura della piccola protagonista e di tutti gli intensi personaggi che incontrerà. Personaggi spesso provati dal dolore, induriti o infragiliti, verso i quali lei sempre proverà compassio-
ne, offrendo il suo aiuto e cambiando il destino di molti di loro, mentre altri, i «cattivi» (e qui ce ne sono, di adulti freddi o abbietti) preferiranno le ombre e non ne accoglieranno la luce. Sin dal topos della «casa maledetta», troviamo in questa storia una serie di riferimenti ad archetipi fiabeschi o a temi letterari. C’è la «stanza proibita» in cima alla torre, dove vive, rincantucciato sotto il letto, uno strano bambino «mostruoso», un bambino triste e diffidente, un bambino reietto dalla coda di pesce. Il richiamo alla Sirenetta di Andersen emergerà sempre più chiaramente, ma
Kateryna Mikhalitsyna – Oksana Bula, Chi vive nel giardino?, Jaca Book. Da 4 anni Un duo di autrici ucraine dà vita a questo bell’albo che porta i bambini a fare conoscenza con alcuni alberi di un vecchio giardino. Di Oksana Bula, l’illustratrice, abbiamo già avuto modo di parlare a proposito del suo Orso non vuole dormire, di cui firmava anche il testo. Qui i testi sono invece di Kateryna Mikhalitsyna, insegnante di biologia, oltre che scrittrice. E in effetti c’è sia l’aspetto scientifico, seppure delineato in modo semplice, adatto ai più picci-
ni, sia l’aspetto narrativo, attraverso l’espediente di un usignolo che cerca l’albero più adatto ove fare il suo nido. Nel corso di questa ricerca, avrà modo di dialogare con vari alberi e arbusti (resi espressivi dalle poetiche illustrazioni) e di conoscere le loro particolarità. Sullo sfondo, vengono evocate dagli alberi anche una nonna e una bambina, che curano il giardino e ne raccolgono i frutti. Sarà alla voce della nonna, e al melodioso canto dell’usignolo, che verrà affidato il finale. Suoni, quindi, e anche profumi, i profumi dei frutti del giardino, tanto buoni «che perfino il nonno sorriderà da lassù nel cielo».
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi Liberi tutti Con questa seconda e si spera ultima rubrica intendo concludere il mio contributo ad una futura altropologia del contagio che – certo nella versione certificata della disciplina, non mancherà di produrre quintalate di letteratura. Come i lettori attenti certo hanno notato, il vostro altropologo di riferimento preferisce commentare su terreni storici e culturali distanti nel tempo e nello spazio. Questo poiché la distanza prospettica aiuta a contestualizzare i singoli fenomeni per poi riportarli, come una sorta di calcolo azimutale di sestante, sulla sequenza dei fatti vicini e famigliari. Questa una delle essenze dell’antropologia: rendere ciò che appare lontano e diverso famigliare al fine di rendersi conto di quanto strano possa essere ciò che appare a prima vista ovvio e famigliare. Ci sono però eventi epocali che costringono a riportare lo sguardo sulle coordinate di casa. La crisi globale del CV19 appartiene a quella casistica. Non saprei esprimermi sul fatto se
o meno quanto sta succedendo (e succederà) cambierà in maniera fondamentale usi, costumi, pratiche e tradizioni. Non foss’altro perché tanto i profeti di sventure catastrofisti quanto i loro antagonisti continuisti – quelli ovvero dell’«andrà tutto bene» – concordano nel prendere a misura di quanto il bicchiere sia mezzo vuoto e mezzo pieno il concetto di «normalità». Status quo ante al quale mai più ahinoi torneremo dovendo espiare i nostri peccati di sovrasviluppo per gli uni, laddove per gli altri, passata la nottata, ci sveglieremo dall’incubo con la solita tazzina dell’espresso pronta a farci ripartire. Vedremo. E non è il «vedremo» scettico di chi si può permettere il lusso di filosofare mentre Roma brucia (anche se riconosco che di quelli ce ne sono ormai tanti e in crescita). È piuttosto una sospensione del giudizio che invita in prima battuta a mantenere alto il livello dell’osservazione per individuare sul nascere le even-
tuali variazioni ad una «normalità» che – francamente – sfugge a qualsiasi definizione poiché ciascuna biografia è unica ed irripetibile. Quale «normalità»? Dove? Quando? Per chi? Una vita, tutte le vite sono stati d’emergenza e di eccezione. Sennò non esisterebbero né dolore né felicità che della «normalità» sono i cronici, Unheimliche freudiani perturbanti. In secondo luogo, e spero meno filosoficamente parlando, il nostro «vedremo» vuole essere una messa in guardia contro la tendenza in atto da almeno quarant’anni nell’ambito delle scienze sociali del cosiddetto Occidente di attribuire ciò che sono le variabili e le variazioni riscontrabili in ambito culturale (e dunque storico e sociale) a cause naturali. A partire dal successo dell’etologia di Konrad Lorenz per proseguire con la Sociobiologia di Edward Wilson e per finire oggi (ma non è finita) con il best seller di Kyle Harper sulla fine dell’Impero Romano, il determinismo eco catastrofista che
vede le disgrazie umane causate dal comportamento umano che innesca la vendetta biologica (spingo la logica dell’argomentazione fino alle estreme conseguenza per tirannia tipografica – al lettore fare la tara) si fa strada a grandi passi nella «lettura» collettiva anche del CV19, la versione contemporanea e parallela della caduta dell’Impero secondo Harper. Ultimo prodotto di questa linea di comprensione di quanto ci sta succedendo è la biologizzazione - ovvero naturalizzazione – dei comportamenti a- e anti-«normali» imposti dalla crisi corrente. Si è cominciato dal concetto di lockdown, «la serrata». Resa necessaria, al meglio delle nostre conoscenze, dalla necessità di ridurre il contatto fisico e dunque le chance di contagio si è presto trasformato – in Fase Due – nella necessità di mantenere «la Distanza Sociale». Qui si assiste ad un curioso, antropologicamente interessantissimo, gioco delle parti: l’inversione del
significato gerarchico, dunque politico e sociale, del concetto della «distanza sociale» per sostituirlo con quello biologico e prossemico della distanza fra i corpi. Per converso, la sostanziale dimensione «biologica» dell’anormale segregazione del lockdown si trasforma in Fase Due in un concetto normativo e giuridico – per quanto ludico ed infantilizzante – così come espresso nel «liberi tutti» che ormai infetta – con le immancabili dispute polemiche – il vocabolario mediatico del Contagio. Musical Chairs, «sedie musicali» sulle quali ci si siede a caso al mutare della musica: antico gioco di società inglese divenuto espressione che stigmatizza chiasmi e paradossi di una condizione culturale sempre più fluida – o meglio viscosa. Dove il «biologico» ed il «sociale» si ibridano e confondono in maniera preoccupante. Muta random il CV19? Non è un virus «normale»? Glielo faremo vedere noi come si stravolgono i confini della normalità.
affettive perché le passioni urgono per la loro realizzazione, vogliono essere riconosciute, condivise, apprezzate... invidiate. A un certo punto accade inevitabilmente lo scandalo della scoperta, l’irruzione di una verità che colpisce tutti: il mentitore e le persone coinvolte, da una parte e dall’altra dello schermo, con conseguenze indelebili. Mentre il dolore potrebbe essere elaborato e superato, la perdita della fiducia destabilizza il rapporto coniugale e dopo… nulla sarà più come prima. Tanto più che, come nel suo caso, anche la vittima si scopre complice nel senso di non essersi accorta di nulla prima, di aver provocata, con la sua curiosità, la catastrofe poi. Per aver agito per difendere la famiglia, la moglie tradita si sente giustificata eppure avverte, per la sua intrusione nell’intimità dell’altro, un senso di vergogna e di colpa. Vorrebbe smettere di comportarsi come un detective, ma come si fa a non indagare quando la mancanza di fiducia ali-
menta il sospetto? La curiosità diventa così un habitus, una dipendenza che paradossalmente tiene viva la relazione in un alternarsi di illusioni e delusioni. Il rapporto di coppia si immobilizza così nella contraddizione «né con te né senza di te» che attualmente l’imprigiona. Lei giustamente non chiede consigli ma riflessioni ed è tutto quello che posso offrirle perché questi mutamenti catastrofici sono avvenuti così in fretta da lasciarci tutti sorpresi e impreparati. Ci vogliono testimonianze come la sua per trasformare il dolore individuale in esperienza collettiva, per trovare soluzioni condivise, per trasformarci da spettatori ad attori del nostro tempo.
za che modificano la scala dei valori, e quindi le corrispondenti parole. Fatto sta che proprio distanza definisce ormai un paradosso: chi la pratica nei tuoi confronti, lo fa per il tuo bene. Se, in apparenza ti rifiuta, in realtà si preoccupa della tua salute. Distanziarsi riveste un significato terapeutico, è una sorta di farmaco efficace. Ora, al pari di ogni medicinale, anche la distanza può produrre effetti collaterali. Già per via della sua stessa denominazione, accompagnata dall’aggettivo «sociale». Un abbinamento discutibile che doveva provocare l’intervento del sindacalista luganese Gargantini: «A scanso di equivoci, si sostituisca sociale con fisico». Ma, oltre che dal profilo politico, questa parola d’ordine si presta a riflessioni d’ordine psicologico e morale. Ha, infatti, creato una categoria d’interpreti zelanti, veri e propri patiti dell’obbedienza, che sfoggiano la loro superiorità di campioni sul fronte della consapevolezza civica e sanitaria. Se li incontri, girano al largo, lanciandoti, al
di sopra della mascherina, uno sguardo di timore e di rimprovero. Insomma di dichiarata inimicizia. Ora, questo diffuso comportamento, ispirato alla paura dell’altro quale possibile contagioso, ha indotto Papa Francesco, acuto osservatore del costume contemporaneo, a esprimersi proprio sulla funzione dello sguardo «per vedere nell’altro una persona da avvicinare, con cui condividere. Qualcosa di vertiginoso: il senso stesso dell’esistenza». Quanto poi la distanza, cioè l’assenza di contatti d’ogni tipo, sia innaturale e pericolosa nella nostra quotidianità lo spiega bene un illuminato laico: Zygmunt Bauman, in uno dei suoi più popolari saggi Stranieri alle porte (edizioni Correre della Sera). Vi racconta la storia dell’umanità attraverso la crescita, lo stare insieme, il conoscersi reciproco. Un capitolo s’intitola Insieme e accalcati, parole intese in senso positivo. Ma che, essendoci vietate, rischiano di suscitare la reazione opposta. Mi capita, lo confesso, di rimpiangere rumori e folla.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi Relazioni virtuali e relazioni reali Cara Silvia, leggo sempre molto volentieri la sua rubrica e ho un grande bisogno di sapere cosa pensa della mia situazione. Sono sposata da 18 anni con M. (50 anni), all’epoca in cui ci siamo conosciuti avevo apprezzato il suo essere molto serio, di sani principi e posato. Abbiamo avuto due figli, ora in età adolescenziale. Circa tre anni fa mi sono accorta dell’uso esagerato che mio marito stava facendo del suo telefonino, costantemente online con chi… non sapevo bene e, andando a curiosare nel telefono (come ormai succede sempre più spesso), ho scoperto un suo mondo parallelo fatto di conversazioni ogni ora e minuto del giorno con varie donne. Si era completamente estraniato dalla realtà, non era la persona che avevo conosciuto. Con alcune era molto intimo solo online (lo chiamavano «amore mio»), con una in particolare ha avuto una relazione. Mi è caduto il mondo addosso e ho perso tutti i punti di riferimento. Lui si è dispe-
rato, ha giurato che io sono l’unica, che ama solo me e che non potrebbe vivere senza di me, ha negato per moltissimo tempo di avere questa relazione e mi ha promesso che avrebbe interrotto immediatamente questi contatti, ma c’è voluto molto tempo (tre anni) e nel frattempo ho dovuto scoprire innumerevoli volte che si scriveva ancora con quella della relazione e un’altra. Io non ho avuto la forza di distruggere la nostra famiglia, lo amo davvero e di base il nostro rapporto è sempre stato vivo, sessualmente parlando non abbiamo mai avuto periodi di pausa e abbiamo costruito (credevo) un rapporto solido… probabilmente mi sbagliavo. Non ne abbiamo parlato con nessuno, non ci siamo fatti aiutare ed ora la situazione è pesante. Non mi fido più. Quello che mi fa disperare sono in sostanza due cose: il non riuscire più a fidarmi di lui (sistematicamente ogni volta che recupero fiducia trovo qualcosa che mi fa capire che lui non ha di-
menticato), inoltre non posso dirgli che continuo a frugare nelle sue cose. Me ne vergogno e ho paura della sua reazione. Ma non riesco a farne a meno… Vorrei però ritrovare un po’ di serenità. Grazie. / Manuela Cara Manuela, mi scusi se ho dovuto, per motivi di spazio, ridurre la sua lettera ma credo che l’essenziale si sia conservato. La situazione in cui si dibatte è emblematica dei tempi in cui viviamo e, come tale, ci riguarda tutti. La possibilità di vivere contemporaneamente in due dimensioni: una reale, insufficiente, contraddittoria e irreversibile, l’altra virtuale, illusoriamente ideale, governabile, cancellabile con un click, ci espone a conflitti difficili da risolvere. Conflitti che il cibernauta tenta di evitare ricorrendo al silenzio, alla negazione, alla bugia. Ma è impossibile tener separati i due piani dell’esistenza quando si tratta di relazioni
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Distanza: effetti collaterali possibili e di socializzazione sostitutive, entrate nei comportamenti individuali correnti, e che, oltretutto, divertono i bambini. Tipo la sgomitata surrogato della stretta di mano, o il braccio alzato alla militare, o il ciao lanciato, ad alta voce, da un conoscente sull’altro lato della strada, o dal finestrino abbassato dell’auto. Al di là di questi aspetti persino folcloristici, l’obbligo della distanza mette a dura prova chi gestisce ritrovi e servizi pub-
Pixabay
Un metro o due, no tre, forse cinque o magari di più se tira vento: qual è la giusta distanza, in grado di garantire l’incolumità dai contagi, impliciti nella vicinanza? L’interrogativo è diventato cruciale, adesso, nella fase 2 dell’emergenza. Con la riapertura di scuole, negozi, palestre, parrucchieri e bar, per forza di cose girano più persone. Tenute però a evitare incontri ravvicinati, effusioni, assembramenti. Da qui, forme di saluto
blici, luoghi destinati alla collettività. Ecco baristi e ristoratori impegnati a misurare lo spazio fra i tavoli, parrucchieri a eliminare poltrone e specchi per una clientela sfoltita, edicolanti a ripararsi dietro il plexiglas. Quanto mai ingrato, il ruolo del vigile che, sulla soglia dei supermercati, incanala i compratori lungo percorsi indicati da frecce sul pavimento e delimitati da nastri e barriere. Per non parlare degli insegnanti alle prese con l’equazione: classi dimezzate=aule raddoppiate. Insomma, sparpagliare gli allievi, ma dove? Sembra, tuttavia, che pur fra malumori e rassegnazione, i nostri concittadini si siano adeguati. Facendo di necessità virtù. Sempre che, di virtù, si tratti. Il termine distanza qualche sospetto lo giustifica. Basta consultare il dizionario per trovare indizi rivelatori nei suoi sinonimi: lontananza, indifferenza, disparità, estraneità. E la dice lunga l’espressione «tenere le distanze». Che, adesso, si presenta con nuovi connotati, come avviene in situazioni d’emergen-
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Ambiente e Benessere Tra pirati e pescatori Il fascino del vecchio porto di Chattogram è messo a rischio da un rinnovo
Keyless Access & Start Il nuovo SUV Peugeot 2008 si allinea alla tendenza di rendere l’auto sempre più tecnologica
Gamberi alla buzera La tradizione pretende che vengano cotti interi nella pura salsa rossa di pomodoro pagina 27
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Fitoterapia ansiolitica Camomilla e Melissa sono, fra le piante medicinali calmanti, quelle più note
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I buoni esiti del virus ostile Covid-19 Le conseguenze della pandemia
mondiale non sono solo negative: ha fatto diminuire l’inquinamento e messo in crisi attività a forte impatto ambientale
Loris Fedele Un vecchio adagio dice che «Non tutti i mali vengono per nuocere». È difficile trovare qualcosa di buono nella pandemia che ci sta attanagliando e che ha fatto prendere ai politici di tutto il mondo le misure di confinamento che ben sappiamo. Eppure, quel che è successo ha fornito l’occasione per porsi diversi interrogativi nei campi più disparati. A livello ambientale, per esempio. È bastato un mese di blocco generalizzato di molta parte del traffico su strada per riscoprire il piacere di respirare aria più pulita. Il cielo appariva più limpido, le serate più chiare, l’atmosfera meno inquinata. La scienza è venuta subito a suffragare con i dati questa impressione. Tra gli inquinanti che si stratificano nella parte bassa della nostra atmosfera vi sono gli ossidi di azoto. Molti di essi sono innocui per la salute umana ma ce n’è uno che invece ci preoccupa: è il biossido di azoto (NO2), liberato in atmosfera dalla combustione dei carburanti. Si tratta di un gas irritante se viene respirato in forte concentrazione: esso può contribuire allo sviluppo di asma e infezioni respiratorie. L’NO2 interagisce con l’acqua, l’ossigeno e altri prodotti chimici nell’atmosfera per formare quelle famose piogge acide che notoriamente creano danni agli ecosistemi quali laghi e foreste. Ebbene, il satellite dell’Agenzia spaziale europea Sentinel-5P ha presto segnalato una riduzione significativa delle concentrazioni di biossido di azoto dopo il blocco dovuto al Covid-19. Questo satellite fa parte del sistema Copernicus di osservazione della Terra, al quale anche la Svizzera contribuisce. È preposto, tra l’altro, alla mappatura dell’inquinamento atmosferico in Europa e Cina. Sulla pianura padana, una zona che interessa da vicino il Canton Ticino, la diminuzione si è aggirata su valori di riduzione attorno al 50 %. Le misurazioni sono avvenute a partire
dal 23 febbraio. Il Sistema nazionale di Protezione Ambientale le ha elaborate con piattaforme in grado di integrare i dati forniti dal satellite. Anche nel periodo marzo-aprile si è mantenuto un tasso di riduzione delle concentrazioni sopra il 40%. Per quanto riguarda la Cina si oscilla tra il meno 20-30% di particolato nell’atmosfera rispetto ai valori degli ultimi tre anni di misurazioni. Negli Emirati Uniti in questi mesi siamo sul 26%, nel Regno Unito addirittura tra il 20 e l’80% a seconda delle zone. Le concentrazioni variano di giorno in giorno a causa della meteo e, poiché la chimica dell’atmosfera non è lineare, vanno verificate nell’arco di almeno dieci giorni consecutivi per poter valutare l’effettivo impatto delle attività umane sul fenomeno. Nel campo dei cambiamenti climatici i pochi mesi di chiusura non permettono valutazioni precise. Per l’anidride carbonica (CO2), e in generale per i gas a effetto serra, i conteggi sono più complicati, soprattutto perché la CO2 ha una permanenza in atmosfera di 100 e più anni e quindi stiamo scontando anche le emissioni passate. Però un articolo di «Scientific American» del 17 aprile scorso ha visto questo periodo di riduzione del traffico e delle attività industriali come un’occasione unica per cercar di chiarire l’impatto sul clima degli aerosol atmosferici. Gli aerosol atmosferici sono minuscole particelle e goccioline immesse nell’aria da molte fonti, che vanno dalla combustione delle sostanze fossili allo spargimento dei fertilizzanti e all’evaporazione delle acque. Alterano le proprietà delle nubi, intercettano gli ultravioletti della radiazione solare e altro ancora, tutti fattori che influenzano la temperatura globale. Nel complesso si ritiene che gli aerosol aiutino a raffreddare il clima, compensando in parte il riscaldamento dovuto all’effetto serra. Ma non vi sono certezze, soprattutto per la difficoltà di analizzare il loro ruo-
La pandemia potrebbe provocare la fine della pratica del fracking, ovvero della trivellazione della terra per il recupero di idrocarburi. (www.publicdomainpictures.net)
lo con o senza le fonti che li producono. Ora i blocchi dovuti alla pandemia hanno eliminato temporaneamente alcune di queste fonti e quindi si possono fare dei confronti e notare delle differenze. Quello che sta cercando di capire il «Center for International Climate Research» norvegese è quale frazione di aerosol nell’atmosfera derivi dalle attività umane e quale da fonti naturali. Il calo attuale può dare informazioni sui livelli di fondo degli aerosol naturali. Più durerà la fase di stallo e più si potranno accumulare dati per le ricerche scientifiche. Il coronavirus rischia poi di innescare indirettamente anche un altro effetto a favore dell’ambiente. La drastica riduzione dei trasporti e soprattutto la massiccia riduzione dei voli aerei, oltre a ridurre l’inquinamento atmosferico, ha fortemente ri-
dimensionato il consumo di petrolio, con conseguente crollo della domanda rispetto all’offerta e relativo crollo dei prezzi. Il prezzo di un barile di petrolio varia continuamente ma si è scesi a un livello così basso che certe tecniche di estrazione non sono più redditizie e rischiano di essere ridotte o abbandonate. Mi riferisco in particolare al fracking, la fratturazione idraulica, che costituisce una delle tecniche dall’impatto ambientale più preoccupante. Il fracking nacque 22 anni or sono ed è praticato (soprattutto negli Stati Uniti) per estrarre idrocarburi che sono imprigionati in strutture argillose situate tipicamente a 1-3 km di profondità nel sottosuolo. Il prodotto è un idrocarburo chimicamente identico a quelli convenzionali al quale si è dato il nome di shale oil. Per estrarre questa sostanza si tri-
vellano pozzi orizzontali lunghi diversi chilometri, nei quali vengono fatte brillare cariche esplosive. Poi si inietta acqua ad alta pressione in grandissima quantità, mescolata con sabbia e additivi chimici. Le rocce si frantumano liberando petrolio oppure gas, che salgono in superficie attraverso il pozzo. L’acqua utilizzata deve essere smaltita come rifiuto nocivo in quanto contaminata. L’impatto ambientale nelle zone di estrazione del petrolio o del gas di scisto è fortissimo. Se poi le tubazioni dei pozzi non sono a perfetta tenuta si possono inquinare le falde acquifere. Inoltre, anche la sabbia usata va trasportata via e trattata e raffinata per poterla riutilizzare generando altri costi ambientali. Se il coronavirus deciderà la morte della pratica del fracking, l’ambiente terrestre ne beneficerà di sicuro.
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Ambiente e Benessere
Vele nere su Abhay Mitra Ghat
Viaggiatori d’Occidente Attracco per pirati e pescatori, il vecchio porto di Chattogram, nel Golfo del Bengala,
è oggetto di un possibile ammodernamento che distruggerebbe la sua stessa storia
L’arrivo in porto delle navi da carico. (Sul sito www.azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia)
Cristina Gemma, testo e foto Chattogram, con i suoi sei milioni di abitanti, è seconda solo a Dacca, la capitale del Bangladesh. A Chattogram la modernità ha calcato la mano con raffinerie e industrie chimiche, ma restano la cerchia delle verdi colline, le foreste, il Lago Foy e spiagge infinite. Santuari, moschee, templi buddisti o indù invitano a un risveglio spirituale. Chattogram è uno dei più antichi porti del mondo: il porto è esistito prima della città, il porto ha creato la città. Il perfetto approdo naturale all’estuario del fiume Karnaphuli – tra i Chittagong Hill Tracts e il Golfo del Bengala, una dozzina di chilometri a ovest del centro – era noto ai marinai arabi già nel IX secolo. I navigatori portoghesi e veneziani lo chiamavano Porto grande. Chattogram commerciava con Cina, Sumatra, Sri Lanka, Maldive, Africa orientale e Medio Oriente. Una fantastica varietà di merci si accatastava sulle sue banchine: perle, seta, riso, cavalli, polvere da sparo… Per la sua ricchezza, la città fu sempre contesa: nel XIV secolo fu legata al Sultanato del Bengala, poi fu preda dei Portoghesi, nel 1666 fu riconquistata dall’Impero Moghul, infine un secolo dopo passò saldamente nelle mani degli Inglesi attraverso la Compagnia delle Indie orientali. Nella sua ultima incarnazione, Chattogram è diventata il primo porto del Bangladesh e il terzo d’Asia. Come tutti i porti, mescola genti, lingue, culture, fedi, ricette. È multiculturale, inclusiva e tollerante: anche i suoi santi musulmani sono i miti sufi. Da diversi anni vivo qui ma, nonostante le diverse possibilità, quasi ogni giorno i miei passi mi conducono al porto vecchio, Abhay Mitra Ghat, sulle rive del fiume Karnaphuli, nella zona di Sadarghat. Da tempo l’amministrazione cittadina vuole rinnovare e ampliare quest’area, scavando il fondale e ricostruendo la banchina, ma ai miei occhi proprio la sua aria d’altri tempi me la rende così cara. Ad Abhay Mitra Ghat l’attività principale è la pesca nel Golfo del Bengala. E ogni giorno all’alba, nel retro del
porto, apre il mercato del pesce. I compratori – ristoratori o gente del popolo – attendono il ritorno delle barche dal mare, poi il pesce fresco viene offerto in ceste intrecciate a mano o in vasche piene d’acqua. Si vende anche pesce essiccato, crostacei e le buonissime uova di Ilish. C’è una meravigliosa confusione: chi scarica il pesce, chi trita il ghiaccio, chi grida prezzi e magnifica la propria merce.
Le diverse aree del porto sono collegate da una lunga banchina. Mi piace passeggiare qui durante il giorno, quando i marinai riparano le reti e preparano le barche. Verso sera i numerosi tea shop e i piccoli ristorantini economici sono affollati di cittadini in libera uscita: qualcuno passeggia, altri giocano a cricket con gli amici sull’erba. E poi non mi stancherei mai di guardare i meravigliosi sampan.
Operai giornalieri intrecciano le nuove reti da pesca.
Le barche tradizionali del Golfo del Bengala hanno una caratteristica forma a U, con la punta della prua rivolta verso l’alto, e oltre alla pesca sono utilizzate anche per le merci o come traghetto sul Karnaphuli. Alcune sono spinte dal motore, le più vecchie tuttavia inalberano ancora le tradizionali vele nere, come al tempo dei pirati; secoli fa infestavano queste acque saccheggiando la città, depredando i mercantili e razziando schiavi a migliaia. A dire il vero la pirateria non è mai scomparsa del tutto: abbordaggi in mare e rapimenti sono ancora frequenti. A bordo dei sampan di giorno si lavora, si cucina, si dorme, aspettando la notte per uscire a pescare. I pescatori vengono assunti a giornata e vivono a ridosso dell’area portuale oppure vengono da altre regioni del Bangladesh e per lunghi mesi non possono vedere le loro famiglie. Di notte piccoli falò illuminano la banchina del fiume: alcuni continuano a lavorare come possono, altri invece cercano di rilassarsi in compagnia masticando foglie di betel, cantando o raccontando storie; o forse più probabilmente si lamentano del misero salario, dei pericoli e delle troppe ore di lavoro. Il mondo dei sampan è strettamente maschile: per una straniera sola
La riparazione delle reti da pesca.
Venditore di pop corn.
sarebbe impensabile salire a bordo. Ma una volta, con l’aiuto di un amico fotografo, ho tentato una breve visita raccogliendo un invito al volo. Per salire ho camminato in bilico su una stretta e lunga tavola di legno oscillante, tenendo le braccia aperte come le ali di un uccello. Arrivata a bordo, i pescatori sono usciti da tutti gli angoli per vedere i nuovi ospiti. Era l’ora della cena e il volto del cuoco si affacciava dalla finestrella di una minuscola cucina, probabilmente appena sufficiente per un uomo seduto con le gambe incrociate davanti a una bombola di gas da campeggio (il profumo del cibo però era ottimo). Dialogando in un inglese molto arrangiato ci hanno portato a fare un giro sul ponte della nave e ci hanno offerto una tazza di tè. Di entrare nella stiva mi è mancato il coraggio, sentivo che l’iniziale stupore e l’amichevole curiosità si stavano lentamente trasformando in qualcosa di diverso e forse pericoloso. La situazione a un certo punto si è surriscaldata, il gruppo di marinai si stringeva intorno a noi e abbiamo preferito scendere abbastanza in fretta. Ci siamo salutati da lontano, mentre la moschea chiamava alla preghiera e la luce del giorno andava spegnendosi.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Ambiente e Benessere
La chiave non serve più
Motori Il veloce sviluppo tecnologico dei veicoli potrebbe farci assistere in breve tempo alla definitiva scomparsa
di uno strumento meccanico antico in uso da quattromila anni, ormai obsoleto
Mario Alberto Cucchi Hanno sempre quattro ruote e un volante, eppure le auto di oggi sono molto diverse da quelle del secolo scorso. Che poi a voler ben vedere il secolo scorso era «solo» vent’anni fa. Che cosa le ha cambiate così tanto? Principalmente la tecnologia, messa al servizio degli automobilisti da parte dei Costruttori. Ogni anno sono stati reinvestiti parte degli utili per assumere squadre di capaci ingegneri con il compito di realizzare veicoli sempre più ecologici, connessi e sicuri. Come spesso capita, l’uomo si abitua in fretta alle nuove situazioni e dopo un breve lasso di tempo dimentica il passato. Facciamo un esempio prendendo a prestito un accessorio delle «quattroruote»: dal mangianastri al lettore cd, dal minidisc alla chiavetta usb, sino alla musica trasmessa via Bluetooth utilizzando il telefonino. E le cassette sono già «reperti da museo». Stessa sorte potrebbe presto toccare alle chiavi. Nate all’epoca degli antichi egizi, rappresentano da circa quattromila anni lo strumento per accedere a qualcosa che è interdetto a chi non le possiede. Nel mondo dell’auto, le chiavi hanno subito piccole e grandi evoluzioni nel corso della storia. Partendo da un semplice pezzo di metallo con una sezione dentata, si sono trasformate diventando un telecomando con chiave metallica integrata in cui quest’ultima non si vede neppure più. Da sempre, rappresentano
Peugeot Suv 2008 - La libertà del Keyless Access & Start.
l’elemento fondamentale per poter utilizzare un’automobile, per aprirla e per accenderla. Oggi però sono destinate a scomparire nel breve periodo. Per un po’ esisteranno ancora, ma le vedremo sempre di meno. Il nuovo SUV Peugeot 2008, ad esempio, può essere dotato di sistema
L’indaco del popolo blu
Mondoverde Un allegro cespuglio
in fioritura da inizio giugno fino all’autunno Anita Negretti Cosa accomuna la popolazione Tuareg a un arbusto da giardino? La risposta non è per nulla semplice e passa dalla conoscenza di una pianta che prende il nome di Indigofera tinctoria (Indaco dei tintori). Arbusto, per l’appunto, che nelle tribù Tuareg (nomadi del Sahara) viene ancora oggi utilizzato per tingere di indaco i tessuti da loro filati, con l’inconveniente di perdere colore rapidamente lasciandolo sulla pelle di chi indossa queste vestiti, da cui deriva il soprannome di «popolo blu». Indigofera tinctoria è infatti una piccola pianta con scarso valore decorativo, ma molto nota fin dall’antichità per i suoi pigmenti di colore molto intenso: gli antichi egizi ad esempio usavano questo colore per intingerci le bende con le quali fasciavano le mummie e ancora oggi in India vi sono intere piantagioni di Indigofera tinctoria adoperate per la loro preziosa tintura. Tra le specie più belle di Indigofera, da coltivare al sole o a mezz’ombra, tro-
Fiore di un’Indigofera tinctoria. (Pancrat)
viamo Indigofera heterantha dai fiori rosa carico, riuniti in spighe di 5-6 centimetri di lunghezza e portati su rami lunghi e ricurvi che formano un allegro cespuglio in fioritura da inizio giugno fino all’autunno. Dai fiori più chiari ma ugualmente allegri, troviamo Indigofera decora, un arbusto alto non più di 60 centimetri e largo quasi un metro, con foglioline composte, verde lucido, e fiori rosa chiaro riuniti in racemi di 20 centimetri. La varietà I. decora «Alba» è molto simile alla specie, ma con fiori bianchi. Dal portamento più sviluppato, visto che raggiunge i due metri di altezza e di diametro della chioma, troviamo I. pseudotinctoria con grappoli violacei lunghi fino a 15 centimetri. Senza esigenze particolari, le indigofere non temono il freddo tant’è che resistono anche fino a -15°C e non hanno nemmeno problemi di terreno: si adattano anche a quelli argillosi. Questi arbusti compatti si presentano come piante decidue che appartengono alla famiglia delle Papilionaceae e hanno origine nelle regioni tropicali e sub tropicali, adattandosi molto bene al nostro clima. Non richiedono cure particolari se non una cimatura di tutti i rami a inizio marzo, per mantenere le piante sempre giovani e con rami molto produttivi, mentre in estate è utile irrigare settimanalmente per mantenere i fiori in perfetta forma. Al fine di creare un angolo fiorito con un arbusto di Indigofera, vi consiglio di abbinarla a una Perovskia atriplicifolia (Salvia russa), a una Gaura bianca o rosata e a un gruppo di crisantemi a fioritura autunnale, sui toni del viola, per prolungare la fioritura dell’aiuola fino ai primi freddi.
Keyless Access & Start di ultima generazione. Una tecnologia che permette di evitare azioni rituali necessarie con i precedenti sistemi analoghi come appoggiare la mano su un punto preciso della portiera per ottenerne la chiusura. In pratica grazie a questa tecnologia la chiave esiste ma non va mai tirata fuori.
Neppure per chiudere l’auto. Può tranquillamente restare sempre in tasca o nella borsa. Come funziona? Tutto avviene automaticamente attraverso un dialogo in codice criptato tra la chiave (trasponder, ndr) e la centralina della nostra vettura. Il risultato è che le portiere si aprono ogni volta che il proprietario
si avvicina e si richiudono non appena si allontana. Tutto qui? Assolutamente no. Sono state codificate tre zone di riconoscimento della chiave. Quando il proprietario si avvicina ed entra nella Zona A, che è compresa tra i tre e i cinque metri dal veicolo, viene accesa l’illuminazione di accoglienza, luci esterne e interne al mezzo. Perché le portiere si aprano è necessario che il proprietario si trovi in una distanza compresa tra uno e due metri dalla propria auto: Zona B. Il bloccaggio-chiusura delle portiere avviene invece nella Zona C, ovvero quando si esce dall’auto e ci si allontana di qualche passo, circa due metri. Anche per avviare l’auto non è necessario estrarre la chiave, ma basta averla con sé una volta a bordo e schiacciare il pulsante dedicato. In un futuro già presente per marchi come Tesla, la chiave sparirà anche fisicamente e sarà completamente digitale. Già oggi per accedere e per utilizzare una Tesla Model 3 basta avere con sé il proprio telefono cellulare preventivamente autorizzato che dialoga direttamente con l’auto. Il tutto avviene grazie a una tecnologia Bluetooth low energy ovvero a basso consumo. E se si scarica il cellulare? Tesla fornisce in dotazione due tessere modello carta di credito dotate di chip NFC (Near Field Communication) dotate di una tecnologia di connettività bidirezionale tra vettura e card. Presto anche le chiavi diventeranno «reperti da museo». Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Bacco in camice bianco
Scelto per voi
Vino nella storia Nel 1300 il vino era soprattutto un solvente alcolico al quale venivano
aggiunte varie sostanze come base di preparazioni medicinali – Quarta parte Davide Comoli Come la storia ci ricorda, non tutta la cultura medica dell’epoca voleva stare sotto il diretto controllo della Chiesa, con grande pericolo per l’incolumità generale. Uno dei personaggi più famosi che rappresentano questa parte medica meno «allineata» fu Arnaldo di Villanova (1235-1311). Sia la Spagna sia la Francia ne rivendicano le origini: secondo i primi nacque a Villanueva, piccolo villaggio della Catalogna, a parere dei francesi, nacque invece a Villeneuve-Loubet presso Nizza (paese da cui proviene il grande maestro della cucina Georges Auguste Escoffier 1846-1935). All’apice della sua carriera, Arnaldo era visto come il miglior fisico alchimista della sua epoca, e insegnava alla Facoltà di Medicina di Montpellier, fondata il 26 ottobre 1289. Il suo pensiero, poco ortodosso dal punto di vista teologico, gli creò non pochi nemici tra ecclesiastici e accademici. Accusato di eresia dalla Santa Inquisizione, fu salvato in extremis da Papa Bonifacio VIII. Una delle sue opere più famose è Liber de Vinis, in cui troviamo, oltre alle personali osservazioni, numerose credenze dell’epoca legate alle qualità terapeutiche del vino. Leggendo un passo da quest’opera scritta nel 1300 e raccolta nel 1524, ci rendiamo conto di come era difficile abbandonare i dettami del passato: «Il vino bianco è migliore per il corpo umano. Perché esso è più soffi-
Delizia 2018
La scuola medica salernitana in una miniatura del Canone di Avicenna.
ce e ricettivo in tutti i suoi vapori. Esso trasporta tutte le virtù delle sostanze incorporate, attraverso le membra naturalmente e piacevolmente». In quest’opera si contano ben quarantanove ricette a base di vino. A lui dobbiamo pure la traduzione in latino dei testi del grande medico e filosofo
Avicenna (alias Ibn Sina, alias Abu Ali, 980-1037), il quale con la sua opera Canone di Medicina ebbe molta influenza sul Medioevo. Ma il Villanova è ricordato soprattutto perché fu uno dei primi a prestare attenzione ai distillati di uva/vino chiamati aqua vitae (acqua della vita): le ferite lavate con «i distillati
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di vino – scrisse – si cicatrizzano più facilmente». A Villanova dobbiamo pure il perfezionamento con il processo chiamato mutage: aggiungendo spiriti al vino per fermarne la fermentazione e preservarne la dolcezza, inventò i «vin doux naturel» antenati del nostro Vermouth e dei vini fortificati. Da notare come dietro l’interesse di Arnaldo di Villanova nei confronti della distillazione del vino ci fosse «l’alchimia», che a quell’epoca aveva cominciato a diffondersi in tutta Europa. Non va dimenticato che uno dei suoi scopi primari era infatti la ricerca «dell’elisir di lunga vita» o dell’immortalità. Questo coinvolgimento del vino in modo irrazionale, ci fa capire con quanta lentezza la storia medica dell’epoca abbia fatto dei passi avanti. Alla fine del XIV sec., l’uso del vino a scopo terapeutico prevedeva due diversi tipi d’applicazione: quello interno e quello esterno al corpo umano. In quell’epoca il vino era soprattutto un solvente alcolico, al quale venivano aggiunte varie sostanze come base di preparazioni medicinali. Al vino presto s’affiancano distillati di uva, grano, eccetera, e ogni monastero cominciò di conseguenza a dotarsi di una propria raccolta di piante medicinali, droghe e spezie (pigmentarius), antesignane delle nostre farmacie. Va ricordato che, all’epoca, la polvere da sparo ancora non era entrata in scena e quindi le ferite da arma da taglio erano quelle che creavano più problemi ai chirurghi di quel tempo. Infatti, il Medioevo non fu affatto un periodo felice per questa importante disciplina medica. La pratica della chirurgia fu addirittura, anche se per breve durata, proibita ai monaci dall’Editto di Tours (1162). I chirurghi militari, tra i quali ricordiamo Henri de Mondeville (12601320), il quale aveva già preconizzato l’immediata sutura delle ferite, incoraggiava la consumazione di vino subito dopo l’intervento (contrariamente agli insegnamenti di Ippocrate). Il vino veniva comunemente usato per stordire i pazienti prima di un intervento, ed era usato come antisettico per disinfettare le ferite. Fino al XVI sec. il dibattito sull’uso del vino in chirurgia attraversò l’Europa. Al centro della disputa, stavano due fazioni di medici: il contrasto verteva sul modo migliore per cicatrizzare le ferite. Da una parte i sostenitori che cercavano di provocare in modo esplicito la suppurazione delle ferite, dall’altra di coloro che le disinfettavano inumiden-
Giugno «si spalanca come una rosa nel bicchiere», così scriveva Giuseppe Marotta. Queste parole ci sono tornate in mente quando abbiamo degustato il «Delizia 2018», prodotto da Roberto Belossi nella sua Cantina il Cavaliere nel comune di Gambarogno. Prodotto con uve Merlot, allevate sui fianchi del Ceneri dominanti il Lago Maggiore, dopo una breve macerazione sulle bucce, nasce il Delizia. Vino rosato, conviviale, ottimo come benvenuto per accogliere gli amici che vengono a farci visita. Il suo colore ricorda i petali di certe peonie, il suo profumo è fresco, delicato e floreale, dove ritroviamo i sentori di rosa con una leggera sfumatura di fragoline di bosco. Abbastanza leggero di alcol, ha un finale piacevolissimo che invita a bere un secondo bicchiere, magari sulla terrazza godendo della bella stagione. S’accompagna magnificamente a piccoli bocconcini d’antipasti non troppo pesanti. È un vino che permette di passare a tavola senza rovinare l’appetito. Il Delizia certamente non disdegna i primi piatti. / DC Trovate questo vino nei negozi Vinarte al prezzo di Fr. 18.–. dole con il vino. Tra questi ultimi spicca il nome del francese Guy de Chauliac che predicava meraviglie sull’uso del Muscat de Frontignan. I poteri antisettici del vino ebbero però modo di essere dimostrati quando in Europa, verso la metà del XIV sec., scoppiò l’epidemia di peste nera, che per la rapidità di contagio e la imprevedibilità destava infinito sgomento. A Milano, i pochi medici rimasti consigliavano prima di uscire di casa di bere, a scopo profilattico, un bicchiere di vino bianco. Nel Decamerone del Boccaccio, si racconta che durante la grande epidemia del 1348, l’Università di Medicina di Parigi raccomandasse come prevenzione di bere un brodo preparato tagliando il vino con un sesto d’acqua mischiato a pepe, cannella e spezie. Era insomma questo del XIV sec. il periodo in cui dominavano i «vini pigmentati» Claretum, Pigmentum e l’Hypocras, che con l’aggiunta di varianti si cercava di rendere più appetitosi possibile, ed erano considerati come una sorta di panacea per tutti i mali. Queste preparazioni che, come abbiamo visto, affondavano le loro radici in epoche molto più lontane, diventarono sempre più elaborate. Intorno ad esse fiorì un lucroso commercio, che finì per alimentare numerose truffe per lungo tempo, raggirando molte persone. Una ricetta del 1600 della Farmacopea della città di Londra recitava ad esempio: «Vino all’acciaio, corteccia peruviana, urina umana, occhi di granchio e whisky irlandese». Informazioni
La prima parte dell’articolo è uscita su «Azione» del 9 marzo 2020; la seconda, nell’edizione del 6 aprile 2020; la terza, il 4 maggio 2020
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Ambiente e Benessere
Gamberi e schizzi di pomodoro Gastronomia Difficile imparare l’arte degli sgusciatori senza imbrattarsi, ma resta impagabile
Premessa. I gamberi alla buzera (o busera) sono una tradizionale preparazione istriana – o così almeno pare, sebbene altri ne rivendichino la maternità, ma non è questo il tema dell’articolo – basata su gamberi (o scampi) cotti nel pomodoro. La tradizione chiede di cuocerli interi nella salsa rossa. Dopo essere stati cotti, vengono portati in tavola e poi sgusciati e mangiati. Unica nota negativa, o «pericolosa», è che siccome nessuno li sa sgusciare con le posate, bisogna proprio usare le mani, per cui è necessario attendere che la temperatura del sugo sia umanamente sopportabile. E allora? Dove sta il problema? Facile: i gamberetti a quel punto sono fradici di pomodoro, per cui al momento dell’operazione di sgusciatura quest’ultimo schizza in modo indisciplinato da tutte le parti: se si è davvero bravi forse si riesce un po’ a contenere questi innaffi, se si è meno abili è certo che gli schizzi possono arrivare sino al soffitto e oltre. Per questa ragione, oggi, molti sgusciano i gamberi prima della cottura. In seguito, mettono teste e gusci col pomodoro in modo da insaporirlo bene durante la preparazione della salsa, poi filtrano e cuociono i gamberi in questo sugo profumato. Onestamente il risultato ottenuto è quasi lo stesso della ricetta originale, tuttavia perdere il tradizionale rito dello sgusciare a tavola, che io amo, schizzi inclusi, è un dispiacere. Rito, a dire il vero, che ho poche volte celebrato, e quando è capitato mi trovavo soprattutto in Laguna di Venezia e all’aperto, sotto pergolati, dove gli schizzi erano un problema meno grave (vestiti a parte). Seconda premessa. Ahimè un numero eccessivo di anni fa, in un ristorante di pesce di un certo livello, vicino a Brescia, ci proposero dei gamberi alla buzera: la loro specialità, dissero. Io commentai: e gli schizzi? Nessun problema, risposero, e ci misero al collo degli enormi bavaglini, anzi bavaglioni, per non sporcarci.
Erano ottimi, ma alla fine i bavaglioni erano pressoché fradici, la tovaglia pure, e i nostri vestiti anche un poco, sebbene nessuno se ne preoccupasse. Mi venne spontanea una frase: la prossima volta li voglio mangiare in costume da bagno in riva al mare, per goderli al massimo. Veniamo a dopo. Dieci anni or sono, affittai in Turchia, con degli amici, una barca: quella che noi chiamiamo caicco mentre loro la chiamano goletta. L’ho fatto altre volte in vita mia, sempre con grande piacere. Il viaggio fu perfetto, la barca era bella; il capitano simpatico come lo era il resto dell’equipaggio; e pure il cuoco era bravo: la cucina turca è ottima, comprese le materie prime, quindi andò tutto per il meglio. Un giorno, verso le quattro di pomeriggio, mentre sonnecchiavo sul ponte della goletta ancorata non lontano da Kas, si avvicinò una barca di pescatori. Il capitano parlottò con loro. Poi venne da me, che inevitabilmente ero il coordinatore dell’area food, e mi disse: «Ci sono dei pescatori con splendidi gamberi appena pescati, due casse, interessa?» Fu un lampo. Di colpo, mi rammentai quella frase e quindi risposi subito: «Ma certo!». Poi raccontai la storia agli amici e tutti accettarono il mio «invito» quella sera a una cena su una spiaggia, in costume. Feci collocare un tavolo e delle sedie di plastica direttamente sulla battigia, in una tranquillissima baia di un’isoletta brulla. La salsa di pomodoro, l’avevo fatta fare sulla goletta. Misi sulla sabbia dei sassi, in mezzo un fornelletto a butano, e sopra appoggiai la teglia con il pomodoro. Su questo arcaico fornello cucinai alla buzara le due cassette di gamberi – togliere tutti i budellini neri fu l’unico dramma, virilmente lo volli fare da solo… Alla fine, attorno al tavolo, gustammo i gamberi, incuranti degli schizzi di pomodoro, anzi tirandoci goliardicamente addosso i gusci ancora sporchi, tanto bastava un rapido bagno per pulirsi. Un ricordo senza pari. Poche altre cene ho goduto di più nella mia vita.
CSF (come si fa)
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Allan Bay
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farlo davanti a un tradizionale piatto alla buzera
E quindi vediamo come si fanno i gamberi alla buzera. Il trucco è, sì, ovviamente, usare gamberi buoni, ma il vero trucco vincente è avere a disposizione pomodori eccellenti, molto maturi, molto dolci. Se non li avete, non fate questo semplicissimo piatto. La ricetta, è un mio vizio, è «un po’» rielaborata da me. Ingredienti per 4 persone: 2 kg o più di gamberi grossi, 1 kg di pomodori, 4 scalogni, concentrato di pomodoro,
uno spicchio di aglio, peperoncino, prezzemolo, vino bianco secco, sale. Lavate bene i gamberi poi, senza sgusciarli, incideteli sul dorso con un coltellino molto affilato e, aiutandovi con uno stuzzicadenti e magari con una pinzetta, eliminate il budellino nero: è l’intestino. Che buono non è mai, ma a volte dà addirittura molto fastidio: dipende da quanto tempo prima di essere pescato il gambero aveva mangiato. Lavateli ancora. Mondate e spezzettate gli scalogni. Quindi stufateli con poca acqua per 20 minuti, poi frullate. Gettate i pomodori in acqua bollente, dopo un paio di minuti – o più, dipende dalla buccia – scolateli, pelateli, privateli di semi e costole bianche e spezzettateli. Metteteli in un’ampia casseruola, unite gli scalogni, una punta di concentrato di
pomodoro stemperata in poca acqua, lo spicchio d’aglio mondato e leggermente schiacciato, abbondante prezzemolo e peperoncino a piacere e cuocete per 10 minuti. Versate ½ bicchiere di vino sobbollito per 3 minuti, mescolate bene, unite i gamberi e lasciate cuocere per circa 6 minuti, coperto, a fuoco dolce. Regolate di sale. Portate la casseruola a tavolo: all’aperto, dove se il pomodoro sporca non è un problema. Appena il sugo è a temperatura accettabile, prendete i gamberi con le mani e gustateli. Non gettate i gusci. Pestateli ben bene, fino a ridurli in polvere, poi rimetteteli nel pomodoro: otterrete così un sugo per pasta veramente impareggiabile. Ovviamente potete anche utilizzare degli scampi. Al posto degli scalogni potete utilizzare cipolle bianche o rosse o porri.
Ballando coi gusti Oggi, frittelle, ghiotte. Che piacciono sempre a tutti, estate e inverno.
Frittelle con formaggio e mandorle
Frittelle con ricotta e albicocche
Ingredienti per 4 persone: 200 g di farina · 4 uova · 200 g di formaggio a pasta semi dura · 40 g di mandorle spellate · 70 g di burro · olio per friggere · sale.
Ingredienti per 6 persone: 300 g di farina · 200 g di zucchero · 6 uova · 100 g di
Portate a bollore in una pentola 2,5 dl di acqua con il burro e un pizzico di sale. Quando bolle, setacciate la farina, mescolando continuamente prima con una frusta poi con un cucchiaio di legno finché il composto non si staccherà dal fondo. Togliete dal fuoco, lasciate intiepidire e poi incorporate, uno per volta, le uova e il formaggio grattugiato. Tritate finemente le mandorle. Ricavate dall’impasto delle palline grosse come una noce e rotolatele nel trito di mandorle. Friggetele, poche per volta, in olio bollente e fatele asciugare su un foglio di carta assorbente da cucina.
strutto · la scorza grattugiata di 1 limone · 300 g di ricotta · 100 g di albicocche secche · zucchero a velo · olio per friggere · sale. Versate in una pentola 4 dl di acqua, unite lo zucchero e la scorza di limone e portate a bollore. Mescolate e togliete dal fuoco. Lasciate intiepidire per pochi minuti, quindi unite la farina setacciata, poca per volta, mescolando di continuo; incorporate quindi le uova, uno per volta, e lo strutto, mescolando fino a ottenere un composto omogeneo. Lasciatelo raffreddare. Per la farcia, mescolate la ricotta con le albicocche tagliate a dadini. Prelevate a cucchiaiate il composto di farina e uova e friggetelo in abbondante olio ben caldo. Sgocciolate le frittelle e trasferitele ad asciugare su carta assorbente da cucina. Spalmatele con la farcia, cospargete di zucchero a velo e servite.
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Ambiente e Benessere
Piante che danno serenità Eliana Bernasconi L’auto della polizia che circolava con la scritta «Restate a casa» ha convinto anche i più ribelli che non era il caso di opporsi, ma perdere la libertà di spostarsi, rinunciare ai contatti, sentirsi come prigionieri e convivere con l’incertezza non è stato immediato. Non poche persone hanno avuto seri motivi per sperimentare insofferenza, ansia e irritabilità. Magari qualcuno ha perso anche il sonno, a fronte di altri che hanno invece riscoperto il tempo per guardare la natura, i fiori, gli alberi, le piante. Tra queste, molte sono ansiolitici naturali che hanno un effetto sedativo e rasserenante, funzionano senza creare dipendenza, non cambiano la realtà intorno a noi ma possono cambiare la nostra visione o il nostro umore: basta imparare a conoscerle. Da tempi lontanissimi si usano le piante per guarire. Tisane, decotti e infusi hanno un effetto più blando rispetto ai macerati glicolici, alle tinture madri ottenute per estrazione idroalcolica dove i principi attivi sono più concentrati, ma funzionano comunque. La raccomandazione è sempre la stessa: miscele di erbe differenti devono essere preparate solo da persone competenti. Un bravo fitoterapeuta, o farmacista o erborista, prima di consigliare, si informa del nostro tipo di disturbo, delle nostre abitudini, dello stile di vita, per meglio scegliere la pianta per noi e per stabilire le corrette modalità di assunzione. Camomilla e Melissa sono fra le piante medicinali più note tra quelle calmanti. Per gli antichi (Dioscoride), la camomilla «aveva virtù di scaldare e disseccare». Gli egizi la dedicavano al sole e di certo ha molte indicazioni: è blanda-
mente sedativa, antispasmodica, antinfiammatoria,… ma attenzione: si dice che se lasciata troppo tempo in infusione anziché esaltare le sue qualità calmanti e sedative diventi eccitante. La famosa Melissa, o Citronella, assunta come tisana, in gocce o in capsule è ansiolitica, digestiva e spasmolitica per i dolori intestinali. Recenti ricerche hanno evidenziato la sua interessante azione sulla memoria. Al di là degli elaborati fitoterapici, le sue foglie, dal fresco profumo di limone, possono essere aggiunte crude alle insalate. Camomilla e Melissa hanno un’azione sedativa sul sistema nervoso centrale, sul sistema muscolare e sui disturbi digestivi e gastrointestinali di natura neurovegetativa dovuti a somatizzazione dell’ansia, perché come detto allentano la tensione nervosa. Anche la Valeriana, menzionata da arabi ed egiziani, agisce sul sistema nervoso centrale, toglie nervosismo, palpitazioni o tachicardia. Fatti i dovuti distinguo, il suo effetto, anche se con modalità diverse, potrebbe avvicinarsi a quello dei farmaci benzodiazepinici: racconta una leggenda che il vero potere del Pifferaio magico, nella favola dei fratelli Grimm del XIII secolo, che liberò dai topi la città di Hamelin nella Bassa Sassonia, oltre al suono incantatore del suo strumento, fosse dovuto all’azione della Valeriana che il pifferaio sapeva come usare. Anche la Passiflora, che abbiamo già descritto in questa rubrica, esercita un’importante azione sedativa sul sistema nervoso centrale con effetti tranquillizzanti e ansioliti abbastanza simili a quelli dei medicinali di sintesi, sempre premettendo che i metodi curativi sono ben diversi, induce al sonno verso il qua-
Giochi Cruciverba «Mario mi potresti prestare il tuo furgone?» – «Che devi farci?» – «Ho vinto un…» Termina la frase leggendo a soluzione ultimata nelle caselle evidenziate. (Parola: 9, 1, 6, 1, 4, 9)
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
le ci porta gradatamente e dolcemente. In questo elenco non possiamo dimenticare anche l’albero sacro alle antiche civiltà germaniche: cioè la Quercia, oggetto di leggende e venerazione. Il Tiglio, che può raggiungere mille anni di età, anche se in alcune persone provoca allergie e raffreddori da fieno, il decotto o l’infuso dei suoi fiori dolcemente profumati oltre che sedativo combatte stanchezza, irritabilità e attenua la tosse. Il macerato glicolico in associazione con l’Ontano nero cura invece insonnia, mal di testa, emicrania e ipertensione. Il Biancospino nella tradizione celtica era associato alla fertilità e ai riti della primavera che celebravano la crescita della vegetazione e l’arrivo dell’estate, era simbolo di castità e purezza, ed è considerato da alcuni una delle migliori cure a lungo termine per l’apparato cardiovascolare. Inoltre, il Biancospino è indicato per aritmia cardiache e palpi-
tazioni, è sedativo e agisce abbassando la pressione. Lungo le siepi ai margini dei boschi, intrecciati con i rami di altre piante si incontrano i leggiadri tralci del Luppolo, delicata pianta rampicante appartenente alla famiglia delle Cannabinacee, cui appartiene anche la Canapa. Il luppolo è un blando sonnifero, è calmante e tonico digestivo: va usato con cautela perché in determinati casi potrebbe interagire con altri farmaci. I giovani e teneri getti possono ancora oggi essere utilizzati in minestre, insalate, frittate. In tempi antichi, il luppolo era la componente essenziale di una bevanda povera per le popolazioni del nord Europa, oggi è guarda caso usato per la preparazione della birra. Con un’altra pianta officinale, l’Eschscholtzia Californica (Papavero della California), entriamo nella grande famiglia delle Papaveracee, quella per intenderci che comprende il Papavero
da oppio, dal quale con successive e lunghe raffinazioni si ricavano morfina ed eroina. Eschscholtzia Californica è un papavero particolare di un intenso colore giallo originario degli USA. Anche questa pianta agisce sul sistema nervoso centrale, riduce l’attività delle cellule della corteccia cerebrale, porta al sorriso e combatte l’irritabilità: è stata sperimentata con successo nei casi di sintomi dolorosi e nella fase emotiva che il dolore provoca. Studi condotti sugli animali hanno dimostrato l’azione ipnotica della Tintura madre di Eschscholtzia Californica, che si trova sia in forma di tintura, per l’appunto, sia in capsule di estratti secchi associati con altre piante. Per finire, riportiamo due ricette calmanti e rasserenanti. Tisana per riposare. Ingredienti da mettere in infusione in acqua bollente: 40 g di fiori di luppolo, 20 g di fiori di lavanda, 20 g di fiori di tiglio, 10 g di petali di rosolaccio, 10 g di foglie di melissa. Questa tisana rilassa e aiuta il cuore; berla quando se ne sente il bisogno. Tisana contro lo Stress. Ingredienti: 40 g fiori di biancospino, 20 g di achillea 20 g di menta, 20 g di fiori di tiglio. Mettere 2 cucchiai di questo composto in 1 litro di acqua bollente. Il benessere e il rilassamento che produce non è immediato, ma diluito nel tempo, per questo va assunta per un periodo di 2-3 settimane, 2-3 tazze al giorno lontano dai pasti. Bigliografia
Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice. Erio Bernard ed Ezia Nard, Il quaderno delle tisane di una volta. Decotti e infusi per star bene, Kellermann Editore.
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku 1
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soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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Partecipazione online: inserire la
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16. Si parla ad Amsterdam 18. Anagramma di rio 20. Mezzo greco... 22. Un sentimento 25. Il gigante figlio di Poseidone 26. Piacere, cortesia 28. Congiunzione tedesca 29. Un mammifero ruminante 30. Economic Operator Registration and Identification 32. Le hanno pari gli stolti 33. Un Bravo messicano... 34. Il «fuori» del tennis 36. Le iniziali del conduttore Timperi 38. Malati senza mali...
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ORIZZONTALI 1. La chiave di violino 4. È nato prima 11. Protagonista di un’opera di Virgilio 13. Si fa allo stadio 14. Una fase del sonno 15. Doppio in una giacca 17. Lo è la Groenlandia 19. Avverso 21. Prefisso che vuol dire tre 23. Laboratorio Tecnico Ortopedico 24. Di gioventù si ricordano con tenerezza 26. Santa... in Argentina 27. In italiano e in tedesco 28. Congiunti... ma non parenti 29. Preposizione articolata 30. La fine degli inglesi 31. Cerchio dantesco dei peccatori di frode 33. Gara per cow-boys 35. Il sole dei greci 36. Un gigante per strada... 37. Precede la Maestà
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Fitoterapia Camomilla, Melissa, Valeriana e la leggenda del Pifferaio magico
Soluzione della settimana precedente
VOCABOLANDO – Parola: PROBIVIRI – Significato: UOMINI ONESTI.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Politica e Economia Trump contro tutti Il presidente americano si scaglia contro Twitter ed evoca nuove sanzioni contro la Cina per Hong Kong pagina 32
Erdogan, il leone di Istanbul La Turchia ha vinto due guerre in Libia e Siria riuscendo ad ottenere quel che vuole. Nonostante Putin e l’indifferenza Usa e Ue
Il Meridione: 6.parte Fra le regioni italiane il Sud è quello che è stato meno duramente colpito dal Codid-19
Quattro scenari futuri Coscienza Svizzera pubblica uno studio sulla situazione del Ticino dopo la pandemia
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«Non lui», riferito a Bolsonaro , è scritto su uno striscione di protesta a San Paolo. (AFP)
La riscossa dei liberali
Contro il populismo Il «Financial Times» chiede che ci si mobiliti contro i demagoghi della destra nazionalista
e della sinistra radicale. Ma chi dovrebbe fare parte di questa alleanza? Christian Rocca Probabilmente è un caso o forse no, ma i paesi più colpiti dal coronavirus sono gli Stati Uniti, il Brasile e l’Italia, nazioni guidate da governi populisti. Anche la Gran Bretagna della Brexit non se la passa bene. Nonostante la pandemia avesse già colpito l’Asia e l’Europa meridionale, Donald Trump, Jair Bolsonaro e Boris Johnson hanno paragonato il virus a una specie di raffreddore, meno grave dell’influenza stagionale, sprecando tempo prezioso per approntare una risposta. L’Italia di Giuseppe Conte non ha avuto la medesima possibilità di utilizzare in modo più efficace il tempo, perché è stata la prima nazione europea a essere colpita dal Covid-19 e per questo è stata colta di sorpresa, ma certo gli italiani ricordano perfettamente che il presidente del Consiglio aveva garantito in televisione che il Paese sarebbe stato prontissimo ad affrontare la pandemia, cosa ben lontana dalla realtà. La tragedia dell’Italia è peculiare, perché non è soltanto quella di avere il premier e il primo partito del Parlamento entrambi populisti, ma anche quella
di avere le opposizioni ancora più populiste del governo. La concorrenza a chi è più demagogico dell’altro non ha prodotto niente di positivo, anzi. La domanda, a questo punto, è che fine abbiano fatto i liberali. Il Coronavirus certo non ha aiutato la riscossa dei liberali, già travolti prima della pandemia dall’ascesa del pensiero unico del populista collettivo, non importa se di destra o di sinistra perché tra i primi e i secondi cambia qualche tono ma tutto sommato la sostanza è la stessa. In Italia Matteo Salvini e Luigi Di Maio, fuori dall’Italia Donald Trump e Vladimir Putin, hanno molti più punti in comune tra di loro che con i liberali, così come Boris Johnson e Jeremy Corbyn hanno entrambi portato la Gran Bretagna a uscire dall’Europa, mentre negli Stati Uniti i Tea Party a destra e Bernie Sanders a sinistra hanno demolito insieme la tradizionale politica americana. L’ascesa dei demagoghi del popolo incontra due notevoli resistenze in Emmanuel Macron e Angela Merkel, il famigerato asse franco-tedesco trasformatosi nell’ultimo pilastro dell’Occidente libero in attesa delle elezioni
americane di novembre. Più qualche altro bastione di serietà e competenza in paesi meno centrali per l’Occidente dalla Nuova Zelanda di Jacinda Ardern alla Finlandia di Sanna Marin e all’Islanda di Katrín Jakobsdóttir, tutte donne di grande caratura politica ed efficienza amministrativa. Partendo da questo, da quello che c’è, nelle scorse settimane il «Financial Times», con Gideon Rachman, ha invitato i liberali di entrambi gli schieramenti a riprendere la battaglia contro i sovranisti e i populisti, ricordando che è il caso di mettere da parte la geniale ma autodistruttiva definizione, cara al poeta Robert Frost, secondo cui un liberal è una persona di così ampie vedute da ritenere sconveniente parteggiare per la propria parte. Forse, sostiene Rachman, è arrivato il momento di dimenticarsi questa proverbiale tolleranza liberale e di prepararsi a rispondere alla minaccia. Facile, a dirlo. Intanto perché mentre è facile riconoscere i populisti, basta farli parlare, individuare i liberali non lo è altrettanto, visto che la definizione cambia a seconda della latitudine. Nell’Europa che ha conosciuto i partiti
comunisti e i partiti socialisti, comprese le dittature del popolo, i liberali sono considerati di destra, perché in Parlamento siedono negli scranni alla destra del governo, con i socialisti alla sinistra. Negli Stati Uniti, dove il socialismo non ha mai fatto presa, nemmeno adesso che sembra di gran moda con Sanders e Alexandria Ocasio-Cortes, i liberal invece sono tradizionalmente l’ala progressista del Partito democratico, e al Congresso si siedono alla sinistra dei deputati e dei senatori repubblicani e conservatori. La definizione più adeguata ai tempi in realtà è quella americana, perché i partiti liberali nascono in un’Europa pre-socialista per contrastare il potere assoluto dei monarchi e per questo nei primi Parlamenti costituzionali si sedettero alla sinistra degli uomini fedeli al Re e in contrapposizione ai conservatori. Oggi i liberali sono identificati con i liberisti pro mercato, quando come è noto esistono anche i liberalsocialisti, i riformisti e i libertari, i quali sui temi economici sono decisamente meno radicali dei liberisti di stretta osservanza della scuola di Chicago e della mano invisibile del mercato.
Questa confusione sull’identità dei liberali è proprio uno dei grandi successi intellettuali dei populisti di sinistra e di destra: essere riusciti a etichettare con il marchio dell’infamia neoliberista Tony Blair e Bill Clinton, Joe Biden e qualsiasi personalità della sinistra liberale, in Italia è toccato a Matteo Renzi, che abbia provato a conciliare progresso e innovazione, Stato e mercato. La battaglia dei liberali contro i populisti quindi è asimmetrica e per il momento il risultato pare segnato a favore dei leader e dei partiti, ma anche delle nazioni illiberali, dalla Cina del partito unico di Xi Jinping alla Russia del partito raro di Putin, al modello ungherese di Viktor Orbán a quello ottomano di Recep Erdoğan, per non parlare delle monarchie assolute del Golfo e dei sistemi autoritari asiatici. C’è proprio un vantaggio competitivo delle leadership demagogiche, ricorda sempre Rachman sul «Financial Times», per il semplice fatto che i populisti di ogni latitudine politica e geografica sono costantemente mossi dalla ferocia antiliberale, mentre il punto stesso dell’essere liberali è esattamente quello di non credere nella distruzione dei nemici.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Politica e Economia
Trump contro tutti
Usa/Cina Il presidente americano apre un nuovo fronte di ostilità contro Twitter, mentre fa scattare l’ora
delle sanzioni alla Cina dopo che Xi Jinping ha violato l’autonomia di Hong Kong Federico Rampini Donald Trump contro tutti. In piena escalation di ostilità con Xi Jinping per la nuova crisi su Hong Kong che oppone le due superpotenze, il presidente degli Stati Uniti apre un nuovo fronte interno: contro i social media. Questa la chiama la sua battaglia «contro la censura online». La vendetta di Trump si abbatte su Twitter, il suo mezzo di comunicazione favorito di colpo si è trasformato in nemico. Dopo lo scontro provocato dalla decisione di Twitter di mettere in guardia gli utenti su messaggi del presidente potenzialmente falsi, è arrivato il castigo. Quanto sarà efficace, è presto per dirlo. Trump ha firmato un ordine esecutivo (l’equivalente di un decreto) che dovrebbe rendere più agevole perseguire per vie giudiziarie i social come Twitter e Facebook qualora assumano il ruolo di «moderatori» delle fake news, cancellando dei post o chiudendo degli account. In questo modo il decreto cerca di abbattere o di indebolire uno scudo legale che protegge i social media e le piattaforme online. La tesi di Trump è che questi social hanno un’agenda politica progressista, che il loro ruolo di moderatori non è neutrale, anzi secondo lui «fanno dell’attivismo». Nell’annunciare la firma del decreto ha aggiunto che sarebbe pronto a chiudere il proprio account su Twitter. Quest’ultima minaccia è forse più inquietante – se solo fosse vera – per il social media che dall’uso quotidiano del presidente degli Stati Uniti ha ricavato un aumento di audience e una pubblicità notevole. Trump ha detto che la sua mossa serve a «difendere la libertà di parola contro uno dei più grandi pericoli». Interpellato sulla possibilità che l’ordine esecutivo venga bloccato da ricorsi in tribunale, l’ha data per scontata: «Lo sono tutti, no?». In effetti la storia dei decreti nell’era Trump è ricca di rovesci in sede giudiziaria: a inaugurare questo genere di battaglie fra ricorsi e contro-ricorsi fu uno dei primissimi atti della sua presidenza, il cosiddetto Muslim Ban con cui vietava l’ingresso negli Stati Uniti a cittadini di alcune nazioni islamiche. In questo caso l’ordine esecutivo solleverà eccezioni di incostituzionalità perché potrebbe violare il Primo Emendamento, quello che tutela la libertà di espressione e di stampa. Inoltre è dubbio se un decreto presidenziale possa cancel-
lare le normative vigenti che regolano le responsabilità dei social media e li proteggono da azioni legali. Di sicuro questo decreto entra nell’arsenale della campagna elettorale: Trump ha sempre accusato i giornali e le tv di essere a maggioranza di sinistra, ora aggiunge i social media nel novero dei nemici che lo perseguitano e lo boicottano. Jack Dorsey non è un peso massimo dell’economia digitale come Mark Zuckerberg. Eppure il chief executive di Twitter è un personaggio centrale nell’universo di Trump. Questo presidente ha costruito un modello di comunicazione in cui i tweet sono lo strumento principe. Si sveglia al mattino e lancia i celebri «cinguettii» che hanno il potere di dettare l’agenda politica del giorno. Fa campagna elettorale attaccando i suoi avversari con brevi, incisive, spesso violente e offensive mini-frasi su Twitter. Perfino la sua diplomazia aggira i canali tradizionali – con lo sgomento del Dipartimento di Stato e delle ambasciate – per dialogare direttamente con i grandi della terra a colpi di tweet. Lo scontro fra il Commander-inChief e il top manager di San Francisco ha qualcosa di epico. Dorsey in passato aveva sempre trattato con i guanti il presidente, fingendo di ignorare gli appelli che venivano dai democratici e dai media tradizionali perché mettesse un argine alle fake news disseminate da Trump. Twitter, proprio perché non ha la stazza di Facebook o di Google, deve una parte della sua fortuna al fatto di essere stato abbracciato da cotanto comunicatore. Il rapporto si è incrinato il 26 maggio, quando per la prima volta Twitter ha affiancato ai messaggi del presidente un avvertimento ai lettori: verificate i fatti. È avvenuto di fronte ad una delle campagne di disinformazione favorite di Trump: l’allarme per i brogli massicci che avverrebbero qualora si votasse per corrispondenza alle presidenziali di novembre. Ecco il tweet che ha acceso la controversia: «Non c’è modo (zero!) che le schede elettorali spedite per posta siano altro che fraudolente. Le cassette postali saranno derubate, le schede saranno falsificate, stampate di frodo, avranno false firme». Il tema ha grande rilevanza politica, più che mai a causa della pandemia. Molti Stati Usa si stanno già attrezzando per facilitare il voto per corrispondenza: il 3 novembre potremmo essere nel mezzo di una se-
Per Trump quella di Twitter è «battaglia contro la censura online». (AFP)
conda ondata di contagi e l’affollamento dei seggi sarebbe pericoloso. Trump ha sempre sostenuto che il voto per corrispondenza è fatto su misura per trasformare in elettori gli immigrati illegali, organizzati dal partito democratico. Non ha mai fornito prove. Parlò perfino di milioni di schede abusive a favore di Hillary Clinton nel novembre 2016. Sempre senza prove. Inchieste e denunce sui brogli hanno sempre indicato che riguardano una minuscola frazione percentuale nelle elezioni americane. Ma il tema dei brogli serve a mobilitare la base repubblicana contro lo spettro di un’elezione «rubata» dalla sinistra; può anche precostituire un alibi in caso di sconfitta. Infine dà sostegno ai tanti ostacoli che i repubblicani disseminano contro la partecipazione elettorale delle minoranze etniche. Sta di fatto che stavolta Dorsey ha deciso di passare all’azione ed ha esortato l’audience di Twitter a verificare la notizia, in quanto potenzialmente fuorviante. Trump ha reagito e minaccia nientemeno che la chiusura dei social media. Minaccia non del tutto nuova nell’arsenale di questo presidente. In passato per la verità lui aveva preso di mira la stampa, annunciando nuove leggi contro la calunnia e la diffamazione. Nel paese del Primo Emendamento è molto difficile legiferare su questi temi. La vera novità è che un social media cruciale per lui abbia
cominciato a insinuare il dubbio nell’opinione pubblica che si abbevera ai tweet di Trump. Al presidente non resta che reagire con l’altro tema amato dalla base repubblicana: i media sono pregiudizialmente ostili ai conservatori. È probabile che la sua base sia impermeabile alle messe in guardia di Twitter. Sul fronte esterno, la crisi di Hong Kong conferma che siamo a un nuovo pesante deterioramento nelle relazioni bilaterali tra le due superpotenze. A Washington è scattata l’ora delle sanzioni, dopo lo strappo di Xi Jinping che ha violato l’autonomia di Hong Kong. Reazione inevitabile, dal punto di vista americano: che su questo raccoglie un consenso sempre più bipartisan. Ma con conseguenze rilevanti per il ruolo di una piazza finanziaria quasi offshore, che ha consentito alla Cina un alto volume di transazioni finanziarie col resto del mondo al di fuori delle restrizioni e dei vincoli imposti su altre piazze come Shanghai e Shenzhen. Xi Jinping estendendo a Hong Kong le leggi di uno Stato di polizia ha stracciato un patto che reggeva dal 1997. Quando il Regno Unito restituì Hong Kong alla Repubblica Popolare, promise all’intera comunità internazionale di applicare la regola «una nazione, due sistemi». Hong Kong sarebbe rimasta diversa, e lo è rimasta fino a ieri. Con un vero Stato di diritto, magistratura indipendente, libertà di stampa e di manifestazione.
«Quella» Hong Kong sta scomparendo. E con essa la giustificazione dello Hong Kong Policy Act del 1992, legge con cui gli Stati Uniti promisero che avrebbero continuato a trattare l’isola-metropoli come fosse inglese: niente protezionismo, facilità di visti per l’immigrazione, agevolazioni anche nei rapporti finanziari e nell’uso del dollaro americano. Applicare a Hong Kong gli stessi dazi in vigore sulle merci cinesi, colpirebbe un interscambio bilaterale che vede gli Stati Uniti in attivo per 31 miliardi di dollari (2018). Molto più importante è il volume degli investimenti. Gli investimenti diretti sono cresciuti a un ritmo del 18 per cento annuo, arrivando a superare gli 80 miliardi di dollari; 110 mila persone impiegate in aziende americane, centinaia di miliardi di dollari in asset da parte di tutti i principali gruppi finanziari statunitensi. Nella regione metropolitana di Hong Kong vivono 85 mila cittadini Usa. Colpire solo sui dazi e sui visti, rischia di impoverire ulteriormente Hong Kong che ha già sofferto molto in questi anni, perché la Cina favorisce le città continentali dove non ci sono contestazioni. Perciò al Senato di Washington era già in discussione da tempo una legge che estenderebbe le sanzioni alle banche e istituzioni finanziarie cinesi, in quanto «collaborano» col regime nell’imporre le nuovi leggi liberticide su Hong Kong. Questa legge potrebbe danneggiare l’intero sistema bancario cinese. L’anno scorso le banche cinesi gestivano nelle loro sedi di Hong Kong – fuori dalla portata dei controlli sui movimenti valutari di Pechino – 1.137 miliardi di dollari Usa. Cioè all’incirca la metà di quei flussi di capitali che prestano o investono a clienti stranieri. Hong Kong è anche la piattaforma a cui Xi Jinping affida i suoi progetti di trasformare il renminbi in una vera moneta globale. La guerra fredda ha già allungato la sua ombra sulle Borse. Grazie a una recentissima legge del Congresso, gli Stati Uniti possono radiare dalle loro Borse quelle società che non si sottopongono a una certificazione di bilanci trasparente, o che fanno ricorso a un audit cinese, fuori dalla portata degli organi di vigilanza americani. I preparativi di una grande fuga di società cinesi dalle Borse americane sono un altro pezzo di quel grande «decoupling» o divorzio che è il corollario della guerra fredda. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Politica e Economia In Libia Erdogan è intervenuto a proteggere la capitale Tripoli messa sotto assedio da Haftar. (AFP)
Covid-19, un’arma biologica Pakistan Il governo sta usando il lockdown
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La parte del leone
Erdogan La Turchia ha vinto due guerre in Libia e Siria riuscendo
ad ottenere quel che vuole. Nonostante Putin e l’indifferenza Usa e Ue
Daniele Raineri La Turchia ha appena vinto due guerre e mezzo negli ultimi otto mesi. La cosa può piacere oppure no e ci sono molti critici che potrebbero spiegare con ottime ragioni perché il governo di Erdogan è un pessimo governo. Ma se consideriamo quello che succede sul campo allora c’è poco da dire: la Turchia ha una linea molto decisionista e aggressiva in politica estera e riesce a ottenere quello che vuole. Il caso più spettacolare è la Libia, dove Erdogan è intervenuto a proteggere la capitale Tripoli – messa sotto assedio dalle milizie del generale Khalifa Haftar di Bengasi. I turchi hanno fatto un uso accorto della loro forza militare e hanno mandato un contingente di droni, i piccoli aerei senza pilota che possono sparare un paio di missili contro bersagli a terra. Nel giro di sei mesi i droni turchi hanno rovesciato il corso della battaglia e hanno trasformato i perdenti di Tripoli nei vincenti, con gran sorpresa della comunità internazionale – che dava per favorito il generale Haftar. Ci sono molte ragioni dietro a questo intervento deciso da Erdogan per la capitale libica. C’è il desiderio della Turchia di contrapporsi al blocco dei regni del Golfo, soprattutto l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che tenta di espandere la propria influenza sulla regione. C’è l’affinità tra il presidente turco e il governo di Tripoli, dove la Fratellanza musulmana è dominante – mentre invece sauditi e emiratini odiano la Fratellanza e hanno come obiettivo quello di sradicarla dal mondo il prima possibile perché la percepiscono come una minaccia. C’è anche la questione delle risorse di gas e greggio nel Mediterraneo, la Turchia ha paura di essere rimasta fuori dai diritti di sfruttamento e ora vuole allearsi con i libici di Tripoli per prendersi una parte di quelle ricchezze, mentre un blocco contrapposto di paesi vorrebbe lasciarla fuori e guarda caso è lo stesso blocco che appoggia Haftar in Libia (vedi i francesi). Ora Erdogan potrà far valere con i libici della Tripolitania un debito enorme, senza di lui la loro indipendenza sarebbe finita. C’è infine una ragione semplice: la Turchia ha realizzato che poteva davvero cambiare il corso delle cose in Libia con l’uso di un poco di forza militare perché è un conflitto ridotto, dove le battaglie si combattono tra reparti che contano al massimo poche centinaia
di uomini e dove qualche drone può fare la differenza. È intervenuta perché poteva farlo, nel silenzio e nell’indifferenza di Unione Europea e America. Il risultato, per ora, è che dove ci si aspettava una terribile battaglia quartiere per quartiere che avrebbe devastato Tripoli e avrebbe creato un’onda di profughi anche verso l’Europa c’è invece una situazione di attesa militarizzata. Il governo libico, riconosciuto dalla comunità internazionale che però non ha mosso un dito per proteggerlo, per ora è salvo. Questa settimana il Pentagono ha annunciato che quattordici aerei da guerra russi sono arrivati in Libia, dopo una breve sosta in Siria per essere riverniciati – in modo che sembrassero meno smaccatamente russi. L’informazione circolava già da una settimana perché è difficile spostare per migliaia di chilometri una piccola flotta di bombardieri fino a un paese dove i pochi aeroporti militari sono punti isolati che spiccano in mezzo al deserto senza che proprio nessuno se ne accorga. Saranno pilotati da mercenari russi, che avranno il compito di difendere gli altri mercenari russi in Libia, quelli della compagnia Wagner, che combattono a terra al fianco del generale Khalifa Haftar. L’arrivo degli aerei è una notizia interessante, ma secondo gli analisti la Russia non li ha mandati per riprendere la battaglia di Tripoli dove si era interrotta. Piuttosto, gli aerei dovrebbero impedire uno smacco ancora più grande, quindi che le forze di Tripoli visto il momento favorevole si mettano a inseguire le milizie di Haftar nel deserto e comincino a invadere il loro territorio. In pratica, i mercenari russi dovrebbero essere lì a garantire che la situazione torni quella di prima della guerra civile: Libia spezzata in due metà che si guardano in cagnesco, Tripoli a ovest e Bengasi a est. Turchia con una parte e Russia con l’altra. Mosca naturalmente ci guadagna la riconoscenza della metà est. Tra fine febbraio e inizio marzo Erdogan ha vinto un’altro scontro, che visto da occidente è sembrato una guerricciola di pochi giorni ma in realtà poteva avere conseguenze enormi. In Siria le truppe lealiste del presidente Bashar el Assad spingevano verso nord, per prendersi la regione di Idlib, l’ultima a essere rimasta fuori dal loro controllo (è nelle mani di un assortimento di gruppi armati, gli islamisti sono quelli che dominano). I russi – di
nuovo loro – li appoggiavano con consiglieri militari e bombardamenti aerei. Se la campagna avesse avuto successo i milioni di sfollati siriani che hanno trovato un rifugio precario dentro la regione di Idlib avrebbero fatto pressione per superare il confine con la Turchia – che già ospita tre milioni di siriani a causa di un accordo con l’Unione Europea. Sarebbe stato come il cedimento di un argine. Era inevitabile che i turchi avrebbero indirizzato verso l’Europa una grande parte del flusso e come abbiamo potuto vedere negli anni scorsi i picchi improvvisi di immigrazione verso l’Ue portano una serie di cambiamenti politici un po’ dappertutto – come l’ascesa dei partiti nazionalisti e populisti. Il meccanismo si era già messo in moto. I soldati di Assad guadagnavano terreno, gli aerei russi bombardavano, gli sfollati si ammassavano lungo il confine. Poi la Turchia ha usato lo stesso schema della guerra in Libia e ha mandato i droni a bloccare l’offensiva, camion per camion, carro armato dopo carro armato. L’attacco si è smorzato, Erdogan e Putin si sono incontrati a Mosca, hanno deciso che per ora la situazione resta così com’è. Se queste sono due campagne militari vinte, mentre il resto del mondo era preoccupato soprattutto dalla pandemia, c’è poi la mezza campagna nel Kurdistan siriano. A ottobre 2019 l’esercito turco e le milizie siriane fedeli alla Turchia hanno fatto irruzione da nord nella parte di Siria sotto il controllo dei curdi, con la benedizione pubblica del presidente americano, Donald Trump, che poi qualche giorno dopo se ne è pentito. L’aggressione si è interrotta dopo un mese, ma per i turchi è stata comunque un successo: hanno interrotto la continuità territoriale dei curdi, li hanno costretti a spostarsi più a sud, hanno preso il controllo di una fascia di territorio che ora intendono riempire con i profughi siriani che stanno in Turchia. In pratica hanno cominciato un travaso etnico, grazie alla forza delle armi. Il resto del mondo invece considera quell’operazione come un’ingiustizia enorme commessa ai danni dei curdi, che hanno portato il peso della guerra contro lo Stato islamico. La maggior parte delle battaglie contro i fanatici che facevano attentati anche in Europa è stata vinta dai curdi. Ma meno l’occidente si interessa a quello che succede nel mondo, più altri si fanno avanti a riempire il vuoto.
«L’esercito sta deliberatamente diffondendo il virus, tenendo di proposito nel campo di Taftan un centinaio di persone ammalate di Covid-19 a stretto contatto con altre quattromila e più persone rinchiuse nello stesso campo col pretesto della quarantena obbligatoria. Penso che i militari stiano usando il virus per aggravare ulteriormente, indisturbati, la stretta sul Balochistan e continuare il vero e proprio genocidio della sua popolazione». Il dottor Allah Nizar, che oltre a essere un medico è il leader del Balochistan Liberation Front, non usa mezzi termini. E non è il solo. Da quando la pandemia, in marzo, ha investito il Pakistan, il governo di Islamabad è stato messo sotto accusa da più fronti. Per non aver reagito né prontamente né adeguatamente all’emergenza, anzitutto: mentre il premier Imran Khan dichiarava difatti che il Covid-19 è «poco più di un’influenza che ammazza soltanto i vecchi» e si rifiutava di mettere il Paese sotto lockdown, l’esercito scendeva in campo, dimostrando ancora una volta chi comanda davvero nel Paese, per dichiarare il lockdown suddetto. Non prima però di aver creato cosiddetti «campi di quarantena» non in ogni regione o distretto ma soltanto, guarda caso, in posti considerati «turbolenti». Come il Balochistan, appunto. Dove il campo di Taftan, più che di un campo di quarantena, è diventato un campo di sterminio di massa: gestito dall’esercito, anzitutto, invece che dalla sanità pubblica. Più di quattromila persone ammassate dentro a tende di emergenza. Senza medici, senza medicine, senza mascherine, guanti o disinfettanti e senza nemmeno sapone per lavarsi le mani. Senza cibo, così da costringere gli ammalati ad andare nel villaggio più vicino per procurarsi da mangiare, o a scappare diffondendo ulteriormente il contagio. Le persone contagiate, o presunte tali, vengono inviate a Taftan in quarantena da altre regioni: ma nessuno, nel campo, si preoccupa di fare un test a chi arriva o a chi è già nel campo. Semplicemente, perché i test non sono disponibili, e non ci sono medici a sufficienza. Ci sono i medici volontari del luogo, che fanno quello che possono non disponendo né di attrezzature né di medicine. Ma anche loro sono pochi perché vengono regolarmente presi di mira dall’esercito e dai servizi segreti, e scompaiono o vengono uccisi: come la maggioranza di quelli che, in Balochistan, alzano la testa o cercano di alleviare le disperate condizioni della popolazione. In Balochistan, difatti, non
ci sono ospedali. L’unico ospedale statale degno di questo nome, e l’unico ad avere le attrezzature necessarie a curare il Covid o a prestare cure specialistiche, è l’ospedale di Quetta, Dove si trovano soltanto quattro respiratori, a fronte dei 600 presenti in Punjab. Gli altri ospedali non hanno nemmeno le attrezzature di base e in molti non ci sono nemmeno medici o infermieri: si tratta di malinconici gusci vuoti abbandonati sin dai tempi in cui sono stati costruiti. Ci sono poi gli ospedali militari, che però sono stati chiusi al pubblico dall’inizio della pandemia e curano soltanto l’esercito e i suoi pupilli. Per il resto, anche senza emergenza pandemia, nella regione la gente continua a morire: a morire di parto, a morire alla nascita, a morire di polio e di qualunque altra malattia che, altrove, può essere facilmente curata. Ma, soprattutto, la gente continua a morire di un virus peggiore e diffuso su tutto il territorio: le pallottole. Durante l’emergenza Covid, il Balochistan ha registrato un aumento agghiacciante di omicidi e di casi di persone scomparse, quelle «sparizioni forzate» che Amnesty e altre organizzazioni internazionali continuano da tempo a denunciare. Nel solo mese di aprile, in pieno lockdown, sono scomparse più di cento persone e ci sono stati più di venti omicidi. Per mano dell’esercito, per dei famigerati corpi militari dei Frontier Corps e per mano delle cosiddette «Death Squad», gli squadroni della morte. Le Death Squads sono state create dai servizi segreti per combattere i nazionalisti Baloch e per eseguire in nome e per conto dell’intelligence lavori particolarmente sporchi. Non a caso le fosse comuni scoperte nel 2014, e di cui il parlamento inglese ha recentemente dichiarato di «essere a conoscenza», si trovano nell’area adiacente alla «prigione privata», fornita di apposite celle di tortura, del più famigerato comandante delle Death Squads: Shafiq Mengal. Candidato, tanto per capirsi, alle ultime elezioni pakistane e gestore, tanto per fare buon peso, di campi di addestramento terroristici. D’altra parte l’altro famoso leader degli squadroni, Fayyaz Zangijav, è un membro di rilievo del partito al governo in Balochistan: partito formato in fretta e furia, durante le scorse elezioni, dall’intelligence di Islamabad. Come sostiene la presidente del Baloch People’s Congress Naila Qadri, il virus si è trasformato nell’ennesima arma a disposizione del governo centrale: «Il Pakistan sta adoperando il Covid-19 come una vera e propria arma biologica per portare a termine il suo progetto di pulizia etnica della regione. Il mondo dovrebbe almeno prenderne atto».
Quello di Taftan, più che di un campo di quarantena, è diventato un campo di sterminio di massa gestito dall’esercito. (AFP)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Politica e Economia
La quasi immunità meridionale
Il Sud-6.parte Campania, Puglia, Calabria e Sicilia sono state soltanto sfiorate dalla pandemia
Alfio Caruso Fra i tanti misteri di questi mesi funestati dal Coronavirus il principale riguarda l’immunità sostanziale del Meridione. Campania, Puglia, Calabria e Sicilia sono state soltanto sfiorate dalla pandemia. Finora hanno avuto il 5 per cento dei morti, il 6 per cento dei guariti, il 9 per cento dei positivi ospitando quasi il 30 per cento degli abitanti dell’Italia. Nel tenere bassi i numeri hanno pesato l’assenza dei micidiali focolai sviluppatisi in Lombardia, Veneto, Emilia e Piemonte; la scarsa esposizione a un possibile contagio esterno grazie alla mancanza di turisti nella stagione invernale; l’aver avuto a disposizione un lasso temporale per fare tesoro delle tragiche esperienze delle regioni settentrionali e organizzarsi al meglio. Gli storici del futuro probabilmente ci diranno che in tal modo si è contenuta la strage: a differenza di quanto capitato nell’epicentro del contagio, le strutture sanitarie del Sud non avrebbero avuto gli strumenti per opporsi al Covid 19. Uno studio riservato ha stabilito che con la stessa percentuale di contagiati della Lombardia, il 45 per cento, i deceduti nelle quattro regioni anziché 1300 sarebbero stati fra 50mila e 100mila. Lo scampato pericolo ha solleticato antichi rancori, la possibilità per quanti si sentono bistrattati dalla storia, dal destino, dalla patria matrigna di rifarsi nei confronti dei «polentoni», del loro maggior benessere economico, del loro vanto di essere più vicini all’Europa e più lontani dall’Africa. Nel centosessantesimo anniversario dell’impresa dei Mille di Garibaldi, che consentì ai Savoia di proclamare un anno dopo l’unità della nuova Italia, l’essersela cavata ha contribuito ad approfondire i tanti solchi, che attraversano il Paese. Nel mirino è finita Milano. La città degli affari resa attraente e godibile dall’Expo; la metropoli, che in pochi anni si è posta quasi alla pari di Parigi, di Londra, di New York; la capitale della moda e del design; il polo universitario più ambito dai giovani di ogni re-
Il governatore campano Vincenzo De Luca. (Keystone)
gione sarebbe diventata la vittima del suo stesso successo. L’hanno descritta troppo presuntuosa e sicura delle sue doti; incapace di assumere le decisioni tempestive, che avrebbero potuto salvarla dalla pandemia; obnubilata dal denaro, mentre sarebbero invece occorsi ingegno ed estro. Le critiche sono state rivolte al modello di vita meneghino, anziché rivolgersi alla struttura sanitaria sul territorio rivelatasi pessima, forse la peggiore in assoluto, a dispetto degli eroismi dei tantissimi medici sacrificatisi fino all’estremo. Il lugubre presidente Fontana ha avuto così l’opportunità di difendere il proprio pessimo operato parlando d’inverecondo attacco alla Lombardia. Ha anche ricordato che gli ospedali lombardi, e soprattutto milanesi, curano ogni anno 150mila pazienti provenienti dalle altre regioni. Involontariamente ha messo il dito sul problema: per puntare all’eccellenza e ai relativi, cospicui guadagni, che per l’80 per cento finiscono nelle tasche dei gruppi privati, è stata fatta carne da macello dell’assistenza di base. L’ha dimostrato pure l’assurda, autolesionistica
gestione delle case di riposo. Ma contro la Lega, principale responsabile del pastrocchio lombardo, non potevano esprimersi né Musumeci presidente della Sicilia, né Santelli presidentessa della Calabria essendo entrambi espressione della stessa composita alleanza. Allora hanno pensato di vietare all’inizio e di limitare in seguito l’eventuale arrivo di lombardi nei loro territori. In quei giorni il folcloristico sindaco di Messina, Cateno De Luca, pretendeva di determinare in assoluta autonomia chi potesse o no attraversare lo Stretto minacciando l’arresto dei disobbedienti. Si è sviluppata una singolare gara a chi la sparava più grossa. Da un lato è abbondata la tendenza a sentirsi toccati da una grazia particolare e quindi liberi di formulare qualsiasi atto; dall’altro lato i politici del centrodestra, soprattutto quelli del filone Salvini, hanno cercato di mettere in difficoltà l’odiato presidente del consiglio Conte. La decisione della Santelli di aprire bar e ristoranti quando il governo ne prolungava la chiusura ha rappresentato il punto più alto della sfida. È risultato alquanto avvilente il ricor-
so dello Stato al Tar (tribunale amministrativo regionale) per ottenere il rispetto delle proprie leggi. E allorché il Tar le ha dato torto su tutta la linea, la Santelli ha accampato il merito di aver posto il problema. Poi è apparso un altro De Luca, quello vero, Vincenzo, il presidente della Campania. Formalmente espressione del pd, nella realtà di se stesso; a capo di una dinastia familiare, che non pochi grattacapi ha riservato al partito che fu di Gramsci, di Togliatti, di Berlinguer. Già benedetto dall’imitazione del più corrosivo comico dei nostri giorni, Crozza, stavolta De Luca ha fatto tutto da solo raggiungendo vertici di popolarità impensabili. I suoi video hanno raccolto più spettatori di quelli di Trump. Alcune sue frasi trasformate in tormentone e subito entrate nell’immaginario collettivo: «Ho saputo di una festa di laurea: attenti che vi mando i carabinieri con i lanciafiamme». «Se vediamo nelle pubblicità belle ragazze toniche che corrono con i vestiti aderenti sono cose che ti consolano, ma ho visto vecchi cinghialoni della mia età, che correvano senza mascherine, con la
tuta alla caviglia, una seconda alla zuava, i pantaloncini sopra, che facevano footing in mezzo ai bambini. Andrebbero arrestati a vista per oltraggio al pudore». «Immaginare gente che va sputacchiando goccioline di saliva mentre ci sono bambini o anziani che passeggiano è intollerabile. Chi non indossa la mascherina è una bestia». De Luca è così assurto a politico più conosciuto d’Italia. Il suo ghigno da cattivo hollywoodiano di serie B è diventato un marchio. Ha recitato da sceriffo di una Nazione abituata da sempre a vivere sul confine tra legalità e illegalità, ma all’improvviso tifosa di questo sparatore a salve. Il suo exploit ha mandato in crisi il centrodestra, che contava di defenestrarlo alle elezioni regionali di settembre. Non trovano più un candidato disposto a correre contro di lui, accreditato di un consenso fra il 65 e il 70 per cento. Anche nel pd gli avversari dei suoi metodi da caudillo sud americano sono costretti a mordersi la lingua. L’arrivo dell’estate mette non poco in ambasce i quattro cavalieri dell’Apocalisse, a De Luca, Santelli, Musumeci va aggiunto il presidente della Puglia Emiliano: come comportarsi con il turismo, che poi significa soprattutto con quelli che potrebbero giungere da Lombardia e Piemonte? Di stranieri ne arriveranno pochi, pochissimi: le speranze di salvare alberghi, lidi, ristoranti, discoteche già afflitti dalle distanze di sicurezza si appuntano sugli italiani. Ma si possono escludere quelli provenienti dalle regioni più popolose e più abbienti? Bersagliato da quanti hanno trovato stupefacente la sua decisione di affidare a un leghista l’assessorato alla Cultura e all’identità siciliana, Musumeci ha avuto un rigurgito regionalistico: ha proclamato che la Sicilia sarà vietata ai portatori di contagio, i quali erano indesiderabili perfino in tempi di normalità. Insomma, la classica cantata alla luna nella speranza, non dichiarata, che il mitico indice R0 conceda il via libera a tutti, in special modo a quelli con i dané.
Colombia, così l’esercito spiava i giornalisti
Scandalo Secondo «Semana» fondi Usa contro il narcotraffico venivano usati dal governo per controllare la stampa Angela Nocioni Spiati sistematicamente dai servizi segreti militari colombiani. Spiati con meticolosità e costanza, attraverso l’utilizzo di tecnologie informatiche d’avanguardia combinate ai vecchi metodi di pedinamento. Succede in Colombia a centinaia di giornalisti, politici e persone considerate da parte dei servizi «politicamente pericolosamente attive». Tra loro ci sono giornalisti statunitensi e i reporter in loco del «New York Times» e del «Washington Post». Dettaglio interessante perché l’operazione di spionaggio illegale è fatta con parte dei soldi dati dal governo degli Stati Uniti a quello della Colombia per la guerra al narcotraffico. La notizia è stata rivelata dalla rivista colombiana «Semana». Tra gli spiati c’è Nicholas Casey che copriva per il «New York Times» fino all’anno scorso l’intera area andina, compresa quindi la Colombia. Casey nel 2019 trovò la notizia della richiesta da parte dell’esercito ai suoi militari di raddoppiare il numero dei morti nella guerra contro la guerriglia, un’esortazione alla politica dell’esibizione dei cadaveri che già quindici anni fa portò a innumerevoli omicidi di civili fatti passare per guerriglieri uccisi in scontri armati allo scopo di ottenere ricompense. Il suo scoop era inconfu-
tabile: ha scovato le istruzioni scritte impartite dall’esercito. Risulta spiato dal giorno dopo la pubblicazione dello scoop, da quando s’è tirato addosso l’odio giurato del mondo che ruota attorno all’uribismo, ossia al sistema di potere che ha il suo centro nell’ex presidente Alvaro Uribe, capo politico dell’attuale presidente Ivan Duque che non esita a definire Uribe «presidente eterno». Dopo la pubblicazione dello scoop, Casey è stato accusato direttamente dal partito di Uribe di ricevere finanziamenti dalle Forze armate rivoluzionarie di Colombia e da Uribe stesso di simpatizzare per «i narcoterroristi». Tra i nomi più noti degli spiati c’è Lynsey Addario, premio Pulitzer, diventata oggetto di attenzione illegale da parte dell’intelligence militare colombiana da quando ha realizzato per il «National Geographic» un reportage fotografico nella selva sull’Esercito di liberazione nazionale. Rastrellati tutti i suoi dati e i suoi contatti. Nella lista degli spiati c’è anche l’attuale ambasciatore colombiano presso la Santa sede, Jorge Mario Eastman, ex consigliere di Uribe per la comunicazione ed ex suo viceministro. È stato segretario generale della presidenza della repubblica durante i primi nove mesi dell’attuale governo Duque. Poi spedito a Roma perché – secondo
«el Tiempo», principale quotidiano colombiano – il suo atteggiamento verso Uribe ed altri dirigenti dell’uribismo era ritenuto dal presidente troppo freddo e distante. Un incarico diplomatico dorato per toglierselo di torno, un grande classico. Le prove dell’avvenuto spionaggio sono in un’informativa della Procura generale colombiana che documenta di aver trovato sulla scrivania di un sergente dei servizi militari vari dossier col nome «Caso speciale» e «Lavoro speciale» contenenti report di rastrellamenti di contatti telefonici, fisici e via social di giornalisti colombiani e americani. Oltre a loro fotografie, appunti sui loro spostamenti e i loro luoghi di domicilio. Non è certo la prima volta che la Colombia scopre che i suoi servizi puntualmente spiano i nemici politici del momento o presunti tali. È successo di recente durante il governo di Manuel Santos, quando venne fuori che, durante i lunghi e difficilissimi colloqui di pace tra governo e guerriglia svoltisi (con successo) all’Avana, tutte le comunicazioni dei negoziatori erano state hackerate. Da Bogotà qualcuno che non gradiva l’idea di un accordo di pace stava seguendo in poltrona le trattative in corso all’Avana senza perdersi un dettaglio. Anche durante il secondo governo Uribe, nel 2009, un’agenzia di
Il presidente colombiano Ivan Duque. (AFP)
intelligenza non militare alle dirette dipendenze della presidenza della repubblica risultò aver spiato passo passo giudici della Corte suprema che stavano lavorando sulle protezioni politiche a gruppi paramilitari. Furono trovate microspie piazzate al Tribunale per registrare ogni sessione. Il dettaglio differente nel caso saltato fuori ora è che lo spionaggio è stato fatto anche ai danni di giornalisti americani usando fondi americani quindi finanziati dai contribuenti americani. Fondi non di pochi spiccioli, ma di dieci miliardi di dollari. Tanto è ufficialmente passato negli ultimi diciannove
anni da Washington a Bogotà sotto il titolo «lotta alla guerriglia e al narcotraffico». D’altra parte anche l’uso dei fondi americani per scopi diversi da quelli ufficialmente dichiarati (chissà se sempre a insaputa di proprio tutti al Dipartimento di Stato statunitense) non è una novità. Per decenni la pioggia di dollari con cui gli Stati Uniti hanno inondato Bogotà attraverso il Plan Colombia, il piano di aiuto alla lotta al narcotraffico, è in buona parte poi concretamente servita a finanziare operazioni paramilitari nella selva, anche contro civili e al di fuori di ogni legalità e di ogni controllo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Politica e Economia
Scenari per il dopo
Governance 2025/30 L’irrompere della pandemia rimette in discussione una traiettoria di sviluppo
che in realtà non ha mai trovato un proprio equilibrio
Remigio Ratti La pandemia in corso ha in un attimo stravolto il paesaggio economico e sociale in cui viviamo. Superata l’emergenza, entreremo per qualche anno in una cruciale fase di riassetto dell’economia e della società e in una traiettoria di sviluppo poco lineare e di rottura. Fra dieci anni vivremo in uno scenario, certo ancora tutto da scoprire, ma ben diverso da quello delle prime due decadi di questo XXI secolo. La pandemia, nella sua dimensione mondiale e dagli effetti dirompenti, avrà ulteriormente messo in evidenza accanto agli sconvolgimenti ambientali e climatici, la natura sistemica di tutta una serie di processi di sviluppo poco convergenti, di squilibri territoriali e sociali, a loro volta nuovi poiché da leggere nella dimensione tecnologica dell’era della digitalizzazione.
«Coscienza Svizzera» ha elaborato un documento in cui si ipotizzano quattro possibili evoluzioni per l’economia del nostro cantone Ma come è possibile, dopo che questa pandemia ha dimostrato tutta la fragilità della nostra società, pensare con una certa ragionevolezza al futuro? Molte sono le ipotesi, le variabili da considerare e coniugare in strategie politiche. Frutto di culture e sensibilità differenti, le risposte non saranno mai univoche e rappresentano solo dei tentativi ai quali una società e una politica responsabile non possono sottrarsi. Per questo è utile avere a disposizione una bussola orientativa. In un recentissimo e-paper del gruppo di studio Coscienza Svizzera – www.coscienzasvizzera.ch – abbiamo voluto elaborare diversi scenari e valutare la capacità del Ticino ad affrontare le sfide interne/esterne della propria territorialità – quindi la governanza di medio-lungo termine del proprio sviluppo – nonché indicare delle «massime» d’orientamento strategico per uno scenario auspicabile.
Il tunnel del Ceneri; le nuove infrastrutture ferroviarie sono una delle risorse per il futuro. (TiPress)
Da un lato possiamo contare sui nostri punti di forza interni e sulle opportunità che le dinamiche esterne ci possono offrire; dall’altro, occorre essere coscienti delle nostre debolezze interne e saper riconoscere per tempo le minacce che incombono dall’esterno. Senza entrare nel dettaglio il lettore potrà soffermarsi sull’elencazione contenuta nella tabella qui sotto. L’analisi mette in luce il buon posizionamento del Ticino, sia grazie al contesto del federalismo svizzero, sia rispetto al collocamento sull’asse di comunicazione gottardiano; esso fa da premessa
e supporto per tutta una serie di attività strutturanti, pubbliche e private, orientate all’innovazione e all’integrazione in uno spazio di relazioni necessariamente aperto. Tuttavia, di fronte ai fattori esterni di crisi e considerando i suoi tradizionali fattori di debolezza, il Ticino mostrerebbe tutta una serie di problematicità di sviluppo il cui grado varia a dipendenza degli scenari. Quattro sono gli scenari identificati: quello della RIPARTENZA o ricupero a partire dalle posizioni preCovid, con orientamento, ma non per
Analisi «SWOT» dei punti di forza, di debolezza; delle opportunità e delle minacce per il Ticino 2025/30 FORZE (ambiente interno)
DEBOLEZZE (ambiente interno)
■ Affidabilità delle condizioni quadro istituzionali elvetiche e cantonali ■ Resilienza della società e del mondo del lavoro ■ Economia diversificata e amplificata dal bacino transfrontaliero ■ Potenzialità di valorizzazione del capitale territoriale del Ticino (paesaggio; effetti di rete e di apprendimento collettivo) ■ Qualità delle strutture di formazione e di ricerca ■ Migliore accessibilità ferroviaria regionale (GbC/CittàTicino; metro transfrontaliero) e transalpina (GbG)
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Scarsa e controversa governabilità dei rapporti di frontiera Centri decisionali fuori cantone Limitata capacità pubblica Debolezze nello spirito d’iniziativa e nella propensione al consenso e alla coesione locale-regionale Disparità e debolezze del mercato del lavoro Invecchiamento della popolazione e dipendenza dai fenomeni migratori Penalizzazione (specie nel Sottoceneri) della mobilità terrestre e d’agglomerazione Diseconomie nei processi d’urbanizzazione e fragilità ambientale
OPPORTUNITÀ (ambiente esterno)
MINACCE (ambiente esterno)
■ Buon posizionamento tra gli spazi metropolitani di Zurigo e di Milano ■ Implementazione mirata delle potenzialità delle innovazioni tecnologiche, economiche e sociali ■ Riorientamento delle visioni e dei valori sociali personali e collettivi ■ Orientamento generale verso obiettivi e processi di sviluppo sostenibile ■ Riaffermazione di un federalismo solidale e della coesione nazionale
■ Recessione economica con forti incidenze strutturali ■ Aumento delle disparità e delle divergenze transfrontaliere – Crisi mercato del lavoro ■ Impatti economico-sociali negativi dell’era della digitalizzazione ■ Forte apprezzamento del franco svizzero ■ Protezionismo e derive sovraniste ■ Crisi migratoria ■ Crisi climatiche e ambientali
tutti, alla crescita e quello, agli antipodi, di un DECLINO-INVOLUZIONE, quando la combinazione tra debolezze e minacce esterne dovesse portare a una visione protezionista/sovranista. Ma lo scenario più realistico ha le caratteristiche di uno STOP AND GO dove, di fronte a un futuro più che mai incerto, ognuno tenderebbe a scegliere la propria strada, poiché le condizioni di partenza e l’orizzonte sono spesso differenziati – nella realtà e/o nella percezione – secondo i settori e rami d’attività o delle categorie sociali. Ne conseguirebbe una governanza politico-economica assai laboriosa, con aspettative oscillanti tra sostegno alla crescita e necessità di correzione delle disparità; senza dimenticare i problemi di convergenza e di sostenibilità dello sviluppo territoriale. Lo scenario auspicabile e non impossibile lo abbiamo denominato RESA, che sta per RIASSETTO ECONOMICO-SOCIALE E AMBIENTALE. L’acronimo RESA è curiosamente ambivalente, ma nel medesimo tempo, un unico vettore: può essere interpretato come resa dei conti, quindi come la fattura del dopo virus per la crisi del sistema economico e della socialità che viene ad aggiungersi alla crisi climatica e ambientale; ma lo si deve pensare anche come resa, quale prodotto finale di un processo produttivo, in questo caso in termini di efficacia nella governanza politica. Il raggiungimento degli obiettivi dello scenario RESA è essenzialmente legato a una strategia orientata ai progetti, dove il risultato auspicato non deriva solo dalla loro somma, quanto soprattutto dalla loro convergenza verso l’obiettivo di una territorialità sostenibile. Un approccio che sta nel cuore delle scienze regionali e che può essere letto anche in chiave di «economia civile».
Facciamo degli esempi classificandoli secondo la terminologia dell’informatica. Tra i progetti hardware troviamo le nuove infrastrutture ferroviarie, specie il Metro della Città Ticino. Contrariamente agli altri, lo scenario RESA implica una governanza strategica dei loro effetti – d’attrazione ma anche di drenaggio – delle nuove infrastrutture ferroviarie. Tra questi anche gli effetti su insediamenti, demografia e movimenti migratori che, a medio-lungo termine saranno la sintesi della nostra dinamica di sviluppo. Nell’ambito software sarà cruciale andare oltre il risultato di una territorialità semplicemente affidata ai successi e insuccessi di singoli progetti, sia pur polarizzanti, e alla loro sommatoria. Occorre rendere convergenti e coerenti con la nostra territorialità tutta una serie di progetti che giustamente vengono designati come poli per i loro effetti trainanti e strutturanti. Dai poli settoriali della finanza, moda, logistica, sanità, energia, cinema, ecc., ai poli dello sviluppo territoriale, ora ai masterplan di cui si stanno dotando le nuove città nate dalle aggregazioni comunali. Vi è spazio per mettere alla prova, sempre nello scenario RESA, le massime della partecipazione e della prossimità, con le loro formule di negoziazione pubbliche-private, con la messa in comune delle energie di tutti i portatori d’interesse e in scale di prossimità il più aderenti possibili ai principi di sussidiarietà e dello sviluppo sostenibile. Concludendo, con un certo ottimismo si può pensare, come ritengono alcuni filosofi politici, che è proprio in occasione di situazioni drammatiche che la politica riesce a fare dei salti che altrimenti non avrebbe fatto, o avrebbe altrimenti fatto in dieci o venti anni.
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Politica e Economia
Tassi d’interesse negativi: fino a quando?
Remunerazione del capitale COVID-19 ha azzerato le possibilità di rialzi a breve-medio termine Edoardo Beretta «Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?» (cioè «Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?»), si domandava Cicerone nella prima delle celebri orazioni Catilinarie. Allora, correva l’anno 68 a. C. Facendo un salto ai giorni nostri, non c’è dubbio che le banche centrali del pianeta abbiano con successo contrastato la crisi economico-finanziaria globale dal 2007 in poi oltre che con misure di quantitative easing, cioè concessioni di liquidità straordinaria, anche per mezzo di incessanti e consistenti tagli dei tassi d’interesse centrali. Quest’ultimo provvedimento si rende necessario ogni qualvolta la congiuntura economica tenda a stagnare o fermarsi a tal punto da dover essere rilanciata con vigore. Riducendo la base di riferimento fissata dalla banca centrale stessa su cui le banche commerciali possono applicare i loro margini di guadagno per concedere prestiti all’utenza finale stessa, si incentiva almeno nel breve-medio termine la ripresa di un’economia. Che la crisi, da cui ci si sta ancora soltanto lentamente riprendendo, sia stata la più virulenta dalla Grande Depressione della fine degli Anni Venti è indiscutibile. Prima della pandemia da COVID-19 lo sarebbe altrettanto stata la necessità che si tornasse alla normalità anche sotto il profilo dei tassi di interesse, che in Nazioni come la Svizzera
rimanevano ancora negativi (cfr. tasso guida BNS a -0,75%). Dall’avvento della crisi sanitaria globale cagionata dal Coronavirus – in modo assai tipico per le scienze economiche, che sono costituite da «cicli» e «ricicli» – le banche centrali stanno da un lato cercando di ridurre per quanto possibile l’impatto dell’emergenza (anche economica, ormai), dall’altro hanno azzerato la remunerazione del risparmio individuale detenuto nella sua forma contabile. In tali circostanze, il risparmiatore non si vedrà più «premiare» dalla propria banca di fiducia, ma talvolta addirittura addebitare un quid in forza dei già citati tassi d’interessi negativi. Preso atto che COVID-19 ha reso impossibile un rialzo dei tassi d’interesse nel breve-medio termine a fronte delle previsioni di crollo del PIL (ad es., -5,9% negli USA, -7,5% nell’Area Euro1 etc.), tale aspetto può divenire, a più di un decennio, pregiudizievole per l’economia. COVID-19 aggrava, quindi, una situazione già compromessa per il risparmio – ben più importante: per l’educazione ad esso, che costituisce il fondamento dell’accumulazione di capitale futuro –, che necessita di essere tutelato in epoche di iperconsumismo, precarietà o nomadismo lavorativo «incentivato», oltre che di elevato debito pubblico e privato (quest’ultimo troppo poco al centro dell’attenzione). Il rischio concreto è, infatti, quello di educare intere generazioni a non rispar-
Alcuni dati macroeconomici svizzeri (2008-2018)2 2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
2018
Tassi a prestito (%)
3,34
2,75
2,73
2,72
2,69
2,69
2,69
2,68
2,65
2,63
2,63
Tassi sui depositi (%)
1,81
0,09
0,07
0,06
0,04
0,03
0,03
-0,14
-0,20
-0,27
-0,32
Prestiti domestici del settore finanziario (% PIL)
165,0
175,5
172,8
174,8
182,3
172,7
174,0
174,8
179,0
-
-
Debito delle economie dome- 185,7 stiche (% PIL)
189,5
195,8
200,0
203,1
204,6
207,9
213,2
212,1
-
-
miare in quanto poco conveniente ed arduo in società post-moderne dai mille stimoli. Ancora una volta, l’assenza di prospettive di guadagno dal capitale risparmiato penalizza meno i grandi gruppi industriali, che sono infatti in grado di diversificare le proprie attività di investimento (puntando su altre più rischiose in quanto più remunerative) e possono «spalmare» le eventuali perdite sull’utente finale, ed incide invece negativamente sui soggetti economici privati come noi tutti. Se risparmiare diventa sempre meno conveniente ed i salari tendono a «rimanere al palo» a fronte di scarsi rialzi dei prezzi al consumo (senza però considerare voci di spesa in rialzo quali cassa malati, costi immobiliari etc. non contemplate nei principali indici di riferimento), la perdita nel tenore di vita individuale può non essere evidente
subito ma cumulativamente potrebbe fare la differenza rispetto a generazioni precedenti più fortunate. Il problema è anche europeo, con la BCE che ha annunciato di rivedere la strategia monetaria: in Germania, almeno prima di COVID-19, si è riflettuto su misure di legge atte a svincolare i conti deposito/risparmio (entro certi limiti) dall’applicazione di tassi inferiori a 0%. L’abbandono dei tassi di interesse negativi sarebbe stato da tempo necessario – indipendentemente che altre variabili macroeconomiche possano confermare che la ripresa non fosse ancora del tutto in atto. Che esso sia stato procrastinato a data da determinarsi lo dimostrano gli ulteriori tagli (dopo i flebili rialzi) da parte della Federal Reserve (da +1,25% a +0,25%) e della Bank of England (da +0,25% a +0,10%) a marzo
20203. Quanto a lungo il risparmio individuale possa ancora reggere è altrettanto incerto. Note
1. https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/04/14/weoapril-2020. 2. Elaborazione propria da: https:// data.worldbank.org/indicator/ FR.INR.LEND?locations=CH, https://data.worldbank.org/indicator/ FR.INR.LEND?locations=CH, https://data.worldbank.org/indicator/ FS.AST.DOMS.GD.ZS?locations=CH e https://data.oecd.org/hha/household-debt.htm#indicator-chart. 3. https://www.global-rates.com/ interest-rates/central-banks/centralbanks.aspx. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 2 giugno 2020 • N. 23
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Un futuro all’intelligenza artificiale nel Cantone Il prestigio di un’università dipende da quello delle sue unità di insegnamento e ricerca, e il prestigio di queste da quello che sanno conquistarsi i loro collaboratori e le loro collaboratrici sulla scena scientifica, a livello internazionale. Da qui l’importanza dei concorsi per le singole cattedre e per i singoli posti di responsabilità nei dipartimenti e negli
Luca Maria Gambardella, attuale direttore dell’Istituto Dalle Molle. (TiPress)
istituti. La Supsi, secondo quanto si è potuto apprendere dai giornali, sta cercando un nuovo direttore per l’istituto Dalle Molle, istituto specializzato in intelligenza artificiale. In sé si tratta di un normale avvicendamento, determinato dal passare del tempo. L’attuale direttore, che ha diretto egregiamente l’Istituto nel corso degli ultimi anni, probabilmente è andato o sta andando in pensione e deve essere sostituito. Ma la nomina del nuovo direttore ha un’importanza particolare e questo per almeno due ragioni. In primo luogo perché questo istituto è certamente tra quelli di maggior prestigio del polo universitario ticinese. In effetti il Dalle Molle che, lo ricordiamo, nacque diverse decine di anni fa per iniziativa di un industriale italiano particolarmente preveggente e appassionato di cibernetica, rappresenta oggi una delle migliori unità di insegnamento e di ricerca in intelligenza artificiale del nostro paese. Nel corso degli ultimi anni ha saputo
portare nel nostro Cantone numerosi progetti di ricerca internazionali, ciò che gli ha permesso di aumentare gli effettivi dei ricercatori da poche unità a diverse decine. Non poche sono state anche le tesi di dottorato preparate in seno a questo istituto. Va poi notato che il cambiamento al timone dell’Istituto arriva proprio quando le applicazioni dell’intelligenza artificiale stanno per cambiare profondamente il nostro modo di vivere e lavorare. L’intelligenza artificiale, precisa Wikipedia, è una disciplina appartenente all’informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana. Per fare un solo esempio, conosciuto da tutti i lettori, sono metodologie di questo tipo che
dovrebbero permettere la costruzione di automobili a guida autonoma. Si tratta di un’applicazione dell’intelligenza artificiale che rivoluzionerà non solo il nostro modo di viaggiare in automobile, ma una serie di attività che oggi orbitano attorno alla guida del veicolo, ivi compreso una parte del diritto della circolazione e certamente non poche norme dei sistemi assicurativi vigenti. Per la grande varietà di applicazioni che l’intelligenza artificiale consente, gli specialisti di questa disciplina saranno richiesti come lo furono a suo tempo i programmatori, prima, e poi gli informatici. L’apparato di produzione del nostro Cantone è formato soprattutto da piccole e piccolissime aziende. Che, per anni ancora, non faranno ricorso all’intelligenza artificiale. Tuttavia nel settore dei servizi, e in particolare nei rami dei trasporti e della sanità, è possibile che si ricorrerà abbastanza presto ad applicazioni discendenti da questa nuova metodo-
logia. Altrettanto importanti saranno però le applicazioni, come l’automobile a guida autonoma, che tenderanno a modificare profondamente il nostro modo di vita quotidiano. È quindi necessario che il know how in I.A., già presente all’interno del polo universitario ticinese, venga preservato e, nella misura del possibile, ampliato. Per tutte queste ragioni l’avvicendamento al vertici dell’istituto Dalle Molle può essere considerato come una delle decisioni più importanti del momento per le nostre autorità universitarie. Il nuovo direttore, o la nuova direttrice, influenzerà per diversi anni la strategia che le nostre due università adotteranno in materia di intelligenza artificiale. Si spera che lo possano fare in modo da assicurare alle aziende locali un contributo notevole in materia di ricerca, sviluppo e di preparare in modo adeguato le nuove leve che, tra poco, saranno chiamate a sostituire i quadri tecnici e gestionali della nostra economia.
«azzardo morale» – la responsabilità, come c’era nel caso della Grecia e dei suoi conti sballati – è stata determinata da alcuni fattori. La sentenza della corte tedesca di Karlsruhe ha avuto un ruolo importante: la corte aveva detto all’inizio di maggio che il quantitative easing della Banca centrale europea non era legittimo, violava il suo mandato. Quella sentenza era risuonata malissimo in Europa, e con molte ragioni, tanto che la Corte di Giustizia dell’Ue ha dovuto ristabilire l’ordine delle competenze e dire che in materia europea una corte nazionale non ha giurisdizione. Dal punto di vista politico e d’immagine l’effetto è stato ancora più disastroso: la solita Germania. In un continente in cui il tic antitedesco è tra i più resistenti che ci sia, la sentenza ha fatto da detonatore. I giornali tedeschi raccontavano lo scontro con un certo allarme – condiviso dalla cancelliera
– e aggiungevano: sono in arrivo altre sentenze del genere. Secondo alcune ricostruzioni, la Merkel non ha voluto attendere un altro scontro, per di più nel momento in cui l’Europa e quindi anche la Germania cercavano di recuperare il tempo perduto inizialmente nella reazione alla pandemia. Nella consapevolezza merkeliana non ha pesato però solo la corte. Ci sono state molte pressioni, soprattutto da parte del presidente francese Macron, che inizialmente ha anche tentato di triangolare con il premier olandese Mark Rutte (un frugale) per tentare di allargare la proposta franco-tedesca a un altro paese. Come si sa, anche il direttorio Parigi-Berlino non è visto con molto affetto, in Europa. La Merkel era stata molto collaborativa, ma neppure Macron – si dice – si aspettava una rivoluzione di questa portata da parte della cancelliera. Nel frattempo in Germania la Mer-
kel aveva lanciato un piano di aiuti statali che avrà un impatto enorme sul mercato interno: le aziende tedesche sono quelle più aiutate, e molti parlano di uno «squilibrio» che va risanato in fretta per contenere le divergenze nella ripresa. Come anche in passato, la Merkel ha maturato la propria consapevolezza ascoltando gli altri ma soprattutto scomponendo il problema come una scienziata e quando è arrivata al nucleo ha realizzato che se la solidarietà tra le persone era stata decisiva nel contenere il virus lo sarebbe stato anche a livello internazionale. L’effetto di questa rivoluzione si valuterà nel tempo, anche in vista del difficile processo di successione della cancelliera, ma un primo assaggio c’è già stato. La proposta della Commissione europea per «l’Europa della prossima generazione» si fonda sulla solidarietà, ed è uno schiaffo all’avarizia.
quelle poi messe in discussione perché gravate di responsabilità negative, che si ricava il ritratto dell’Henry Kissinger pensatore paladino della realpolitik, capace di convincere e talvolta anche di meravigliare con le sue analisi. La sua carriera inizia in parallelo con i trascorsi di soldato semplice degli Stati Uniti dov’era giunto adolescente con i genitori per sfuggire al nazismo poco prima della ultima guerra mondiale. Arruolato appena acquisita la cittadinanza e subito ingaggiato (aprile 1944) in virtù del suo tedesco perfetto come aiutante del generale comandante della divisione inviata a Krefeld, Kissinger riuscì a portare a compimento, benché soldato semplice e nel giro di poche settimane, la riorganizzazione dell’amministrazione della città, accelerandone il ritorno alla normalità. Promosso sergente e inviato in altre città a insegnare i suoi metodi (anche nell’individuazione di nazisti in fuga), a guerra conclusa, nonostante le offerte per una carriera militare o nei servizi segreti, preferì tornare agli studi sino
alla laurea in legge conseguita nel 1950 ad Harvard, ateneo in cui ha poi svolto una lunga e prestigiosa carriera professorale. In parallelo iniziò a muovere i primi passi anche nell’arena politica, avvalendosi della protezione di Nelson Rockefeller che lo volle direttore della sua Fondazione, preparandolo alle consulenze con l’amministrazione governativa, dapprima con i presidenti Kennedy e Johnson, poi agli incarichi governativi con Nixon e Ford. Al di là del suo prestigio politico – l’apice furono i negoziati segreti con Mao e la riapertura delle relazioni diplomatiche con la Cina – il lato che maggiormente mi affascinava è sempre stato quello del Kissinger intellettuale e comunicatore, affinatosi negli anni come saggista ed editorialista in parallelo con l’insegnamento universitario. Numerosi i suoi libri di successo, soprattutto quelli che rievocano e spiegano le principali tappe storiche della sua attività a capo della diplomazia statunitense (dai vari negoziati nel periodo della presenza armata americana nel sud-est asiatico,
sino ai ritratti dei grandi «leader» e alle testimonianze, quasi diaristiche, della sua presenza alla Casa Bianca). Vasta anche la serie di saggi, tra i quali mi è caro un ormai introvabile libretto, edito da Mondadori, che riunisce tre saggi, tra cui il celebre Policentrismo e politica internazionale in cui Henry Kissinger traccia una lezione di scienze politiche radiografando pregi e difetti di amministrazioni e burocrazie occidentali. Tornando all’editoriale sul «Wall Street Journal» citato all’inizio, dopo un giudizio sostanzialmente positivo su quanto gli Stati Uniti e i vari Stati hanno deciso per contenere la pandemia, Kissinger si è preoccupato anche di suggerire maggiore attenzione per i problemi a media scadenza, sostenendo che quanto fatto sinora non deve adombrare un compito urgente di tutte le amministrazioni occidentali: avviare il passaggio a un ordine mondiale postcoronavirus. Nessun Paese, secondo l’ex-Segretario di Stato, può pensare di superare la crisi da solo, fuori da «una visione e un programma globale».
Affari Esteri di Paola Peduzzi Schiaffo all’avarizia Se non ci salviamo tutti, non si salva nessuno. La svolta di Angela Merkel è sintetizzata in questa sua consapevolezza di solidarietà necessaria e salvifica, che è maturata con un poco di ritardo rispetto ai tempi della crisi del Coronavirus, ma poi si è espressa in tutta la sua forza. Il momento in cui la consapevolezza è diventata proposta politica è stata la conferenza stampa del 18 maggio assieme al presidente Emmanuel Macron, quando insieme hanno presentato un aiuto alle regioni più colpite dalla pandemia del valore di 500 miliardi di euro senza prestiti ma con investimenti a fondo perduto: l’iniziativa porta alla creazione di un debito comune europeo, non dei singoli stati. La Merkel ha così superato il tabù rigorista che da sempre caratterizza la sua Germania in Europa, staccandosi dai cosiddetti «paesi frugali» dell’Unione europea – Austria, Olanda, Danimarca e Svezia – per unirsi alle
domande di integrazione che vengono dal sud del continente (e dalla Francia). Da quando la Merkel si è staccata, la frugalità – rigore dei conti, austerità – è diventata, nel racconto delle faccende europee, avarizia: è proprio questo il salto che la Merkel ha scelto di non fare, inaccettabile di fronte alla «più grande crisi del Dopoguerra», come la chiama lei, che ha mostrato fin dall’inizio l’urgenza di una maggiore solidarietà. Non sarò avara. Il negoziato sugli aiuti ai paesi europei è appena iniziato, la versione finale dovrà essere approvata dai Parlamenti nazionali: il processo è lungo e sarà pieno di ostacoli. Ma la cancelliera ha mostrato, a diciotto mesi dalla fine del suo mandato, un cambio di passo, l’ambizione di non lasciare soltanto un’eredità forte in Germania, ma anche in Europa. La decisione di abbandonare l’ortodossia tedesca di fronte a un’emergenza in cui non c’era il cosiddetto
Zig-Zag di Ovidio Biffi Lunga vita al professor Henry «Quando la pandemia da Covid 19 sarà finita, le istituzioni di molti Paesi verranno percepite come fallite. Se questo giudizio sia obiettivamente equo è irrilevante. Di sicuro il mondo dopo il coronavirus non sarà più lo stesso». Questa lucida analisi del momento che stiamo vivendo l’ha esposta Henry Kissinger in un editoriale pubblicato nelle scorse settimane sul «Wall Street Journal». L’anziano professore di Harvard, quasi a voler dare forza al suo giudizio, nel prosieguo ha voluto precisare che, anche se «l’emergenza sanitaria sarà temporanea (…) le democrazie del mondo devono difendere e sostenere i loro valori illuministici» se vogliono evitare che lo sconvolgimento politico ed economico scatenato dal virus possa durare per generazioni. A dispetto del suo 97.mo compleanno (raggiunto il 27 maggio) l’ex-segretario di Stato americano sfoggia una forma psico-fisica in mirabile sintonia con la sua straordinaria statura di politologo. E non a caso tra i tanti personaggi politici le cui opinioni sono ascoltate
a livello di grandi potenze e di enti sovranazionali, pochi sono coloro in grado di esibire la stessa autorevolezza. Presentare Henry Kissinger in poche righe non è impresa facile e alla fine prevale sempre il giudizio con cui è stato immortalato da Oriana Fallaci in una famosa intervista: un «cavaliere solitario» delle relazioni internazionali. Sulle radici europee e sull’origine ebraica tedesca, il giovane Kissinger ha saputo innestare i metodi diretti e la concretezza della tradizione politica americana, strumenti che gli hanno consentito di primeggiare a lungo nella sua azione come consigliere di presidenti, segretario di Stato e consigliere della sicurezza nazionale, quindi sempre ai massimi livelli nell’ambito dell’amministrazione americana. Ma non è nella folta giungla del suo passato politico, o nell’elenco dei riconoscimenti importanti e dei prestigiosi meriti conseguiti in politica estera che si può individuare il ritratto più esaustivo. Piuttosto è dalla spregiudicatezza di certe scelte o prese di posizione, anche
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Cultura e Spettacoli La vera Parigi Giuseppe Scaraffia ci offre una guida imperdibile e insolita sulla Rive Droite parigina
Il talento di Benedikt Benedikt von Peter, classe 1977, dopo aver assunto il prestigioso ruolo di sovrintendente al Luzerner Theater, è ora stato chiamato anche dal Theater Basel
La grandezza di Plinio Di Gaio Plinio Secondo (il Vecchio) ci è pervenuto un trattato che è un capolavoro pagina 46
pagina 43
pagina 42
L’abisso nella casa
Film Riguardando, oggi, L’angelo
sterminatore di Luis Buñuel
Daniele Bernardi Cosa ne è degli agiati protagonisti di L’angelo sterminatore (1962) di Luis Buñuel quando, dopo un tempo di indefinita reclusione che li ha visti mostrarsi per le bestie che sono, riescono finalmente a varcare la soglia del salotto in cui erano costretti da un surreale incantesimo? E perché nell’intitolare la sua opera il regista spagnolo sceglie di non utilizzare il nome della pièce di José Bergamín a cui attinge – I naufraghi di Via della Provvidenza – ma l’immagine biblica di Abaddón, l’angelo dell’abisso che appare nelle pagine dell’Apocalisse di Giovanni? Per rispondere occorre forse proprio partire da qui, dal significato etimologico di «apocalisse» che ha la sua radice in «rivelare». Ma quale rivelazione si cela nell’enigmatica conclusione della pellicola? Dopo essere stato a teatro, un gruppo di amici dell’alta borghesia è invitato a trascorrere la serata da una delle famiglie. Mentre fervono i preparativi della cena, come un’animale che percepisce la catastrofe, la servitù prende a defilarsi misteriosamente. Cominciano le prime stranezze: due scene si ripetono pressoché identiche, con minime varianti, quasi che la comitiva (e con essa lo spettatore) fosse vittima di un curioso déjà vu. Poi improvvisamente, senza spiegazioni, una delle invitate scaglia un posacenere
contro una vetrata mentre orsi e agnelli fanno capolino nella stanza accanto; da una borsetta sporgono piume e zampe di gallina, ma il party continua fra leccate chiacchiere di superficie. Man mano che il tempo trascorre, tutti pensano che sarebbe il momento di andarsene – l’ora si fa sempre più tarda – senza che nessuno prenda iniziativa. Ecco che allora, chi un poco divertito chi, al contrario, già infastidito, ospiti e padroni di casa approntano un bivacco nel salotto in attesa dell’alba. Il mattino successivo il disagio comincia a farsi palpabile, ma ancora, prigionieri di fisionomie forgiate dalla formalità, non si parla apertamente di quanto avviene. La situazione però non tarda a degenerare perché rapidamente i viveri scarseggiano ed è tempo di dire la verità: anche se non se ne capisce la ragione, non è più possibile lasciare la stanza. Qualcosa lo impedisce. Iniziano a esserci le prime vittime: sfiancato dalla situazione, un anziano spira sul divano mormorando «Contento... non vedere lo sterminio» mentre un medico cerca di sostenere una comunità sempre più in preda alla violenza delle proprie pulsioni: liti, accuse, notturni tentativi di abuso e percosse costellano un inesorabile stravolgimento condito di allucinazioni e incubi che tolgono il sonno. Il salotto si muta in un «accampamento di zingari» che ricorda un rifugio di profughi, di naufraghi costretti a condividere la
Il regista Luis Buñuel in un disegno di Ledwina Costantini. (Ledwina Costantini)
propria intimità degradata. Per sopperire alla mancanza di acqua la tribù rompe i muri cercando le tubature e il cibo, su suggerimento del maggiordomo che vediamo raccogliere frantumi di calcinacci in una fruttiera d’argento, è sostituito da frammenti di carta appallottolata; più tardi saranno gli agnelli della casa a saziare i presenti Infine, come colti da un’illuminazione, all’apice del disfacimento i membri trovano un modo per infrangere la maledizione quando d’un tratto, senza volerlo, ognuno si accorge di essere nella posizione che aveva nel momento in cui, al principio di tutto, rimase vittima dell’impossibilità di
uscire. Vengono quindi ripetute le frasi dette durante la serata e, come per magia, è concesso raggiungere l’esterno, dove le autorità hanno ormai ammainato la stessa bandiera che indica le zone di isolamento durante le epidemie. È fatta, allora? No, per niente. L’indomani la comunità miracolata si raccoglie a messa, ma a cerimonia conclusa l’ingranaggio si ripete: la gente non riesce e oltrepassare il portone. Fuori, adesso, infuriano i disordini e le forze di polizia si schierano disperdendo la folla che accerchia l’edificio. Intanto, un apocalittico gregge di pecore si incolonna all’ingresso della chiesa.
Se attraverso l’affiorare delle brutali latenze Buñuel si avvicina alla medesima idea che aveva Antonin Artaud del fenomeno sociale della peste («la peste è la rivelazione», scriveva l’attorescrittore nel 1938), con questo epilogo sembra anche offrire un’altro svelamento: la quarantena dei protagonisti è solo la punta dell’iceberg di una crisi strutturale più grande, che coinvolge un impianto di valori eretto sull’orlo del baratro. È illusorio credere che, una volta fuori, si possa realmente abbandonare la stanza, perché essa si estende ben oltre le mura della casa e ha le sue fondamenta nel cuore di un sistema che palesa la sua crisi.
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Quando la vita ci sfida a narrarla
Letteratura È uscito da poche settimane Noi, il romanzo cui Paolo Di Stefano ha lavorato per molti anni
Federica Alziati Se la letteratura possa rappresentare fedelmente la vita, cioè replicarne i tratti e rimetterne in scena i caratteri, è oggetto di dibattito almeno dai tempi di Aristotele. Si può dire che ogni nuova opera, a qualunque genere appartenga, sia un ulteriore esperimento in tal senso, dal momento che qualsiasi trama è inevitabilmente intessuta dell’esperienza condivisa di autore e lettori. Paolo Di Stefano non ha mai fatto mistero di aver inseguito, in ciascuno dei suoi romanzi (a partire da Baci da non ripetere, con cui esordì nel 1994), innanzitutto una trasfigurazione letteraria della propria vicenda familiare, nella speranza di rendere ragione del suo carico di dolore, forse anche di pagare alla sofferenza il tributo che sembra esserle dovuto, per liberarsene almeno in parte. Il suo ultimo lavoro raccoglie e inasprisce la sfida, rinunciando alla maschera della finzione, con l’ambizione di restituire senza veli una storia che si preannuncia straordinariamente personale e inclusiva fin dal titolo: Noi. Il nucleo propulsore del racconto è l’evento traumatico della malattia e della morte del fratello Claudio, prematuramente scomparso all’età di cinque anni. Da lì trae alimento la necessità della scrittura, da lì si regolano il ritmo e le misure della narrazione, da lì deriva persino la spinta decisiva a prenderne le distanze, a ricollocare la perdita in un orizzonte più vasto, che contempla la parabola di almeno tre generazioni. Si dipana così l’avventura singolare dei membri della famiglia Di Stefano, dai primordi nella Sicilia di epoca bellica, arcana e a tratti violenta, alle tappe, stranianti e talvolta desolate, della
Il piccolo Claudio con il fratello Paolo Di Stefano.
progressiva migrazione al Nord, nella fervida Milano, sulle sponde del Lario e da ultimo oltreconfine, nel Canton Ticino. A fare da spartiacque, segnando un prima e un dopo, la lacerazione ineguagliabile della scomparsa di Claudio, che si insinua di continuo negli episodi che precedono e in quelli che seguono, all’inizio come presagio di sventura, poi come fardello di sofferenza che grava sul corso dell’esistenza di chi gli sopravvive. Un fardello che il romanziere condivide con il lettore, con disarmante sincerità: non stupisce che siano serviti venticinque anni, una decina di romanzi e le quasi seicento pagine di Noi per mettere a fuoco in modo tanto nitido la
fisionomia del dramma e ritrarla in un affresco ugualmente vivido, acceso da pennellate dense, materiche, che rendono palpabile la concretezza della ferita. L’imperativo più che mai categorico del realismo, dettato dal dolore, si riverbera quindi nell’integrità della narrazione, sorretta da una scrittura che vuole essere grezza, sporca, permeabile all’espressività e alle abitudini linguistiche di ciascuno dei numerosi protagonisti. Il corpo a corpo tra la letteratura e la vita porta tuttavia con sé anche interrogativi di segno opposto rispetto a quelli indicati in partenza. Rovesciando il quesito sulla capacità dell’arte di ritrarre il reale, ci si trova a domandarsi
se le nostre esistenze quotidiane siano un soggetto adatto alla scrittura letteraria, se esista un criterio di selezione, se la sincerità del racconto sia di per sé un motivo sufficiente. Accade più volte allo stesso Di Stefano, in corso d’opera, di chiedersi se non stia mettendo in scena «una storia […] priva di quel minimo di grandiosità e di tragedia memorabile fuori dal cerchio familiare». Il dubbio complementare è che le esistenze e i personaggi comuni debbano in ogni caso essere rimodellati e, in un certo senso, traditi quando si vuole farne poesia. Capita anche nell’affollato panorama di Noi, soprattutto a ritroso nel tempo: con il capostipite, il pecoraio di Avola «don
Giovanni detto il Crocifisso, ingiuria ovvero soprannome di famiglia», con il suo portato di inevitabili memorie onomastiche verghiane, o con la giovane Dina, non ancora madre né sposa, «affacciata il più possibile alla finestra della camera, amoreggiando a distanza con Enzo Pantano», novella Mena Malavoglia attardata di un secolo; con le ire funeste del Professor Giovanni, cultore dei classici, e con l’angelica bellezza di Claudio, resa immortale dalla morte. È la realtà a riattivare reminiscenze letterarie o il nostro modo di descrivere i fatti a travestirli in modo poetico? Con ogni probabilità, il discrimine non è mai netto. E poco importa, in fin dei conti, perché il fine della letteratura non è la cronaca degli eventi, bensì dare corpo e parola a ciò che non è presente, o non lo è più. Il romanzo di Paolo Di Stefano consegue i risultati più notevoli proprio nel restituire a figure ormai lontane una voce distinta, forse non identica all’esecuzione originaria, ma comunque vera e inscalfibile nel suo nuovo timbro romanzesco. E si supera nel controcanto commovente del fratello morto, che marchia di inchiostro rosso sangue una pagina dopo l’altra: gioiosamente scanzonato, com’è proprio di un bambino, e insieme meditabondo, sapiente, come di una creatura ormai fuori dal tempo. È lei la protagonista – che domanda imperiosamente il proscenio e legittima l’impresa narrativa – «questa voce che mi soffia nell’orecchio […] che soffia entra ed esce […] che si libera dalla nostra storia familiare, la accompagna e quasi la deride». Bibliografia
Paolo Di Stefano, Noi, Milano, Bompiani, 2020
Letteratura e fotografia
Pubblicazioni Le fotografie giovanili degli anni Cinquanta di John Maxwell Coetzee in un nuovo libro
delle eleganti edizioni Contrasto Stefano Vassere «Ros e Freek, nati nel Karoo, sulla spiaggia di Strandfontein – la prima volta che hanno visto il mare. Che effetto gli abbia fatto non lo saprò mai». La casa editrice Contrasto ha, tra le altre, una collana di particolare valore che si chiama «In Parole». Ne è letteralmente evidente il pregio grafico e fotografico: carta scelta, bordo colorato che si estende sulla copertina e riprende il colore del titolo, che per parte sua troneggia su fascia bianca centrale; fogli di guardia di quello stesso colore; grafica misurata e discreta; soprattutto molte fotografie, sbordate, a tutta pagina, raggruppate in colonne. Insomma, difficilmente si troveranno questi libri abbandonati a fianco dei cassonetti negli ecocentri, più probabilmente abiteranno qualche salotto design, che contribuiranno ad arredare con quel loro elegante vestito. Spesso (quasi sempre) la collana propone una sua prospettiva monografica dedicata al rapporto tra fotografia da una parte e letteratura, arti e scienze dall’altra. I nomi sono subito indicativi: Sciascia, Wim Wenders, James Ellroy, Jack London, Pasolini, Saviano, Salgado, Edoardo Boncinelli. Ogni tanto
le scelte sono magari eccessivamente civettuole; spicca per esempio l’abbondante attenzione dedicata alla fotografa-bambinaia Vivian Maier. Di lei, l’utente del sito web può comprare, oltre a quattro o cinque titoli, anche una borsa in cotone. Per il resto, le scelte sono spessissimo di valore. Come nel caso di questo
Prima di scrivere. Fotografie di un ragazzo, dedicato all’attività fotografica che John M. Coetzee praticò prima di diventare lo scrittore che conosciamo e con profitto apprezziamo. Spesso, di queste avventure fotografiche un po’ leggendarie (tutti sanno che è il caso, ancora, di Vivian Maier) della leggenda fa parte anche il ritrovamento che si
«Ros e Freek, nati nel Karoo, sulla spiaggia di Strandfontein - la prima volta che hanno visto il mare». (© 2020 J.M. Coetzee e Cossee Publ.)
vuole casuale di un prezioso tesoro: qui il trasloco da Città del Capo all’Australia dello scrittore, che fa emergere quasi d’incanto e con immagine forte abbondante materiale fotografico (macchinari, rullini e le foto stesse) che altrimenti sarebbe andato perduto e che invece sostanzia questo stesso libro. I soggetti risalgono alla metà degli anni Cinquanta (Coetzee è nato nel 1940) e riguardano principalmente ambienti della scuola e dell’amicizia stretta. I risultati tecnici non sono sempre all’altezza: il giovane fotografo ricorre prima a una microcamera-spia (di quelle che si vedono nei film di James Bond) e poi a una Wega, un’imitazione della Leica II prodotta per poco tempo in Italia, a Pordenone. Tre sono le tesi che accompagnano il lettore di questo libro: che la fotografia sarebbe poi stata un soggetto massicciamente presente nell’opera letteraria del più maturo John; che l’arte espressiva giovanile fosse stata una specie di preparazione a quella più avanzata; che gran parte delle vicende e delle persone ritratte in quegli antichi scatti si sarebbero poi ritrovate pari pari nei romanzi. La tesi centrale è decisamente la più affascinante e forse anche concreta; ed è in quella linea che le didascalie
che accompagnano le fotografie sono spesso citazioni dalle opere, con rinvii in una direzione o nell’altra. A chiudere questo viavai tra arti, la serie porta fotografie dello stesso armamentario di produzione e sviluppo, delle librerie e del materiale scrittorio, un tavolo, una lampada, un righello, penne e boccette di inchiostro. Tutt’altro che inutile la rassegna dei libri della biblioteca nella cameretta del giovane Coetzee; l’elenco è derivato direttamente dalla foto ingrandita e chi vorrà ci potrà trovare qualche destino culturale e letterario. Da quelle letture dedurrà, se vorrà, le scelte dello scrittore che seguì il fotografo. Da un certo punto in poi, le fotografie abbandoneranno tecniche e qualche scaltra malizia da intenditore e prenderanno la forma dei soggetti di servizio che a tutti noi capita di produrre, «feste di compleanno, eventi familiari, istantanee di vacanze». Poi, «la sua creatività iniziale con il mezzo fotografico si trasferisce nei romanzi». Bibliografia
John M. Coetzee, Prima di scrivere. Fotografie di un bambino, Roma, Contrasto, 2020.
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Cultura e Spettacoli
Per vent’anni è stata il centro di Parigi Pubblicazioni Un libro di Giuseppe Scaraffia sulla «dimenticata» Rive Droite
Giovanni Fattorini Nelle giornate italiane del confinamento più restrittivo (giornate di distanziamento interpersonale; di uscite da casa consentite soltanto per validi e certificabili motivi; di passeggiate e flânerie meramente fantasticate; di suggerimenti per l’impiego dilettevole e utile del tempo forzosamente trascorso tra le pareti domestiche – la compagnia di un libro, ad esempio), uno dei più irresistibili inviti alla lettura, per quanto mi riguarda, è stato il titolo di un recente libro di Giuseppe Scaraffia: L’altra metà di Parigi. La Rive Droite. In Francia, la Rive Droite è per antonomasia l’area urbana, situata sulla riva destra della Senna, che comprende 12 delle 20 circoscrizioni municipali (arrondissements) in cui è diviso il territorio del comune/dipartimento di Parigi. «Tra il 1919 e il 1939, nel ventennio tra le due guerre mondiali,» scrive Scaraffia all’inizio della sua introduzione «il centro artistico, letterario e mondano di Parigi era la dimenticata Rive Droite. Da sempre si è abituati a identificare Parigi con la Rive Gauche, ma per molto tempo il centro della città è stato, indiscutibilmente, la Rive Droite.» Coltissima guida e brillante aneddotista, Giuseppe Scaraffia non si è prefisso di ragguagliare il lettore sulla più o meno mutevole fisionomia di strade e piazze della Rive Droite negli anni dell’entre-deux-guerres. Ha voluto, invece, condurlo in alcuni luoghi della zona nord di Parigi (all’aperto e assai più frequentemente al chiuso), che uo-
Louis-Ferdinand Céline in una fotografia del 1932. (Keystone)
mini e donne variamente ragguardevoli (in prevalenza artisti) hanno abitato o frequentato nell’arco di un ventennio. Il numero e la varietà di tali luoghi e di tali personaggi sono troppo grandi perché se ne possa dare un’adeguata esemplificazione. Il libro si compone di 12 sezioni (corrispondenti ai 12 arrondissements della Rive Droite), a cui se ne aggiun-
gono altre due, riguardanti i comuni limitrofi di Neuilly-sur-Seine e Clichy, «quartiere modesto, abitato da operai e impiegati», dove dal 1929 al 1937, al numero 10 di rue Fanny, Louis-Ferdinand Céline (all’anagrafe LouisFerdinand Destouches) esercitò la professione di medico «dei poveri» in un ambulatorio che raggiungeva partendo dalla sua abitazione di rue Lepic,
nel XVIII arrondissement: «un piccolo appartamento in cima a una serie di scale buie», dove viveva con l’amante Elizabeth Craig e la piccola Colette, avuta da un primo matrimonio, e dove «la camera da letto faceva anche da sala da pranzo». È probabile che dopo aver attraversato il primo arrondissement, i lettori del libro di Scaraffia si dividano in due gruppi: da un lato quelli che intendono rispettare il percorso stabilito dall’autore (un percorso lungo il quale si incontrano centinaia di personaggi, alcuni dei quali ricompaiono più volte in ambienti e tempi diversi), dall’altro quelli che utilizzano con golosa impazienza l’indice dei nomi posto in appendice, al fine di leggere consecutivamente i passi riguardanti i personaggi che maggiormente li interessano. In tal modo, per fare un esempio, prima di approdare all’ambulatorio di Clichy, possono incontrare in sequenze ravvicinate l’autore del Voyage au bout de la nuit in diversi punti di Parigi: quai de l’Horloge, quai d’Anjou, quai de Bourbon, rue d’Alsace, rue Lepic. Anche se nel libro di Scaraffia, com’è naturale, hanno maggior rilievo gli artisti e gli intellettuali francesi (Bergson, Proust, Aragon, Breton, Cocteau, Radiguet, Colette, Max Jacob, Eluard, Paul Morand, Gide, Valéry, Bataille, Malraux, Leiris, Sartre, de Beauvoir, Simenon, ecc.), uno spazio notevolissimo è riservato agli artisti e agli intellettuali stranieri (Picasso, Dalí, Buñuel, Foujita, Joyce, Beckett, Pound, Eliot, Benjamin, Majakovskij, Esenin,
Marina Cvetaeva, Gertrude Stein, Hemingway, Fitzgerald, Djuna Barnes, Henry Miller, Tristan Tzara, Brancusi, Giacometti, ecc.). Un vivido rilievo lo hanno anche gli esponenti aristocratici e non del bel mondo parigino (alcuni dei quali furono dei generosi e intelligenti mecenati), nonché i più significativi rappresentanti della brigata internazionale di viaggiatori facoltosi giunti a Parigi in cerca di eccitazioni fisiche e culturali. I personaggi che ho elencato, e altri ancora, agiscono e parlano per lo più all’interno di abitazioni private o locali pubblici di vario tipo: case modeste e palazzi sontuosi (come quello di Charles e Marie-Laure de Noailles), teatri tradizionali (la Comédie Française) e cabaret d’avanguardia (Le Boeuf sur le Toit), bordelli per eterosessuali (Le Chabanais) e bordelli per omosessuali (l’Hôtel Marigny), ristoranti a poco prezzo e ristoranti costosi (come il Prunier e Chez Maxim’s), alberghi economici e alberghi di lusso (come il Ritz e il Majestic). L’elenco potrebbe continuare. Che Scaraffia sia particolarmente attento agli intérieur non stupirà chi ha gustato un suo libro del 1994, Torri d’avorio, accresciuto e ristampato nel 2010, in cui descrive dettagliatamente, e spesso argutamente, gli «interni di scrittori francesi del XIX secolo». Bibliografia
Giuseppe Scaraffia, L’altra metà di Parigi. La Rive Droite, Bompiani, pp. 410, euro 32 Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
L’impossibile è possibile
Incontri A colloquio con il giovane e carismatico Benedikt von Peter, classe 1977, sovrintendente al Luzerner Theater
e dalla prossima stagione anche al Theater Basel
spirito sempre diverso, i miei genitori sono nati uno in Slesia, l’altra è metà olandese.
Marinella Polli Benedikt von Peter, nato nei pressi di Colonia sul Reno nel 1977, è alla guida del Luzerner Theater dal 2014. Dall’autunno lo sarà anche del Theater Basel, pur essendo ancora a Lucerna per tutta la stagione 2020/21. Von Peter ha studiato musicologia, germanistica, diritto e canto a Bonn e a Berlino e si è formato accanto a note personalità quali Peter Konwitschny, Peter Mussbach, Luca Ronconi e Christof Loy, in prestigiosi teatri come la Staatsoper di Amburgo e i teatri di Brema, Hannover, Heidelberg, Francoforte e Basilea. Dal 2006 al 2009 ha insegnato regia alla Hochschule für Musik und Darstellende Kunst di Francoforte, portando le sue competenze e la sua genuina passione per il teatro d’opera. Ha conseguito il Deutschen Theaterpreis DER FAUST per la miglior regia nella categoria opera (L’Intolleranza di Luigi Nono) nel 2011. Lo abbiamo incontrato telefonicamente per un colloquio e, molto disponibile, si è raccontato facendo il punto della situazione sugli aspetti della doppia sovrintendenza, nonché sul teatro in questi drammatici momenti e in generale. Signor von Peter, fra poco dirigerà anche il maggior teatro trisettoriale svizzero, il Theater Basel, con Schauspielhaus e Opernhaus di Zurigo, fra i migliori teatri d’Europa che, pur con un proprio profilo artistico, producono a livello internazionale. Una doppia mole di lavoro:
A Basilea dimostrerà il Suo talento economico-organizzativo, o sarà anche regista?
Una sola regia all’anno e mai fuori casa, salvo una produzione, spesso rinviata, per la Deutsche Oper. La mia generazione vede anche la produzione artistica come un’azienda e continuerò così, mettendo in pratica quanto ho imparato a Lucerna. Seguirà le orme di Andreas Beck, ora a Monaco, e punterà anche Lei molto sul teatro di prosa?
Ho più esperienza in ambito operistico, ma avrò un team forte e cooperativo anche per la prosa: un attore, un regista, un produttore e un consulente alle sceneggiature (due donne). L’importante è un trattamento, anche finanziario, equo dei settori, che non devono necessariamente essere ugualmente forti. Ci dica dello «Spontane Spielpl@n» ora attuato a Lucerna
È un tentativo per tenere in vita il teatro: concerti in città, programmi in live streaming, coreografie online, ecc. Funziona, anche se chi clicca poi non segue sempre l’intero video.
Una doppia sfida per il giovane Benedikt von Peter. (David Röthlisberger)
Il Coronavirus non sparirà, state sviluppando metodi digitali anche per il futuro?
ha più collaboratori.
Che significa dirigere un teatro in questi mesi?
Da due anni opero anche a Basilea; un altro cantone, ma pur sempre in Svizzera. Lavoro tutti i week-end, per lo più via video, spostandomi solo in casi speciali. Da settembre farò il pendolare da Basilea a Lucerna, cioè il contrario di ora; il programma del Luzerner Theater è comunque già pronto da due anni.
In un panorama di operazioni stratificato, bisogna valutare la nuova situazione, coordinare, sviluppare metodi inediti di produzione e comunicazione, scenari inconsueti e con variabili mutanti secondo sempre nuove direttive da Berna e progettare per un futuro di nuovo normale.
Il Theater Basel è due volte più grande,
Con 30 prime annue e con tante
La maggior differenza fra i due teatri?
Lei si definisce un teamplayer con competenza sociale, che significa in pratica?
questioni da affrontare (giuridiche, politiche, assicurative, di pianificazione e coordinamento) sarebbe difficile senza il mio team. Il Coronavirus complica tutto, regna insicurezza, servono chiare linee direttive. Per giunta, a Basilea saremo una nuova squadra.
A Lucerna ha fornito soluzioni concernenti opera, teatro di prosa e balletto gradite a tutti, e sempre a casse piene. Un obiettivo anche per Basilea?
Oggi un teatro deve vendere biglietti, pur tenendo alto il livello artistico. Niente biglietti, niente soldi per inte-
ressanti produzioni. Ci vuole spirito di iniziativa. Corona permettendo, sarà così anche a Basilea. Pensa che sarà più facile integrarsi a Basilea rispetto a quando è arrivato a Lucerna? Lei è di Colonia sul Reno, conosce la mentalità e il famoso umorismo basilese?
Lucerna, come Colonia, è cattolica; Basilea è protestante, ma le strutture sono simili. Tuttavia, più che in Germania, qui il federalismo significa che già a un’ora di distanza regna un’altra mentalità. Amo le differenze regionali, comunicare in lingue diverse e in uno
Il teatro è luogo di incontro e aggregazione per l’intera comunità e il digitale non può sostituire il teatro dal vivo. In Corea i teatri funzionano già, grazie a misure eccezionali: per ora pensiamo a come garantire la sicurezza a spettatori, attori, tecnici. Ho fatto teatro nelle più diverse condizioni, imparando che l’impossibile è possibile.
Non teme le difficoltà moltiplicate per due?
Una prima viene prodotta anche in sei settimane, per cui sono abituato alle difficoltà. Un tempo avevo molte paure, ma ho imparato a conviverci. Aver paura non serve, quando anche l’immediato futuro è incerto!
Donizetti, una vita che fu un vortice
Pubblicazioni Dopo molti anni è stata data alle stampe una versione aggiornata dell’epistolario
del compositore Gaetano Donizetti Giovanni Gavazzeni Da settant’anni si attendeva ordine nell’epistolario di Gaetano Donizetti, dopo l’antico storico lavoro di Guido Zavadini, gli apporti di Guglielmo Barblan e Frank Walker e di vari nu-
meri di «Studi Donizettiani». Gaetano Donizetti – Carteggi e Documenti – 1797-1830, pubblicato dalla Fondazione Donizetti di Bergamo, per la cura di Paolo Fabbri, include fra 278 documenti, 8 inediti donizettiani e 15 di stretti familiari. Il volume è montato come
Ritratto di Gaetano Donizetti (1747-1848) trovato nella collezione di Eötvös Loránd Tudományegyetem. (Keystone)
un’auto-biografia intersecata da citazioni epistolari di parenti stretti, colleghi, impresari, editori. Parole vitali e piene di umori come quelle del compositore agli amici; paludate come nei contratti con delegati e impresari; rozze come quelle del padre-tessitore Andrea o del fratello soldato, che spalancano con la loro lingua appena sbozzata, le porte di quel seminterrato, fuori dalle mura di Città Alta, civico 10 di Borgo Canale, dove Domenico Gaetano Maria, ebbe natali umilissimi il 29 novembre 1797. Un bambino che trovò la Provvida ventura nella figura del compositore bavarese Johann Simon Mayr, ideatore e guida delle Lezioni caritatevoli che a Bergamo istruivano fanciulli senza mezzi né speranze di riscatto. Il ragazzino Donizetti si segnalerà per estro e musicalità, come testimoniano le accademie che Mayr organizza per mostrare i progressi degli studenti ai mecenati e al pubblico. Nella Prova dell’Accademia finale, «i personaggi ed esecutori sono li stessi allievi della scuola, li quali fanno tra loro le prove dell’Accademia medesima e facendosi taluno d’essi maestro a’ colleghi, e quale è il costume de’ giovanetti insolentendosi, e perseguendosi l’un l’altro alcune scelte parti di musica di celebri compositori vanno cantando».
Mayr accompagna Donizetti ovunque con lettere di raccomandazione agli insegnanti bolognesi, al futuro editore Giovanni Ricordi, agli impresari che non poteva soddisfare e a cui segnalava il talento dell’allievo, e perfino a chi di dovere gli potesse evitare la coscrizione che lo avrebbe costretto a «scrivere Tedescamente»! D’altronde le carriere si costruivano appoggiandosi alle conoscenze amicali, perché i colpi dei rivali erano bassi e frequenti. Per l’esordio a Roma con Alahor in Granata, alla cabala contraria montata dalla potentissima principessa Paolina Borghese, amante del collega Giovanni Pacini, si aggiunse la morte improvvisa del tenore Amerigo Sbigoli, al quale scoppiò una vena, dopo aver cercato di imitare il primo tenore Domenico Donzelli, e l’unico sostituito su piazza era una certa Signora Mazzanti, contralto. Sono anni in cui Gaetano Donizetti deve ancora farsi conoscere, come testimonia la grafia «mobile» del suo cognome: trascritto alla bergamasca con la «zeta» pronunciata «s», «Donisetti»; raddoppiate le consonanti alla romana, «Donnizzetti», come lo chiama il Grazioli, maestro di cappella di Santa Maria dell’Anima, che si cura dell’alloggio e della biancheria del giovane musicista. Il collega Mercadante lo chiama
«Donesetti» quando lo introduce presso Luigi Mosca, attivo nel direttivo del Teatro Nuovo di Napoli oppure «Dozzinetti», quando diverrà un serio rivale – storpiatura meno perfida di quella dello zio del compositore Nicola Vaccaj che lo chiama «Nonizzetti». Fra debutti alterni delle opere serie e riprese di successo delle farse, camarille e partiti, poeti neghittosi e impresari spilorci, fra il matrimonio con Virginia Vesselli e la morte del figlio Filippo, nato prematuro e portatore di handicap, la vita scorre accanto al teatro che assorbe tutto: dalle parodie degli anni studenteschi alla vigilia della maturità artistica, sancita dall’incarico di scrivere Anna Bolena per il Teatro Carcano di Milano in sfida diretta con la Sonnambula di Vincenzo Bellini. Appena perso il figlio, il Napoleone degli impresari, Domenico Barbaja «con cui siamo Diavolo e Croce», vuole subito il compositore al lavoro: «ho appena partorito e già mi volete ingravidare?», domanda ironico Donizetti. La risposta è storia del melodramma. Bibliografia
Gaetano Donizetti. Carteggi e documenti 1797-1830, a c. Paolo Fabbri, Bergamo, Fondazione Donizetti, 2018
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Idee e acquisti per la settimana
Torta alle fragole e al formaggio fresco
Il product manager Goran Susic (38) verifica la qualità delle fragole.
«Raccolte a mano il mattino presto»
Goran Susic non vede l’ora che arrivi la stagione delle fragole: in qualità di product manager del settore bacche per la Cooperativa Svizzera orientale il suo particolare interesse per questi frutti è anche professionale Testo: Claudia Schmidt
Gli amanti delle fragole attendono impazienti le fragole di produzione locale. Quando inizia la stagione e quanto dura?
In genere le prime fragole compaiono sul mercato già in aprile. La stagione principale per il raccolto, tuttavia, è di tre settimane e va da fine maggio a metà giugno. Grazie a un’accurata selezione delle varietà, i produttori svizzeri possono però prolungare la stagione e spesso l’offerta di fragole locali si protrae fino a settembre. Come si svolge il raccolto?
Le fragole vengono raccolte a mano la mattina presto. Chi effettua il raccolto, se possibile, depone subito i frutti nella vaschetta. Le fragole sono molto sensibili alla pressione e vengono quindi toccate il meno possibile. Ciò richiede non solo un buon occhio, ma anche una sensibilità speciale nel maneggiare i frutti. Tutte le vaschette vengono inoltre riempite in modo omogeneo, mescolando frutti di diverse dimensioni. Normalmente il giorno seguente le fragole sono già in vendita alla Migros. Quanto tempo ci vuole per imparare a raccogliere le fragole correttamente?
Alcune settimane e quindi ci si orienta, se possibile, su personale disponibile a lungo termine. Le fragole vengono però controllate anche dalla Migros?
Sì, effettuiamo prove a campione. I frutti si assaggiano, ne viene valutato l’aspetto e misurato il contenuto oggettivo di zucchero, come avviene nella produzione viticola. Quali sono i prossimi frutti di coltivazione svizzera ad essere raccolti?
Nella Svizzera orientale ci sono i lamponi e poi i mirtilli. In tutto abbiamo da otto a dieci varietà di frutti di bosco differenti, comprese le specialità come le fragole Sélection Mara des Bois. Ogni cooperativa regionale Migros collabora inoltre con produttori locali, così è disponibile un’ampia offerta di bacche regionali. Com’è l’offerta di frutti di bosco bio?
La domanda è in aumento e le superfici coltivate sono state estese notevolmente negli ultimi anni. Attualmente alla Migros vendiamo molte bacche provenienti da coltivazioni biologiche.
Dessert, per circa 6 porzioni 60g di mandorle in scaglie 70g di burro limone ½ 150 g di savoiardi 5 fogli di gelatina 1 dl di latte di quark semigrasso al naturale 250g di formaggio fresco, per es. M-Budget 300g 50 g di zucchero a velo 400 g di fragole Preparazione 1. Ricoprire con carta da forno il fondo della tortiera apribile. Tostare le mandorle e farle raffreddare. Sciogliere il burro a basso calore. Spremere il limone e grattugiarne finemente la scorza. Tritare finemente le scaglie di mandorle e i savoiardi in un mixer o nel tritatutto. Mescolarli con il burro, il succo e la scorza di limone grattugiata. Distribuire l’impasto sul fondo della tortiera. Schiacciare bene il fondo e metterlo in frigorifero. 2. Fare ammorbidire la gelatina per circa 5 minuti in acqua fredda. Scaldare il latte in un pentolino. Togliere la gelatina dall’acqua, pressarla bene, aggiungerla al latte e mescolare fino a quando non si sarà sciolta completamente. Togliere il pentolino dal fornello. Mescolare il quark con il formaggio fresco e lo zucchero. Mescolare un po’ dell’impasto con il latte, aggiungere quindi il resto dell’impasto e mescolare bene. Tagliare a fettine un quarto delle fragole, distribuirle sul fondo di biscotto, versarvi sopra l’impasto e spianarlo. Coprire e mettere a raffreddare in frigorifero per circa 3 ore. 3. Togliere con prudenza la torta dalla forma. Tagliare a fettine le fragole rimanenti. Distribuirle sulla torta e servire subito. TIPP Decorare a piacere con scorze di limone e fiori di fragola. Preparazione ca. 30 minuti Principianti + circa 3 ore di raffreddamento in frigorifero. Prezzo: conveniente Ogni porzione contiene ca. 14 g proteine, 30 g grassi, 38 g carboidrati, 2000 kJ/480 kcal
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Altre ricette e informazioni su migusto.ch/bacche
Ottima fonte di vitamina C Con 51,2 milligrammi per 100 grammi, le fragole contengono una eccezionale quantità di vitamina C, simile a quella delle arance e dei limoni.
Azione Fragole 500 g Fr. 3.95 invece di 5.90 dal 2 all’8 giugno
Foto e Styling: Veronika Studer; Roger Hofstetter
Fragole Extra 250 g* Prezzo del giorno
Fragole Sélection Mara des Bois 250 g* Prezzo del giorno *In vendita in filiali selezionate
Migusto è la piattaforma di cucina della Migros: migusto.ch
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Cultura e Spettacoli
Poderoso Plinio
Combattere la crisi a suon di creatività
Trattati Gaio Plinio Secondo fu ufficiale di cavalleria, procuratore
e grande enciclopedico - Terza parte
Miniserie Flavio Sala riesce a farci ridere
con Primo appuntamento Gianluigi Bellei Gaio Plinio Secondo nasce nel 23 o 24 dopo Cristo a Como. Discendente da una famiglia di dignità equestre diventa ufficiale di cavalleria in Germania sotto Claudio e Nerone, che sopporta a malapena. Fa carriera con Vespasiano diventando Comandante della flotta del golfo di Napoli. Muore il 25 agosto 79 durante l’eruzione del Vesuvio mentre cerca con la sua flotta di soccorrere la popolazione di Stabia. È amministratore, politico, uomo d’armi ma, soprattutto, «dotto studioso di scienze naturali», scrive Silvio Ferri. La sua fama è data dalla poderosa Naturalis Historia. Un testo enciclopedico che tratta di cosmogonia e geografia, antropologia e zoologia, botanica, medicina e farmacologia, mineralogia e storia dell’arte. Trentasette libri conclusi fra il 77 e il 78; un lavoro smisurato e minuzioso, «quasi inconcepibile per le forze di un singolo», sottolinea Donatella Puliga. Cerca, insomma, di unire tutto il sapere scientifico in un’unica opera. Lo scopo, come scrive lui stesso all’imperatore Tito, è di essere utile al popolo romano. Qualcosa come 20.000 fatti raccolti, 2000 volumi consultati di 100 autori. L’opera termina con un saluto alla natura: «Salve, o natura madre di tutte le cose; e al fatto che noi, soli fra i Quiriti, ti abbiamo celebrata in tutte le tue parti, tu guarda benigna». I libri che a noi interessano sono quelli finali che vanno dal 34 al 36 e che si occupano di storia dell’arte. Diverse le sue fonti fra le quali citiamo Senocrate di Atene, uno scultore in bronzo di scuola lisippea attivo a Oropo e poi a Pergamo nel III secolo. Scrisse, secondo Plinio, testi di bronzistica e di pittura. Altra fonte è lo scultore Antigono, probabilmente Antigono di Caristo, che scrisse «volumina de sua arte», forse una seconda edizione riveduta e corretta del testo di Senocrate. Plinio trae i dati biografico da Duride (340-260 a.C.), tiranno di Samo, pugilatore e saggista d’arte. Queste le fonti greche. Fra quelle romane c’è Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) con la sua enciclopedia Disciplinarum libri. Un paio i concetti chiave dell’o-
Giorgio Thoeni
Plinio Secondo in un’incisione su rame di Bollinger (17771825) realizzata partendo da un ritratto di Landon (1760-1826). (Keystone)
pera. La suddivisione delle materie in base ai tipi di manufatti – dal più vile al più pregiato – e che tale suddivisione è superiore alla creatività dell’artifex. Ne consegue l’impossibilità dell’eccellenza creata con materiali vili. Ultimo, e meno importante, il soggetto rappresentato. Questa suddivisione della materia corre parallela con quella temporale di un racconto prettamente evolutivo che parte da un inizio arcaicizzante per approdare all’eccellenza, procedere alla morte e infine rinascere con la bronzistica. Plinio dà conto di documenti, materiali, aneddoti e di ben 352 artisti. Lo sviluppo storico della pittura va da Polignoto a Micone, da Apollodoro a Zeusi fino a raggiungere il massimo splendore con Apelle. Uno dei suoi dipinti più belli doveva essere il ritratto di Afrodite. Così scrive Plinio: «Avendo infatti ordinato (Alessandro) ad Apelle di dipingere nuda per la bellezza delle forme Pancaspe, una delle sue favorite, prediletta fra le altre ed essendosi accorto che lui mentre eseguiva l’ordine, se ne era innamorato, donò a lui la donna». Naturalmente siccome Afrodite
rappresenta il bello assoluto Apelle non poteva avere solo una modella bensì due. In questo caso un’altra prediletta di Alessandro, Frine, che diventò anch’essa sua. Il medesimo approccio è dedicato alla bronzistica che è stata ordinata partendo dai manufatti meno pregiati sino ai più nobili come la statuaria. Il massimo bronzista è Fidia «che aprì per primo le porte all’arte della scultura in bronzo»; seguono in ordine qualitativo Policleto, Mirone, Pitagora e Lisippo del quale scrive: «Non c’è una parola latina per rendere il termine greco ‘simmetria’ che egli osservò con grandissima diligenza, sostituendo un sistema di proporzioni nuovo e mai usato alle statue quadrate degli antichi; egli ripeteva a tutti che, gli antichi rappresentavano gli uomini quali essi sono, lui invece, quali sembrano essere». Bibliografia
Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Gaio Plinio Secondo. Storia naturale, Libri 33-37, Torino, Einaudi, 1988.
Il popolo degli artisti ricorderà a lungo questo forzato digiuno dalle scene. In molti hanno reagito ricorrendo a creatività e a soluzioni che non hanno fatto rimpiangere la sudditanza digitale, utilizzando piattaforme comunicative a più livelli, come ha pensato di fare l’attore, commediografo e regista ticinese Flavio Sala con Primo appuntamento, una miniserie comica in quattro episodi (circa due minuti l’uno) girata in un angolo del terrazzo di casa. «La serie», racconta Sala, «presenta, attraverso piccoli sketch, una satira su quello che potrebbe accadere al primo incontro tra due persone che si sono conosciute, come spesso accade al giorno d’oggi, attraverso appuntamenti virtuali. Gli attori interpretano più ruoli con travestimenti che li rendono volutamente riconoscibili e sono attorniati da professionisti che, per amicizia, hanno deciso di partecipare». In occasione dei suoi primi spettacoli teatrali avevamo accostato la vis comica, il talento attoriale di Sala alla maschera di Gilberto Govi, uno dei suoi grandi esempi. Volendo ampliare il generoso confronto, le scene della miniserie a tratti ricordano, anche se molto alla lontana, la struttura delle Tragedie in due battute di Achille Campanile o dei suoi brevi atti unici. Come nell’esemplare spirale dialogico di Ac-
qua minerale di cui ricordiamo l’inizio: «Cameriere: Acqua minerale? Uomo: Naturale. Cameriere: (scrive) Acqua naturale. Uomo: Ho detto minerale. Cameriere: No, veramente mi scusi, ma lei ha detto naturale. Uomo: Intendevo naturale acqua minerale, non le sembra naturale che io beva acqua minerale?…» Se Campanile utilizza il paradosso, Sala mette mano a quel coefficiente di empatia che ne caratterizza la matrice popolare. Primo appuntamento è stata scritta con Barbara Buracchio e John Rottoli e le riprese sono state effettuate nell’arco di un paio di giorni da Sam Barbarossa e Pietro Tafaro. «Successivamente», racconta ancora Sala, «è stata proposta alla televisione senza però suscitare interesse. Così, in questo periodo di quarantena, abbiamo preferito distribuirla sui social attraverso la pagina Facebook e Instagram dei vari attori protagonisti (persino WhatsApp, in modo da essere fruibile anche ai meno esperti). Questo nella speranza di regalare un po’ di buonumore e una risata alle persone. La risposta da parte del pubblico della rete è stata entusiasta, tanto da far pensare che se all’orizzonte dovesse apparire un produttore la serie potrebbe anche proseguire attraverso la strada del web». Con Sala, Buracchio e Rottoli recitano Rosy Nervi, Margherita Saltamacchia, Max Zampetti, Moreno Bertazzi e Elvis Speziale.
Rosy Nervi e Flavio Sala in un episodio di Primo appuntamento. (Instagram) Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli Rubriche
In fin della fiera di Bruno Gambarotta Un profilo particolare Un amico mi chiede aiuto. È uno sceneggiatore, deve scrivere il copione di una nuova situation comedy. Una volta che sarà stata realizzata, costituirà il famigerato «numero zero», verrà cioè sottoposta al giudizio dei committenti che hanno altresì approvato il progetto ma prima di dare il via alla serie, vogliono vedere una puntata realizzata. Se sarà approvata, la lavorazione partirà alla grande. Se il giudizio sarà negativo vorrà dire che gli autori, il regista e gli attori avranno lavorato gratis o al minimo sindacale della paga. L’amico, romano che più romano non si può, mi scrive dicendo che uno dei protagonisti del lavoro è un tipico torinese giunto alla vigilia del pensionamento e mi chiede il favore di profilare il personaggio, poiché di Torino e delle caratteristiche dei torinesi non sa assolutamente niente. Il profilo dei personaggi è un lavoro che precede la stesura della sceneggiatura ed è un fondamentale generatore di situazioni e di comportamenti, soprattutto
quando, come nel caso delle sit-com, si lavora su un registro comico o perlomeno brillante. Come insegnano i maestri delle scuole di scrittura, la profilazione si deve fare su tre parametri: il Punto di vista sul mondo, i Difetti e l’Umanità. Trattandosi di una commedia e non di un dramma i Difetti possono anche consistere nell’eccesso del Punto di Vista. Per esempio dal suo punto di vista sul mondo il nostro eroe è goloso e misura tutto in base al cibo. Difetto: degli eventi importanti della sua vita ricorda a memoria i menu di quello che ha mangiato, ma non le date. «È meglio essere pronti» è il suo secondo punto di vista. Questo si riversa sul suo eccesso di puntualità, nell’arrivare con mezz’ora di anticipo alla stazione e salire sul treno sbagliato, quello destinato al deposito. Altro difetto conseguente al punto di vista: il gusto sadico di far notare agli altri il loro essere in ritardo o di aver cucinato male. Quanto all’elenco dei caratteri distintivi del torinese, lascio al mio amico il com-
pito di collocarli nelle tre categorie, io non sarei capace. Il torinese è concreto, anche se ama l’arte non si perde in classificazioni fumose. Eccolo in visita in una galleria d’arte contemporanea mentre ammira un’opera: «Per essere bello questo quadro è bello, niente da dire, però, per valutarlo, bisognerebbe prima sapere quanto tempo ci ha messo il pittore per dipingerlo». Il torinese che possiede una seconda casa in campagna si fa costruire sulla facciata una meridiana solo per poterci mettere sotto un motto in latino, così gli amici che andranno a fargli visita dovranno sorbirsi la sua traduzione seguita dal sermone filosofico. Il torinese che alla mattina ha l’abitudine di fare colazione al bar al cameriere che lo serve fa sempre la stessa domanda: «Sono fresche le brioche?». Non si ricorda a memoria d’uomo che la risposta sia stata «No, sono dell’altra settimana». Se al torinese che torna con la famiglia dalle vacanze chiedi come è andata, due volte su tre risponderà «Siamo sopravvissuti». Il to-
rinese porta la sua auto nuova in officina a fare il primo tagliando. All’accettazione l’impiegato domanda se si tratta di un modello famigliare e lui risponde: «No, trasporto anche gli estranei». Siamo sempre al primo tagliando: il torinese entra in officina e chiede dopo quanti chilometri vada fatto il primo tagliando. La risposta è 1500 e poiché il contachilometri segna 1497 risale sull’auto e gira attorno all’officina finché non segna 1500. Per un o una torinese in cerca dell’anima gemella l’età è un dettaglio secondario. Dagli annunci economici: «Signora torinese 78enne conoscerebbe signore per un futuro insieme». Quando racconti a un torinese qualcosa di sorprendente lui «l’ha sempre saputo», mai una volta che non arrivi per primo a conoscere una notizia. Il torinese è uno che ama mettersi nei tuoi panni. Inizia con «Io al tuo posto farei così» e non solo ti inonda di consigli non richiesti ma ti assillerà di telefonate per sapere se li hai messi in pratica. Per un torinese il
verbo piemontese «contè» (dove la o si legge u) vale tanto per «narrare» quanto per «contare». Per un torinese «raccontare» non è tanto dare vita a invenzioni fantastiche quanto «fare i conti» con la realtà che ci circonda e organizzare la vita di tutti i giorni. Passando poi ai tipi particolari abbiamo quelli che sanno come devi curarti, quelli che sanno fare tutti i lavori, i bricoleur che si offrono di aiutarti: perché portarlo dal meccanico, o dall’elettricista o dal falegname? «Cosa ci vuole? Dammelo che te lo riparo io». Poi a metà dell’impresa, quando i vari pezzi sono sparsi sul pavimento, si arrendono e ti mollano lì, quando non osi più chiamare il tecnico perché dovresti fornirgli delle spiegazioni imbarazzanti. Infine abbiamo il Pianificatore, che quando si alza la mattina deve dare a se stesso e agli altri componenti della famiglia una «mission» da raggiungere entro il tramonto, quando, seduti a cena, tutti dovranno fargli il resoconto di com’è andata.
coli appartamenti con famiglia numerosa, sono stanze anche gli armadi; i figli minori dentro gli armadi! In fondo sono solo 15 giorni; se in 15 giorni nessuno in famiglia manifesta la malattia significa che nessuno aveva il virus e che gli asintomatici l’avevano già debellato. Per 15 giorni un bambino può stare in un armadio, col suo pacchetto di crocchette per gatti e una tanica da 15 litri di acqua. Nella storia si è visto di peggio. L’armadio lo si può illuminare, rendere allegro, e dentro lasciare al bambino perché ci giochi i cubetti di legno, che sono utili per abituarlo alle figure geometriche, la plastilina perché si eserciti a modellare figure, poi carta e pennarelli colorati perché disegni il virus e si sbizzarrisca a trafiggerlo, questo piace molto ai bambini e può tenerli occupati anche 10 ore di seguito, per altre 10 ore dorme, e il giorno dopo costruisce un virus col Lego, e con una spada dai super poteri si esercita a debellarlo. Pipì e cacca nel vaso, come si faceva d’altronde una vol-
ta, e come è consigliabile facciano anche gli adulti, per avere il bagno libero come stanza supplementare, per la nonna o la zia. In un mese, perché con questi metodi la pandemia scompare in un mese, si producono tre chili di escrementi (il cibo per cani ha pochi scarti) che sono contenuti in un vaso normale o in una pentola per il lesso o in una comune pesciera; e 15 litri di urina; si consigliano quindi due taniche d’acqua da 15 litri ciascuna, e una tanica da 7 litri per l’urina; quando questa è piena si userà una delle taniche d’acqua che intanto si sarà svuotata. Un buon governo deve aiutare i cittadini anche nei conteggi particolari. Se il corpo è in quiete i consumi saranno minori. Pattume in linea di massima non ce ne sarà. Il riscaldamento può essere spento, con grande risparmio nazionale sull’esportazione di capitali per l’acquisto di idrocarburi; una coperta di lana sarà sufficiente, e nell’armadio il bambino produce calore sufficiente dalla trasformazione delle
crocchette in energia dissipata. E intanto le persone chiuse in camera cosa possono fare? Niente, aspettano. Se si tolgono dieci ore di sonno, quattro ore per i pasti (le crocchette assorbono molta saliva e vanno masticate a lungo), due ore per i bisogni (si tende ad essere stitici), due ore al telefono, due ore di televisione, avanzano quattro ore in cui si aspetta, che sono equivalenti alle quotidiane attese del bus, o alla cassa del supermercato, dal dentista, in banca, in qualche ufficio ecc. Anzi nella vita normale la media giornaliera d’attesa sono circa sei ore; non ci facciamo più caso, ma passiamo larga parte del tempo ad aspettare; quindi ci sarebbe un vantaggio, fate i conti, 60 ore d’attesa in meno al mese, il che significa un tenore di vita più dinamico. La vita è più attiva e interessante se si sta chiusi in un armadio. Questo lo slogan che suggerirei ai governi, anche se hanno preso solo mezze misure credendo di fare il nostro bene.
televisivi come Aldo Grasso. Ma anche in tempi di coronavirus, come diceva Totò, «ogni limite ha una pazienza». Una seconda cosa che non avrei mai fatto senza la pandemia è leggere ad alta voce quasi ogni sera, con mia moglie e mia figlia Maria (13 anni), quel capolavoro che è Oliver Twist di Charles Dickens: anche questo, una serie (non televisiva ma letteraria), un cosiddetto feuilleton pubblicato a puntate tra il febbraio 1837 e l’aprile 1839, ma che mai e poi mai ha dato, alla lettura, l’idea di intollerabile bulimia e abbuffata nauseabonda che danno certe fiction televisive. Eppure, il meccanismo è lo stesso: trama avvincente, ripetizione, tratti psicologici semplificati eccetera. Può darsi che il mio sia un rifiuto biologico o sia viziato dal pregiudizio culturale, eppure diffido di quelli che affermano con malcelato orgoglio: in casa non ho il televisore. Alessandro Bergonzoni (5½) sostiene che la televisione va guardata ma non accesa. Personalmente mi sono convinto che la tv vada accesa ma non guardata, e piuttosto ascoltata nel sonno.
Potrei far mia la famosa ammissione di Ennio Flaiano (6): «La televisione mi fa dormire e mi lascia sempre insoddisfatto, come i veri sonniferi». Con qualche eccezione, però. Infatti, la terza cosa che non avrei mai fatto senza la pandemia è stata: cullare la nostalgia guardando vecchie partite di calcio. L’altra sera, da interista impenitente, mi sono goduto in bianco e nero (i colori della Juve, ahimè!) una storica finalissima di Coppa dei Campioni (non ancora Champions League…): quella giocata il 27 maggio 1964 al Prater Stadion di Vienna tra la mia beneamata squadra e il Real Madrid. Vinse l’Inter per 3 a 1, il ventunenne Sandro Mazzola (6) segnò due gol, il vecchio asso Alfredo Di Stefano (6), detto la «Saeta Rubia», fu oscurato da un gregario di nome Tagnin (6+), che lo «francobollò» in modo impeccabile. In realtà, oltre alla nostalgia per quella Grande Inter della mia infanzia (6+ all’Inter, 5– all’infanzia) la cui formazione (Sarti, Burgnich, Facchetti…) vale un doppio settenario petrarchesco, c’è l’ammirazione per uno stile
umano in cui tutto sembrava più sobrio e composto di oggi: gli abbracci, i festeggiamenti, le frasi, i gesti. Una moderazione e un equilibrio che si oppongono all’esaltazione furibonda a cui assistiamo nei campionati dei nostri giorni, con gli urli, le ammucchiate, i protagonismi, gli impazzimenti, gli esibizionismi di creste e tatuaggi. Peggio ancora se confronto gli ululati e i latrati dei telecronisti contemporanei con i toni mesti, sempre sottovoce dello speaker dell’epoca, Nicolò Carosio, anche nelle fasi più esaltanti. Certo un po’ noioso e didascalico, ma essenziale e pacato: «bella la falcata di Facchetti», «altra stangata di Jair quasi a fil di montante», «si procede con molta prudenza su un fronte e sull’altro», «il cielo si è fatto oscuro e la luce artificiale si dimostra insufficiente per una circostanza del genere». E mi chiedo se uno dei guai del nostro tempo non sia proprio l’esagerazione che uniforma gli autentici capolavori e le marchette, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, il grave e il fatuo, la luce del cielo e quella artificiale.
Un mondo storto di Ermanno Cavazzoni La quarantena come ridurla Il vero problema del virus e delle epidemie infettive in generale, è che abbiamo un corpo. Se non l’avessimo non ci sarebbe infezione né trasmissione. Il corpo purtroppo non si può abolire. Però le misure prese in quasi tutti i paesi hanno tentato di farlo; innanzitutto riducendo quanto più possibile i movimenti, in modo da non spargere il virus e in modo da non contrarlo. La gente chiusa in casa: se così fosse stato fatto immediatamente e radicalmente, il virus si sarebbe spento. Niente ricoveri ospedalieri, che sono la strada maestra del contagio; un respiratore lo si può costruire facilmente a casa, in fondo è un soffietto, e chi abbia un camino ha sempre un soffietto; per chi non l’avesse si potevano fornire via radio e TV, o via telefonino, le istruzioni per il fai da te; una maschera da sub e una pompa da bicicletta leggermente modificata. Poi c’è il problema del cibo. Sul cibo i governi non sono stati radicali, perché hanno permesso le file davanti ai
supermercati, la prossimità dei clienti all’interno, il passaggio continuo davanti al fiato di commessi e cassiere con scambio di micro goccioline vaporizzate. Mangiare però è necessario. Cosa si poteva fare? È semplice, le soluzioni erano tante. Prima di tutto chi abbia un cane o un gatto (e cani e gatti in ogni paese sono milioni), lo alimenta con le crocchette o coi bocconcini, che sono un pasto completo con carboidrati, proteine e vitamine in quantità bilanciata e sufficiente, perfettamente commestibili anche dall’uomo. Le riserve di questo alimento sono ingenti. Poteva essere spedito a casa di tutti un sacco da trenta chili, che basta e avanza per uno o due mesi. Il sacco poteva essere lasciato davanti al portone; e così non ci sarebbero più state scuse per uscire di casa; anzi, per uscire dalla propria stanza, perché l’infezione spesso passa da un membro della famiglia all’altro; per essere radicali davvero, ognuno in una stanza. È una stanza anche il bagno; ma in caso di pic-
Voti d’aria di Paolo Di Stefano Il limite e la pazienza Oltre a lavarmi le mani dodici volte al giorno, oltre a impegnare ore sul lavandino d’acciaio della cucina per renderlo lucido e privo di aloni, oltre a indossare la mascherina come Zorro prima di saltare sul cavallo e uscire di casa, ci sono diverse altre cose che non avrei mai fatto senza la pandemia. Per esempio, guardare su Netflix le serie tv: deludenti secondo i miei gusti. Atypical è quella che mi ha convinto di più (5+) tra le serie interminabili (interminabili per me): la storia di un ragazzino autistico che sogna un amore e un futuro dentro una famiglia americana (con madre, padre e sorella) agitata da infedeltà, bizzarrie quotidiane, ansie eccessive. Poi viene Prison Break tutto azione, thriller carcerario, fantapolitica e amori impossibili (5–). Nella mia personale (e parziale) classifica, segue il gotico-fantasy-horror Stranger Things (4½). Amici molto fidati mi hanno consigliato Breaking Bad, un racconto in sé affascinante: fantastica idea, recitazione meravigliosa, scrittura super (totale 6), ho cominciato
a guardarlo con entusiasmo finché mi sono addormentato irrimediabilmente alla quinta o sesta puntata. L’impressione, sempre, è che le serie siano troppo lunghe. Una sorta di coazione a ripetere che ti imprigiona al consumo e alla visione. Senza dire della serie più gettonata (a quanto pare), La casa di carta, la vicenda di una rapina alla Zecca di Stato spagnola, ordita dalla mente geniale di un Professore e realizzata da una squadra di professionisti del crimine nascosti dietro una maschera di Salvador Dalì: sopportabile (4½) solo nella prima stagione, poi paradossale fino alla caricatura (3–). La lunghezza e l’iperbole non giovano mai. Fossi un editor, consiglierei di sforbiciare e ridurrei le puntate dell’80 per cento. Ben sapendo che lo scopo delle serie è proprio quello di cavalcare un successo (quando c’è) fino allo spasimo e allo sfinimento degli sceneggiatori, degli attori e del pubblico, che comunque rimane incollato per quel guilty pleasure (il «piacere colpevole») evocato tante volte da uno studioso dei meccanismi
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