Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Intervista allo psichiatra francese Jean-Christophe Seznec autore di un libro sulla virtù di misurare le parole
Ambiente e Benessere In Svizzera una persona su cinque ha sviluppato sintomi psicologici a causa della crisi del Coronavirus; lo psichiatra Michele Mattia spiega la «sindrome della tana» e dà consigli su come affrontarla
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIII 8 giugno 2020
Azione 24 Politica e Economia La questione razziale, pilastro della società americana
Cultura e Spettacoli Thomas Bernhard e tre racconti che narrano della disillusione che ci contraddistingue
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di Federico Rampini e Aldo Cazzullo pagine 28 e 33
AFP
Pandemia di razzismo
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Le crepe dell’America di Peter Schiesser Ci sono milioni di persone che non riescono a «respirare», oggi negli Stati Uniti, e quel morire soffocato di George Floyd è la metafora della loro vita. Frustata da un coronavirus che tuttora sfugge al controllo e miete vittime in tutti gli States, condotta da un presidente che divide e infiamma gli animi, l’America si riscopre democrazia debole e incompiuta, in cui il razzismo contro i neri e altre minoranze si manifesta con abusi di potere, diseguaglianze sociali ed economiche, disprezzo per la vita. L’elezione a presidente di Barack Obama aveva regalato l’illusione che il cammino cominciato da Martin Luther King oltre mezzo secolo fa fosse giunto vicino alla meta. Non è così, e Trump ne è l’espressione. George Floyd non è la prima vittima della violenza gratuita di poliziotti americani e le proteste di oggi non sono le prime. Il pestaggio di Rodney King, che si risolse con l’assoluzione degli agenti coinvolti, provocò nel ’92 proteste di massa a Los Angeles e oltre 50 morti. Questa volta però, con un’ondata che si è estesa a 140 città, praticamente su tutto il territorio degli Stati Uniti, il quadro è diverso. Le
voci che si levano per chiedere giustizia e una effettiva parità fra bianchi e neri sono tantissime, anche fra i bianchi (soprattutto fra i giovani). Se le proteste si trasformeranno in azione politica, se neri e giovani andranno anche solo a votare, qualcosa potrà finalmente evolvere. Nel mentre, in alcuni Stati cominciano a manifestarsi proposte di legge per riformare le «tattiche di polizia». È assodato che ancora oggi il focus nella formazione degli agenti di polizia, che varia di Stato in Stato, è posto sull’uso delle armi e sull’autodifesa (ciò che ha un senso, in un paese in cui molte persone girano armate), mentre alle tecniche di de-escalation vengono dedicate poche ore. Va notato inoltre che questa volta i 4 agenti coinvolti nell’omicidio di George Floyd sono stati immediatamente licenziati dal capo della polizia di Minneapolis, mentre spesso gli agenti godono di una immunità di fatto – segno che certi abusi non vengono più tollerati ovunque. Al licenziamento è seguita anche l’incriminazione, ma la prova del nove sarà la sentenza del tribunale. Un’assoluzione o una condanna lieve scatenerebbe altre proteste. Intanto le manifestazioni continuano, ma diventano meno violente. La rabbia si sta sfogando. Tuttavia, se sindaci e governatori lavorano
per ridurre le tensioni, alla Casa Bianca il presidente Trump mostra una volta di più il suo disprezzo per le regole democratiche e civili. Dopo essersi dichiarato paladino dei manifestanti pacifici li ha fatti sgombrare dai pressi della Casa Bianca con i lacrimogeni per andare a farsi fotografare con una bibbia in mano davanti a una chiesa danneggiata durante precedenti proteste. Vorrebbe l’intervento dell’esercito (e non solo della Guardia nazionale) per soffocare le proteste, condannare a 5-10 anni chi compie vandalismi, mentre i suoi ministri cercano di dissuaderlo. Se fosse per lui, le proteste verrebbero semplicemente represse per ristabilire l’ordine, lungi dall’idea che alle radici di questa rabbia ci siano problemi seri da risolvere. Al di là del fatto che la sua volontà di potere assoluto, la sua arroganza, il disprezzo di regole e istituzioni sono nemici della democrazia, questo presidente è lo specchio di un’America che non vuole spartire il potere, politico ed economico, con gli altri, con i neri e i ladinos in particolare. Capire se la maggioranza dei cittadini statunitensi è dalla sua parte o da chi reclama riforme, è impresa non facile. Alle elezioni di novembre (posto che si svolgano regolarmente), avremo una prima risposta.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Attualità Migros
Una nuova normalità più responsabile Intervista A colloquio con la presidente della Federcommercio ticinese, Lorenza Sommaruga
L’economia del nostro cantone si rimette in marcia, dopo mesi molto difficili. Per sensibilizzare i consumatori sull’importanza del loro contributo alla ripresa, molte aziende ed enti, che sono attori sul mercato ticinese, si sono riuniti nell’iniziativa #ripartiamo. Un progetto che vuole sottolineare il contributo fondamentale offerto dal settore del commercio e della produzione alimentare alla vita economica del nostro paese. Ne abbiamo parlato con Lorenza Sommaruga, dal giugno 2018 presidente di Federcommercio. È la prima presidente donna dell’ente ticinese e, per questo, la prima domanda che le rivolgiamo è proprio legata alla sua carica e all’esperienza che ha vissuto in questi due anni. «Sono entrata nel gruppo dirigente della Federcommercio qualche anno fa. Per me che dirigo una piccola attività è stato il modo per iniziare a collaborare con un gruppo di persone che vedevo con grande ammirazione. È stato un passo importante, perché mi ha reso chiaro quanto anche il mio punto di vista particolare mi permettesse comunque di tastare il polso della situazione economica e della politica legata al commercio in senso ampio. La piccola e la grande distribuzione, in effetti, sono settori uniti e le loro problematiche sono simi-
li. La proposta di diventare presidente mi ha emozionata, per il senso di grande responsabilità che la carica comporta: nel comitato direttivo, di cui fanno parte altre donne, c’è stata ottima collaborazione e sostegno al mio lavoro». La presenza di Lorenza Sommaruga ai vertici di Federcommercio ha coinciso con un momento molto importante dell’attività legislativa cantonale: l’elaborazione della nuova LAN (Legge sull’apertura dei negozi, entrata in vigore il primo gennaio scorso), e del nuovo contratto collettivo di lavoro per il settore della vendita. «Era fondamentale per noi arrivare all’elaborazione di una legge» spiega Lorenza Sommmaruga «perché la situazione precedente, legata a concessioni temporanee di aperture speciali, era difficile da gestire, laboriosa e in qualche modo poco rispettosa anche delle esigenze del consumatore, visto che le deroghe agli orari di apertura penalizzavano la grande distribuzione: io ho sempre cercato di tenere aperto il mio negozio e le posso dire che i turisti che arrivavano in negozio erano stupiti della chiusura dei grandi magazzini». La situazione attuale configura il problema in modo diverso: «La nuova legge ha segnato l’allargamento delle zone turistiche, ciò che ha permesso anche ai grandi distributori di usufruire delle aperture speciali. La mia esperienza pratica è che quando sono aperti i grandi negozi anche i piccoli lavorano: attirano inevitabilmente il compratore e si rende viva la città. Oggi infatti è Lunedì di Pentecoste, e con l’apertura dei grandi magazzini anche noi lavoreremo di più. Tutto il tessuto economico ne guadagnerà e in questo modo oltre a garantire la continuità delle nostre aziende, si permetterà il mantenimento anche dei posti di lavoro». Arrivando ai temi di attualità, è necessario parlare della crisi legata alla pandemia da Covid-19. «La situazione economica del commercio al dettaglio nel momento della pandemia è stata davvero molto difficile. Per gestire al meglio i propri negozi i commercianti già in precedenza avevano dovuto pra-
Lorenza Sommaruga, ci parla dell’iniziativa #ripartiamo. (Ti-Press)
ticare una gestione aziendale certosina, calibrata, con acquisti ponderati e grande responsabilità imprenditoriale. In ballo c’era la vita stessa delle aziende e gli impieghi dei molti dipendenti. Dopo un gennaio e febbraio difficoltosi aspettavamo le festività primaverili per una ripresa. Invece l’attività economica di marzo è stata quasi inesistente, uno spavento. Nessuno avrebbe mai immaginato di confrontarsi con un’emergenza di questo tipo. Naturalmente ero molto sollecitata dai membri della Federcommercio. Si pensava all’inizio a una possibile riapertura per fine marzo. Poi anche quella speranza è andata delusa». Nel quadro catastrofico Lorenza Sommaruga segnala un punto positivo: «Bisogna dire che il Governo ticinese e la Confederazione ci hanno aiutato
in modo immediato. Nei primi giorni avevo contattato i responsabili del Dipartimento dell’economia per avere indicazioni, e subito erano arrivate spiegazioni su come muoversi per chiedere un sostegno. La tempestività degli aiuti è stata fondamentale, ha fatto la differenza, ci siamo sentiti protetti sia dal punto di vista sanitario che da quello economico». Ed ora, dopo i mesi di inattività, si riparte con un’iniziativa che vuole sensibilizzare i consumatori. «#ripartiamo è un’idea che ci è sembrata importantissima, anche perché univa le forze di tutti settori economici. Durante il lockdown, vari commercianti si erano attivati per promuovere la loro attività su diversi portali online e in varie iniziative sin-
gole, ma era sempre difficile capire che riscontro queste potessero avere presso il grande pubblico. Invece l’idea importante è che si tratti ora di uno sforzo congiunto di molti attori economici della regione, veicolato da uno slogan significativo e da una bella immagine. L’iniziativa è stata bene accolta, e ha mostrato grande voglia di collaborare da parte di molti operatori economici del cantone». L’invito di Lorenza Sommaruga è rivolto al pubblico: «Durante il momento critico delle scorse settimane la popolazione ha mostrato un grande senso civico e una grande capacità di collaborare con le autorità per il bene della salute pubblica. Con questa campagna vogliamo fare in modo che quel senso civico si esprima anche nella coscienza che solo facendo ripartire l’economia locale potremo assicurare la sopravvivenza economica del nostro cantone, in tutti i settori. Si tratta di una presa di responsabilità importante, che deve essere chiara a tutti i consumatori. Le aziende ticinesi hanno perso due mesi e mezzo di cifra d’affari: il turismo degli acquisti è un fattore che può incidere ulteriormente sulla nostra vitalità economica». In opposizione al turismo degli acquisti, si situa invece l’interesse per il turismo vero e proprio... «Gli interventi messi in atto per sostenere il settore del turismo, gli incentivi offerti a chi vorrà trascorrere le vacanze nel nostro cantone, saranno di aiuto anche per noi. Quando il turista arriverà in Ticino non dovrà trovare i negozi chiusi. Mi pare molto azzeccata la proposta avanzata da un membro del Gran Consiglio al Governo di concedere per il periodo estivo delle aperture speciali e degli allargamenti delle zone turistiche in tutto il Ticino. Questo renderebbe il soggiorno ai turisti più interessante e allettante, in attesa della ripresa di tutte le importanti manifestazioni culturali che animano le città ticinesi. Anche questa è una misura che permetterà il mantenimento del lavoro delle aziende e dei posti di lavoro nel cantone». / Red.
Riprendiamo insieme
Formazione La Scuola Club di Migros Ticino lancia la nuova Summer School In questi ultimi mesi ci siamo ritrovati ad attraversare un tempo dal ritmo diverso. Un tempo sospeso, in cui, come in un grande ferma-immagine, molte attività state sono bloccate. Quello che abbiamo vissuto è stato però anche un tempo fertile, una sorta di incubatore, che ha permesso di lasciar depositare e poi accelerare pensieri, riflessioni, progetti, su di noi e sulle nostre vite. Se le fatiche non sono mancate, ci sono state anche tante sorprese. Tra queste, una diversa compagnia con sé stessi, in un dialogo che ha permesso di focalizzare meglio priorità ed obiettivi e compilare una nuova «to do list» da realizzare «dopo». È per rispondere ad alcune di queste domande che la Scuola Club di Migros Ticino ha ideato la sua nuova Summer School: un tempo «riaperto» dedicato a ciò che amiamo, ci interessa, o ci aiuta a proseguire con nuovo slancio il percorso professionale che abbiamo deciso di intraprendere. Perché tanta è la voglia di far ripartire il ferma-immagine e riprendere a vivere. La Summer School 2020 si svolgerà nei mesi estivi e si concentrerà su quattro importanti obiettivi. Anzitutto, sostenere i percorsi di qualificazione e certificazione, fonda-
mentali nel mondo del lavoro. In partenza a fine giugno un nuovo modulo FFA-M1 dedicato alla Formazione dei Formatori. Seguono diversi corsi di Contabilità, inclusa la preparazione all’esame cantonale che, in via straordinaria, è stato fissato per il prossimo autunno. Centrali si riconfermano le Lingue, con corsi in formula intensiva per raggiungere in breve tempo il livello desiderato e il nuovo corso Refresh, per riprendere i fondamentali di tedesco, inglese e francese. Un’attenzione speciale viene dedicata agli studenti che inizieranno il loro percorso di studi nella Svizzera tedesca, il prossimo autunno. Per loro
è stato progettato un corso intensivo di allenamento alla nuova realtà che integrerà elementi di conversazione con la ricerca, la comprensione e la produzione di testi. Il secondo obiettivo è il potenziamento delle competenze dei ragazzi. Le restrizioni rese necessarie dal Covid-19 hanno inevitabilmente impattato sulla vita scolastica di molti studenti. La Scuola Club offre percorsi di miglioramento e di recupero, con un calendario studiato ad hoc per consentire di frequentare anche percorsi multipli, ad esempio le lingue al mattino e le materie scientifiche il pomeriggio.
Recuperare spazi di movimento e di benessere è il terzo obiettivo della Summer School. Tra le novità l’ampliamento delle fasce orarie, incluse le sere, con corsi pensati per scaricarsi e rilassarsi dopo una lunga giornata di lavoro. Ultimo obiettivo della Summer School è quello di offrire un supporto concreto alle famiglie alle quali si è chiesto tanto in questi mesi. Dedicato ai bambini delle scuole elementari, il nuovissimo Campus Kidz è stato pensato per accompagnare i più piccoli nel riavvio di una «nuova socialità»: si sta insieme, liberando fantasia e creatività, grazie a proposte laboratoriali di musica, danza, attività espressive e manuali condotte dai formatori della Scuola Club nelle sedi di Locarno e Mendrisio. La Summer School 2020 è stata disegnata per garantire la piena sicurezza di partecipanti e docenti, alla luce delle indicazioni cantonali di distanziamento e igiene. Grazie ad una attenta riorganizzazione degli spazi e all’adeguamento delle proposte didattiche, sarà nuovamente possibile riavviare insieme le attività d’aula in piena protezione. L’estate in arrivo può essere una grande occasione. Il tempo sospeso finalmente si riapre, spalancando tante nuove strade formative tutte da percorrere.
Alcune proposte Power: Fr. 690.–
Italiano/Tedesco/Inglese 06.07 – 31.08.20 lunedì 18.00 – 22.00 -
Pronti per l’università: Fr. 544.–
Tedesco 06.07 – 30.07.20, da lunedì a giovedì 09.00 – 11.00-
Preparazione all’esame cantonale di contabilità: Fr. 1530.–
06.07 – 25.08.20 da lunedì a giovedì 09.00 – 12.00
Recupero e potenziamento scolastico: Fr. 300.–
Lingue e materie scientifiche 2 settimane da lunedì a venerdì 09.00 – 11.00
Campus Kidz: Fr. 180.– a settimana
Dal 6 luglio al 29 agosto 08.30 – 11.30 da lunedì a venerdì
Info: www.scuola-club.ch Bellinzona 091 821 78 50 Locarno 091 821 77 10 Lugano 091 821 71 50 Mendrisio 091 821 75 60
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Società e Territorio Diario dal confinamento La scuola a distanza nelle parole dei ragazzi di una scuola media del Luganese
Comunicare con la luce Le onde luminose permettono la comunicazione a distanza: incontro con Alessandro Pasquali fondatore della start up ticinese Slux pagina 10
Covid-19, l’impegno dei counsellor In Ticino i consulenti psicosociali hanno creato uno spazio di ascolto gratuito per garantire un momento di accoglienza dopo il periodo di confinamento pagina 11
pagina 5 L’immagine di copertina del libro pubblicato da Seznec in collaborazione con Laurent Carouana intitolato La magica virtù di misurare le parole.
Quando tacere, come parlare
Intervista Messaggi scritti e vocali, e-mail e post si moltiplicano nelle nostre giornate. I testi aggressivi
e «tossici» vengono trasmessi con impulsiva facilità. Come gestire questa comunicazione continua? Lo abbiamo chiesto allo psichiatra francese Jean-Christophe Seznec Stefania Prandi Jean-Christophe Seznec, psichiatra francese, non ha dubbi: la semplicità e la rapidità con cui possiamo esprimerci attraverso la tecnologia e l’idea che esistiamo solamente se comunichiamo, ci hanno fatto dimenticare la virtù del silenzio. Messaggi scritti e vocali, e-mail e post si moltiplicano nelle nostre giornate, rimbalzando e circolando a una velocità tale da diventare irrecuperabili già dopo pochi minuti. I testi aggressivi e «tossici» vengono trasmessi con la stessa impulsiva facilità di quelli amichevoli. Sopraffatti da questo vortice compulsivo, facciamo fatica a recuperare il potere delle parole e i benefici delle pause. Per aiutarci a trovare una dimensione meno frenetica, Seznec, che è anche presidente dell’Aftcc (Associazione francese di terapie comportamentali e cognitive) ha scritto, in collaborazione con Laurent Carouana, La magica virtù di misurare le parole. Quando tacere, come parlare (Feltrinelli). Jean-Christophe Seznec, come è nata l’idea di questo libro?
All’inizio la mia idea era di scrivere un libro sulla comunicazione, un manuale
su come esprimersi al meglio. Poi c’è stato l’attentato alla sede del giornale satirico «Charlie Hebdo». Il loro umorismo, in Francia, non dava fastidio a molte persone. Chi non lo gradiva, semplicemente evitava di leggere il giornale. Con quell’attacco abbiamo scoperto che ciò che dicevamo qui, in Francia, poteva influenzare persone che vivevano dall’altra parte del mondo con una cultura e una prospettiva diversa dalle nostre. È diventato chiaro che il discorso decontestualizzato può assumere un altro significato ed essere fonte di incomprensione, anche drammatica, come nel caso di «Charlie Hebdo». Il discorso è contestuale: Pierre Desproges, un comico francese, dice a questo proposito che si può ridere di tutto, ma non con tutti. Oggi, con la globalizzazione e i social network, non sappiamo più a chi arrivano le nostre parole. Ed è sotto gli occhi di tutti quanto circolino facilmente notizie false, teorie cospirative e troll. Allora ho pensato, tra me e me, che in questo nuovo contesto, fosse più interessante riflettere sullo stare zitti invece di scrivere un libro sul parlare. Inoltre, il mio interesse per la meditazione ha accentuato la percezione delle devastazioni che derivano dal com-
mentare costantemente la propria vita e il mondo. Le parole impoveriscono la realtà. Dico spesso che la vita è come una partita di calcio: per giocare, devi essere sul campo. Se commenti, stai sugli spalti. Saper tacere per contemplare e apprezzare l’esperienza sensoriale, usando lo stesso metodo di quando si medita, ci permette di assaporare la ricchezza della vita.
Perché le parole sono importanti e perché le sprechiamo?
Le parole che diciamo oppure che pensiamo sono stimoli che risuonano nella nostra interiorità. Dentro di noi scatenano pensieri, sensazioni fisiche ed emozioni. Ci agganciano per trascinarci verso un’esperienza emotiva. Se giudico una situazione grave, sveglio il mio cervello emotivo che può arrivare ad alterare la realtà, che di fatto magari è soltanto spiacevole o scomoda. È quindi importante scegliere le parole per descrivere correttamente una situazione e non indossare occhiali emotivi distorti, col rischio di scatenare sofferenze interne. A volte usiamo troppe parole, con noi stessi e con gli altri: è il nostro cervello emotivo, il nostro doberman, come lo chiamo nel libro, che prende il sopravvento e abba-
ia per cercare di rassicurarci. Ci vuole molto lavoro per imparare a convivere con la fragilità umana e per far fronte al disagio. Parlare, a volte, è come agitarsi nelle sabbie mobili: siamo tentati di farlo, ma così sprofondiamo ancora di più nella sofferenza. Quindi dovremmo parlare meno?
Non ci sono regole uguali per tutti. Il discorso è contestuale: dipende dalla propria personalità, cultura o situazione. Tuttavia, incoraggio tutti a diffidare dei commenti interiori. E consiglio di aspettare che una situazione si definisca, in modo da evitare reazioni impulsive. Restando fermi, senza cedere all’azione immediata, permettiamo all’intelligenza emotiva di emergere. Ha qualche consiglio per aiutarci a controllare le nostre parole?
Consiglio di respirare, dando tempo alla nostra mente di stabilizzarsi e diventare limpida. Come dicono le nonne francesi, è utile girare la lingua sette volte in bocca prima di parlare. Parlare è come la musica, i silenzi sono utili, impediscono che i discorsi si trasformino in rumore. Dopo ogni frase che pronunciamo, facciamo un bel respiro di pancia per prenderci il tempo di connettere e allineare corpo, testa ed
emozioni. È un esercizio che aumenta la consapevolezza e ci insegna ad agire come la rana: nonostante si renda conto di tutta l’agitazione che la circonda, non si muove, ma gracida e salta solo se necessario. E per quanto riguarda le parole sui social media? Vale lo stesso discorso?
Sui social media suggerisco di non reagire a caldo perché non sappiamo chi leggerà le nostre parole, quale sarà il suo contesto di riferimento. Pensiamo ad esempio al numero 6: può essere percepito da qualcuno come un 9 e questo fraintendimento può diventare l’inizio di un conflitto. Drammi come l’attentato a «Charlie Hebdo» sono nati dall’errata interpretazione delle caricature dovute a differenze culturali. Allo stesso modo i social media possono diventare fonte di distorsioni, conflitti e violenze. Il mio consiglio è di non partecipare al rumore generale. Nel contesto attuale, possiamo fare nostra la scommessa pascaliana: molto spesso abbiamo più da guadagnare nel tacere che nel reagire a certe pubblicazioni. Scegliamo di coltivare la pace dentro e fuori di noi. Lo scontro porta solo allo scontro.
APERTURA A I R A N I D R O A R T S
GIOVEDĂŒ 11 GIUGNO (Corpus Domini)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Società e Territorio
Soressa, lei come sta?
Tra bilanci e speranze
agli allievi di una scuola media, che si sono espressi in un «Diario dal confinamento»
durante la pandemia
Scuola Dopo due mesi si è conclusa l’esperienza della scuola a distanza. Diamo la parola
In casa Riflessioni
Silvia Vegetti Finzi
Lo scorso 11 maggio gli allievi sono tornati a scuola, anche nelle palestre per garantire le distanze. (Keystone)
Fabio Dozio «Si ricorda quando le ho detto che avere le scuole chiuse è un INCUBO?????????????? Beh, non ho affatto cambiato idea. Pensavo che le cose potessero SOLO migliorare, ma qui ci sono sempre più casi, e idem anche in Italia, casi, casi e casi. Ma d’altronde, come disse una volta Shakespeare (o qualcun altro, ma non è questo il punto): “Quando le cose vanno male, ci si conforta al pensiero che possano ancora peggiorare, e quando peggiorano, ci si conforta al pensiero che le cose, ora, possono solo migliorare”. Ma in realtà a me sembra che “le cose” continuano a peggiorare, peggiorare e peggiorare. CHE PIZZA.
«Quest’eperienza del Covid-19 ci insegna che la nostra vita può cambiare da un momento all’altro» Sa soressa, non ho neanche mai capito questo modo di dire: “CHE PIZZA”. Insomma, la pizza è buona, o almeno piace alla maggioranza della gente, ma questo modo di dire si usa per esprimere noia e (a volte) tristezza. Non si potrebbe dire tipo “che broccoli” o “che quella salsa strana che fa la nonna, che probabilmente ha pescato gli ingredienti dal frigo a occhi chiusi”? Ehi, questa suona bene (o perlomeno ha più senso del “che pizza”). Boh. La gente è strana. Davvero, a volte (ok, va bene SPESSO) non la capisco. Senta, probabilmente il coronavirus è “l’argomento del momento” o comunque se ne parla allo sfinimento. E io NON CE LA FACCIO PIÙ. Quindi, le va se cambiamo discorso? Lei come sta?». Una scrittura originale, vivace e colorita di una ragazzina di prima media. È uno stralcio del «Diario dal confinamento» che una docente di italiano di una scuola media ticinese ha introdotto
come momento di relazione con gli allievi durante la scuola a distanza. È iniziato tutto il 16 marzo, un lunedì in cui le scuole del Canton Ticino sono rimaste chiuse, per rispettare il lockdown, meglio detto confinamento, conseguenza della pandemia di coronavirus che si stava diffondendo in modo subdolo fra la popolazione. «Nel periodo d’insegnamento a distanza – scrive il DECS nelle Direttive inviate ai docenti a inizio aprile – i docenti/operatori devono avere contatti personali regolari di interazione diretta con ogni allievo/a (ad esempio tramite telefono, videochiamata, ecc.) e prestare attenzione particolare ai riscontri delle classi e dei/le singoli allievi/e, come pure alle situazioni di fragilità e rischio. È necessario avere un occhio di riguardo anche per gli allievi che si ha l’impressione fatichino a seguire la didattica a distanza». «Questa cosa del coronavirus mi sta facendo impazzire. – scrive un ragazzo di terza media – Io non riesco a stare in casa tutto questo tempo, perciò ieri sono uscito con mia sorella a fare una passeggiata. È stato bellissimo stare un po’ di tempo nella natura e sentire i fischi degli uccelli. Mi sentivo molto meglio, anche molto contento perché non abbiamo parlato di quel maledetto coronavirus (…) In cima c’era un panorama bellissimo. Mi sembrava di essermi staccato da tutto il tema: coronavirus». La scuola a distanza è stata organizzata facendo riferimento a due strumenti informatici: Teams, una piattaforma sviluppata da Microsoft che permette collegamenti video fra diversi interlocutori, e Moodle, la piattaforma didattica che il Centro di risorse didattiche e digitali del DECS utilizza per la scuola da casa, sulla quale gli allievi possono scrivere e confrontarsi con i docenti. Qui nasce uno dei possibili intoppi della scuola a distanza. Le famiglie che hanno spazi e computer a sufficienza, nonché un genitore che possa seguire i figli, sono facilitate. Chi deve condividere un solo computer con fratelli o genitori e abita in spazi ristretti incontra una fatica maggiore. Il Dipartimento
ha fornito il PC a chi non ne ha ma, ciò malgrado, la scuola a distanza è discriminante. «Questa settimana non è molto differente dalla precedente. – scrive un’allieva di terza nel diario che viene inviato alla docente di italiano – Ho preso un po’ più di confidenza con Moodle e, per chiarire i dubbi, uso le email, che avevo dimenticato da tempo, per lo scarso utilizzo che ne facevo. Negli ultimi giorni ho messo bene in ordine la mia stanza, e riesco ad aiutare i miei genitori un po’ di più. Avendoli entrambi a casa mi rendo conto di quanto sia complicato creare un clima calmo in casa. Mio fratello è quello più agitato di tutti. Sembra non capire che deve contribuire anche lui, se non vogliamo impazzire in questo mese a casa. Stiamo tutti cercando di aiutarci, anche se è difficile. Quest’esperienza del COVID-19 ci insegna che la nostra vita può cambiare da un momento all’altro, sorprendendoci. E se non siamo pronti finiamo nel panico, o nel menefreghismo, nell’ignoranza del non sapere come stanno le cose». Il Coronavirus ha stravolto la vita degli studenti, soprattutto quelli della scuola dell’obbligo, e anche di qualche genitore. Per i più grandi, che frequentano le scuole superiori e le università, studiare da casa è più facile, a volte perfino più fruttuoso. La maturità federale, volendo, si può conseguire anche da privatista, senza passare dai licei. La scuola dell’obbligo deve invece garantire e stimolare le relazioni tra i ragazzi e tra studenti e docenti. Il filosofo italiano Massimo Cacciari ha promosso un appello a favore della scuola in presenza, della scuola viva, sottoscritto da molti intellettuali: «la scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca. Vuol dire anzitutto socialità, in senso orizzontale (fra allievi) e verticale (con i docenti), dinamiche di formazione onnilaterale, crescita intellettuale e morale, maturazione di una coscienza civile e politica».
«Una delle uniche cose positive del coronavirus è che, costringendo la gente a rimanere a casa, quasi nessuno si sposta più, né con l’auto, né con i mezzi pubblici e questo comporta una netta diminuzione dell’inquinamento in tutto il mondo. L’aria diventa quindi più respirabile. – scrive uno studente di quarta media – Io passo le mie giornate in isolamento facendo i compiti e gli esercizi caricati su Moodle, leggendo, mangiando, ascoltando musica, guardando film e dormendo. Quando è bel tempo e c’è il sole esco in giardino a prendere una boccata d’aria, altrimenti resto tappato in casa. Durante il giorno chiamo i miei zii e i miei nonni annoiati raccomandandogli ripetutamente di non uscire di casa. Penso che la scuola a distanza utilizzando la piattaforma Moodle sia un buon metodo di lavoro, in queste situazioni, dove non si può né uscire né vedere nessuno al di fuori delle mura di casa, ed è molto funzionale, a meno di qualche problema tecnico, per esempio l’assenza della connessione wifi. Secondo me la cosa che funziona meno nella scuola a distanza sono le lezioni virtuali, che mi sembrano meno efficaci delle lezioni in classe, soprattutto se bisogna affrontare dei nuovi argomenti, sono più difficili da capire. Invece è molto funzionale nel caso degli esercizi, perché dopo averli fatti si possono rimandare al docente sempre tramite Moodle. Però spero che questa situazione riguardante il coronavirus finisca presto e che si possa ritornare alle normali abitudini». Lunedì 11 maggio sono riprese le normali abitudini, o quasi. Infatti le scuole sono state riaperte e studenti e professori sono tornati alle loro attività nelle aule, anche se a ritmi ridotti e con classi dimezzate, per rispettare le norme di sicurezza antivirus. I ragazzi hanno ritrovato il piacere delle relazioni e degli incontri. La scuola che convive con il Coronavirus è diversa, con meno ore di lezione, più lavoro da casa, e senza la pressione dei test. Chissà, forse una scuola più leggera ed essenziale può essere migliore, anche perché ci sono meno allievi per classe.
All’inizio della quarantena che ci ha chiusi in casa per due mesi, la possibilità d’interrompere il ritmo frenetico degli impegni ci aveva resi euforici. Quella condanna si stava trasformando in una risorsa: era un’occasione per prender fiato, conoscerci meglio, sistemare la casa, per fare ciò che avevamo sempre rimandato in mancanza di tempo. Mentre cambiava la vita privata, anche la vita pubblica si rimodellava: veniva voglia di salutare i vicini di casa, di chiedere all’anziana che vive sola se aveva bisogno di qualcosa, di occuparci dei problemi della scuola e del quartiere, di partecipare alla raccolta di fondi per la sanità. Individui chiusi nell’egoismo narcisista, si sono dimostrati pronti alla condivisione, disposti alla solidarietà. E ora che quella fase è finita e le porte di casa si sono riaperte, ci chiediamo se saremo capaci di non tornare, per inerzia, a un «prima» non certo esemplare. Oppure se sapremo far tesoro dell’esperienza e, riconoscendoci fragili e interconnessi, diventare soggetti più critici e responsabili. In fondo l’Homo sapiens ha approfittato di ogni difficoltà per evolvere. Mi è già accaduto, nel dopoguerra, di assistere a una ripresa sorprendente, al cosiddetto «miracolo economico», che non è stato solo italiano. In breve tempo si sono radicalmente trasformati gli spazi, i tempi, i modi di abitare e interagire, è cambiata la mentalità, cancellando credenze e stereotipi che sembravano eterni. In quella rivoluzioni furono importanti le donne, non tanto direttamente, in quanto poche lavoravano e ancor meno occupavano posti di responsabilità, ma indirettamente motivando i loro uomini a creare posti di lavoro, incoraggiando i figli a studiare, reclamando beni di consumo utili e accessibili, adattandosi a radicali spostamenti geografici, ispirando storie di amori liberi e felici. Ora che molte cose sono cambiate, nuovi diritti acquisiti e pari opportunità raggiunte (o quasi), siamo pienamente in grado di partecipare da protagoniste al dopopandemia. Ilaria Capua, scienziata di fama internazionale nell’ambito delle biotecnologie, nel suo libro Il dopo, ci invita ad assumere un ruolo propositivo nella riprogettazione del mondo, forti della nostra specificità materna. Le donne, in quanto madri potenziali e reali, possiedono infatti le risorse più idonee a riequilibrare le nostre vite e le sorti del pianeta. L’importante è aver stima di noi, sentirci solidali e pronte ad aiutare le nuove generazioni a superare gli ostacoli, anche interiori, che spesso ostacolano il riconoscimento dei nostri meriti.
Le donne, protagoniste nel dopopandemia. (Wikimedia)
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Idee e acquisti per la settimana
Un condimento tutto nostrano Attualità «Saa ai erbétt e fióo», per una cucina all’insegna del gusto e della creatività
Una gustosa ricetta
Sale da cucina alle erbe aromatiche e fiori 180 g Fr. 8.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Abbiamo interpellato Carlotta, conosciuta blogger luganese di cucina, che regala squisiti piatti e corsi di cucina (www.carlottaeilbassotto.com). Su consiglio di Carlotta, il Saa ai erbétt e fióo è perfetto da utilizzare sul pesce, sui formaggini ticinesi e su piatti freschi, utilizzandolo come condimento dell’ultimo minuto per donare al piatto un colore brillante e un sapore delizioso. La ricetta che ci propone è un salmone al cartoccio con Saa ai erbétt e fióo: una preparazione semplice, veloce e light. Ingredienti 1 Trancio di salmone 1 Lime (succo + scorza) Zenzero Carta forno Saa ai erbett e fióo
Il salmone al cartoccio con Saa ai erbétt e fióo è davvero irresistibile!
Piatti estivi ricchi di sapore grazie alla miscela di spezie Saa ai erbétt e fióo (sale da cucina alle erbe aromatiche e fiori) della Cofti.ch SA, azienda attiva nella promozione e valorizzazione delle erbe officinali del territorio ticinese. «La nostra società, promotrice del progetto Erbe Ticino, rappresenta un’azione imprenditoriale e sociale che mira a far conoscere la straordinaria qualità delle erbe officinali coltivate sul nostro territorio», afferma Simone Galli, responsabile della Cofti. La filiera inizia a Pollegio, dove Caritas
si occupa della semina delle erbe aromatiche biologiche. Dopo un mese di germinazione, le piantine proseguono la loro crescita presso alcuni coltivatori dislocati sul territorio ticinese. «Una volta raccolte – prosegue Simone Galli – le erbe vengono portate presso la Fondazione San Gottardo di Melano dove avviene il delicato processo di essiccazione. Al termine di questo passaggio sono pronte per andare a formare le varie ricette dei nostri prodotti, come appunto quella del Saa ai erbétt e fióo. Ci tengo a sottoli-
neare le diverse collaborazioni socioprofessionali di questo progetto, che rappresenta un pilastro fondamentale dell’insieme delle attività». Condimento al 100% naturale
La miscela Saa ai erbétt e fióo non può mancare sui piatti della nostra tradizione. Grazie al contenuto di melissa, rosmarino, salvia e timo, sapientemente combinati con sale da cucina svizzero iodato, nonché la presenza di petali di fiori edibili quali calendula, fiordaliso e monarda per un tocco di
Cremosa tentazione
Specialità Il tomino boscaiolo con speck è perfetto per il grill
eleganza supplementare, le pietanze acquisiscono un profumo fresco, un aroma caratteristico e un aspetto particolarmente invitante. Esaltatori di sapidità, aromi artificiali o altri additivi sono assolutamente assenti. Il condimento è talmente versatile che può essere utilizzato per insaporire qualsiasi preparazione: dal pesce alle carni alla griglia, dalle insalate alle verdure di stagione, dalle patate al forno fino alle zuppe. Sugli scaffali di Migros Ticino è venduto in un pratico vasetto di vetro con coperchio richiudibile.
Preparazione Sistemare il filetto di salmone sulla carta da forno. Successivamente, condirlo con un po’ di succo di lime, scorza di lime tagliata grossolanamente e zenzero tagliato a fette. Aggiungere un pizzico di Saa ai erbétt e fióo. Una volta condito il filetto di salmone, fare un cartoccio a forma di caramella e cuocere in un forno statico e preriscaldato a 180 ° per una decina di minuti. A fine cottura, condire il salmone con ancora un pizzico di Saa ai erbétt e fióo, così da rinvigorirne il colore dato dai fiori presenti in esso e renderlo più brillante. Con questa ricetta di Carlotta, il salmone è davvero gustoso e il cartoccio ne preserva tutto il suo delicato sapore.
60 anni di tradizione Attualità Sandro Vanini festeggia il giubileo
con un’edizione speciale della sua mostarda di frutta
Azione 25% Tomino boscaiolo con speck 2 pezzi/195 g Fr. 3.05 invece di 4.10 dal 9 al 15.6
Perché non arricchire una grigliata con un tomino avvolto nello speck? Oltre ad essere facile e veloce da preparare, un buon formaggino con il cuore fondente al punto giusto e lo speck croccante fuori è una delizia a cui pochi riuscirebbero a resistere. Bastano pochi minuti sulla griglia per ottenere un risultato super appetitoso. Per un piatto completo e nutriente, servitelo per esempio con delle patate al cartoccio, del pane leggermente abbrustolito oppure una croccante insalatina di stagione. Il tomino è un formaggio fresco a pasta morbida, a crosta fiorita, perlopiù di latte vaccino, tipico del Piemonte, ma che si è ormai diffuso anche altrove. In Svizzera è conosciuto con
Mostarda alla frutta Vasetto da 300g Fr. 6.95
il nome di Tomme. Si caratterizza per la sua forma cilindrica appiattita, l’assenza di occhiatura e la crosta ricoperta di una pellicola sottile, di colore bianco avorio, commestibile.
La maturazione avviene in speciali locali umidi, dove il formaggio rimane per un periodo minimo di 4 fino a 8 giorni. Ha un sapore dolce, delicato, di latte fresco.
La celebre mostarda alla frutta della Sandro Vanini di Rivera si presenta con una grafica vintage in edizione limitata per celebrare i 60 anni di questa storica azienda ticinese. Disponibile (fino ad esaurimento delle scorte) alla Migros nella versione Classica, è prodotta da esperti maestri canditori con frutta accuratamente selezionata, seguendo l’antica ricetta tradizionale che ha de-
cretato il successo di questa caratteristica specialità regionale. Il sofisticato miscuglio di frutta candita, sciroppo e olio senapato, è ideale non solo per accompagnare alcuni piatti tradizionali svizzeri e carni bollite miste, ma in estate si abbina a meraviglia con taglieri di saporiti formaggi e salumi locali, buffet freddi, tartare e carpacci di carne, come pure pietanze grigliate.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Idee e acquisti per la settimana
Red Burger Bun Novità Gustosi panini da burger
in edizione limitata ideali per il grill
Grill Mi Red Burger Bun con sesamo 4 pezzi, 200 g Fr. 1.95 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Gli amanti della cucina americana saranno felici di gustare questa nuova specialità pronta in pochissimi minuti direttamente sulla griglia. I morbidi e leggeri panini Red Burger Bun, con sesamo, sono già pretagliati e, dopo essere stati brevemente riscaldati, sono ottimi per essere farciti non solo con il classico e succoso hamburger di carne, ma anche con molti altri ingredienti secondo i propri gusti, come per esem-
pio verdure o pesce grigliati, burger di pollo, formaggio, insalata, pomodori… oppure che ne direste di provarli con un burger 100% vegano surgelato della linea M-Classic? I panini Red Burger Bun sono prodotti dal panificio Jowa con l’utilizzo di materie prime selezionate e nel rispetto di severe norme igieniche. Il loro colore rosso è dato dall’utilizzo di succo di barbabietola nell’impasto. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Società e Territorio
Parlarsi con la luce, si può
Incontri Alessandro Pasquali ha fondato la start up Slux che sviluppa sistemi di comunicazione
a distanza con le onde luminose
Loris Fedele Vi ricordate l’alfabeto Morse? Un insieme di impulsi che rappresentavano delle lettere: per esempio 3 punti 3 linee 3 punti era l’SOS, il grido d’aiuto. Lo trasmetteva il radiotelegrafista dalle navi usando un telegrafo e un codice, appunto il Morse, che tramite onde radio trasmetteva messaggi a distanza. Proprio in omaggio a chi per primo comunicò a distanza con le onde radio il telegrafista sulle navi, soprattutto in Italia, era chiamato marconista. La comunicazione, se c’era visibilità tra chi trasmetteva e chi riceveva, poteva avvenire anche sotto forma di lampi di luce brevi oppure lunghi seguendo lo stesso codice. Quindi comunicare con la luce si può. Ma il raggio di luce può anche farsi portatore di parole o di suoni da un punto all’altro? È la domanda che si fece il giovane Alessandro Pasquali una quindicina d’anni fa. Tuttavia non si limitò a chiedere ad altri una risposta, ma volle provarci lui a trasmettere in quel modo e ci riuscì. All’inizio di marzo di quest’anno, prima che l’emergenza pandemia bloccasse quasi tutte le attività, si è tenuta a Comano una conferenza pubblica che portava il titolo «Comunicare con la luce». Relatore il brillante inventore Alessandro Pasquali, quasi trentenne ticinese d’adozione, fondatore nel 2015 della Start-up Slux di Lugano. Laureato in chimica, Pasquali è ormai immerso nello sviluppo del suo geniale progetto con la sua piccola azienda. Nella dicitura Slux c’è la chiave di tutto: lux, la luce, la cosa più importante con la quale la ditta gioca le sue carte e della quale fa una ragione di essere. La S che vi è posta davanti, ironizza Alessandro, potreste pensarla come «Smart», elegante, intelligente, brillante, oppure come «Swiss», la Svizzera che ci ospita, o anche come «Start», l’inizio di un’avventura. «Fate voi», dice con un disarmante e aperto sorriso. Alessandro è da sempre appassionato e curioso sperimentatore scientifico. La luce è l’elemento che lo ha
Alessandro Pasquali. (www.slux.xh)
subito intrigato. A 16 anni riuscì a trasmettere parole e musica con la luce, da una lampadina led a un’altra, su spazi di poche decine di centimetri. Si trattò di una vera telecomunicazione: un messaggio inviato via luce e non con le onde radio, come aveva fatto Guglielmo Marconi un centinaio d’anni prima. Dopo quella sperimentazione casalinga Alessandro aumentò il raggio d’azione, restando dapprima nell’ordine delle decine di metri e poi di 1 km, con una trasmissione da una riva all’altra del Lago di Lugano. Nell’estate 2014 un’altra prova cruciale. Si inaugurava il LongLake Festival e la voce della vicesindaca di Lugano partì da un microfono con un trasmettitore led predisposto da Alessandro sulla vetta del monte Brè per arrivare ben comprensibile al ricevitore posto alla Rivetta Tell sul lungolago. Fu la prima dimostrazione pubblica. L’anno dopo, sul ristorante Vetta del Brè, una piccola installazione artistica di Pasquali avrebbe celebrato l’Anno Internazionale della Luce. Contemporaneamente l’inventore fondò la start-up Slux. Nel luglio 2016 un’altra grande prova: Alessandro a Calais, in Francia, col trasmettitore di luce, suo fratello con il ricevitore a Dover, in Inghilter-
ra, dall’altra parte della Manica, a 33 km di distanza. Alcuni dati e le note dell’inno nazionale svizzero passarono con successo via luce attraverso il Canale. Ci sono aneddoti riguardo a quella impresa, con i poliziotti inglesi insospettiti dalla presenza di due strani ragazzi e dei loro macchinari, che attiravano l’attenzione perché troppo vicini al porto di Dover, presidiato per contenere l’immigrazione clandestina attraverso il Canale della Manica. Alla fine tutto andò bene, grazie anche a quell’arte di arrangiarsi che contraddistingue i latini. Oggi il prodotto promosso dalla start-up luganese è diventato una realtà che cerca finanziatori. L’Ufficio federale delle Comunicazioni ha riconosciuto la validità della nuova tecnologia di comunicazione via luce e in un rapporto dell’aprile 2017 ha anche segnalato Slux come eccellenza nazionale nel settore. L’azienda sta allargando gli orizzonti a livello internazionale per dare uno sviluppo sia tecnologico sia commerciale alle tecnologie per le quali detiene numerosi brevetti. Le idee sono chiare. Non si sta andando a soppiantare le onde radio. Avendo frequenze diverse e proprietà diverse nelle rispettive onde di trasmissione vi sono lavori che
si potranno sempre e soltanto fare con le onde radio e altri che potrebbero più convenientemente sfruttare l’onda luminosa. In qualche caso si potrà sostituire una forma di comunicazione con l’altra. La luce è un mezzo che si è già affermato nelle trasmissioni con le fibre ottiche, oggi largamente usate, ma «in altre applicazioni che siano senza fili (wireless) ha bisogno di tecniche di trasmissione estremamente ottimizzate e studiate caso per caso» annota Alessandro. Analizzata ogni situazione la Slux propone e fornisce la propria soluzione di connettività luminosa. La volontà è quella di estendere la ricerca applicata per tradurla in applicazioni largamente accessibili: «Viviamo la nostra ricerca come fosse una missione» dice l’inventore. Anche per questo Alessandro rifiutò proposte di finanziamento da parte di ditte della prestigiosa Silicon Valley, in California, perché le vincolavano a una cessione di tutte le conoscenze relative al suo prodotto. «Così quando scadranno i miei brevetti saranno di pubblico dominio e non in mano a un solo speculatore, che può fermare la ricerca». Alessandro avrebbe potuto ottenere un tornaconto immediato, ma senza più la possibilità di proseguire autonomamente nelle ricerche, e questo non lo interessava. Il sistema progettato dal geniale inventore è applicabile in diversi contesti tra i quali possono esserci servizi alla cittadinanza che coinvolgono le scuole, gli ospedali, l’illuminazione pubblica, gli uffici e le trasmissioni Wi-Fi a onde luminose a lungo raggio. In 10 anni di ricerca si è arrivati a ben 4 livelli di prodotto. La prima ricerca coinvolge la comunicazione diretta, con emettitore e ricevitore che si vedono dentro lo stesso cono di luce. Nella seconda generazione c’è più mobilità nel senso che si può trasmettere anche uscendo dal cono di luce. Per spiegare il terzo livello usiamo un esempio: il faretto di trasmissione è in una stanza, il ricevitore in un’altra, con tra i due la porta chiusa. Bastano i pochi fotoni che passano dal
buco della serratura o sotto la porta per riuscire a ricostruire il segnale nella seconda stanza. La quarta generazione, alla quale stanno ancora lavorando, sfrutta la capacità di calcolare via luce la tridimensionalità dello spazio e con questo provare a progettare operazioni di posizionamento. «Nelle applicazioni per le trasmissioni via luce va fatta una distinzione tra ambiente aperto e ambiente chiuso – dice Alessandro – al chiuso si può comunicare anche se ci sono in mezzo ostacoli, perché si utilizza la riflessione sulle pareti, mentre all’aperto l’onda si espande all’infinito e può esser schermata e disturbata dalle condizioni atmosferiche. Allora esistono soluzioni che a livello sperimentale possono funzionare ma a livello pratico necessitano di ulteriori ricerche». La trasmissione via luce appare davvero promettente: «In una casa posso coprire con una lampada un intero ambiente, connettere il computer senza la preoccupazione dell’inquinamento elettromagnetico per chi ne è preoccupato, non devo temere che qualcuno al piano di sotto o dalla strada intercetti il mio segnale hackerandomi, perché la luce non esce dalle mie pareti. Tutto questo lo posso fare con una potenza che ha ancora grandissimi margini di miglioramento». Alessandro ha ricordato la presenza di inquinamento elettromagnetico all’interno delle case: cosa ne pensa? «Per un discorso di salute posso dire che la luce è l’onda più ecologica che abbiamo. C’è sempre stata per noi. Siamo nati e ci siamo evoluti esposti ai raggi luminosi. Essendo molto superficiale non mette in movimento la struttura delle molecole interne al nostro corpo, come fanno certe alte frequenze elettromagnetiche». Quando parla del suo lavoro Alessandro Pasquali è un fiume in piena, prova a rispondere a tutto. «Sono curioso e non seguo schemi mentali prefissati – dice – Non accetto di sentirmi dire che questo non si può fare, oppure questo non funzionerà mai. Ho un’idea, la provo, sperimento, e poi tiro le conclusioni e vado avanti oppure cambio».
Capriasca di ieri e di oggi
Mostra Il nucleo di Cagiallo ospita un’esposizione fotografica che racconta mestieri di una volta e odierni attraverso
le opere della collezione dell’Archivio audiovisivo di Capriasca e Val Colla e gli scatti di Massimo Piccoli
Per le vie del borgo un dialogo tra passato e presente a suon di immagni. È lungo 1,8 chilometri il percorso espositivo Click Capriasca, una mostra all’aria aperta a Cagiallo promossa dalla Commissione culturale del comune insieme all’Archivio audiovisivo di Capriasca e Val Colla (Acvc) che racconta i mestieri di ieri e quelli di oggi attraverso 14 fotografie. Decido di fare questa passeggiata in una soleggiata giornata di tarda primavera. «È un’occasione importante per valorizzare le foto della nostra collezione – mi racconta Nicola Arigoni, presidente dell’Acvc – Non si tratta solo di sfruttare le foto del nostro archivio per farle conoscere, c’è un dialogo con il presente che va oltre al confronto, e questo grazie al fotografo Massimo Piccoli». Ad alternare i mestieri di un tempo, o meglio le attività che caratterizzavano la vita della valle come la cura della vigna, il trasporto di carichi da sci al Monte Bar, i lavori di risana-
mento dopo una frana, stanno infatti delle immagini che raccontano la vita odierna della Capriasca. Una comunità caratterizzata, scopro strada facendo, non solo dal territorio naturalistico ma anche dalla compresenza di diverse realtà come quella artistica (la tessitrice Antonietta Airoldi), quella artigianale (il vetraio Diego Feurer) e quella sociale (l’azienda La Fonte di Vaglio), e da mestieri senza tempo come lo spazzacamino, le fioriste e il macellaio. «Vorremmo riproporre un’esposizione simile ogni due anni, in un comune diverso e con un nuovo fotografo ogni volta». Un’occasione per mostrare alla popolazione il lavoro che sta dietro a questo archivio, l’importanza della conservazione e della memoria dei documenti. «Non avendo un grande spazio espositivo da noi, usciamo solitamente con le nostre testimonianze esponendo in altri luoghi». Come già per la Rivetta Tell a Lugano, la Torre di Redde, il percorso della Ferrovia Lugano Tesserete ora pista ciclabile, anche qui le fotografie
si incastonano con il paesaggio completandolo con una dimensione temporale. «Ogni volta si scoprono nuovi posti, qui i nuclei dei villaggi, e senza fare passeggiate troppo impegnative». Il continuo e intelligente dialogo con il presente pare una peculiarità
dell’Acvc che non si limita mai a mostrare un passato tinto di romantiche evocazioni, ma tematiche, personaggi storici e collezioni sono spesso confrontati con la contemporaneità e a volte rivisitati. Ricordo che l’archivio comprende oggi più di 7000 fotografie
Massimo Piccoli
Valentina Grignoli
selezionate tra i diversi fondi privati e oltre 150 ore di registrazioni di interviste agli anziani informatori. Durante la passeggiata mi colpisce anche la spontaneità dei volti ritratti dalla macchina di Massimo Piccoli. Si tratta di foto in posa, più di quelle d’archivio certo e questo è un contrasto cercato, ma riescono a trasmettere la freschezza della sorpresa. «Ho voluto approcciarmi con nove persone che non conoscevo – mi racconta a questo proposito il fotografo Piccoli – Non c’è un legame con le foto d’epoca, diversificando i mestieri. Ho instaurato un rapporto con i soggetti ritratti entrando nei loro atelier e standoci a chiacchierare per tutto il giorno, facendo foto che sono parte di un reportage che purtroppo qui non ha trovato spazio. Solo a fine giornata, nell’ultima mezz’ora mi sono attrezzato per la fotografia da esporre. Loro erano pronti». Click Capriasca è visitabile a Cagiallo sino al 31 ottobre 2020, sul sito visitcapriasca.ch tutte le informazioni necessarie.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Società e Territorio Grazie all’ascolto del counsellor una solitudine isolata può diventare una solitudine accompagnata. (Keystone)
Il sogno di spiare l’universo
SETI Ogni giorno lo spazio regala, ma non
svela, un pezzetto del suo mistero. L’essere umano non si stancherà mai di cercare, con la speranza di capire Laila Meroni Petrantoni
Uno spazio di ascolto Covid-19 In Ticino i consulenti psicosociali hanno creato
un servizio gratuito per garantire un momento di accoglienza
Stefania Hubmann Superato il periodo di confinamento, paure, dubbi, solitudine, ansie di cui magari nemmeno si è perfettamente consapevoli possono comunque perdurare. L’ascolto da parte di professionisti del counselling può offrire l’opportunità di dare un nome a queste ed altre emozioni, di trasformare la confusione in chiarezza. È nato così, sotto forma di pagina Facebook per iniziativa di Alexander Pult, lo «Spazio ascolto gratuito consulenti psicosociali per emergenza Covid-19», iniziativa che ha radunato una trentina di counsellor presenti sul territorio ticinese. Aperta a tutti e diffusa anche tramite un volantino, la proposta è rivolta in modo particolare agli anziani, per i quali il periodo di emergenza della pandemia è stato più gravoso. Essendo un gruppo a rischio, gli over 65 sono stati maggiormente isolati, privati di libertà e contatti familiari essenziali per il loro benessere. Anche a distanza di settimane questo vissuto può lasciare strascichi emotivi più facilmente superabili con il sostegno di professionisti.
Il colloquio con il counsellor aiuta la persona a mobilitare le proprie risorse personali I promotori del progetto, di cui si fanno portavoce Dolores Belloli e Marika Bachmann, desiderano innanzitutto chiarire il concetto di counselling, per evitare che il vocabolo inglese susciti diffidenza e perplessità. La pratica, nata negli Stati Uniti a metà del secolo scorso, utilizza la tecnica del colloquio per aiutare la persona a mobilitare le proprie risorse al fine di superare un momento difficile. Applicato in molteplici ambiti – personale, professionale, scolastico, sanitario, sociale – è basato sulla relazione paritaria fra professionista e cliente (mai considerato un paziente). Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il nome, il consulente psicosociale non offre consigli, bensì permette alla persona in difficoltà di osservare la propria situazione da altri
punti di vista con l’obiettivo di superare la fase critica compiendo le scelte necessarie. «La nostra offerta di sostegno nell’ambito dell’emergenza Covid-19 si basa su competenze professionali, ma non implica un vero e proprio percorso di counselling, il quale è comunque di breve durata», affermano le nostre interlocutrici. «Lo “Spazio ascolto” è un momento di accoglienza confidenziale limitato a pochi incontri; a volte può bastarne anche uno solo. Alle persone interessate forniamo una lista (pubblicata anche su Facebook) con i nominativi dei consulenti psicosociali, la relativa disponibilità di giorni e orari e il recapito telefonico. Segue poi il contatto individuale via chiamata, sms o Whatsapp per fissare un appuntamento telefonico o in videochiamata». Quali difficoltà derivanti dalla fase acuta della pandemia sono state maggiormente riscontrate? Rispondono Dolores Belloli e Marika Bachmann: «Le persone finora raggiunte, soprattutto tramite contatti personali, evidenziano i dilemmi nelle relazioni con i familiari a rischio oppure l’appartenenza a uno di questi gruppi con relative paure della malattia e della morte. Anche la solitudine può diventare un problema, così come la convivenza forzata che per settimane ha costretto coppie e famiglie». Chiunque si identifichi in questi vissuti e percepisce il bisogno di essere ascoltato per riuscire ad esternare una sensazione di malessere, può rivolgersi allo «Spazio ascolto» messo a disposizione dai consulenti psicosociali. Attivato durante l’emergenza, questo servizio continuerà anche nei prossimi mesi, perché le conseguenze di quanto si è dovuto affrontare da metà marzo in poi possono emergere anche a distanza di tempo. Ansia, agitazione, smarrimento – dovuti magari non più all’isolamento e alla mancanza di libertà quanto piuttosto a preoccupazioni a lungo termine per i figli, il lavoro o la situazione economica – trovano un’accoglienza individuale nel gruppo di counsellor. Precisano le nostre interlocutrici: «L’ascolto e la relazione priva di giudizio che caratterizzano il counselling favoriscono un’espressione libera. Il consulente psicosociale si pone con
umiltà di fronte al cliente nel pieno rispetto del medesimo che rimane maestro della sua vita. È interessante osservare come sovente vi sia necessità di fare chiarezza per giungere a una scelta per la quale inconsciamente già si propendeva. Esempi in questo senso ne ha offerti anche la pandemia, se pensiamo ad esempio al dilemma di una figlia di mezza età residente in Ticino, indecisa se visitare o meno la madre anziana nella Svizzera tedesca. Riuscendo a sviscerare con il consulente psicosociale vantaggi e svantaggi delle sue opzioni, è giunta alla conclusione che per lei la cosa giusta da fare in quel momento era andare dalla mamma». Non si tratta quindi tanto di trovare la soluzione perfetta, quanto piuttosto di superare la fase di incertezza e disagio nel modo migliore per se stessi. Le due consulenti psicosociali rilevano ancora come sia di principio difficile per tutti chiedere aiuto, soprattutto per questioni che esulano dal lato pratico della vita. Uno sforzo che risulta ancora più accentuato per gli anziani. Questi ultimi si sentono spesso soli anche nel senso di non poter condividere con i propri cari i loro dubbi, nel timore di generare preoccupazioni, ma pure di essere fraintesi e considerati irragionevoli. «In questi casi – sottolineano le portavoci del servizio – una solitudine isolata può diventare, grazie al nostro ascolto, una solitudine accompagnata. Con riservatezza, calore e disponibilità entriamo in relazione con l’altro, ascoltandolo e guidandolo alla ricerca delle risorse personali da mobilitare. Questa dinamica rappresenta sempre un’occasione di cambiamento, un momento di trasformazione». Se la pandemia ha provocato – oltre all’emergenza sanitaria e a quella economica – sofferenze palesi ed altre più recondite, numerose manifestazioni di solidarietà hanno offerto forme diverse di sostegno. Per chi sente il bisogno di condividere la sua esperienza di disagio, i consulenti psicosociali sono a disposizione; basta comporre un numero telefonico o inviare un messaggio. Informazioni
Dolores Belloli, tel. 076 388 15 61.
C’è stato un tempo, che corrisponde grosso modo alla seconda metà del secolo scorso, in cui il genere umano viveva con entusiasmo la possibilità di volare nello spazio, concretamente e non soltanto con la fantasia. Poi, con gli ultimi decenni, questa esaltazione si è parzialmente raffreddata, così come i finanziamenti a disposizione. La Stazione Spaziale Internazionale, certo, orbita tutt’oggi con profitto attorno alla Terra; grazie a Space X di Elon Musk la NASA ha potuto far partire di nuovo dal suolo americano un equipaggio a stelle e strisce; ogni tanto spiccano il volo verso l’infinito razzi con materiale esplorativo; e Donald Trump vuole andare su Marte facendo scalo sulla Luna. Da qualche tempo a questa parte è però soprattutto lo stato di salute del nostro pianeta a catalizzare l’attenzione, e lo sguardo sembra essere tornato a essere rivolto verso il basso piuttosto che verso l’alto più profondo. Dove comunque, ogni giorno e con poco clamore, qualcosa succede e qualcosa viene osservato. Perché non abbiamo mai smesso di guardare «fuori» e di stupirci. Ad inizio febbraio le agenzie di stampa e i vari portali di informazione hanno lanciato una notizia gustosa per gli amanti delle storie spaziali. Il radiotelescopio del CHIME (Canadian Hydrogen Intensity Mapping Experiment) situato sulle colline della British Columbia del sud ha identificato un segnale che ha suscitato un certo interesse. Appartiene al genere FRB (Fast Radio Burst), ossia lampi radio di enorme energia che durano millesimi di secondo, captati per la prima volta nel 2007 e tuttora di natura sconosciuta. La particolarità di quanto riferito recentemente è che questa volta il segnale si è manifestato in modo regolare, per un periodo che va dal settembre 2018 all’ottobre scorso; sull’arco di un anno si è fatto vivo ogni 1-2 ore per quattro giorni consecutivi, sparendo poi per 12 giorni e tornando in seguito a manifestarsi di nuovo con la stessa modalità ciclica. Secondo gli scienziati questo FRB proviene da qualche parte 500 milioni di anni luce da noi, certamente fuori dalla Via Lattea, forse da una galassia a spirale. Di cosa si tratta esattamente? La domanda è senza risposta. Perché si è palesato in modo regolare? Mistero assoluto, condito però in questo caso anche da un pizzico di curiosità che sconfina nel fantascientifico: e se fosse un messaggio da una civiltà aliena? A frenare la fantasia ci hanno pensato per primi proprio i ricercatori del CHIME, spiegando che il segnale è stato originato con un’energia tra le più forti dell’universo, dunque che forse nemmeno degli E.T. tecnologicamente avanzatissimi potrebbero gestire. È significativo che la notizia sia stata ripresa anche dal sito del SETI Institute di Mountain View, in California, secondo cui l’origine del fenomeno non sarebbe aliena, bensì potrebbe essere da ricon-
L’Allen Telescope Array è un radiotelescopio multiplo interferometrico. (Seth Shostak/ SETI Institute)
durre all’orbita periodica di una stella attorno a un buco nero, o viceversa: al SETI sono prudenti, pur masticando l’argomento quotidianamente. Già. Perché la loro opinione è importante? Ma anzitutto, cos’è «SETI»? Partiamo dal significato dell’acronimo: «Search for extra-terrestrial intelligence», con la missione dichiarata quindi di ricercare vita intelligente al di fuori della Terra. Il progetto è stato concepito e costruito a partire all’incirca dal 1960, nel pieno della corsa allo spazio; fin dall’inizio l’idea, che stuzzicò anche l’interesse dei sovietici e che nei decenni ottenne a più riprese il sostegno della NASA, era quella di scandagliare il cielo alla ricerca di segnali dallo spazio. In questi sessant’anni il progetto non ha mai difettato di entusiasmo, nonostante il clima attorno all’esplorazione dell’universo sia cambiato. Oggi il SETI Institute fa capo all’Allen Telescope Array (ATA); è in piena attività, perché la tecnologia odierna ha raggiunto un livello tale per cui è possibile tenere d’occhio l’intero cielo simultaneamente. Ecco che i dati raccolti sono moltissimi, difficilmente elaborabili da un’unica unità di analisi. Si è sviluppato dunque un progetto complementare a quello di Mountain View, e che in un ventennio è riuscito a coinvolgere oltre 5 milioni di persone (astrofili amatoriali) in centinaia di paesi, Svizzera compresa. Lanciato nel 1999 e gestito dall’Università di Berkeley, si chiama SETI@home, ed è una sorta di supercomputer virtuale in grado di analizzare «le chiacchiere» dell’Universo: in sostanza, l’esercito di volontari ha prestato la potenza del proprio computer domestico nei suoi momenti di inattività per setacciare i dati raccolti da uno dei tanti orecchi (o radiotelescopi) puntati verso l’infinito. Agli appassionati è stata offerta la possibilità di diventare una maglia di una rete potenzialmente infinita nella quale un giorno potrebbe restare impigliato un messaggio dall’infinitamente lontano. SETI@home è stato interrotto alla fine dello scorso marzo: «ibernato», hanno spiegato i promotori, almeno nella sua parte aperta al pubblico. In sostanza, i dati sono moltissimi, ora occorre fare una pausa per poterli analizzare. Prosegue invece il progetto Breakthrough Listen: avviato nel 2016 e pure basato al Berkeley SETI Research Center, il lavoro di setaccio è tuttavia per ora più «casalingo», nel senso che al centro delle ricerche vi sono scienziati, laboratori e potenti algoritmi. Ma lo scopo è sempre quello. Finora – tranne un segnale rilevato nel 1977 dal radiotelescopio Big Ear, battezzato «Wow!» e rimasto senza una spiegazione – sulla Terra non è arrivato nulla che possa far ragionevolmente pensare a un tentativo di comunicazione fra galassie. La domanda «siamo soli nell’universo?» non ha ancora una risposta. Eppure, come ha provato anche SETI@home, l’essere umano non ha nessuna intenzione di smettere di cercare.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Idee e acquisti per la settimana
L’addetto all’incubazione Patrice Pleyber mostra un uovo da cui presto vedrà la luce un pulcino.
Il benessere degli animali è al centro dell’attenzione Testo Jacqueline Vinzelberg
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naugurato lo scorso anno, il centro di incubazione di Avenches può essere definito il più grande centro specializzato di questo tipo della Svizzera. Accanto alla struttura di Sierre, dedicata alla riproduzione, è già il secondo grande progetto della Micarna dove il benessere degli animali gioca un ruolo centrale. Qui, su una superficie di 13’000 metri quadri, vengono alla luce ogni anno da 18 a 20 milioni di pulcini, molti dei quali da uova provenienti dalla struttura di riproduzione. Gli animali sono al centro dell’attenzione del personale, che non lo considera solo un lavoro, ma si assicura anche che i pulcini nascano sani,
con meno stress possibile, e che vengano trattati bene anche successivamente. Per farlo anche la tecnica innovativa è di aiuto. Quella che nel gergo tecnico viene chiamata «Hatch-Care» è per il centro di incubazione di Avenches una prima svizzera. Questa moderna tecnologia fa sì che il processo di schiusa avvenga senza intoppi, al fine di garantire il benessere dei pulcini. Ben curati dopo la schiusa
In primo luogo, le uova appena arrivate dalla struttura di riproduzione trascorrono alcuni giorni nella cosiddetta stazione di cova, dopodiché vengono spostate
Foto zVg
Micarna fissa nuovi standard sul benessere degli animali. Ciò è garantito dalla competenza dei collaboratori e da una tecnica moderna presso il nuovo centro di incubazione ad Avenches (VD)
nell’area di schiusa. Dalla verifica dell’embrione viene misurata la frequenza cardiaca all’interno dell’uovo. Solamente quando le funzioni vitali dell’embrione sono intatte, l’uovo viene trasferito nel processo di schiusa. A questo punto restano solo pochi giorni prima che i pulcini si affaccino alla vita attraverso il guscio. Finora dovevano aspettare che gli addetti li mettessero manualmente in un nuovo box. L’«Hatch-Care» gestisce i primi minuti di vita senza stress: appena nati, i pulcini vengono posti qualche centimetro più in basso, in mezzo ai loro simili, dove trovano immediatamente calore, luce, acqua e cibo. In questo modo possono fin da su-
bito interagire in modo del tutto naturale con gli altri giovani animali. Un «asilo nido» in fattoria
Attraverso un breve check sanitario, si verifica che tutti i pulcini stiano bene. In seguito, già al primo giorno di vita, vengono trasferiti in una sorta di «asilo nido», dove ritrovano un ambiente famigliare con i propri fratelli e sorelle. Infine, vengono trasportati senza stress in una delle 500 fattorie svizzere a gestione famigliare. Queste aziende si occuperanno del loro allevamento, beninteso con molto spazio e foraggi sani a disposizione degli animali.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Società e Territorio Rubriche
Approdi e derive di Lina Bertola Un vento di vita «Lo sai che siamo i primi uomini a vedere l’alba sulla luna? Non c’è un sopra e un sotto, ci siamo dentro tutti». Sono parole pronunciate da Galileo in un bel film del 1968 di Liliana Cavani. Con il suo grande amico Sagredo, e con il suo cannocchiale, Galileo di notte scrutava il cielo, alla ricerca di prove all’intuizione copernicana dell’eliocentrismo che avrebbe spodestato l’uomo dal centro dell’universo. La visione geocentrica, a quel tempo, non era infatti soltanto l’Auctoritas scientifica, ma una vera e propria visione del mondo, dell’uomo, della vita. A dispetto del terremoto culturale che innescò, il metodo con cui arrivò a dimostrare la nuova verità finì tuttavia, un po’ paradossalmente, per lasciare spazio ad una rinnovata forma di antropocentrismo. Il mondo, la natura, «il grande libro scritto in lingua matematica», diventa oggetto conoscibile a condizione che l’uomo, il soggetto della conoscenza, se ne chiami fuori.
È famosa la sua espressione secondo cui è necessario «rimuovere l’animale» per conoscere le qualità oggettive della realtà. E così, posti al centro di una natura divenuta oggetto della nostra conoscenza abbiamo imparato a trasformarla, ad usarla, a dominarla, in un lungo processo storico che, accanto ai molti progressi, ci ha apparecchiato anche gli squilibri ecologici del presente. L’opera di Galileo, che tanto gli costò sul piano umano, può comunque essere interpretata come una precoce apertura all’idea coraggiosa di un universo in cui tutto si tiene, in cui tutto è intrecciato. Quel «ci siamo dentro tutti» pronunciato con emozione nel film, sembra anticipare l’idea di una comune appartenenza al cosmo di tutte le forme di vita. Oggi sappiamo che le cose stanno davvero così, eppure ciò non sembra troppo scalfire l’immaginario antropocentrico che resta così ben radicato nella nostra cultura. Sono le eterne ambivalenze della storia che alla fine diventano una
questione etica non irrilevante, poiché il dialogo tra ciò che sappiamo sul mondo e il nostro modo di abitarlo è fondamentale nella vita di ognuno. Un esempio di questo dialogo mancato riguarda proprio uno dei fondamenti dell’antropocentrismo, e cioè la separazione tra soggetto e oggetto nella conoscenza. Il principio di indeterminazione, enunciato nel 1927 da Werner Heisenberg, ha messo in discussione la possibilità di distinguere il soggetto dall’oggetto, dal momento che l’osservatore perturba l’osservazione. Come dire, non possiamo chiamarci fuori nemmeno dalle nostre conoscenze. Nonostante questa potente provocazione scientifica, il nostro immaginario continua a raccontare l’esperienza della vita umana come una storia di soggetti alle prese con un mondo di oggetti naturali, con tutte le conseguenze etiche che questa nostra supponenza ha comportato e tuttora comporta.
Bello sarebbe invece metterci allo specchio del nostro vivere provando a riconoscere che forse sì, tutto è davvero interconnesso nel cosmo e nella sua complessità. Lascio alle parole di Fritjof Capra, contenute nel suo Tao della fisica, il compito di accompagnarci in questo possibile dialogo con noi stessi. «In un pomeriggio di fine estate, seduto in riva al mare, osservavo il moto delle onde e sentivo il ritmo del mio respiro, quando all’improvviso ebbi la consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte ad una gigantesca danza cosmica». Ecco allora affiorare la questione etica: la nostra percezione della vita spesso non sa riflettere l’armonioso intrecciarsi delle cose nella natura. Le nostre società non sanno ispirarsi ad una visione del mondo più armoniosa, nutrita dalla complessità di intrecci spesso intuìti dai poeti e confermati oggi anche dalla scienza. A proposito della danza cosmica
sentita nel respiro da Fritjof Capra, mi viene in mente una recente, straordinaria scoperta scientifica secondo cui nell’agonia e nella morte di una stella si produrrebbe un vento cosmico, una specie di ultimo respiro, fatto di granelli di materia lanciata nell’universo. Il vento è ànemos in greco e, come un’anima dell’universo, questa polvere di stelle sarebbe all’origine della formazione di altri pianeti e perciò potrebbe essere all’origine anche della vita stessa. Su questo sfondo cosmico, una stella morente sa diventare vento di vita. Una vita da ripensare, mossa da un vento fatto di inattese armonie, come suggeriscono questi versi di Garcìa Lorca: «Le onde / rimano con il sospiro / e la stella / con il grillo. / Trema sulla cornea / tutto il cielo freddo, / e il punto è una sintesi / dell’infinito. Ma chi accorda onde / e sospiri, / stelle / e grilli? / Aspettate che i Geni / si distraggano un attimo. / Le chiavi scorrono / fra noi».
Magdalena si trova sulla punta orientale dell’isola fluviale che sembra un veliero attraccato. La prua corrisponde al coro che aggiro lungo un sentiero erboso e tra le fronde, si svela un’acqua insospettatamente smeraldo-turchina e limpida. Un salto in chiesa per accendere due cerini. Accanto a una quarta sequoia e la Haus der Stille dove, da due anni, vivono alcune suore, c’è un roseto di tutto rispetto. Mi chino ad annusare il profumo di alcune rose. Una bianca, si chiama Via Mala. Nella grande chiesa del convento, fondato nel 778, dove sono custodite tra le altre cose, le reliquie del monaco eremita irlandese San Fintano che si fece murare qui come recluso fino alla morte, esplode l’opulenza di un iperbarocco pazzesco al limite del circo. Alzando lo sguardo al cielo, si vedono gli affreschi di Francesco Antonio Giorgioli (1655-1725) di Meride. Una coupe Romanoff in riva al Reno, all’ombra dei platani, completa il giro. A poppa, si vedono i vigneti scendere verso il fiume. In quella direzione, controcorrente, in un paio di
ore a piedi, si arriva alle famose cascate del Reno. Si passa dall’«Amazzonia renana» come hanno ribattezzato, per attirare turisti sui battelli-crociera Rheinau-Rheinfall o viceversa, i boschi selvaggi fluviali. Secondo una leggenda, un ricco gentiluomo-pescatore di salmoni addormentatosi a metà pomeriggio finisce nel fiume e sopravvivendo chissà come all’impeto delle cascate, approda qui, aggrappandosi stremato all’isola vergine. Per grazia ricevuta decide così di fondare un convento. Si racconta anche che uno dei pazienti più inquieti dell’isola, ai tempi, avesse inventato la radio prima di tutti. Rinuncio a una delle due invitanti panchine ai piedi dei due Tilia cordata secolari, per sdraiarmi all’ombra del terzo grande tiglio senza panchina. Nel prato, tra l’erba alta, a fianco del Reno che scorre impercettibile. Una coppia in kayak passa via con a bordo della tipa una coppia di cani. A ciascuno il suo hobby o le sue passioni, io ultimamente, a parte lo studio di isolette elvetiche e le fragole, mi dedico molto alla siesta.
poco attenti ai bisogni interiori. Il lord inglese di inizio Ottocento sembra conoscere perfettamente l’uomo pre e post Covid-19. Non solo nella sostanza, questa lettura mi ha ispirata anche nella forma. Memore dei miei studi universitari e della mia prof. di letteratura tedesca, la Dott.ssa Maria Franca Frola, mi interessava farne un’analisi alchemica. Uno dei testi di riferimento di Goethe per i suoi studi sull’alchimia e sulla natura è l’Aurea Catena Homeri pubblicata per la prima volta nel 1723 (l’autore è anonimo) da Johann Georg Böhme. Trattasi, come dice il sottotitolo, di una descrizione dell’origine della natura e delle cose naturali, come e da cosa siano nate e generate, come si conservino in vita e poi si distruggano nuovamente nella loro prima materia. Un testo fondamentale che lessi per la prima volta nel 1998 nella biblioteca dell’Università di Heidelberg. Ci andai proprio per
questo testo, disponibile solo per la lettura su microfilm. Le fotocopie si potevano ordinare e trattandosi di un testo voluminoso l’operazione mi costò diverse centinaia di vecchi marchi. Fu il mio primo viaggio in auto da sola, quella primavera profumava di indipendenza e giovinezza e la città della letteratura e dei poeti tedeschi mi regalò una settimana indimenticabile. Quale sorpresa, dunque, quando in queste settimane in cui avevo bisogno di rileggere il testo ma non lo avevo sottomano (proprio come nel romanzo di Goethe!), l’ho trovato in versione integrale online e per di più scaricabile gratuitamente. Non è una novità che la tecnologia abbia cambiato le nostre vite e ora ci si è messa anche la pandemia, ma nel momento in cui associ la teoria alla tua esperienza di vita personale i contorni si fanno più chiari e la consapevolezza più profonda.
Passeggiate svizzere di Oliver Scharpf L’isola di Rheinau Il doppio campanile barocco dell’isola, spicca già da lontano, arrivando a Rheinau. Paesino agreste di milletrecento anime del canton Zurigo a pochi chilometri da Sciaffusa, posizionato in una protuberanza di Svizzera a forma di fagiolo o paragonabile a quei lembi arrotondati dei pezzi sporgenti di puzzle. Ghiribizzo topografico per via del Reno che qui – segnando i confini con la Germania – compie una peripezia da circuito di formula uno. Un’ansa doppia disegna l’esigua penisola dove cammino pigro e subito si fanno notare le case a graticcio color sciroppo di lamponi. Un salmone d’argento in volo, su sfondo blu, è lo stemma comunale che sancisce il legame ancestrale con il Reno. Il ponte, in prossimità della cinquecentesca cantina vinicola della città di Zurigo, leva un po’ l’incanto del distacco insulare autentico. I draghigargolle in cima ai campanili gemelli, catturano l’attenzione ma vengono sorpassati a livello di stupore, sopra ai parafulmini delle due cupole a cipolla, da due angeli d’oro strombazzanti. Al
cospetto della chiesa abbaziale pianificata dall’architetto voralberghese Franz Beer (1659-1726), tre gigantesche sequoie bicentenarie s’impongono sui campanili che veleggiavano gloriosi in lontananza. Intorno a quella con il girovita forse più impressionante, c’è una meritoria panchina circolare. Ma a meravigliare lo sguardo, un primo pomeriggio a fine maggio sull’isola di Rheinau (358 m) – un tempo abbaziale per secoli poi psichiatrica e oggi musicale – sono tre tigli di un certa età in riva al Reno. All’ombra dei quali, due panchine sono possibilità di tregua dal mondo. Prati lasciati crescere, per una volta tanto, a loro agio, ondeggiano fioriti nel vento. Margherite quante ne volete, qualche fiordaliso stoppione, e l’irrinunciabile Salvia pratensis. All’orizzonte, nuvole fiamminghe nel cielo azzurro chiaro stemperato. Il Reno scorre calmo. Alle spalle della chiesa ecco l’ex abbazia benedettina diventata poi, dal 1867 al 2000, clinica psichiatrica. Il direttore, tra il 1886 e 1898, è stato Eugen Bleuler (1857-1939): psichiatra
nato e morto a Zollikon noto al mondo per aver coniato il termine schizofrenia. La musica sembra essere, da qualche anno, in quelle stanze e saloni, la nuova vocazione dell’isola: sale-prova all’avanguardia orientate verso le rive boschive e inabitate del Reno, stanze d’hotel per musicisti, l’antico refettorio ristrutturato per pasti d’orchestra. Da sempre chiamata Klosterinsel ora si prova a chiamarla Musikinsel, per me rimane solo un’isoletta di tre ettari e mezzo sul Reno. Trovata citata di sfuggita in uno scritto sull’Es dello psicoanalista selvaggio Georg Groddeck come esempio, oltre a Mainau sul lago di Costanza, per Au che significa «isola, isolotto, terra circondata dall’acqua». Incontro quattro betulle; lì di fronte, vicino a una chiesetta, su una lapide sono scolpiti tre nomi di donna: Sophie Rimathé von Waldkirch, le figlie Emma e Sophie. Lavoravano tutte nella clinica, alla quale dovevano essere affezionate per essere sepolte qui. Attorno ai nomi, è cesellata una corona di foglie di pungitopo. La chiesa interreligiosa St.
La società connessa di Natascha Fioretti Goethe, Heidelberg e i tempi andati Cosa avrebbe scritto Goethe in tempi di Covid-19? Probabilmente le stesse cose di oltre due secoli fa, dato che la sostanza delle sue riflessioni e dei suoi romanzi è ancora molto attuale. Mi è capitato di pensarci assorta nella lettura de Le Affinità elettive, romanzo pubblicato per la prima volta nel 1809 di cui ho un’edizione tedesca del 1947 dell’editore C. Bertelsmann Verlag Gütersloh che i bisnonni regalarono a mia nonna Ingeborg nel Natale del 1951. Siamo nella seconda parte del romanzo. Carlotta cammina per il parco appena riconfigurato e impreziosito dal lavoro dell’architetto e dei giardinieri quando giunge in visita un distinto lord inglese amico del marito Edoardo conosciuto durante uno dei suoi viaggi. Dice di essere un esperto conoscitore di parchi e di essere venuto per vedere con i propri occhi i risultati del progetto di cui ha tanto sentito parlare. Carlotta e Ottilia lo accompa-
gnano nella visita. «Già a prima vista egli riconobbe quanto promettessero le nuove piantagioni nel loro impulso ad ascendere. Non un punto gli rimase inosservato dove ci fosse una qualsiasi bellezza da rilevare o da suscitare. Qui egli indicava una sorgente che ripulita dava promessa di diventare la gemma di tutta la passeggiata nel bosco, lì un antro naturale…». Il bell’inglese, oltre ad ammirare le verdi e fiorite meraviglie e a prodigare consigli, si diletta ad intrattenere le donne raccontando dei suoi viaggi per il mondo. Carlotta e Ottilia gli chiedono in quale luogo ami fare ritorno dopo tanto viaggiare «Io mi sono ora abituato ad essere a casa mia dovunque, e non trovo infine nulla di più comodo che lasciare ad altri il fabbricare e coltivare per me e l’accudire alle faccende di casa (…) Certo noi facciamo assolutamente soverchio dispendio per prepararci alla vita. Anziché incominciare senz’altro
a trovarci a nostro agio in una posizione relativa, ci lanciamo sempre piú al largo per crearci sempre maggiori fastidi. Chi gode ora i miei fabbricati, il mio parco, i miei giardini? Non io, e neanche i miei; tutt’al più qualche ospite forestiero, qualche curioso, qualche viaggiatore irrequieto. Pur avendo molti mezzi, noi siamo sempre soltanto per metà a casa nostra, specialmente in campagna, dove sentiamo la mancanza di molte abitudini della città. Il libro che desidereremmo con maggior impazienza non l’abbiamo a portata di mano, e proprio le cose che ci fanno più bisogno sono state dimenticate. Noi ci sistemiamo sempre una vita domestica solo per riscapparne fuori, e se non lo facciamo a nostro arbitrio e a nostro talento, ce lo fanno fare situazioni, passioni, accidenti, necessità e via di seguito». Siamo inquieti e mai contenti, vulnerabili e volubili, distratti dalle cose inutili e
A PR O D I M P O S I TO E LO N E. Tut ti i
g r igli m e lo ni p osso a n d’acq ti. Tanto più a o e s se re ua di lt si ac c o rc un m e lo n o è il c o n ia te e s ulla g r i g l i i l te m p o , q u a n to n u to p d a quat tro p . D imez z i p e r m a n iù ar a e o Ga l i a e t i, d e i m e , o t a g l i a n z a cu in lo 5 min u ti a o c ili s ul g ni C h a re n al co 2 c c o o 0 0 ° C. S r i l l p e r c a t a i s er v . ai fic con g h i. e l a to i c o n g e l a to Cre m e d ’O r
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Ambiente e Benessere Più stravaganze che storie Una passeggiata fino a Torello sulle orme di antichi vescovi e di un passato diventato leggenda
Nomadi da camera Sul mondo del lavoro digitale a distanza c’è ancora molto da imparare pagina 17
Primavera nel piatto Pancetta croccante, erbe, pomodori freschi, aglio, peperoncino e piselli pagina 21
pagina 16
I trafugatori di sabbia Oltre al vento, a «spostare» le polveri della terra ci pensano i turisti in vacanza
pagine 22-23
Corona-stress Covid-19 Riflettere aiuta a trasformare
questa nuova dimensione in esperienza di vita
Maria Grazia Buletti «L’emergenza Covid-19 sta provocando l’aumento di segnalazioni di patologie come ansia e paura, disturbi del sonno e depressione, anche in forme gravi». Lo scorso mese di maggio il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha lanciato l’allarme anche per la salute mentale, ponendola come priorità assoluta in questa fase dell’evoluzione della pandemia. È sulla stessa linea lo Swiss corona stress study dell’Università di Basilea, che indica come durante il Lockdown il 20 per cento degli intervistati abbia sviluppato gravi sintomi depressivi: «Molti di loro non avevano mai avuto problemi psicologici prima, mentre i sintomi depressivi preesistenti sono invece peggiorati nell’80 per cento dei casi». Anche in Svizzera una persona su cinque ha sviluppato sintomi a causa della crisi del Coronavirus e ora ci troviamo in una delicata fase di transizione che, secondo il neuroscienziato e autore dello studio Dominique de Quervain, «potrebbe rivelarsi peggiore per alcuni individui perché da una parte tornano fattori legati allo stress e alla pressione lavorativa, dall’altra mancano ancora i contatti sociali tutt’ora limitati». La pandemia non ci ha solo insegnato l’abitudine di lavarci le mani (e prima che facevamo?), ci ha indotti a ridefinire le distanze sociali e ci ha insegnato a evitare di toccare tutto e tutti. La clausura ha rallentato il tempo in un apparente ritorno al passato che ha comportato incertezze, anche economiche. Un tempo sospeso, che però sospeso non è, seguito da un «liberi a metà», che spazza via la falsa e anelata illusione del «liberi tutti». Un ritorno a una normalità diversa dalla precedente: una sua nuova dimensione alla quale parecchi potrebbero faticare ad abituarsi. Prima la paura del contagio, poi un brusco arresto delle consuetudini, infine l’incertezza. Ci chiediamo se l’esserci dovuti fermare per forza abbia qualche effetto benefico in prospettiva e se ne usciremo cambiati. È certo che ripartiamo da una nuova dimensione, spiega lo psichiatra e psicoterapeuta Michele Mattia (pure presidente dell’Asi-adoc, Associazione della Svizzera italiana per l’ansia, la depressione e i disturbi ossessivo compulsivi): «Siamo stati catapultati nello stordimento di un periodo di lockdown. Però con la chiusura si sono create delle rassicuranti
misure protettive che tutti dovevamo seguire allo stesso modo. Molti sono perciò entrati nella “sindrome della tana”, col timore di uscire di casa per l’insicurezza e le incertezze indotte dal rientrare all’interno di un ritmo sociale diverso dal precedente, nel quale non sappiamo come si muoverà la massa, che tipo di comportamento avremo, se sarà adeguato come prima o meno e via dicendo». Tutto è amplificato dall’altra dimensione dell’attuale emergenza che ora è più economica che sanitaria e fa sì che molti abbiano difficoltà a comprendere e credere che si potrebbe tornare all’emergenza sanitaria: «Non c’è più chiarezza sul comportamento migliore da adottare e ciò crea incertezza: la distanza sociale diventa quale distanza? Due metri? Un metro? Arrivano dubbi importanti. Che facciamo quando qualcuno ci si avvicina al supermercato?». Michele Mattia invita a entrare «nella modalità di cominciare a convivere e condividere la nostra vita in presenza del rischio di base del Covid-19», ricordando che «viviamo continuamente con l’elemento del rischio, ma finché la nostra mente lo interpreta come minimo, allora non esiste. Questo è diventato un rischio importante, perciò la mente lo percepisce come immanente e in ogni luogo». L’emergenza sanitaria ha dunque provocato quella che egli definisce: «un’angoscia di massa della morte che è entrata nella porosità della psiche di molti di noi, difficile da sradicare perché in questa seconda fase non ci sono più le protezioni assolute del lockdown». Per andare avanti, ci aspetta perciò «l’esposizione in vivo»: un lavoro progressivo nella riduzione dell’ansia. «Dobbiamo riprendere contatto con la nuova realtà, e trasformare il Covid-19 da mostro che mangia tutti a qualcosa con cui dovremo imparare a convivere aiutati dalle indicazioni delle autorità». Dunque: non tutti poliziotti alla ricerca di chi potrebbe contagiarci: «Comporterebbe un aumento dell’aggressività collettiva, mentre dovremo tracciare il nuovo inizio nella continuità di quanto vissuto. Ecco il rischio che una certa quantità di persone abbia vissuto questo periodo come una sospensività e non come una continuità: non si è trattato di una parentesi sospesa di qualcosa; chi l’ha vissuta come esperienza continuativa saprà rientrare adeguatamente nella riapertura che, d’altronde, significa proprio sapersi
Lo psichiatra Michele Mattia. (Stefano Spinelli)
confrontare con la grande incertezza di cosa farà l’altro». L’imprudenza di chi ha vissuto quest’esperienza come una sospensione della normalità è l’altra realtà di fatto con cui siamo ora confrontati: «La riapertura potrebbe portare queste persone a tornare con maggiore enfasi nella vita, perché la sospensione non ha fatto loro apprendere nulla: negando cosa è successo, riprendo come prima perché la vita me la riprendo tutta. Questa è una sorta di arroganza verso la vita che non permette di considerare l’esperienza che stiamo vivendo ancora ora. Psicologicamente è come se attraverso questo comportamento si riuscisse a entrare nell’atto di sconfiggere la dimensione della morte. Dovremmo invece riuscire a capire che siamo in una
fase di cambiamento significativo nel quale i nostri precedenti punti di riferimento così apparentemente sicuri si stanno modificando». Il Covid-19 ha mutato gli equilibri di un «eccesso di controllo su tutto» a cui eravamo abituati: «Come se in fondo potessimo decidere tutto ciò che volevamo nella nostra vita, e invece no: è bastato un micro-organismo che si riproduce in fretta e può portare alla morte per modificare tutte le nostre certezze». Se riconosciamo il cambiamento, e l’incertezza che esso sempre comporta, riusciremo a convivere con questo nostro nuovo presente. Altrimenti dobbiamo essere attenti a riconoscere i sintomi che ci causano malessere psico-fisico e chiedere aiuto al medico di famiglia o eventualmente allo spe-
cialista: «Le persone meno adattabili ai cambiamenti dovranno lavorare su una dimensione importante che è la capacità di adattamento alle diverse dimensioni della vita». Avremo quindi l’opportunità di imparare qualcosa per davvero: «Potremo integrare quest’esperienza di vita come esperienza evolutiva e maturativa nel nostro percorso esistenziale, ponendo in evidenza quegli elementi sottovalutati come gli affetti, la dimensione famigliare, le relazioni, il darsi più tempo per fare cose semplici». Potrebbe essere un ritorno al contatto con la parte più profonda del valore dell’esistenza: «Difficile e faticoso, perché il mondo precedente non ci permetteva di pensare. Ma non impossibile». Perché impossibile è solo un po’ più difficile di possibile.
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Ambiente e Benessere
Il fantasma di Torello Passeggiata Un’escursione nella magia dei boschi del Monte Arbostora Romano Venziani, testo e immagini «Pare che a uno dei tre ragazzi si fossero sbiancati i capelli dallo spavento» mi aveva detto Roberto con fare convinto, aggiungendo, come a voler comprovare l’affermazione che «era un lontano parente dell’anziano di Carona che mi ha raccontato il fatto». Forse sarà solo un esercizio di memoria, peraltro salutare a una certa età, ma mi ritrovo spesso a sbobinare ricordi, a recuperare sequenze o finanche semplici fotogrammi di luoghi, persone e storie in cui sono incappato, più o meno volontariamente, nel passato. Quella narratami una quindicina d’anni fa da Roberto Corbella è una storia tanto intrigante quanto, direbbero i francesi, farfelue, come d’altronde buona parte di quelle contenute nel suo libro: Fantasmi nostri, in cui sono narrate storie bizzarre di apparizioni, presenze spettrali e manifestazioni paranormali, raccolte qua e là nell’area insubrica, Ticino compreso. Roberto adorava i misteri e li andava a cercare instancabilmente, spulciando archivi, pungolando fonti orali, passando al setaccio ogni angolo del suo territorio. Quel territorio insubrico, che ha amato fino alla fine, tanto da decidere di riposare per sempre nelle acque del lago di Varese, al largo del suo paese, Gavirate, dove ha voluto fossero disperse le sue ceneri. Sì, perché Roberto Corbella, fumettista, illustratore, antropologo, scrittore e studioso della storia e della cultura delle sue terre, se n’è andato inaspettatamente un giorno di novembre del 2013, lasciando dietro di sé una scia di libri, che trattano di storia, tradizioni, leggende popolari, culti celtici e misteri vari. Capelli ricci e arruffati e barba incolta, giaccone smisurato, Roberto era un omone ben piantato, che spirava concretezza e razionalità. E mi pareva strano che fosse attratto da fenomeni tutt’altro che concreti e razionali. L’arcano, si sa, ha però un fascino sottile e conturbante, che conquista anche le menti meno inclini all’irrazionale, la cui dimensione permea da sempre profondamente tutte le società umane, suscitando l’interesse di antropologi, storici ed etnologi. «Premetto di aver voluto cocciutamente essere un osservatore neutrale – mi aveva assicurato allora – Mi sono limitato a descrivere, i giudizi li lascio al lettore, alla sua sensibilità, alla sua visione della vita. Le storie che raccolgo sono in buona parte di prima mano, cerco di verificarle attraverso ulteriori testimonianze e posso garantire l’assoluta buonafede dei testimoni». E così, Roberto, frequentatore assiduo delle terre ticinesi, aveva registrato anche da noi una quarantina di fenomeni strani (tre dei quali descritti nel libro), che sembravano prediligere la Capriasca e il Malcantone, con un paio d’eccezioni in altri angoli del nostro paese. Come la storia narratagli dall’anziano di Carona.
Illustrazione dell’itinerario percorso dall’autore. Sul sito www. azione.ch si trova una galleria fotografica più ampia.
Un giorno di novembre di fine Ottocento, tre ragazzini stanno tornando a casa, all’imbrunire, dopo aver raccolto legna nei boschi del monte Arbostora, quel promontorio panoramico che si distende dalla vetta del San Salvatore verso ponente, costringendo il lago Ceresio a contorcersi in un’ampia curva davanti a Morcote. All’improvviso, i ragazzi vedono drizzarsi di fronte a loro «l’alta figura di un uomo paludato in abiti ecclesiastici e con la mitra vescovile in capo». Una visione tutt’altro che rassicurante, coperta com’è di macchie di sangue, con la testa scheletrica e le orbite vuote. I tre, terrorizzati, fuggono a casa, dove raccontano ai genitori, col poco fiato che gli resta, l’episodio cui sono stati testimoni. D’allora in poi, l’inquietante apparizione si manifesta altre volte nel corso degli anni, spaventando i contadini e i viandanti, che percorrono i sentieri e attraversano i boschi del versante settentrionale della montagna, in particolare attorno al nucleo di Torello. Torello, con i suoi prati digradanti, la chiesa e gli antichi edifici, è un’oasi di pace e di silenzio adagiata su un’ampia radura a mezza costa tra il monte Arbostora e Figino. Da Carona ci si arriva in poco più di mezz’ora con una comoda mulattiera, passando dal santuario della Madonna d’Ongero (la Madonna degli Angeli, questo il significato del nome), scrigno d’arte barocca sorto tra il 1624 e il 1640 sul luogo dove una bambina sordomuta aveva miracolosamen-
La Via Crucis di Carona, presso la Chiesa della Madonna d’Ongero.
te acquistato l’udito e la parola dopo aver scoperto sotto un cespuglio d’edera un’immagine della Madonna. Decido di passare di lì al ritorno e di prenderla larga facendo l’intero giro del promontorio, perciò imbocco il sentiero che parte dal parco di San Grato, per poi passare dall’Alpe di Vicania e tornare dall’altro versante. È una bella giornata d’inizio febbraio, che porta con sé una luce tiepida con vaghi sentori di primavera e un rincorrersi di canti di uccelli. Da Torello, lo sguardo abbraccia un panorama straordinario, che spazia sulla Collina d’Oro, le montagne del Malcantone e lontane cime imbiancate, mentre una gobba propizia della montagna ci risparmia lo spettacolo pietoso del Pian Scairolo. Un tempo, là sotto, prima che crescesse il bosco si doveva vedere bene anche il lago, che «arrotonda le sue sponde tutt’attorno al Sasso di Caslano e ne lambisce i fianchi, in un abbraccio ininterrotto» così si legge tra le pagine di una «Illustrazione Ticinese» del 1961. Nessuna meraviglia, dunque, che un vescovo di Como, Guglielmo I Della Torre, di famiglia oriunda di Mendrisio, si facesse costruire qui la sua residenza estiva, ampliando alcuni edifici, tra cui una chiesetta, già presenti sul posto. Sono i primi anni del 1200, quando prende forma il complesso di Torello, luogo di ritiro e di meditazione, che comprende, oltre alla dimora vescovile, la chiesa di Santa Maria Assunta, uno dei più begli esempi di Romanico in Ticino, consacrata nell’ottobre del 1217, un convento, in cui si insedia una comunità di monaci agostiniani, e l’annessa fattoria. Guglielmo morirà nel 1226, ma potrà continuare a godere della pace del luogo, essendo sepolto, per suo espresso desiderio, nella navata della chiesa che aveva fatto erigere. I monaci rimangono al Torello fino al 1349, in seguito, il complesso, che possedeva beni a Carabbia, Pazzallo, Pian Scairolo, Bioggio e in Valle di Muggio, passa di mano in mano, finché, nel 1853, messo all’asta, sarà acquistato per 40mila franchi da una famiglia di Milano. È pomeriggio inoltrato e il sole accende l’alta facciata della chiesa facendo vibrare il rosa della pietra con cui è stata edificata, il porfido del Ceresio, che si
estraeva dalle cave del monte Arbostora, rimaste attive per secoli fino alla seconda metà del Novecento. Sono affascinato da linearità ed essenzialità delle forme, dalle bifore del campanile impreziosite da colonnine bianche, che catturano la luce, dagli affreschi sbiaditi, che attorniano il portale: quel che resta di un San Cristoforo, ritenuto tra i più antichi del Ticino, un vescovo, probabilmente lo stesso Della Torre, e una Vergine col Bambino al centro della lunetta. Avrei dovuto procurarmi le chiavi, non l’ho fatto e devo accontentarmi di ammirarla dall’esterno. Passerò un’altra volta, a fargli visita, al buon Guglielmo. Tanto, ormai, non si muove da lì. A dire il vero, nel 1670, ne volevano traslare la salma a Como, ma non se ne fece nulla, a causa di un fatto curioso, narrato nelle sue memorie da un altro prelato dell’epoca, padre Ignazio Taddisi. Dopo aver scoperchiato il sepolcro, annota padre Ignazio qualche decennio più tardi, «videro il cadavere tutto intiero ed incorrotto, con logorata solamente la punta del naso, vestito degli abiti pontificali con un calice di legno in mano. Dal sepolcro uscì un odore sì grato ed acuto di balsami che non potevano sopportare e durò per otto giorni nella chiesa». Aggiunge poi che i due assistenti secolari presenti alla scena toccarono con le dita «gli abiti del Santo Vescovo… e questi due dopo andati a sua casa, che abitavano in Figino, s’infermarono, ed in termine di tre giorni amendue morirono» (Bollettino Storico della Svizzera italiana, 1928-10). Ora, visto questo precedente, vi chiederete: che c’entri qualcosa Guglielmo della Torre, con l’orrida figura apparsa ai tre ragazzini nei boschi dell’Arbostora? Sembrerebbe di no. Il prelato morì di morte naturale e in pace con se stesso, con Dio e con il mondo, mentre, le apparizioni spettrali riguardano piuttosto «chi moriva di morte violenta o senza avere avuto i sacramenti o i rituali pagani che li sostituivano in antico» scrive Roberto Corbella, il quale identifica nello spettro un altro prelato, che soggiornò all’ombra dei boschi dell’Arbostora all’inizio del Millecento: Landolfo da Carcano, milanese, vescovo di Como, pure lui, ma con un ben diverso e infausto destino. Imposto al seggio episcopale nel
1097 dall’Imperatore germanico Enrico IV e sostenuto da Milano, Landolfo viene rinnegato dai suoi concittadini, che parteggiano per il suo rivale, Guidone Dei Grimoldi di Cavallasca, canonicamente eletto e gradito al papa. Costretto a fuggire dal sollevamento popolare e braccato dalle milizie di Guidone, il vescovo da Carcano si rifugia dapprima al Torello e poi nel castello di Magliaso, dove viene però catturato, torturato e tradotto nelle carceri comasche. L’episodio segna l’inizio della cosiddetta «guerra decennale» tra Como e Milano (1118-1128), in cui sono coinvolti anche i paesi affacciati sul lago di Lugano. Una strana guerra, che si combatte solo durante la bella stagione e che s’inscrive in un discorso che va al di là della lotta per le investiture, quello dell’espansionismo comunale e del controllo dei valichi transalpini. La vinceranno i Milanesi. Quanto a Landolfo, una volta liberato dal carcere dai vincitori, scompare. «Si crede sia stato morto in mezzo a quello scompiglio – scrive Maurizio Monti nella sua monumentale Storia di Como – perché di lui non è più fatta parola». D’allora, il suo spettro senza pace si aggira ancora nei luoghi del suo esilio, comparendo all’improvviso ai malcapitati viandanti. Ad alcuni, almeno. Io, infatti, non l’ho visto, sarà perché non era l’orario delle visite, pare che il momento più propizio sia l’imbrunire, o perché non ero nello stato d’animo adatto, ma del povero Landolfo o del suo ectoplasma non ho trovato tracce. Solo un paio di cavalli sonnolenti, un servisol con tisane ed erbe aromatiche «coltivate sul terreno del Torello» e qualche escursionista meravigliato, che si sazia gli occhi e lo spirito della bellezza di questo incantevole luogo senza tempo. Bibliografia
Roberto Corbella, Fantasmi nostri, nel Varesotto, Verbano, Ossola, Ticino, Macchione editore, Varese, 2003. Illustrazione Ticinese, 03.07.1961, pg.15. Cfr. Bollettino Storico della Svizzera italiana, 1928-10, pp. 119-120. Storia di Como scritta da Maurizio Monti, professore nel liceo diocesano della stessa città, Como 1829, vol. I, parte II, pg.388.
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Ambiente e Benessere
Il mio ufficio è il mondo
Viaggiatori d’Occidente I nomadi digitali sono stati i primi a sperimentare il lavoro a distanza
e la loro esperienza può essere utile in questi tempi Claudio Visentin Ogni anno l’Oxford English Dictionary s’incarica di registrare nuove parole o modi di dire particolarmente rappresentativi della nostra società. Nel 2013 fu Selfie, poi Vape (2014), Emoji (2015), Post-Truth (2016), Youthquake (2017), Toxic (2018), Climate Emergency (2019). Remote Working mi sembra un ottimo candidato per questo 2020.
Per lungo tempo il lavoro a distanza (o telelavoro) è stato l’aspirazione troppo spesso delusa di chi era condannato ad arrancare nel traffico mattina e sera. Poi d’improvviso è diventato la norma per tutti. Casa dolce casa. Anche i viaggi di lavoro sono in crisi nera, meno 90 per cento in Europa con una perdita di 200 miliardi di dollari (Fonte: GBTA, Global Business Travel Association). Spostarsi in sicurezza è ancora possibile, ma costa: i voli privati sono ora il 40 per cento del totale (e il settore va benissimo) rispetto all’8 per cento di prima dell’epidemia. Anche muovendosi col proprio aereo poi nessuno può essere veramente sicuro di non incappare in una quarantena. Quando stazioni e aeroporti torneranno sicuri, molti preferiranno comunque limitare i movimenti ed evitare spostamenti inutili. Strumen-
Pexels
«A volte mi rifugio in una buia camera d’albergo o in un bar purché abbia una buona connessione. Quando sei un nomade digitale la produttività può essere una vera sfida» ti un tempo riservati agli specialisti – Zoom, Teams, Meet – sono oggi familiari a chiunque e abbiamo scoperto che funzionano benissimo per scambi di idee, riunioni preparatorie, primi contatti eccetera, insomma nella maggior parte dei casi. Ben Baldanza, già amministratore delegato di Spirit Airlines, sostiene che «nel lungo termine mi preoccupano più i viaggi d’affari che le vacanze… Dopo tutto non puoi andare in vacanza con Zoom o Skype». Lavorare a distanza può essere più sicuro e più comodo ma non dà garanzie di migliori risultati: remote working e smart working non sono sinonimi. Infatti, oltre a spazi adeguati e alla tecnologia serve una diversa mentalità, focalizzata sugli obiettivi e non sulla forma esteriore del lavoro. Proprio
perché lavorare bene a distanza non è facile può essere preziosa l’esperienza accumulata in questi ultimi vent’anni dai digital nomad (the wireless generation), ovvero quanti già prima dell’epidemia hanno scelto il telelavoro per poter viaggiare buona parte dell’anno o vivere a lungo in un paese straniero. Certo, alcuni aspetti della vita di un digital nomad sono peculiari, a cominciare dalla scelta del luogo dove stabilirsi. C’è chi privilegia il clima caldo – i cosiddetti uccelli migratori – o il basso costo della vita, specie all’inizio, quando il reddito non è ancora stabile. Per questo molti statunitensi scendono verso i Caraibi o l’America latina. Altri cercano invece destinazioni dove è possibile divertirsi e socializzare nel tempo libero,
sia con locali che expat. Al momento le destinazioni preferite sono Bali in Indonesia o Chiang Mai in Thailandia, ma l’elenco delle possibilità si allunga sempre più, anche senza andare troppo lontano: le repubbliche baltiche, Budapest, Belgrado eccetera (tutte le possibilità su nomadlist.com). Ovviamente il fuso orario (dovendo lavorare con persone lontane) e la qualità della connessione alla rete sono due elementi da non dimenticare mai. Nessun nomade digitale poi rinuncerebbe alla cittadinanza del proprio Paese d’origine (e alle cure mediche in caso di vero bisogno); da qui una lotta continua per avere un visto turistico abbastanza lungo, anche con qualche uscita temporanea, magari nella stagione dei monsoni.
Altri aspetti della vita dei nomadi digitali sono invece comuni a chiunque abbia lavorato a distanza in questi ultimi mesi. Per esempio, questi viaggiatori devono presto imparare a stabilire un confine tra tempo di lavoro e tempo libero, tra disciplina e relax. I nomadi digitali sono molto attenti alla qualità della vita: la lezione di yoga, il bagno in mare, l’incontro nei locali di tendenza non vengono mai sacrificati al lavoro. Per esempio, Anna: «Partirò per Bali perché c’è una community di digital nomad, perché c’è il mare, ma anche perché sono una appassionata di yoga. Penso molto alla componente spirituale di questo viaggio. Per me vuol dire vivere la vita per realizzare quel che si vuole, invece di fare quello che ti dicono sia giusto fare». Nessuno resiste alla tentazione di sollecitare l’invidia altrui (bragging) postando sui social una foto mentre finge di lavorare in spiaggia con un cocktail, ma la realtà naturalmente è ben diversa, come spiega Johannes: «Facciamo quelle foto solo per mostrarle in giro. In realtà la sabbia distruggerebbe il tuo portatile e comunque in spiaggia fa troppo caldo per lavorare seriamente. In realtà a volte mi rifugio in una buia camera d’albergo o in un bar qualunque purché abbia una buona connessione. Quando ho davvero bisogno di lavorare, cerco di rimanere il più lontano possibile dai turisti in modo da potermi concentrare. In effetti quando sei un nomade digitale la produttività può essere una vera sfida». E anche in altri periodi più tranquilli serve comunque una routine abbastanza stabile. Tutte circostanze ben note a chi ha cercato di rimanere efficiente e al tempo stesso rispondere alle legittime richieste di coniugi, figli e animali domestici: nomadi digitali nella propria stanza.
Problemi basilari
Giochi di parole E se cinque per quattro facesse dodici come nel romanzo Alice nel Paese delle meraviglie? a 20 non ci arriverò mai!». Tenuto conto che il reverendo Charles Lutwidge Dodgson (vero nome di Lewis Carroll) era un valente matematico, è ragionevole supporre che non abbia inserito casualmente questa bizzarra progressione nel suo racconto, ma abbia voluto proporre implicitamente un intrigante problema (privo di soluzione ufficiale…). Un modo per affrontare la questione può partire dalla supposizione che i numeri pronunciati da Alice, siano stati espressi in sistemi di numerazione diversi dall’usuale in base 10. Nel caso in questione, si può verificare che: 5×4 = 12 in base 18 (infatti: 1×18+2 = 20 = 5×4); 6×4 = 13 in base 21 (infatti: 1×21+3 = 24 = 6×4); ed estrapolando:
7×4 = 14 in base 24 (infatti: 1×24+4 = 28 = 7×4); 8×4 = 15 in base 27 (infatti: 1×27+5 = 32 = 8×4); 9×4 = 16 in base 30 (infatti: 1×30+6 = 36 = 9×4); 10×4 = 17 in base 33 (infatti: 1×33+7 = 40 = 10×4); ---------------
Per vedere se, continuando in questo modo, è possibile arrivare a ottenere un numero rappresentabile con: «20», in una opportuna base B, bisogna verificare se esiste un valore di B, tale che, in corrispondenza a un particolare numero naturale N, risulti: N×4 = 2B. In che modo, ciò potrebbe essere fattibile?
Soluzione
Qualche mese fa, un mio affezionato lettore mi scriveva: «Caro Ennio, nei giorni scorsi, riflettevo che nel 2019 ho compiuto infine 30 anni. Mi mantengo formalmente giovane, grazie ai vantaggi della conoscenza matematica… Conto in base 17. Ciao, Paolo». Come si può arguire dal nome stesso, la numerazione posizionale in base 17 è impostata sulle potenze di 17, invece che sulle abituali potenze di 10. Nel caso specifico, il numero 30, scritto in base 17, corrisponde al numero decimale: 3×171+0×170 = 3×17+0×1 = 51. Quindi, nel 2019, il mio lettore ha compiuto 51 anni canonici… Le numerazioni impostate in basi diverse dalla 10 risultano sempre un po’ ostiche da trattare, sia per un fatto-
re psicologico (ogni numero tende ad apparirci, comunque, scritto in base decimale), sia per i potenziali calcoli che richiedono. Nel caso particolare di numeri composti da due sole cifre, però, la situazione è relativamente più semplice; basta, infatti, considerare che un qualsiasi numero rappresentato con «XY», in una generica base B, equivale al numero XB+Y, in base 10. Con l’ausilio di quest’unica relazione, si possono affrontare dei problemi curiosi, come il seguente. Nel secondo capitolo di Alice nel Paese delle Meraviglie, la piccola protagonista del celebre capolavoro di Lewis Carroll, per verificare che le sue facoltà mentali sono ancora integre, comincia a chiedersi: «Proviamo un po’ se so ancora tutte le cose che sapevo. Vediamo: 5 per 4 fa 12; 6 per 4 fa 13; 7 per 4 fa... povera me, in questo modo
Si può notare che, nella progressione in oggetto, il risultato di N×4 è dato sempre da un numero rappresentabile con un «1», seguito da un valore uguale a: (N–3). In generale, quindi, si può scrivere: 4N = B+(N–3), ovvero: N = (B–3)/3. Sostituendo questo valore nell’espressione: 4N = 2B, si ottiene: 4(B–3)/3 = 2B; da cui si ricava: B = –6 (e N = –3). Se ne deduce che B = –6 è l’unico valore che consentirebbe di soddisfare la relazione: 4×N = 2B (per N = –3); infatti: 4(–3) = 2(–6) = –12. Alice, di conseguenza, non potrà mai arrivare a: «20», perché le basi da lei adottate assumono solo valori positivi, visto che costituiscono una progressione crescente, da 18, in poi (a parte il fatto che il valore della base di una numerazione non può essere negativo...).
Ennio Peres
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Ambiente e Benessere
Una novità per il giardino
Mondoverde Direttamente dall’Asia, è una pianta per le quattro stagioni e il suo nome è Heptacodium miconioides
Anita Negretti Oltre alle classiche piante che siamo ormai abituati a coltivare, come abelie, nandine, camelie e azalee, è sempre bello inserire nelle proprie aiuole qualche novità botanica. Se infatti le varietà delle specie più note offrono ogni anno qualche sorpresa, più raramente ci si imbatte in vere e proprie piante nuove, come invece è il caso quando ci si trova confrontate con Heptacodium miconioides. Scoperto in una regione cinese all’inizio del 1900, ha dovuto attendere molti decenni prima di esser classificato: solo da pochi anni i botanici gli hanno attribuito il suo nome scientifico.
Da metà luglio sbocciano i fiori: profumatissimi, persistono sulla pianta fino a metà settembre Sfogliando un catalogo di arbusti ho letto la sua descrizione e me ne sono entusiasmata, prima pensando a dove posizionarlo in giardino, poi a quale pianta abbinarlo e infine a come fare per averlo subito e poterlo ammirare in tutte le prossime stagioni. Eh sì, perché al di là del suo nome difficile, questo arbusto caducifoglio, regala per tutto l’anno dei punti di interesse. Dallo sviluppo veloce, raggiunge i cinque metri d’altezza, con una chioma
Un esemplare di Heptacodium miconioides. (klp.nyc)
densa che facilmente supera i due metri di larghezza. In inverno, quando il giardino tace, l’Heptacodium è spoglio, ma con una bella corteccia squamata di color marrone chiaro e ocra, che tende
a sfogliarsi. Ai primi caldi compaiono le foglie, dalla forma lanceolata, verde scuro ma con tre evidenti nervature parallele nella parte centrale. Da metà luglio sbocciano i fiori:
profumatissimi, persistono sulla pianta fino a metà settembre. Ogni bocciolo porta sempre sette fiorellini bianchi, che assomigliano molto a quelli del falso gelsomino (il classico gelsomino
sempreverde molto usato per coprire muri o graticciati). I fiori con il passare dei giorni virano dal bianco al rosa pallido, ma è con l’inizio dell’autunno che dà il meglio di sé: le foglie diventano gialle rossastre e i frutti si colorano di un rosa intenso. Le piccole capsule verdognole contenenti i semi, vengono circondate da cinque lunghi sepali molto decorativi, tanto da far sembrare la pianta nuovamente in fioritura. Tra le note tecniche per la coltivazione di questa pianta, si evidenzia il fatto che non ama il vento, e predilige zone in pieno sole, con suoli ben concimati e potature leggere, meglio se solo di pulizia dei rami rotti. La chioma si sviluppa armoniosa se lasciata indisturbata e la pianta non ha esigenze particolari, sopportando geli invernali fino a –20°C. Grazie all’appartenenza della famiglia delle Caprifoliaceae, si può ben capire che il profumo dei suoi fiori risulta essere delizioso, quindi eviterò di piantarlo accanto a specie già odorose, per non stimolare competizioni, prediligendo invece sfumature di colore simili o in contrasto con i toni del Heptacodium. Le lunghe spighe di veronica bluviola, i grandi capolini a forma di margherita delle echinacee, con petali rosa o bianchi, un fitto tappeto di campanule azzurro cielo e come arbusto di compagnia, da utilizzare per bilanciare l’altezza con le altre erbacee, sceglierò una bella abelia, con la quale condividere le stesse esigenze e gli stessi toni di colore durante tutto l’anno. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere Migusto La ricetta della settimana
Pasta al pomodoro e ai piselli Piatto principale
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
Ingredienti per 4 persone: 10 fette di pancetta · 2 peperoncini · 3 pomodori grossi di 300 g ciascuno · 4 spicchi d’aglio · 300 g di piselli nel baccello o 100 g di piselli sgranati · 1 mazzetto d’erbe aromatiche miste, ad esempio basilico, salvia, rosmarino · sale · pepe · 500 g di rigatoni · fiori di cappuccina per guarnire, nei negozi di specialità · 2 mozzarelle di bufala · 2 c d’olio d’oliva per condire.
1. Tagliate la pancetta a striscioline. Private i peperoncini dei semi e tritateli finemente. Tagliate i pomodori a dadini e l’aglio a fette. Sgranate i piselli. Rosolate la pancetta in una padella antiaderente, finché diventa bella croccante. Unite i peperoncini e l’aglio e rosolateli brevemente, poi aggiungete i pomodori a dadini. Tritate finemente le erbe e aggiungetele. 2. Lasciate ridurre per circa 20 minuti. Due minuti prima di fine cottura unite i piselli e cuoceteli con tutti gli altri ingredienti. Regolate di sale e pepe. 3. Lessate la pasta al dente in abbondante acqua salata per 8-10 minuti. Scolate la pasta conservando un po’ d’acqua di cottura. Mescolate i rigatoni con l’acqua di cottura e la salsa di pomodori, piselli e pancetta. 4. Guarnite con i fiori e, a piacere, servite con mozzarella di bufala e irrorate con olio d’oliva. Per un gusto meno piccante riducete la quantità di peperoncini o lasciateli via. Preparazione: circa 20 minuti, circa 20 minuti per sobbollitura. Per persona: circa 32 g di proteine, 33 g di grassi, 101 g di carboidrati, 850 kcal/
3550 kJ.
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Una papaia contro il Parkinson
Azione
La nutrizionista È in corso uno studio
sull’efficacia del frutto esotico contro alcune malattie neuro-degenerative
Laura Botticelli Gentile Laura, ho letto che è in corso una ricerca sul legame tra il consumo di papaia e la malattia del Parkinson, ma non capisco in che modo potrebbe agire positivamente la papaia sul corpo o il sistema nervoso… Saprebbe avanzare un’ipotesi? / Claudio Gentile Claudio, la ringrazio per la domanda, spero di riuscire a spiegarmi perché qui si entra nel mondo della farmaco-nutrizione, conosciuto col nome nutriceutico o nutraceutico, dove si ha a che fare con una sostanza – estratta da alimenti od ottenuta per mezzo di biotecnologie – che agisce positivamente sulle funzioni fisiologiche dell’organismo, favorendone il benessere e contrastando i processi degenerativi. È un mondo complesso e complicato anche dall’uso di paroloni conosciuto prevalentemente dagli addetti al settore. Cercherò di fare del mio meglio per renderlo comprensibile e chiedo già scusa a chi è più del mestiere. La papaia è studiata per il suo contenuto in licopene, un carotenoide che si è visto avere effetti profilattici e/o terapeutici in diversi tipi di disturbi del sistema nervoso centrale come appunto il Parkinson ma anche il morbo di Alzheimer, l’ischemia cerebrale, l’epilessia eccetera. Per rispondere devo innanzitutto spiegare la malattia del Parkinson, spiegazione che per questione di spazio sarà pubblicata però solo nello stesso articolo, ma sul sito www.azione.ch.
Le cause della malattia sono ancora sconosciute, e in maniera semplificata, si parla di possibile produzione di specie reattive di ossigeno attraverso lo stress cellulare (i famosi radicali liberi), disfunzione dei mitocondri (un organello respiratorio delle cellule), riduzione anormale delle proteine a causa dello stress, inclusioni anormali di proteine citoplasmiche, neuroinfiammazione, morte cellulare e perdita di fattori trofici… Come può agire positivamente il licopene presente nella papaia? Da studi effettuati su topi sembrerebbe che il licopene possa invertire questi processi (i defict neurochimici, lo stress ossidativo, l’apoptosi – morte cellulare – e le anomalie fisiologiche), e offra una strategia prodigio nel trattamento di questa malattia neurodegenerativa. Voilà, spero che la mia risposta le abbia dato qualche informazione utile, sebbene a questo genere di domande non posso che dare una risposta da considerare come provvisoria, visto che si tratta quasi sempre di studi ancora in corso, caratterizzati spesso da correlazioni incoraggianti, ma che stanno cercando di assodare se esista effettivamente una relazione causa-effetto.
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Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch Le precedenti puntate si trovano sul sito: www.azione.ch
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Ambiente e Benessere
Polveri e sabbie dal Sahara fino sul Basòdino, e furtarelli estivi in Sardegna Geologia Due episodi in apparenza lontani che hanno la stessa origine
Alessandro Focarile Potenti correnti calde sciroccali di origine sahariana – specialmente durante i mesi primaverili – convogliano verso l’Europa e fino in alta quota immense quantità (si calcola 700mila tonnellate ogni anno) di sabbia e di polveri minute («löss») fino sulle Alpi. La regione del Basòdino, la seconda vetta delle Alpi ticinesi, 3272 metri slm, si trova sulla traiettoria di queste correnti di scirocco, da Sud verso Nord.
Durante la scorsa estate in Sardegna sono state sequestrate dieci tonnellate di sabbia nei porti e aeroporti Occorre ricordare che il Sahara è il più vasto deserto esistente sulla Terra: cinque milioni e 550mila chilometri quadrati dall’Oceano Atlantico fino al Mare Rosso. In questa vastità, 500mila chilometri quadrati sono coperti di sabbia e della sua frazione più minuta costituita di pulviscolo, i cui granuli hanno un diametro inferiore a 0,02 millimetri, detti per l’appunto «löss». Giungendo sulle regioni alpine,
che fanno da barriera allo scirocco, questi materiali di lontana origine si depositano anche sui nevai e sui ghiacciai, sui quali sono facilmente visibili per il loro contrastato colore. Un deposito che aumenta lo scioglimento degli stessi, rendendolo più rapido in seguito al maggiore assorbimento solare. Narrano le antiche cronache medievali che verso il 1400, Ibnetto, signore valdostano di Challand in Valle d’Ayas, facesse cospargere della terra sui campi innevati delle sue proprietà, per favorire in primavera un più rapido scioglimento della neve, e quindi una più rapida messa a coltura dei terreni. La penisola italiana, comprese le due isole maggiori (Sicilia e Sardegna), ha uno sviluppo costiero di oltre 8mila chilometri, dei quali una lunga parte è costituita di litorali sabbiosi dove la costa è bassa. Si aggiunge lo sviluppo rivierasco dei fiumi e dei torrenti dove sono ubicate le cave per lo sfruttamento della sabbia e della ghiaia: si tratta di decine di migliaia di chilometri. Chi è proprietario di questi materiali? Presso i cittadini è generalizzata la convinzione che la sabbia e la ghiaia non appartengano a nessuno, siano senza proprietario. Ma non è così. Questi materiali stanno assumendo un elevato valore economico a causa del loro utilizzo, che sta divenendo sempre più eccessivo per le disponibi-
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Ambiente e Benessere lità naturali. Secondo le statistiche degli organi internazionali preposti alla quantificazione delle risorse naturali esistenti sulla Terra, ogni anno vengono utilizzati 45 miliardi di tonnellate di sabbia. Soltanto l’Emirato del Dubai ne importa dall’Australia per 450 milioni di dollari americani. Sabbia utilizzata per costruire avveniristiche strutture architettoniche e, persino, creare isole artificiali nell’antistante Oceano Indiano. È spontaneo domandarsi perché un Paese sabbioso, un deserto coperto di sabbia, debba importarla. La risposta è che la loro «sabbia» non è materiale utile, bensì è composta prevalentemente di «löss», che non dà coesione alla mescolanza con il cemento. Per quanto attiene l’Italia, sulla terra ferma le rive di fiumi, di torrenti e di laghi sono di proprietà comunale, concessa se del caso in usufrutto ai privati. Per contro, i litorali marini, cioè le spiagge sabbiose – dal mare alla linea di risacca verso la terra ferma – sono di proprietà demaniale, cioè dello Stato. In entrambi i casi, usufrutto e gestione dei materiali (sabbia e ghiaia) sono regolati da precise normative legislative dettagliatamente definite. Ma, in realtà ci si occupa soltanto dell’attività delle cave: escavo e lavorazione nei greti dei corsi d’acqua. Eppure, della sabbia che ricopre i litorali sabbiosi dove la costa è bassa di competenza dei Comuni, pare che nessuna autorità se ne occupi. D’altro canto la legge sancisce un responsabile. In tal modo, il cittadino in costume da bagno ritiene che la sabbia sia da considerare «res nullius», senza proprietari. E si trasforma in predone delle spiagge. Durante la scorsa estate la razzia è stata veramente quotidiana. Soltanto negli ultimi mesi estivi (2019) sono stati recuperati ben 400 chilogrammi di sabbia nei lidi di Villasimius nella Sardegna settentrionale. All’imbarco
Sabbia continentale dell’Uzbekistan. (Alessandro Focarile)
Il vento che soffia dal mare edifica la duna di sabbia. (Alessandro Focarile)
a Porto Torres (sempre in Sardegna), sono stati sorpresi due turisti stranieri, che avevano nei loro camper ben 40 chilogrammi di sabbia, raccolti durante le loro vacanze balneari. Doverosamente sanzionati e multati, difficilmente pagheranno il dovuto alle autorità italiane. Questo ennesimo episodio, che ha beneficiato di un ampio riscontro sulla stampa, ha rivelato l’esistenza di un fenomeno nuovo: l’esagerata e abusiva raccolta di sabbia marina particolarmente vistosa per il suo attraente colore. Rosa, quella dell’isola di Budelli, nell’arcipelago della Maddalena tra la Corsica e la Sardegna. Bianca e costituita di splendido quarzo ialino, quella della spiaggia di Is Arutas. E poi c’è la
svariate dimensioni possano contenere simili quantitativi! La sabbia è oggetto di un attivo collezionismo in tutto il mondo (Ayer et al., 2002). Esiste un’associazione che riunisce numerosi appassionati «sabbiofili». Si apprende che un americano possiede una collezione di 11mila campioni di sabbia. A Is Arutas, la località più incantevole della costa in provincia di Oristano, hanno provato in ogni modo a scoraggiare i furti di sabbia. Cartelli piazzati sulle passerelle di accesso alla spiaggia, volantini e volontari che sorvegliano tra gli ombrelloni, e le guardie forestali non sono stati sufficienti. Secondo Antonio Casula, comandante del Corpo forestale della Sardegna, forse i Comuni proprietari delle spiag-
sabbia verde, per il contenuto di cromo; la sabbia nera che è composta di granuli di minerali di ferro (ematite, magnetite), oppure di lucente ossidiana di origine vulcanica. E via enumerando. La sabbia è un prezioso e istruttivo museo di mineralogia in miniatura. Tutti ambìti souvenir per ricordare belle vacanze in luoghi suggestivi. La Natura è particolarmente generosa su molti litorali mediterranei, non occorre sognare lontani lidi tropicali. Nel caso specifico della Sardegna, sono state sequestrate durante la scorsa estate dieci tonnellate di sabbia nei porti e aeroporti sardi («La Stampa», 18 agosto 2019). Difficile immaginare come migliaia di PET e di sacchetti delle più
ge dovrebbero fare di più dato che i forestali sono impiegati soprattutto nel combattere gli incendi. («La Stampa», 18 agosto 2019). «Ogni granello di sabbia rubato è un pezzo di futuro che se ne va», dice l’Assessore all’ambiente in Sardegna, Gianni Lampis. «Dobbiamo spiegare ai cittadini che, per garantire il futuro della nostra Terra, certi comportamenti vandalici vanno combattuti». Bibliografia
Jacques Ayer et al., Le sable, Musée d’Histoire naturelle (Neuchâtel, 2002), 127 pp. Raymond Siever, Sabbia, Zanichelli Editore (Bologna, 1997), 354 pp. Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Pallone all’incrocio dei pali. Gool! Uno a zero
Sport Dall’altro ieri si possono giocare incontri amichevoli di calcio. Dal 19 giugno si torna a fare sul serio
Giancarlo Dionisio Dalle tribune deserte non si eleva nessun grido di gioia. Sulla panchina, l’allenatore, il suo assistente, il massaggiatore e i giocatori di riserva non sanno come festeggiare. Vorrebbero abbracciarsi, ma non osano. Si limitano ad applaudire il bel gesto tecnico del compagno. È stato spezzato un digiuno, che durava dal 23 febbraio, giorno in cui Super League e Challenge League furono bloccate a causa del Covid-19. Comunque si riparte. Proprio il 19 giugno, quasi a voler sfidare il numero del maledetto virus. E di una sfida si tratta. Tredici giornate di campionato da liquidare in meno di un mese e mezzo, per poi lasciare posto alla Coppa Svizzera, che prevede i tre turni rimanenti tra il 5 e il 12 agosto. Un vero e proprio Tour de Force. Con una partita ogni tre giorni. Con una preparazione fisica non ottimale. Con i comprensibili timori dei contatti fisici. Con il caldo di luglio, che renderà il clima ancora più infernale. Con il rischio che gli infortuni si moltiplichino. Renderà meno drammatico il contesto di gioco, la recente decisione di concedere cinque sostituzioni, invece delle tre previste finora. Un’idea che era sul tavolo della Lega, a prescindere dal Coronavirus, con l’auspicio di incrementare e vivacizzare il ritmo di gioco. Tuttavia, con le costrizioni elencate, sarà difficile che l’intensità possa crescere, anzi! Alcuni giorni fa un calciatore del-
Lo Stadio del Reno, a Colonia in Germania, vuoto durante la 29esima partita della Bundesliga svoltasi il 1. giugno 2020. (Keystone)
lo Zurigo, che stava seguendo alla TV una partita della Bundesliga, ha dichiarato di aver spento dopo dieci minuti. «Senza pubblico e con dei contatti soft, era uno spettacolo inguardabile». Ma The Show must go on. I venti club della Swiss Football League, riuniti allo Stade de Berne una decina di giorni fa, hanno votato compatti per la ripresa dei due massimi campionati: 17 favorevoli; 1 astenuto – ipotizzo possa essere il Vaduz – e 2 contrari. Fra questi, il Football Club Lugano che, per bocca dei
suoi dirigenti, ha sempre manifestato e argomentato il suo scetticismo. Devo essere onesto. Non mi sarei immaginato che la ripartenza potesse avvenire così rapidamente. La Bundesliga, dal 16 maggio, ha fatto da apripista. Non c’è stata, almeno per ora, nessuna recrudescenza del numero dei contagi. Quindi, piano piano, il resto d’Europa si sta organizzando. Il 17 giugno scatterà di nuovo la Premier League, dove peraltro il leader Liverpool è praticamente irraggiungibile, e dove,
salvo imprevisti, data la cancellazione degli Europei, potranno esaurire in tutta tranquillità i nove turni ancora da giocare. Sabato 19 giugno sarà la volta della Serie A italiana. Dopo lunghe trattative il Ministro dello Sport e i vertici della Lega calcio hanno trovato un accordo, mentre la tempistica è stata stabilita con l’avallo del Premier, Giuseppe Conte. In Italia, così come in Svizzera, tre squadre sono ancora in lotta per la conquista del titolo. Tra Juventus, Lazio e Inter, e tra San Gallo, Young Boys e Basilea, non sarà necessariamente la squadra tecnicamente e atleticamente più forte a imporsi. Sono convinto che alla distanza uscirà quella che avrà gestito meglio, sul piano mentale, i 117 giorni lontano dalle competizioni. Si tratta di un’anomalia. Serve un allenatore con una personalità forte e duttile. Serve un abile comunicatore, capace di lavorare sia sull’individuo, sia sul collettivo. Serve un Mental Coach in grado di rendere normale agli occhi degli atleti, una situazione che di normale non ha proprio nulla. Mi sento di dire che la decisione di far ripartire il campionato sia figlia della precarietà e dell’angoscia. «Salviamo il salvabile». Tradotto significa «facciamo in modo che l’interesse nei confronti del calcio non subisca un contraccolpo troppo devastante; che gli introiti dei diritti televisivi vengano salvaguardati». Almeno questo, visto che verrà a mancare il denaro della ven-
dita dei biglietti alla cassa, così come quello relativo al merchandising, che ha subito un contraccolpo durante il lockdown. Per i grandi club europei si tratta di due voci a bilancio d’importanza assoluta. Mi sorgono però spontanee alcune perplessità. Perché alcune strutture, come i grandi Lidi potranno far accedere fino a mille persone? Perché le manifestazioni culturali che sapranno garantire le misure di distanziamento sociale potranno ospitare fino a trecento spettatori? Perché invece le partite di calcio si giocheranno a porte chiuse? Se, poniamo, al LAC potranno assistere agli spettacoli trecento persone, per i circa mille posti a disposizione, fatte le debite proporzioni al Sankt Jakob Park di Basilea ci potrebbero entrare dodicimila tifosi. Se poi, per ragioni di sicurezza sanitaria, fossero solo seimila, sarebbero sempre più di zero. Ipotizzando un prezzo medio del biglietto di cinquanta franchi, la società ospitante beneficerebbe di trecentomila franchi d’incasso. Moltiplicandolo per i sei o sette incontri casalinghi, si arriverebbe a un’entrata variabile tra un milione e ottocentomila, e due milioni e centomila. Ma queste sono solo teorie. Forse a indurre le autorità a propendere per le partite a porte chiuse è il fatto che al LAC entrano spettatori disciplinati, mentre allo stadio accedono tifosi scatenati, molto più difficili da gestire. Quindi, ahinoi, chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Giochi
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Qual è il vero nome del personaggio nella foto? Scoprilo leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate. (Frase: 6, 10)
ORIZZONTALI 1. Rintocco di campana 3. La conduttrice D’Eusanio 6. Simbolo chimico del terbio 8. La pena nel cuore... 9. Insuccesso, fallimento 10. Prefisso che vuol dire muscolo 11. Definitivamente sviluppato 13. Due giorni fa era domani 14. Desinenza di diminutivo femminile 15. Il filosofo della Ragion pura 17. Piccolo mammifero carnivoro 19. Nome femminile 21. Ci sono quelli botanici 23. Tono senza uguali... 25. Lo è a volte la sorte 26. Noto servizio segreto 27. Le iniziali dell’attore Sperandeo 28. D’estate si coprono e d’inverno si spogliano 29. Penisola dell’Asia orientale VERTICALI 1.Anchise ne sposò una 2. Uno dei Paesi più popolati del mondo 3. Arresta... senza manette 4. Aspetto, immagine di sé 5. Le iniziali della conduttrice tv Poggi 6. Trasporta merci 7. Eseguiva sentenze capitali 9. Un pasticcio in cucina... 10. Si tenta di raggiungerle 12. Spesso si associa agli altri 13. Li eseguono le fanfare 16. Il soccorso del Pascoli 18. Parte dal ventricolo sinistro del cuore 20. Valutazioni di beni 22. Un Reparto dell’Arma dei Carabinieri (sigla) 24. Servizio militare di leva 26. Poiché in francese 28. Mettono fine al lavoro
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
Sudoku Soluzione:
Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
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TRA AMICI – «Mario mi presti il tuo furgone? Ho vinto un…». Resto della frase: «… SOGGIORNO A PARIGI E DEVO RITIRARLO». S E P O L T O
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G A S T R I T E
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Un servizio particolarmente apprezzato negli ultimi tempi: l’aiuto al vicinato Amigos.
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Politica e Economia L’America nel caos L’impatto delle proteste per le violenze razziste della polizia si aggiunge a quello della pandemia
La lunga mano di Pechino Nei piani di Xi Jinping non c’è «l’annessione». Hong Kong non è Taiwan, non è indipendente. Pechino semplicemente vuole che gli affari continuino ma mostra tolleranza zero per le velleità democratiche
L’eredità di Schwarzenbach 50 anni fa l’elettorato respinse la prima iniziativa popolare che chiedeva una limitazione del numero di stranieri, ma non è stata dimenticata pagina 30
La questione affitti Chi deve pagare gli affitti in caso di chiusura forzata? Dopo il lockdown le parti trovano spesso un accordo, ma anche il Parlamento vuol dire la sua
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La razza incendiaria
Dis-integrazione Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è un ulteriore innesco della divisione socio-razziale
negli Stati Uniti, raramente tanto disuniti Lucio Caracciolo La rivolta che sta devastando le città americane dopo l’uccisione di George Floyd da parte della polizia del Minnesota non è questione di ordine pubblico. È riflesso e ulteriore innesco della divisione socio-razziale negli Stati Uniti, raramente tanto disuniti. Accentuata dall’epidemia da Covid-19, che in tre mesi ha fatto il doppio delle vittime subite durante i vent’anni della guerra in Vietnam (1955-75), ben oltre i centomila ufficialmente censiti. Soprattutto, l’attacco del virus e il crimine di Minneapolis hanno confermato quanto profondo sia il fossato sociale, economico e culturale che separa i bianchi di ceppo anglosassone, specie germanico, da neri, ispanici, asiatici e altre minoranze in notevole crescita. Nel 2009 il mondo aveva inneggiato all’avvento del primo presidente per metà africano della storia americana, Barack Obama. Lo si immaginava sim-
bolo della consacrata integrazione dei neri nel cosiddetto melting pot, l’assimilazione a stelle e strisce che nei secoli ha fatto di immigrati i più diversi una sola nazione. La più potente al mondo. Di fatto impero globale, senza limiti. Ora i limiti della superpotenza appaiono nella loro inquietante nitidezza. Uno dei più acuti e influenti analisti americani, George Friedman, fondatore e presidente di Geopolitical Futures, ha pubblicato a febbraio un libro dal titolo volutamente paradossale, ma incredibilmente profetico: The storm before the calm, la tempesta prima della bonaccia. Tesi: nel 2020 scoppierà in America una crisi senza precedenti. Vi si incroceranno, alimentandola, fattori sociali, culturali, geopolitici, oltre a un ciclo economico depressivo. Crisi di proporzioni tali da far dubitare l’America di se stessa. Dopo un decennio di sconvolgimenti, in cui lo stesso primato americano nel mondo verrà messo a severa prova, un nuovo ciclo positivo
s’innescherà, riportando secondo Friedman l’America unita e sicura al centro dell’equazione globale del potere. Per un altro secolo. Non sappiamo che valore dare alle teorie cicliche della storia, anche se cogliamo che tendono a ripetersi ciclicamente nelle fasi di decadenza, di grave incertezza. Ma senza comprometterci sul futuro, possiamo prendere atto con sobria asseverazione che questa crisi, di cui la morte orrenda di George Floyd resterà simbolo per generazioni, è fra le più acute che mai abbiano attraversato l’America contemporanea. Certo non è la prima volta, né sarà l’ultima, che le forze di sicurezza americane si segnalano per speciale brutalità nei confronti dei neri, come di altre minoranze o frange emarginate di una società particolarmente violenta. Tanto da essere quasi abituata all’esplodere di ricorrenti ondate di crisi, innescate dallo sfondo razzista che circola da sempre negli States, più
che in altre aree del mondo (ma oggi questo pregiudizio potenzialmente devastante pare di gran moda in quasi tutto il pianeta). Ed è ben possibile che il caos attuale possa essere domato, con le buone o con le cattive, in un arco di tempo ragionevole. Ma le conseguenze del caso Floyd dureranno. Perché non fu assassinio estemporaneo. L’ex capo del Pentagono Jim «Cane Matto» Mattis, marine di cervello fine e lingua lunga, ha stabilito: «Donald Trump è il primo presidente degli Stati Uniti che non cerca di unire il popolo americano, né finge di provarci. Al contrario, ci divide. Stiamo assistendo alle conseguenze di tre anni di questo sforzo deliberato. Di tre anni senza una leadership matura». C’è molto di vero in questa amara sentenza. Ma sarebbe ingenuo immaginare che, una volta passato Trump (non necessariamente per effetto del voto presidenziale di novembre) si torni alla migliore delle Americhe possibili. Così come era illu-
sorio concepire l’idea che un presidente più o meno nero colmasse d’un colpo i fossati di sfiducia e pregiudizio razziale che impediscono la coesione del popolo americano. Dovremo convivere a lungo con questa tabe ereditaria, da cui ebbe origine la guerra civile (1861-65) di fatto rifondatrice degli Stati Uniti d’America su base sufficientemente unitaria. I riflessi del caso Floyd si percepiscono ovunque. Cortei e contro-cortei percorrono le strade delle grandi metropoli «globali». La Cina ne profitta per esibirsi in tirate anti-americane, accusando la Casa Bianca di doppi standard, visto il suo atteggiamento sulla rivolta a Hong Kong. Il deficit di credibilità degli Usa nel mondo, già percepibile, tenderà ad accentuarsi. Pessime notizie per chi ancora spera nella possibilità di una gestione condivisa delle crisi planetarie. Occasione per chi prepara nuovi incendi. Dalle conseguenze che preferiamo non concepire.
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Politica e Economia
Il lutto di Minneapolis
Caso Floyd L’impatto delle proteste per le violenze razziste della polizia si aggiunge a quello della pandemia,
potrebbe alterare il corso della campagna elettorale presidenziale e dare un aiuto insperato a Xi Jinping
Federico Rampini L’America è nel caos: con ricadute anche sull’economia, la politica, il quadro internazionale. L’impatto delle proteste per le violenze razziste della polizia si aggiunge a quello della pandemia; può alterare il corso della campagna elettorale; e dà un aiuto insperato a Xi Jinping che usa le immagini delle manifestazioni americane per la sua propaganda.
Un fatto orribile e al tempo stesso tragicamente normale. Episodi accaduti sempre, anche durante la presidenza Obama Il meccanismo è classico, ha molti precedenti nella storia: dai tumulti degli anni Sessanta a quelli del 1992 a Los Angeles. Prima c’è un’ingiustizia atroce ai danni di qualche afroamericano. Poi scatta la protesta. Su questa s’innestano frange estremiste, o piccola criminalità, o tutt’e due. Più una gioventù frustrata che nella sottocultura del vittimismo pensa di avere il diritto di rubare come risarcimento (Barack Obama ebbe parole severe su questo fenomeno). Nella versione 2020 va aggiunto l’accumulo di insofferenza per due mesi e mezzo di lockdown. I risultati sono gli assalti alle vetrine, i saccheggi delle vie commerciali più celebri del mondo, da New York a Los Angeles. La protesta civile e pacifica viene oscurata da questo fenomeno di anarchia delinquenziale, che proiettata in diretta tv sugli schermi delle famiglie americane genera degli shock multipli. Primo livello, economico. Non bisogna credere che il sacco di New York e Los Angeles siano episodi isolati. Hanno fatto più notizia perché Soho e la Fifth Avenue di Manhattan, Beverly Hills e Santa Monica, sono luoghi celebri. Ma le bande di scassa-vetrine che fanno razzia di articoli sportivi, elettronica, abiti di marca, sono entrate in azione anche in altre città. Nei quar-
tieri ricchi e in quelli poveri. Dunque sull’impatto già pesante del lockdown ora si sovrappone un altro danno economico ingente. Proprio mentre diversi Stati toglievano le restrizioni e gli altri si apprestavano a farlo, tanti commercianti sull’orlo del fallimento hanno subito depredazioni. Il ritorno all’attività, che già doveva fronteggiare tutti i problemi di una pandemia non superata, ora sbatte su un ostacolo del tutto imprevisto. In molti quartieri di New York e Los Angeles dove ci si preparava alla riapertura, commercianti e gestori di esercizi pubblici inchiodano assi di legno davanti alle vetrine. Il messaggio è: chiuso per sempre? Secondo livello, sociale. Un’America con 40 milioni di disoccupati è una polveriera. Adesso sappiamo che il primo ad appiccare il fuoco alla polveriera è stato il poliziotto bianco che ha ucciso l’afroamericano George Floyd. Un fatto orribile, e al tempo stesso tragicamente normale: episodi del genere accadevano in passato, ce ne furono diversi durante la presidenza Obama che non riuscì mai ad essere il leader di un’America post-razziale, pacificata con se stessa. Ma le manifestazioni degenerate nella violenza per l’intervento di estremisti come Antifa, o i saccheggi avvenuti ai margini, sono un colpo ulteriore alla fascia sociale più debole. Nelle grandi crisi gli afroamericani soffrono tassi di disoccupazione e perdite di reddito sempre più alte della media. Ne sanno qualcosa nel Midwest dove negli anni d’oro dell’industrializzazione si era formata una grossa «aristocrazia operaia» afroamericana, la prima ad essere impoverita nelle varie ondate di crisi. Terzo livello, politico. I saccheggi sono un regalo insperato per un Trump in difficoltà. Tutta la sua narrazione si sposta su questo. Ha riconosciuto che «tutti gli americani sono sconvolti per la morte brutale di George Floyd, alla cui famiglia il mio governo promette giustizia». Poi ha aggiunto: «Non possiamo consentire che i pianti giusti e le proteste pacifiche siano annegate da folle inferocite. Le vittime principali delle violenze sono cittadini che vivono nei quartieri più poveri, e da presidente combatterò per proteggerli». Ha
condannato gli estremisti di estrema sinistra di Antifa insieme con i «ladri, criminali, incendiari». Ha accusato numerosi governatori e sindaci di «non aver preso le misure necessarie per salvaguardare i cittadini, lasciando che degli innocenti fossero pestati selvaggiamente». Ha elencato i piccoli imprenditori e commercianti rovinati, i poliziotti costretti a fuggire da un commissariato incendiato, le infermiere che curano il Coronavirus e hanno paura di rientrare a casa tardi nelle strade in preda alla guerriglia urbana. «Questa non è protesta, questo è terrorismo domestico». Di qui l’ultimatum lanciato a governatori e sindaci: o riportate l’ordine o mando l’esercito. Il fatto che i saccheggi siano ben visibili soprattutto nelle due roccaforti della sinistra, California e New York, è un regalo aggiuntivo. Trump spera di ripetere l’exploit di Richard Nixon eletto due volte, nel 1968 e 1972, perché attorno a lui si compattò una maggioranza silenziosa spaventata dai disordini (anche razziali) di quegli anni. Joe Biden è in una posizione delicata, deve ricordarsi che quando la sinistra riempie le piazze non riempie necessariamente i seggi elettorali. Biden ha un difficoltà ulteriore: l’ala sinistra del suo partito, i radicali dei campus universitari, i giovani che votarono per Bernie Sanders nelle primarie, già sospettavano che lui fosse troppo moderato. Ora l’America in fiamme si riflette in una base democratica pronta a spaccarsi, qualora la risposta di Biden non sia all’altezza. Per esempio: sceglierà una donna afroamericana come sua vice? E se lo farà, quale sarà la reazione tra i bianchi moderati? Le ripercussioni politiche di quel che sta accadendo sono a tutti i livelli. Per esempio, a mio avviso sarà difficile ripristinare qualche forma di lockdown perfino nel caso di una seconda ondata di contagi (magari provocata dalle manifestazioni di massa di questi giorni). L’esplosione della rabbia ha avuto tra le sue concause anche un accumulo di insofferenza per le restrizioni, la paralisi di tante attività economiche, di vita sociale, luoghi di ritrovo. Anche su questo si era creata un divisio-
ne politico-ideologica, con la destra più impaziente di riaprire. Uno dei test sulle ripercussioni politiche lo avremo nella discussione della prossima manovra di sostegno all’economia, paralizzata al Congresso dalle divergenze tra democratici e repubblicani. A fine luglio si esauriscono molte delle attuali indennità di disoccupazione, il conto alla rovescia è cominciato: mancano meno di due mesi e per milioni di disoccupati la fame sarà una minaccia concreta. Con gli occhi puntati verso il lutto di Minneapolis, gli americani hanno anche scoperto un difensore della loro liberaldemocrazia: il Pentagono. Gli alti gradi militari non ci stanno a farsi trascinare nell’arena politica, tanto meno a essere usati contro i manifestanti. Dai vertici delle forze armate – spesso repubblicani – viene una netta resistenza contro l’idea di Trump di schierare l’esercito di professione per riportare l’ordine. Prima era stato il segretario alla Difesa Mark Esper, un ex militare nominato da Trump, a farsi portavoce del dissenso dei generali. Poi è sceso in campo un personaggio ancora più autorevole: Jim Mattis, generale a riposo dei Marine con quattro stelle.
Dai vertici delle forze armate – spesso repubblicani – viene una netta resistenza contro l’idea di Trump di schierare l’esercito per riportare l’ordine Mattis è un uomo di destra. Fu chiamato da Trump a dirigere il Dipartimento della Difesa, che lasciò nel 2018. Da allora ha sempre evitato di attaccare il presidente. In un intervento su «The Atlantic», Mattis è spietato con Trump: «È il primo presidente nella mia vita che non cerca di unire il popolo americano; non fa neanche finta. Al contrario, si adopera per dividerci». La requisitoria di Mattis si conclude con l’invito a «unirci tutti insieme, senza di lui, ritrovando lo spirito originario dei nostri
ideali». La discesa in campo di un conservatore che gode di ampio rispetto tra i militari come Mattis, è un segnale di rottura tra il presidente e quello che si può definire il Deep State militare e repubblicano. Il termine Deep State è stato usato da personaggi come Steve Bannon per designare complotti nelle alte sfere dello Stato contro Trump. Queste manovre spesso sono state attribuite ad alti funzionari fedeli a Barack Obama o ai Clinton. Ma un Deep State di destra, custode di alcuni principi, lo si è visto in azione sulla politica estera. A stoppare le avances di Trump verso Putin, Erdogan e Xi Jinping spesso sono stati dei militari di destra, inorriditi di fronte a un presidente che maltratta gli alleati e indebolisce la sfera d’influenza americana in Europa, Medio Oriente, Estremo Oriente. La storia del rapporto fra i militari e la liberaldemocrazia americana è istruttiva; quasi mai sovversiva. Dalla nascita degli Stati Uniti ben 12 generali sono entrati alla Casa Bianca. La stragrande maggioranza (otto) furono repubblicani, solo tre democratici. Il più celebre di tutti, George Washington, precedette la creazione dei partiti attuali. L’unico generale al quale furono attribuite intenzioni golpiste, o quasi, fu Douglas MacArthur, colpevole d’insubordinazione perché voleva lanciare bombe atomiche sulla Cina durante la guerra di Corea (1950-53): fu licenziato in tronco da Harry Truman. Ma un altro precedente importante riguarda MacArthur. Durante la Grande Depressione, nel 1932 il presidente repubblicano Herbert Hoover lo schierò proprio contro una manifestazione, di reduci della Prima guerra mondiale che chiedevano aiuti. La repressione da parte di truppe regolari di una manifestazione di reduci, rimase come una pagina infamante. Il Pentagono riscattò le sue credenziali democratiche nel 1954 in una battaglia contro il senatore Joseph McCarthy, che nella «caccia alle streghe» vedeva infiltrati comunisti nelle forze armate. Oggi, Trump è convinto che la maggioranza degli americani in divisa voti per lui. La dichiarazione di Mattis potrebbe costargli cara.
Agenti di polizia della contea di Miami-Dade si sono uniti a Coral Gables ai manifestanti pacifici in una preghiera per George Floyd. (AFP)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Politica e Economia
Hong Kong la ribelle
Notizie dal mondo
anche all’ex colonia inglese, ma lasciando che si muova come polmone dell’economia globalizzata
Il presidente cinese Xi lascia la sala del Congresso applaudito dagli alti dirigenti. (AFP)
Giulia Pompili Fino a poco più di un anno fa, nonostante le crescenti pressioni politiche da parte di Pechino, Hong Kong era considerato uno dei posti più sicuri, stimolanti e di successo d’oriente. Non solo per l’ambiente economico che la caratterizza – la regione autonoma ha una sua moneta, la sua Borsa, ed è un crocevia fondamentale per i rapporti di business tra oriente e occidente – ma anche per la sua identità culturale: la tradizione cantonese unita a quella britannica hanno contribuito a stabilire nell’antico «porto profumato» (questa la letterale traduzione di Hong Kong) un humus unico in Asia. L’autonomia di questa città da sette milioni e mezzo di abitanti è sancita dal principio di «un paese, due sistemi» che, secondo il trattato con il quale nel 1997 il Regno Unito ha riconsegnato l’ex colonia alla Cina, avrebbe dovuto guidare la politica di Hong Kong per i successivi cinquant’anni. Principio che sembra non valere più da quando a Pechino è salito al potere il presidente Xi Jinping, l’uomo che vuole rendere vero e tangibile il Sogno cinese.
Il via libero di Pechino alla legge sulla sicurezza è un messaggio di forza verso Hong Kong e gli Stati Uniti La pandemia da nuovo Coronavirus è stata il detonatore di molte cose a livello globale: le disuguaglianze sociali, la percezione dell’immigrazione, il razzismo e le proteste, e non solo in America. La Cina ha sfruttato e sta continuando a sfruttare questo momento, in cui il resto del mondo è concentrato sull’emergenza sanitaria ed economica, per intensificare i suoi sforzi d’influen-
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
za: lo fa nel Mar cinese meridionale e in quello orientale, lo fa al confine con l’India, e nei paesi che hanno bisogno di assistenza sanitaria. Ma per quanto riguarda Hong Kong la politica di Pechino non è mai cambiata. Sin dalla primavera dello scorso anno, la proposta di legge sull’estradizione, che avrebbe autorizzato il sistema giudiziario locale a trasferire nella Cina continentale i sospettati di reato per farli processare, va in questa direzione. Quella controversa legge, che avrebbe tolto un altro pezzetto dell’autonomia giudiziaria (e quindi dello stato di diritto) di Hong Kong, a ottobre del 2019 è stata ufficialmente ritirata, dopo le oceaniche manifestazioni che nel corso di tutta l’estate avevano invaso le strade dell’ex colonia inglese. Ma nonostante la tregua data dall’epidemia, a distanza di pochi mesi niente è cambiato negli obiettivi di Pechino: la legge sulla sicurezza nazionale, per ora approvata soltanto dall’Assemblea nazionale del popolo e in via di definizione, prosegue un percorso ben definito. Nei piani di Xi Jinping, Hong Kong deve rimanere un territorio autonomo esclusivamente per quanto riguarda il settore del business. Per tutto il resto, la società deve essere integrata alla Cina, e questo significa: basta manifestazioni, basta richieste di democratizzazione, basta stato di diritto. Il progetto strategico si chiama Greater Bay Area. La chiamano la «Silicon valley cinese», ma si tratta di un progetto molto più grande e complesso del sistema californiano. Posizionata nel sud della Cina, l’area è costituita dalle due regioni autonome di Hong Kong e Macao e da nove città che fanno parte della provincia del Guangdong: Guangzhou, Zhuhai, Foshan, Zhongshan, Dongguan, Huizhou, Jiangmen e Zhaoqing. Ma soprattutto Shenzhen, la città dei miracoli, subito a nord di Hong Kong, il luogo che ha fatto nascere colossi della tecnologia come Huawei e Tencent.
Nei piani di Xi Jinping, la Greater Bay Area è il luogo della riscossa cinese sul piano internazionale: è qui che si fanno gli affari, che si produce la tecnologia del futuro che l’America teme. Il Sogno cinese di trasformarsi in una economia in grado di competere con l’influenza statunitense parte da quest’area. Anche geograficamente, Hong Kong è stretta tra quelle città, non è l’unica con un’amministrazione speciale ma è l’unica ad avere, tradizionalmente, uno spirito libero. Macao, che ha fondato la sua economia sul gioco d’azzardo e i casinò, ha una società molto conservatrice, ha costruito il rapporto con Pechino sulla sicurezza della sopravvivenza economica. Al contrario, lo spirito di Hong Kong non è solo nelle contrattazioni in Borsa e nei centri congressi, ma è anche nelle sue strade, nelle sue librerie, nelle riunioni degli attivisti. Pechino cerca di controllare questo aspetto di Hong Kong da molti anni, perché è la sua vera spina nel fianco, la vera minaccia alla stabilità del Partito comunista cinese. Nel 2014 la cosiddetta «rivoluzione degli ombrelli» si accese dopo che il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo di Pechino aveva proposto di riformare il sistema elettorale della regione autonoma: un modo per penalizzare ancora di più i partiti legati all’autonomia e alla democrazia e permettere al Partito comunista di controllare i candidati del governo locale. Quando a dicembre le proteste si placarono, dopo violenti scontri con la polizia, numerosi arresti e (anche allora) minacce e condanna internazionale, Pechino andò avanti lo stesso con l’imposizione della nuova legge. Quell’anno fu vissuto dai cittadini di Hong Kong come l’inizio della fine di «un paese, due sistemi». Ma com’è tipico, nella strategia bellica cinese, si preferisce la resa all’invasione, l’accerchiamento all’attacco a sorpresa. Marc Champion e Peter Martin la scorsa settimana han-
no scritto su Bloomberg che la nuova legge sulla sicurezza che Pechino vorrebbe estendere a Hong Kong, più che trasformare l’ex colonia inglese nella Berlino della Guerra fredda, ricorda la decisione della Russia di annettere la Crimea nel 2014. Ma anche questo paragone è del tutto fuori fuoco: quando metteranno gli stivali sul territorio di Hong Kong, i militari cinesi saranno legittimati dalla legge. Una legge che però è in contraddizione con il trattato internazionale firmato nel 1997 tra Londra e Pechino. È anche per questo che, a parte le minacce del presidente americano Donald Trump – spinto anche e soprattutto da una campagna elettorale molto anticinese – la decisione del primo ministro inglese Boris Johnson di offrire asilo «ai cittadini con il passaporto britannico di Hong Kong» – parliamo di quasi tre milioni di persone – «che non si sentissero più al sicuro» è stata molto apprezzata. Perché il vero problema è che lo strangolamento di Pechino delle libertà di Hong Kong da anni è sottile e molto meno evidente di quel che sembri: chi si è macchiato di reati contro l’ordine pubblico, per esempio tutti gli arrestati dello scorso anno durante le proteste, anche minorenni, hanno la fedina penale sporca. E in una società super competitiva come quella asiatica significa non poter lasciare Hong Kong per andare a studiare all’estero. Il modello di capitalismo «con caratteristiche cinesi» nell’ex colonia inglese sta creando danni, e non c’è un vero piano economico e sociale. Da anni ormai, per un occidentale che vuole fare affari con la Cina, Hong Kong è solo un passaggio per arrivare a Shenzhen, promossa da Pechino come vera alternativa alla sua provincia ribelle. Se con la nuova legge sulla sicurezza nazionale la libertà della regione sarà definitivamente compromessa, è anche vero che da almeno 5-10 anni Hong Kong non era più la stessa.
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Covid-19: troppo lenta la Cina nell’informare l’OMS In gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità (nella foto il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus), aveva elogiato pubblicamente la Cina. «Una risposta rapida al nuovo coronavirus», avevano detto i suoi funzionari, ringraziando ripetutamente il governo cinese per aver condiviso la mappa genetica del virus «immediatamente», affermando il lavoro e l’impegno per la trasparenza. Ma la storia,
AFP
Greater Bay Area Xi vuole uniformare lo stato di diritto «con caratteristiche cinesi»
Vietato ricordare Tienanmen Proteste e scontri a Hong Kong nel giorno del 31.mo anniversario del massacro di Tienanmen: polizia e vigili del fuoco sono entrati nel Parlamento della ex città Stato dopo che due deputati pro-democrazia avevano lanciato liquido maleodorante fra i banchi durante la discussione della controversa legge che stabilisce sanzioni molto dure per chi è accusato di non rispettare l’inno cinese. Prima di essere fermati Eddie Chu e Ray Chan Police hanno gridato di voler protestare contro la «repressione omicida» messa in atto da Pechino 31 anni fa che oggi – per la prima volta – non è possibile ricordare pubblicamente a Hong Kong: tutte le manifestazioni sono state vietate, ufficialmente a causa del Coronavirus. Poche decine di minuti dopo l’Assemblea Legislativa, approvava la controversa legge sull’inno nazionale cinese, che prevede pene pecuniarie e fino a tre anni di carcere per chiunque lo insulti: l’ultima stretta di Pechino su Hong Kong, dopo la nuova legge sulla sicurezza nazionale e l’ondata di arresti di attivisti delle ultime settimane. L’Ue ha chiesto a Pechino che Hong Kong e Macao possano commemorare le vittime di Tienanmen, ma non ha ricevuto risposte.
ora, racconta qualcosa di molto diverso. I ritardi significativi da parte della Cina e una notevole frustrazione tra i funzionari dell’OMS per non aver ottenuto le informazioni di cui avevano bisogno per combattere la diffusione del virus mortale. Lo scoop è dell’Associated Press che racconta che nonostante i complimenti, la Cina in effetti non ha rilasciato immediatamente la mappa genetica, o genoma, del virus aspettando più di una settimana, dopo che tre diversi laboratori governativi avevano completamente decodificato le informazioni. Secondo dozzine di interviste e documenti interni, la colpa era di controlli rigorosi sull’informazione e sulla concorrenza all’interno del sistema sanitario pubblico cinese. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Politica e Economia
L’eredità di Schwarzenbach
Inforestierimento 50 anni fa si votò sulla prima iniziativa volta a limitare l’immigrazione.
Da allora, l’iniziativa Schwarzenbach influenza la politica sugli stranieri in Svizzera
Luca Beti «Io, la valigia l’avevo già fatta. Me ne sarei andato da solo, prima che me lo avessero chiesto», ricorda Paolo Larizza. La voce roca, quasi afona, ci racconta della domenica di votazione di cinquant’anni fa. Era il 7 giugno 1970. Quella domenica, gli svizzeri avrebbero deciso il suo destino e quello di circa un milione di stranieri, in maggioranza italiani, richiamati in Svizzera da un’economia in forte espansione nel secondo Dopoguerra. E quella domenica di cinquant’anni fa, i votanti maschi, perché allora il diritto di voto era concesso solo agli uomini, respinsero di stretta misura l’iniziativa Schwarzenbach che voleva limitare al 10% la popolazione straniera nella Confederazione. «Per noi fu una festa», continua Paolo Larizza, presidente storico dell’Associazione pugliese di Lyss. «Da quel giorno tutto è cambiato. Eravamo fieri di aver vinto questa battaglia». «Però noi siamo rimasti i “Tschingg”», lo incalza Pietro, anche lui pugliese di Monopoli. «Non ci voleva nessuno. Ci mandavano sempre via, dalla stazione, dai bar perché troppo rumorosi, perché dicevano che fischiavamo alle donne». Nel Dopoguerra, l’immigrazione italiana incontra i pugni chiusi di una società elvetica che da una parte apre le porte alla forza lavoro, alle braccia, per citare una celebre frase di Max Frisch, ma che dall’altra non è disposta ad accogliere questa giovane, a volte chiassosa generazione di lavoratori. A 25 anni dalla fine del Secondo conflitto mondiale, l’economia svizzera ha il vento in poppa. Vengono costruite autostrade, complessi residenziali, aree industriali, tunnel e linee ferroviarie. Dal 1950 al 1970, la proporzione di stranieri nella Confederazione passa dal 6,1% al 17,2%. Sono più di un milione, di cui la quota di italiani è del 54%. La massiccia presenza di operai, provenienti soprattutto dal meridione, suscita il malcontento popolare. «Negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, la tesi dell’inforestierimento ritorna in voga nel dibattito politico», spiega Damir Skenderovic, professore di storia contemporanea presso l’Università di Friburgo. Il desiderio di porre un freno all’immigrazione da parte della popolazione viene sfruttato soprattutto da movimenti e partiti nazionalisti e xenofobi. «Nel 1961 viene fondato il partito Azione nazionale,
partito nazionalista, isolazionista e della destra radicale, a cui aderirà James Schwarzenbach», continua Skenderovic. «Questo partito alimenterà ulteriormente la diffidenza nei confronti degli stranieri, soprattutto degli immigrati italiani». James Schwarzenbach, figlio di un industriale tessile dell’alta borghesia zurighese, sfrutta il momento. Dopo la sua elezione in Consiglio nazionale nel 1967, lancia l’iniziativa detta Schwarzenbach, che chiede di limitare al 10% il numero di stranieri per cantone, eccezion fatta per la Ginevra internazionale, dove la quota ammessa è del 25%. James Schwarzenbach è la star del momento. Abile oratore e comunicatore, tribuno del popolo, riempie le sale, dove con cravatta e pipa si trova spesso a lottare da solo contro l’élite politica ed economica del Paese, raccogliendo così ulteriori simpatie tra i presenti. «Non dobbiamo dimenticare che una parte del partito socialista e dei sindacati era favorevole a questa iniziativa perché temeva il dumping salariale e la concorrenza sul mercato del lavoro», spiega lo storico Skenderovic, ricordando inoltre che James Schwarzenbach fece da apripista ai movimenti populisti di destra in Europa. «È il primo ad essere a capo di un partito populista, anni prima di Jean-Marie Le Pen con il Fronte nazionale in Francia, di Umberto Bossi con la Lega Nord in Italia o di Jörg Haider con il Partito della libertà in Austria. All’epoca, la Svizzera era diventata l’avanguardia del populismo di destra». Deposta il 20 maggio 1969, dopo una raccolta firme durata pochi mesi, l’iniziativa «contro l’inforestierimento» viene posta al vaglio del popolo il 7 giugno 1970. La campagna in vista del voto si svolge in un clima teso, di rara virulenza. Il risultato viene atteso con grande ansia, in special modo dal mondo economico che da un giorno all’altro avrebbe dovuto fare a meno di circa 350 mila operai stranieri, costretti a lasciare la Svizzera. Per il settore industriale, dove il 35% della manodopera proveniva dall’estero, sarebbe stato un colpo difficile da sopportare. Con una partecipazione particolarmente alta, il 74,1% degli aventi diritto di voto si reca alle urne, l’iniziativa Schwarzenbach viene respinta dal 54% della popolazione e da 13 cantoni. Il 46% sostiene però la lotta contro l’inforestierimento di James Schwarzenbach. Un risultato che pende come
James Schwarzenbach, oratore al 1. agosto del 1970. (Keystone)
una spada di Damocle sulla politica degli stranieri in Svizzera. «Già nel marzo 1970, con un decreto il Consiglio federale decide di limitare il numero di lavoratori stranieri in Svizzera, spuntando un po’ le armi di Schwarzenbach», ricorda Damir Skenderovic. «Alla luce del risultato, negli anni seguenti le autorità cercano di adottare misure volte a favorire l’integrazione della popolazione straniera e a frenare l’immigrazione, per esempio fissando dei contingenti a livello nazionale. Inoltre, i membri del partito Azione nazionale vengono coinvolti nei processi legislativi e in vari consessi, per esempio nella Commissione federale consultiva per i problemi degli stranieri, istituita proprio nel 1970». Sulla scia della quasi vittoria, James Schwarzenbach lancia due anni più tardi l’iniziativa popolare contro l’«Inforestierimento e la sovrappo-
polazione della Svizzera», mentre il Movimento repubblicano ne prende il testimone con la «Quarta iniziativa contro l’inforestierimento». Ambedue vengono bocciate: la prima con il 65,8% di no nel 1974, la seconda con il 70,5% di voti contrari nel 1977. «La perdita di consensi tra la popolazione si può spiegare in parte con la mutata situazione economica», illustra il professore di storia contemporanea dell’Università di Friburgo. «Nel 1974 scoppia la crisi del petrolio che causa una recessione a livello mondiale. In quel periodo si stima che circa 200 mila lavoratori stranieri lasciarono la Svizzera, un numero leggermente inferiore a quello previsto dall’iniziativa Schwarzenbach. La Confederazione esporta così la sua disoccupazione, riducendo l’impatto della crisi sul mercato del lavoro indigeno». Negli anni seguenti, l’inforestieri-
mento continua a dominare il dibattito politico: tra il 1978 e il 2016 vengono lanciate 12 iniziative per limitare l’immigrazione, un cavallo di battaglia cavalcato dall’inizio degli anni Novanta dall’Unione democratica di centro, questione che ne favorisce l’ascesa a livello nazionale. Nel frattempo, la società elvetica è cambiata: è multietnica. Il 40% degli svizzeri ha un background migratorio. Oggi si mangia più Mozzarella che Emmentaler, l’atmosfera che di sera si respira in piazza a Lyss o a Burgdorf sa d’italianità. La xenofobia non è più rivolta contro l’operaio italiano, di seconda o terza generazione, ma contro chi è diverso, per esempio i minareti o il burka. È così oggi, a cinquant’anni di distanza dall’iniziativa Schwarzenbach, Paolo Larizza si sente finalmente a casa, in Svizzera. «Il mio cuore – ci confida – è rimasto però dove sono nato, a Monopoli, in Puglia». Annuncio pubblicitario
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Politica e Economia
Il dilemma degli affitti
Conseguenze del Covid Spesso le parti trovano un accordo sulla somma da pagare da parte di piccoli commerci
che non possono lavorare, senza bisogno di interventi pubblici. Ma a Berna si studiano altre soluzioni
Ignazio Bonoli La pandemia del Covid-19 e più ancora i mezzi e i metodi per combatterla, hanno suscitato parecchie discussioni su molti piani: da quello filosofico a quello politico, a quello economico. In realtà la crisi, che è stata dapprima sanitaria, è poi divenuta subito politica ed economica. In sostanza si è posto il grosso dilemma a sapere se nell’azione contro la pandemia dovessero prevalere gli aspetti sanitari (e quindi umani), quelli politici (di società) o quelli economici (legati alle libertà individuali).
La domanda è: in caso di chiusura forzata dei locali, perché il gerente deve continuare a pagare l’affitto? Alla domanda se dovessero prevalere i primi, rispetto agli altri, si sono avute talvolta risposte anche molto divergenti. Per noi è chiaro che sul piano immediato l’intervento sanitario è preminente e questo giustifica i poteri eccezionali concessi allo Stato. Poteri che però devono lasciare il posto il più presto possibile alle preoccupazioni della società e dell’economia, entrambe indissolubilmente associate in una società che si vuole di stampo liberale. Se il concetto teorico è facilmente
comprensibile, la sua applicazione pratica non lo è sempre. In sostanza si può arrivare a contrapporre un eccesso di liberismo economico (come sembrano aver voluto fare, almeno agli inizi, gli Stati Uniti o la Svezia) all’estremo opposto, cioè una regolamentazione fin nei minimi dettagli e nelle loro interpretazioni, fino a giungere a una sorta di collettivismo stretto e intransigente (come sembra aver voluto l’Italia, magari sul modello cinese). La Svizzera, forte della sua lunga tradizione democratica e federalistica, ha invece puntato molto sulla responsabilità individuale (accanto ovviamente a misure drastiche dovute al momento particolare) e la cosa sembra aver funzionato bene. Ora, però, si presenta l’altra faccia del problema: quella di come uscire dalla crisi economica provocata dalle misure sanitarie. A livello europeo – in particolare – si sono stanziati miliardi su miliardi, sotto varie forme, ma tutti con lo scopo di evitare, o almeno allentare, gli effetti di una pericolosa recessione economica. Anche in questo caso la Svizzera è stata una delle prime ad adottare un metodo molto vicino alle idee liberali: quello della fideiussione per prestiti ottenuti dalle aziende presso le banche, per far fronte a possibili crisi di liquidità. Con anche il rischio – come qualche economista ha ricordato – di salvare aziende che il mercato avrebbe comunque condannato. La discussione però continua,
Il Consiglio federale è più attendista, il Parlamento è invece intenzionato a proporre una soluzione. (Keystone)
sull’onda delle considerazioni filosofico-politiche, anche fino ai minimi livelli. In questo contesto va quindi rilevata (per fare un esempio, che può sembrare banale) la diatriba tra proprietari e gerenti di attività economiche di medio e piccolo calibro. Diatriba che è stata affrontata comunque anche dalle Camere federali. La domanda è: in caso di chiusura forzata dei locali, perché il gerente (per esempio di un negozio) deve continuare a pagare l’affitto?
Prima di intervenire, eventualmente, il Consiglio federale attende che le parti trovino un accordo adeguato. Il Parlamento, alla ripresa dei lavori, sembra però intenzionato a proporre una soluzione: l’ultima proposta sostiene la riduzione dell’affitto da parte del proprietario del 40% (fino a un massimo di 15’000 franchi) per il periodo di chiusura ordinato dall’autorità. Una soluzione – ancora una volta – prettamente svizzera, che cerca
di conciliare le due opposte tendenze, invadendo il campo del privato e obbligando lo Stato ad occuparsi di cose che avrebbe preferito evitare. Ma questa è una tendenza che nella «liberale» Svizzera sta prendendo sempre più piede, anche al di fuori di periodi di emergenza. In altri paesi, solitamente più favorevoli all’intervento dello Stato, si sta tentennando, nel timore di creare pericolosi precedenti. In Germania ci si limita a evitare disdette di contratti di affitti non pagati, mentre le piccole aziende godono di un sussidio unico di 15’000 euro per tre mesi, ma si spera in un accordo fra le parti. Anche in Austria si spera in un accordo fra le parti, a quanto sembra già in atto nel 95% dei casi. In Francia, nel pacchetto di aiuti all’economia, si prevedono dilazioni nel pagamento degli affitti e il possibile ricorso a un fondo di solidarietà. In Italia, le aziende con un massimo di 5 milioni di euro di cifra d’affari annua possono chiedere allo Stato il 60% di tre mesi di affitti per chiusura forzata. Il pagamento avviene mediante credito d’imposta e può compensare anche eventuali riduzioni concesse dal proprietario. Si spera comunque di raggiungere simili accordi anche dopo il periodo di chiusura. Anche in Svizzera, alcuni Cantoni forniscono aiuti in caso di accordo fra le parti. Il Parlamento federale ha però già respinto un allungamento dei tempi di pagamento dell’affitto riaprendo così la questione di fondo. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Politica e Economia
L’euro è ancora sotto pressione La consulenza della Banca Migros
Thomas Pentsy
L’euro rimane fonte di grande preoccupazione 1.25
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1.00 2017
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2020
EUR/CHF
Secondo la sentenza, gli acquisti di titoli sono sproporzionati per garantire la stabilità dei prezzi e vanno pertanto oltre il mandato della BCE. Anche se la BCE ha ora tre mesi di tempo per dimo-
strare la proporzionalità, si è aggiunto un altro fattore di incertezza. Tutte queste preoccupazioni pesano sulla moneta unica. L’euro dovrebbe quindi continuare a tendere all’indebo-
Fonte: Bloomberg (aggiornato all’26.05.20)
Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros
I danni economici provocati dalla pandemia del coronavirus sono sempre più evidenti. Nel primo trimestre, nell’area dell’euro e nell’Unione europea il prodotto interno lordo (PIL) destagionalizzato è sceso del 3,8% e rispettivamente del 3,5% rispetto al trimestre precedente. Non si assisteva a una tale flessione del PIL dall’inizio della serie temporale del 1995. Appare chiaro fin da ora che i dati per il secondo trimestre saranno ancora peggiori. Infatti, l’arresto dell’economia è avvenuto solo a metà marzo, mentre in aprile il lockdown è durato più a lungo. Inoltre, a partire dal mese di maggio, l’economia è stata riavviata solo gradualmente e con un ritmo lento. In considerazione degli ampi pacchetti di aiuti statali, l’indebitamento dei Paesi dell’euro è notevolmente aumentato. In particolare, i Paesi fortemente indebitati, come l’Italia, sono ora al centro dell’attenzione. Ciò pone nuovamente in primo piano la questione della comunitarizzazione del debito in termini di unione monetaria. Infine, all’inizio di maggio, la Corte costituzionale federale tedesca ha classificato gli acquisti obbligazionari della Banca centrale europea (BCE) da miliardi di euro come parzialmente incostituzionali (sono esclusi tuttavia gli attuali programmi di emergenza della BCE nella crisi del coronavirus).
limento. Soprattutto nei confronti del franco svizzero, difficilmente riuscirà a staccarsi dal suo attuale livello di cambio. Nei prossimi dodici mesi prevediamo che l’euro si attesti a 1,05 franchi. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Consumo: il peggio sembra sia passato La pandemia di Coronavirus 19 inciderà negativamente sull’andamento congiunturale di molte economie, non da ultimo su quello dell’economia svizzera. Per poter rapidamente stimare la portata di questi effetti negativi occorrerebbe disporre di informazioni statistiche sull’evoluzione della produzione, degli aggregati della domanda
(consumo, investimenti e saldo della bilancia commerciale), della disoccupazione e dei prezzi con frequenza almeno mensile, se non addirittura settimanale. Purtroppo in Svizzera, ad eccezione dei prezzi e della disoccupazione, queste stime sono disponibili soltanto per trimestre, il che fa sì che possiamo apprezzare l’evoluzione dell’economia solo con un ritardo da tre a sei mesi. Non si tratta di una situazione eccellente specie quando, come nel caso attuale, ci si deve esprimere su conseguenze che variano di settimana in settimana. Tuttavia, come è risaputo, la necessità spesso aguzza l’ingegno. È quanto sembra sia successo durante l’attuale pandemia. Così un gruppo di ricercatori delle università di S. Gallo e Losanna, con il supporto di aziende private specializzate nell’analisi dei dati, hanno sviluppato un nuovo indicatore del consumo, il «Monito-
ring Consumption Switzerland», che si basa praticamente sui dati forniti dalle carte di credito. Fondandosi su questi dati i ricercatori in parola sono riusciti a ricostruire l’andamento del consumo in Svizzera durante la pandemia, praticamente in tempo reale, settimana per settimana. Se compariamo la curva del consumo per le settimane dei primi mesi del 2020 con quella delle prime settimane del 2019 ci accorgiamo che dapprima la curva dei consumi del 2020 è superiore a quella dei consumi del 2019. A partire da metà marzo, ossia a partire dal momento in cui furono presi i provvedimenti di restrizione della mobilità, però, la curva del 2020 scende largamente al di sotto di quella del 2019. In un paio di settimane la caduta è dell’ordine del 35% circa. Il momento peggiore lo si registra a fine marzo-inizio aprile. Di lì la curva del consumo ricomincia a salire per
raggiungere praticamente il livello del 2019 a inizio maggio, al momento cioè in cui si sono potuti riaprire tutta una serie di negozi che, durante la pandemia, dovettero rimanere chiusi. A partire dall’11 maggio, quando sono cadute quasi tutte le restrizioni, il consumo ha conosciuto una forte ripresa e la sua curva, nella seconda metà del mese di maggio, ha toccato valori superiori a quelli che aveva raggiunto in febbraio, prima della pandemia. Pare quindi che attualmente la domanda di beni di consumo aumenti rapidamente, grazie tra l’altro al fatto che i consumatori possono soddisfare bisogni che si erano accumulati durante il periodo del lockdown. Queste stime dell’evoluzione del consumo sono certamente importanti anche se la loro pubblicazione ha suscitato diverse critiche, la più importante delle quali concerne la loro rappresentatività. Ricordiamo
infatti che questi dati non includono che gli acquisti fatti utilizzando le carte di credito. Ora, soprattutto tra le persone anziane, ci sono ancora molti consumatori che pagano i loro acquisti a contanti. Si calcola che presso i grandi distributori oggi la quota di chi paga con carte di credito si aggira sul 50%. L’andamento della curva del consumo deve perciò essere interpretata con prudenza. Si pensa, per esempio, che la ripresa della seconda quindicina di maggio in realtà non sia stata così forte come quella indicata dai dati dedotti dalle carte di credito. Comunque per chi esamina l’andamento congiunturale questo nuovo indicatore, che permette di seguire l’evoluzione di un importante aggregato della domanda globale, il consumo privato, in tempo reale, è un vero e proprio regalo. E come si sa: a caval donato non si guarda in bocca!
colpiti dalla recessione. I primi ad ammalarsi, i primi a perdere il lavoro. La loro rabbia è esplosa anche per questo motivo. Il resto l’ha fatto Trump. Che ha soffiato sul fuoco. Ha fatto sgomberare un quartiere di Washington con i lacrimogeni per farsi fare una foto con la Bibbia in mano. Ha minacciato di usare l’esercito, provocando la reazione polemica del capo del Pentagono. Ha fatto insomma Trump. Si è mosso per dividere. Non ha fatto nulla per unire il Paese; ha anzi rinfocolato gli scontri. Secondo Luttwak ha fatto bene. Personalmente credo che abbia sbagliato. Le straordinarie immagini degli agenti che si inginocchiano davanti ai manifestanti hanno emozionato l’America. Se gli scontri si fermeranno, sarà meglio per tutti. Trump avrebbe una chance di riprendersi la scena se invece la protesta continuerà in forma violenta. Ma la pandemia non ha scatenato solo la rivolta dei neri. Ha rinfocolato anche lo scontro con la Cina. Fin dall’inizio la presidenza Trump è stata improntata a un rapporto fortemente
critico e competitivo con il colosso cinese; il «virus di Wuhan» – come lo chiama lui –, che ha vanificato tre anni di forte crescita economica, ha ovviamente inasprito l’atteggiamento del presidente. Ma la linea di Trump, per quanto eccessiva come il personaggio, non è nata nello spazio di un mattino. In realtà, tutta la politica asiatica degli Stati Uniti negli ultimi settant’anni si può leggere come una serie di contromosse dopo lo smacco (se non l’errore) di aver perduto la Cina. Dopo il Secondo conflitto mondiale, l’America non poteva combattere una nuova guerra per fermare il comunismo in Cina. Il 1948 fu un anno elettorale: il presidente Truman fece una campagna straordinaria e vinse in rimonta; ma certo non poteva aprire un altro fronte. Fatto sta che nell’aprile 1949 Mao entrava a Nanchino e a fine anno l’uomo degli americani, Chang-Kai-shek, con l’aiuto della settima flotta Usa riparava a Taiwan. Gli americani hanno combattuto due guerre, in Corea e in Vietnam, per non cedere altro terreno ai rossi. Salvarono la Corea del Sud. Abbandonarono il
Vietnam anche perché nel frattempo Nixon aveva fatto la pace con la Cina, allargando la spaccatura nel blocco comunista, il che non rendeva più necessario sostenere un conflitto così dispendioso. Da allora la Russia, pur restando un Paese importante, ha perso la sua dimensione imperiale. E la Cina (nominalmente comunista) è diventata concorrenziale con gli Usa prima sul piano industriale, poi su quello digitale. Il lungo confronto che segnerà le nostre vite è appena cominciato; e la pandemia non ne rappresenta che un episodio. Da cui alla lunga la Cina uscirà rafforzata; anche perché l’America di Trump sembra rinunciare al suo tradizionale ruolo di leadership in Occidente. Forse anche questo aspetto può essergli fatale. Gli operai dell’Ohio o del Michigan non voteranno certo sulla politica estera, ad esempio sull’abbandono dei curdi; voteranno sull’economia. Ma abbandonare i curdi, ritirarsi ingloriosamente dall’Afghanistan, mettersi contro l’Europa, alla lunga potranno rivelarsi errori.
poter contare su maestranze provenienti dalle vicine province italiane rese il Mendrisiotto un’ubicazione ideale per una miriade di fabbrichette, spesso filiali di grandi gruppi d’oltralpe. Questo sviluppo, assieme alla parallela fuga dei capitali dall’Italia (si era negli anni dei governi di centro-sinistra), permise al Ticino di acciuffare il treno del benessere. Pian piano la scala sociale andò modificandosi, allargandosi al centro. La transizione verso il terziario, ossia verso l’economia dei servizi (banche, assicurazioni, trasporti, la galassia degli impieghi statali e parastatali), rese possibile la formazione di un robusto ceto medio, le cui ambizioni non erano più nel manufatturiero (da lasciare appunto all’elemento straniero) ma nell’universo dei colletti bianchi. Il secondo balzo è avvenuto in tempi recenti. Anche qui il Ticino – come del resto in tutta la Confederazione – ha potuto beneficiare della recessione e
delle incertezze regnanti altrove, specie dopo il tracollo finanziario del 20072008 – per attirare capitali alla ricerca di porti sicuri. Di qui un incremento costante del ramo immobiliare, a conferma del detto francese «quand le bâtiment va, tout va». Il mattone dunque come rifugio (per gli investitori) e come occasione di lavoro per un buon numero di liberi professionisti. Ma ecco il suo rovescio: un settore che senza l’apporto degli edili frontalieri cesserebbe di esistere. D’altra parte, la consapevolezza di tale dipendenza da fattori extra-nazionali era già ben presente nella prima iniziativa Schwarzenbach, giunta in votazione mezzo secolo fa, il 7 giugno 1970. Nel testo si diceva infatti che dai provvedimenti che la Confederazione avrebbe dovuto adottare per limitare la popolazione straniera al 10% del totale (Ginevra esclusa) non rientravano né i frontalieri né gli stagionali (e nemmeno
gli scienziati e il personale occupato negli ospedali). Alla frontiera spettava il ruolo di paratia, a immagine di un sistema idraulico applicato ai torrenti per regolare afflusso e deflusso delle acque, in base alle esigenze e alle urgenze del momento. Il trattato di Schengen aveva archiviato questo sistema di selezione all’ingresso, ma il virus l’ha riportato in vita. Per quanto tempo non si sa. E nemmeno si sa quando la libera circolazione delle persone riprenderà nel quadro normativo stabilito nell’era pre-pandemica. Quanto è successo deve comunque interrogare la società ticinese, indurla a riflettere sui meccanismi che la sorreggono e la condizionano nel suo funzionamento sociale ed economico, al riparo da squilibri e da improvvisi scompensi. E qui un ripensamento del mercato del lavoro e dei percorsi formativi, in particolare di quelli professionali, pare ormai non più differibile.
In&outlet di Aldo Cazzullo Gli effetti della pandemia Chi sarà avvantaggiato dall’esplosione della rabbia popolare negli Stati Uniti? Edward Luttwak in tv sostiene che i neri in rivolta stanno preparando la rielezione di Donald Trump, e anzi altri quattro anni di Ivanka, la figlia, che sarebbe la prima donna a essere eletta alla Casa Bianca. Sinceramente, non la penso come lui. Da sempre sono convinto che Trump non sarà rieletto. Anche quando i sondaggi lo davano al top, ho sempre pensato che avrebbe perso. Così come, anche quando era staccato alle primarie sia da Bernie Sanders sia da Pete Buttigieg, ho sempre creduto che il candidato democratico sarebbe stato Joe Biden. Ovviamente, posso sbagliarmi. Ora i sondaggi danno otto punti avanti Biden in Stati-chiave che nel 2016 erano stati vinti da Trump: Ohio, Florida, Arizona. Ma i sondaggi possono ancora cambiare. La mia convinzione nasceva da un fatto: la vittoria di Trump è stata frutto di una congiunzione astrale irripetibile. Andarono a destra tutti gli Stati in bilico, compresi quelli – come il Wisconsin e lo stesso
Michigan – che in bilico non erano neppure considerati. Fu una sorta di miracolo; e i miracoli non si ripetono quasi mai due volte. A questo va aggiunto il fatto che Hillary Clinton non era una candidata forte. A dire il vero, non lo è neppure Joe Biden. Probabilmente ha quattro anni di ritardo: nel 2016 avrebbe vinto; stavolta rischia di arrivare con il fiato corto. A gennaio Trump era considerato in vantaggio, a causa del boom della Borsa e del buon andamento dell’economia. Poi tutto è crollato con il Coronavirus. Gli Stati Uniti hanno già speso, per sostenere la domanda e l’occupazione, tremila miliardi e mezzo di dollari: più di quello che Obama spese in quattro anni per uscire dalla grande crisi del 2008. Eppure il numero dei disoccupati continua a crescere: siamo a quaranta milioni. Anche questo spiega le rivolte di questi giorni. Certo, il brutale omicidio di George Floyd ha acceso la miccia. Ma all’evidenza il fuoco covava già sotto la cenere. Gli afroamericani sono stati i più colpiti dalla pandemia, e i più
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti La nuova vita delle frontiere La chiusura delle frontiere ha fatto felice la compagnia dei sovranisti e dei protezionisti, ma nel contempo ha evidenziato i colli di bottiglia in cui si è infilata la maggior parte delle economie occidentali cavalcando il processo di delocalizzazione delle attività considerate non più redditizie. Purtroppo tale delega ha accentuato l’intreccio delle dipendenze, rendendo il «primo mondo» vulnerabile, sia sul piano merceologico, sia sul piano della forza-lavoro. Molti settori produttivi si sono improvvisamente ritrovati sguarniti, dall’agricoltura alle cure ospedaliere. Le autorità di mezzo continente hanno dovuto istituire appositi corridoi con l’Est europeo o con alcune regioni africane per poter reclutare la manodopera di cui avevano urgentemente bisogno: braccianti, raccoglitori, badanti, professionisti della sanità. E infine l’esercito degli invisibili e degli innominabili, i «sans-papiers». Fino all’altro ieri sembrava funzionare
alla perfezione il modello economico fondato sulla bipartizione delle attività: da un lato la produzione di merci a basso valore aggiunto, da collocare nelle aree emergenti; dall’altro i settori strategici di «ricerca e sviluppo», da trattenere in patria. «Ideato nell’Ue (o negli Usa) e prodotto in Cina», sta tuttora scritto sugli imballaggi dei nostri computer e dei nostri telefonini. La divisione internazionale del lavoro si reggeva, e in buona parte si regge ancora, sulla separazione braccia-mente: nel continente asiatico l’operaio – spesso l’operaia – a basso costo, nei paesi evoluti gli ingegneri, gli informatici e i designer ben retribuiti, contesi dalle migliori «corporations». Anche il nostro cantone è cresciuto sulla base di un mercato del lavoro frazionato: i frontalieri e gli autoctoni. Il primo balzo si è avuto negli anni 60, con la concentrazione del tessile lungo la fascia di confine. La possibilità di
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Cultura e Spettacoli La sensibilità del corpo La capacità di raccontare le emozioni nell’opera prima di Maria Ospina Pizano pagina 36
Our name is... G&G Scoppiettanti, irriverenti, snob: a Locarno una mostra realizzata da e con opere del duo di artisti Gilbert &George
Il trattato di Cennini Alla scoperta dei grandi trattati del passato: Cennino Cennini e il suo Libro dell’Arte
Aline la pioniera Aline Valangin, donna generosa e controcorrente, visse in anticipo sul suo tempo
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Di una solitudine senza speranza
Editoria Escono per Adelphi tre stranianti
racconti di Thomas Bernhard
Luigi Forte Nel tempo irreale e sospeso della pandemia il mondo di Thomas Bernhard ci appare più che mai familiare. Reclusione e isolamento fanno parte ormai della nostra quotidianità, ma sono anche un leitmotiv del grande scrittore austriaco; anzi, nei tre racconti di Midland a Stilfs del 1971, che Adelphi propone nell’ottima versione di Giovanna Agabio, diventano quasi una cifra esistenziale. Ci sono due fratelli, il narratore e Franz, confinati fra i monti del Tirolo, e la sorella Olga inferma da anni, nel testo che dà il titolo al volume. Mandano avanti una fattoria nel bel mezzo di un’ampia proprietà dove tutto va in pezzi in modo irreparabile. Persino l’immensa biblioteca di famiglia in cui più nessuno ha messo piede. Una volta all’anno arriva l’inglese Midland, figlio di genitori ricchi e fanatico della montagna, che fa visita alla tomba della sorella morta a Stilfs. Lui contagia tutti con la sua inquietudine e dispensa stimoli, idee, novità. Ma non sana la disperazione dei fratelli per i quali, come si legge alla fine, la vita non ha più alcun senso. Poi ecco un acrobata e uno scienziato che studia gli strati atmosferici: altra coppia di fratelli nelle pagine Sull’Ortles. Notizie da Gomagoi, intenti a raggiungere una malga ereditata dai genitori sullo Scheibenboden. Salgono a fatica, incalzati dal loro passato, nel tentativo di abbandonare tutto – cose, persone, città, propositi – e decisi ad essere «completamente liberi da qualsiasi disturbo e per giunta all’aria pura». Mentre l’avvocato Enderer di Innsbruck nel racconto Il mantello di Loden è travolto da un’irresistibile, straniante ossessione: il cappotto di quello strano cliente, che non conosce,
ma ha incrociato per anni nella Saggengasse, non è forse quello di suo zio Worringer, morto suicida? Come sempre in Bernhard tutto è anomalo: personaggi, situazioni, stile. E in qualche modo prevedibile. In Gelo, il suo primo romanzo degli anni Sessanta, un anziano pittore si isolava in un paesino di montagna e nei labirinti della sua mente dominata da allucinazioni, deliri e verità filosofiche. C’era già tutto il fascino di uno scrittore esaltato a suo tempo da Italo Calvino come il più interessante romanziere europeo vivente. Ma allora la solitudine del protagonista riusciva a proiettarsi anche altrove: verso il mondo primordiale del villaggio e i suoi rozzi abitanti, mentre più tardi, personaggi come il principe Saurau nel romanzo Perturbamento o Konrad ne La fornace si isolano dal mondo o esorcizzano la realtà come finzione e beffa atroce. Come lo stesso Bernhard, una sorta di extraterrestre ritiratosi a scrivere in un villaggio dell’Alta Austria. In sintonia con i propri personaggi che, lontani dalla realtà, smascherano l’esistenza, anche la propria, come la più orribile fra le menzogne o si lanciano in una centrifuga loquacità per riempire il proprio vuoto, come l’acrobata verso la fine del racconto, alla ricerca della perfezione assoluta ma di fatto destinato al fallimento e alla malattia. Lungo quel sentiero i fratelli sognano l’assolutezza di qualsiasi tipo di arte evocando una libertà che è rifiuto di ogni legame. Libertà dai genitori, rigetto d’ogni sapere accademico. Il dominio assoluto su di sé, suggerisce l’acrobata, nasce solo dalla scuola del respiro che controlla mente, pensiero e corpo. Ma per raggiungere il vertice di ogni performance è essenziale l’arte della presentazione. Peccato che la perenne stanchezza di vivere metta a rischio ogni progetto e induca a odia-
Paesaggio della provincia di Bolzano: in Bernhard l’idillio è solo apparente. (Keystone)
re tutto: genitori, montagna, acrobazie e scienza. Sempre con la sensazione di essere ormai alla soglia della follia, in un’esistenza che diventa assuefazione alla morte. Si scoprirà alla fine che anche la malga, simbolo del passato, è ormai solo un mucchio di pietre sparpagliate. Sembra che Bernhard ci prenda gusto a disorientare il lettore che pure ne segue con masochistica curiosità lo zigzagante intreccio mentale. Il miracolo è tutto nella scrittura, ritmica e cadenzata, ricca di contrappunti e di tonalità diverse, dal drammatico all’umoristico, che riesce a rendere leggere e coinvolgenti anche le situazioni più paradossali. Come l’ossessione di Enderer per il loden di quel nuovo cliente con gli occhielli bordati di pelle di capriolo. Perfettamente uguale a quello dello zio annegato nella Sill inferiore. Si chiama Humer quel signore, ha un negozio di articoli funebri e un paio di gravi problemi di cui vorrebbe parlargli. Ma lui gli presta poca attenzione, anzi dapprima è convinto che sia un
mercante di bestiame o un mediatore immobiliare, uno di quelli che vanno in giro avvolti nel loro mantello e con il cappello sempre in testa. E anche i fatti più gravi non lo distolgono dal suo sospetto di fondo, tanto più che l’etichetta del loden è simile a quella del cappotto dello zio. Eppure dovrebbe prestare attenzione al racconto del cliente che mescola dolore e inconsapevole comicità. Il povero Humer si appella all’avvocato per difendersi dall’impudenza di figlio e nuora, cinici e spendaccioni, che poco per volta lo hanno estromesso dall’attività e poi obbligato a lasciare il proprio comodo alloggio di fianco al negozio per salire, di volta in volta, dal primo al terzo piano in ambienti sempre più disagevoli. Nella testimonianza dell’avvocato le due narrazioni corrono in direzioni diverse per poi intersecarsi casualmente dando risalto a dettagli che aggiungono a quei personaggi quasi una dimensione clownesca. Anche qui non c’è speranza, ma solo il senso tragico della vita dietro l’incalzante gag del cappotto. Una notizia di gior-
nale richiama infatti l’attenzione sul suicidio del commerciante H. gettatosi dal terzo piano nella Saggengasse. Che importa, se poi l’ossessivo intuito dell’avvocato è stato adeguatamente premiato: infatti il figlio del defunto, a cui lui si è rivolto, gli consegna quel loden che, guarda caso, era riemerso a suo tempo dalle acque della Sill, il fiume lungo il quale suo padre andava ogni giorno a passeggiare. Storie bislacche, destini desolati e inconcludenti, in una solitudine senza speranza, perché, come sentenziava il giocoliere nella splendida pièce La forza dell’abitudine: «La vita consiste in ciò: nel vanificare le domande». E forse il tragicomico borbottio dei personaggi di Bernhard ad altro non mira che a ricordare l’insufficienza di ogni possibile risposta. Bibliografia
Thomas Bernhard, Midland a Stilfs. Tre racconti, traduzione di Giovanna Agabio, Adelphi, p. 121, € 12.–.
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Cultura e Spettacoli
Con il corpo, per sentirsi
Raccontare il teatro da casa
Maria Ospina Pizano
In scena online Una
Narrativa Un debutto letterario di tutto rispetto per la scrittrice colombiana
Laura Marzi Il primo esergo che si incontra nella raccolta di racconti Gli azzardi del corpo è tratto da un testo di Clarice Lispector, ucraina naturalizzata brasiliana: una delle scrittrici migliori del ’900. L’influenza nel testo di questa grande autrice non si limita alla citazione, però: si ritrova disseminata nei diversi brani che compongono questa prima prova della colombiana Maria Ospina Pizano tradotta in italiano, da Amaranta Sbardella. L’influenza di Lispector è evidente per esempio nel racconto Fauna di Ere, interamente dedicato alla relazione fra la narratrice e le pulci, di cui la donna annota anche le preferenze in fatto di parti del corpo. Una volta debellati questi parassiti, a suscitare il suo interesse e la sua compassione è il ragno che lei cerca di salvare dalla furia della signora delle pulizie e infine una blatta che il suo compagno lancia dal bancone. Ovviamente la tradizione del rapporto tra uomo e insetto conduce il pensiero direttamente a La metamorfosi di Kafka, ma il racconto di Lispector proprio sulla blatta (La passione secondo G.H.) non ha niente da invidiare al testo del grande scrittore boemo. E anche la scrittura di Pizano è notevole. In altri racconti ritorna la narrazione del rapporto con gli animali in quanto opportunità, la migliore, per avere compagnia. Le donne, protagoniste di tutti i racconti della raccolta, sono infatti sempre sole e finiscono per desiderare più di tutto la compagnia di un cane, un gatto, anche delle pulci. Nel racconto Occasione a tenere compagnia a Isabela, la bambina borghese di Bogotà di cui si occupa Zenaida, sono i vermi che le abitano l’intestino, perché la ragazzina non riesce, e non vuole fare a meno, di mangiare la terra. Se la gusta e anche se non
Maria Ospina Pisano è nata a Bogotà nel 1977.
è molto difficile interpretare questo bisogno con quello ben più profondo che Isabela ha di sua madre, Pizano ne parla con una delicatezza mai eccessivamente drammatica. Questo rifiuto del dramma come unico modo per raccontare l’umanità si trova in molta letteratura sudamericana come in questa raccolta. A prendere il sopravvento sono i particolari meravigliosi o quelli della natura, degli animali appunto, mentre i drammi umani restano sullo sfondo, in disparte rispetto a ciò che è davvero importante. Nel racconto Occasione, per esempio, Zenaida
è incinta e per questo perderà il lavoro, ma i lettori lo vengono a sapere solo grazie al riferimento da parte della piccola Isabela di un saluto particolarmente intenso che la bambina ha visto scambiarsi tra la madre e la tata. Zenaida era comparsa già nel finale del racconto precedente, mentre incontra la protagonista Marcela, che dopo essere scappata dal campo di guerriglia in cui aveva militato per anni e avere ottenuto una nuova identità decide di rincontrare la sorella minore. Tutti i racconti, in un modo o nell’altro, dicono del ritornare: a volte si tratta di un per-
sonaggio, come in questo caso, oppure di un manoscritto che è sempre impossibile da finire. In Collateral Beauty la zia Martica col suo lavoro da estetista ha aiutato Estefanía a diplomarsi dopo la morte di sua madre. Mentre la donna si occupa di curare la bellezza delle donne di Bogotà, da quelle dell’alta borghesia alle carcerate, la ragazza lavora ancora nell’ospedale di bambole che era appartenuto al nonno. In questo racconto troviamo il primo uomo degno di avere un nome e un cognome, Antonio Pesoa: un corrispondente di Estefanía che ama le bambole, almeno quanto lei. In tutta la raccolta, altrimenti, gli uomini sono quasi assenti o se esistono il loro nome è un’iniziale puntata, tranne appunto Antonio Pesoa e Pepe che compare nell’ultimo racconto intitolato Gli azzardi del corpo. Qui ritroviamo anche Martica, impegnata a fare la manicure alla sua cliente Mirla, la vedova di Pepe appunto, che da quando il marito è morto soffre della sindrome del cuore affranto e ha pensato di tenere in vita il ricordo del suo uomo trasformandosi anche lei, come lo era lui, in una collezionista. Mirla ha scelto di accumulare forbici perché crede che quegli oggetti la aiutino a vivere meglio: li agita nell’aria quando vuole tagliare via qualcosa che la fa soffrire e fare a ideali pezzettini il responsabile della sua sofferenza. È l’unico riferimento nella raccolta alla magia che invece viene spesso raccontata nella letteratura sudamericana, ammesso che non sia magica la capacità di molte donne di resistere alla solitudine. Bibliografia
Maria Ospina Pizano, Gli azzardi del corpo, Ortona, Edicola Ediciones, 2020.
piazza digitale per il teatro Giorgio Thoeni
Da più di due mesi e mezzo, una piccola comunità teatrale si riunisce virtualmente (e puntualmente) ogni lunedì sera utilizzando una delle piattaforme di videochiamata gratuite disponibili in rete. Un collettivo che ha accettato di aderire alla tempestiva iniziativa di Luca Spadaro che, all’inizio del periodo di confinamento, ha pensato di radunare una platea composta di interessati e allievi dei corsi di formazione dell’attore organizzati dal Teatro d’Emergenza (suo e di Max Zampetti). Il tutto stuzzicando libere discussioni su temi teatrali scelti di volta in volta: un modo per continuare a mantenere una sorta di «tensione didattica» fra scoperte, riflessioni e approfondimenti su una materia sulla quale Spadaro ha costruito oltre venticinque anni di professione, fra Ticino e Lombardia, come regista, drammaturgo, pedagogo ma anche, più recentemente, come autore di un saggio-manuale sul rapporto fra teatro e neuroscienze (L’attore specchio, Dino Audino edizioni). A costituire l’originalità di questa «piazza digitale» è la variegata composizione del gruppo: «Si va dal cineasta luganese a un’allieva attrice veneta in quarantena a Zurigo» commenta Spadaro, «da una ragazza dell’Oltrepò pavese a un’altra in collegamento dall’Argentina, da una milanese originaria del sud Italia a un’altra milanese a cui si aggiungono 6 allievi attori (di Zampetti), un’allieva emiliana e un altro di Lugano anche se di un’altra scuola». Insomma, non c’è di che annoiarsi. Ogni settimana i temi vengono dibattuti
Un grande affresco svedese
Narrativa La figura carismatica di Lars Levi Laestadius narrata da Mikael Niemi Marco Horat Diciamo subito che Cucinare un orso non è un libro facile da digerire; ma che vale la pena di essere letto, sì. Soprattutto se si ha un po’ di tempo a disposizione. Lo svedese Mikael Niemi torna per Iperborea con un altro racconto di grande respiro, dopo La piena e L’uomo che morì come un salmone. Una storia che prende avvio nella regione del Norrland e che si rifà a una straordinaria figura di pastore luterano-naturalista di fama internazionale: Lars Levi Laestadius, nato nel 1800. Sullo sfondo la società e la cultura dei Sami (noi diremmo impropriamente Lapponi), popolo che abita un vasto territorio compreso tra Svezia, Norvegia e Finlandia, del quale anche lui era parte.
La vicenda è tornata alla ribalta pochi anni or sono, allorché fu casualmente ritrovato in una chiesa di Pajala un dagherrotipo in ottimo stato di conservazione che ritrae il pastore, tumultuoso predicatore luterano del movimento di rinnovamento chiamato «Il Risveglio». Ne facevano parte uomini e donne invasati che diedero del filo da torcere alle autorità civili e religiose di quelle regioni, preoccupate per il seguito che aveva tra i Sami che vivevano ai margini della società come reietti. Di Laestadius esistevano solo alcuni ritratti pittorici ma nessuna immagine: un uomo severo che nella fotografia guarda l’obiettivo con un sguardo profondo. Una figura storica che in vita aveva raccolto documenti importanti sulla vita della sua comunità; per salvarli dai bombardamen-
L’immagine di copertina del libro, che è edito da Iperborea.
ti, durante la Seconda guerra mondiale furono trasferiti nella canonica di Muodoslompolo, ma ironia della sorte, questa fu poi distrutta da un incendio nel 1941. Verso la fine del secolo precedente era già stata pubblicata in Svezia una autobiografia di autore ignoto, considerata il primo documento in lingua Sami che trattava della cultura Sami. Niemi ha costruito il suo romanzo, mescolando realtà storica (le vicende che hanno visto protagonista il pastore Laestadius) e tradizioni locali (la citata autobiografia di autore ignoto), naturalmente arricchendo il tutto con la sua fervida immaginazione. Una vicenda spigolosa e poetica al tempo stesso, raccontata a tinte forti dentro il quadro di una società povera, dove la vita è scandita dalla consuetudine e dal potere di pochi, con impeti di rivolta crudeli e sanguinosi. Il Pastore ha salvato dalla strada un povero ragazzino Sami che vagabondava per il paese vivendo di carità, alle spalle un’infanzia devastante sia per sé e sia per la sorellina, con una madre che viene chiamata sempre e solo «la strega», forse una delle donne più feroci della letteratura moderna, per come la racconta Niemi. Lars mette al piccolo Sami il nome di Jussi, e lo iscrive nel registro delle nascite della parrocchia; «un uomo senza nome e stato anagrafico non appartiene a nessuna comunità». Gli insegna a leggere e a scrivere, a capire i testi sacri, lo inizia all’osservazione scientifica della natura, ai fatti della vita, al senso della
giustizia e perfino all’amore per la giovane serva di una fattoria vicina alla canonica. Grazie a una serie di sconcertanti avvenimenti cerca insomma di farne un uomo che possa camminare coscientemente nel mondo. Poi alcune giovani ragazze vengono assalite nei boschi, qualcuna muore, altre sono vittime di violenze: chi sarà il colpevole? Il primo indiziato è una mamma orsa inferocita che, una volta eliminata, metterebbe in pace molte coscienze. Ma col tempo la vicenda si complica e prende altre strade, grazie alle indagini del Pastore e del suo giovane aiutante, decisamente osteggiate dai potenti locali e dai pregiudizi nei confronti dei Sami. La storia si arricchisce con colpi di scena che porteranno il lettore fino alla conclusione non scontata, ma che non devono far dimenticare il grande affresco sociale che fa da sfondo alle intricate storie che Niemi racconta. E che si concludono con alcune frasi emblematiche: «Spariremo come animali nel silenzio dell’inverno. E la neve coprirà tutte le nostre impronte». Lars Levi Laestadius morì nel 1861, racconta la leggenda coricato su una pelle d’orso nella casa della sua famiglia, a due passi dalla vecchia canonica di Pajala dove, curiosamente ma non troppo, è nato Mikael Niemi. Bibliografia
Mikael Niemi, Cucinare un orso, Milano, Iperborea, 2018.
Un’opportunità di confronto grazie a Luca Spadaro. (Instagram)
partendo dalla visione di allestimenti teatrali storici e recenti reperibili su diverse piattaforme online. Si spazia dal repertorio di autori consacrati come Eschilo, Shakespeare, De Filippo alle regie di Peter Brook e di Declan Donnellan, dal teatro di narrazione di Dario Fo a quello di Ascanio Celestini fino al teatro-danza della grande Pina Bausch o a quello più recente dei Peeping Tom. Senza dimenticare la lezione di Eugenio Barba con il suo Odin Teatret a cui si aggiungono, sfruttandone l’attualità, gli interrogativi sui destini del teatro dopo la pandemia... Insomma, una passeggiata che unisce momenti di storia a panoramiche su esempi di regia, di recitazione e di drammaturgia. «Per me», ci dice Spadaro, «è stato importante in questo momento di inattività, raccontare e ascoltare storie sul teatro. Ho potuto saggiare alcune ipotesi che sto studiando sul tema delle emozioni in scena. Soprattutto guardando spettacoli e parlando di teatro i partecipanti hanno potuto fare esperienze teatrali. Mi sembra che “ne sappiano di più”, che abbiano più parole e più ricordi a riguardo. È stato un modo molto bello e intimo di continuare a “fare comunità” tra gente di teatro».
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 8 giugno 2020 • N. 24
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Cultura e Spettacoli Gilbert&George, Union Dance, 2008. (© 2020 Gilbert&George – Courtesy Arndt Collection)
Gilbert&George, God Save The Beard, 2016. (© Gilbert&George – Courtesy Galerie Thaddaeus Ropac, London, Paris, Salzburg)
Gilbert&George, Beard The Lion, 2016. (© Gilbert&George – Courtesy The Artist and White Cube)
Gilbert&George Mostre Due per uno, arte per tutti
Alessia Brughera Nel 1969, davanti agli studenti della prestigiosa St. Martin’s School of Art di Londra, dove entrambi stanno studiando, Gilbert & George mettono in scena la loro prima performance pubblica: in piedi su un tavolo, con abiti eleganti e con mani e volti ricoperti d’oro, cantano e mimano meccanicamente una canzone del varietà degli anni Trenta intitolata Underneath the Arches. The Singing Sculpture è il nome dato dal duo a questa rappresentazione. L’intento è quello di apparire come vere e proprie sculture viventi, secondo una poetica fondata sulla perfetta coincidenza di artista e opera. Il che non vuol dire solo aprire l’arte alla vita ma, richiamando i principi estetici di intellettuali dandy quali Oscar Wilde e Gabriele D’Annunzio, significa per la coppia elevare la vita stessa a opera d’arte. «Rifiutavamo il formalismo e sentivamo il bisogno di riportare al centro dell’opera quei sentimenti che l’arte aveva congelato e allontanato da tempo, come i pensieri, le speranze, il sesso, le paure, i sogni, gli amori, gli incubi, i disastri, le profezie, le memorie e persino le lacrime», raccontano gli artisti. Sono trascorsi più di cinquant’anni da quella celebre performance e Gilbert & George, al secolo Gilbert Prousch, nato nel 1943 a San Martino in Badia, in Trentino Alto Adige, e George Passmore, nato nel 1942 a Plymouth, nella contea del Devon, sono rimasti fedeli sia al loro look di rispettabilissimi gentlemen (sempre vestiti con completi dai colori sobri e dal taglio impeccabile, sempre garbati, calmi e disinvolti come il tipico aplomb d’oltremanica esige) sia al carisma sfacciato e radicale delle loro opere, con cui amano mettere ogni cosa in discussione. Inconsueta miscela di un aspetto da «upper class», al limite del reazionario, e di un’arte dissacrante e rivoluzionaria, Gilbert & George sono due uomini e un solo artista. Dall’origine
del loro sodalizio, che è stato ed è prima di tutto affettivo, sono due esistenze che scorrono in simbiosi, mosse da una visione comune mai intaccata dal trascorrere dei decenni. La coppia fa arte con la vita e sulla vita, indagando senza compromessi le esperienze umane di ogni tipo e mettendo alla prova, in primis, i propri sentimenti. Per questo, sin dagli anni Settanta, i due artisti compaiono sempre nei loro lavori diventando parte di ogni singola opera al fine di stringere una più stretta alleanza con lo spettatore. Con un approccio ludico, il duo sfida critica e opinione pubblica, scre-
dita tabù culturali e religiosi, smaschera il perbenismo della società contemporanea. E lo fa monitorando l’uomo dal proprio peculiare osservatorio, l’East End di Londra, una sorta di grande periferia composta di quartieri poco agiati e disordinati dove non è difficile riuscire a cogliere l’infinita gamma dei comportamenti umani. È qui che Gilbert & George vivono da molto tempo, affascinati dalla miseria e dalla bellezza, dalla disperazione e dalla speranza, dalla sopraffazione e dall’amore, dalle frustrazioni e dai desideri di un luogo in cui ogni giorno si consuma la complicata convivenza
tra ceti sociali, etnie e valori differenti. Dall’incessante dialogo con la metropoli nasce un’arte immersa nella realtà quotidiana che si avvale di miriadi di stimoli non per criticare sterilmente le contraddizioni del vivere o per dare facili responsi, ma per spingere ciascuno di noi a riflettere su quelle tematiche scomode che, come singoli individui e come parte della comunità, siamo spesso portati a ignorare. Avversi a ogni forma di elitarismo, Gilbert & George sostengono che l’arte debba essere democratica, per tutti. Un concetto, questo, che nel semplice motto «Art for All», utilizzato dagli artisti fin dagli esordi, sintetizza bene la logica che sottende la loro attività. Nella ricerca del mezzo più adatto a comunicare il suo messaggio, la coppia sperimenta diversi linguaggi espressivi sino ad arrivare alla fotografia, attraverso cui dà vita a grandi poemi visivi che raccontano la condizione umana. Sono immagini imponenti che evocano lo stile delle vetrate artistiche e che rappresentano il mondo così come Gilbert & George lo hanno meticolosamente scandagliato, divenendo melting
pot di contenuti indecenti, di simboli sacri, di volti mascherati, di corpi nudi (sempre i loro, ovviamente), di proclami e di frasi sconvenienti. In queste grandi composizioni convivono, come accade nella vita reale, il sublime e il banale, il grottesco e il tragico, senza una gerarchia e senza un limite. Particolarmente significative sono, ad esempio, alcune opere degli anni Novanta in cui il duo affina la sua condotta provocatoria fino a rappresentare escrementi, organi sessuali e fluidi umani. In questi lavori l’individuo viene ridotto all’essenziale, alla sua mera biologia e dunque a ciò che rende tutti uguali. Nessuna distinzione di classe, di sesso, di moralità o di cultura. È l’uomo che va oltre la diversità e l’ipocrisia. Quello che da sempre sono Gilbert & George. Dove e quando
Gilbert & George. The Locarno Exhibition. Museo Casa Rusca, Locarno. Fino al 18 ottobre 2020. Orari: da ma a do 10.00-12.00/14.00-17.00, lu chiuso. www.museocasarusca.ch
Provocazione allo stato puro A Locarno irrompe la coppia più sfrontata dell’arte
Sono una sessantina le opere del duo inglese raccolte negli spazi del Museo Casa Rusca a Locarno: lavori che vestono impetuosamente le pareti delle sale espositive con le loro grandi dimensioni e il loro cromatismo energico. Ancor prima dell’animo è lo sguardo a essere stravolto dal turbinio di immagini, di scritte e di colori che si riversano sulle composizioni realizzate da Gilbert & George, quasi fagocitando lo spettatore nel loro universo religiosamente profano, volgarmente puro e violentemente poetico. La rassegna curata da Rudy Chiappini è stata progettata in stretta collaborazione con la coppia di artisti, che, planimetrie alla mano, ha concepito un percorso ad hoc per il museo locarnese, arrivando addirittura a costruire un modellino in scala di Casa Rusca affinché tutto potesse essere calcolato nel dettaglio. Nasce così una mostra tailor made, da cui emerge l’importanza che per Gilbert & George riveste l’allestimento, inteso esso stesso come parte integrante del processo creati-
Gilbert&George. (© 2020 Gilbert&George)
vo capace di concentrare e mettere in scena il senso dell’opera d’arte. L’itinerario si sviluppa documentando le principali tematiche che i due artisti hanno esplorato negli ultimi quindici anni seguendo, come da loro abitudine, le questioni più controverse
dell’attualità. Quelle questioni che più suscitano timore, disorientamento ed emozioni contrastanti nell’uomo e che Gilbert & George scelgono di affrontare nel loro lavoro sprezzanti di criteri estetici e limiti morali. Nelle Utopian Pictures i due artisti
raccontano gli allarmanti risvolti di una società sempre in bilico tra libertà e coercizione; nelle Jack Freak Pictures sfidano i valori della britishness conservatrice «degradando» la bandiera del Regno Unito, tradizionale emblema di questi principi, a mero sfondo decorativo su cui posare i loro corpi deformati; nelle Scapegoating Pictures rivelano gli oscuri retroscena del multiculturalismo; nelle London Pictures accostano annunci squallidi e aggressivi all’autorevole e potente ritratto della Regina Elisabetta II, come fossero due facce della stessa medaglia; nelle Beard Pictures, infine, appaiono entrambi con una barba smodata, storicamente simbolo di forza e saggezza, per stravolgerne il significato e farne incarnazione delle nuove costrizioni imposte dalla civiltà contemporanea. Insolenti, demistificatori, comici e inquietanti, Gilbert & George oltrepassano la soglia del conformismo per delineare il vero volto della società; una società caotica e impaurita che ha bisogno di guardarsi dentro, senza pregiudizi, alla ricerca della verità. /AB
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Cultura e Spettacoli
Cennino Cennini, pittore e scrittore
PRO SENECTUTE
Informa
Trattati Continua la serie dedicata
a grandi artisti del passato – Quarta parte
Novità Gianluigi Bellei
1920-2020 100 anni al servizio degli anziani Nel 1920, quando in Ticino nasceva Pro Senectute, la povertà era diffusa soprattutto tra gli anziani (l’AVS non esisteva ancora!). L’allora associazione aveva lo scopo di aiutare le persone anziane bisognose e lo faceva raccogliendo soldi tramite una colletta. Dal 1929 la Confederazione iniziava a sostenere la Fondazione con sussidi, diventati però più consistenti soltanto a partire dagli anni ‘60-‘70. Nel 1988, con l’annessione dei circoli di Calanca, Mesocco e Roveredo (prima in Pro Senectute Grigioni) nasce Pro Senectute Ticino e Moesano, che nel 1994 cambia statuto diventando una Fondazione. Gli anni che seguono sono contraddistinti da un rapido sviluppo di attività e servizi pensati per rispondere ai bisogni crescenti della popolazione anziana.
Cennino Cennini nasce a Colle di Val d’Elsa probabilmente intorno al 1364, figlio di Drea (Andrea), anch’egli pittore. Dal 1376 svolge per dodici anni il praticantato presso la bottega di Agnolo Gaddi. Di questo periodo è probabilmente la Nascita di Maria del Museo Comunale di Colle di Val d’Elsa. Poi intraprende un’attività di pittore indipendente in Toscana. Nel 1398 si sposta a Padova dove lavora come pittore al servizio di Francesco Novello da Carrara. Sposa una ragazza padovana: Ricca di Cittadella. Qui inizia a lavorare al Trattato della pittura. Nel 1405, a seguito dell’invasione di Padova da parte dei Veneziani e dell’uccisione in prigione di Novello, ritorna a Colle di Val d’Elsa. Muore in povertà in carcere. Giovanni Bottari nel suo commento alle Vite del Vasari del 1759 annota che è morto nel 1437 mentre scriveva il suo Trattato nel carcere delle Stinche «dove si mettono i debitori di debito civile». Dato ripreso da Giuseppe Montani e da Giovanni Masselli nel loro commento alle stesse Vite del 1832-38.
Attività e prestazioni Nel 2020 Pro Senectute Ticino e Moesano offre un vasto ventaglio di proposte per una vecchiaia attiva e dignitosa nonché numerose prestazioni di supporto al mantenimento a domicilio: – – – – – – – – – – – – –
Solo in tempi recenti i critici hanno posto l’accento anche sui lati etici e religiosi del trattato di Cennini
Consulenza sociale Servizio fiduciario Servizio di aiuto per il trasloco Centri diurni terapeutici Centri diurni socio-assistenziali Appartamenti con custode sociale Centro di competenza Alzheimer e altre forme di demenza Servizio di prevenzione e promozione qualità di vita Pasti a domicilio Volontariato Formazione e sport Vacanze e vacanze con accompagnamento speciale Podologia
Però in un documento vergato nel 1427 del figlio Andrea, e ritrovato recentemente, si legge che in quella data il padre è già morto. Poche sono le sue opere e quasi nessuna è certa. Splendida la tavola del Santo Vescovo e Santo Papa ora alla Staatliche Museen di Berlino attribuitagli da Miklos Boskivits. Sul suo lavoro artistico ha pesato il giudizio negativo del Vasari il quale, nella vita di Agnolo Gaddi della Giuntina, scrive che fece di sua mano un libro sul modo di lavorare a fresco, a tempera, a colla d’oro «poiché forse non gli riuscì imparare a perfettamente dipingere». Boskivits, al contrario, sostiene che Cennini sia «un pittore del bizzarro, del grottesco, legato al gotico internazionale più che a Giotto». Insomma, un artista tutt’altro che conservatore, da rivalutare. Del Trattato della pittura esistono due codici: quello alla Biblioteca Laurenziana di Firenze datato 1437 e quel-
A causa dell’emergenza sanitaria, i seguenti servizi subiscono una parziale o momentanea sospensione: – Centri diurni terapeutici: al momento apertura limitata – Centri diurni socio-assistenziali: apertura limitata – Corsi: sospesi fino all’autunno – Vacanze e vacanze con accompagnamento speciale: momentaneamente sospese Per maggiori informazioni vi invitiamo a consultare il nostro sito oppure a rivolgervi ai recapiti indicati in seguito.
Contatto Pro Senectute Ticino e Moesano, Via Vanoni 8/10 6904 Lugano – Telefono 091 912 17 17 info@prosenectute.org Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto
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www.prosenectute.org Seguiteci anche su Facebook! Cennino Cennini, Santo Vescovo e Santo Papa. (Wikimedia – SMB Gemäldegalerie)
lo cinquecentesco della Biblioteca Riccardiana, sempre a Firenze. Ambedue copie redatte da fiorentini che a volte fiorentinizzavano il testo nel quale troviamo molte terminologie padovane come «crea» per creta, «migliuolo» per bicchiere e «romola» per crusca. La fortuna del libro è molto grande ma si diffonde soprattutto dopo la prima edizione a stampa del 1821 curata da Giuseppe Tambroni. Proprio quell’anno sorgono le Accademie d’arte e il testo diventa subito necessario per gli allievi. Per molto tempo è stato considerato soltanto come un libro puramente tecnico. Ultimamente si è posto l’accento sugli aspetti etici e religiosi rileggendolo alla luce della dicotomia fra ricettario, e quindi l’operazione di mano, e fantasia che serve per dipingere. Cennino scrive che dopo la cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva il primo scopre che bisogna vivere manualmente. E conviene che ha «fondamento da quella con operazione di mano: e questa è un’arte che si chiama dipingere, che conviene aver fantasia, con operazione di mano, di trovar cose non vedute (cacciandosi sotto ombra di naturali)». Lohr Wolf-Dietrich nota che Sant’Agostino parla di contemplatio e di actio mentre il Petrarca di manus e di ingenium. Sua è la famosa frase, ripresa dal Vasari, su Giotto che «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno»; il che vuol dire, come annotano Marchese-Pini-Milanesi nel commento alle Vite del Vasari del 1846-55, «che spogliò la pittura della rozzezza bizantina e la vestì della gentilezza latina, ossia italiana». Per Julius Schlosser Magnino molte delle sue terminologie artistiche sono di uso comune ancor oggi. Per esempio sfumare: «Va’ col detto pennello tratteggiando l’andare delle pieghe maestre; e poi va’ sfumando, secondo l’andare, lo scuro della piega» o rilievo: «Seguita di dare il rilievo alle tue figure o veramente disegno, secondo l’ordine delle finestre che trovi ne’ detti luoghi». Per contro è ancora oscurantista il suo concetto della donna: «… ti voglio dare a lettera le misure dell’uomo. Quelle della femmina lascio stare perché non ha nessuna perfetta misura». Bibliografia
Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Cennino Cennini, Il libro dell’arte o trattato della pittura, Milano, Longanesi, 1975.
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Cultura e Spettacoli
Per il mondo, un rifugio in Ticino
Ritratti Il coraggio dell’anticonformismo: l’emancipata Aline Valangin e l’insospettabile rapporto privilegiato
con la valle ticinese immortalata nei suoi romanzi
Benedicta Froelich Da quando, dagli anni Sessanta del 900 in poi, la cultura femminista occidentale ha raggiunto la sua massima espressione moderna non solo in termini popolari, ma anche accademici, molte sono state le nuove «eroine» succedutesi nella mente di un pubblico sempre più avido di figure carismatiche in cui identificarsi – alla ricerca di «grandi donne» dallo spirito anticonformista che, avendo rinnegato la staticità degli abituali ruoli di moglie e madre, fossero state in grado di prendere in mano le proprie vite ben prima che una nuova «coscienza di genere» rendesse l’impresa meno ardua.
Difficile categorizzare Aline Valangin, donna poliedrica dallo spirito generoso e in anticipo sui tempi Purtroppo, però, molte delle figure femminili meno note e celebrate del ventesimo secolo sono rimaste inspiegabilmente escluse dalle recenti rivalutazioni di storici e professori, soprattutto nell’ambito dell’intelligentsia mitteleuropea; in tal senso, uno dei personaggi più enigmatici e intriganti con cui la Svizzera abbia contribuito ad arricchire la categoria è senz’altro Aline Valangin, da molti considerata una delle cruciali «protofemministe moderne» di nazionalità elvetica. Nata a Vevey nel 1889, Aline si sarebbe infatti distinta per una visione coraggiosa e libera dell’esistenza, per l’epoca decisamente all’avanguardia; un’attitudine confermata anche dai molteplici ruoli rivestiti da una personalità quantomeno poliedrica – scrittrice e poetessa, pianista, traduttrice, psicanalista, ma, soprattutto, anticonformista di professione. Un percorso singolare, che ha avuto inizio all’interno di una fami-
glia dallo spessore culturale tutt’altro che trascurabile. Aline era infatti nipote del ginevrino Élie Ducommun, nel 1902 insignito del Premio Nobel per la pace come direttore dell’International Peace Bureau di Berna, e, al pari del nonno, avrebbe presto intrapreso una strada palesemente diretta a lasciare il segno sulla placida società altoborghese di allora: terminati gli studi al conservatorio di Losanna con l’idea di lavorare come insegnante di pianoforte, avrebbe invece finito per recarsi a Zurigo e divenire paziente e allieva di Carl Gustav Jung. Ma qualsiasi categorizzazione stava evidentemente stretta alla vulcanica Aline, la quale, fin da subito, affiancò all’attività di psicanalista la passione per le lingue e la scrittura, rendendo per chiunque molto arduo il compito di classificare questa ragazza intraprendente e geniale – soprattutto in anni in cui le donne ancora faticavano ad abbandonare il cliché che le vedeva come esclusivamente votate al focolare domestico. E sebbene anche Aline sarebbe, infine, convolata a giuste nozze, difficilmente il suo matrimonio «aperto» con l’avvocato russo Wladimir Rosenbaum si sarebbe potuto definire come convenzionale; anche perché fu proprio il legame con il marito a permettere alla Valangin di impegnarsi anche sul fronte politico, tanto da essere oggi ricordata soprattutto per la sua costante volontà di aiutare e sostenere dissidenti e oppositori di ogni regime totalitario. Ciò l’avrebbe portata a fare del Ticino – all’epoca già infiammato dalla pacifica «ribellione artistica» del Monte Verità, ma anche dalla comune Fontana Martina, fondata da Fritz Jordi a Ronco sopra Ascona – il suo vero «luogo dell’anima»; infatti, grazie alla posizione strategica (in Valle Onsernone, a poca distanza dal confine italiano), la grande casa di vacanza acquistata nel 1929 da lei e Wladimir sarebbe divenuta rifugio per innumerevoli artisti e intellettuali perseguitati dalle dit-
Aline Valangin in un’immagine scattata a Zurigo nel 1981. (Keystone)
tature fascista e nazista – tra gli altri, Elias Canetti, Hans Harp, Max Ernst e Ignazio Silone. E mentre, nei mesi estivi, il «Castello della Barca» (questo il nome dell’antico palazzo di Comologno) veniva popolato da innumerevoli gatti randagi ed esuli in cerca di pace, nel villaggio la Valangin trovò una
privata forma di felicità nel praticare la tecnica della tessitura al telaio; e proprio laggiù avrebbe ambientato i suoi romanzi e racconti, tra cui Die Bargada. Eine Chronik (1940) e Dorf an der Grenze, capitoli di una saga paesana incentrata su una realtà rurale a lei ormai cara. Tuttavia, il secondo volume
non sarebbe stato pubblicato che nel 1982, appena pochi anni prima della scomparsa dell’autrice; e la reticenza degli editori si può forse ricondurre alla tematica principale del libro, ovvero la politica d’asilo impiegata dalla Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale, dalla Valangin considerata come una scaltra soluzione «di comodo» dalle dubbie basi etiche. La fondamentale forma di intima libertà personale strenuamente difesa da Aline si sarebbe riflessa anche nella sua concezione dei legami famigliari: nonostante il divorzio da Rosenbaum nel 1940, e un secondo matrimonio di breve durata con il compositore Wladimir Vogel, rimase sempre profondamente legata al primo marito – il quale, radiato dal foro a causa del proprio antifascismo, si era rifatto una vita (e più di una famiglia) come antiquario ad Ascona. Determinata a rimanergli accanto, Aline avrebbe continuato a risiedere in quella che, del resto, sembra essere un’area favorevole all’espressione di anime femminili «controcorrente», come confermato dalla presenza della scrittrice Eveline Hasler, appassionata portavoce di figure ribelli, nonché autrice di un romanzo sulla stessa Valangin (Aline und die Erfindung der Liebe, 2000). Fu proprio ad Ascona che l’ultranovantenne Aline si spense nel 1986, dopo una vita piena e, soprattutto, priva di veri rimpianti. Ma ciò che oggi lascia un certo amaro in bocca a chiunque abbia la fortuna di imbattersi in questo incredibile personaggio è il fatto che alla Valangin non sia stata concessa la medesima rivalutazione e riscoperta postuma di cui hanno invece beneficiato molte donne intellettualmente coraggiose, il cui nome è oggi noto a livello internazionale; una mancanza a cui, fortunatamente, sopperisce il Fondo Aline Valangin, custodito presso la Biblioteca Cantonale di Lugano a costante ricordo di una donna anticonvenzionale e del suo (altrettanto anticonvenzionale) legame con il territorio ticinese.
Quanto son belle le parole chiassose
La lingua batte Da cin cin a sibilo. Tutte le lingue attingono al vastissimo mare delle onomatopee,
la loro colonna sonora Laila Meroni Petrantoni Sono furbe, le parole. Sembrano riservate, tutte votate al compito per cui sono state create, ossia comunicare. Lo fanno con dedizione, che siano sostantivi, congiunzioni, verbi o avverbi; lo fanno in sordina, lasciando al loro significato, al contesto e a volte al tono della voce il compito di dare colore e umore al messaggio. In realtà, molte di esse – alla chetichella – sanno fare un gran baccano. Facciamo qualche esempio: rimbombo, gargarismi, ticchettio, ronzio, squittire, ruggire, ululare. State leggendo le parole, ma nel contempo è come se le vostre orecchie seguissero gli occhi e percepissero, senza possibilità di malintesi, il suono a esse associato. In linguistica questo scherzetto si definisce onomatopea: si tratta di una figura retorica con cui una parola riproduce o suggerisce acusticamente il soggetto o l’azione. In sostanza, la parola fa il verso a ciò che rappresenta. Non tutte le onomatopee sono chiassose: ce ne sono di molto discrete, come fruscio o cinguettio. Quanto elencato finora
è definito onomatopea secondaria, o artificiale: una parola a tutti gli effetti che porta con sé un particolare significato. Naturalmente ci sono anche le onomatopee primarie, quelle prive di significato ma che evocano un suono: sono ad esempio quelle che ci permettono di lamentarci per il freddo con un lungo brrrr sapendo che finiremo col farci scombussolare da una serie di etciù, oppure quelle che con un sinistro miao permettono al gatto di zittire il canarino che fa cip cip. L’uso delle onomatopee è frequente e non solo in italiano. Per quanto riguarda la lingua di Dante, molti esempi sono anche entrati nelle antologie. Nel Futurismo di Marinetti e Palazzeschi la tecnica ha un ruolo principe diventando forse la cifra stilistica più frequente del movimento. Poi naturalmente c’è la poesia, con le sue giravolte intrise di sensazioni: come non citare ad esempio Giovanni Pascoli, che dell’onomatopea fa «un uso ampio e ossessivo» (come spiega Giulio Ferroni nella sua Storia della letteratura italiana). Vien poi da citare, come esempio straniero, Anthony
Burgess e il violento NADSAT, il gergo (misto russo e inglese) utilizzato dagli scapestrati giovani protagonisti di A Clockwork Orange (massima stima per chi quel romanzo l’ha tradotto in altre lingue, immaginiamo non senza difficoltà e notti insonni): in quel mondo immaginato riprodotto poi da Stanley Kubrick in Arancia Meccanica, il verbo glutare sta per il classico bere, e pare di sentirlo quel «glu glu glu» che placa la sete. Ecco giunto il momento (per associazione di idee) di confessare quale sia la mia onomatopea preferita: scusate, ma è il genuino gnam gnam, espressione perfetta della soddisfazione, del piacere, del godimento di gustarsi con avidità un piatto di penne all’amatriciana. Mi dispiace per gli anglofoni, che in casi simili usano yum yum: perdonate, ma non è la stessa cosa, non esprime lo stesso grado di golosità, all’infinita potenza. Eppure all’inglese dobbiamo tutta quella marea di onomatopee che fanno da colonna sonora ai fumetti: come rinunciare a bang, gulp, sniff, sob e all’amato splash? Massimo ri-
Seta, par di sentirne il fruscìo... (Keystone)
spetto per Giovanni Pascoli, tuttavia anche il mondo delle strisce ha il suo perché. Grazie a chi ha seguito fino in fondo questo breve viaggio nella lingua
che suona. Perché questa è l’anima meno evidente delle parole, quella sfumatura che sfugge ai più distratti. Una lingua non è solo un mezzo, è un’esperienza dei sensi.
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