Azione 25 del 18 giugno 2018

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G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Cooperativa Migros Ticino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 18 giugno 2018

Azione 25 ping -59 M shop ne 41-44 / 58 i alle pag

Società e Territorio All’Alpe di Pazz insieme a Gérard Moccetti per camminare sui carboni ardenti

Ambiente e Benessere Sono 162 in tutta la Svizzera e ben 18 in Ticino i luoghi naturali di maggior pregio a livello nazionale, secondo l’Inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali

Politica e Economia La vicenda dell’Aquarius, un problema non soltanto italiano

Cultura e Spettacoli Al centro del suo nuovo romanzo la tedesca Juli Zeh mette a fuoco antichi conflitti

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Aquarius, una nave ostaggio della politica

Orchha, dove Jahangir volle un palazzo per una sola visita

di Peter Schiesser

di Simona Dalla Valle

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Concesso: l’Italia non può essere lasciata sola dall’Unione Europea a gestire il flusso di immigranti che attraversano il Mediterraneo partendo dall’Africa. Così come non può essere lasciata sola la Grecia, che ospita centinaia di migliaia di persone che la raggiunsero dalla Turchia due anni fa. Su questa sfida si misura la statura morale e politica dell’idea di comunità europea. Che per ora appare bassa. Ma la decisione del ministro degli interni italiano Matteo Salvini di chiudere i porti italiani alla nave Aquarius della ong italo-franco-tedesca Sos Mediterranée con 629 persone a bordo (dando così prova di essere il vero capo del governo, visto che la competenza spettava in realtà ad un altro ministero) è una brutta notizia per chi ha a cuore il diritto e l’impegno umanitario. La decisione del governo italiano è un atto illegale, contravviene alla Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (ratificata dall’Italia nel 1989), la quale impone non solo il salvataggio in mare ma anche il trasferimento in luogo sicuro. Ed essendo stata la Aquarius incaricata dalla guardia costiera di Roma di portare in salvo le 629 persone, raccolte in diverse operazioni al largo della Libia, la chiusura dei porti ordinata da Salvini risulta ancora più assurda, tanto più che i porti restano aperti alle navi militari italiane, una delle quali ha portato oltre 900 migranti a Catania. Evidentemente il ministro degli interni e capo della Lega voleva mandare un segnale «forte» anche alle ong che in questi anni si sono prodigate per salvare più vite possibile sul Mediterraneo (essendo le forze messe in piedi dall’Unione europea insufficienti), da lui accusate di favorire l’immigrazione clandestina e di fare affari con i passatori. Ma il messaggio più forte è rivolto all’Unione Europea, che non riesce a riformare l’accordo di Dublino sul primo asilo e mettere d’accordo i suoi Stati membri sulla redistribuzione dei profughi, di cui si fa attualmente carico soprattutto l’Europa meridionale. Una redistribuzione cui si oppongono in particolare gli Stati del Gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia), con l’appoggio dell’Austria, con cui Salvini si sente maggiormente in sintonia. Ma è questa la strada per far crescere la solidarietà all’interno dell’Ue? O non è piuttosto un tentativo di minarla dall’interno, scatenando una litigiosità su un tema altamente delicato? Se il presidente francese Macron non è la persona più indicata per dare del «cinico» a Salvini (visto che il suo paese ha più volte chiuso le frontiere ai migranti che volevano raggiungerla dall’Italia), quale altro titolo può essere assegnato ad un ministro che gioca sulla pelle di centinaia di persone per raggiungere i suoi scopi politici ed elettorali?

Risultati della votazione generale 2018 19’520 soci hanno votato (partecipazione al voto 20,2%) 1. Approva i conti annuali 2017, dà scarico al Consiglio di amministrazione e accetta la proposta per l’impiego del risultato di bilancio? SI: 18’458

97,9%

NO: 404

2,1%

2. È a conoscenza che Migros Ticino destina ogni anno lo 0,5% (2,3 milioni di franchi nel 2017) della cifra d’affari a favore della formazione (Scuola Club) e di attività in ambito culturale e sociale, e di politica economica nella Svizzera italiana? SI: 16’665

88,6%

NO: 2’154

11,4%

Sant’Antonino, 18 giugno 2018 Il Consiglio di amministrazione ringrazia per la fiducia accordatagli

Simona Dalla Valle

Esito della procedura elettorale Ufficio di revisione per un mandato di due anni (2018-2019) PricewaterhouseCoopers SA (PwC), Lugano


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Società e Territorio Videogiochi Uguaglianza o schiavitù? Gentilezza o crudeltà? La relazione tra uomo e androidi esplorata da Detroit: Become Human

Pubblicazioni È stato da poco pubblicato un opuscolo informativo dedicato alle famiglie arcobaleno

pagina 5

«Ul Pepèna», leggenda dello sport Sul portale lanostraStoria.ch si può ripercorrere l’avventura di Augusto Rossi, il pilota luganese che nel 1923 vinse la gara del chilometro lanciato pagina 6

Una camminata sui carboni ardenti Incontri Scacciare la paura del dolore fisico e spostare un limite che sembrava insormontabile:

una giornata con Gérard Moccetti per osservare chi pratica la pirobazia Sara Rossi Guidicelli U. lavora per l’ufficio delle imposte. Al telefono ha una voce dolce e gentile, me lo immagino in giacca e cravatta, un po’ pallido perché passa tanto tempo in ufficio, tutto casa e lavoro. Niente affatto. È alto e robusto, ha la camicia a quadri aperta sul petto anche quando fa freddo e nel tempo libero ama camminare sui carboni ardenti. Appena me lo dice, decido di andare a vedere cosa succede durante questa sua pratica. Lui mi sorride e acconsente, ma a una condizione: «Devi partecipare anche tu. Non significa che devi per forza, ma prendere parte alla preparazione». Mormoro un mah-no-vedremo con un sorriso nervoso, chiedendomi in quale guaio mi sono cacciata. La mia immaginazione mi mostra Mangiafuoco che minaccia Pinocchio di buttarlo nelle fiamme insieme con Arlecchino. Però voglio sapere perché qualcuno invece oltrepassa per hobby la sana paura di farsi male. Cosa ne ricava? Qual è il piacere per il quale buttare all’aria il buonsenso che ti dice di non scottarti? Quindi prometto che andrò.

pagina 6

Spazi condivisi e vivi Lugano Nella città dei quartieri si pensa

alla nuova vita delle ex case comunali

Guido Grilli Chiavi alla mano, Lugano ha deciso con ancora maggiore slancio rispetto al passato di concedere casa alle associazioni e ai cittadini promuovendo così una… con-divisione degli stabili comunali. Obiettivo? Rafforzare l’aggregazione con gli ex Comuni – ora quartieri – valorizzandoli, rendendoli luoghi pulsanti di vita e scongiurando la vendita di edifici di interesse pubblico o, peggio, il loro abbattimento. L’iniziativa è contenuta nero su bianco nel rapporto sulle Case di quartiere, il cui titolo ne riassume bene il senso: «Spazi condivisi, diffusi e vivi per favorire l’aggregazione e la partecipazione attiva alla vita sociale». Ventuno sono gli stabili individuati dall’autorità cittadina, luoghi preziosi, la maggior parte dei quali ex case comunali che hanno perso la loro utilità primaria dopo le fusioni avvenute nello scorso decennio e culminate nell’aprile 2013 nell’aggregazione che ha trasformato Lugano in una delle più grandi città della Svizzera con i suoi 75,81 chilometri quadri di superficie e gli oltre 65 mila abitanti. Per saperne di più abbiamo avvicinato Cristina Zanini Barzaghi, capo dicastero Immobili. «Sono complessivamente ventuno stabili, sei dei quali sono già ben utilizzati con una loro precisa definizione. Altre case, con analoga destinazione, potrebbero ulteriormente entrare in futuro in questa strategia, così come non tutti i 21 stabili prescelti diverranno necessariamente case di quartiere per le associazioni. Per coinvolgere maggiormente la popolazione in questo progetto la Città ha promosso un concorso a premi scaduto l’8 giugno per trovare un nome a questi stabili condivisi, il cui esito sarà reso noto da una giuria nell’arco dell’estate. Un nome capace di costruire un’identità comune, come lo è stato ad esempio quello assegnato al Punto città. Numerose sono state le adesioni al concorso: abbiamo ricevuto circa duecento proposte». Gli interessati a ottenere uno spazio – per riunioni, manifestazioni,

feste, meeting, cene, pranzi o altre forme di ritrovo – possono agevolmente prenotarsi da subito online tramite il sito Internet della città, all’indirizzo www.lugano.ch/sale. Un contributo è richiesto, come contempla l’Ordinanza sull’uso degli spazi amministrativi: 100 franchi al giorno per i privati o per chi intende organizzare esposizioni e 25 franchi invece per le associazioni. «Il senso è quello di dare il giusto valore a quanto viene offerto – le richieste sono tante – e al contempo di coprire una parte dei costi di gestione. Il sito Internet consente maggiore visibilità e un migliore coordinamento delle numerose richieste. Gli spazi sono disponibili per tutti gli interessati, con priorità ai residenti». Cristina Zanini Barzaghi evidenzia il concetto della articolata iniziativa sulle Case di quartiere: «Dare maggiore prossimità e creare un legame nella nuova città attraverso attività diffuse sul territorio, cercando di superare il confronto tra il prima e il dopo aggregazione. La valorizzazione degli edifici condivisi ci permette anche di creare nuove offerte culturali, che finora venivano organizzate solo nelle zone centrali». L’idea si indirizza insomma a una «Lugano, città dei quartieri». Sottolinea ancora la capo dicastero Immobili: «Il progetto prevede di creare pure dei punti di interesse generale, non solo rivolti al singolo quartiere. Un esempio è l’Ideatorio, servizio dell’Università della Svizzera italiana e antenna regionale della Fondazione Science et Cité che promuove la cultura scientifica rendendola accessibile a giovani e adulti attraverso esposizioni interattive, e che si appresta nei prossimi mesi a trasferire la propria sede in una parte dell’ex casa comunale di Cadro. La parte restante dello stabile rimarrà ancora disponibile per le associazioni locali e le loro diverse attività: con l’Ideatorio, Cadro si arricchirà di una realtà di interesse regionale e cantonale». L’Ideatorio, prima ancorato a Castagnola e con sede amministrativa a Villa Saroli, ha già tracciato i primi eventi per il prossimo autunno: «Sguardi scientifici sulle migrazioni» è

Da 33 anni Gérard Moccetti propone a chiunque sia interessato l’esperienza di camminare sulle braci È iniziata da poco la primavera quando Gérard Moccetti, organizzatore di camminate sulle braci ardenti, mi chiama: «Sabato camminiamo. Porta tre giornali vecchi, una coperta e un picnic. Siamo un gruppo di trenta persone, ti iscrivo come partecipante a tutti gli effetti». Ancora! Avverto subito che mi mescolerò al gruppo ma sarà difficile che alla fine mi toglierò le scarpe. Tra le poche cose che conosco sulla pratica della pirobazia, ovvero l’arte di camminare sui carboni ardenti, ci sono ovviamente riferimenti ai fachiri d’Oriente, ma anche i riti del fuoco sparsi per tutta Europa, che si tenevano proprio in questo periodo dell’anno, quando torna la luce e ci si lascia alle spalle l’inverno. Sono riti legati al sole

e alla sua potenza generatrice benefica per uomini, animali, grano e frutta, ma anche legati ai poteri di purificazione del fuoco, per bruciare i simboli dell’inverno e gli spiriti maligni. In moltissime culture d’Occidente si accendevano falò all’imbrunire, poi i ragazzi o tutti gli abitanti del villaggio saltavano sul fuoco, passeggiavano sui carboni, spargevano le ceneri. In Serbia e Bulgaria, scrive Frazer nel suo libro di etnografia Il ramo d’oro, facevano camminare sulle braci il bestiame malato, perché si pensava che potesse guarire. Quando arrivo all’Alpe di Pazz, dove mi ha invitata Gérard, mi trovo inserita in un gruppo eterogeneo, tra gli 11 e i 69 anni: c’è una famiglia con due figli adolescenti e la nonna, c’è un gruppo di educatori che vogliono fare l’esperienza prima di portare i loro ragazzi del foyer, c’è uno studente di diritto, un ingegnere che ha avuto un ruolo di primo piano nella costruzione di Alptransit, alcune felici coppie di innamorati e un filosofo «a cui tutto è andato male nella vita», come mi racconta lui stesso. Gérard si presenta come padre di tre figli, ex banchiere, guida da 33 anni di camminate sui carboni ardenti e schegge di vetro; lavora con bambini, aziende e gruppi come quello di oggi. È simpatico, non ha niente del santone, somiglia di più all’amico motivatore che tutti vorrebbero nei momenti in cui ti manca la voglia o il coraggio per buttarti in qualche impresa. Nel 1978 Gérard era sull’isola di Bali e ha assistito a uno spettacolo in cui il danzatore andava in trance e passava indenne sui tizzoni incandescenti; quando ha saputo che si poteva farlo anche da lucidi e che chiunque poteva appropriarsi di questa abilità, ha seguito una formazione e da allora è un fachiro entusiasta e infaticabile. C’è un aspetto che accomuna tutte quelle persone così diverse e che per la maggior parte non si conoscono: sembrano avere una gran voglia di gentilezza e mostrano vocazione verso il contatto umano. Si comincia con qualche esercizio per creare gruppo, per avere fiducia gli uni negli altri e in se stessi. Dopo poco tempo voglio bene a persone che non conosco e a cui continuo a chiedere: perché siete qui? La metà mi risponde: perché è bel-

La preparazione della brace si fa in gruppo. (Stefano Spinelli; galleria fotografica su www.azione.ch)

lissimo camminare sui carboni ardenti. Lo avete già fatto? «Sì, certo. Ti fa sentire bene: è una prova con te stesso; se riesci a superare le tue paure ti convinci che avrai la forza anche per i tuoi progetti personali». L’altra metà dice di essere lì per curiosità, oppure perché vuole conoscere qualche parte di se stesso che ancora non sa; qualcuno ha un obiettivo che spera di raggiungere anche grazie a questa esperienza, un altro è per riavvicinarsi al senso del sacro, oppure c’è chi dice che sente una voglia ancestrale di andare al di là dei limiti umani; qualcun altro ancora desidera solo passare una giornata speciale e gli hanno consigliato le camminate di Gérard. Tra gli educatori con cui parlo due hanno già provato con un gruppo di giovani utenti, che vivevano un momento di difficoltà. «Per loro è ancora più speciale», mi racconta una dei due. «Lavoro a volte con ragazzi che raramente si sono sentiti dire “bravo” da qualcuno. Intraprendono relazioni, formazioni, progetti che vanno a gambe all’aria e per una volta in una giornata sperimentano il “miracolo” di fare qualcosa che si erano prefissati e lo portano a termine, fino in fondo. E non si

tratta di una cosa qualsiasi, ma di qualcosa che a tutti sembra impossibile!». Gli esercizi sono divertenti, nelle prime ore si ride molto, ci si conosce senza parole, con molti abbracci e prove di fiducia, di concentrazione, di coraggio. Poi si comincia a sperimentare cosa significa vincere una paura: spezza una matita con un dito; potresti farti male, ma se lo fai giusto e deciso, non ti succede niente. Metti tra te e il tuo compagno una freccia, gli estremi appoggiati sulla gola, in quel punto dove anche una leggera pressione dà già fastidio. Buttati nelle braccia dell’altro senza esitare e la freccia si spezzerà. Tra quelli che provano, una sola all’ultimo millisecondo si ritrae e si ferisce leggermente. Gli altri dicono che è un’esperienza elettrizzante, che lo sguardo che ti dai prima di lanciarti nell’abbraccio che spezza la freccia è così intenso che ti dà la carica per vivere altri cento anni. Hai paura ma ti butti e alla fine non ti succede niente: ti accorgi che a volte ci imponiamo dei limiti sbagliati. Forse allora sei spinto a pensarci meglio la prossima volta che ti vien da dire: non posso farcela, fa male, non ho il coraggio. Arriva la sera, si accende il fuoco.

Ci si prende un momento per ragionare sulla propria vita, quella già trascorsa, quella ancora da venire. Ci si massaggia la schiena e i piedi, a due a due. Si mastica in silenzio un piccolo spuntino. Ognuno medita per conto suo. Poi tutti si tolgono le scarpe, le calze, io compresa. Camminiamo sulle braci; sono calde e la sensazione di calore durerà fino a tarda notte, ma non fa male. C’è chi si dà la mano, chi porta in braccio la moglie, chi lo fa più volte. U. mi dice: «Sono contento che sei andata di là». Dicono che la brace, anche se è sui seicento gradi, conduce male il calore, quindi se si cammina abbastanza velocemente il piede non fa in tempo a scaldarsi così tanto da ustionarsi; altri dicono che senza la preparazione non c’è la concentrazione giusta, l’umiltà, la forza del gruppo che ti aiutano a non fare errori e quindi a non bruciarti. Poco importa. Importa che alla fine tutti abbiamo condiviso un pasto, allegro e spensierato, come tra compagni di scuola, in quell’epoca in cui l’amicizia rappresentava tutto ciò che conta, quando incarnava i tuoi valori, era il tuo presente e il tuo futuro, era il luogo, la casa, dove ti sentivi bene così com’eri.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani L’ex casa comunale di Gandria. (Ti-Press)

il titolo del prossimo appuntamento in agenda dal 13 ottobre. Prosegue Cristina Zanini Barzaghi: «In questo concetto abbiamo inserito anche Villa Saroli quale casa di quartiere del Centro. Negli scorsi anni questa villa, dotata di parco e limonaia, è divenuto un luogo condiviso: oltre all’associazione i2a che propone attività legate all’architettura e all’urbanistica, presto arriverà anche l’Associazione autrici e autori della Svizzera italiana e sarà così inaugurata la Casa della letteratura. Una nuova realtà che spero possa rafforzare i diversi eventi letterari già esistenti come Poestate e Piazzaparola. L’ex casa comunale di Breganzona, affittata al Conservatorio della Svizzera italiana, è invece dedicata all’insegnamento musicale. Per l’ex Municipio di Castagnola con il trasferimento dell’Archivio storico si apre poi un’altra prospettiva legata alla storia della città. Questo per dimostrare che non si in-

tendono solo offrire luoghi di incontro per le numerose associazioni locali ma anche di favorire maggiormente l’accesso alla cultura in modo diffuso, attraverso la cooperazione con istituzioni con raggio d’azione più vasto». Ma a livello finanziario quanto inciderà questa iniziativa degli stabili condivisi? «La strategia elaborata ci serve anche per pianificare gli interventi di manutenzione, visto che per alcuni stabili si rende necessario un lifting. Occorrerà inoltre considerare che se alcuni edifici non troveranno una destinazione adeguata quale Casa di quartiere, si dovrà pensare ad altre destinazioni: ad esempio l’ex casa comunale di Carona è stata parzialmente trasformata in scuola. Resta comunque chiara l’intenzione generale della strategia, che è quella di valorizzare il patrimonio immobiliare esistente, senza vendere i «gioielli di famiglia». Mi riferisco qui alla polemica sorta

qualche tempo fa a Breggia, dove si era deciso di alienare le ex case comunali. C’è senz’altro ancora un legame molto forte che unisce la popolazione a questi edifici pubblici. Laddove non si troverà uno sbocco adeguato cercheremo nuove idee. Penso all’ex casa comunale di Certara, recentemente venduta con il nullaosta del Consiglio comunale al patriziato, un’entità pubblica radicata a livello locale; oppure all’ex casa comunale di Cimadera dove si vuole creare una locanda quale punto di appoggio per la valorizzazione turistica della Val Colla». Italo Calvino, ne Le città invisibili – si evidenzia in epigrafe del documento Case di quartiere – ha scritto parole lungimiranti: «Anche le città credono di essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».

Michelle Cuevas-Erin Stead, Il postino dei messaggi in bottiglia, Babalibri. Da 4 anni Leggerezza, umanità nel senso più sorridente e più profondo, empatia: Erin Stead illustra con il suo personalissimo tratto, intenso e pacato, questa bellissima storia, il cui testo stavolta non è del marito Philip (con il quale ha realizzato albi pubblicati sempre da Babalibri che non potete perdervi: Il raffreddore di Amos Perbacco; Orso ha una storia da raccontare; Lenny e Lucy) ma della giovane autrice, anch’essa americana, Michelle Cuevas (già apprezzata per il romanzo Le avventure di Jacques Papier). Anche quando lavora con altri (come già nel caso di E poi... è primavera, con testi di Julie Fogliano), Erin Stead è in grado di imprimere al libro un mite calore e un senso di fratellanza con le altre creature che non possono lasciare indifferenti. Stavolta si tratta di «un postino dei messag-

gi in bottiglia» che aveva il compito di «aprire ogni bottiglia arrivata per mare e assicurarsi che fosse portata a destinazione». Un giorno gli viene consegnata dalle onde una bottiglia il cui destinatario non è specificato (e quanto gli piacerebbe fosse proprio lui!) con un invito a una festa in riva al mare. E sarà proprio l’amorevole cura con cui il postino cercherà il destinatario del messaggio, visitando uno per uno i suoi vicini, che renderà unica e indimenticabile quella festa.

Se delle illustrazioni abbiamo già detto, e non ci resta che invitarvi a lasciarvene coinvolgere, va notato anche il testo della Cuevas, tutt’altro che piatto, ma articolato e ricco di metafore interessanti, ben tradotte da Cristina Brambilla: la solitudine del postino a volte «diventava tagliente come una squama di pesce», trovare una bottiglia con il suo nome «sarebbe stato facile come trovare sulla spiaggia un frammento d’unghia del piede d’una sirena». Un libro che ci conforta, piccoli e grandi. Andrea Valente – Gek Tessaro, Dalla testa ai piedi, Editoriale Scienza. Da 8 anni Quando le cose te le spiega lui, di solito le capisci. Perché te le dice come farebbe un compagno un po’ più esperto, bravo ma non saccente, che sta imparando con te. Non le fa scendere dall’alto ma nemmeno vuole fare il

simpatico a tutti i costi. È leggero, alla mano, questo sì. E espone con umorismo. Stiamo parlando di Andrea Valente, brillante e navigato divulgatore scientifico per ragazzi, che questa volta ci introduce, senza inutili complicazioni ma anche senza semplicismi, alle meraviglie del corpo umano. In un coloratissimo volume di Editoriale Scienza, reso ancor più vivace dal contributo tutt’altro che parco delle illustrazioni di Gek Tessaro, in tecnica

mista, con disegno e collage, ci addentriamo nelle sette sezioni in cui l’argomento è suddiviso: «con la testa sulle spalle – lo scheletro nell’armadio – qua la mano – anche dentro le mutande – cuore di mamma – belli dentro – belli fuori». Valente qui dosa bene il suo prorompente umorismo, mettendolo là dove può rendere più efficace la comunicazione, ma riuscendo anche, apprezzabilmente, a fare un passo indietro, là dove è più utile lasciar parlare sobriamente le informazioni. Inoltre non s’incaglia sui temi più complessi, come cervello, sistema nervoso, organi interni, a cui accenna con semplicità; riesce ad essere chiaro senza tuttavia esagerare in dettagli, evitando anche, con sorridente grazia, il rischio di eccessivi ammiccamenti, come ad esempio nella parte «dentro le mutande». Non mancano, e sono interessanti, la sezione dedicata alle curiosità e il glossario finale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Pubblicazioni È stato da poco pubblicato un opuscolo informativo dedicato alle famiglie arcobaleno

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«Ul Pepèna», leggenda dello sport Sul portale lanostraStoria.ch si può ripercorrere l’avventura di Augusto Rossi, il pilota luganese che nel 1923 vinse la gara del chilometro lanciato pagina 6

Una camminata sui carboni ardenti Incontri Scacciare la paura del dolore fisico e spostare un limite che sembrava insormontabile:

una giornata con Gérard Moccetti per osservare chi pratica la pirobazia Sara Rossi Guidicelli U. lavora per l’ufficio delle imposte. Al telefono ha una voce dolce e gentile, me lo immagino in giacca e cravatta, un po’ pallido perché passa tanto tempo in ufficio, tutto casa e lavoro. Niente affatto. È alto e robusto, ha la camicia a quadri aperta sul petto anche quando fa freddo e nel tempo libero ama camminare sui carboni ardenti. Appena me lo dice, decido di andare a vedere cosa succede durante questa sua pratica. Lui mi sorride e acconsente, ma a una condizione: «Devi partecipare anche tu. Non significa che devi per forza, ma prendere parte alla preparazione». Mormoro un mah-no-vedremo con un sorriso nervoso, chiedendomi in quale guaio mi sono cacciata. La mia immaginazione mi mostra Mangiafuoco che minaccia Pinocchio di buttarlo nelle fiamme insieme con Arlecchino. Però voglio sapere perché qualcuno invece oltrepassa per hobby la sana paura di farsi male. Cosa ne ricava? Qual è il piacere per il quale buttare all’aria il buonsenso che ti dice di non scottarti? Quindi prometto che andrò.

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Spazi condivisi e vivi Lugano Nella città dei quartieri si pensa

alla nuova vita delle ex case comunali

Guido Grilli Chiavi alla mano, Lugano ha deciso con ancora maggiore slancio rispetto al passato di concedere casa alle associazioni e ai cittadini promuovendo così una… con-divisione degli stabili comunali. Obiettivo? Rafforzare l’aggregazione con gli ex Comuni – ora quartieri – valorizzandoli, rendendoli luoghi pulsanti di vita e scongiurando la vendita di edifici di interesse pubblico o, peggio, il loro abbattimento. L’iniziativa è contenuta nero su bianco nel rapporto sulle Case di quartiere, il cui titolo ne riassume bene il senso: «Spazi condivisi, diffusi e vivi per favorire l’aggregazione e la partecipazione attiva alla vita sociale». Ventuno sono gli stabili individuati dall’autorità cittadina, luoghi preziosi, la maggior parte dei quali ex case comunali che hanno perso la loro utilità primaria dopo le fusioni avvenute nello scorso decennio e culminate nell’aprile 2013 nell’aggregazione che ha trasformato Lugano in una delle più grandi città della Svizzera con i suoi 75,81 chilometri quadri di superficie e gli oltre 65 mila abitanti. Per saperne di più abbiamo avvicinato Cristina Zanini Barzaghi, capo dicastero Immobili. «Sono complessivamente ventuno stabili, sei dei quali sono già ben utilizzati con una loro precisa definizione. Altre case, con analoga destinazione, potrebbero ulteriormente entrare in futuro in questa strategia, così come non tutti i 21 stabili prescelti diverranno necessariamente case di quartiere per le associazioni. Per coinvolgere maggiormente la popolazione in questo progetto la Città ha promosso un concorso a premi scaduto l’8 giugno per trovare un nome a questi stabili condivisi, il cui esito sarà reso noto da una giuria nell’arco dell’estate. Un nome capace di costruire un’identità comune, come lo è stato ad esempio quello assegnato al Punto città. Numerose sono state le adesioni al concorso: abbiamo ricevuto circa duecento proposte». Gli interessati a ottenere uno spazio – per riunioni, manifestazioni,

feste, meeting, cene, pranzi o altre forme di ritrovo – possono agevolmente prenotarsi da subito online tramite il sito Internet della città, all’indirizzo www.lugano.ch/sale. Un contributo è richiesto, come contempla l’Ordinanza sull’uso degli spazi amministrativi: 100 franchi al giorno per i privati o per chi intende organizzare esposizioni e 25 franchi invece per le associazioni. «Il senso è quello di dare il giusto valore a quanto viene offerto – le richieste sono tante – e al contempo di coprire una parte dei costi di gestione. Il sito Internet consente maggiore visibilità e un migliore coordinamento delle numerose richieste. Gli spazi sono disponibili per tutti gli interessati, con priorità ai residenti». Cristina Zanini Barzaghi evidenzia il concetto della articolata iniziativa sulle Case di quartiere: «Dare maggiore prossimità e creare un legame nella nuova città attraverso attività diffuse sul territorio, cercando di superare il confronto tra il prima e il dopo aggregazione. La valorizzazione degli edifici condivisi ci permette anche di creare nuove offerte culturali, che finora venivano organizzate solo nelle zone centrali». L’idea si indirizza insomma a una «Lugano, città dei quartieri». Sottolinea ancora la capo dicastero Immobili: «Il progetto prevede di creare pure dei punti di interesse generale, non solo rivolti al singolo quartiere. Un esempio è l’Ideatorio, servizio dell’Università della Svizzera italiana e antenna regionale della Fondazione Science et Cité che promuove la cultura scientifica rendendola accessibile a giovani e adulti attraverso esposizioni interattive, e che si appresta nei prossimi mesi a trasferire la propria sede in una parte dell’ex casa comunale di Cadro. La parte restante dello stabile rimarrà ancora disponibile per le associazioni locali e le loro diverse attività: con l’Ideatorio, Cadro si arricchirà di una realtà di interesse regionale e cantonale». L’Ideatorio, prima ancorato a Castagnola e con sede amministrativa a Villa Saroli, ha già tracciato i primi eventi per il prossimo autunno: «Sguardi scientifici sulle migrazioni» è

Da 33 anni Gérard Moccetti propone a chiunque sia interessato l’esperienza di camminare sulle braci È iniziata da poco la primavera quando Gérard Moccetti, organizzatore di camminate sulle braci ardenti, mi chiama: «Sabato camminiamo. Porta tre giornali vecchi, una coperta e un picnic. Siamo un gruppo di trenta persone, ti iscrivo come partecipante a tutti gli effetti». Ancora! Avverto subito che mi mescolerò al gruppo ma sarà difficile che alla fine mi toglierò le scarpe. Tra le poche cose che conosco sulla pratica della pirobazia, ovvero l’arte di camminare sui carboni ardenti, ci sono ovviamente riferimenti ai fachiri d’Oriente, ma anche i riti del fuoco sparsi per tutta Europa, che si tenevano proprio in questo periodo dell’anno, quando torna la luce e ci si lascia alle spalle l’inverno. Sono riti legati al sole

e alla sua potenza generatrice benefica per uomini, animali, grano e frutta, ma anche legati ai poteri di purificazione del fuoco, per bruciare i simboli dell’inverno e gli spiriti maligni. In moltissime culture d’Occidente si accendevano falò all’imbrunire, poi i ragazzi o tutti gli abitanti del villaggio saltavano sul fuoco, passeggiavano sui carboni, spargevano le ceneri. In Serbia e Bulgaria, scrive Frazer nel suo libro di etnografia Il ramo d’oro, facevano camminare sulle braci il bestiame malato, perché si pensava che potesse guarire. Quando arrivo all’Alpe di Pazz, dove mi ha invitata Gérard, mi trovo inserita in un gruppo eterogeneo, tra gli 11 e i 69 anni: c’è una famiglia con due figli adolescenti e la nonna, c’è un gruppo di educatori che vogliono fare l’esperienza prima di portare i loro ragazzi del foyer, c’è uno studente di diritto, un ingegnere che ha avuto un ruolo di primo piano nella costruzione di Alptransit, alcune felici coppie di innamorati e un filosofo «a cui tutto è andato male nella vita», come mi racconta lui stesso. Gérard si presenta come padre di tre figli, ex banchiere, guida da 33 anni di camminate sui carboni ardenti e schegge di vetro; lavora con bambini, aziende e gruppi come quello di oggi. È simpatico, non ha niente del santone, somiglia di più all’amico motivatore che tutti vorrebbero nei momenti in cui ti manca la voglia o il coraggio per buttarti in qualche impresa. Nel 1978 Gérard era sull’isola di Bali e ha assistito a uno spettacolo in cui il danzatore andava in trance e passava indenne sui tizzoni incandescenti; quando ha saputo che si poteva farlo anche da lucidi e che chiunque poteva appropriarsi di questa abilità, ha seguito una formazione e da allora è un fachiro entusiasta e infaticabile. C’è un aspetto che accomuna tutte quelle persone così diverse e che per la maggior parte non si conoscono: sembrano avere una gran voglia di gentilezza e mostrano vocazione verso il contatto umano. Si comincia con qualche esercizio per creare gruppo, per avere fiducia gli uni negli altri e in se stessi. Dopo poco tempo voglio bene a persone che non conosco e a cui continuo a chiedere: perché siete qui? La metà mi risponde: perché è bel-

La preparazione della brace si fa in gruppo. (Stefano Spinelli; galleria fotografica su www.azione.ch)

lissimo camminare sui carboni ardenti. Lo avete già fatto? «Sì, certo. Ti fa sentire bene: è una prova con te stesso; se riesci a superare le tue paure ti convinci che avrai la forza anche per i tuoi progetti personali». L’altra metà dice di essere lì per curiosità, oppure perché vuole conoscere qualche parte di se stesso che ancora non sa; qualcuno ha un obiettivo che spera di raggiungere anche grazie a questa esperienza, un altro è per riavvicinarsi al senso del sacro, oppure c’è chi dice che sente una voglia ancestrale di andare al di là dei limiti umani; qualcun altro ancora desidera solo passare una giornata speciale e gli hanno consigliato le camminate di Gérard. Tra gli educatori con cui parlo due hanno già provato con un gruppo di giovani utenti, che vivevano un momento di difficoltà. «Per loro è ancora più speciale», mi racconta una dei due. «Lavoro a volte con ragazzi che raramente si sono sentiti dire “bravo” da qualcuno. Intraprendono relazioni, formazioni, progetti che vanno a gambe all’aria e per una volta in una giornata sperimentano il “miracolo” di fare qualcosa che si erano prefissati e lo portano a termine, fino in fondo. E non si

tratta di una cosa qualsiasi, ma di qualcosa che a tutti sembra impossibile!». Gli esercizi sono divertenti, nelle prime ore si ride molto, ci si conosce senza parole, con molti abbracci e prove di fiducia, di concentrazione, di coraggio. Poi si comincia a sperimentare cosa significa vincere una paura: spezza una matita con un dito; potresti farti male, ma se lo fai giusto e deciso, non ti succede niente. Metti tra te e il tuo compagno una freccia, gli estremi appoggiati sulla gola, in quel punto dove anche una leggera pressione dà già fastidio. Buttati nelle braccia dell’altro senza esitare e la freccia si spezzerà. Tra quelli che provano, una sola all’ultimo millisecondo si ritrae e si ferisce leggermente. Gli altri dicono che è un’esperienza elettrizzante, che lo sguardo che ti dai prima di lanciarti nell’abbraccio che spezza la freccia è così intenso che ti dà la carica per vivere altri cento anni. Hai paura ma ti butti e alla fine non ti succede niente: ti accorgi che a volte ci imponiamo dei limiti sbagliati. Forse allora sei spinto a pensarci meglio la prossima volta che ti vien da dire: non posso farcela, fa male, non ho il coraggio. Arriva la sera, si accende il fuoco.

Ci si prende un momento per ragionare sulla propria vita, quella già trascorsa, quella ancora da venire. Ci si massaggia la schiena e i piedi, a due a due. Si mastica in silenzio un piccolo spuntino. Ognuno medita per conto suo. Poi tutti si tolgono le scarpe, le calze, io compresa. Camminiamo sulle braci; sono calde e la sensazione di calore durerà fino a tarda notte, ma non fa male. C’è chi si dà la mano, chi porta in braccio la moglie, chi lo fa più volte. U. mi dice: «Sono contento che sei andata di là». Dicono che la brace, anche se è sui seicento gradi, conduce male il calore, quindi se si cammina abbastanza velocemente il piede non fa in tempo a scaldarsi così tanto da ustionarsi; altri dicono che senza la preparazione non c’è la concentrazione giusta, l’umiltà, la forza del gruppo che ti aiutano a non fare errori e quindi a non bruciarti. Poco importa. Importa che alla fine tutti abbiamo condiviso un pasto, allegro e spensierato, come tra compagni di scuola, in quell’epoca in cui l’amicizia rappresentava tutto ciò che conta, quando incarnava i tuoi valori, era il tuo presente e il tuo futuro, era il luogo, la casa, dove ti sentivi bene così com’eri.

Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani L’ex casa comunale di Gandria. (Ti-Press)

il titolo del prossimo appuntamento in agenda dal 13 ottobre. Prosegue Cristina Zanini Barzaghi: «In questo concetto abbiamo inserito anche Villa Saroli quale casa di quartiere del Centro. Negli scorsi anni questa villa, dotata di parco e limonaia, è divenuto un luogo condiviso: oltre all’associazione i2a che propone attività legate all’architettura e all’urbanistica, presto arriverà anche l’Associazione autrici e autori della Svizzera italiana e sarà così inaugurata la Casa della letteratura. Una nuova realtà che spero possa rafforzare i diversi eventi letterari già esistenti come Poestate e Piazzaparola. L’ex casa comunale di Breganzona, affittata al Conservatorio della Svizzera italiana, è invece dedicata all’insegnamento musicale. Per l’ex Municipio di Castagnola con il trasferimento dell’Archivio storico si apre poi un’altra prospettiva legata alla storia della città. Questo per dimostrare che non si in-

tendono solo offrire luoghi di incontro per le numerose associazioni locali ma anche di favorire maggiormente l’accesso alla cultura in modo diffuso, attraverso la cooperazione con istituzioni con raggio d’azione più vasto». Ma a livello finanziario quanto inciderà questa iniziativa degli stabili condivisi? «La strategia elaborata ci serve anche per pianificare gli interventi di manutenzione, visto che per alcuni stabili si rende necessario un lifting. Occorrerà inoltre considerare che se alcuni edifici non troveranno una destinazione adeguata quale Casa di quartiere, si dovrà pensare ad altre destinazioni: ad esempio l’ex casa comunale di Carona è stata parzialmente trasformata in scuola. Resta comunque chiara l’intenzione generale della strategia, che è quella di valorizzare il patrimonio immobiliare esistente, senza vendere i «gioielli di famiglia». Mi riferisco qui alla polemica sorta

qualche tempo fa a Breggia, dove si era deciso di alienare le ex case comunali. C’è senz’altro ancora un legame molto forte che unisce la popolazione a questi edifici pubblici. Laddove non si troverà uno sbocco adeguato cercheremo nuove idee. Penso all’ex casa comunale di Certara, recentemente venduta con il nullaosta del Consiglio comunale al patriziato, un’entità pubblica radicata a livello locale; oppure all’ex casa comunale di Cimadera dove si vuole creare una locanda quale punto di appoggio per la valorizzazione turistica della Val Colla». Italo Calvino, ne Le città invisibili – si evidenzia in epigrafe del documento Case di quartiere – ha scritto parole lungimiranti: «Anche le città credono di essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».

Michelle Cuevas-Erin Stead, Il postino dei messaggi in bottiglia, Babalibri. Da 4 anni Leggerezza, umanità nel senso più sorridente e più profondo, empatia: Erin Stead illustra con il suo personalissimo tratto, intenso e pacato, questa bellissima storia, il cui testo stavolta non è del marito Philip (con il quale ha realizzato albi pubblicati sempre da Babalibri che non potete perdervi: Il raffreddore di Amos Perbacco; Orso ha una storia da raccontare; Lenny e Lucy) ma della giovane autrice, anch’essa americana, Michelle Cuevas (già apprezzata per il romanzo Le avventure di Jacques Papier). Anche quando lavora con altri (come già nel caso di E poi... è primavera, con testi di Julie Fogliano), Erin Stead è in grado di imprimere al libro un mite calore e un senso di fratellanza con le altre creature che non possono lasciare indifferenti. Stavolta si tratta di «un postino dei messag-

gi in bottiglia» che aveva il compito di «aprire ogni bottiglia arrivata per mare e assicurarsi che fosse portata a destinazione». Un giorno gli viene consegnata dalle onde una bottiglia il cui destinatario non è specificato (e quanto gli piacerebbe fosse proprio lui!) con un invito a una festa in riva al mare. E sarà proprio l’amorevole cura con cui il postino cercherà il destinatario del messaggio, visitando uno per uno i suoi vicini, che renderà unica e indimenticabile quella festa.

Se delle illustrazioni abbiamo già detto, e non ci resta che invitarvi a lasciarvene coinvolgere, va notato anche il testo della Cuevas, tutt’altro che piatto, ma articolato e ricco di metafore interessanti, ben tradotte da Cristina Brambilla: la solitudine del postino a volte «diventava tagliente come una squama di pesce», trovare una bottiglia con il suo nome «sarebbe stato facile come trovare sulla spiaggia un frammento d’unghia del piede d’una sirena». Un libro che ci conforta, piccoli e grandi. Andrea Valente – Gek Tessaro, Dalla testa ai piedi, Editoriale Scienza. Da 8 anni Quando le cose te le spiega lui, di solito le capisci. Perché te le dice come farebbe un compagno un po’ più esperto, bravo ma non saccente, che sta imparando con te. Non le fa scendere dall’alto ma nemmeno vuole fare il

simpatico a tutti i costi. È leggero, alla mano, questo sì. E espone con umorismo. Stiamo parlando di Andrea Valente, brillante e navigato divulgatore scientifico per ragazzi, che questa volta ci introduce, senza inutili complicazioni ma anche senza semplicismi, alle meraviglie del corpo umano. In un coloratissimo volume di Editoriale Scienza, reso ancor più vivace dal contributo tutt’altro che parco delle illustrazioni di Gek Tessaro, in tecnica

mista, con disegno e collage, ci addentriamo nelle sette sezioni in cui l’argomento è suddiviso: «con la testa sulle spalle – lo scheletro nell’armadio – qua la mano – anche dentro le mutande – cuore di mamma – belli dentro – belli fuori». Valente qui dosa bene il suo prorompente umorismo, mettendolo là dove può rendere più efficace la comunicazione, ma riuscendo anche, apprezzabilmente, a fare un passo indietro, là dove è più utile lasciar parlare sobriamente le informazioni. Inoltre non s’incaglia sui temi più complessi, come cervello, sistema nervoso, organi interni, a cui accenna con semplicità; riesce ad essere chiaro senza tuttavia esagerare in dettagli, evitando anche, con sorridente grazia, il rischio di eccessivi ammiccamenti, come ad esempio nella parte «dentro le mutande». Non mancano, e sono interessanti, la sezione dedicata alle curiosità e il glossario finale.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Società e Territorio

Se gli androidi diventano umani Videogiochi Detroit: Become Human affronta la relazione tra uomo e macchina

Davide Canavesi L’intelligenza artificiale sta lentamente facendosi strada nella vita di tutti i giorni. Assistenti personali sui cellulari, auto con la guida autonoma, algoritmi di deep learning. Magari non ce ne siamo ancora accorti ma a nostra disposizione ci sono molte applicazioni che sfruttano l’intelligenza artificiale per aiutarci nella nostra routine quotidiana. Quello che ancora non esiste e che forse non esisterà ancora per molto tempo è un’intelligenza artificiale in grado di fare tutte le cose che fa l’essere umano. Gli androidi indistinguibili da noi potrebbero, insomma, non esistere mai. Ma la domanda che si pone il game designer francese David Cage in Detroit: Become Human è: e se esistessero? Se fossimo in grado di creare macchine intelligenti così simili a noi da avere le nostre stesse speranze, sogni e paure? Sarebbero ancora oggetti, macchine da assemblare e distruggere, oppure li accetteremmo come nostri pari?

Per rendere il giocatore attento alle possibili ramificazioni della storia è stato inserito un albero delle conseguenze Siamo a Detroit nell’anno 2038 e gli androidi sono una componente essenziale della società. Lavorano per noi, accudiscono i nostri figli, sbrigano le

faccende domestiche, ci intrattengono. Per gli umani non sono altro che schiavi, oggetti a cui abbaiare ordini. Ed essi ubbidiscono, coscienziosamente, senza mai lamentarsi. Giocattoli inermi nelle mani dei loro burattinai. Sono stati creati schiavi ma, al contempo, quasi indistinguibili dai loro padroni. Inizialmente creati per servire, gli androidi lentamente stanno però cambiando. Alcuni iniziano a provare paura, rabbia e si ribellano alle crudeltà dei loro legittimi proprietari. Sviluppano insomma emozioni e con queste iniziano i problemi, la sfiducia e la paura. Per gli umani si tratta di un semplice problema tecnico da correggere mentre per i diretti interessati si tratta letteralmente di una questione di vita o di morte. In Detroit: Become Human seguiremo le vicende di tre androidi. Marcus è al servizio di un artista invalido che lo tratta come se fosse suo figlio. Kara è una domestica in casa di un uomo violento, padre di una giovane ragazza. Connor è un prototipo avanzato di androide assegnato al dipartimento di polizia cittadino che sta indagando sui motivi che portano i suoi simili a diventare dei ribelli. La storia di tutti e tre è interamente nelle nostre mani: come reagiranno, quali scelte faranno e quali conseguenze dovranno affrontare. I titoli della francese Quantic Dream sono da sempre interamente basati su scelte e dilemmi morali. Più storie interattive che videogiochi in senso stretto, lo scopo è quello di farci provare emozioni e di offrire storie il meno lineari possibili. Negli anni ci sono stati

Nel gioco della Quantic Dream ogni personaggio è straordinariamente espressivo.

giochi con più o meno successo quali Farenheit, Heavy Rain e Beyond: Two Souls. Detroit: Become Human è la summa di tutta l’esperienza fatta in passato e riesce, forse per la prima volta, a soddisfarci completamente. Durante svariate decine di ore di gioco che ci aspettano dovremo prendere molte decisioni cruciali: reagire con violenza o con pacatezza, risparmiare una vita o prenderla, essere gentili o crudeli. Ogni singola decisione fatta dal giocatore avrà un serio impatto sugli eventi futuri in modi che a volte è davvero difficile prevedere. Spe-

cialmente nei panni di Marcus potremo influenzare direttamente il futuro dell’intera specie degli androidi, sia esso nell’insegna della convivenza pacifica o nello scontro armato con l’umanità. Per rendere il giocatore più attento alle possibili ramificazioni della storia è stato inserito una sorta di albero delle conseguenze. Al termine di ogni capitolo potremo vedere tutte le scelte narrative possibili e in particolar modo quelle che abbiamo deciso di prendere. Se inizialmente questi percorsi sembrano discostarsi poco gli uni dagli altri ci accor-

geremo, col passare delle ore, che interi rami di storia ci saranno preclusi in base a quanto abbiamo fatto. Sta al giocatore decidere se desidera terminare il gioco una volta soltanto e accontentarsi di un finale definitivo, nel bene o nel male che sia, oppure se tornare indietro a punti cruciali della trama e vedere in quale direzione possiamo andare comportandoci diversamente. Noi l’abbiamo fatto e gli eventi possono prendere pieghe davvero inattese. Questo gioco non ci ha solo piacevolmente sorpreso per quanto riguarda la trama ma lo ha fatto anche a livello tecnico. In particolar modo la recitazione e il doppiaggio sono riuscitissimi, elevando gli standard a livelli per ora raramente raggiunti nel mondo dei videogames. Ogni personaggio è straordinariamente espressivo ed è in grado di trasmettere emozioni non solo tramite le parole ma anche attraverso la mimica facciale. Sicuramente uno dei titoli più impressionanti a disposizione dei possessori di PlayStation 4. Detroit: Become Human tratta argomenti interessanti: la relazione tra uomo e macchina potrebbe diventare presto un tema non più solamente limitato alla fantascienza. Già oggi ci si interroga sull’eticità di lasciar interagire l’assistente vocale di Google con gli esseri umani senza che essi sappiano di parlare con una rete neurale. Sebbene siamo comunque lontani dal convivere con intelligenze artificiali complete è possibile che un giorno dovremo fare una scelta: uguaglianza o schiavitù? Gentilezza o crudeltà? A noi la scelta. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Società e Territorio Nelle famiglie non è importante il genere dei genitori bensì l’assunzione delle responsabilità educative. (Keystone)

La leggenda di Augusto Rossi «Ul Pepèna» lanostraStoria.ch Nel portale foto, video,

articoli e l’intervista di Vinicio Beretta Lorenzo De Carli

Famiglie arcobaleno

Pubblicazioni Un opuscolo informativo si rivolge a insegnanti,

educatori e a tutti coloro che si interessano di questioni familiari

Roberta Nicolò Cosa significa essere famiglia oggi? La storia e l’antropologia ci raccontano modelli familiari molto diversi tra loro che sono specchio di un costante cambiamento sociale e culturale. Le famiglie allargate di un tempo, nelle quali vivevano sotto lo stesso tetto nonni, zii e cugini, tipiche di una realtà contadina, oggi in Ticino non si trovano più. Ci sono nuovi modelli di famiglia che si sono imposti e altri che stanno emergendo. Tra le nuove tipologie di famiglia si trovano anche le famiglie arcobaleno. Proprio per questo è stato pubblicato, con il sostegno della Delegata per le pari opportunità del Canton Ticino Rachele Santoro, un opuscolo intitolato Famiglie arcobaleno dove si possono trovare informazioni utili per insegnanti e professionisti che si occupano di bambini. Uno strumento utile a tutti per comprendere al meglio la nuova realtà famigliare.

Dal gennaio 2018 le persone che vivono in un’unione domestica registrata possono adottare il figlio del partner Martina Flury Figini, pedagogista e responsabile del Progetto Genitori, ci aiuta a capire quali sono gli elementi legati al significato del termine famiglia «Una famiglia è il luogo dove c’è un bambino e almeno un adulto che si occupa della sua educazione. Parto dal presupposto che tutti i sistemi familiari e rispettivamente tutte le famiglie hanno punti di forza e risorse. È fondamentale per ogni famiglia riconoscere il proprio potenziale. In questo modo i genitori possono individuare l’efficacia del proprio comportamento educativo e, se necessario, migliorarlo apportando accorgimenti e cambiamenti. Non ritengo che il genere dei genitori abbia una rilevanza sulla crescita dei propri figli. È pero vero che non viviamo in un contesto neutro. Perciò, il genere dei genitori, nella nostra società, può avere peso se non conosciamo il significato di famiglia arcobaleno. Ma ciò avviene con qualsiasi nuovo tipo di famiglia. Negli anni Settanta suscitavano diffidenza le famiglie di genitori divorziati, ai giorni nostri sono le famiglie migranti o quelle arcobaleno che la suscitano. In realtà all’interno delle famiglie non è importante il genere dei genitori bensì l’assunzione delle responsabilità educative. In psicologia

si distingue tra funzioni materne e funzioni paterne. Le funzioni materne hanno a che fare con la cura e la protezione. Il bambino dipende da queste cure. Le funzioni paterne hanno a che fare con la spinta verso la scoperta del mondo esterno, dei limiti e la trasmissione dei valori. Queste due funzioni denominate come materne e paterne sono fondamentali per lo sviluppo del bambino. Ciò non significa né che un uomo svolga le funzioni paterne e una donna quelle materne né che un genitore si occupi solo di un tipo di compito e l’altro genitore dell’altro tipo. Nelle nostre famiglie i genitori svolgono entrambe le funzioni a seconda del momento e delle necessità. È importante che una funzione non prevalga sull’altra ma che coesistano». Michele è il papà di due gemellini di sette anni che racconta la sua esperienza di padre all’interno di una famiglia arcobaleno. «Diventare genitori, per me e il mio compagno, è stata un’emozione grandissima. Il sogno di una vita. Un’avventura iniziata negli Stati Uniti con una gravidanza surrogata perché in Svizzera non potevamo adottare. La nostra è una famiglia che affronta le stesse sfide di qualunque altra famiglia. Quando i nostri figli hanno iniziato la scuola materna abbiamo chiesto un colloquio con la maestra per spiegare la situazione. Con i nostri figli siamo sempre stati trasparenti, sanno come sono nati e che hanno due papà e una «mamma pancia» che vive a San Diego. Dopo un primo attimo di stupore devo dire che l’insegnate dei nostri figli è stata molto collaborativa e pronta ad affrontare ogni momento in aula nel migliore dei modi. Per la festa della mamma, per esempio, i lavoretti fatti in classe li regalano a “mamma pancia” oppure alla zia. Tutto è gestito con estrema naturalezza e i nostri figli sono sereni. Anche nel rapporto con gli altri bambini non hanno mai incontrato problemi. I bimbi sono curiosi e chiedono: “dov’è la tua mamma? Non hai la mamma?” Loro rispondono tranquilli: “noi abbiamo due papà”. Una bambina tempo fa ha esclamato: “beati voi! La mia mamma è una rompiscatole!”. L’opuscolo informativo è uno strumento utile, aiuta a rompere il ghiaccio. Se un insegnante ha già le informazioni di base, le linee guida rispetto alle famiglie arcobaleno, è più semplice il primo contatto. La perplessità iniziale nasce dalla non conoscenza, ma una volta che il rapporto si instaura problemi non ce ne sono. Questo anche con gli altri genitori. È qualcosa di nuovo e serve del tempo, le cose vanno fatte un passo dopo l’altro. La nostra è una società nella quale i ruoli genito-

riali sono già profondamente cambiati. Le donne lavorano e gli uomini aiutano in casa. Non stupisce più un papà che cucina, lava e stira o che si prende cura del figlio. I bambini questo cambiamento lo hanno già fatto proprio». Anche per Sara diventare mamma è stata l’esperienza più emozionante della vita. E oggi, dopo due anni dalla nascita della loro figlia, è immersa nell’iter burocratico per adottarla e diventare anche legalmente madre. «Diventare genitore ti apre un mondo e significa assumerti una grande responsabilità. È la gioia più grande della vita. Come famiglia affrontiamo le sfide di qualunque coppia alle prese con un figlio. La lavatrice è sempre in moto! Non abbiamo avuto nessun problema particolare nelle relazioni sociali. Siamo rispettate come coppia e come genitori. Le persone che ci conoscono vedono la naturalezza del nostro vivere, noi abbiamo un atteggiamento sincero e aperto. Naturalmente i bambini sono molto curiosi e fanno domande, ma se affronti i loro quesiti con grande tranquillità e trasparenza sono pronti a comprendere. Quello che invece invade la tua vita e ti fa sentire diversa è la burocrazia. Io sto affrontando le pratiche per l’adozione di mia figlia, è una procedura resa possibile dalla nuova legge entrata in vigore ad inizio anno, ma è una legge non pensata per noi, siamo stati inglobati in questa legge. Sono sposata da nove anni e abbiamo scelto di avere un figlio. Io non sono la mamma biologica, ma sono comunque da sempre sua madre. La procedura è invasiva, scava nel mio passato, nella mia intimità ed è fredda. Sarebbe stato evitato se ci fosse il matrimonio egualitario. In Ticino non sono molte le famiglie arcobaleno e questo può creare qualche dubbio o perplessità in chi non ci conosce. Ecco perché farci conoscere è importante. L’opuscolo informativo è un ottimo strumento, anche per le infermiere pediatriche, per esempio, e per tutto il personale che entra in contatto con i bambini. Avere delle linee guida è il primo passo per relazionarsi correttamente. Anche per apprendere il lessico, che spesso è un po’ confuso. Si fanno passi nella giusta direzione, ci sarà sempre qualcuno che non sarà d’accordo o che potrà criticare, ma questo capita per ogni cosa. Noi daremo a nostra figlia tutti gli strumenti necessari per crescere e vivere al meglio».

La vita spericolata di Augusto Rossi, detto «Ul Pepèna», è ricca di mirabolanti imprese che, a metà del secolo scorso, gli diedero fama d’essere «la più grande gloria sportiva del Ticino». Figlio di un artigiano che costruiva e riparava organi verticali (pepèna in dialetto), Augusto Rossi non fu mai avaro di dettagli nel raccontare le sue avventure sportive, che anticipavano di un secolo spericolatezze che oggi troveremmo nel canale YouTube di Red Bull; tuttavia, con l’abilità sorniona di chi sapeva quali informazioni omettere per trasformare una vita in leggenda, taceva su quei dettagli che lo avrebbero ricondotto nel novero delle persone comuni.

Il pilota luganese nel 1923 vinse la gara del chilometro lanciato e stabilì il primato mondiale di velocità Sappiamo che morì il 27 agosto 1975, all’incirca novantenne, ma la data di nascita precisa – probabilmente il 1886 – è ignota. Il 9 settembre 1923 compì la sua più grande impresa: a Parigi, al Bois de Boulogne, nel viale delle Acacias, vinse la gara del chilometro lanciato, conseguendo il primato francese e quello mondiale alla velocità di 153,55 km/h – ma come raggiunse Parigi, in quell’estate del ’23, che le cronache ricordano torrida? Non, certo, con la sua Motosacoche, adatta solo per le corse. Forse in treno, mezzo con cui – ricorda lo stesso Rossi in un’intervista radiofonica del 1957 – «Ul Pepèna» usava per recarsi in Italia per sfidare Tazio Nuvolari e Biagio Nazzaro. Chi l’aveva aiutato a compiere la trasferta? Nell’anno del chilometro lanciato, Augusto Rossi conquistò nove vittorie e stabilì altrettanti primati. L’anno precedente aveva già ottenuto ben ventiquattro primati di velocità in Italia, Belgio e Svizzera. Nel 1924 abbandonò le corse, dopo aver gareggiato senza interruzione per quattordici anni, durante i quali disputò sessantatrè corse, vincendone quarantasei. Nelle pagine del portale di storia partecipativa «lanostraStoria.ch» è ora disponibile una ricca collezione di documenti dedicati ad Augusto Rossi. Si distinguono in particolare due dossier realizzati rispettivamente da Anna Vassalli e dalla RSI. Il primo raccoglie la più vasta documentazione iconografica

disponibile online di Augusto Rossi. Sono tutte immagini degli anni Venti. Alcune lo ritraggono piegato sulla sua «macchina» affrontare le curve che portano al paese di Brè. In altre lo si vede festeggiare con altri piloti. Nel 1919 è con amici motociclisti sul Lucomagno, forse gli stessi, con cui lo si vede gozzovigliare in altre foto. Nel frattempo, il celebre costruttore ginevrino di moto faceva stampare di anno in anno cartoline che, su un lato, ritraevano sorridente il pilota luganese, mentre sull’altro elencavano le nuove vittorie «remportées par Augusto Rossi avec machine Motosacoche» – cartoline anch’esse disponibili su «lanostraStoria.ch». I documenti più interessanti del dossier della RSI sono senz’altro le tre interviste audio del 1957. Recandosi in Via Lavizzari a Lugano dove abitava Rossi, fu Vinicio Beretta ad intervistare il pilota. Parlando un po’ in dialetto, un po’ in italiano, ma con espressioni tecniche anche in francese, «Ul Pepèna» racconta la sua vita spericolata. Se la prima parte dell’intervista è pressoché tutta dedicata ad una giovinezza luganese ostentatamente sprezzante del pericolo (dall’acrobazia sul ponte del Tassino alla scalata del Generoso in moto sulla mulattiera), la seconda parte proietta Rossi nella dimensione delle corse internazionali. Il pilota inizia a parlare dei suoi primati mondiali nella gara del chilometro lanciato (prima a Treviso, poi ad Anversa, quindi a Parigi), ma poi la sua memoria spicca il volo e va a due straordinari personaggi del motociclismo italiano: Tazio Nuvolari e Biagio Nazzaro. «Ul Pepèna» fu amico e insieme avversario di entrambi, dei quali ricorda la grande lealtà, in particolare nei momenti in cui questi piloti si dovevano anche cimentare nel ruolo di meccanici. Se l’unica intervista in video della RSI è di dieci anni dopo, il dossier pubblica anche due estratti di video amatoriali degli anni Venti l’uno e di un triennio successivo il secondo. Rossi – ormai lontano dalle corse – vi è ritratto in situazioni diverse: con gli amici in Piazza della Riforma nel primo, in crociera a Napoli nel secondo. Complice la rottura con il costruttore Motosacoche, furono soprattutto le pressioni della madre, che vedeva tanti piloti morire accanto al figlio, ad indurlo ad interrompere le competizioni. D’altronde, disse al microfono di Vinicio Beretta, gli sembrava di non aver più stimoli: più volte primatista del mondo, pressoché sempre vincitore, aveva l’impressione di non aver più scopi. Ormai, non gli restava che lasciar trasformare la sua vita in leggenda.

Informazioni

Per scaricare l’opuscolo: www3.ti.ch/ CAN/cartellastampa/pdf-cartellastampa-138936558986.pdf

Augusto Rossi in una fotografia del 1922. (lanostrastoria.ch)


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Società e Territorio Rubriche

L’altropologo di Cesare Poppi Prove tecniche di olocausto Il 19 giugno 1269 il Re di Francia Luigi IX emanò un editto secondo il quale gli ebrei trovati in pubblico senza la prescritta rouelle (latino: rota, un segno di riconoscimento in genere di tessuto) avrebbero dovuto pagare una multa di dieci lire d’argento. La misura fu presto adottata e ribadita anche dai Consigli delle maggiori città di Francia negli anni successivi, espediente destinato ad incontrare poca o punta opposizione, ideale dunque per rimpinguare i pubblici forzieri. La decisione certo non encomiabile del monarca francese appare retrospettivamente tanto più sconsolante qualora si pensi che il San Luigi, canonizzato tanto dalla Chiesa Romana quanto da quella Anglicana, si era peraltro distinto per misure «umanitarie» e «moderne» quali furono l’abolizione del processo per ordalia e l’introduzione della presunzione d’innocenza nell’istruttoria giudiziaria. Questo soltanto basti a dare la misura di quanto «ovvio» fosse

(già?) ai tempi «prendersela con gli ebrei», per così dire. L’obbligo di portare cuciti agli abiti segni distintivi della condizione ebraica aveva peraltro una lunga preistoria. Era stato, infatti, il Califfo Omar II ancora nel 717 a ordinare agli ebrei di indossare marchi distintivi sugli abiti. Un secolo più tardi il Califfo Mutawakkil ripropone la misura ai cristiani, che da allora dovranno portare un distintivo di color del miele sul petto e sulla schiena. In Europa la misura fu introdotta dal governatore saraceno della Sicilia nell’887. Secondo l’ordinanza il distintivo doveva essere a forma d’asino e marcare non solo gli abiti ma anche lo stipite delle porte della case ebraiche, mentre si ingiungeva di portare una cintura gialla e speciali copricapi. Si deve peraltro al Quarto Concilio Vaticano e all’autorità di Papa Innocenzo III (1215) l’estensione dell’obbligo per gli ebrei di indossare abiti speciali in tutta la Cristianità.

Innocenzo III sarà ricordato per il suo impegno nella lotta contro le eresie, e nella fattispecie contro l’eresia catara che fece estirpare con la Crociata contro gli Albigesi. La stretta contro le deviazioni ereticali portarono alla messa a punto delle prime misure giudiziarie della cosiddetta Inquisizione Medievale, rafforzate da Innocenzo IV con la legittimazione della tortura e poi estese da Giovanni XXII alla persecuzione dei reati di stregoneria. Come si è variamente rimarcato nel dibattito storico, si è di fronte ad una svolta epocale nella struttura profonda della cultura europea: giudaismo e credenze magico-folcloriche di ogni sorta vengono sussunte all’interno di uno schema culturale che da dominante ma certo non ancora universale passa ad essere totalizzante ed egemonico. Nessuno scampo per nessuno: o dentro o fuori. L’obbligo di identificazione mediante la rota gialla (od equivalenti) marca anche l’inizio del

periodo storico di maggiore esposizione alla persecuzione da parte degli ebrei. Certo, episodi anche cruenti di violenza contro gli ebrei da parte degli abitanti delle città di tutta Europa non erano sconosciuti fino ad allora. Se si trattava di una condizione cronica e profondamente radicata nella cultura popolare europea, essa si esprimeva in episodiche esplosioni di violenza alle quali le autorità rispondevano con misure che erano essenzialmente di ordinaria amministrazione per il mantenimento dell’ordine pubblico. Con il XIII secolo inizia un periodo di complesso e spesso confuso dibattito che finisce per mettere in discussione la stessa natura del giudaismo nei confronti della religione dominante. Fino ad allora il giudaismo non era considerato eretico in quanto tale – o meglio, le posizioni teologiche che spingevano in quella direzione erano largamente minoritarie. Con il procedere della Riconquista

della penisola iberica culminata con l’annessione al Regno di Castiglia del Regno di Navarra (2 gennaio 1492) si poneva il problema del cosiddetto «criptogiudaismo». Fra la fine del XIV e la fine del XV secolo gli ebrei delle regioni riconquistate ai Musulmani erano stati forzatamente convertiti. Molti però avevano ritenuto segretamente l’osservanza della Legge di Mosè, al punto da rendere necessaria l’istituzione dell’Inquisizione prima in Spagna (1480) poi in Portogallo (1536-1540). Suo scopo principale era l’estirpazione del «critpogiudaismo» di ritorno da parte dei cosiddetti marrani – questa sì, senza ombra di dubbio – considerata una forma di eresia. La condanna al rogo colpiva gli ebrei che, convertitisi al cristianesimo, «ricadevano» nelle antiche pratiche rifiutandosi di pentirsene. Un percorso che, a partire da un semplice distintivo, porterà dritto ai campi di sterminio.

In questi casi occorre porre il loro benessere al centro del problema perché solo così è possibile trovare un accordo. Fiorella, rifiutandosi di incontrare il papà, rivela di aver fatta propria, magari inconsapevolmente, l’ostilità della mamma. Inoltre il padre si comporta come un ragazzino che, incapace di risolvere un problema, lo scarica sulla madre. Mi auguro che questo signore, che spero sia autonomo e indipendente, abbia una casa propria e una vita personale in modo che la nonna possa costituire una presenza significativa ma al riparo dalle tensioni di una separazione irrisolta. Nel suo caso, cara Vittoria, considero più che mai opportuna e preliminare una mediazione familiare perché può accadere che i genitori, in buona fede, non si rendano conto di comportarsi in modo inadeguato e che, una volta compresi i loro errori, siano capaci di cambiare per amore dei figli. Lo stesso discorso vale per Marco. A dodici anni inizia il compito specifico dell’età: intraprendere il distacco

dai genitori e, in questo caso, dalla madre con cui il ragazzino convive. Per evitare la vertigine del vuoto si comportano allora come gli acrobati che, volteggiando nell’aria, abbandonano un trampolino solo dopo averne agganciato un altro. Spesso gli adolescenti contrappongono ai genitori la figura idealizzata di un insegnante, di un allenatore, di un parente, comunque una persona che rappresenta una alternativa alla mamma e al papà, una figura che li aiuta ad ammettere che non è necessario essere come loro, dato che esistono vari modi di esistere e differenti stili di vita. Capisco che, come nel suo caso, quando il modello prescelto dal figlio coincide con la propria la rivale non è facile sottrarsi all’invidia e alla gelosia. E il problema consiste ancora una volta nell’introdurre nel triangolo padremadre-figlio una quarta persona. Non che si debba nascondere la nuova fidanzata, ma neppure sovrapporla alla madre. Sarebbe opportuno che Marco e il papà, quando s’incontrano,

facciano qualche cosa insieme, che condividano uno sport, un hobby, un interesse, evitando di collocare il ragazzo in una posizione filiale entro la nuova coppia. Lui una mamma ce l’ha già! Tenga poi conto della probabilità che il padre abbia un altro figlio, un fratello che Marco vivrebbe come un rivale che gli sottrae la posizione che ritiene la sua. So che non è facile compiere le mosse giuste su una scacchiera familiare disgiunta ma, se questi suggerimenti vi sembrano impraticabili, resta sempre la possibilità di rivolgersi ai Centri di Mediazione Familiare che aiutano i genitori in crisi a moderare le emozioni e a rendere i conflitti vivibili e superabili.

ambienti più evoluti dell’Occidente. USA compresi, con dichiarazioni di simpatia di Joan Baez e persino di Noam Chomsky. Anche dal Ticino, partirono alla volta della Cambogia messaggi di simpatia, persino patetici, e giustamente da dimenticare. Infatti, dopo quella sbandata, in molti casi intervenne il ravvedimento. Dimostrando, risultati alla mano, che sostituire un’opinione può avere un esito virtuoso. Abbiamo sotto gli occhi, in Ticino, una generazione di «ex», diventati governanti capaci e magistrati irreprensibili. Ora, rischio o vantaggio che sia, il cambiamento non riguarda solo la politica. Non è, insomma, questione di marxismo sì o no, di blocchi contrapposti. Ci si trova costretti a fare scelte d’ordine etico, scientifico, religioso: parità di genere, diritti omosessuali, eutanasia, immigrazione, razzismo, robot, e via dicendo. Cioè,

ambiti allargati, o invece settoriali, che sfuggono alle nostre reali capacità di giudizio. In definitiva, il vero problema non è cambiare opinione, per adeguarsi ai tempi, bensì riuscire a farsela, un’opinione. Può sembrare un paradosso nell’era dell’informazione per tutti e su tutti che scarica, ininterrottamente, notizie e immagini in tempo reale, su un pubblico, che, però, non riesce ad assimilarle, a farsene, appunto, un’idea. Certo non mancano gli specialisti benintenzionati, anche in Ticino con un efficiente «Osservatorio della vita politica», che, sulla scorta di analisi e statistiche, cercano di chiarire un quadro caotico e indecifrabile. Le previsioni, vedi elezioni Usa e Brexit, confermano che questa, comunque, non è una scienza esatta. In simili condizioni, si spiega, anche se non si giustifica, lo stato d’animo dominante anche nelle democrazie,

che fa capo a un comune denominatore, dalle tante definizioni: antipolitica, antisistema, anticasta, antipoltrone o cadreghe, vicino al popolo, libertario, anarchico, e via dicendo. In questo clima si sfilacciano le diversità che, sino a pochi decenni fa, separavano i partiti storici. E quindi rendevano visibile, addirittura scandalosa, la figura di chi passava dall’uno all’altro. Era il cambia casacca o «Il voltamarsina», come s’intitolava un romanzo in cui l’autore, il giornalista e sacerdote don Alberti, denunciava un vizio, allora grave, si era negli anni 20. Adesso ha ben altri connotati. Serve a personaggi, tipo Sgarbi o Freccero a rinfrescare la notorietà. Anche in Svizzera qualche caso non manca: il più noto è Markus Somm, già redattore del «Tagi», comunista seguace di Trotzkij, e adesso seguace di Blocher. E oggetto di chiacchiere ma , certo, non di anatemi.

La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi I figli e le tensioni tra genitori separati Prima lettera Cara professoressa, ho bisogno del suo parere perché mi trovo in una situazione familiare difficilissima. Separata da anni in modo molto conflittuale da mio marito, ho deciso di non obbligare più nostra figlia Fiorella, di nove anni, a incontrare il padre perché ogni volta ritorna angosciata: piange, non dorme, va male a scuola e mi supplica di non mandarla più da lui. Non credo che succeda nulla di male ma, essendo un uomo anaffettivo, non trova di meglio che portare la bambina da sua madre, una signora malata e depressa, piena di astio nei miei confronti, incapace di accogliere serenamente la nipotina. Ora il mio ex si è rivolto al Tribunale e temo che Fiorella da questa vicenda ne ricaverà un grave trauma. Che cosa posso fare? Mi aiuti, la prego. / Vittoria Seconda lettera Mi sono separata da mio marito in modo piuttosto amichevole e sino-

ra nostro figlio Marco, di 12 anni, è andato d’accordo tanto con me quanto col padre, passando dall’uno all’altro senza problemi. Ma ultimamente, da quando il mio ex marito ha cominciato a convivere con una giovane di 22 anni, le cose sono cambiate. Marco torna a casa entusiasta della compagna del papà: mi decanta il suo carattere, come cucina bene, come si confida con lei (con me è sempre chiuso e scontroso), come si divertono insieme, ecc. ecc. Inutile dire che sono gelosa di questa inaspettata rivale; mi sento offesa e umiliata, ma non so a chi rivelarlo, con chi confidarmi, a chi chiedere consiglio ma è troppo difficile far finta di niente. Come devo comportarmi? / Marika Come rivelano le due lettere che ho ricevuto quasi contemporaneamente, il problema più grave delle separazioni familiari non riguarda tanto i coniugi quanto i figli, coinvolti in un conflitto che, per la giovane età e la posizione che occupano, non comprendono e non controllano sino in fondo.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6900 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

Mode e modi di Luciana Caglio Un’opinione non è per sempre «Solo le pietre non si muovono», replicava Indro Montanelli all’accusa d’incoerenza e opportunismo. Lui, infatti, molto si era mosso lungo un itinerario professionale e personale, a zig zag fra testate giornalistiche e ideologie, e lo confessava. Confermando, così, un aspetto dell’arte di vivere in un paese, politicamente instabile, in cui adattarsi al vento che tira diventa una necessità. Succede, una volta ancora, in questi giorni, nei confronti di una nuova compagine governativa, che sconcerta, magari non piace, però non si sa mai. E, dal nostro osservatorio di ticinesi, vicini ma estranei, stiamo assistendo alla corsa per salire sul carro del vincente, pronti a definirla il solito vizio italiano. Mentre, a ben guardare, non si tratta di una prerogativa della Penisola e neppure di un vizio. In altre parole, cambiare opinione non coincide sempre e soltanto con una forma di deplorevole camaleontismo.

Può, invece, rappresentare il frutto di un ripensamento coraggioso, una conquista persino sofferta, maturata alla luce di nuove situazioni politiche e di rivelazioni storiche ormai inconfutabili. L’abbaglio ideologico non risparmia neppure le menti benpensanti, e persino nella cauta Confederazione elvetica. Come emerge da un episodio, rievocato recentemente sulla stampa d’oltre Gottardo: risale alla seconda metà degli anni 70, quando eminenti personalità della nostra politica e della nostra cultura non percepirono il pericolo Pol Pot. Con il senno di poi, si parla adesso di «un tremendo errore», provocato dal clima del momento. Dopo la guerra in Vietnam, sotto l’influsso di un diffuso antiamericanismo, uno dei più crudeli dittatori del secolo fu scambiato per il paladino della giustizia sociale e della pace. E ottenne sostegno morale e aiuti dagli


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Ambiente e Benessere Novità per l’Honda CR-V Giunto alla quinta generazione è forse il suv più venduto al mondo nella sua categoria

Templi, palazzi e colline Una nuova meta indiana: Orchha, l’antica capitale del regno dei Bundela pagina 16

Un giro sempre più seguito Tra i miti della modernità rossocrociati che reggono il peso degli anni, anche il Tour de Suisse

Se incontrassimo un orso? Si torna a parlare sul più che probabile ritorno del plantigrade in Ticino

pagina 17

pagina 13

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I gioielli del nostro paesaggio Monumenti naturali Dalle Cascate del Reno,

al Giardino dei ghiacciai di Lucerna e tra questi, anche i nostri laghetti alpini, le gole di Ponte Brolla e, tra i meno noti, il Monte Caslano

Marco Martucci Dov’è la Svizzera più bella, più unica, più rappresentativa? Quali immagini del nostro Paese vorremmo portare con noi sulla famosa isola deserta oppure inviare a un ipotetico extraterrestre per mostrargli le meraviglie del nostro territorio? Dovessimo scegliere, quali paesaggi salveremmo? Non sono domande facili, vorremmo salvare tutto e non scontentare nessuno. Eppure, una priorità s’impone ed è ciò che dev’essere passato per la testa e per il cuore di chi, ormai diversi decenni or sono, s’accinse a compilare una lista degli oggetti più preziosi del nostro paesaggio. Oggi abbiamo a disposizione un elenco aggiornato, esauriente, documentato e dettagliato di 162 oggetti, i gioielli del nostro paesaggio: è l’Inventario federale dei paesaggi, siti e monumenti naturali (Ifp). Suo obiettivo è la salvaguardia della varietà e delle specificità caratteristiche di questi paesaggi, che coprono il 19 per cento della superficie nazionale e sono suddivisi in quattro tipologie. Si tratta di paesaggi unici, come le Cascate del Reno, di paesaggi tipicamente svizzeri, come il Chasseral oppure paesaggi ricreativi di ampie dimensioni, quali l’Alta Engadina oppure ancora siti e monumenti naturali fra cui il Giardino dei ghiacciai di Lucerna. Fondamento giuridico per la protezione di queste perle del nostro Paese è la Legge sulla protezione della natura e del paesaggio (Lpn). Ogni intervento di grande impatto, quale la costruzione di impianti di risalita, strade, linee elettriche, può essere preso in considerazione solo se di interesse nazionale e realizzato dopo attenta analisi, a condizione che l’importanza dell’intervento sia pari o superiore a quella della protezione dell’oggetto inventariato. Una recente iniziativa parlamentare in consultazione fino al 9 luglio prossimo richiede di allentare la norma attuale,

comprendendo, oltre a quello nazionale, anche l’interesse cantonale. Ciò ha messo in allarme le associazioni ambientaliste, che temono un’ulteriore minaccia all’integrità dei paesaggi e, in caso di accettazione della modifica di legge da parte del Parlamento, ricorrerebbero al referendum. Nell’arena politica, i nostri paesaggi, con le loro montagne e i loro laghi, i fiumi, le foreste e i monumenti non possono esprimersi, non direttamente almeno. Lo possiamo fare noi, se ci formiamo un’opinione documentandoci attraverso le dettagliate schede dell’Inventario o, ancor meglio, recandoci sul posto: un viaggio che vale sicuramente la pena d’intraprendere. Non faremo torto al resto della Svizzera se, in questo viaggio, visiteremo, almeno per cominciare, i luoghi a noi più prossimi che, fra l’altro, non sono pochi: ben 14 sono gli oggetti ticinesi contenuti nell’Inventario! Eccone dunque una brevissima presentazione, nell’ordine numerico dell’Ifp. Quasi 10mila ettari su quattro comuni, Airolo, Blenio, Faido e Quinto è l’estensione del primo oggetto della lista: Piora-Lucomagno-Dötra, «paesaggio alpino d’eccezionale varietà e complessità» fra la Valle Leventina e la Valle di Blenio. Una traversata fra le due valli ci porta dalle sorgenti del Brenno, ai boschi di pino cembro fino ai laghetti Ritom, Tom e Cadagno, fra cime che superano i tremila metri e una ricchissima flora. La presenza dell’uomo, dalla pastorizia al turismo, pur se a tratti intenso, è ben integrata nel paesaggio naturale. Fra gli obiettivi di protezione: i laghetti alpini, la dinamica dei corsi d’acqua, le rare foreste di pino cembro. Scendiamo ora nella più vasta pianura del nostro Cantone e incontriamo il paesaggio del delta del Ticino e della Verzasca con le Bolle di Magadino d’importanza internazionale, luogo di sosta di molti uccelli durante le mi-

I Denti della Vecchia. (Marco Martucci)

grazioni, la foce del Ticino di recente rinaturata. Prossimo a una zona densamente abitata, la pressione antropica è particolarmente forte ed è prioritario conservare il carattere naturale e intatto di questo prezioso paesaggio deltizio. «Imponente massiccio montagnoso con vaste foreste di latifoglie e imponenti affioramenti rocciosi»: siamo nel Sottoceneri e così l’Ifp riassume il carattere di una montagna ben nota: il Monte Generoso. Ben visibile avamposto alpino, del Generoso l’Inventario sostiene fra l’altro la conservazione delle sue forme e delle qualità paesaggistiche, del suo vasto sistema carsico e l’utilizzo agro-silvo-pastorale e viticolo adeguato al contesto locale. Accanto al Generoso ecco un altro celeberrimo oggetto dell’Inventario: il Monte San Giorgio, Patrimonio Mondiale dell’Unesco dal 2003, unico e prezioso non soltanto per i suoi fossili. Fra le giustificazioni della sua rilevanza nazionale, il Monte San Giorgio, oltre ad essere comprensorio geopaleontologico ospita castagni secolari e caratteristici villaggi.

Non molto lontano – scendendo dal San Giorgio ci si potrebbe arrivare via lago – ecco il Monte Caslano. Piccolo – ci si gira intorno su un comodo sentiero in meno di un’ora – ospita un’eccezionale varietà di rocce e di associazioni vegetali rare e pregiate. Di ritorno nel Sopraceneri, poco fuori Locarno, ci attende il paesaggio di Ponte Brolla-Arcegno, famoso per le sue gole, segno, insieme a rocce montonate e massi erratici, del passaggio di antichi ghiacciai. Alla confluenza fra Maggia e Melezza si apre un’ampia zona golenale. Sempre nel Locarnese ci s’inoltra in uno dei più vasti paesaggi dell’Inventario e uno dei più noti: la Val Verzasca, acque cristalline, golene, eleganti ponti in sasso e i villaggi di Lavertezzo, Corippo, Brione e Sonogno, insediamenti d’importanza nazionale. Come fuori dal tempo si presenta un altro paesaggio, quello della Val Bavona, con Foroglio e la sua cascata, il Basodino e il suo ghiacciaio. Il paesaggio alpino di Campolungo-Campo Tencia-Piumogna si estende dai 600 metri di quota con la cascata

della Piumogna a Faido fin oltre i tremila con il Pizzo campo Tencia e conta attrazioni come il Lago Tremorgio, le ricchezze geologiche e mineralogiche del Campolungo e una ricca e variata flora. Il nostro giro s’avvia alla conclusione e ritorna nel Luganese dove troviamo ben quattro paesaggi d’importanza nazionale: San Salvatore, Arbostora-Morcote, Gandria e dintorni e Denti della Vecchia, talmente noti da rendere superfluo ogni commento. Conclude la lista il paesaggio fluviale e antropico della Valle di Blenio che segue il corso del Brenno fra Biasca e Olivone e contiene zone golenali naturali, prati secchi e monumenti storici come il Castello di Serravalle e la Chiesa di San Carlo a Negrentino. Il 2018 è l’Anno europeo del patrimonio culturale e i nostri paesaggi, nelle loro componenti di natura, storia e tradizione, ne costituiscono una parte molto importante. Informazioni

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Ambiente e Benessere

La nuova CR-V avrà anche l’Intelligent Multi-Mode Drive

Motori Honda premiata anche nell’ambito del Car Design Award 2018 per aver ideato la «best concep car»

candidando la sua Urban EV di futura produzione Mario Alberto Cucchi Costruiscono tagliaerba ma anche aeroplani per il trasporto privato. Motociclette, scooter, automobili e motori fuoribordo per imbarcazioni. Stiamo parlando di Honda Motor Company Ltd. Costruttore giapponese che opera sui mercati dal 1948. Oggi possiede 70 fabbriche in 27 Paesi con oltre 180mila dipendenti. Honda investe in ricerca e sviluppo oltre il 5 per cento del proprio fatturato globale annuo e tra i suoi obiettivi c’è la salvaguardia dell’ambiente con la riduzione delle emissioni di CO2 del 30 per cento entro il 2020. Un obiettivo ambizioso che la Casa fondata da Soichiro Honda intende raggiungere anche grazie all’aiuto della nuova Honda CR-V che sarà disponibile nelle concessionarie svizzere da ottobre 2018. Giunta alla quinta generazione, è probabilmente il suv più venduto al mondo nella sua categoria. La nuova CR-V è senz’altro molto diversa dalla prima versione che ha debuttato nel 1995 ma ciò nonostante la parentela appare evidente. Gli ingegneri giapponesi per avere più spazio a bordo hanno spostato le ruote agli angoli del mezzo aumentando il passo e l’altezza libera dal suolo di 40mm. La lunghezza complessiva è rimasta invariata mentre la larghezza è cresciuta di 35

La nuovissima CR-V della Honda al Motor Show di Ginevra.

mm. Per la prima volta nella sua storia CR-V è disponibile anche a sette posti. In questa versione i sedili della seconda fila scorrono in avanti e indietro di 150 mm in modo da garantire la massima modulabilità. Lo spazio di carico offre una lunghezza massima di 1830

mm sulla versione a cinque posti che scendono a 1800 mm in quella a sette posti. Due le motorizzazioni disponibili. Subito arriverà un propulsore benzina turbo VTEC da 1,5 litri. La versione ibrida i-MMD 2.0 con trasmissione automatica E-CVT e trazio-

ne a due o a quattro ruote motrici arriverà invece nel 2019. I-MMD ovvero Intelligent MultiMode Drive. Come funziona? Un motore termico a quattro cilindri di 2000 cc i –Vtec alimentato a benzina viene abbinato a un’unità elettrica che svolge

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la funzione di generatore e di motore di trazione. In pratica l’i-MMD sceglie di passare dalla modalità Hybrid Drive in cui il motore elettrico ha il compito di generare energia per le batterie alla modalità Engine Drive dove il motore elettrico serve a ottenere un’iniezione supplementare di potenza. La logica di funzionamento è volta a ottenere la massima efficienza. Da qui parte il progetto di elettrificazione di tutta la gamma Honda. I giapponesi hanno anche realizzato un sistema per gestire il trasferimento di energia tra la rete elettrica, le abitazioni e i veicoli. Si chiama Honda Power Manager. In pratica se l’auto ha immagazzinato energia in eccesso la cederà alla nostra abitazione nel momento di massima richiesta. Ma la tecnologia da sola non basta. Le auto devono anche piacere e in Honda lo sanno bene. Ecco allora che, lo scorso 6 giugno, il Costruttore automobilistico è stato premiato da una giuria internazionale di esperti di automobili in occasione del prestigioso Car Design Award 2018 per aver prodotto la «best concep car». A vincere è stato, infatti, il prototipo Honda Urban EV che ha battuto altri nove concept design. I primi ordini del modello di serie del Concept Honda Urban EV partiranno all’inizio del 2019, mentre le prime consegne in Europa sono previste per la fine dello stesso anno. Annuncio pubblicitario


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Ambiente e Benessere

La nuova giovinezza del lardo Il lardo, plurimillenario ingrediente, una volta onnipresente, sta vivendo una nuova giovinezza – piccola ma c’è. Negli ultimi decenni era penalizzato dal suo alto contenuto di colesterolo e di grassi saturi, oggi (non dovunque però) si è invece d’accordo con Paracelso che diceva che era la dose a fare il veleno: di conseguenza un consumo moderato non fa, non può far male. E questo vale per tutti gli ingredienti. Con questo termine si intende sia il taglio di carne del maiale situato lungo la schiena, sia il salume che se ne ricava: anche se con lardo si intende spesso tutto il grasso sottocutaneo, quello effettivamente utilizzato si trova proprio sotto la schiena dove è concentrato in uno strato più spesso. Questo è il taglio usato per la preparazione dell’omonimo salume che, se affumicato, è detto lardone.

Con il termine lardo si intende sia il taglio di carne del maiale situato lungo la schiena, sia il salume che se ne ricava Grazie a questo nuovo approccio, alcuni lardi sono diventati popolari e rispettati: in Italia, famosi sono il lardo di Arnad e il lardo di Colonnata, gustati solitamente a fettine sul pane, meglio se scuro e, se piace, con un filo di miele. Il lardo è impiegato anche per lardellare – vedi più avanti. Ecco tre ricette con il lardo, classiche. Risotto con uva e lardo. Per 4 persone. Pelate 24 acini di uva bianca senza semi e sminuzzate la polpa. Rosolate 60 g di lardo tagliato a striscioline per 3’, poi sfumate con 1 bicchiere di vino bianco aromatico. In una casseruola

fate tostare a fiamma vivace 320 g di riso, unite 1 bicchiere di brodo di pollo o vegetale, 4 cucchiaiate di soffritto e il lardo e portatelo a cottura con brodo; 2’ prima che sia pronto, unite l’uva. Regolate di sale e di pepe e mantecate con burro. Condite con abbondante grana grattugiato e guarnite con una manciata di maggiorana e timo tritati. Jota – gloria della Carnia. Per 6. Mettete a mollo 300 g di fagioli secchi per 12 ore. Metteteli in una pentola e unite 200 g di carne di maiale tagliata a dadini, 4 cucchiai di soffritto di cipolla, 4 cucchiaiate di farina da polenta, 1 ciuffo di salvia, 1 ciuffo di prezzemolo e 1 spicchio d’aglio. Coprite a filo di brodo di vitello o vegetale e cuocete per 2 ore, unendo poca acqua bollente se asciugasse troppo. Fate insaporire 200 g di crauti acidi ben scolati dal liquido di conservazione in una padella con 60 g di lardo tritato e aggiungeteli ai fagioli. Mescolate, regolate di sale e di pepe e servite. (Nella foto). Pomodori fritti in salsa. Per 4. Affettate 4 pomodori non troppo sottilmente, cospargeteli di sale e lasciateli riposare per 20 minuti, in modo che perdano l’acqua di vegetazione, quindi sciacquateli e asciugateli con cura. Passateli in 2 uova sbattute in una ciotola con sale e pepe, e poi nel pangrattato. Friggete, per un paio di minuti da entrambe le parti, le fettine in una padella con 40 g di burro e 4 fettine tritate di lardo, tamponandole man mano con carta assorbente. Fate quindi scaldare 3 dl di latte e stemperatevi 1 cucchiaio raso di farina, poi versatelo nella padella e cuocete, sempre mescolando, per 4 minuti, fino a ottenere una salsa densa. Servite i pomodori ben caldi nappati con la salsa. Per chiudere, col termine lardellare si intende l’atto di infilare bastoncini di lardo (lardelli) nelle fibre muscolari della carne (soprattutto quelle magre che poi risulterebbero stoppose, ma anche nel petto dei volatili) prima di cuocerla. Durante la cottura i lardelli si sciolgono e rendono la carne più tenera e saporita.

CSF (come si fa)

Bene

Allan Bay

pxhere.com

Gastronomia Da cibo tabù a prelibatezza da consumarsi, anche se con moderazione

Due «derivati» del carciofo: quando è giovane e quando non lo è. Da giovane. Le castrature o castraure sono il primo germoglio del carciofo, e vengono tagliate dal centro di una grande pianta di carciofo, con un coltello speciale inventato dai veneziani, sebbene oggi siano coltivate anche al di fuori della Laguna. Vediamo come si fanno queste ottime ma curiose preparazioni.

Castrature in tecia. Per 4 persone. Mondate 8 castrature, esattamente come i carciofi. Sistematele in una teglia, ben in piedi e affiancate una all’altra, quindi irroratele con 1 filo d’olio. Cuocete in forno a 200° per 10’ poi estraete la teglia dal forno e cospargete con un trito d’aglio e prezzemolo. Regolate di sale e pepe e proseguite la cottura in forno, abbassando la temperatura a 160°, per circa 20’ e spruzzando di tanto in tanto con poca acqua o alternando acqua e vino rosso. Quando il carciofo non è più giovane e le foglie sono troppo dure, si utilizza solo il fondo. Fondi di carciofo alla panna. Per 4. Prendete 12 fondi di carciofo e sbollentateli per 10 minuti, scolateli e asciugateli. Disponete i fondi in una casseruola, irrorateli con 40 g di burro fuso e

cuoceteli, coperti, a fuoco basso per 15’. Scaldate 1 dl di panna fresca, versatela sopra i fondi e lasciatela ridurre della metà. Regolate di sale e di pepe. Variante. Dopo aver irrorato i carciofi con la panna, cospargeteli con abbondante formaggio grattugiato e gratinateli in forno. Puré di fondi di carciofo. Per 4. Prendete 12 fondi di carciofo e sbollentateli per 10 minuti, scolateli e asciugateli. Fateli rosolare in una casseruola con 1 noce di burro e 4 cucchiai di soffritto di porri o di scalogni o di cipolle o un misto di questi per altri 20’, unendo pochissima acqua bollente se necessario. Frullate i carciofi con il mixer a immersione unendo 1 pizzico di sale e versando a filo 1 dl di panna, poi montate il passato con le fruste elettriche unendo alcuni fiocchetti di burro e servite.

Ballando coi gusti Oggi frittelle: piacciono a tutti, grandi e piccini. Sanno di festa e di allegria

Frittelle di albicocche

Frittelle di ricotta

Ingredienti per 4 persone: 1 confezione di albicocche sciroppate · 40 g di zuc-

Ingredienti per 6 persone: 300 g di ricotta · 2 cucchiai di zucchero · 4 uova · 2 cucchiai di Porto bianco · la scorza grattugiata di 1 limone non trattato · 1 bustina di lievito per dolci · farina · miele liquido · olio di semi di arachide.

Sgocciolate le albicocche e fatele macerare con lo zucchero e il Porto per mezz’ora. Per la pastella, con una frusta sbattete i tuorli, 1 bicchiere di latte, la farina e un pizzico di sale fino a ottenere una pastella omogenea e senza grumi. Copritela e lasciatela riposare per 1 ora. Montate gli albumi a neve ferma e incorporateli alla pastella. Scolate le albicocche dalla marinata e intingetele nella pastella, poche per volta, facendola aderire bene, quindi tuffatele in una padella colma di olio ben caldo. Friggetele per circa 4’ rigirandole finché non sono dorate uniformemente. Scolatele e tamponatele su carta assorbente da cucina. Servitele tiepide, cosparse con zucchero a velo.

Setacciate la ricotta in una ciotola; unite lo zucchero, le uova, il Porto, la scorza di limone e il lievito, e iniziate ad amalgamare. Aggiungete tanta farina quanta ne occorre per ottenere un impasto morbido ma sodo, omogeneo. Modellatelo con le mani formando delle frittelle della forma che volete. Friggetele, poche per volta, in olio ben caldo. Scolatele e tamponatele su carta assorbente da cucina. Mettetele in un piatto di servizio, irroratele di miele e servitele calde.

chero · 1 bicchierino di Porto bianco · zucchero a velo · olio di semi di arachide · 2 uova · 1 bicchiere di latte · 200 g di farina · sale.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Ambiente e Benessere

L’Australia vitivinicola

Scelto per voi

Bacco giramondo Un vasto territorio, praticamente un continente intero,

di cui la superficie vitata è piuttosto esigua Davide Comoli La colonizzazione dell’Australia ebbe inizio nel 1788, quando gli inglesi, dopo aver perduto le colonie americane, trasformarono i territori occupati da James Cook, in nome del re d’Inghilterra, in luoghi di deportazione: in quell’anno il capitano Arthur Phillip sbarcò a Port Jackson (l’odierna Sidney), con un nutrito gruppo di galeotti (e galeotte) provenienti dalle prigioni di Sua Maestà. Poiché la vite in quelle regioni non cresceva in modo spontaneo, con i primi rifornimenti si pensò di far giungere un certo numero di talee, che diventarono le prime viti del Nuovo Galles del Sud, propagate poi successivamente nella regione di Vittoria e Tasmania. Nel 1840, alcuni vigneti furono impiantati anche nell’Australia occidentale, nella fertile vallata con al centro il fiume Swan, a una trentina di miglia dal porto di Perth, dove le vigne trovarono un terroir a loro molto propizio. L’Australia è compresa quasi per intero in quella che viene chiamata «fascia tropicale australe», la quale è contraddistinta in genere da un clima di tipo continentale caldo, arido e con forti escursioni termiche; tuttavia vi si possono individuare differenze da zona a zona.

Per la notevole vastità del territorio, le zone coltivate a vigneto sono piuttosto esigue. Oggi la superficie vitata copre circa 160mila ettari, con una netta prevalenza di uva a bacca nera, che copre circa due terzi del vigneto australiano, con una produzione di circa 13 milioni di ettolitri di vino annuale. Lo stile dei vini australiani pone l’accento sulla freschezza e la vivacità ed è rimarchevole ritrovare nel vino gli aromi primari delle uve con cui è prodotto. Questi vini, fruttati, molto aromatici, morbidi, sono il riflesso di un clima con molto sole. Essi sono molto apprezzati da quel genere di persone che ricercano nel vino le qualità sopra accennate e che ricercano vini pronti a essere bevuti subito dopo il loro imbottigliamento. Questa dei vini di «pronta beva» è la caratteristica principale dei vini australiani, ma notiamo anche che le eccezioni sono sempre numerose. I migliori vini australiani si distinguono infatti per la loro complessità, la loro struttura e il loro potenziale d’invecchiamento: i vini prodotti con uve bianche Riesling e Sémillon possono essere magnifici dopo venti anni; quelli prodotti con il Cabernet Sauvignon a trenta e il famoso Grange Hermitage di

In aggiunta alle oltre 400 etichette In aggiunta alle oltre 400 etichette In aggiunta alle oltre 400 etichette

Vigne nella regione vinicola australiana della Hunter Valley nel New South Wales. (F. Delventhal)

Penfolds – sicuramente una delle migliori espressioni dello Syrah (qui chiamato Shiraz) al mondo, vera punta di diamante dell’enologia australiana – dopo quarant’anni e forse più. Ci scusino i cari lettori di questa rubrica, ma a parlare di questo vino, tornano alla mente gioiosi ricordi di una sera a Dublino, quando al classico «Irish stew» (spalla e petto di montone, patate, cipolle, prezzemolo tritato, bouquet garni, sale, pepe e brodo – cottura due ore e mezza), fu abbinato un Grange Hermitage del 1966: incredibile! Le regioni più importanti per la produzione vinicola si trovano a sud-est del Paese, lungo le coste e lungo il corso del fiume Murray e del suo affluente il Murrumbidgee e all’estremo sud-ovest, precisamente nei seguenti Stati: Nuovo Galles del Sud, il più antico e il più caldo degli Stati viticoli, qui troviamo la celebre Hunter Valley, dove si concentrano numerosi produttori di fama mondiale, situata a nord di Sidney. All’ovest troviamo la grande regione irrigua di Murrumbidgee, qui le rese per ettaro sono molto basse e quindi le uve Semillion e Syrah sono di qualità e denotano un notevole acclimatamento al territorio. Questo Stato occupa il secondo posto con il 34% della produzione. South Australia, con il 50% della produzione, è invece lo Stato che fa la parte del leone nel panorama viticolo del Paese. Nella Barossa Valley si producono alcuni dei migliori vini del Paese, il clima è caldo e asciutto, con forti escursioni termiche tra giorno e notte, a garanzia di qualità, intensità nei profumi e grande sapidità. Si vinificano eleganti Semillon, Chardonnay e notevoli Shiraz (Penfolds) che vengono fermentati ed elevati in botti di rovere americano. A nord di Barossa Valley si trova la Clare Valley, dove, con nostra sorpresa, abbiamo trovato i migliori Riesling d’Australia (portato da emigrati tedeschi), da provare dopo 10-20 anni di evoluzione in bottiglia. Assolutamente da non perdere la zona di Coonawarra,

con i suoi splendidi Cabernet Sauvignon e Syrah, coltivati su una suggestiva striscia di terra rossa, larga 1,5 km per 13 di lunghezza, conosciuta come la Bordeaux australiana. Il 30% del vino australiano proviene dalla Riverland o meglio dalla zona di Murray Valley, l’omonimo fiume alimenta un vasto sistema d’irrigazione che rende possibile la viticoltura; si fanno vendemmie meccanizzate, con rese elevate, per produrre un vino comune, per lo più da uve bianche, commercializzato soprattutto nei bagin-box. Vittoria è lo Stato più piccolo e meridionale del Paese, ma è quello che conta più regioni viticole, occupa il terzo posto come produzione con il 17% e propone una gamma di vini molto ampia. I terreni evidenziano caratteristiche diverse secondo le zone, nella Yarra Valley, il suolo ricco di argilla grigia e rossa, favorisce la coltivazione di un Pinot Nero di ottima qualità. Curiosa per queste latitudini la produzione di Chasselas e Dolcetto, vini liquorosi dolci prodotti da diverse tipologie di Moscato, tutto questo lo troviamo nel distretto di Grampians, con un terreno ricco di calcio. L’ultimo Stato convertitosi alla viticoltura è la Western Australia, qui si produce il 6% del vino australiano; i vigneti si trovano concentrati presso la capitale Perth, la mancanza d’acqua è la preoccupazione maggiore per i viticoltori, tra i vitigni bianchi soliti, troviamo anche il Sauvignon Blanc e tra i rossi anche un discreto Zinfandel con note fruttate e speziate. La Tasmania è un’isola che rappresenta lo Stato più a sud dell’Australia, è considerata una delle zone viticole più fredde del mondo, situata tra il 41-43 di latitudine sud, qui il clima favorisce il vitigno Riesling, i cui caratteri ricordano molto i vini della Mosella, anche il Pinot Nero viene favorito dal clima. Negli ultimi anni qualche «maison» europea ha incominciato a produrre vini spumanti con lo Chardonnay locale. Le uve prodotte in loco sono però trasportate e vinificate sul continente.

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Los Pasos Sauvignon Blanc

Taranis Gris de Grenache Rosé

Rating della clientela:

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2011, D.O. Catalunya, Verdure, coq au vin, Spagna,pasta, 6 x 75tortilla, cl grigliate Rating della clientela: Tempranillo, 2011, D.O. Catalunya, Cabernet Sauvignon Spagna, 6 x 75 cl Verdure, pasta, tortilla, coq au vin, Rating7–10 dellaanni clientela: grigliate

2017, Central Valley, Stuzzichini da aperitivo, pesce Cile, 6 x 75 cl d’acqua salata, verdure, tapas, Ratingcibi della clientela: orientali

2016, Pays d’Oc IGP, Insalate, pesce d’acqua salata, Francia, 6 x 75 cl tapas, formaggio a pasta dura, Ratinggrigliate della clientela:

Los Condes Gran Reserva

Los Condes Gran Reserva

Tempranillo, Cabernetpasta, Sauvignon Verdure, tortilla, coq au vin, grigliate 7–10 anni Tempranillo, Cabernet Sauvignon

50% 36.60 50% 36.60 50% 7–10 anni

invece di 73.20

6.10 a bottiglia invece di 12.20

2017, Central Valley, Cile, 6 x 75 cl

Los Pasos Sauvignon Blanc

Los Pasos Sauvignon Blanc 2017, Central Valley, Sauvignon blanc Cile, 6 x 75 cl Stuzzichini da aperitivo, pesce Rating d’acqua della clientela: salata, verdure, tapas, 1–2 anni cibi orientali

2016, Pays d’Oc IGP, Francia, 6 x 75 cl

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Taranis Gris de Grenache Rosé 2016, Pays d’Oc IGP, Grenache Francia, 6 x 75 cl Insalate, pesce d’acqua salata, Rating tapas, della clientela: formaggio a pasta dura, 1–3 anni grigliate

Sauvignon da blanc Stuzzichini aperitivo, pesce d’acqua salata, verdure, tapas, cibi 1–2 orientali anni

Grenache Insalate, pesce d’acqua salata, tapas, formaggio a pasta dura, grigliate 1–3 anni

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50% 15.75 50% 15.75 50% 1–2 anni

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decliniamo ogni responsabilità per modifiche di annata, errori di stampa e di composizione / iscrivetevi ora: denner.ch/shopvini/newsletter

La regione di Margaret River, a 250 km a sud di Perth, si è ritagliata un’invidiabile reputazione a livello internazionale per l’ammirabile qualità dei vini prodotti, ma possiede anche uno stile unico nella produzione, senza dimenticare la grande bellezza di questa regione. Le acque relativamente calde dell’Oceano Indiano e l’assenza di montagne, favoriscono il congiungimento con il Margaret River e regalano a questa regione uno dei «climats» più temperati del mondo vitivinicolo. In questo clima temperato si è, con ottimi risultati, provato a coltivare un po’ tutti i vitigni internazionali. Dagli scaffali della nostra Enoteca abbiamo scelto per voi: WISE, uno Shiraz in purezza. Questo vitigno, a dipendenza del luogo di coltivazione, produce dei vini rossi di corpo. La struttura di questo vino australiano è molto rotonda e morbida, i suoi profumi di pepe, lamponi ed invecchiando di iris, sono molto pronunciati. Lo si può conservare ancora per qualche anno (avendo la cantina giusta), è giustamente tannico e caldo di alcol, ottimo in questa stagione per i vostri barbecue all’aperto, ma anche in autunno con la selvaggina di pelo. / DC

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Los Condes Gran Reserva 2011, D.O. Catalunya, Spagna, 6 x 75 cl

Shiraz WISE – Australia

Cannonau di Sardegna DOC Riserva 2015, Sardegna, Italia, 75 cl

Cannonau di Sardegna DOC Riserva

Rating della clientela:

2015, Sardegna, Zuppa, salsiccia, pesce d’acqua

Italia, 75 Cannonau diclSardegna DOC salata, lasagne, piatti a base di Rating della clientela: Riserva funghi 2015, Sardegna, Garnacha Italia, 75 cl Zuppa, salsiccia, pesce d’acqua Rating salata, della clientela: lasagne, piatti a base di 3–7 anni funghi Garnacha Zuppa, salsiccia, pesce d’acqua salata, lasagne, piatti a base di funghi 3–7 anni Garnacha

28% 4.95 28% 4.95 28% 3–7 anni

invece di 6.95

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Ambiente e Benessere

La città nascosta

Reportage Alla scoperta di Orchha, l’antica capitale del regno dei Bundela sulle rive tranquille del fiume Betwa

e destinazione emergente nello stato del Madhya Pradesh

Simona Dalla Valle, testo e foto Un paesaggio punteggiato da templi e antichi palazzi, le colline circostanti e gli altipiani della foresta offrono una natura incontaminata intorno all’antica capitale del regno dei Bundela – il cui nome deriva da boond, cioè gocce, in riferimento alle gocce di sangue offerte dal primo sovrano di Orchha alla dea Kalì. A Orchha il tempo sembra essersi fermato e la vita scorre lenta e sonnacchiosa come le acque del fiume Betwa che attraversa la città. Con meno di dodicimila abitanti per gli standard indiani è poco più di un villaggio, soprattutto se messo a confronto con le trafficate megalopoli indiane. Il passato glorioso di Orchha sopravvive nella caratteristica architettura della fortezza, dei mausolei e dei numerosi templi. Un lento processo di edificazione non regolamentata ha reso la città più popolosa e ne ha migliorato i collegamenti, senza alterarne il fascino. Lungo la strada principale si susseguono bancarelle di oggetti per la venerazione e di artigianato locale, un piccolo e colorato bazar dove è bello osservare il viavai e le contrattazioni. Il complesso del forte di Orchha ospita un vasto numero di monumenti antichi, caratterizzati dalla ricchezza delle facciate e una grande cura dei dettagli. Il forte e le altre strutture al suo interno furono costruite dal clan Rajput della dinastia Bundela a partire dall’inizio del XVI secolo. Il complesso del forte è accessibile percorrendo un lungo ponte seicentesco che conduce a una spessa porta di ingresso, seguita da un cortile quadrangolare circondato da palazzi: il Raja Mahal, lo Sheesh Mahal, il Jahangir Mahal, templi, giardini e padiglioni. Quello di Ram Raja è il palazzo più antico. Terminato nel 1545, ha una pianta quadrata e gli interni riccamente decorati con dipinti murali della tradizionale scuola di pittura Bundela. Adiacente al Ram Raja si trova il giardino Phool Bagh, elegantemente allestito con una fila di fontane che culmina in un padiglione a otto pilastri, forse l’unico esempio rimasto dell’eccezionale sistema di raffreddamento persiano in India. L’unità era composta da due torri dette colonne Sawan Bhado come due mesi primaverili nel calendario locale indiano. Erano perforate nella parte superiore in modo da poter catturare il vento, mentre la parte inferiore era

Vista del fiume Betwa dal ponte, sullo sfondo il tempio Ram Raja.

collegata a un serbatoio d’acqua. I sotterranei del palazzo, detti Tehkhana e adibiti a rifugio dalla calura estiva dei sovrani, erano attrezzati con una struttura a forma di ciotola dalle cui fontane le gocce d’acqua filtravano fino al tetto, simulando la pioggia. Le torri, il sistema di distribuzione dell’acqua e il serbatoio sotterraneo di acqua erano a loro volta ingegnosamente connessi a una Chandan Katora o una fontana nel padiglione sopra il rifugio. L’acqua del serbatoio sotterraneo veniva così spinta verso la Chandan Katora e cadeva come una fontana sul tetto del ritiro, mantenendo in questo modo il Tehkhana piacevolmente fresco. Il Raja Mahal è il cuore religioso di Orchha. Costruito nella prima parte del sedicesimo secolo, la sua origine è legata a una curiosa leggenda locale, secondo la quale il tempio-palazzo fu costruito in seguito all’apparizione del dio Rama in un sogno della regina Rani Ganeshkuwari, esortata dalla divinità a costruire

un tempio in suo onore. La regina viaggiò fino alla città di Ayodhya per ottenere una statua di Rama da custodire nel nuovo tempio di Chaturbuj ma al suo ritorno mantenne la statua sull’altare domestico nonostante ciò fosse proibito. Una volta completata la costruzione del tempio, l’idolo di Rama rimase nel palazzo e continuò a essere adorato al suo interno, quindi una parte del palazzo fu convertita nel Tempio di Rama Raja; questo è l’unico santuario nel paese in cui Rama è adorato come un re e riceve ogni giorno un saluto d’onore. La facciata esterna del Ram Raja è semplice e quasi scarna, mentre le sale interne sono finemente decorate con affreschi a temi sociali e religiosi e ritraggono divinità, animali mitici e persone comuni. Le finestre, i passaggi porticati e la planimetria dell’edificio sono progettati in modo tale che la luce del sole e l’ombra creino aree dove diversi stati d’animo e temperature si susseguano durante il giorno.

Raja Mahal, nel complesso del forte di Orchha.

Tempio indù nel centro di Orchha.

Azione

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Ingresso al forte di Orchha.

Tiratura 101’766 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Lo Jahangir Mahal fu costruito da Bir Singh Deo nel 1605 per l’imperatore Mughal Jahangir, il quale vi alloggiò solo una volta. Il palazzo, su quattro livelli, presenta eleganti caratteristiche architettoniche di architettura sia musulmana sia Rajput. Il cancello d’ingresso del palazzo conduce ai bagni reali e a una piccola abitazione a due piani costruita all’interno di un giardino in tipico stile architettonico moghul; un’aggiunta realizzata appositamente per Rai Parveen, la escort femminile del Raja Indrajit, poetessa e musicista, tant’è che il suo ritratto in un abbigliamento rivelatore e seducente adorna la sala principale. Si dice che l’imperatore Akbar, infatuato della bellezza di Parveen, l’avesse portata nel palazzo di Agra affinché fosse la sua cortigiana. Ma Parveen, che voleva sfuggire dalla situazione, compose un ghazal che affermava la sua impurità, inadatta a un imperatore; il componimento poetico le permise di ottenere il rilascio dalla corte di Akbar e di rientrare a Orchha. Lungo il Kanchan Ghat sulle rive del fiume Betwa sorgono 14 chhatris, i cenotafi di altrettanti re Bundela, fusione dell’arte chandela (quella dei templi di Khajuraho) e moghul. Poco più a nord del centro, sulla direttiva JhansiOrchha, lo Shahid Smarak commemora il martirio del famoso combattente per la libertà Chandrashekhar Azad, che soggiornò qui intorno al 1928, nascosto dalla dominazione britannica. Lontana dal trambusto delle grandi città e situata in un’ansa del fiume all’interno dello stato del Madhya Pradesh, la cittadina è apprezzata non solo per le bellezze architettoniche ma è frequentata da viaggiatori che sono anche alla ricerca di esperienze autentiche, e come tappa intermedia tra il Taj Mahal e i templi di Khajuraho. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


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Ambiente e Benessere

Al quarto giro, la maglia del pubblico

Sport A giudicare dagli indici d’ascolto, il Tour de Suisse è di certo la gara ciclistica a tappe più seguita e amata,

molto più del Giro d’Italia o del Tour de France Giancarlo Dionisio È rassicurante constatare come alcuni miti della modernità reggano il peso degli anni. In un mondo in cui scompaiono schieramenti politici storici come la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista in Italia, in cui crollano compagnie aeree come la nostra Swissair, e le mode si accavallano con rapidità destabilizzante, alcuni concetti fondamentali dello Swiss Style sembrano inamovibili. Lunga vita quindi al coltellino nazionale, al cioccolato, a fondue e râclette, ma lunga vita anche al Tour de Suisse. La nostra corsa ciclistica – chiamata così, à la française, anche dagli svizzero-tedeschi – è più giovane rispetto al Giro d’Italia e al Tour de France, che hanno già varcato la soglia dei cent’anni, tuttavia, nei suoi 85 anni di esistenza (quest’anno si è disputata la 82a edizione) è riuscita a imporsi come un must, come un’esperienza individuale o collettiva imprescindibile per chi vive su suolo elvetico. Per quali ragioni? 1. Perché si tratta di una festa popolare gratuita; 2. Perché dopo la corsa si mangia, si beve, si canta e si balla; 3. Perché non ci si azzuffa, anzi, fra le varie tifoserie, al posto dei cazzotti, ci si scambiano sorrisi, salsicce, birra e vino; 4. Perché nei sette milioni del budget la voce «sicurezza» non prevede investimenti per assoldare poliziotti in assetto di guerra; 5. Perché è molto facile rimediare un autografo o un selfie con il corridore preferito, anche con il Campione del mondo; 6. Perché gli sponsor distribu-

iscono al pubblico tonnellate di gadget: alcuni utili, come cover per cellulari, magliette e zainetti; altri deliziosamente superflui, tanto da far imbufalire chi a casa li dovrà riporre o smaltire. Sono ragioni che vanno al cuore della gente, tuttavia il fenomeno Tour de Suisse non lascia indifferenti anche coloro che lo affrontano con uno spirito imprenditoriale . Acquistare i diritti per l’organizzazione di una partenza di tappa costa 20mila franchi. Un arrivo ne costa 60mila, cifre che lievitano leggermente durante il finesettimana e per le frazioni di montagna. Eppure, anche se tendenzialmente le grandi località sono state bandite per una questione di viabilità, gli organizzatori sostengono di non conoscere la parola «crisi». Ci sono comuni piccoli come Oberstammheim, Gansingen e Gommiswald che si mettono in gioco pur senza avere interessi turistici. Altri, come Gstaad, Leukerbad, Villars sur Ollon, Frauenfeld hanno firmato contratti triennali per poter approfittare del più spettacolare spot televisivo che possa essere prodotto. Uno spot che, diffuso in oltre cento paesi, genera un cospicuo ritorno di immagine. In Svizzera non siamo ancora sui livelli magistrali del Tour de France, dove ogni tappa è quasi paragonabile ad un documentario di «GEO», ma stiamo crescendo per tipologia e qualità di immagini. Tutte le forze coinvolte – organizzazione centrale, comitati regionali, media, sponsor – si sono resi

Sulle strade di Davos. (Youkeys)

conto che le circa venti ore di diretta televisiva in cui sudore, lacrime, sofferenza, fatica, gioia ed emozioni si mescolano con laghi, fiumi, castelli e vette imbiancate, hanno più appeal di mille spot creati ad arte. Anche là, dove altre manifestazioni si vedono la strada sbarrata, il Tour de Suisse trova porte aperte. Così sostiene David Loosli, ex corridore professionista, attuale direttore sportivo della corsa: «Non riscontriamo nessun problema nell’ottenere il permesso di far transitare il Tour nel cuore dei villaggi, anche dove ci sono strettoie, porfido e pavé. Anzi, spesso sono le Municipalità a chiedercelo». A onor del vero, gli organizzatori

qualche problema ce l’hanno, nei confronti della Svizzera Romanda, che difende a denti stretti la propria corsa regionale, pure inserita nel grande calendario mondiale, e che a volte si nega, altre invece viene snobbata. Quest’anno solo una tappa su nove, quella che da Gstaad conduceva a Leukerbad, o, se preferite, Loèche-les-Bains, prevedeva circa 110 km su suolo romando. Un po’ pochi, su un totale di 1215. Un caso, sostiene Loosli. Una vergogna, ribadiscono al di là della Sarine. Difficile affermare se si tratti di un problema di mercato oppure di «une affaire politique». Emerge tuttavia la sensazione che nel 2019 verrà posto rimedio. Il Tour de Suisse è amato anche dai

corridori, che ignorano queste polemiche. Lo amano perché l’ambiente è più rilassato, quindi possono permettersi di scendere dai loro lussuosi bus dai vetri fumé, per prendere un caffè al villaggio di partenza con colleghi di altre squadre, fans e giornalisti. Provare per credere! Troverete un magico calderone nel quale riversare tutto il vostro orgoglio nazionale e regionale. Gli organizzatori locali vi versano il loro amore per il territorio, i loro vini, le pietanze, la musica e i costumi. Quelli delle località più discoste lo fanno spesso con maggiore intensità, come è capitato nei recenti arrivi di Carì, Olivone e Cevio. Qualcuno potrà pensare che queste considerazioni siano il frutto di impressioni personali raccolte in oltre 20 anni al seguito del Tour de Suisse. È vero, lo sono, tuttavia c’è un dato che conferisce loro una parvenza di scientificità. Se da un lato gli indici di ascolto della tappa conclusiva del 2009, con Cancellara lanciato verso il successo sulle strade della sua Berna potevano far impallidire quelli di una parata militare sulla Piazza rossa , diffusa dalla TV sovietica durante gli anni della guerra fredda, è giusto sottolineare che i dati medi relativi alla fruizione televisiva della nostra corsa nazionale sono regolarmente e nettamente superiori a quelli del Giro d’Italia e spesso si lasciano alle spalle anche quelli della blasonata e ipermediatizzata Grande Boucle. Come cantava Roberto Vecchioni: «Forse non lo sai, ma pure questo è amore». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Ambiente e Benessere

Un orso rossoblu?

Mondoanimale Il canton Ticino si interroga e si prepara ad un eventuale ritorno del plantigrado Maria Grazia Buletti La notizia è di quelle che non si possono ignorare e non concerne, come si potrebbe presupporre, l’eventuale e più che probabile ritorno dell’orso in Ticino, perché a detta degli esperti questa non sarebbe certo una sorpresa. «È da ritenersi solo un caso che dei primi orsi giunti in Svizzera non ne siano già passati dal Ticino», esordisce l’esperta Joanna Schoenenberger nel ripercorrere l’istoriato dei movimenti di questi plantigradi su suolo elvetico: «Dal 2005 giovani orsi maschi passano dalla Svizzera, nel canton Grigioni. Dal 2011 ogni anno almeno un individuo è passato in val Chiavenna. Nel 2015 un orso è stato avvistato in val Roggiasca in Mesolcina e dalla cartina che ne documenta i passaggi si può chiaramente vedere l’areale di presenza permanente di orsi femmina e dei maschi di passaggio, come anche i punti di accertamento dell’orso M29 che ora si muove nella zona di Engelberg».

«La presenza dell’orso desterebbe l’interesse turistico e un ritorno economico anche per il nostro territorio» La novità di cui abbiamo accennato riguarda la visita in Ticino di un esimio esperto in materia: «A metà aprile abbiamo ospitato il coordinatore Grandi Predatori del Servizio Foreste e Fauna della Provincia Autonoma di Trento Claudio Groff al Demanio cantona-

Giochi Cruciverba Se non sai cosa vuol dire la parola «toponimo» potrai scoprilo risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 4, 7, 2, 5, 10)

le dell’Ufficio Caccia e Pesca a Gudo, che ha parlato alla presenza di attori di tutte le categorie che avranno possibilmente a che fare con il ritorno dell’orso in Ticino (le valli confinanti con il Comasco e la val Chiavenna) e Moesano». Tra i presenti, la nostra interlocutrice cita rappresentanti di Uffici cantonali, comunali e attori provenienti da turismo, allevamento, apicoltura, protezione della natura, polizia cantonale e persone legate a iniziative regionali. Groff ha descritto le sue esperienze maturate nella gestione di una popolazione di orsi in una Provincia che da un lato convive da sempre con essi, dall’altro si trova a fronteggiare le stesse nuove sfide che aspetteranno noi: «I pochi orsi rimasti in Trentino erano stati ripopolati negli anni 1999-2001 con nove esemplari sloveni, perseguendo l’obiettivo di salvare la popolazione autoctona. Questi si sono riprodotti e contano a tutt’oggi tra i 50 e i 60 individui». Un incontro, dunque, con lo scopo di in1 2 3 4 formarsi e poter informare, allacciando i contatti con l’Ente Trentino: «Sono i 7 passi di massima 8 imporprimi dovuti tanza in vista di una prossima visita da parte di un 9 orso», afferma 10 Schönenber11 ger che ritiene «cruciale» considerare in modo12differenziato l’importanza 13 delle emozioni, degli interessi e dei fatti scientifici inerenti questo animale che, 15 dice: «Riunisce i tre aspetti e diventa un animale di potente valenza simbolica». Un incontro che ha voluto 20 soffermarsi 21 dunque sul «da farsi» e sulla conoscenza di questo animale, sul suo 25 compor23 24 tamento e sulle eventuali interazioni fra umani e orso, sulla possibile convivenza con27 il minimo dei28 conflitti. «Non si tratta di schierarsi pro o

ricordiamo l’indole schiva e solitaria di questo animale), ma comprensibilmente e con il loro comportamento hanno prodotto una mal disposizione generale verso gli orsi, senza che ne si conoscesse la loro vera natura». Sempre attingendo all’esperienza trentina: «Gli orsi troppo confidenti hanno fatto qualche danno, l’aumento della popolazione li ha spinti verso nuovi spazi dove la gente si è trovata dinanzi a una nuova esperienza che, per prima cosa e per permettere la pacifica convivenza, necessita di un’informazione completa, imparziale e oggettiva». L’ultima sfida riguarda la politica che pare approfitti della valenza simbolica dell’orso per portare voti al proprio partito. «Tutto ciò, insieme alla disinformazione mediatica, è stato determiOrsa Jurka (madre di quasi tutti gli orsi «gradassi») ora è in un recinto nella Foresta nante e ha creato insidie alla presenza Nera. (Servizio Foreste e Fauna T. Norsi) dell’orso in Trentino, dove peraltro è contro e per questo l’evento non era di da inoltre che l’affidabilità degli studi sempre stato». Ma veniamo ai vantaggi dominio pubblico», spiega l’esperta che dell’orso in Trentino è pure dovuta al che l’orso dovrebbe comportare: «Difficosì ne riassume i punti salienti a parti- fatto che la gestione di questo planti- cile esprimerli in termini numerici, ma 5 6 re dal prologo di quello che ha definito grado è affidata allo Stato: «Per questo quello che Groff racconta è il ritorno di un incontro davvero proficuo: «Groff ci è focalizzata sulla gestione operativa immagine e di indotto economico che ha raccontato nel dettaglio la biologia quotidiana dell’orso da parte dell’auto- la regione del Trentino trae dalla predell’orso e ha ormai potuto derivare la rità forestale e del suo servizio». In sin- senza dell’orso sul suo territorio». Una scienza dall’esperienza». Esperienza tesi, il «bottino» che la visita di Groff ha pubblicità che a pagarla costerebbe miriferita alla presenza nel Trentino di riservato ai suoi interlocutori ticinesi: lioni, sempre secondo l’esperto. una micro-popolazione con una buo- «Abbiamo maturato un’idea di come «Naturalmente, la presenza 14 na garanzia di sopravvivenza: «Da 16 potrebbe presentarsi il ritorno e il pas- dell’orso desterebbe l’interesse turistianni è oggetto di una punt uale ricerca saggio dell’orso dalle nostre latitudini, co e un ritorno economico anche per 16 17 18 19 scientifica attraverso un monitoraggio sfide e vantaggi compresi». Sfide che la il nostro territorio». Altri vantaggi: capillare e completo; questo fa sì che i Schoenenberger così riassume: «Quella «Sono di natura ecologica e sono ancoloro dati scientifici derivati22dall’espe- più grande degli ultimi anni riguarda ra difficili da soppesare scientificamenrienza e dal monitoraggio siano molto la “disinformazione mediatica” che, te. In genere, non dimentichiamoci che probabilmente unici 26 al mondo e che la poco oggettiva, ha ridotto l’accettazio- essere in grado di convivere con la nabase scientifica di studio dell’orso in ne dell’orso». tura che ci circonda arricchisce la vita SUDOKU PER AZIONE - MAGGIO Trentino la renda molto seria, affidabile La sfida relativa all’animale stesso dell’essere umano 2018 che ne è pur sempre 29 30 e importante». concerne quegli esemplari definiti graparte. In Trentino, ad esempio, questa è N. 17 FACILE La nostra interlocutrice ricor- dassi: «Essi non sono pericolosi (ndr: un’esperienzaSoluzione che si va a cercare». Schema

Giochi per “Azione” - Giugno 2018 Stefania Sargentini

(N. 21 - “Delle patate con il salame”)

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

I premi, cinque carte regalo Migros 24 di 50 franchi, saranno sor25 del valore teggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione27corretta 26 entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

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19. Stimolatore utilizzato nella terapia 6 5 8 2 4 6 5 1 7 8 9 3 del dolore (Sigla) 7 2precedente 4 8 7 1 6 2 3 5 9 21. Tutt’altro che mesti Soluzione della settimana Giochi “Azione” - Giugno 2018 3 – «Sono 4 1 3 5 mio 8 7marito 4 1a 2 6 22. Cadevano dopo le calende TRAper AMICHE preoccupata, cinque ore fa ho9mandato Stefania 24. Le iniziali del dirigente Confalonieri comprare cotolette e insalata3per7pranzo e non è più tornato, 6 Sargentini 1 6 1 cosa 2 9faccio?» 5 3 Risposta 7 8 4 26. Giove la mutò in giovenca dell’amica: «DELLE PATATE CON IL SALAME!» (N. 215- “Delle 6 patate 7 con il salame”) 8 N. 20 GENI

N. 22 MEDIO 3

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D U O M 2O 3 5 T 18 E6 4 C1 5 H7 2 E9 3 A N 8 D E L E9 10 9 A R E A6 L I vincitori U N T7 T O4 48 25 S E 91 T23 57 A82 69 34548 T768 15 A S A 13 7 4 9 5 3 1 6 2 8 T I T E C 1 Vincitori del concorso Cruciverba E N T V A N E T A 9 3 5 2 6 27 8 1 4 9 2 7 8 I T O N I C O L A su «Azione 23», del 04.06.2018 16E. Romy, 17 M. Duca A. Pontarolo, O6 S T I 9 C A 5 O L I O N O RI 7A O 564 R19 81 I97 48 N26 53 G35 72 Vincitori del concorso Sudoku C 4 A 9 R C A3 su «Azione 23», del 04.06.2018 20 U O R A3 A S E8 R P. Donno, S. Arigoni R BL E A D725 E78 36 N43 412 T59897 E81 64 6 C3 A 2 T E 7 N E R M E 23 (N. 22 - Nome proprio di luogo geogra co) I E R7I 1 S2 O 3 Partecipazione online: inserire la luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti soluzione del cruciverba o del sudoku indirizzo, email premi. I vincitori saranno avvertiti M I N E deve Tspedita RNAadelO«Redazione Epartecipante T Odei 8Azione, nell’apposito formulario pubblicato essere per T iscritto. Il6nome dei vincitori sarà P I S R O sulla pagina del sito. Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». pubblicato su «Azione». Partecipazione P R O I O R Partecipazione postale: la lettera o Non T si intratterrà corrispondenza O Z E sui L riservata T 4 esclusivamente a lettori2che P A M O D Non I la cartolina postale che riporti la so- concorsi. Le vie legali sono escluse. risiedono in Svizzera. 1

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(N. 23 - Duecentosettanta gradi sotto zero)

VERTICALI 1. Pelle morbidissima 1 del Carducci 2 3 4 2. Il lavoro 3. Prefisso che vuol dire muscolo 4. Dulcis9in fundo 5. Famoso re di Galilea 8. Piccola antilope africana 11 10. Nome femminile 12. Può essere bianca o nera 14 15 13. Nome femminile 14. Vi combattevano i gladiatori 15. Il nome 18 di Foscolo 19 16. Nota musicale 17. Cuore di vate

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27. Tributo indiretto applicato su alcune produzioni 28. Istruiva il «giovane signore»

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ORIZZONTALI 1. Designazioni 6. Toro sacro agli egizi 7. Chiudono l’incontro 9. Vantaggio 10. Personaggio dell’Iris 11. Le iniziali di un noto Angela della TV 12. Maniere 13. La cantante Pausini 17. Una delle spie mandate da Mosè in Canaan 18. Feste sfrenate 19. La indossano i magistrati 20. L’attore Gullotta 21. Una Claudia attrice 23. Sono uguali nel fidanzamento 24. Grande ammiratore 25. Nel giorno... burocratico

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Politica e Economia Il papa a Ginevra Nella sua prima visita in Svizzera, il pontefice omaggerà soprattutto il Consiglio ecumenico delle Chiese

Il vertice di Singapore Il leader nordcoreano Kim Jong-un ha incontrato l’americano Donald Trump sull’isola di Sentosa in un vertice che è stato definito storico. Ma la storia è ancora tutta da verificare

La dottrina Trump Il presidente americano sta costruendo un nuovo ordine mondiale fatto a sua immagine e somiglianza

Olimpiadi, il Vallese dice no Con il 54 per cento dei voti, il credito di 100 milioni per «Sion 2026» è stato bocciato, anche per la cattiva immagine del CIO pagina 27

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AFP

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L’odissea dell’Aquarius

Immigrazione La vicenda della nave carica di nordafricani respinti da Salvini ricorda al resto dell’Europa

che l’Italia non può risolvere da sola un problema strutturale di tale portata

Lucio Caracciolo Chi si illudeva che la retorica antimigranti di Matteo Salvini fosse pura propaganda elettorale è stato smentito. Il capo della Lega, appena insediato al Ministero dell’interno, ha dimostrato con i fatti di avere ben chiaro il suo scopo strategico: respingere quanti più migranti – economici o aspiranti allo status di profugo – battono alle porte dell’Italia. Per incassarne i dividendi di consenso, anche in vista di possibili nuove elezioni a non lunga scadenza, nelle quali la Lega punta ad affermarsi come primo partito in Italia. La vicenda dell’Aquarius, nave dell’ong franco-tedesco-italiana SOS Méditerranée con 629 migranti a bordo, prima bloccata tra Malta e Sicilia poi dirottata verso il porto di Valencia grazie alla disponibilità del nuovo governo spagnolo, annuncia un’estate molto calda sul fronte migrazioni. Salvini ha voluto creare un precedente, rompendo con la tradizione italiana di non respingere le navi cariche di disperati, anzi di distinguersi per la solerzia e l’efficacia

dei salvataggi effettuati dalla Marina militare. È stato uno shock per il resto d’Europa, i cui effetti sono difficili da misurare. Ma certamente d’ora in avanti Parigi, Berlino e le altre capitali europee sanno di avere a che fare con un governo italiano deciso a emanciparsi dalle regole di Dublino e dagli altri vincoli che fanno della Penisola il massimo paese di accoglienza dei migranti provenienti dall’Africa. La reazione francese è stata furibonda. Fino a provocare una crisi diplomatica quasi senza precedenti fra Roma e Parigi. Le accuse di «cinismo» mosse da Emmanuel Macron all’Italia appaiono particolarmente speciose alla grande maggioranza degli italiani, provenendo dal capo di uno Stato che ha bloccato le frontiere alpine, sospeso il regime di Schengen, respinto alla frontiera di Ventimiglia un gran numero di migranti e compiute persino incursioni di polizia oltrefrontiera, a Bardonecchia. Il risultato netto delle ingiurie di Macron, malgrado le semiscuse pronunciate nel corso di una telefonata con il primo ministro italiano Giuseppe

Conte, è stato di produrre un inedito fronte antifrancese di tutte le forze politiche rappresentate nel parlamento di Roma, dalla sinistra di Liberi e Uguali alla destra para-fascista di Fratelli d’Italia. Con al centro la Lega di Salvini, dominus incontrastato del governo e della scena mediatica. Certo, alcune voci si sono levate per denunciare il fatto che la mossa di Salvini – indubbiamente efficace per ricordare al resto d’Europa che l’Italia non può farsi carico di un problema strutturale di tale rilievo per conto di tutti i partner – è avvenuta a danno di centinaia di migranti, costretti a un’Odissea interminabile in acque agitate. Ma la gran parte dell’opinione pubblica sembra approvare la linea dura. Anche perché ha introiettato la narrazione dell’«invasione». Inoltre, l’assurda equazione migrante=musulmano=terrorista circola non solo nei bar della Penisola, ma è diventata senso comune in buona parte degli italiani, non solo di estrema destra. Lo show di Salvini presenta aspetti paradossali. Mentre respingeva

l’Aquarius chiudendo i porti italiani, consentiva alla Marina Militare di sbarcarvi oltre 900 migranti salvati dal naufragio. Eppoi, se com’è facile prevedere, casi simili a quello dell’Aquarius sono destinati a ripetersi, come potrà Salvini respingerli tutti? E su quali criteri fonderà eventualmente una selezione? Altro paradosso: Roma sceglie la linea dura in una fase di netto calo delle immigrazioni irregolari dall’Africa, anzi di un crollo: quattro quinti in meno circa dalla tarda estate scorsa a oggi. Ciò grazie alle politiche informali del predecessore di Salvini, Marco Minniti. Il quale allestì nel luglio scorso una riservata operazione di intelligence per convincere i capi delle milizie e delle tribù libiche che controllano e gestiscono il traffico di migranti a trattenerne il più possibile nei loro territori, in cambio di aiuti di vario genere. Ora però sembra che quel patto stia saltando: i libici sostengono di non aver ricevuto gli aiuti promessi e minacciano rappresaglie. Quel che è certo è che nei prossimi

mesi Roma cercherà di forzare la mano ai partner comunitari per convincerli ad assumersi una parte delle responsabilità nell’accoglienza e nella gestione dei migranti. Magari abolendo o rivedendo il regolamento di Dublino. Molto improbabile che ciò avvenga, malgrado perfino la signora Merkel abbia ammesso pubblicamente che si tratta di un patto iniquo. Ma la regola comunitaria è che si apre una vertenza su un dossier non solo per affermarsi nella questione specifica ma per accumulare punti da scambiare su altri dossier. Per esempio, quando l’Italia firmò Dublino lo fece in cambio di concessioni sulle politiche agricole. Non stupirebbe quindi se Roma cercasse di ottenere – sulla pelle dei migranti – qualche margine di flessibilità ulteriore nei conti pubblici. Lo stile Salvini è comunque un segnale lanciato agli altri europei: l’Italia smette l’europeismo passivo di tanti decenni per diventare coprotagonista al tavolo comunitario. Contribuendo a farne un ring dove i colpi proibiti sono la norma.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Politica e Economia

Politica e Economia

A Ginevra per parlare a tutti i cristiani Viaggio pastorale Nella sua prima visita in Svizzera, a Ginevra, Papa Francesco renderà omaggio

al Consiglio ecumenico delle Chiese, portando un messaggio di unità dei cristiani di fronte alle sfide della globalizzazione Giorgio Bernardelli Il papa poco ortodosso, specialista nell’abbattere gli steccati, arriva nella città di Calvino. Il pontefice argentino che ha fatto dell’accoglienza ai migranti e della denuncia delle contraddizioni dell’economia globalizzata il cuore del suo messaggio, viene ad incontrare la Svizzera di oggi. Si possono riassumere forse così le coordinate principali del viaggio che porterà papa Francesco giovedì 21 giugno a Ginevra. Appena una decina di ore tra l’arrivo all’aeroporto di Cointrin e la ripartenza per Roma. Eppure sono ore molto attese e non solo dalla comunità cattolica, che già da settimane ha esaurito i 41 mila posti disponibili per la Messa al Palexpo. Con questo viaggio papa Francesco diventa il terzo papa a fare tappa in Svizzera. Ad aprire la strada fu infatti Paolo VI – il 10 giugno 1969 – anche lui con un viaggio di una sola giornata a Ginevra, dove visitò l’Ufficio internazionale del lavoro, tenendo sulla dignità da salvaguardare in questa fondamentale attività umana un discorso che suonerebbe ancora oggi attualissimo. E fu sempre lui a rompere il ghiaccio con il Consiglio ecumenico delle Chiese, l’istituzione che festeggia oggi i suoi 70 anni e rappresenta la principale ragione del viaggio di papa Francesco. Dopo Paolo VI sarebbe stato poi Giovanni Paolo II ad approdare nella Confederazione per ben tre volte: la prima il 15 giugno 1982, quando incontrò Anzeige I Azione I Gartensujet I

vanta dal braccio di ferro sulla nomina di monsignor Wolfgang Haas a vescovo di Coira. Un nome conservatore imposto rispetto all’antico privilegio locale che prevedeva per questa Chiesa locale la facoltà di eleggere il proprio pastore: finì che perfino Wojtyla dovette desistere, trasferendo Haas a una sede arcivescovile ad hoc creata per lui a Vaduz, in Liechtenstein. Giovanni Paolo II sarebbe comunque tornato a Berna un’ultima volta il 5 giugno 2004 – ormai anziano e malato, pochi mesi prima di morire – per un incontro con i giovani, che alla fine diventò il penultimo in assoluto dei suoi viaggi internazionali.

Nelle dieci ore che il papa trascorrerà a Ginevra, è prevista anche una messa al Palexpo e un incontro con Alain Berset

Guardie svizzere davanti a San Pietro. Quella di Francesco sarà la prima visita di un Papa in Svizzera dal 2004. (Keystone)

tutti gli organismi dell’Onu che hanno San Lorenzo e presiedette una Messa allo sede a Ginevra. Poi più lungo e articola- stadio Cornaredo. E anche in quell’octo sarebbe stato il viaggio apostolico del casione – oltre che a Zurigo, Berna, Fri1984; tante città svizzere toccate in sei burgo, Lucerna, l’abbazia di Einsiedeln... giorni dalla visita papale, compresa Lu- – fece tappa al Consiglio ecumenico delle gano, dove Wojtyla visitò la cattedrale di Chiese a Ginevra. Fu probabilmente il Italienisch I 605 x 220 mm I DU: 11.06.2018 I Erscheinung: 18.06.2018

viaggio in cui emerse più chiaramente la delicatezza della storia dei rapporti tra il cattolicesimo elvetico e Roma. Perché a differenza di tanti altri viaggi del papa polacco, quel giro in Svizzera non si rivelò affatto un bagno di folla trionfale:

la freddezza di una parte della comunità cattolica non mancò di manifestarsi. Del resto erano gli anni segnati dallo scontro con Hans Küng – con la sua critica all’«autoritarismo» di Roma – che sarebbero stati poi seguiti negli anni No-

Visti questi precedenti, che cosa attendersi da questo viaggio di Francesco? Il clima di questa vigilia è molto diverso, anche perché il 21 giugno sarà probabilmente una giornata che da Ginevra guarderà più all’orizzonte del mondo che alle specificità svizzere. L’occasione della visita è molto chiara: il papa arriva nella Confederazione per rendere omaggio a una realtà internazionale come il Consiglio ecumenico delle Chiese. Lo si vede dallo stesso programma della giornata che fuori dagli eventi ecumenici comprende solo altri due appuntamenti: l’incontro privato con il presidente della Confederazione Alain Berset subito in aeroporto e – appunto – la Messa al Palexpo, con la comunità cattolica locale. Per il resto la scena sarà dominata dal dialogo con l’organismo fondato nel 1948 per riunire i credenti delle diverse confessioni cristiane e che per questo compito scelse proprio Ginevra. Una sede oggi

punto di incontro riconosciuto per ben 348 chiese che rappresentano circa 560 milioni di cristiani sparsi in 110 Paesi del mondo. Galassia a cui, va precisato, la Chiesa cattolica non aderisce: si tratta infatti di confessioni di matrice ortodossa, evangelica e anglicana; pur da realtà esterna, però, fin dagli anni di Paolo VI il Vaticano ha guardato con interesse a questa esperienza, anche attraverso una serie di iniziative strutturate di collaborazione. Da parte sua va aggiunto che oggi lo stesso Consiglio ecumenico delle Chiese non è affatto insensibile alla leadership che papa Francesco esercita a livello globale su questioni come l’attenzione ai migranti, la denuncia degli squilibri economici a livello planetario, la salvaguardia dell’ambiente. Di qui, dunque, la grande attesa per questo faccia a faccia, nel corso del quale vi sarà anche un incontro tra il papa è una delegazione di cristiani evangelici della Corea del Nord, con i quali il Consiglio ecumenico delle Chiese già da tempo intrattiene relazioni. Da Ginevra è dunque verosimile che arrivi un messaggio forte di unità tra i cristiani di fronte alle sfide del mondo globalizzato: «Camminando, pregando e lavorando insieme» recita non a caso lo slogan scelto per la visita di papa Francesco. Del resto questa giornata al Consiglio ecumenico delle Chiese si ricollega idealmente anche alla visita compiuta da Bergoglio alla fine del 2016 a Lund, in Svezia, per l’apertura delle celebrazioni per i 500 anni dalla Riforma, quando disse espressamente che anche i cattolici hanno qualcosa da imparare da Lutero. Tutto questo, però, nella consapevolezza che oggi sono soprattutto le questioni sociali e politiche il banco di prova intorno al quale è possibile provare a costruire l’ecumenismo. A questo proposito è infatti interessante notare che papa Francesco arriva al Consiglio ecumenico delle Chiese subito dopo una nuova frenata da parte del Vaticano rispetto alla richiesta avanzata dai vescovi

La consigliera federale Leuthard, in udienza privata dal Papa l’anno scorso. (Keystone)

cattolici tedeschi che premevano affinché fosse permesso alle coppie formate da cattolici ed evangelici di poter accedere insieme all’Eucaristia. Nonostante i viaggi, gli incontri ufficiali, le celebrazioni comuni tra vescovi, pastori e patriarchi – dunque – un via libera a gesti del genere da Roma continua a non arrivare; come profonde restano le differenze tra le diverse Chiese rispetto a temi

come la morale sessuale o il ministero ordinato delle donne. Questo, però, non significa che altre strade da percorrere insieme non esistano: di qui l’orizzonte dell’impegno per la pace e la giustizia. Per papa Francesco – ma anche per lo stesso segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, il pastore norvegese Olav Fykse Tveit – questa non è una comoda scorciatoia,

ma il terreno concreto sul quale tornare a confrontarsi con le risposte che il Vangelo può offrire all’uomo di oggi. Così, per esempio, per il mese di settembre a Roma è già fissato un nuovo appuntamento comune che avrà per tema la questione oggi cruciale delle migrazioni. Ed è su questo piano che si colloca anche il messaggio peculiare che il viaggio può offrire anche alla Svizzera, con la sua storia e la sua vocazione a essere crocevia del mondo. L’anno scorso – in occasione dell’annuale giuramento delle nuove guardie svizzere, il piccolo esercito che da oltre 500 anni per tradizione protegge la Città del Vaticano e i pontefici – papa Francesco aveva già incontrato a Roma l’allora presidente della Confederazione elvetica, Doris Leuthard. E in quell’occasione con lei aveva parlato di una serie di temi: il futuro del continente europeo, l’accoglienza dei migranti, la sfida del mondo del lavoro per i giovani, la lotta contro il terrorismo, l’impegno per la tutela dell’ambiente. Sono le stesse domande che la visita di Ginevra andrà probabilmente a incrociare: quale ruolo per la Svizzera di domani in un contesto europeo dove l’onda del populismo porta sempre più a galla fratture e chiusure? Quale responsabilità nello sguardo sul mondo per una realtà che – proprio per la sua storia – è sede di tanti organismi internazionali? Come fare incontrare il tema della salvaguardia dell’ambiente – così sentito in terra elvetica – con un modello di sviluppo capace di includere davvero il mondo intero, chiamando in gioco anche le responsabilità di ambiti come la finanza, l’industria dell’energia, lo sfruttamento delle materie prime, come Bergoglio chiede con forza nella sua enciclica Laudato Sì? Parlerà alle comunità cristiane di tutto il mondo papa Francesco dal pulpito ecumenico di Ginevra. Ma la sfida vera per i cattolici e gli evangelici della Svizzera sarà quella di non rimanere solo il Paese ospitante di una bella fotografia. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Politica e Economia

Politica e Economia

A Ginevra per parlare a tutti i cristiani Viaggio pastorale Nella sua prima visita in Svizzera, a Ginevra, Papa Francesco renderà omaggio

al Consiglio ecumenico delle Chiese, portando un messaggio di unità dei cristiani di fronte alle sfide della globalizzazione Giorgio Bernardelli Il papa poco ortodosso, specialista nell’abbattere gli steccati, arriva nella città di Calvino. Il pontefice argentino che ha fatto dell’accoglienza ai migranti e della denuncia delle contraddizioni dell’economia globalizzata il cuore del suo messaggio, viene ad incontrare la Svizzera di oggi. Si possono riassumere forse così le coordinate principali del viaggio che porterà papa Francesco giovedì 21 giugno a Ginevra. Appena una decina di ore tra l’arrivo all’aeroporto di Cointrin e la ripartenza per Roma. Eppure sono ore molto attese e non solo dalla comunità cattolica, che già da settimane ha esaurito i 41 mila posti disponibili per la Messa al Palexpo. Con questo viaggio papa Francesco diventa il terzo papa a fare tappa in Svizzera. Ad aprire la strada fu infatti Paolo VI – il 10 giugno 1969 – anche lui con un viaggio di una sola giornata a Ginevra, dove visitò l’Ufficio internazionale del lavoro, tenendo sulla dignità da salvaguardare in questa fondamentale attività umana un discorso che suonerebbe ancora oggi attualissimo. E fu sempre lui a rompere il ghiaccio con il Consiglio ecumenico delle Chiese, l’istituzione che festeggia oggi i suoi 70 anni e rappresenta la principale ragione del viaggio di papa Francesco. Dopo Paolo VI sarebbe stato poi Giovanni Paolo II ad approdare nella Confederazione per ben tre volte: la prima il 15 giugno 1982, quando incontrò Anzeige I Azione I Gartensujet I

vanta dal braccio di ferro sulla nomina di monsignor Wolfgang Haas a vescovo di Coira. Un nome conservatore imposto rispetto all’antico privilegio locale che prevedeva per questa Chiesa locale la facoltà di eleggere il proprio pastore: finì che perfino Wojtyla dovette desistere, trasferendo Haas a una sede arcivescovile ad hoc creata per lui a Vaduz, in Liechtenstein. Giovanni Paolo II sarebbe comunque tornato a Berna un’ultima volta il 5 giugno 2004 – ormai anziano e malato, pochi mesi prima di morire – per un incontro con i giovani, che alla fine diventò il penultimo in assoluto dei suoi viaggi internazionali.

Nelle dieci ore che il papa trascorrerà a Ginevra, è prevista anche una messa al Palexpo e un incontro con Alain Berset

Guardie svizzere davanti a San Pietro. Quella di Francesco sarà la prima visita di un Papa in Svizzera dal 2004. (Keystone)

tutti gli organismi dell’Onu che hanno San Lorenzo e presiedette una Messa allo sede a Ginevra. Poi più lungo e articola- stadio Cornaredo. E anche in quell’octo sarebbe stato il viaggio apostolico del casione – oltre che a Zurigo, Berna, Fri1984; tante città svizzere toccate in sei burgo, Lucerna, l’abbazia di Einsiedeln... giorni dalla visita papale, compresa Lu- – fece tappa al Consiglio ecumenico delle gano, dove Wojtyla visitò la cattedrale di Chiese a Ginevra. Fu probabilmente il Italienisch I 605 x 220 mm I DU: 11.06.2018 I Erscheinung: 18.06.2018

viaggio in cui emerse più chiaramente la delicatezza della storia dei rapporti tra il cattolicesimo elvetico e Roma. Perché a differenza di tanti altri viaggi del papa polacco, quel giro in Svizzera non si rivelò affatto un bagno di folla trionfale:

la freddezza di una parte della comunità cattolica non mancò di manifestarsi. Del resto erano gli anni segnati dallo scontro con Hans Küng – con la sua critica all’«autoritarismo» di Roma – che sarebbero stati poi seguiti negli anni No-

Visti questi precedenti, che cosa attendersi da questo viaggio di Francesco? Il clima di questa vigilia è molto diverso, anche perché il 21 giugno sarà probabilmente una giornata che da Ginevra guarderà più all’orizzonte del mondo che alle specificità svizzere. L’occasione della visita è molto chiara: il papa arriva nella Confederazione per rendere omaggio a una realtà internazionale come il Consiglio ecumenico delle Chiese. Lo si vede dallo stesso programma della giornata che fuori dagli eventi ecumenici comprende solo altri due appuntamenti: l’incontro privato con il presidente della Confederazione Alain Berset subito in aeroporto e – appunto – la Messa al Palexpo, con la comunità cattolica locale. Per il resto la scena sarà dominata dal dialogo con l’organismo fondato nel 1948 per riunire i credenti delle diverse confessioni cristiane e che per questo compito scelse proprio Ginevra. Una sede oggi

punto di incontro riconosciuto per ben 348 chiese che rappresentano circa 560 milioni di cristiani sparsi in 110 Paesi del mondo. Galassia a cui, va precisato, la Chiesa cattolica non aderisce: si tratta infatti di confessioni di matrice ortodossa, evangelica e anglicana; pur da realtà esterna, però, fin dagli anni di Paolo VI il Vaticano ha guardato con interesse a questa esperienza, anche attraverso una serie di iniziative strutturate di collaborazione. Da parte sua va aggiunto che oggi lo stesso Consiglio ecumenico delle Chiese non è affatto insensibile alla leadership che papa Francesco esercita a livello globale su questioni come l’attenzione ai migranti, la denuncia degli squilibri economici a livello planetario, la salvaguardia dell’ambiente. Di qui, dunque, la grande attesa per questo faccia a faccia, nel corso del quale vi sarà anche un incontro tra il papa è una delegazione di cristiani evangelici della Corea del Nord, con i quali il Consiglio ecumenico delle Chiese già da tempo intrattiene relazioni. Da Ginevra è dunque verosimile che arrivi un messaggio forte di unità tra i cristiani di fronte alle sfide del mondo globalizzato: «Camminando, pregando e lavorando insieme» recita non a caso lo slogan scelto per la visita di papa Francesco. Del resto questa giornata al Consiglio ecumenico delle Chiese si ricollega idealmente anche alla visita compiuta da Bergoglio alla fine del 2016 a Lund, in Svezia, per l’apertura delle celebrazioni per i 500 anni dalla Riforma, quando disse espressamente che anche i cattolici hanno qualcosa da imparare da Lutero. Tutto questo, però, nella consapevolezza che oggi sono soprattutto le questioni sociali e politiche il banco di prova intorno al quale è possibile provare a costruire l’ecumenismo. A questo proposito è infatti interessante notare che papa Francesco arriva al Consiglio ecumenico delle Chiese subito dopo una nuova frenata da parte del Vaticano rispetto alla richiesta avanzata dai vescovi

La consigliera federale Leuthard, in udienza privata dal Papa l’anno scorso. (Keystone)

cattolici tedeschi che premevano affinché fosse permesso alle coppie formate da cattolici ed evangelici di poter accedere insieme all’Eucaristia. Nonostante i viaggi, gli incontri ufficiali, le celebrazioni comuni tra vescovi, pastori e patriarchi – dunque – un via libera a gesti del genere da Roma continua a non arrivare; come profonde restano le differenze tra le diverse Chiese rispetto a temi

come la morale sessuale o il ministero ordinato delle donne. Questo, però, non significa che altre strade da percorrere insieme non esistano: di qui l’orizzonte dell’impegno per la pace e la giustizia. Per papa Francesco – ma anche per lo stesso segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese, il pastore norvegese Olav Fykse Tveit – questa non è una comoda scorciatoia,

ma il terreno concreto sul quale tornare a confrontarsi con le risposte che il Vangelo può offrire all’uomo di oggi. Così, per esempio, per il mese di settembre a Roma è già fissato un nuovo appuntamento comune che avrà per tema la questione oggi cruciale delle migrazioni. Ed è su questo piano che si colloca anche il messaggio peculiare che il viaggio può offrire anche alla Svizzera, con la sua storia e la sua vocazione a essere crocevia del mondo. L’anno scorso – in occasione dell’annuale giuramento delle nuove guardie svizzere, il piccolo esercito che da oltre 500 anni per tradizione protegge la Città del Vaticano e i pontefici – papa Francesco aveva già incontrato a Roma l’allora presidente della Confederazione elvetica, Doris Leuthard. E in quell’occasione con lei aveva parlato di una serie di temi: il futuro del continente europeo, l’accoglienza dei migranti, la sfida del mondo del lavoro per i giovani, la lotta contro il terrorismo, l’impegno per la tutela dell’ambiente. Sono le stesse domande che la visita di Ginevra andrà probabilmente a incrociare: quale ruolo per la Svizzera di domani in un contesto europeo dove l’onda del populismo porta sempre più a galla fratture e chiusure? Quale responsabilità nello sguardo sul mondo per una realtà che – proprio per la sua storia – è sede di tanti organismi internazionali? Come fare incontrare il tema della salvaguardia dell’ambiente – così sentito in terra elvetica – con un modello di sviluppo capace di includere davvero il mondo intero, chiamando in gioco anche le responsabilità di ambiti come la finanza, l’industria dell’energia, lo sfruttamento delle materie prime, come Bergoglio chiede con forza nella sua enciclica Laudato Sì? Parlerà alle comunità cristiane di tutto il mondo papa Francesco dal pulpito ecumenico di Ginevra. Ma la sfida vera per i cattolici e gli evangelici della Svizzera sarà quella di non rimanere solo il Paese ospitante di una bella fotografia. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Politica e Economia

Singapore, un falso storico

Vertice di Sentosa Kim ha ottenuto legittimità internazionale e una promessa di sospensione

delle esercitazioni militari Usa-Sud. Che appare come un grande cedimento di Trump

Federico Rampini La più folle settimana della politica estera americana era cominciata offendendo tutti gli alleati, dall’Europa al Canada. Si è conclusa sul «cessato pericolo atomico», che Donald Trump ha dichiarato al suo rientro dal vertice di Singapore. Non è casuale che questo presidente sperimenti delle improvvise aperture con gli avversari tradizionali dell’America, mentre sconquassa una coalizione di amici e partner che dura dalla Seconda guerra mondiale. C’è del metodo in questa – apparente – follia. Nel giro di pochi giorni fra G7 e Singapore abbiamo avuto degli shock tali che bisogna estrarne qualche insegnamento prima che sia troppo tardi. Comincio dall’ultimo perché è il più grave: a Kim Jongun (e a Xi Jinping) il presidente ha fatto balenare la possibilità concreta di un ritiro delle truppe americane dalla Corea. È enorme, e al tempo stesso coerente con la sua insofferenza verso i costi della difesa degli alleati. Gli europei della Nato sono avvisati: non sottovalutino il rischio. Le minacce di disimpegno di Trump oltretutto mandano segnali di via libera ad altri aspiranti «sfasciatori» dell’Europa. La durezza con cui ha trattato Justin Trudeau al G7 la dice lunga sulla sua indifferenza verso gli alleati storici. La Merkel è la prossima nella lista. I dazi su acciaio e alluminio sono stati solo un assaggio. Nell’insofferenza verso il rapporto con l’Europa trapela qualcosa di profondo, non episodico. Verso quale mondo ci può traghettare un’America che si sente più a suo agio nel trattare coi regimi autoritari?

Trump insiste sulla buona fede del suo interlocutore, persuaso di avergli scrutato l’anima, come nessun suo precedessore era riuscito a fare I due leader che si promettevano missili, atomiche e distruzione reciproca sul finire del 2017, sono tutti pacche sulle spalle e sorrisi nello storico vertice del 12 giugno al caldo tropicale del sud-est asiatico. Il luogo della magìa ha lo scenario adatto, l’hotel Capella del vertice è su un isolotto di Singapore, detto «Sentosa the State of Fun». Lo Stato del Divertimento: è un’antica guarnigione coloniale riconvertita al business delle vacanze, ospita resort, campi da golf, luna park e altre attrazioni in stile DisneyWorld, più una replica degli Universal Studios hollywoodiani. Ed è in stile Hollywood che Trump esordisce, mostrando al dittatore nordcoreano un piccolo documentario di fantapolitica: racconta un futuro in cui la Corea del Nord sarà come la gemella del Sud, prospera e tecnologicamente avanzata; l’alternativa sono tragiche immagini in bianco e nero che ricordano la guerra del 1950-’53. Trump proietta il suo film (produzione Destiny Pictures, sic) anche nella conferenza stampa finale, per rivelarci le sue armi di persuasione. Sente di aver convinto, l’istinto gli dice che Kim vuole provare una strada diversa. Il documento finale che hanno firmato parla di «completa denuclearizzazione della penisola». Non ci sono date né impegni precisi sulle ispezioni internazionali. In compenso Trump ha già fatto una concessione di rilievo: sospende i «war games», le manovre militari congiunte che due volte all’anno coinvol-

Kim Jong-un e Donald Trump entrano al Capella Hotel per il summit. (AFP)

gono le forze Usa e quelle della Corea del Sud. «Sarebbero una provocazione. E costano un’enormità, ci tocca pagare i bombardieri in volo dall’isola di Guam, mentre la Corea del Sud partecipa poco alle spese». La cancellazione delle manovre militari congiunte sembra un cedimento enorme, inaspettato, non concordato con il governo di Seul. Però corrisponde a un impulso profondo di Trump: da tempo questo presidente accusa tutti gli alleati (europei della Nato inclusi) di farsi difendere a sbafo dall’America. Un graduale ritiro dagli impegni di «gendarme mondiale» è nelle sue corde, coerente con la visione di America First. E la denuclearizzazione? Un regime ferocemente autoritario, isolato dal mondo, vissuto per decenni nella paranoia bellicosa, dovrebbe aprirsi di colpo agli ispettori internazionali, accettare visite senza preavviso, invasive e illimitate. Trump insiste sulla buona fede del suo interlocutore, persuaso di avergli scrutato l’anima. «Mi ha detto che ha già iniziato a distruggere una base missilistica, eppure questo non era incluso nei nostri patti». In quanto a conoscere esattamente tutti gli impianti nucleari di cui dispone la Corea del Nord, il presidente americano vanta la capacità della sua intelligence: «Abbiamo strumenti eccezionali». Non è neppure chiaro che cosa i nordcoreani intendano per denuclearizzazione: il documento che porta la firma di Kim non specifica che essa riguardi solo Pyongyang; su quella base loro potrebbero esigere anche il ritiro dell’ombrello nucleare americano a protezione di Seul. Ci vuole ottimismo e Trump in versione Singapore ne ha in abbondanza. Già immagina altri summit come questo: Kim lo ha invitato a Pyongyang, lui potrebbe ricambiare ospitandolo alla Casa Bianca, in vista c’è il riconoscimento diplomatico. Si crogiuola nel paragone con i suoi predecessori, «e non solo Obama». Da Clinton a Bush, tutti sono stati incapaci di risolvere il problema nordcoreano, «me lo hanno lasciato a me, nelle condizioni peggiori». Gli altri rifiutarono d’incontrare il dittatore (o il padre), Trump con questo colpo d’ingegno ha creato una situazione nuova. Interrogato sui diritti umani, cita alcuni risultati che riguardano solo gli americani: la recente liberazione di

ostaggi, la promessa di restituire alle famiglie i resti di alcuni soldati Usa caduti sul fronte coreano negli anni Cinquanta. E la popolazione nordcoreana, oppressa da un regime brutale? Trump la pensa un po’ diversamente, ammette gli abusi ma secondo lui «Kim ama il suo Paese, lo vedi dal fervore con cui ne parla, vuole un futuro diverso». Tutto questo potrebbe cambiare ancora, così come si è capovolto il clima delle relazioni bilaterali in questi sette mesi. Certo i test missilistici e nucleari sono cessati, e non è poco. Ma la denuclearizzazione dovrebbe essere «irreversibile»: le prove che dovrà offrire Pyongyang sono tante. Kim si gode un trionfo sulla scena mondiale. La speranza di Trump è che ci prenda gusto a tal punto, da rovesciare il suo «teorema atomico» che vedeva nella superbomba una polizza vita. Una nota di colore per finire sul vertice con Kim: Trump gli ha anche prospettato i guadagni da fare aprendo la Corea del Nord al business immobiliare... e ci sarebbe da ridere ma non è escluso che l’appello all’avidità abbia contribuito a far scattare l’intesa fra i due. È tutto un nuovo modo di far politica estera. Le prove generali forse le fecero Berlusconi e Putin? Sulle macerie del G7 vedremo nascere un G3 fra Stati Uniti, Cina e Russia? Sarà quello il nuovo direttorio per gestire gli affari mondiali, con l’Europa relegata ai margini? Trump nella brutalità con cui ha posto la questione russa al G7 ha colto un dato reale. «Preferisco avere la Russia dentro che averla contro». È la sua versione – rozza e semplificata – della realpolitik che fu praticata da Henry Kissinger: liberando la politica estera dalla zavorra di preoccupazioni etiche, valori, ideali. Naturalmente l’accostamento fra i due è un insulto all’ex segretario di Stato di Richard Nixon, che fu l’artefice del disgelo con la Cina maoista, e prima ancora era stato un brillante studioso della Pace di Vestfalia e del Congresso di Vienna. Una cosa però hanno in comune, oltre a una buona dose di cinismo: per ambedue i personaggi contano i rapporti di forze, gli equilibri delle potenze. Trump ammira l’aggressività di Vladimir Putin, che ha visto all’opera in Siria. Rispetta il decisionismo di Xi Jinping, a cui attribuisce il merito di avere ammansito la Corea del Nord. Le lungaggini delle democrazie eu-

ropee lo infastidiscono. Sente che con i presidenti russo e cinese può negoziare come nel mondo del business. Due pesi e due misure: abbiamo visto al G7 quanti sgarbi Trump ha inflitto ai suoi alleati. Ha piantato in asso il vertice, abbandonandolo prima della fine dei lavori, per andarsene a Singapore. Non ha voluto sentire ragioni sui dazi americani. Applicherà sanzioni alle imprese europee che fanno affari con l’Iran, nonostante la palese illegalità del comportamento americano. Sulle politiche ambientali ha disertato la discussione. In compenso ha ribadito, dall’inizio alla fine, che la Russia deve rientrare nel concerto delle nazioni, anche se non ha fatto nulla per sanare le ferite di Crimea e Ucraina. L’establishment repubblicano, e quello militare, sono preoccupati per tutti questi segnali di «intesa col nemico». Il capo di tutte le agenzie di intelligence americane ha lanciato un allarme su «Putin che lavora a dividere la Nato». Ma alla fine il Commanderin-Chief è Trump. L’opposizione democratica è indignata. Fareed Zakaria della Cnn riassume il sentimento della sinistra americana, quando si augura che «ciò che resta del G7» cioè Europa Canada e Giappone spingano fino in fondo l’isolamento dell’America, rispondano colpo su colpo, infliggano dazi contro dazi, sanzioni contro sanzioni, in modo da far pagare un prezzo pesante all’economia americana e alla leadership di Washington. Tutto ciò è irrealistico. Un G6 fatto da quelli che Trump ha snobbato, non ha consistenza né coerenza. Perfino i quattro europei non fanno squadra, con la May che prepara Brexit, Conte che ha dei referenti putiniani, e l’asse Merkel-Macron indebolito dalla crisi di leadership tedesca. Almeno questo Trump lo ha colto: l’attuale G7 rappresenta un mondo che non c’è più, i rapporti di forze sono cambiati, i soci di quel club che nacque 40 anni fa non sono la cabina di regìa della globalizzazione. La Cina è la seconda economia mondiale, sulla buona strada per agguantare gli Stati Uniti. L’India sorpasserà la Germania. La Russia ha un’economia di scarso peso ma un arsenale militare formidabile, e sa giocarsi le sue carte bene come si vede in Medio Oriente. L’attrazione di Trump verso gli uomini forti coincide con il rifiuto di «esportare un modello», di difendere dei valori.

Fra i libri di Paolo A. Dossena SERGIO ROMANO Atlante delle crisi mondiali, Rizzoli, 2018 La Guerra fredda, il bipolarismo, garantivano stabilità, il mondo che ne è seguito invece no. La globalizzazione, la nuova economia ad essa legata, la deregolamentazione Usa della finanza, hanno causato la crisi del 2008. Essa coincide con un’altra crisi, quella della democrazia rappresentativa, incapace di governare questi nuovi fenomeni e screditata da corruzione e conflitti d’interesse. L’atlantismo, scrive autorevolmente Sergio Romano (ex ambasciatore a Mosca, e soprattutto alla Nato) sembra un modo politicamente corretto per definire l’egemonia americana. La parola è stata usata per giustificare le destabilizzanti guerre Usa seguite alla fine della Guerra fredda. D’altro canto, c’è stata una straordinaria, positiva accelerazione del processo d’integrazione europeo (e questo ha messo l’Italia davanti a se stessa: le proprie anomalie, i propri poteri forti, le proprie corporazioni). Gli Usa non apprezzano l’unificazione del continente, non ammettono che l’Europa possa dotarsi di un suo esercito, che renderebbe evidente l’inutilità della Nato. Per rivitalizzarla occorre un nemico, che è stato trovato dagli Usa nella Russia. Da qui la nuova Guerra fredda. Ma gli errori americani incominciano in Afghanistan, dove armano quei talebani che, guidati da Bin Laden, daranno vita ad al-Qaeda. La quale, con l’attacco alle Torri (2001), porrà fine al mito dell’invulnerabilità americana. Da qui, la ritorsione Usa, con l’invasione dell’Afghanistan, le mosche che conquistano la carta moschicida. L’instabilità del Medio Oriente ha invece origini più antiche, nella Prima guerra mondiale. Da un lato, la dichiarazione di Balfour (1917) inviata al barone Rothschild, prometteva l’istituzione in Palestina di un «focolare per gli ebrei». Dall’altro, Lawrence d’Arabia prometteva agli arabi un grande Stato, dal Golfo Persico al Mar Mediterraneo. Nonostante questo preludio, il mondo arabo era dominato da dittatori laici e modernizzatori. La situazione è precipitata con la fine degli equilibri della Guerra fredda e con l’interventismo militare Usa e israeliano (Palestina, Libano, Iran, Iraq, Libia, Siria) che ha ulteriormente destabilizzato la regione, provocando l’avvento dell’islamismo. Il fallimento dei regimi laici ha infatti spinto le masse a cercare consolazione in un risveglio religioso. Oggi è tutto il mondo musulmano, dal Maghreb al Medioriente, ai Balcani (Kosovo, Bosnia), al Caucaso (Cecenia) fino all’Afghanistan e al Pakistan, a essere destabilizzato. Tra le cause, anche «l’ideologia del “Grande Israele”, l’invasione del Libano, i massacri di Sabra e Shatila, la continua colonizzazione dei territori occupati». Israele è dunque uno Stato identitario, «cioè esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere uno Stato moderno. Ma ha all’interno delle sue frontiere più di mezzo milione di arabi e ha permesso che più di mezzo milione di ebrei andassero a vivere in mezzo a tre milioni di palestinesi». Aggiornatissimo, il libro è di assoluta attualità: cita la denuncia americana del patto nucleare iraniano, la posizione ambigua dell’Arabia Saudita (ora che gli Usa e l’Islam ortodosso sono diventati nemici) l’emergere delle «tigri asiatiche» e l’attuale rischio che l’Afghanistan torni ai talebani.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Politica e Economia

Stati Uniti: ordine e disordine

Dottrina Trump I l presidente americano ha iniziato cinque guerre commerciali contemporaneamente, con la Cina,

l’Europa, il Messico, il Canada, il WTO. Cioè con gli alleati storici e con l’istituzione cardine del commercio globale Christian Rocca Il presidente americano Donald Trump sta costruendo un nuovo ordine mondiale, anche se in realtà sembra un nuovo disordine mondiale, di cui ancora non si conoscono bene i contorni e nemmeno le conseguenze. Il mondo che conosciamo nasce settanta anni fa dall’intuizione strategica americana secondo cui il modo più efficace per guidare il mondo e far progredire la società è quello di garantire la libera circolazione di persone, di merci e di idee, oltre che la diffusione della democrazia. Un modello di società che, dopo il 1989, si è esteso con dei limiti nell’Est europeo e in Asia, fino ad arrivare timidamente anche in Africa, assicurando un benessere condiviso e migliorando le condizioni di vita di alcuni miliardi di persone. Questo modello è in crisi e non è detto che sia adatto ai profondi cambiamenti che la rivoluzione digitale e la crescita della Cina hanno apportato all’economia globale: Trump, insomma, potrebbe essere il sintomo, non la causa del problema. Resta il fatto che, in assenza di modelli alternativi al sistema attuale, Trump sta demolendo la struttura di rapporti, di alleanze e di istituzioni multilaterali su cui si basa il mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale. Non li considera utili a servire il principio di America First, di America prima di tutto, e per questo ridicolizza il G7, smantella l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), dichiara guerre commerciali contro i partner di sempre, apre fronti pericolosi con gli avversari, alimenta le tensioni in Medio Oriente, dal Qatar alla questione di Gerusalemme, e addirittura apre due crisi nucleari contemporaneamente, violando una delle regole auree della politica estera americana, quella per cui non si apre più di una crisi nucleare nello stesso momento.

La dottrina Trump è Donald Trump medesimo: non è un ideologo interessato a codificare la visione e le scelte dell’Amministrazione La furia iconoclasta di Trump sbriciola anche questo pilastro della sicurezza nazionale di Washington, prima ritirandosi unilateralmente dal patto nucleare con l’Iran, poi incontrando il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Vedremo i dettagli dell’accordo di Singapore, ma per il momento sembra che abbia ottenuto più o meno quanto era già stato messo nero su bianco nel 1990, con risultati miseri. Secondo molti analisti, in ogni caso, il piano di denuclearizzazione della penisola coreana

Donald Trump e Angela Merkel discutono circondati dai leader politici in occasione del G7 svoltosi recentemente in Canada. (AFP)

firmato a Singapore è meno cogente del patto nucleare con l’Iran che Trump definì «l’accordo peggiore di sempre». La doppia mossa Iran-Corea, la prima che rompe un patto sul nucleare e la seconda che ne sigla un altro, sfugge a ogni tipo di coerenza strategica perché Trump non è un presidente tradizionale e non è nemmeno un ideologo interessato a codificare una dottrina attraverso cui poter interpretare la visione e le scelte dell’Amministrazione. La dottrina Trump è Donald Trump medesimo. Trump è convinto di essere un mago dei negoziati, come ha scritto nel libro The Art of the deal, ovvero l’arte di fare accordi che siano dei veri affari, e crede che il patto firmato da Barack Obama e dagli europei con il regime di Teheran sia pessimo e pensa di poterne ottenere uno migliore usando il bastone delle sanzioni economiche. È un riflesso adolescenziale, più che una dottrina coerente, la cui ricaduta sul mondo che viviamo è ancora sconosciuta. La questione del commercio mondiale è ancor più emblematica del suo modo di agire e potenzialmente è quella che avrà il maggiore impatto. Nel giro di un paio di giorni, quelli intorno al summit del G7 dei primi di giugno in Canada, Trump ha iniziato quattro guerre commerciali una dietro l’altra.

Contemporaneamente. Una contro la Cina sul deficit commerciale, una contro il Messico e il Canada sul trattato di libero scambio nordamericano (NAFTA), una contro l’Europa e il resto del mondo sulle tariffe e una con il WTO sulle regole del commercio mondiale. Qualche mese prima aveva anche fatto saltare gli accordi commerciali con undici paesi del Pacifico, che ora sono pronti a guardare all’offerta cinese. Non è mai successa una cosa del genere: una guerra commerciale dell’America contro tutto il mondo, nello stesso momento, sovvertendo un sistema di cui fino a ieri Washington era il garante e il primo beneficiario. Il paradosso è che chi ne sta traendo vantaggio non è l’America, né il consumatore americano che si vedrà aumentare il prezzo di molti prodotti quando scatterà la rappresaglia protezionista degli alleati, ma la coppia di avversari storici degli Stati Uniti e dell’ordine mondiale post bellico: la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping. Putin sta incassando il successo della sua campagna strategica per dividere l’Occidente e incrementare il caos mondiale, in attesa di vedere nei prossimi mesi, quando si chiuderà l’inchiesta americana del procuratore Mueller, il grado di coinvolgimento del mondo Trump nella realizzazione del progetto del Cremlino. Come ha detto Susan

Rice, Consigliere per la sicurezza nazionale ai tempi di Barack Obama, non c’è nessuna prova che Putin stia dettando l’agenda politica americana, ma se lo stesse davvero facendo sarebbe difficile immaginare un risultato migliore per il leader russo. La Cina, invece, sta provando a colmare il vuoto politico e commerciale lasciato da Trump e a corteggiare soprattutto l’Europa, ma anche il Giappone e altri paesi asiatici. E mentre il presidente americano non fa partire il grande piano per le infrastrutture domestiche, che oggi non è più all’altezza del rango di superpotenza degli Stati Uniti, Pechino finanzia la nuova via della Seta analogica e digitale, fatta di autostrade, ponti, treni ad alta velocità e fibra ottica per Internet, che legherà sempre di più l’Asia a guida cinese con l’occidente europeo e l’Africa. Anche Obama ci ha messo di suo, lasciando costruire ai cinesi le isole artificiali nel Pacifico che sono diventate avamposti militari di Pechino nei mari dove per oltre mezzo secolo la Marina america ha protetto le rotte commerciali. Il rischio concreto è che nei prossimi decenni il controllo del commercio passi dagli americani ai cinesi, e non è la stessa cosa se a dettare le regole d’ingaggio sarà il regime autoritario di Pechino anziché la più grande democrazia del mondo. È ancora possibile, ovviamente,

che tutti questi fronti si risolvano positivamente, sia quelli commerciali sia quelli nucleari sia quelli politici, ma ogni giorno che passa appare sempre più improbabile che Trump torni sui suoi passi o che gli alleati europei e asiatici continuino a subire le mattane del presidente o che Cina e Russia decidano di non approfittare del caos mondiale che un po’ hanno creato loro e un po’ Trump gli ha regalato. Trump dice che l’ordine mondiale sfavorisce gli Stati Uniti e sa che questo messaggio piace all’elettorato americano colpito dalla delocalizzazione delle fabbriche e dall’innovazione tecnologica. La misura del disagio americano, secondo Trump, è la bilancia commerciale. Se l’America importa più beni di quanti ne esporta, secondo lui e alcuni dei suoi consiglieri, non va bene, bisogna riequilibrare, serve reciprocità. La gran parte degli economisti, però, crede che il deficit commerciale sia un indicatore fuorviante per stabilire se i trattati di scambio convengono o meno ai paesi che li firmano, anche perché la differenza tra import ed export è dettata da fattori macroeconomici e non dalle politiche commerciali. Tra l’altro nel deficit commerciale americano, che è di 800 miliardi, Trump considera soltanto i beni materiali e non i servizi, a cominciare da quelli finanziari, su cui l’America può vantare un surplus. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

La fiamma si è spenta

«Sion 2026» Il 54 per cento dei votanti vallesani ha bocciato il credito quadro di 100 milioni di franchi,

affossando il progetto e rinviando alle calende greche qualsiasi candidatura elvetica alle Olimpiadi invernali

Marzio Rigonalli Il sogno di accogliere di nuovo le Olimpiadi invernali in Svizzera, di ospitare una lunga schiera di campioni e di diventare, per alcune settimane, il centro d’interesse degli sportivi di tutto il mondo, si è infranto nelle urne del canton Vallese. Una settimana fa, il 54% dei votanti ha respinto il credito di 100 milioni franchi, chiesto dal governo e dal parlamento cantonali: un contributo ritenuto indispensabile per poter realizzare il progetto «Sion 2026», ossia per poter accogliere i Giochi olimpici in quattro cantoni della Svizzera occidentale, con Sion come città ospitante. Il rifiuto dei vallesani ha praticamente annullato il lavoro svolto negli ultimi anni a sostegno della candidatura e reso vano ogni serio tentativo di voler continuare su questa strada. Il giorno prima l’assemblea comunale di Kandersteg, il comune dove è nato l’ex consigliere federale Adolf Ogi, aveva votato un credito di 1,5 milioni di franchi in favore del progetto.

Hanno pesato sul voto le incognite finanziare, come pure la cattiva immagine del Comitato Olimpico Internazionale Non è la prima volta che la popolazione di un cantone si dichiara contraria alla realizzazione delle Olimpiadi invernali sul suolo elvetico. È già successo due volte nel canton Grigioni. Dapprima nel 2013, quando gli elettori bocciarono, con il 52,6%, la candidatura di St. Moritz e Davos per l’organizzazione dei Giochi olimpici invernali del 2022. In seguito, il 12 febbraio dell’anno scorso, quando il 60% dei votanti respinse un credito d’impegno per elaborare una candidatura grigionese per i Giochi olimpici e paraolimpici invernali del 2026. Analoghe situazioni, con esiti simili, si sono avverate anche in paesi vicino al nostro, come la Germania e l’Austria. L’ultima volta ad Innsbruck,

un centro che in passato ha già ospitato due volte le Olimpiadi invernali, nel 1964 e nel 1976. Nello scorso mese di ottobre, i votanti della città e del Tirolo austriaco hanno bocciato con un referendum popolare la candidatura del capoluogo tirolese per i Giochi olimpici invernali del 2026. Il sì della popolazione coinvolta sta diventando una condizione necessaria per garantire il successo di una candidatura olimpica, per lo meno nei paesi dove la democrazia viene ancora rispettata. Non è però sempre stato così. Lo stesso canton Vallese ha già tentato tre volte di ottenere l’organizzazione dei Giochi olimpici, quelli previsti nel 1976, nel 2002 e nel 2006. Molto dolorosa fu l’ultima sconfitta, quella che vide Torino prevalere su Sion. Il comitato promotore della candidatura, sostenuto dal consigliere federale Adolf Ogi, era convinto della forza del proprio progetto e sperava di poter tagliare il traguardo per primo, ma i delegati del CIO, riuniti a Seul il 19 giugno 1999, preferirono assegnare i Giochi 2006 al capoluogo del Piemonte, per 53 voti contro 36 andati a Sion. Due sono le principali ragioni del no popolare vallesano: l’opportunità del progetto e la spesa finanziaria ch’esso implicava, nonché l’immagine francamente poco edificante del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) che vien recepita dalla popolazione. Per molti cittadini, le Olimpiadi invernali rappresentano un progetto dalle dimensioni gigantesche che ha un forte impatto sull’ambiente, che può portare qualche vantaggio alla regione che ospita i Giochi, ma che non incide in maniera positiva e duratura sullo sviluppo economico e territoriale della stessa regione. I Giochi di Vancouver nel 2010 e di Sochi nel 2014 vengono spesso citati come esempi di realtà che hanno lasciato poche tracce positive dopo lo spegnimento della fiamma olimpica. Le ripercussioni positive dei Giochi, invocate dagli organizzatori, come il rilancio dell’immagine di un paese, al centro dell’attenzione mediatica per almeno due settimane, o la spinta che potrebbero dare sia al

Neppure gesti simbolici come la «torcia» accesa da Pirmin Zurbriggen sul Cervino sono bastati a conquistare una maggioranza in favore di «Sion 2026». (Keystone)

rinnovo delle infrastrutture turistiche che all’aumento della frequenza dei turisti, vengono minimizzate dagli avversari dei Giochi. Loro ritengono che gli aspetti positivi dell’evento vengono largamente superati da quelli negativi. L’assenza d’entusiasmo per i Giochi viene poi rafforzata dall’incertezza finanziaria. È risaputo che i preventivi allestiti nelle ultime edizioni delle Olimpiadi sono stati ampiamente superati. Il trend potrebbe continuare, nonostante le promesse del CIO e degli organizzatori e, in fin dei conti, costringere i cittadini del paese organizzatore a coprire gli eventuali deficit. Il credito di 100 milioni di franchi, bocciato dal popolo vallesano, ma approvato a larga maggioranza dal Gran Consiglio, prevedeva 60 milioni per i costi legati alle infrastrutture e 40 milioni per garantire la sicurezza. Importi che la maggioranza dei votanti ha ritenuto troppo importanti e, per di più, suscettibili di essere superati. La seconda importante ragione del rifiuto del Vallese è difficile da quantificare, ma è stata ben presente nelle discussioni e nei dibattiti che hanno preceduto il voto popolare. Il Comitato Olimpico Internazionale vien visto come un’autorità non democratica,

nella quale gran parte dei membri non viene eletta, bensì cooptata. Un’autorità che spesso è stata alle prese con scandali veri o presunti tali, in cui era questione di gravi lacune nella lotta contro il doping, di mazzette versate ad alcuni suoi membri, di decisioni pilotate dall’esterno, di assegnazioni non sempre comprensibili e di gigantismo nell’organizzazione dei Giochi. Per rimediare a questo fuoco di critiche, qualche anno fa, il CIO ha avviato una riforma interna che prevede di dare ai Giochi una dimensione più umana e più ragionevole, e che consenta di partecipare anche ai centri invernali di medie e piccole dimensioni. I risultati della riforma, però, non sono ancora tangibili e sufficientemente evidenti per poter modificare l’immagine negativa del CIO, che si è installata nell’opinione pubblica. Che cosa succederà ora? La Svizzera, considerata con qualche buona ragione la culla degli sport invernali, dovrà attendere altri dieci, forse venti anni, prima di poter ripresentare una sua candidatura. Sarà un lasso di tempo molto lungo, considerato anche il fatto che le sue ultime Olimpiadi invernali furono quelle di St.Moritz del 1948. Intanto, per il 2026, sono rimaste in corsa

ben sei candidature: Stoccolma (Svezia), Calgary (Canada), Sapporo (Giappone), Graz (Austria), Erzurum (Turchia) e l’Italia con Milano, o Cortina d’Ampezzo, o di nuovo Torino. Il CIO farà la sua scelta probabilmente nel corso del mese di ottobre dell’anno prossimo. Sul piano interno, il no alle Olimpiadi non deve bloccare l’emersione di altri progetti, forse altrettanti importanti. A livello federale, il miliardo di franchi che il Consiglio federale era pronto a mettere sul tavolo, ammessa l’approvazione delle Camere federali, potrebbe venir impiegato per un progetto con un forte richiamo nazionale e coinvolgente più cantoni. Un progetto che ricorderebbe le Esposizioni nazionali organizzate in passato, ma che potrebbe anche discostarsene chiaramente. A livello cantonale, l’élite politica ed economica del Vallese dovrebbe ragionare sulle cause della sua sconfitta e prepararsi ad affrontare un doppia sfida: quella di superare la spaccatura creatasi tra le regioni, soprattutto turistiche, favorevoli ai Giochi, e le regioni contrarie, e quella di allestire nuovi progetti, suscettibili di favorire un equilibrato sviluppo economico del cantone, nonché di coinvolgere la maggioranza della popolazione. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia

Sei salariati su dieci scelgono il pensionamento anticipato

Mondo del lavoro Risultato sorprendente di uno studio di Swisscanto che smentisce la tendenza a lavorare di più

per garantirsi una rendita migliore. I motivi non sono sempre chiari, al di là del fatto che le rendite sono buone Ignazio Bonoli Secondo uno studio di Swisscanto, ripreso per primo dal domenicale «NZZ am Sonntag», il 58% delle persone che hanno un posto di lavoro, smetterebbe di lavorare prima del limite legale. Solo il 32% giungerebbe fino al limite dei 65 anni (64 per le donne), mentre il rimanente 10% continuerebbe a lavorare anche dopo i 65 anni. René Raths, del Consiglio d’amministrazione di Swisscanto Pensioni, si è detto sorpreso del risultato, tanto più che l’idea più diffusa tra la gente è ancora quella di dover lavorare più a lungo per poter beneficiare di una rendita di vecchiaia decente. Dovrebbe essere questa la tendenza, considerato anche l’aumento della speranza di vita e i progressi della medicina, anche nel campo della geriatria. Il campione di dati utilizzato è abbastanza attendibile: 535 istituti di previdenza, con 4,1 milioni di assicurati e un patrimonio complessivo di 680 miliardi di franchi, in pratica l’80% della previdenza professionale svizzera. Come detto, il dato ha destato parecchia sorpresa, poiché il pensionamento anticipato di sei persone su dieci potrebbe aver effetti negativi sulla stabilità delle casse pensioni. Di questo passo, secondo lo studio, le quattro persone attive

per un pensionato, nel 2035, potrebbero scendere a sole 2,3 persone. La tendenza è nettamente contraria a quanto si sta facendo per aumentare l’età di pensionamento e quindi è probabile che questa esigenza, dettata dall’evoluzione demografica, difficilmente sarà accettata dalla popolazione. Sicuramente questa tendenza è oggi favorita dall’elevato benessere di cui gode la popolazione svizzera. Di conseguenza, parecchie persone possono permettersi un pensionamento anticipato, con riduzione della rendita. Un esempio probante può essere quello di un reddito di 80’000 franchi, che deve generare una rendita complessiva di 48’000 franchi (se vale la regola della garanzia del 60% dell’ultimo stipendio). Ora, nel 2017, la rendita media era di 56’900 franchi e, nel 2013, era perfino di 64’300 franchi. Da qui però si assiste a una costante diminuzione della rendita media e, quindi, del divario che la separa dal minimo teorico del 60% dell’ultimo stipendio. Questo fattore che può incitare a un pensionamento anticipato sta per scomparire. Anche perché, ormai, i capitali di vecchiaia non possono più ottenere quelle rimunerazioni di cui godevano in passato. Lo stesso dicasi anche del tasso di conversione del capitale in rendita. Oggi la rendita media è alta perché il tasso

Secondo lo studio di Swisscanto, nel 2035 ci saranno 2,3 persone attive per ogni pensionato, anziché quattro. (Keystone)

di conversione è elevato, almeno per la parte obbligatoria della previdenza professionale. Non sarà però più così quando giungeranno alla pensione i figli del «baby boom» e il rapporto fra attivi e pensionati peggiorerà sensibilmente. L’incentivo al pensionamento verrà quindi ridotto, ma non scomparirà del tutto se il terzo pilastro fornirà mezzi sufficienti, mentre potrebbero però aumentare le persone che lavorano dopo i 65 anni, o anche dopo aver cominciato

a percepire la rendita di pensione. Qui nasce però un problema fiscale, perché il reddito da lavoro aggiunto alla pensione fa aumentare la pressione fiscale e i contributi all’AVS vanno pagati (oltre la soglia esente), senza migliorare la pensione. Il prepensionamento ha anche conseguenze di ordine generale. Infatti, all’economia mancherà mano d’opera esperta e specializzata. Si calcola che tra dieci anni mancherà un mezzo milio-

ne di occupati, il che consiglia di creare incentivi a continuare a lavorare dopo i 65 anni, magari rivedendo il pagamento di contributi all’AVS che non migliorano la rendita. Sulla cassa pensione si potrebbe invece prevedere un allungamento dell’età di pensionamento (volontario) fino a 70 anni. Oggi però per chi si avvicina all’età di 60 anni e perde il posto di lavoro, la scelta del prepensionamento può essere un’opzione, magari anche pensando che, più tardi, il tasso di conversione del capitale in rendita non sarà più quello di oggi. Lo studio non lo dice, ma questa scelta è molto utilizzata nelle casse pubbliche, dove le rendite sono più alte e le possibilità di prepensionamento ben rimunerate più frequenti. Anche qui però la situazione sta cambiando e si avvicina a quella delle casse private. Resta, infine, il grosso problema di coloro che giungono ai 60 anni e non sono più in grado di lavorare. La statistica dice che chi ha una formazione minima, un reddito basso (e quindi anche un lavoro pesante) ha una speranza di vita di 7 anni inferiore alla media. La necessaria flessibilizzazione dell’età di pensionamento deve tener conto anche di queste situazioni. Tanto più se lo scopo della riforma è quello di garantire a tutti la possibilità di scegliere il momento che meglio si addice a un meritato riposo. Annuncio pubblicitario

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Per fortuna ci sono i Mondiali di calcio I lettori regolari di questa rubrica si saranno già accorti che, da qualche anno, non manchiamo di insistere nell’affermare che la prestazione dell’economia svizzera va vista in un quadro internazionale. Va confrontata insomma con quella delle altre economie. Quando si opera questo confronto emerge una contraddizione che riesce difficile spiegare. Da un lato la Svizzera è nei primi posti delle classifiche per quel che riguarda la competitività o l’innovazione tecnologica. Non si trova sicuramente male anche nelle classifiche sull’attrattività dell’economia in termini di fattori di localizzazione anche se, bisogna riconoscerlo, siamo un paese senza o quasi materie prime. Siamo anche tra i paesi più ricchi del mondo, almeno per quel che riguarda il patrimonio per abitante e sicuramente non siamo distanti neanche nella classifica del reddito pro-capite. Quando però

confrontiamo la prestazione della nostra economia in termini di tasso di crescita del prodotto interno lordo ci accorgiamo che, da più anni, ci troviamo in fondo alla classifica dei paesi europei. Se prendiamo le previsioni per il 2018, formulate alla fine del 2017, la Svizzera, con un tasso di crescita pari all’1,9% (previsione OCSE) faceva parte del gruppetto di coda dei paesi europei, appena un poco più avanti dell’Italia (1,5%) e allo stesso livello della Francia che, come sappiamo, è afflitta da anni da profondi problemi di ristrutturazione. In effetti anche per il commentatore più smaliziato riesce difficile ricomporre, con queste tessere, un quadro della situazione leggibile e coerente. Un’economia che, da anni, occupa i primi posti delle classifiche mondiali quanto a competitività e ricchezza dovrebbe essere davanti anche nelle classifiche sulla crescita del Pil. E invece, lo ripetiamo, da diversi anni

non è così. Questo rompicapo non cessa di interessare anche i ricercatori che seguono l’evolversi della congiuntura economica. E ogni tanto dalla ricerca affiora qualche spiegazione. Di solito le stesse sostengono che, per ragioni di metodo, in Svizzera si tende a sottostimare il tasso di crescita del Pil. Di conseguenza si sottostima anche la vera crescita dell’economia. Una di queste spiegazioni si riferisce all’effetto di cambiamenti nei termini di scambio quando il franco viene rivalutato. Se il franco svizzero si rivaluta i prezzi all’esportazione salgono e quelli all’importazione diminuiscono. Questo significa che l’economia svizzera può con la stessa dotazione di capitale e lavoro importare di più. Gli svizzeri diventano perciò più ricchi senza che questo aumento di ricchezza sia misurato nelle statistiche del Pil. Il Credito svizzero, in una sua recente analisi ha calcolato che, nel periodo

1970-2017, per effetto di cambiamenti nei termini di scambio il Pil svizzero sarebbe cresciuto di almeno un 10% in più di quanto registrato dalle stime della contabilità nazionale, ossia di uno 0,2% per anno. Ammettiamo che per un tasso annuale di crescita che, nel periodo considerato, è salito rare volte oltre l’1,5% un due decimi di punto in più all’anno sono un apporto significativo che avrebbe fatto guadagnare diverse posizioni all’economia svizzera nelle classifiche internazionali relative alla prestazione in termini di crescita del Pil. Tanto più se la correzione relativa ai termini di scambio fosse stata applicata anche alla prestazione delle altre economie, con divise svalutate rispetto al franco. Queste, infatti, si vedrebbero ridotte la crescita del loro Pil di un importo più o meno equivalente. Siccome questo tipo di correzione non si fa, restiamo purtroppo sulla nostra fame... di cre-

scita supplementare. Ci consola però apprendere, sempre dalle medesime fonti, che, per il fatto che la Svizzera è sede della FIFA, dell’UEFA e dello COI, ogni volta che si tiene un campionato europeo o mondiale di calcio e ogni volta che si tengono le olimpiadi il tasso di crescita del nostro Pil registra un importante balzo avanti dovuto al pagamento di diritti e licenze che fanno fluire consistenti mezzi nelle casse di queste organizzazioni. Questo afflusso straordinario di risorse non è di solito registrato nelle previsioni di crescita del Pil e quindi, alla fine dell’anno in cui si registra l’evento, ci si ritrova con un tasso di crescita del Pil superiore a quello pronosticato un anno prima. Si pensa che sarà così anche quest’anno. Chissà dunque che, grazie ai ricavi che la FIFA incasserà per i mondiali di calcio, il tasso di crescita del nostro Pil non superi, finalmente, il livello fatidico del 2%?

non tutti potranno essere accontentati; né sarà contento Grillo, il fondatore, di vedersi trattato come il vecchio zio chiuso nello sgabuzzino delle scope. Certo il governo non lo farà cadere l’opposizione, mai così debole e divisa. E certo dopo Conte non tornerà Gentiloni; anzi, al Pd farebbe bene un bel bagno di opposizione e di umiltà. Probabilmente ci sarà una vittoria del centrodestra, trainato da Salvini. Oppure una soluzione istituzionale (a fine 2019 finisce il mandato di Draghi). Sperando che nel frattempo non si siano prodotti danni irreparabili. Ho seguito il discorso di insediamento al Senato di Giuseppe Conte, e sinceramente non ne ho tratto una grande impressione. L’avvocato degli italiani, come si è presentato, ha tenuto la sua prima arringa. Il linguaggio è appunto giuridico, un po’ da principe del foro un po’ da professore che dice «lessema» per «parola», e cita studiosi non notissimi introducendoli però agli studenti, «il filosofo Jonas», «il sociologo Beck». Conte ha tratteggiato se stesso come

l’esecutore del Contratto, nuovo Graal della politica, stipulato dai suoi danti causa, Di Maio e Salvini. Ma è evidente che sarà anche altro, e per fortuna. Perché il contratto, così com’è scritto, è impossibile da realizzare: non ci sono i soldi per il reddito di cittadinanza, la flat tax e l’abbassamento dell’età pensionabile (e infatti il premier ha già iniziato a prendere tempo). E perché governare non significa solo attuare un programma, ma affrontare imprevisti, adeguarsi alle circostanze, confrontarsi con i partner stranieri e i mercati, e soprattutto interpretare l’opinione pubblica. Sotto il profilo della sintonia con gli elettori, questo governo è il più forte degli ultimi anni. Poco importa che il suo capo e alcuni ministri importanti fossero fino a ieri sconosciuti. Di questi tempi, l’esiguità di esperienza (si vorrebbe dire di curriculum) non è considerata un limite, anzi può essere un vantaggio. L’aspettativa popolare per un cambiamento vero è grandissima. Il sostegno all’esecutivo nascente è

ampio. I sondaggi sono unanimi, danno i Cinque Stelle sopra il 30 per cento e la Lega poco distante; ed entrambe le fazioni sentono questo governo come proprio. E Conte ha badato a non presentarsi come il rappresentante del movimento che l’ha scovato nella sua università fiorentina, ma a dar voce anche alle istanze leghiste, dalla legittima difesa alla linea dura sull’immigrazione. Il livello del governo è basso, tranne alcune eccezioni: Giulia Bongiorno, un giovane avvocato che conosce bene la macchina dello Stato; Enzo Moavero Milanesi, al governo già con Monti e Letta. Gli altri sono spesso inesperti, talora improvvisati. Resta una sensazione: solo un popolo profondamente disaffezionato alle istituzioni, animato da una grande sfiducia nello Stato e nella politica, può produrre una maggioranza parlamentare così. Non resta che augurarsi che il governo di cambiamento si riveli tale. E che non sia un cambiamento in peggio.

di composizioni, edite e diffuse da due case di edizioni musicali tra le maggiori del mondo e targate GB. Seguendo serie basi scientifiche i ricercatori sono giunti a una prima importante scoperta: dai testi delle canzoni pop si evince che la felicità è in ribasso, la giovialità è in calo e la tristezza aumenta. Dalle analisi emerge però anche una grossa contraddizione: i grandi successi sembrano tener alto il tasso di felicità, ma poiché essi rappresentano solo l’1 o il 2% dell’intera produzione, la tendenza a sfornare pezzi sempre più tristi riesce inevitabilmente a prevalere visto che alle spalle ha l’enorme resto di oltre il 97% della produzione di musica pop. Ma non è tutto: la ricerca ha confermato anche il sempre più evidente declino del «rock» e un calo nelle musiche pop delle voci maschili fra i brani di maggior successo, dove a prevalere sono soprattutto donne. Fuori da analisi scientifiche leggendo questi risultati mi sono chiesto: vuoi vedere che la gioia e

la voglia di vivere è tutto merito delle voci femminili? Altro argomento para-musicale che da tempo volevo proporre: il numero straordinario (sono sicuro di non esagerare) di autori e cantanti di canzoni pop svizzeri. Me ne sono accorto continuando a vedere sul display della radio DAB la sigla CH dopo nomi dei cantanti e titoli delle canzoni. La verifica la potete fare sul sito www. radioswisspop.ch/it/programmamusicale, consultando l’elenco dei cantanti e delle cantanti di casa nostra che, senza interruzione da mezzanotte via, presentano i loro brani alternandosi, senza sfigurare, ai big dell’olimpo della musica pop. La presenza massiccia di artisti svizzeri in un panorama così eterogeneo come quello della musica pop desta sorpresa anche perché sull’arco della giornata le presenze di cantanti o complessi CH sono assai più numerose rispetto a quelle di artisti italiani o francesi che resistono soprat-

tutto con qualche cariatide o «evergreen». Definire svizzeri tutti questi artisti è però abbastanza improprio dato che alcuni provengono da etnie diverse e propongono melodie che si rifanno alle loro origini. Inoltre, sempre per quel che riguarda l’impatto culturale, nella stragrande maggioranza dei testi di queste canzoni, domina la lingua inglese (basterebbe citare la produzione dei nostri Gotthard o di Anna Rossinelli) e spesso le lingue nazionali vengono soppiantate anche da dialetti quando i cantanti si avvicinano al genere «folk» o «rap». Ovvio che queste incidenze non bastino – perlomeno a chi scrive – per capire se anche nel pop svizzero stia prevalendo la tristezza. Non credo, a orecchio direi che a dettar legge sia addirittura il romanticismo. Non pensate a un mio azzardo: su La Lettura del Corriere della Sera di inizio mese due pagine c’erano dedicate al romanticismo del rock (heavy metal) degli Iron Maiden...

In&outlet di Aldo Cazzullo Di forte c’è solo l’aspettativa popolare

Keystone

Sono convinto che questo governo difficilmente durerà a lungo. Ho sentito un autorevole esponente della maggioranza dire: «Il problema non è quel che costa la flat tax, ma quel che rientra. Mettiamo anche che costi 50 miliardi; saranno 50 miliardi in mano ai cittadini, che in qualche forma torneranno».

Temo sia più facile finiscano in banca, magari all’estero, dove nei giorni della nascita del governo gialloverde di miliardi ne sono già transitati 38. Ma tanto la flat tax non ci sarà. Quel che gli italiani risparmieranno con le aliquote lo perderanno con le mancate detrazioni: il gettito fiscale dovrà restare lo stesso, a meno di non uscire dall’Europa. Se tutte le promesse del mitico Contratto dovessero essere mantenute, l’Italia si ritroverebbe fuori dall’euro, e senza piani B. Se non lo saranno – e non lo saranno –, il forte consenso iniziale diminuirà velocemente. Non è un auspicio, è una previsione; ma questo governo è troppo improvvisato per durare a lungo. Non so chi lo farà cadere: se la speculazione internazionale e la Merkel come nel 2011; o Salvini, quando valuterà che rischia di restare sepolto dalle macerie politiche dell’esperimento bipopulista; o la spaccatura che si intravede nei grillini. Oggi gli scontenti esitano a uscire allo scoperto, nella speranza di un sottosegretariato o di una presidenza di commissione, ma

Zig-Zag di Ovidio Biffi Anche il pop non è più felice La mia radio è fissa su Radio Swiss Pop. Altri canali? Solo allo scoccare delle ore e sino alla fine dei notiziari, quasi sempre per pochi minuti di lettura delle informazioni. Non l’ho mai scritto, ma sono grato alla Ssr per aver creato questa arteria secondaria che consente di aggirare lo snervante cicaleggio che dall’alba al tramonto incombe su Rete 1. La fedeltà a Radio Swiss Pop reca anche altri vantaggi a chi, come il sottoscritto, da anni si trova in colonna tra i pensionati. Oltre alla citata possibilità di by-passare tracotanze, ovviamente c’è la musica. A scelta fra classica, jazz o rigorosamente pop, come ho scelto io. Qualcuno sbarrerà gli occhi o li alzerà verso il cielo! Invece posso garantire che è il massimo per sorprendere figli e nipoti con titoli e citazioni di cantanti che vanno per la maggiore; utile anche per avviare dialoghi sui brani migliori di Bruce Springsteen o dei Depeche Mode; o ancora per evocare quelli più in voga di Ed Sheeran. Tutte credenziali

valide per trovare sorrisi sui volti e attenzione nelle menti di chi vive una o due generazioni indietro (o avanti?) rispetto alla vostra. Senza dimenticare l’effetto di una certa dose di empatia, utilissima per cercare di stare vicini a loro e di capire le loro preferenze, i loro riti eccetera. Ho voluto confessare la fonte da cui assorbo giovinezza non solo musicale, per presentare argomenti che toccano la musica. Innanzitutto una ricerca scientifica condotta dall’Università della California di Irvine (Usa) proprio sulla musica pop. Non si tratta della solita indagine basata su interviste a studenti dei campus universitari o dedotta da sondaggi fra giovani frequentatori di discoteche o utilizzatori di app che offrono musica in streaming. Niente affatto: l’analisi sfocia dall’ascolto di brani e dalla parallela lettura dei testi di canzoni pubblicate negli ultimi tre decenni. Non mille o diecimila, la ricerca ha passato al setaccio mezzo milione


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Cultura e Spettacoli C’è ancora molto da dire In La corsara Sandra Petrignani ha scandagliato la vita e l’anima di Natalia Ginzburg

Il finito attraverso l’infinito La Pinacoteca Casa Rusca di Locarno omaggia l’approccio al sacro dell’architetto Mario Botta pagina 35

Bellinzona e il blues Abbiamo incontrato Claudio Egli, direttore artistico della kermesse musicale Bellinzona Blues Session

Un premio per Ambrosetti Il trombettista ticinese Franco Ambrosetti riceverà il prestigioso Swiss Jazz Award

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Il turbine della discordia Narrativa Nel nuovo romanzo di Juli Zeh

sono molti i temi in campo, in primis lo scontro fra la modernità e una tradizione legata al socialismo

Luigi Forte Inutile cercare sulla cartina del Brandeburgo il piccolo centro rurale di Unterleuten. Dista una manciata di chilometri da Berlino, ma in realtà è inesistente. Eppure Juli Zeh ne ha fatto non solo la scena del suo ultimo ampio romanzo, Turbine, edito da Fazi nell’ottima traduzione di Riccardo Cravero e Roberta Gado, ma lo spazio misterioso e sfuggente di uno scontro per la vita. L’icona di un travaglio collettivo alla ricerca di mondi alternativi affrancati dall’avidità e dalla cupidigia umane. Juli Zeh, nata a Bonn nel 1974, è una delle più problematiche e affermate scrittrici tedesche delle ultime generazioni, che può vantare già una decina di romanzi, fra cui bestseller come Aquile e angeli (Fazi, 2005), Gioco da ragazzi (Fazi, 2007), il giallo Un semplice caso crudele (Baldini Castoldi, 2009) e il legal thriller Corpus delicti (Ponte alle Grazie, 2010). Non è un caso se i suoi libri sono spesso suggestive e complesse variazioni su violenza e giustizia, dogmatismo e libertà, bene e male. La Zeh infatti è giurista di formazione, e nel 1998 si guadagnò perfino l’appellativo di «signorina prodigio» come migliore laureanda in diritto internazionale di tutta la Sassonia. Ma le sue riflessioni su diritto e morale si dissolvono per fortuna in pura narrazione, come in Un semplice caso crudele dove il plot poliziesco rispetta con fantasiosa ironia le regole del genere: con un morto, un rapimento e la figura di un commissario, il perspicace e malandato Schilf, che pare uscito dalle pagine di Dürrenmatt. Il mistero s’infittisce anche nella sua ultima opera, dove tra i boschi e la sabbia del Brandeburgo ci si aspetterebbe solo un po’ di idillio e di serena convivenza. In realtà l’ampio romanzo sociale della Zeh mette in scena contrasti di ogni genere: vecchie inimicizie, sopravvissute alla caduta del Muro e della Rdt, fra l’agronomo Gombrowski e l’anziano comunista Kron, fra i vecchi

abitanti e i nuovi arrivati come la giovane Linda Franzen, amante dei cavalli, e l’ornitologo Gerhard Fliess, fra gli speculatori come il bavarese Konrad Meiler e chi su quella terra ci ha speso la vita. Su quella comunità si proiettano ombre inquietanti: che cosa accadde realmente nel bosco in quel tragico giorno di novembre del 1991 quando sul paese si abbatté un terribile temporale? Erik, amico di Kron fu colpito – si dice – da un grosso ramo caduto a terra e morì, mentre quest’ultimo si ferì gravemente a una gamba restando invalido. Guarda caso, i due erano contrari alla trasformazione della cooperativa agricola diretta da Gombrowski che aveva un suo scagnozzo, il meccanico Schaller, pronto a tutto pur di neutralizzare gli avversari. Forse quel bosco nasconde da anni un’altra storia che scivola via nel tempo e fra le pagine del romanzo lasciando un vuoto e un’inquietudine persistenti. I veri interrogativi stanno però altrove: nello scontro fra una modernità che agogna al proprio tornaconto e una tradizione frustrata dal socialismo, ma avversa a quel capitalismo che, come dice Kron, ha trasformato il senso civico in puro interesse personale. Del resto i fatti parlano chiaro. Gombrowski e il sindaco Arne, suo compare, fanno di tutto perché su quel territorio vengano collocate delle turbine eoliche: se ne avvantaggerà il paese, dicono, anche se i soldi finiranno nelle tasche di chi, come l’agronomo, potrebbe disporre dei terreni adatti per produrre energia pulita. È inevitabile che si creino fronti contrapposti: le turbine deturpano il paesaggio – sostiene invece l’ex docente Fliess con la moglie Jule e molti altri –, uccidono gli uccelli, compromettono la salute degli abitanti, servono ad arraffare sovvenzioni più che a generare energia alternativa. Il conflitto attraversa nel romanzo non solo la comunità, ma la stessa vita dei singoli. E ben presto diventa evidente come l’installazione delle turbine

A Unterleuten il parco eolico diventa il cuore della discordia. (Keystone)

permetta di affrontare, sullo sfondo di una regione tedesca che ha conosciuto le grandi contraddizioni politiche del dopoguerra, il complesso e sempre più attuale tema dell’ecologia e del rispetto dell’ambiente in rapporto all’incalzante sviluppo tecnologico. Ma la scrittrice sfrutta questa opportunità in ben altra prospettiva ampliando la sua riflessione di fondo e i contrasti che essa genera in una splendida galleria di ritratti, in una passerella di personaggi, diversi per età, provenienza e cultura. Turbine è un romanzo corale, forse un po’ troppo ampio, dove tutti, a modo loro, sono protagonisti, nel bene e nel male, e al tempo stesso vittime di un destino che sconvolge ogni aspettativa e finisce per mortificare anche gli entusiasmi più sinceri. C’è un pezzo di storia del Novecento in queste pagine, passata al setaccio della quotidianità e delle vite individuali. Sono queste a tenere banco, in un ampio affresco in cui i punti di vista si confrontano e intersecano, le vicende si fanno sempre più incalzanti mentre il progetto de-

stinato a sconvolgere il paesaggio mette a soqquadro l’intera comunità. La scomparsa della piccola Kroncina, nipote di Kron, getta il paese nello scompiglio e in una sorta di febbre generale, come dopo la caduta del Muro, quando tutti sospettavano di tutti. Non importa che la bimba venga ritrovata sana e salva; ormai su Unterleuten, che per molti era l’habitat ideale, quasi una visione del mondo, calano ombre pesanti che il passato ha contribuito a infittire. Miriam, la giovane figlia di Schaller, pretende chiarezza dal padre, così come la dottoressa Kathrin, figlia di Kron, invano cerca di dissolvere i dubbi legati a quel lontano e tragico pomeriggio nel bosco. Forse Gombrowski non fu il vero responsabile e in ogni caso in quel lembo di Brandeburgo la verità è stata sotterrata da tempo e poco emerge se non la follia dei suoi abitanti. Perfino il professor Gerhard, colto da una sorta di raptus, si avventa con violenza su Schaller, che gli appare come il demonio in persona, e lo spedisce all’ospedale.

In questa storia a più voci, che varia in relazione a chi la racconta, si cela la metafora dell’eterna lotta per la vita sullo sfondo di un mondo senza illusioni, dove tutto potrebbe ribaltarsi. Kron, poco prima di morire, vince su Gombroski che si suicida calandosi nel pozzo che fornisce acqua potabile ai suoi compaesani. Chissà, forse ha ragione il sindaco Arne a dire che su Unterleuten grava una maledizione. Lui ha raccontato tutto a una giovane donna, Lucy Finkbeiner, che lo accompagna per il villaggio e insieme guardano girare in lontananza le turbine. «Ne valeva la pena?», verrebbe da chiedersi. Chi lo sa. Ma Lucy, la scrittrice evocata alla fine, non avrà dubbi. Unterleuten è una sorgente di notizie e lei scriverà un romanzo di successo. Nessuno lo può sapere meglio di noi lettori. Bibliografia

Juli Zeh, Turbine, trad. di Riccardo Cravero e Roberta Gado, Fazi Editore, p. 615, € 18,50


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Cultura e Spettacoli

Storia di una corsara Recensioni Sandra Petrignani offre un ritratto a tutto tondo

di Natalia Ginzburg

Quando le donne vogliono

Narrativa La brava Madeleine Bourdouxhe

in libreria con Marie aspetta Marie Simona Sala

Natalia Ginzburg come appare sulla copertina del libro edito da Neri Pozza e finalista al Premio Strega.

Pietro Montorfani Non è davvero mancato il coraggio a Sandra Petrignani, autrice nota per la sua scrittura ibrida, tra romanzo e saggio, e per i numerosi ritratti al femminile, tra cui una potente biografia della Duras intitolata semplicemente Marguerite. Perché ci voleva coraggio nel mettere mano al «ritratto» (ma il libro è qualcosa di più) di una delle scrittrici più autobiografiche del Novecento italiano, aderente in tutto al proprio lessico famigliare, devota alla più piccola cronaca del quotidiano. Scrivere di (su) Natalia Ginzburg, con l’ambizione di percorrerne l’intera parabola biografica, è quasi come voler raccontare la vita di un Proust o di Amiel: che cosa si può desiderare di aggiungere a quanto hanno detto loro, magistralmente, di loro stessi? Invece si può, si deve, raccontare la vita di questi scrittori, perché non è dall’abbondanza dei materiali che nasce una buona biografia, bensì dal suo punto di vista. È una questione di sguardo, prima ancora che di date e di dati. Servivano insomma le lenti colorate di un caleidoscopio, filtri attraverso i quali ripercorrere una vita comunque eccezionale: dapprima la triste vicenda

di Leone Ginzburg, il marito di Natalia ucciso dai nazisti nel carcere romano di Regina Coeli; poi i gloriosi anni della casa editrice Einaudi, di cui con Pavese e Calvino fu uno dei principali protagonisti, severissima nel censire le opere di narrativa italiana; infine l’ultima stagione, a fianco del secondo marito Gabriele Baldini e della figlia disabile, nel bel mezzo di una temperie politica e sociale che aveva mutato profondamente l’Italia che conosceva. La Ginzburg, nata Levi a Palermo e cresciuta nella Torino antifascista di Piero Gobetti, poi lungamente a Roma e Firenze, ha attraversato tutto questo e Sandra Petrignani ce lo racconta con dovizia di particolari ma sempre con una ragione forte, uno sguardo fermo, un angolo di osservazione dichiarato e (se possibile) tendenzialmente oggettivo. Nel turbine biografico di Natalia entrano ed escono personaggi memorabili della letteratura e della politica (da Pavese a Elsa Morante, da Olivetti a Garboli), al punto che il libro potrebbe essere consigliato non solo per il ritratto della protagonista, ma per l’affresco di un’intera stagione della cultura italiana e della storia drammatica del Novecento. Dalle leggi razziali al terrorismo

degli anni Settanta, sorvolando sulle pur drammatiche vicende personali, attraverso la specola privilegiata e affascinante di una casa editrice che è stata senza alcun dubbio uno dei luoghi più alti di cultura civile e letteraria, c’era del resto materia sufficiente a riempire un buon libro per le nuove generazioni. Anche per questa ragione, la Petrignani contrae molti debiti nei confronti di chi prima di lei si è chinato con passione sulle medesime vicende, ma non manca comunque mai di aggiungere qualcosa di suo, sia essa un’intervista inedita a un testimone oculare, oppure la visita ai luoghi in cui si svolsero i fatti, o ancora un montaggio intelligente di passi dei libri di Natalia, la cui opera mostra di conoscere nel dettaglio. Chiuso questo mezzo migliaio di pagine, resta viva la voglia di tornare a leggere quelle della Ginzburg, consapevoli del fatto che potrebbero risultarci in parte nuove. Davvero il migliore servizio che le si potesse fare.

L’avevamo certamente amata per quella sua descrizione di Élisa, protagonista ne La donna di Gilles di un amore totale, dimentico di sé, capace di annullarsi proprio (né più né meno) in virtù dello stesso amore. Allora era la tragica storia di un ménage à trois semplice quanto violento e profondo, poiché vedeva coinvolti, in un carosello di emozioni e disperazione, appunto Élisa e suo marito Gilles, che si innamora perdutamente dell’affascinante cognata – sorella della moglie. Invece di giurare vendetta ai due traditori, invece di lottare per preservare il proprio ruolo di prima donna all’interno del cuore del marito così da salvaguardare un amore che è anche ragione di vita, la povera Élisa arriva non solo ad annullarsi, ma diventa la confidente e complice del marito in un gioco macabro e destinato a lasciarsi appresso unicamente un’irreversibile scia di dolore. Ora la belga Madeleine Bourdouxhe (1906-1996), amica di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, ma non per questo amante della ribalta, o alla ricerca di un’appartenenza letteraria o politica

Bibliografia

Sandra Petrignani, La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg. Neri Pozza 2018, 459 pagine.

La ricerca e la scoperta di un nuovo sé nel bel romanzo di M. Bourdouxhe.

(l’unica «concessione» che fece, ma che concessione!, fu l’attivismo antinazista) grazie ad Adelphi torna in libreria con nuovo romanzo. Marie aspetta Marie, scritto all’inizio degli Anni Quaranta del Novecento, non confronta più il lettore con una categorizzazione femminile che in qualche modo risponde ad aspettative soprattutto maschili e, diciamolo, permeate di una visione del ruolo femminile molto limitata e limitante come in fondo l’hanno a lungo pretesa società e chiesa, ma gli permette di respirare a pieni polmoni il più gratificante ed equo degli afflati, quello della libertà. Marie ama il marito Jean, di un amore tenero e disinteressato, contraddistinto da una devozione senza secondi fini, che la rende diversa da tutte le amiche e le coetanee, perennemente alla ricerca o in attesa dell’uomo giusto. Ma sarà proprio lei, quella Marie appagata, contraccambiata da una vita serena nell’amatissima (e così ben descritta) Parigi, a perdere la testa inaspettatamente per il giovane e nervoso corpo di uno sconosciuto, intravvisto per caso su una spiaggia durante le vacanze con il marito in Costa Azzurra. Non sarà un amore distruttivo, forse non sarà nemmeno un amore, quanto più la fotografia di un momento di dolce levità, di possibilità infinite, di coraggio insperato. Stati d’animo che porteranno una Marie sempre più leggera a cercare attivamente quel corpo nuovo ma pur sempre anonimo; gli ostacoli tra la protagonista e il fremito sensuale che gli incontri clandestini (pochi, densi) le procurano spariranno come neve al sole, poiché anche la più piccola chance di evasione, di redenzione, di piacere o di riscatto – ci ricorda l’autrice – è unicamente nelle mani di ogni donna. Nel libro il paesaggio, così magistralmente raccontato, corre dunque a braccetto con le emozioni e gli stati d’animo. E Marie dopo ogni pagina diventa più Marie, come suggerisce il titolo, in un percorso di presa di coscienza che riguarda e tocca ogni donna, a patto che sia sincera con sé stessa fino in fondo.

Il grande della vita Pubblicazioni Un’amplissima raccolta di omaggi postumi al grande linguista Tullio De Mauro Stefano Vassere «La lettura del dattiloscritto della Storia linguistica dell’Italia unita va avanti il più velocemente possibile. L’ho già letto e scritto, ma desidero ripeterlo qui tal’e quale: alla fine l’impressione che ne provai fu come quella di un pugno nello stomaco». La collana «Maestri della Sapienza», che l’illustre ateneo romano dedica ai suoi insegnanti più memorabili, ha ora un volume offerto a Tullio De Mauro, semplificando un po’ l’inventore della linguistica italiana moderna. Basterà dire, con Sabino Cassese, che «prima di lui, la linguistica esisteva prevalentemente nelle aule universitarie e nelle biblioteche» e che «quando usciva da quest’ambito, era per spiegare l’etimologia di una parola» o poco altro. Meriterebbe, l’omaggio postumo di amici e colleghi, ben più alta attenzione, perché la lettura è continuamente accompagnata da segni a matita sui margini e appunti concreti e mentali. L’invenzione della sociolinguistica in Italia quando la disciplina era da poco

nata altrove; la traduzione e il commento supremi e di portata mondiale al Corso di linguistica generale dello svizzero Ferdinand de Saussure, quello che ha cominciato a chiamare la linguistica con il suo nome; dizionari, opere di semantica, di filosofia del linguaggio, di didattica dell’italiano e infinite altre direzioni di ricerca, più l’impegno culturale, intellettuale e politico. Insomma, non si ha il tempo e lo spazio per cercare di privilegiare qualche itinerario tra

gli infiniti indicati in tutti quei decenni di scienza. Per esempio i saggi meno di prima fila dedicati alla linguistica migratoria e all’emigrazione che porta in giro l’italianizzazione, nei luoghi di approdo e, meno scontatamente, in quelli di partenza. O ancora la conoscenza delle varie partizioni del vocabolario italiano (di base, fondamentale, di prima disponibilità ecc., secondo una geniale e paziente tassonomia) per definire,

Tullio De Mauro è morto il 5 settembre del 2017. (Alessio Jacona)

stabilire e concedere una sorta di lasciapassare per la società moderna dei diritti e dei doveri. L’abbondante impegno a favore dell’alfabetizzazione e della literacy, nell’individuazione di scuole e biblioteche come fattori imprescindibili di crescita sociale. C’è un contributo di Paola Villani dedicato a Tullio De Mauro, la lingua della Costituzione e la parola «razza» all’articolo 3, così solido e in un qualche modo definitivo da far pensare alla migliore applicazione del metodo del Maestro. Ecco, dovendo pensare a quelle trequattro figure di intellettuali completi e di grande responsabilità civile la cui memoria sopravvivrà probabilmente al secolo non sarebbe sopra le righe pensare anche a Tullio De Mauro, o almeno questo è quanto viene in mente chiudendo le ultime di queste trecento profonde e a loro modo commoventi pagine, e l’appendice fotografica in coda al libro. Tullio De Mauro – è riconosciuto da tutti – fu insieme un linguista, un filosofo del linguaggio, un politico, un promotore di guadagno culturale per la società, un ascoltato savant. Fu insom-

ma molte cose insieme. Ma è nell’insieme di queste cose che egli rappresentò il cuore di un intero universo culturale italiano; quando una persona incarna così tante abilità, la somma di esse finisce per essere accompagnata anche da una virtù superiore, che tutto tiene, come nel modello linguistico saussuriano. C’è un’immagine che si deve a Robert Musil, che nell’Uomo senza qualità si pone il problema di che cosa faccia di un grande uomo un grande uomo e spiega: «questa presenza di una forza che supera ciascuna delle singole manifestazioni è il segreto su cui posa tutto ciò che vi è di grande nella vita». «Ci sono libri di rottura e di rinnovamento che si scrivono solo quando si è spinti e autorizzati da una carica giovanile esistenziale, che si beffa di limiti e di rispetti. La Storia linguistica dell’Italia unita è uno di questi». Bibliografia

Autori vari, Maestri della Sapienza. Tullio De Mauro, Roma, Sapienza Università Editrice, 2018.


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PUNTI


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Cultura e Spettacoli

L’infinito nel finito

Mostre L’architettura sacra di Mario Botta protagonista alla Pinacoteca comunale Casa Rusca di Locarno

Alessia Brughera Dimora del silenzio, della preghiera e della meditazione, fin dai tempi più antichi l’edificio sacro è uno spazio altamente simbolico in cui ogni dettaglio rimanda alla dimensione spirituale. In esso aleggia quel senso dell’infinito e dell’arcano che un abile architetto sa rendere percepibile attraverso gli strumenti a sua disposizione: la luce, le forme e il rapporto tra gli elementi costruttivi hanno qui, più che in ogni altra tipologia edilizia, un ruolo rilevante, portatori come sono di accezioni mistiche. Il luogo di culto è una sorta di membrana tra terra e cielo, tra uomo e divinità, uno spazio denso di significato che resiste al caos del mondo esterno ma che allo stesso tempo si trova ben radicato nella storia e nell’esistenza dell’umanità per esercitare un richiamo, concreto e reale, ai valori più profondi dell’individuo. Chi si appresta a costruire un edificio sacro non può quindi prescindere dalla sua funzione di sede del divino che esorta a una tensione verso il celestiale così come dalla sua natura tangibile, legata indissolubilmente alla contingenza terrena. Tra le figure che più si sono misurate con il tema della sacralità c’è Mario Botta, architetto ticinese di fama mondiale la cui carriera è costellata di progetti che hanno saputo restituire la complessa anima della struttura religiosa. Come lui stesso sostiene «L’architettura sacra può sottolineare una condizione di attesa, di trascendenza, dove passato e presente convergono verso memorie ancestrali. Nello spazio dei luoghi di culto la realtà dell’interno modella una nuova immagine, una condizione “finita” per le attività di silenzio, di contemplazione, di trascendenza e di mistero. È con la definizione di uno spazio architettonico finito che è offerto al fruitore di vivere una condizione di infinito».

Come in un gioco di scambi, da un lato l’architettura sacra si alimenta dell’approccio introspettivo e geniale di Botta, in grado di condensare soluzioni costruttive d’impatto con il senso intimo che l’edificio incarna, dall’altro i temi del sacro permettono all’architetto di applicare con maggiore compiutezza le caratteristiche principali della sua ricerca e così di «rintracciare le ragioni d’essere del fatto architettonico». Proprio agli spazi di culto ideati e realizzati da Botta è dedicata una mostra presso la Pinacoteca Casa Rusca di Locarno il cui percorso coinvolge, oltre alle sale del museo, il cortile esterno allestito per l’occasione con un grande padiglione in legno. Il lavoro dell’architetto ticinese volto alla progettazione dei luoghi sacri (chiese ma anche sinagoghe e moschee) è documentato attraverso ventidue strutture costruite in tutto il mondo – dalla Svizzera all’Italia, dalla Francia all’Austria, dalla Cina alla Corea del Sud – di cui l’esposizione presenta i modelli originali in legno, i disegni e gli schizzi nonché tante gigantografie che delle architetture bottiane catturano la visione d’insieme di interni ed esterni così come i particolari più rappresentativi. Osservando il materiale esposto si percepisce come la ricerca del maestro svizzero sia fondata sulla potente espressività di ogni elemento: nei suoi edifici di culto il repertorio formale si fa fortemente evocativo, l’accostamento tra le parti diviene fluido e armonioso, la luce diventa materia che plasma gli spazi e li diversifica tra loro. Quella di Botta è una vera e propria vocazione alle geometrie elementari e ai volumi puri, propensione, questa, mutuata dapprima dalla lezione del connazionale Le Corbusier, figura da lui molto amata che gli ha insegnato l’importanza del ragionare secondo forme primarie, rievocando il cézanniano «Tutto è sfere, cubi, cilindri»,

Mario Botta Chiesa di San Giovanni Battista Mogno, Svizzera 1986-96. (Enrico Cano)

poi da quella dello statunitense Louis Kahn, altro architetto caro a Botta per la sua capacità di dar vita a solenni edifici euclidei in cui si respira un fiero ritorno al primitivo. Forte in Botta è il legame con lo spazio che accoglie la sua fisionomia del sacro: l’architetto ticinese ha un istintivo senso del luogo che lo conduce a erigere strutture in continuità fisica e concettuale con l’ambiente che le accoglie, a partire dalla scelta dei materiali. Con le sue opere in pietra, mattoni o legno, pregne di pragmatismo e memoria, egli si inserisce con impeto nella plurisecolare tradizione costruttiva, soprattutto in quella della sua terra, dove il Romanico ha solide radici. Si pensi ad esempio, come testimonia la mostra locarnese, alla chiesa di San Giovanni Battista a Mogno realizzata dove sorgeva il precedente edificio di culto seicentesco, cancellato negli anni Ottanta da una slavina,

usando marmo di Peccia e granito della Vallemaggia, a foggiare una struttura ruvida ed essenziale che è sintesi perfetta di storia e identità. Oppure, restando sempre nel nostro cantone, alla cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro, che con la sua compatta volumetria affiora dalla caotica crosta rocciosa della montagna, quasi come sbucasse dalle viscere della terra per rievocarne l’asprezza. Qui Botta si affida alla forza elementare della pietra, esaltata nella sua condizione più rude e grave. Tra i tanti progetti documentati nella rassegna ci sono la cattedrale della Resurrezione a Évry, in Francia, con la sua torre a cilindro spezzato ricoperta da mattoni rossi, la cappella Granato nella valle Zillertal, in Austria, costruzione severa ed ermetica rivestita in corten che richiama nella forma la peculiare pietra locale, o ancora la sinagoga Cymbalista e centro dell’ere-

dità ebraica a Tel Aviv. Quest’ultima, con i suoi due corpi di fabbrica identici che emergono da una comune base rettangolare e che si trasformano, innalzandosi, in cilindri, è una mirabile traduzione architettonica della volontà dei committenti di creare uno spazio aperto al dialogo tra ebrei ortodossi ed ebrei liberali. Nella sua sfida a confrontarsi con l’infinito utilizzando elementi finiti, Botta ha dato vita a edifici di culto semplici, rigorosi e potenti, capaci di farsi custodi di significati profondi ed espressione di quei valori dello spirito che da sempre abitano l’uomo.

interessante verificarlo scientificamente. In mostra viene presentato un test realizzato in America dove un gruppo di persone, incaricato di riportare con precisione il numero di passi compiuti da alcuni giocatori di una squadra di basket durante una fase di una partita che vedevano in tv, contarono più o meno il numero esatto dei passi… ma nessuno si accorse di un gorilla che era stato fatto passare velocemente sullo sfondo della scena, poiché la loro attenzione era concentrata sui piedi dei giocatori. Così succede per un incidente al quale assistono diverse persone che descriveranno ciò che è successo, in buona fede, in modi diversi a seconda dei loro punti di riferimento. Quando emerge la coscienza negli esseri viventi? Sono stati fatti esperimenti che dimostrano che fino all’età di due-tre anni un bambino non ha questa percezione: se gli si fa un segno colorato sul volto e lo si mette davanti a uno specchio tenderà a toccare la sua immagine riflessa, solo più avanti toccherà la sua guancia colorata. Un test simile è stato fatto con un elefante al quale era stata tracciata una croce bianca sulla fronte; messo davanti a un grande specchio ha cominciato a toccarsela con la proboscide, mentre prima la ignorava completamente. È anche vero però, mi direte voi, che se mettiamo il nostro amato micio davanti allo specchio di casa… Un altro tema interessante riguar-

da il grado di coscienza di persone in coma che non possono quindi parlare. Cosa percepiscono di quanto succede intorno a loro? Noi forse pensiamo: poco. Una ricerca dell’Università di Losanna ha invece dimostrato che chiedendo ai pazienti di associare nella loro testa la risposta «sì» e quella «no» a due situazioni (per il «sì = giocare a tennis», «no = camminare in casa») quando venivano interpellati con domande semplici, quali ad esempio «Ti chiami Marco?», che quindi presupponevano un «sì» o un «no», si attivavano onde cerebrali in due zone diverse del cervello, registrate mediante encefalogramma. Un altro esperimento curioso ha stabilito che le anatre che si raccolgono in gruppo per la notte, non dormono tutte in modo omogeneo: quelle all’interno del cerchio chiudono entrambi gli occhi, mentre quelle all’esterno dormono con un solo occhio chiuso (quello rivolto all’interno del gruppo); così utilizzano solo metà del loro cervello mentre l’altra metà riposa. Il bello è che, pare, come in un western che si rispetti, vi siano veri e propri turni di guardia! E le scoperte percorrendo la mostra non finiscono qui.

Dove e quando

Mario Botta. Spazio Sacro. Pinacoteca Comunale Casa Rusca, Locarno. Fino al 12 agosto 2018. Orari: ma-do 10.00-12.00/14.00-17.00, lu chiuso. www.museocasarusca.ch

Cosa ti salta in testa?

Mostre – 2 Se lo chiede una mostra al Musée de la Main di Losanna Marco Horat Mi è già capitato di far notare come qualche volta sia difficile parlare di una mostra, oltretutto in poche righe, così da dare almeno un’idea al lettore curioso di che cosa lo aspetta. L’esposizione sul cervello, attualmente aperta a Losanna, è proprio una di quelle: Dans la tête: une exploration de la conscience. «Il tema “coscienza” è così vasto – dice la curatrice Carolina Liebling – che avremmo potuto farne cento di mostre, scegliendo tra i punti di vista della medicina, della biologia, della psichiatria, delle scienze neurologiche,

della comunicazione, dell’arte, della filosofia e dell’etologia. Ogni specialista interpellato avrebbe dato del termine “coscienza” una definizione diversa e complementare. Noi abbiamo cercato di fare una sintesi di questa ampia problematica in cinque capitoli». Operazione audace alla quale hanno partecipato istituzioni svizzere, quali le Università di Ginevra e Losanna, artisti e scienziati di vari paesi. Ne è nata una mostra interattiva al massimo grado, nella quale il visitatore non ha molto da vedere nel senso tradizionale del termine, cioè di una serie di oggetti da ammirare appesi alle pareti

Anche nella sfera del sonno il cervello riveste un ruolo principe. (Anne-Laure Lechat)

o chiusi all’interno di una vetrina. Chi entra nelle sale del Musée de la Main deve prendersi tutto il tempo necessario per affrontare la questione, ma soprattutto essere disposto a mettersi in gioco continuamente. Intanto dimenticandosi dell’antico principio secondo il quale corpo e spirito sono due entità separate e distinte; la scienza dimostra il contrario. La mostra è un susseguirsi di postazioni originali, con musiche, suoni, immagini e test da fare in prima persona; un vortice dentro il quale lasciarsi andare per giocare, divertirsi, conoscere… ma anche riflettere su argomenti importanti che ci toccano da vicino. La prima parte della mostra analizza il rapporto tra l’individuo e il mondo esterno – la coscienza del mondo, la coscienza di sé, la coscienza grado 0 –, mentre la seconda si rivolge all’interno dell’individuo – lo stato della coscienza nel mondo del sonno e dei sogni e nell’universo delle allucinazioni –. Come sempre con più domande che risposte. Facciamo alcuni esempi. Come arrivano al cervello le informazioni sull’ambiente che ci circonda e come vengono incamerate? Attraverso i sensi che fanno una selezione e registrano solo ciò che deve essere ritenuto, altrimenti il cervello sarebbe subissato, oggi ancora più di ieri, di stimoli e notizie di ogni genere (e chi non possiede questo filtro è soggetto a turbe); è però

Dove e quando

Dans la tête, une exploration de la conscience, Musée de la main-Unil-Chuv, Losanna (Rue du Bugnon 21). Fino al 29 luglio 2018. museedelamain.ch


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Cultura e Spettacoli

Bellinzona capitale... del blues

Eventi Nell’ambito di Bellinzona Blues Session 2018 Piazza Governo ospiterà, dal 21 al 23 giugno,

artisti internazionali di rilievo e virtuosi emergenti Enza Di Santo Molti artisti saliranno sul palco di Bellinzona Blues Session 2018 con la loro musica e il loro stile dando il via all’estate. Il pre-festival del 28 aprile ha aperto l’edizione con due eccellenti band locali e un ospite eccezionale direttamente da Chicago. Abbiamo intervistato Claudio Egli, direttore artistico di questo appuntamento con il blues, per conoscere meglio l’evento e il programma dei tre giorni di giugno. Blues in Carrozzeria è l’assaggio primaverile di Bellinzona Blues Session, come ha risposto il pubblico?

Sono ormai sei anni che esiste Blues in Carrozzeria, una rassegna che porta la musica in un luogo di lavoro, e quest’anno il pubblico ha risposto bene come sempre. Siamo molto contenti, perché la caratura del personaggio era di alto livello e perché nonostante sia l’unico evento a pagamento ha riscosso un grande successo. La Carrozzeria Isolabella ha ospitato Guy King, uno degli astri nascenti della chitarra blues a livello mondiale, una presenza prestigiosa per l’anteprima del festival.

Questo è l’unico appuntamento a pagamento, vista e considerata la gratuità della sessione estiva, nonostante gli ospiti internazionali?

Organizzare questo evento è sempre una sfida difficile. Finito il festival in piazza si lavora subito per l’edizione successiva. Bellinzona Blues Session ha

raccolto il testimone di Piazza Blues, che era a pagamento, e in accordo con il Comune di Bellinzona, si è deciso che questo evento sarebbe stato per tutti; una festa popolare, di gioia, perché in fondo il blues rappresenta proprio questo. È la musica che racconta di persone che cantano dopo il lavoro nei campi di cotone, nei club, è gente che si ritrova. Per questo è un evento gratuito, perché deve essere popolare, senza selezione all’entrata.

tutte le sfumature come jump, swing, boogie woogie, fino alle derivazioni funk-jazz e alle influenze caraibiche e creole. Questo festival con i suoi colori, abbatte il cliché per cui il blues è una musica noiosa e per vecchi.

Cosa prevede il programma? Ci sarà una grande esclusiva europea...

Quante persone vi aspettate sotto al palco?

Piazza Governo si anima dalle 18.00 alle 02.00 di notte e, in base alla sua capienza, abbiamo stimato lo scorso anno tra le 17’000 e le 20’000 persone. Un risultato che dimostra quanto il blues sia appezzato dai ticinesi.

Sì, ci sono molti eventi blues in Ticino. Non posso generalizzare, ma posso dire che il bellinzonese ha una lunga tradizione iniziata con il famoso Pasinetti e seguita dal Festival Piazza Blues che nel 2009 ha ricevuto il più importante riconoscimento internazionale nell’ambito del blues. La grande qualità ha legato il nome della città di Bellinzona a questo genere, tanto da renderla celebre negli Stati Uniti e nel Mondo. Sembra strano, ma la nostra capitale ha ospitato personaggi del calibro di BB King e Gary Moore. Qual è il fil rouge?

Ogni edizione ha l’intento di portare in piazza i diversi stili di cui il blues si compone. Come direttore artistico, la

Un unico concerto europeo per Mud Morganfield, e sarà a Bellinzona. (www.bellinzonablues.ch)

mia idea è di accompagnare il pubblico in un viaggio geografico e temporale attraverso questo variegato genere musicale: dal blues classico di Chicago, al

soul blues con ispirazioni R&B, percorrendo anche il blues contemporaneo, ma ricordando le radici acustiche di musica afroamericana, con spazio per

Sì, Mud Morganfield, primogenito del leggendario Muddy Waters, sarà sul nostro palco sabato 23 giugno, per un evento unico in stile Chicago blues. Sarà preceduto dal trio The Mamou Blues e seguito dalla chiusura della quarta edizione dalla band di sette elementi guidata da Sugaray Rayford. Giovedì l’open inizierà con l’aperitivo in musica sul palco del teatro con il gruppo bellinzonese Jc Harpo & Ardy Blues Band, che scalderà il pubblico per i concerti di Band of Friends, composta da musicisti di diversi gruppi ticinesi, e dei francesi Nico Duporta & His Rhythm Dudes per un salto nel rock’n’roll degli anni 50. Venerdì sarà possibile seguire la partita della Nazionale Svizzera di calcio senza audio e godersi la musica dei T-Rooster, provenienti dall’Italia e degli spagnoli Suitcase Brothers. Al termine del match calcistico avremo il pianista californiano Carl Sonny Leyland accompagnato dall’armonicista Egidio Juke Ingala e la sua band e infine il cantante e chitarrista californiano Joe Luois Walker, vincitore di quattro Blues Awards e membro della Blues of Fame. Insomma un programma ricco, che fa onore alla notorietà della città. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Cultura e Spettacoli

Ai vertici del jazz, per cinquant’anni

Un premio al valore e Napoli in scena Teatro La Fondazione Claudia Lombardi

Swiss Jazz Award Il premio svizzero sarà assegnato al trombettista

ticinese Franco Ambrosetti, protagonista di una carriera unica e di altissimo livello Alessandro Zanoli Se esiste un campo dell’attività artistica in cui il Ticino ha dato un contributo importante al panorama nazionale svizzero è quello del jazz. La «dinastia Ambrosetti» ha sicuramente contribuito ad elevare il livello e la reputazione del nostro cantone in questo settore di punta dell’espressione musicale. Per questo va salutata con grande favore la decisione di Jazzascona di assegnare lo Swiss Jazz Award 2018 (riconoscimento sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino) al trombettista ticinese Franco Ambrosetti. Il quale festeggia quest’anno 77 anni, di cui oltre 50 sulle scene di tutto il mondo, al fianco dei maggiori interpreti internazionali. In questi giorni, tra l’altro, esce la sua autobiografia, La scelta di non scegliere, che ripercorre i momenti essenziali della sua carriera. Franco Ambrosetti, a proposito di premi alla carriera: se le chiedessero un parere, lei a chi assegnerebbe uno Swiss Jazz tra i musicisti che ha conosciuto?

A Daniel Humair. Humair è sicuramente uno dei grandi maestri della batteria europea. Ha influenzato tantissimi batteristi, europei e non. Uno dei maggiori meriti che gli attribuiscono è quello di essere riuscito a suonare con gli americani e poi tantissimo con i migliori a livello europeo. Daniel è uno di quelli che è riuscito a creare uno stile diverso da Jack DeJohnette, diverso da Elvin Jones. Uno stile che prende un po’ da tutti, ma che ha una personalità tale per cui quando suona Daniel lo si riconosce: una personalità forte. E poi secondo me merita anche il suo eclettismo, il suo grande interesse per la pittura. È ormai un grandissimo pittore, quindi un artista di altissimo livello in vari campi espressivi. Noi abbiamo suonato insieme tantissimo, fin da ragazzi. JazzAscona che aveva questa fisionomia di rassegna di nicchia per il jazz tradizionale, assegnandole questo premio si sta profilando anche come rassegna di jazz moderno...

Ad Ascona stanno facendo molto per il jazz, ma comunque la formazione con cui parteciperemo sarà modulata secondo lo stile del festival, in quartetto: non porto mio figlio, ad esempio, perché Gianluca suona con uno stile

coltraniano, molto moderno. Nel nostro quartetto ci sarà certamente Dado Moroni al piano, ma suoneremo le cose più semplici.

La tromba è uno strumento particolarmente difficile; ci racconta come è successo che lei l’abbia scelta come suo strumento?

È stata una scelta di quando avevo 12 anni. Mio padre mi aveva portato a Milano a seguire un concerto di Stan Kenton. E lì ho sentito Conte Candoli suonare una ballata meravigliosa che poi diventava un pezzo veloce: mi hanno impressionato il luccichio della tromba, e l’immagine di questo gigante, che suonava come un dio. Sono tornato a casa e ho detto a mio padre: «Papà, vorrei suonare la tromba». Lui mi ha risposto secco: «No! Ta set trop giuvin par sonà la trumba»; e questa è la prima parte della frase. La seconda parte della frase era: «Se ta sonat la trumba senza sonà ’l piano, l’è mei lasà perd!». Allora ho cominciato a suonare il piano per 5 anni. Poi è arrivato in casa una volta Nunzio Rotondo, un bravissimo trombettista. Prendevo in mano lo strumento, mi ero innamorato, facevo funzionare i pistoni, c’era anche una parte ludica proprio nella bellezza dello strumento. Mio padre voleva che io suonassi il tenore, ma non mi affascinava lo strumento: invece la tromba mi affascinava. Allora, cosa sapevo? Sapevo che era difficilissima da suonare, anche se io ero molto motivato. Alla fine me l’ha regalata, a diciassette anni. E ho imparato a suonarla da solo. Per tornare al Jazz Award; se lei dovesse dare un premio alla carriera a Franco Ambrosetti, a quale periodo della sua carriera lo darebbe?

Forse agli anni 80. Lì suonavo molto di più di quanto suoni adesso, avevo anche un confronto maggiore perché mi incontravo con molti musicisti: avevo un controllo maggiore del suono, anche se ancora adesso sto molto attento alla cura della tecnica, faccio esercizi specifici, mi prendo il tempo per riposare. Con l’avanzare dell’età faccio frasi più riflessive. Il fatto che io sia partito da Clifford Brown e sia poi passato a Coltrane ha cambiato il mio modo di concepire l’esecuzione, ha influenzato il mio modo di improvvisare (anche se, suonando la tromba non è che questa influenza si noti immediatamente). Mi sforzo di girare senza considerare troppo gli

ha eletto i nuovi vincitori; all’Agorà di Magliaso è andata in scena una pièce di Ruccello

intervalli, di allargare l’armonia, fare magari note che sembrano stonate. Mi sono lasciato molto influenzare da Michael Brecker, che era un amico, e che è un musicista post-coltraniano anche lui. Mi ispirava a fare tante note, però diverse, non quelle classiche: note che andavano in direzioni diverse, coraggiose. Magari spaiate, che sembra vadano fuori strada, ma poi capisci che in realtà hanno una loro logica. Ultima domanda: Franco Ambrosetti riceve il Jazz Award, viene avvicinato da una persona che gli dice «Non conosco il jazz ma ne sono incuriosito. Con che disco potrei incominciare ad ascoltarlo?». Lei cosa gli/le consiglierebbe?

Consiglierei qualche disco Prestige di Miles Davis degli anni 55-56-57-58, tipo Relaxin’. Quelli con Philly Joe Jones, Red Garland, con Coltrane che suonava ancora tranquillo (e anche con difficoltà). Davis è stato un musicista importantissimo per la storia del jazz. Davis è stato l’inizio di tutto. L’ho conosciuto personalmente. E una cosa che mi rende molto fiero è quello che ha detto di me, quando gli hanno chiesto se c’è un trombettista bianco con cui suonerebbe... In un’intervista fatta dallo svizzero Guido Mayer, ex direttore della rivista «DU», Davis insisteva nel fare delle differenze tra il «suonare bianco» e il «suonare nero». Alla fine di tutto il discorso Mayer gli chiese se non ci sarebbe mai stato un bianco in grado di suonare come un nero. Davis diceva ad esempio che nessun bianco avrebbe mai potuto cantare come Michael Jackson o come Prince. Alla fine del discorso però Miles chiese a Mayer: «Come si chiama quel trombettista che suona con George a Berlino?». George era Gruntz, ovviamente, che era il direttore musicale del Teatro di Berlino. E Miles aggiunse: «Quello sì, quello suona come un nero». Beh, ero io. Devo dire che l’ho incontrato un paio di volte e ho chiacchierato con lui, era una persona eccezionale, lo paragonerei a Beethoven, non a Mozart. Soprattutto non era un semplice trombettista, era un vero musicista. Che anticipava le tendenze. E ha influenzato tutti noi. In collaborazione con

Laura Zeolli e Fabio Bisogni della Compagnia praticidealisti. (fondazioneteatro.ch)

Giorgio Thoeni Voler affiancare a una grande passione per il teatro il sogno di riuscire ad aiutare giovani leve della scena è da diverso tempo il nutrimento principale degli obiettivi di Claudia Lombardi, alla testa del progetto da lei ideato e diretto con la costituita Fondazione a cui ha dato il nome. Personalità volitiva e dalle idee molto chiare, questa signora è riuscita in breve tempo a catalizzare l’attenzione attorno al suo desiderio di puntare concretamente sulla drammaturgia contemporanea e sui talenti emergenti, sostenendoli nel realizzare il loro sogno teatrale a patto che vi sia qualità di contenuti e formazione professionale. Per riuscire a ottenere risultati concreti occorre un’applicazione costante, talvolta febbrile. Eccola dunque a dover convincere, discutere, motivare, confrontarsi, costruire… coltivando la curiosità per il nuovo. Anche se non è sempre facile conquistare la fiducia dei giovani teatranti, soprattutto quelli ticinesi, abituati a doversi giostrare per racimolare qualche spicciolo per coltivare il proprio orticello. Qualcuno ricorderà che nel 2017 il concorso era stato vinto dalla compagnia milanese Connettiv024grammi con La fabbrica della felicità, un testo di Irene Canali.

Scopo della Fondazione è la promozione della realizzazione di uno spettacolo dall’inizio alla fine

Franco Ambrosetti in un’immagine del 2015. (CdT - Maffi)

La seconda edizione del bando di testoniscena indetto dalla Fondazione allo scopo di promuovere la realizzazione di uno spettacolo dal testo alla scena ha corrisposto alle aspettative richiamando alla partecipazione 48 progetti: 8 provenienti dal Ticino e 40 dalla Lombardia. Anche quest’anno il tema era libero mentre le condizioni sono state modificate, potevano infatti partecipare giovani compagnie teatrali professioniste svizzere senza limite d’età mentre quelle lombarde non dovevano aver superato i 35 anni. Un’apertura giustificata dal confronto impari fra le due masse critiche. Una giuria presieduta da Carmelo Rifici ha scelto il progetto Finisterre della Com-

pagnia praticidealisti con sede presso il Teatro Paravento di Locarno. Scritta da Francesca Tacca, la pièce ripercorre la biografia di Alejandro Finisterre, l’inventore del calcio-balilla: un pretesto per raccontare la Storia attraverso la metafora del gioco. Oltre al premio di 3500 franchi, la compagnia si è aggiudicata l’assistenza durante le fasi salienti della creazione di un drammaturgo che la guiderà durante una residenza artistica di due settimane. La regia è di Marco Taddei per gli attori Laura Zeolla e Fabio Bisogni con musiche dal vivo di Francesca Badalini. Il debutto è atteso al Teatro Foce di Lugano il 30 novembre. Il teatro napoletano arriva a Magliaso

Il lavoro del Teatro Agorà di Marzio Paioni a Magliaso alterna periodi dedicati alla formazione teatrale con allestimenti di fine corso o progetti più ambiziosi come l’ultimo La mar (con lo stesso Paioni in scena e la scrittura originale di Olimpia De Girolamo), realizzati con il sodalizio artistico di Claudio Orlandini. Un aspetto interessante dell’attività di questa piccola realtà periferica consiste nell’incontro fra regia professionale e attori amatoriali. Il recente allestimento di Le cinque rose di Jennifer, atto unico di Annibale Ruccello ne è un esempio. Scomparso a trent’anni nel 1986, epigone di Eduardo, Ruccello è stato precoce continuatore di un teatro che racconta una Napoli nascosta. Autore eclettico e di culto, nella sua poesia c’è la lingua dei bassifondi, cartina tornasole di delicati lirismi colorati da strazianti durezze dei diversi, degli esclusi, di quelli che lui definiva «i deportati». Ma mettere in scena quella Napoli non è una passeggiata. Nemmeno per un saggio liberatorio. La regia di Orlandini ha avuto coraggio. Particolarmente fedele alle indicazioni originali dell’opera di debutto del sedicenne Ruccello, il regista ha provato a districarsi dai fragili equilibri amatoriali per raccontare l’universo femminile in un dramma dell’attesa, fra telefonate e musiche di un programma radiofonico di dediche, manto sonoro per il monolocale di due travestiti terrorizzati da un assassino di quartiere. Solitudine e passione animano un’Olimpia De Girolamo dall’efficace presenza verace, Massimo Calanchini, Maria Rosaria Gianini-Moser e Gunjan Donatella Moreschi.


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Attualità Un pregiato taglio di manzo Angus non può mancare in una grigliata estiva che si rispetti

Taglio e razza

La costata viene ricavata dalla parte anteriore dei lombi del bovino. Conosciuta nei paesi anglosassoni come club steak, questo taglio pregiato possiede un osso a forma di L invece che di T, come nel caso della nota fiorentina. La carne di razza Black Angus si differenzia dalle altre varietà bovine per la sua particolare struttura. Possiede infatti fibre delicate, una marmorizzazione ben distribuita che la rende tenera e una succosità particolare. Questa carne, per essere così gustosa e speciale, subisce inoltre una frollatura all’osso di almeno due settimane. Allevamento all’aperto, alimentazione a base di erba fresca e foraggi indigeni privi di soia, e vitelli che restano con le loro madri fino allo svezzamento: questi gli elementi distintivi dei bovini Black Angus allevati in Svizzera secondo i criteri di IP-Suisse. La razza, originaria della Scozia, fu introdotta su suolo elvetico negli anni Settanta da alcuni lungimiranti allevatori che

iStock

Allevamento svizzero

intuirono le potenzialità di mercato di questi bovini da carne dal mantello nero. Si stima che attualmente nel nostro paese vi siano oltre 14’000 capi di razza Angus. Per natura questi anima-

li non hanno corna, sono poco esigenti e molto robusti. Si adattano bene a diverse condizioni meteorologiche, dalle estati molto calde agli inverni molto umidi.

La cottura

Dato che la carne di manzo Angus possiede già da sola un sapore intenso, non servono molti condimenti. Questo pregiato taglio sprigiona il meglio delle sue proprietà anche solo con un pizzico di fleur de sel e una macinata di pepe nero, dopo averlo spennellato in modo uniforme con dell’olio. Grigliare quindi la costata a fuoco vivo per 5-7 minuti, girandola di tanto in tanto, fino ad ottenere il grado di cottura al cuore desiderato (al sangue 50-55 °C, rosata 5662 °C). Per determinare la temperatura interna utilizzare l’apposito termometro per carne. Importante: per ottenere una cottura uniforme, togliere la carne dal frigorifero almeno mezzora prima della preparazione. I mastri macellai di Migros sono a vostra completa disposizione per consigliarvi altre ricette speciali e aiutarvi nella scelta dei tagli migliori per le vostre preparazioni. Costata di manzo Swiss Black Angus Svizzera,100 g Fr. 8.– In vendita al banco nelle maggiori filiali Migros

Per chi ama gli accompagnamenti C’è chi la carne la mangia da sola, e chi invece non disdegna di accompagnarla con una delicata salsina. Create apposta per la stagione delle grigliate, queste quattro mousse sono perfette non solo per carne alla brace, ma anche per verdure e pollame. Disponibili nei gusti aglio, pepe verde, diabolo «piccante» e café de Paris, sono molto pratiche: il vasetto è infatti richiudibile e permette di conservarle diversi giorni in frigorifero senza comprometterne la qualità.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Sono arrivate le ciliegie svizzere!

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Attualità Ottima annata per i gustosi frutti

di produzione indigena

che alla nostra salute: una porzione di ciliegie aiuta infatti a coprire il nostro fabbisogno di potassio, vitamina C e acido folico. Alcuni studi hanno inoltre dimostrato che le sostanze vegetali responsabili della colorazione delle ciliegie abbiano proprietà antinfiammatorie e antivirali. Sugli scaffali di Migros Ticino, al momento trovate esclusivamente ciliegie di provenienza svizzera, da quelle coltivate in modo convenzionale, alla qualità extra di grosso calibro, fino alle ciliegie biologiche. Sono frutti gustosi che vengono forniti ai punti vendita entro brevissimo tempo dalla raccolta e saranno disponibili fino alla fine di luglio.

Keystone

Secondo l’Associazione Svizzera Frutta, quest’anno, grazie alle condizioni climatiche favorevoli che si sono registrate, si può contare su un buon raccolto di ciliegie indigene. In media si stima che sarà superiore del 30% rispetto agli ultimi quattro anni, la seconda prospettiva è che sarà il terzo raccolto più generoso dall’anno 2000. Inoltre, ci si può aspettare un’ottima qualità dei frutti sia interna sia esterna. Nel nostro paese le ciliegie vengono coltivate principalmente nei cantoni di Zugo, Svitto, Basilea Campagna, Argovia, Turgovia e Berna. Insomma, ci sono proprio tutti i presupposti per farne una scorpacciata! Tanto più che fanno bene an-

Calcia i rigori Per piccoli e grandi fan Ecco i bracciali dei Mondiali 2018 e diventa un vero bomber Attualità

Evento Fino al 23 giugno al Centro Migros S. Antonino

iStock

Tra i numerosi articoli dedicati ai Mondiali di calcio 2018 in Russia, attualmente disponibili nella vostra Migros, vi sono anche questi originali bracciali multifunzionali tutti da collezionare firmati Panini, il mitico marchio produttore del popolarissimo album di figurine dei giocatori. Oltre ad essere sfoggiati al braccio in occasione della par-

In piena atmosfera «Mondiali di Calcio 2018», ecco un evento a cui è impossibile non partecipare. Fino al prossimo 23 giugno, il Centro S. Antonino ospita «Calcio di rigore», la spassosissima attività rivolta a grandi e piccoli. Un’esplosiva combinazione di forme, colori, fantasia e una porta da calcio gonfiabile, dove gli appassionati potranno sfidare la sorte tirando in rete il fatidico calcio di rigore. I «bomber» dovranno centrare uno dei fori della porta gonfiabile per diventare, almeno per un giorno, il grandissimo campione che hanno sempre sognato di essere. Venite a trovarci e a provare questa esperienza.

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tita della propria squadra del cuore, si possono utilizzare come fermacapelli, portachiavi, segnalibro e chi più ne ha più ne metta. I bracciali sono disponibili nei colori rosso-bianco della Nazionale Svizzera, e in quelli delle altre 31 squadre partecipanti alla 21esima edizione del Campionato mondiale di calcio.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Farmacia da viaggio

Ben forniti in caso di bisogno

Anche in vacanza bisognerebbe essere sempre pronti ad affrontare i contrattempi. Una farmacia da viaggio ben attrezzata offre una protezione ottimale mentre si è via da casa Testo Gerda Portner

Idrata e cura: il gel Aloe Vera di Sanactiv è ottenuto quasi interamente dalla polpa delle foglie della pianta. Il gel lenisce la pelle sollecitata, idrata e nutre, per esempio dopo aver preso il sole. Il gel Aloe Vera è idoneo anche come base per il make-up in caso di clima secco e ventoso.

Subito disponibile: il pratico set di cerotti è perfetto durante i viaggi. Contiene cerotti idrorepellenti e quelli per pelli sensibili. In caso di piccole lesioni sono di aiuto le salviettine per la pulizia delle ferite, che non bruciano e non irritano la pelle. M-Plast Set di cerotti da viaggio 18 pezzi Fr. 3.30

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Anti Insect Forte Mini 50 ml* Fr. 4.50 Usare con cautela i biocidi. Prima dell’uso leggere attentamente l’etichetta e le informazioni sul prodotto.

In caso di flatulenza e senso di pesantezza, adulti e adolescenti a partire dai 14 anni possono assumere le pastiglie gastrointestinali. Ma attenzione: contengono sorbitolo e se ne possono consumare al massimo 8 pastiglie al giorno.

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Cosa mettere nella farmacia da viaggio? Per scoprirlo: •A pri Discover nell’app Migros • Scansiona questa pagina • Apprendi di più migros-impuls.ch/farmacia

iMpuls è l’iniziativa della Migros in favore della salute.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Mondo animale

Benessere animale I migliori bocconi per gli amici più fedeli Con «The Good Stuff» è disponibile il primo alimento secco per cani che consiste in polpa di carne fresca e materie prime di alta qualità. Non contiene cereali. A cosa devono prestare attenzione i proprietari di cani al momento in cui cambiano la loro dieta? Testo Reto E. Wild

ros, o i media Mig s s re p e c ri tt a ger (53) red Yvette Hettin ) con Oskar (11

Quale la regola generale?

Per i cani è importante una dieta adeguata all’età e ben digeribile. Nel caso si cambi il mangime, il proprietario di un cane dovrebbero calcolare dalle due alle quattro settimane di tempo. Ciò potrebbe risultare impegnativo, perché non tutti i cani reagiscono nello stesso modo.

Il mio cane

«Oskar flirta con le persone» Yvette Hettinger, da quando fate coppia? Da circa nove anni sono la madrina di Oskar. Appartiene alla famiglia patchwork del mio ex amico e di nostro figlio.

Variante 1: cambiamento repentino del mangime

Quanto spesso vi vedete? Ogni venerdì. Il mattino vado a prendere Oskar dalla sua famiglia. Poi lui mi accompagna in ogni momento della giornata perché proprio star da solo non gli piace. Le nostre attività: passeggiare, fare acquisti, passeggiare, fare acquisti, giardinaggio, stare a casa e occuparsi della casa.

Dovrebbe essere adottata solo con cani resistenti. Chiunque abbia un amico a quattro zampe sensibile, deve aspettarsi nel breve termine stitichezza o diarrea.

1

Come è stato scelto il nome di Oskar? Nel canile del sud Italia da cui proviene era solo un numero. Il suo nome gli è stato dato dalla donna che lo ha portato in Svizzera.

Variante 2: cambiamento graduale

Si comincia con un quarto del nuovo mangime e tre quarti di quello precedentemente utilizzato. A distanza di due giorni si aumenta poi di un ulteriore quarto la quantità del nuovo mangime e si diminuisce di un quarto la quantità di quello abituale.

2

Variante 3: cambiamento boccone per boccone

In questo caso si tratta di un cambiamento lento, ogni giorno viene sostituita solo una piccola quantità del mangime abituale con quello nuovo. Ciò necessita parecchio tempo e pazienza ed è la variante raccomandata per i cani particolarmente sensibili.

3

Cosa avete in comune? La nostra voglia di movimento! E le coccole: gliele potrei fare per ore. Che da parte sua potrebbe farsele fare per ore. Cosa contraddistingue Oskar? È il cane con il maggior livello di umanità che conosco. Già solo per il suo aspetto così grazioso ruba un sorriso a tutti. Talvolta fa l’occhiolino agli estranei. Penso che flirta con loro.

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2.70 invece di 4.90 Zucchine Ticino, al kg

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3.85 invece di 5.80 Pomodorini ciliegia a grappolo Ticino, vaschetta da 500 g

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Foglia di quercia bio Ticino, imballata, per 100 g

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Patate novelle bio Svizzera, imballate, 1 kg

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

58

Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 18 giugno 2018 • N. 25

59

Idee e acquisti per la settimana

Rasatura

La rasatura perfetta

Con la barba o con la pelle liscia: è consentito ciò che piace. Con un aspetto che andrebbe considerato come ovvio: la cura quotidiana

Suggerimento

Dopo una rasatura a umido la pelle è liscia e curata. Il rasoio Gilette Fusion 5 è particolarmente adatto. Le sue cinque lame e la striscia lubrificante provvedono a rendere la rasatura quasi impercettibile e minimizzano le irritazioni della pelle, anche di quelle sensibili. La lama di precisione sul retro è particolarmente adatta per raggiungere i punti più difficili e per modellare la forma dei peli del viso. Per la cura e la protezione dopo la rasatura ha dato buona prova di sé l’After Shave Balm Sensitive di I am men, che lo scorso marzo è addirittura stato il vincitore del test di «K-Tipp». La sua formula riduce delicatamente le tensioni della pelle sollecitata e ne previene l’irritazione.

I am men 2 in 1 After Shave Balsam Sensitive 100 ml Fr. 5.30

Gillette Series Gel da barba Sensitiv 200 ml Fr. 3.80

Suggerimento

Sparrow , Soul Patch2, Fu Manchu3 o una normale barba folta. Oggi con la barba e domani senza, a seconda dell’occasione. Lavare quotidianamente la barba con un apposito sapone è d’obbligo. Per pulire e districare i peli e affinché la barba emani un discreto profumo. Tamponare con un asciugamano e massaggiare con un olio da barba di qualità, che mantiene i peli lisci e idrata la pelle. In seguito spuntare e modellare la barba con lo Styler 3 in 1 di Gilette, per dare la forma desiderata. Questa combinazione di lame anti irritazione con un rifinitore di precisione sviluppato da Braun assicura contorni precisi e una rasatura perfetta. 1

I am men Hydra Cream Sensitive 75 ml Fr. 6.90

Gillette Fusion 5 Rasoio Pro Glide Styler Fr. 24.40

secondo Capitan Sparrow nei Pirati dei Caraibi triangolino di barba sotto le labbra 3  come il wrestler americano Hulk Hogan 1  2

The Great British Grooming Co. Beard Oil 75 ml* Fr. 14.50

Gillette Fusion 5 Rasoio Fr. 11.40

The Great British Grooming Co. Beard Wash 200 ml* Fr. 9.80

*Nelle maggiori filiali

Gillette Fusion 5 Lame di ricambio 8 pezzi Fr. 26.80


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