Azione 25 del 21 giugno 2021

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Cooperativa Migros Ticino

società e territorio Il «Grünhölzli» della città di Zurigo: un progetto di giardino comunitario con finalità socioculturali

ambiente e Benessere La capacità naturale di ibernarsi del lemure Microcebo Murino potrebbe insegnare agli astronauti in viaggio verso Marte come dormire per sei mesi

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXIV 21 giugno 2021

azione 25 politica e economia «Missione compiuta». Il bilancio del viaggio del presidente americano Joe Biden in Europa

cultura e spettacoli Di quale teatro avremmo bisogno oggi? L’eredità di Augusto Boal

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legge sul co2 caduta in un fossato

la musica in dialogo con la pittura al museo d’arte di mendrisio

di Peter Schiesser

di Alessandro Zanoli

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La sorpresa è stata grande quando si è capito che la legge sul CO2 sarebbe stata bocciata, di misura (51,6% di no) ma pur sempre bocciata. A parte l’UDC e alcune frange degli ambientalisti più sfegatati (fra cui quelli romandi), tutti a parole si erano espressi a favore, persino gli ambienti economici. La Svizzera però conosce molti fossati, più o meno visibili, variabili a seconda dell’oggetto del contendere. Il 13 giugno è emerso quello fra città e campagna. Prevedibile, viste le due iniziative sui pesticidi che minacciavano l’agricoltura come è praticata oggi (che hanno mobilitato un alto numero di votanti, contrari), forse pure da prevedere che il no alle due iniziative togliesse voti anche alla legge sul CO2. Infatti, al Dipartimento di Sommaruga è stato rimproverato un errore tattico madornale, di porre in votazione la legge sul CO2 assieme alle due iniziative «agrarie», cui il DATEC ha risposto invocando la necessità di rispettare dei tempi tecnici (che non stiamo a spiegare). Tuttavia, il fossato città-campagna non è sufficiente per spiegare questa sconfitta. L’abituale analisi del voto che seguirà fra qualche settimana sarà più dettagliata, ma i primi rilevamenti condotti da Tamedia indicano che la spaccatura fra sì e no era presente in tutti i partiti ufficialmente a favore. In particolare fra il Plr (oltre il 60% di contrari), il Centro (l’ex Ppd, con oltre la metà di contrari), il PS (un quarto di contrari), i Verdi liberali (uno su cinque), mentre i Verdi sono stati perlopiù compatti (solo uno su dieci ha votato contro). Insomma, questa legge non ha convinto. Vuoi da chi la ritenesse troppo dirigista e con tasse di incitamento troppo elevate (l’aumento di 12 centesimi sul prezzo della benzina, la tassa sui voli aerei, che avrebbero alimentato un poco trasparente Fondo per il clima), vuoi da chi la considerava troppo blanda. Il risultato è che probabilmente la Svizzera non riuscirà a rispettare gli impegni presi con gli Accordi di Parigi sul clima nel 2015, ossia di dimezzare entro il 2030 le emissioni di CO2 rispetto al 1990, e diventerà arduo raggiungere la «neutralità climatica» entro il 2050. La maggioranza, viene detto, ha votato con un occhio al borsellino piuttosto che al tema epocale del riscaldamento dell’atmosfera terrestre, che colpisce la Svizzera più massicciamente di altri paesi. Ma resta il fatto che la Svizzera dovrà onorare gli impegni presi, che la direzione resta questa e che bisognerà trovare altre vie. I perdenti del 13 giugno invitano ora i vincitori (Udc) a tradurre in visioni e progetti concreti una via alternativa nella lotta ai cambiamenti climatici: vedremo se dietro a quel «no» esiste una progettualità. Ma non è solo l’Udc a doversi assumere responsabilità. Lo devono fare anche gli altri partiti, per primo il Plr. Due anni fa la presidente Petra Gössi ha impresso una svolta verde al partito, che la base e i delegati hanno accettato, ma si è visto in questa votazione che una parte importante del partito non l’ha digerita, ci sono stati anche esponenti di spicco che apertamente hanno combattuto la legge sul CO2. Ora Petra Gössi se ne va (a fine anno), lasciando un partito di nuovo in perdita di consensi e spaccato sulla questione ambientale. Non è di buon auspicio, per il Plr e per l’intero paese.

risultati della votazione generale 2021 15’228 soci hanno votato (partecipazione al voto 15,2%)

sI: 14’709 No:

268

98,2% 1,8%

Il consiglio di amministrazione ringrazia per la fiducia accordatagli

2. approva la revisione dello statuto della cooperativa migros ticino?

sI: 14’629 No:

328

97,8% 2,2% stefano spinelli

1. approva i conti annuali 2020, dà scarico al consiglio di amministrazione e accetta la proposta per l’impiego del risultato di bilancio?


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 giugno 2021 • N. 25

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attualità migros

allenati con noi!

actIV FItNess Nelle cinque palestre del

cantone pronto il programma di allenamento specifico per la StraLugano 2021

Appuntamento per la 15° edizione il 28-29 agosto 2021. (www.stralugano.ch)

Dopo un anno di sospensione dovuta ai noti motivi di ordine sanitario, la StraLugano torna quest’anno per la sua 15ma edizione il 28 e 29 agosto. Da manifestazione locale dedicata al piacere per l’attività sportiva amatoriale, nel corso degli anni la gara è andata

acquistando popolarità (i dati statistici registrano una crescita esponenziale delle iscrizioni, addirittura del 1000% rispetto alla prima edizione): StraLugano è diventata una competizione podistica di rilievo nazionale e internazionale. Nonostante questo prestigioso

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Per la redazione del settimanale Azione, cerchiamo una o un

Sostituta/o redattore capo Tasso occupazione 100%. Data di inizio Da convenire. Mansioni Supportare, sostituire in assenza, il Redattore Capo ed i colleghi nelle attività necessarie al funzionamento della redazione; Redigere articoli in aderenza con la linea editoriale del giornale; Fungere da riferimento per tutte le questioni tecniche e informatiche; Assicurare il coordinamento con i servizi Comunicazione, Marketing, Percento culturale; Gestire agenda, concorsi e altre attività promozionali per i lettori. Competenze professionali Formazione accademica in ambito umanistico (Giornalismo, Scienze della comunicazione, Lettere, Filosofia, Scienze Politiche, ecc.) preferibilmente con specializzazione «media e giornalismo»; Esperienza redazionale di almeno 8 anni; Ottime conoscenze dell’italiano, tedesco, francese ed inglese; Facilità nell’uso di programmi di editing, trattamento immagini e pacchetto office. Competenze sociali Mentalità innovativa e propensione a generare nuove idee; Buone capacità di leadership e coordinamento di gruppi di lavoro; Proprietà dialettiche e disinvoltura nell’esprimersi in modo chiaro e comprensibile; Capacità di operare autonomamente scelte efficaci, assumendosene le responsabilità; Resistenza a importanti picchi di lavoro e rigido rispetto delle scadenze. Offriamo prestazioni contrattuali all’avanguardia, ambiente di lavoro dinamico in un’équipe redazionale affiatata e interessanti possibilità di carriera. Candidature da inoltrare in forma elettronica, collegandosi al sito www.migrosticino.ch, sezione «Lavora con noi» – «Posti disponibili» includendo la scansione dei certificati d’uso.

azione

settimanale edito da migros ticino Fondato nel 1938 redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Romina Borla, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

salto di qualità, i principali aspetti che la caratterizzano sono sempre l’amore per lo sport e per l’affascinante percorso attraverso la bella città sul Ceresio. Importante novità per quest’anno: i soci delle palestre ACTIV FITNESS potranno iscriversi alla StraLugano beneficiando di uno sconto del 20% sui costi (le istruzioni sono riportate in fondo a questa pagina). La quota dà, tra l’altro, il diritto di raggiungere gratuitamente il luogo della competizione utilizzando i mezzi di trasporto pubblici. Per l’occasione, ACTIV FITNESS ha istituito un programma di preparazione adeguato alla competizione. Questo avrà luogo nelle settimane precedenti la gara e sarà composto da alcuni incontri e lezioni specifiche tenute nei cinque centri del nostro cantone (Bellinzona, Vezia, Losone, Lugano, Mendrisio) . Il programma complessivo prevede in particolare un primo incontro, in cui sarà possibile ottenere le informazioni preliminari necessarie a preparare in modo adeguato l’avvicinamento alla competizione. In questa fase ognuno potrà fissare dei propri obiettivi personali, che tengano conto delle proprie esigenze e del proprio grado di preparazione fisica. Sarà in questa sede quindi che si fisserà il programma con-

creto di allenamento e anche l’eventuale piano di alimentazione, che aiuterà a raggiungere la forma ideale. In seguito è prevista anche un’uscita all’esterno, come presa di contatto con il percorso reale. Qui saranno fornite le nozioni principali che riguardano la tecnica della corsa podistica. In altri incontri successivi (ne sono previsti da due a tre) si potrà poi valutare il livello di preparazione raggiunto e, se del caso, implementare eventuali adeguamenti nel programma di avvicinamento alla gara. Gli incontri di preparazione saranno affidati a Luigi Nonella, atleta e insegnante molto conosciuto nell’ambito sportivo professionistico del nostro cantone. Nato nel 1951 a Cadenazzo, Nonella ha ottenuto il Diploma di educazione fisica al Politecnico di Zurigo e quello di allenatore AOS (Associazione olimpica svizzera) a Macolin. È stato docente di educazione fisica alle Scuole medie e Responsabile dello Sport scolastico per l’UEFS. Come atleta ha partecipato a numerose competizioni e ha fatto registrare record cantonali in discipline individuali e nella staffetta. A più riprese è stato campione ticinese su varie distanze; ha fatto parte dei quadri giovanili svizzeri di mezzofondo dove si

è distinto con ottime prestazioni negli 800 m nella maratona. Dal 1985 al 1994 ha allenato la squadra nazionale svizzera di maratona, con la quale ha partecipato a un campionato europeo, cinque campionati del mondo e alle Olimpiadi del 1988 a Seul. A partire dal 2015 è stato richiamato a guidare i maratoneti svizzeri, con i quali ha ottenuto medaglie d’oro individuali e a squadre nei Campionati europei di Amsterdam. Si è occupato in qualità di preparatore atletico del Basket club Bellinzona e dell’Hockey club Ambrì-Piotta. L’iscrizione ai corsi di preparazione potrà essere inoltrata grazie a uno specifico applicativo che verrà creato nelle prossime settimane o annunciandosi presso i singoli centri. Per ogni ulteriore informazione: www.activfitness.ch le gare previste

■ 10KM CITY RUN CS: ore 18.30 di sabato 28 agosto; ■ MONTE BRÈ CHALLENGE RACE: ore 8.30 di domenica 29 agosto; ■ HALF MARATHON e RELAYRUN: ore 9.00 di domenica 29 agosto; ■ 5KM FAST RUN: ore 13.30 di domenica 29 agosto.

torna la stralugano: ecco come iscriversi «Con una crescita esponenziale del 1000% rispetto alla prima edizione, StraLugano, la gara più veloce della Svizzera, è pronta a vivere la sua XV “volta” con un programma mai visto prima: Half Marathon, 10KM valida per i campionati svizzeri, staffetta Relay, Challenge Race, CharityRun, KidsRun e la novità della 5KM competitiva! 2 giorni di sport e fantastici eventi collaterali. 48 ore di emozioni pure e sincere. Festeggia con noi!». Questo è il messaggio con cui gli organizzatori vogliono coinvolgere gli appassionati e invitarli a prendere parte alla manifestazione luganese che vede Migros Ticino come sponsor principale. Modalità d’iscrizione: Con tassa normale domenica 15 agosto 2021 Con sovrattassa dal 16 al 28 agosto 2021 (per la 5 km 29 agosto 2021 alle 12.30). editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11 stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

Con nome stampato sul pettorale entro le 24.00 del 22 agosto 2021 L’assegnazione dei numeri di gara avverrà lunedì 23 agosto 2021. Iscrizioni sul posto: ■ per le gare della Half Marathon, 10 km City, Staffetta, Stracombinata e Monte Brè Challenge Race sabato 28 agosto 2021 (dalle ore 14.00 alle ore 20.00) alla postazione del ritiro pettorale Centro Esposizioni, Via Campo Marzio, Lugano-Cassarate, con sovrattassa. ■ per la KidsRun sabato 28 agosto 2021 dalle 10.00 alle 14.30 all’InfoPoint di Piazza Riforma (Villaggio StraLugano). ■ per la 5 km Fast Run e 4Charity domenica 29 agosto 2021 fino alle 12.30 all’InfoPoint di Piazza Riforma (Villaggio StraLugano) Saranno possibili eventuali cessioni di tiratura 101’262 copie Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

pettorale, ma dopo il 15 agosto 2021, con una sovrattassa aggiuntiva di 10.– CHF / 9.– €. On-line: tramite il sito www.stralugano.ch con link su Datasport e seguendo le indicazioni riportate per l’iscrizione on-line e il pagamento con carta di credito o trasferimenti bancari. Non sarà concesso alcun rimborso da parte di StraLugano in caso di rinuncia alla gara. Al momento dell’iscrizione è possibile stipulare un’assicurazione di annullamento/rinuncia in caso di malattia o infortunio. Le eventuali richieste sono da indirizzare direttamente all’assicurazione. I soci delle palestre ACTIV FITNESS potranno iscriversi beneficiando di uno sconto del 20%.

abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 giugno 2021 • N. 25

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società e territorio design for all È stato presentato il nuovo Centro di competenza voluto da inclusione andicap ticino e ispirato a un movimento internazionale

Videogiochi Ritroviamo i Lombax in un gioco d’avventura che mette in risalto tutte le caratteristiche e il dinamismo delle console di nuova generazione pagina 7

redog ticino La Società svizzera per cani da ricerca e da salvataggio compie 50 anni. Abbiamo incontrato il team dell’unità regionale ticinese durante un’esercitazione sul Tamaro pagina 9

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molto più di un semplice giardino Natura e città Il «Grünhölzli» della città

di Zurigo: un progetto sinergico di giardino comunitario con finalità socio-culturali

Vanessa Giannò Per rispondere alla rinnovata esigenza di spazi naturali, nata dalla crescente urbanizzazione dei centri a scapito di spazi verdi ormai lottizzati, la città di Zurigo, di fatto la Grün Stadt Zürich GSZ (del Dip. di ingegneria civile e gestione dei rifiuti), lancia un progetto di zona verde nel Dunkelhölzli (Zurigo-Altstetten). Area ai margini della città, storicamente caratterizzata dall’uso del giardino, essa è ben connessa al centro cittadino dai mezzi pubblici. Riclassificata nel 2013 come zona destinata a orti e giardini, il comune avvalla nel 2017 un credito di 10,51 milioni di franchi per convertire quest’area di circa sette ettari. Malgrado le opposizioni (referendum del 2018), il progetto viene confermato a grande maggioranza della popolazione e, nel 2020, viene ampliato dall’acquisto di un ulteriore appezzamento confinante comprensivo di un vivaio e di un orto. Il progetto per riconvertire questa zona in un parco cittadino, elaborato nel 2016 dallo studio di architettura del paesaggio Vulkan, è in fase di concretizzazione. Di ampio respiro, esso prevede la creazione di un parco (2,8 ettari) – un’area ricreativa con bosco, prato e ruscelli – mentre una seconda zona è dedicata a varie forme di orti (4,6 ettari). Dopo le misure di bonifica del suolo, necessarie a causa dei materiali inquinanti ritrovati nel sito, un progetto di ingegneria idraulica è stato messo a punto per la rinaturalizzazione dei due fiumi che attraversano il futuro parco. Gli edifici già presenti sul sito, protetti dall’Ufficio comunale di conservazione dei monumenti, sono destinati ad essere ristrutturati per attività agricole e ricreative da definire. Nel periodo in cui la GSZ fa i primi passi verso questa iniziativa, un gruppo di cittadini sensibili a questa tematica – consci del suo valore – creano l’Associazione Grünhölzli (2015) e propongono uno schizzo concettuale, di cui discutere in una prospettiva sinergica con la GSZ e gli altri enti coinvolti, ritenendo necessaria l’ela-

borazione di un concetto generale che sostenga le varie parti del progetto e la creazione di un’organizzazione mantello che ne tuteli l’applicazione. Questo piano propone la realizzazione del cosiddetto «Grünhölzli», una sorta di fattoria modello, che vuole essere centro di competenza per l’agricoltura urbana e area ricreativa. Dall’intenso scambio, l’Associazione ottiene la gestione di parte della zona destinata agli orti, di cui propone un uso comunitario (in contrapposizione agli orti tradizionali individuali presenti dal 2020 per mano dell’Associazione degli orti familiari di Altstetten – Albisrieden), riuscendo a sdoganare una visione alternativa e comunitaria. «Grünhölzli» propone una visione in cui sia possibile espletare varie funzioni di ordine agricolo, ecologico e sociale (www. gruenhoelzli.ch), facendo scuola della possibile e necessaria sinergia per la creazione di progetti ad uso e consumo della cittadinanza. signor thilo Gruber, lei è presidente dell’associazione Grünhölzli. potrebbe raccontarci brevemente il progetto?

Quando ci siamo avvicinati a Grün Stadt Zürich sei anni fa, abbiamo avuto la sensazione che la conversione dell’area sarebbe avvenuta molto rapidamente e che dovevamo fare in fretta perché altrimenti sarebbe stata convertita in un giardino convenzionale. Sapevamo che la città stava progettando una nuova zona verde e che il proprietario del vivaio voleva venderlo. Abbiamo pensato che fosse una grande opportunità per la città di realizzare qualcosa di unico: un centro comunitario di giardinaggio, una fabbrica verde in mezzo a un giardino comunitario, dove centinaia di giardinieri potessero coltivare i propri ortaggi. Fin dall’inizio, volevamo anche creare un centro socio-culturale dove la gente potesse occuparsi del cibo, della comunità e dell’ambiente. Ci sono voluti anni prima di realizzare il nostro giardino e abbiamo dovuto superare periodi difficili, ma da quando abbiamo iniziato a lavorare, il progetto sta andando molto

La sera al Grünhölzli, un’oasi verde che è anche un progetto sociale di integrazione e lavoro di vicinato. (Cornelia staffelbach)

bene e molte persone si sono aggregate a noi con entusiasmo.

È interessante che questo progetto, nato «dal basso», sia stato accolto e poi sostenuto dalla città di Zurigo. potrebbe spiegarmi le dinamiche?

Il nostro progetto non è stato sostenuto dalla città fin dall’inizio. Grün Stadt Zürich progettava da oltre dieci anni una nuova area-giardino. Diversi impedimenti e il processo politico ne hanno ritardato la realizzazione (per via del referendum del 2018); in questo periodo ci è stato permesso di iniziare a utilizzare in modo sperimentale parte dell’area. Siamo stati così in grado di dimostrare che siamo partner affidabili e che giochiamo secondo le regole, e la cooperazione è migliorata sempre di più. Con il progetto del «Grünhölzli», vorremmo invitare le persone a diventare di nuovo attive. È una grande sod-

disfazione coltivare le proprie verdure e fare qualcosa di significativo insieme ad altre persone. Quali sono state le dinamiche che hanno portato la città di Zurigo a sostenerlo finanziariamente?

Il primo anno ci è stato dato un terreno senza alcuna infrastruttura: nessuna sala, nessun deposito di attrezzi, niente acqua, nulla. È stato molto impegnativo, perché un giardino è, ovviamente, più di un pezzo di terra. Abbiamo iniziato a lavorare in venti persone: abbiamo organizzato un container, un caravan e installato un serbatoio d’acqua. Da allora abbiamo continuato così. Abbiamo convertito il caravan in un locale ricreativo, abbiamo acquistato attrezzi, posato tubi d’acqua e istituito un totale di tredici gruppi di lavoro. Facciamo tutto da soli, dalla coltivazione delle piantine alla

produzione dei semi, al compostaggio. In due anni, abbiamo riunito circa 100 membri e siamo arrivati a gestire un giardino di 5000 mq. All’inizio non abbiamo ricevuto alcun sostegno finanziario, ma dopo vari e persistenti tentativi, abbiamo ottenuto un finanziamento di tre anni di lavoro da parte del Dipartimento Sociale. Siamo più di un semplice giardino: siamo anche un progetto socio-culturale, facciamo lavoro di vicinato e di integrazione. È, anche questo, un servizio che forniamo e che siamo stati in grado di promuovere con successo. pensa che questo progetto sia applicabile ad altre realtà?

Credo che ogni comunità in Svizzera dovrebbe realizzare un progetto simile. Non deve essere sempre di queste dimensioni, ma i costi sono abbastanza modesti, in relazione ai benefici.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 giugno 2021 • N. 25

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Idee e acquisti per la settimana

Fette di dolcezza e freschezza

attualità Meloni e angurie per un’estate

all’insegna del benessere e del buongusto. Attualmente alla Migros ne trovate un’ampia scelta Rinfrescanti, dolcissimi e con una buona presenza di sostanze nutritive, i meloni e le angurie (o cocomeri) sono giunti nel bacino del Mediterraneo agli inizi dell’era cristiana, in provenienza dall’Africa tropicale. Ricchi di acqua e dissetanti, entrambi i frutti appartengono alla famiglia delle Cucurbitacee, la stessa di zucche, zucchine e cetrioli. Sono tra i frutti con il più alto contenuto di acqua, oltre il 90 per cento. Oltre a una buona presenza di vitamine e sali minerali, contengono anche antiossidanti, sostanze che aiutano a prevenire l’invecchiamento precoce delle cellule. Inoltre, posseggono un’azione diuretica e depurativa dell’organismo. L’assortimento stagionale di meloni e angurie presente sugli scaffali Migros annovera diverse varietà, sia di produzione convenzionale, sia di qualità biologica. Il melone Charentais si distingue per la sua forma tonda, le dimensioni contenute e la buccia giallo-verde. Ha una polpa di un bel colore arancione, soda, dal profumo intenso e dal sapore dolce. Difficile resistere al gusto marcatamente dolce e alla succosità del melone Galia. Questo frutto dalla polpa verde chiaro e dalla buccia leggermente retata emana un odore dolciastro quando è maturo. Tondo o ovale, dalla buccia reticolata come il suo nome, il melone retato possiede una polpa succosa, rinfrescante e fruttata, di color albicocca.

È maturo quando il suo picciolo si stacca facilmente dal frutto. Tra i meloni figura ancora il «Piel de Sapo», una varietà originaria della Spagna dalla particolare buccia verde marmorizzata e screpolata, con polpa bianca croccante dal sapore molto zuccherino. Infine, non manca naturalmente la dissetante anguria, ottenibile nei formati mini, classica e xl. Dalla forma ovale o allungata, alcune varietà di anguria possono raggiungere anche i 20 kg di peso. La buccia verde striata nasconde una polpa dal colore rosso intenso, succosa, zuccherina e rinfrescante. L’anguria è matura quando, battendo leggermente sulla buccia, si sente un rumore sordo. consumo

Se l’anguria si gusta al meglio tale quale o come ingrediente per sorbetti, macedonie e bevande, il melone si abbina particolarmente bene a numerosi altri ingredienti: accanto al classico prosciutto crudo per un pasto completo fresco e veloce quando non si ha molto tempo o voglia di cucinare, si sposa anche con del formaggio fresco, delle specialità alla griglia, arricchisce insalate di stagione e dessert, nonché è perfetto per preparare dei corroboranti smoothies. Durante le giornate afose, sia l’anguria che il melone sono lo snack ideale per fare il pieno di freschezza e benessere.

Voglia di piatti freddi estivi

l’angolo del Buongustaio Classiche specialità a base di carne o pesce pronte al consumo

Presso l’angolo del Buongustaio dei supermercati Migros trovate sfiziose specialità di gastronomia accuratamente selezionate con competenza dai nostri addetti del settore. Accanto alle più classiche proposte locali e svizzere, la gamma comprende anche molte prelibatezze della migliore tradizione mediterranea. Con l’arrivo della bella stagione e del caldo, spesso non si ha voglia di passare troppo tempo ai fornelli, ma si preferiscono piatti freschi e veloci, senza tuttavia transigere sul gusto e sulla qualità delle materie prime. A tale proposito i nostri specialisti vi consigliano di provare alcune specialità fredde pronte per essere consumate, tutte preparate con cura e con ingredienti di primissima scelta. Piatti ideali da gustare non solo a casa, ma anche da portare con sé durante un’escursione, al lago o in piscina, oppure in ufficio. Buon appetito!

In vendita nelle maggiori filiali Migros

Impossibile resistere a questa prelibatezza fredda a base di carne di manzo cotta perfettamente al sangue, da servire con una salsa tartara o per farcire morbidi panini. arrosto all’inglese di manzo Black angus Svizzera, per 100 g Fr. 7.60

Una saporita pietanza composta da carne di manzo svizzera magra tagliata fine, sapientemente condita secondo la ricetta tradizionale. Da gustare con crostini di pane tostati. tartare di manzo Black angus Svizzera, prodotta in filiale per 100 g Fr. 5.70

Un grande classico della cucina italiana: sottilissime fettine di manzo guarnite con scaglie di parmigiano e rucola. Condire con un filo di olio di oliva e uno spruzzo di limone prima del consumo.

Delicata carne di vitello svizzera affettata fine e condita con la tipica salsa a base di tonno, maionese, capperi e acciughe. Da accompagnare con una croccante insalata di stagione.

Ricetta tipica della cucina ticinese: pesce fritto marinato in un intingolo di aceto di vino, verdure miste e aromi vari. Un piatto unico da leccarsi i baffi.

Vitello tonnato prodotto in Ticino per 100 g Fr. 4.75

carpaccio di manzo Svizzera, prodotto in filiale per 100 g Fr. 5.–

Filetti di trota in carpione prodotto in Ticino per 100 g Fr. 2.90


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 giugno 2021 • N. 25

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società e territorio

design per tutti Inclusione Un nuovo Centro di competenza

si ispira a un movimento internazionale impegnato a garantire a tutti l’accessibilità a spazi, servizi e prodotti Nicola Mazzi «Ci vuole un cambiamento di paradigma». Non ha dubbi Sara Martinetti (portavoce di inclusione andicap ticino) a proposito dell’accesso agli edifici da parte delle persone con andicap. Ma, appunto, la questione non riguarda solo loro. Il progetto presentato nelle scorse settimane mira a eliminare le differenze e a creare una nuova sensibilità nei cittadini facilitando l’accesso a tutti. «Un po’ come si è fatto negli ultimi anni con l’ambiente e i vari aspetti ecologici. Ecco, noi vogliamo seguire quell’esempio e cercare di far diventare delle buone abitudini alcuni concetti chiave legati all’accessibilità negli edifici pubblici e privati». Alla base dell’innovativo progetto c’è un movimento internazionale dedicato all’inclusione che si chiama

Design for All. E che oggi è diventato un Centro di Competenza, il primo in Svizzera. Ma facciamo un passo indietro e torniamo al paradigma iniziale. Come evidenzia Martinetti, dal 1987 in Ticino è in vigore un servizio sulla rimozione delle barriere architettoniche. È stato, ed è ancora, molto utile, ha fatto fare al Cantone passi avanti nell’inclusione delle persone con disabilità. «Ma spesso si è trasformato in un semplice cerotto su un problema più grande e di natura culturale. Noi crediamo che oggi sia giunto il momento di cambiare passo, modificare appunto quel paradigma del 1987 e provare a percorrere la strada dell’inclusione di tutti. Design for All, come dice il nome stesso, non è solo per persone con andicap, ma è un modo di progettare e concepire gli edifici che si rivolge a tutte e tutti».

Un esempio illustre di accessibilità: il Guggenheim Museum di New York in cui la rampa è contemporaneamente percorso espositivo e collegamento tra i vari livelli. (shutterstock)

Lo scopo del Design for All è appunto facilitare per tutti le pari opportunità di partecipazione in ogni aspetto della società. Per realizzare tale obiettivo, l’ambiente costruito, gli oggetti

Intervista a pete Kercher, socio fondatore del progetto signor Kercher, da dove è partita l’idea del design For all?

Il Design for All nasce quando gli attivisti riuniti in EIDD–Design for All Europe capiscono che il loro l’obiettivo di migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità rischia di creare l’ennesimo compartimento stagno. La risposta, il Design for All – il design per la diversità umana, l’inclusione sociale e l’uguaglianza (Dichiarazione di Stoccolma, 2004) – parte non da singoli casi identificabili, ma dalla necessità di comprendere tutti (persone con disabilità permanenti o lesioni temporanee, famiglie con bambini, anziani, persone di culture, etnie e religioni diverse) affinché, fin dall’inizio, ogni progetto sia ideato

per rispondere il più fedelmente alle esigenze e aspirazioni del maggior numero possibile di individui. Questo permette di ampliare il mercato di riferimento per luoghi, prodotti, comunicazioni e servizi e aumentare il grado di soddisfazione del pubblico rispetto agli sforzi della pubblica amministrazione per rispondere alle esigenze di tutti i cittadini.

Il progetto è già in auge in diversi paesi. Quali sono i risultati ottenuti?

Il miglior design è quello che non si vede, ma per questo occorre molto lavoro dietro le quinte. Non è solo una questione di barriere architettoniche, ma di mentalità tra i progettisti e, soprattutto, tra i decisori. Oggi il Design for All è ormai una componente

importante nei programmi europei e nazionali e si sta facendo strada anche nel resto del mondo.

che cosa si sente di dire a chi si avvicina per la prima volta al progetto? che cosa offre in più rispetto ad altre soluzioni?

Il Design for All offre un metodo per affrontare le grandi sfide del mondo della progettualità, che ha il dovere di avvicinarsi alle esigenze di una società in continua evoluzione perché la realtà umana si fonda sulla diversità che c’è in ognuno di noi. Accettare questa sfida significa, per il progettista, proiettare la propria carriera verso un futuro – del mondo e della propria carriera – sostenibile, perché in costante dialogo con la realtà.

quotidiani, i servizi, la cultura e le informazioni – in breve ogni cosa progettata e realizzata da persone perché altri la utilizzino – deve essere accessibile, comoda da usare per ognuno nella società e capace di rispondere all’evoluzione della diversità umana. «Vogliamo includere e non ghettizzare» ribadisce con forza Martinetti. «E per farlo occorre cambiare appunto approccio: bisogna avere una visione generale e già nel progetto pensare all’accessibilità per tutti». L’idea, appunto, è quella di non puntare sulle leggi, sulle normative che sono comunque importanti e alla base del servizio barriere architettoniche offerto dal 1987, ma su un cambio di passo; una sorta di abitudine comune e un servizio che i fruitori finali chiedono oggi di default ai costruttori come i pannelli solari o la termopompa. Del resto, anche a livello economico può diventare un vantaggio. Le persone che riscontrano problemi di salute, per un motivo o l’altro, rappresentano il 20% della popolazione. Agevolarle significa ampliare anche il proprio mercato di riferimento alle persone con disabilità, agli anziani, alle famiglie con bambini e ad altre categorie.

A livello pratico gli accorgimenti che agevolano gli accessi agli edifici dovrebbero essere inclusi già in fase di progettazione, quindi essere invisibili perché integrati in un concetto architettonico. In questo senso, spiega ancora Martinetti, l’idea per i prossimi mesi è quella di far conoscere il Design for All alle associazioni di categoria SIA, OTIA, CAT e quindi cercare una collaborazione con loro. Nello stesso tempo si stanno cercando dei possibili ambasciatori tra i grandi studi di architettura e tra le personalità di rilievo che aiutino a far passare un nuovo messaggio tra i loro colleghi. Questo nel settore privato. Mentre per quanto riguarda l’Ente pubblico, c’è già un buon interesse, come hanno evidenziato le parole di Raffele De Rosa (responsabile del DSS) alla presentazione del progetto. «Abbiamo sicuramente visto la volontà di dare il buon esempio e siamo convinti che sarà un ottimo volano per tutti» conclude Martinetti. Informazioni

www.designforall.ch.

la natura del cassarate

lugano Un percorso che per molti è un quotidiano spostamento in città può diventare l’occasione per scoprire

la natura e altre peculiarità del nostro territorio Elia Stampanoni Sono poco più di due chilometri e mezzo, dalla foce del Cassarate fino alla vecchia masseria di Cornaredo. Si tratta di una facile camminata lungo il fiume che viene presentata in un’agile guida, pubblicata dalla Città di Lugano con la collaborazione del Museo cantonale di storia naturale, L’alberoteca e Innovabridge Foundation. Una gita alla portata di tutti che in questo periodo di pandemia ha probabilmente visto ancor più persone percorrerla, forse anche ignare dell’esistenza di un percorso didattico. Un itinerario che «piuttosto ordinario, diventa straordinario se raccontato attraverso gli occhi di un naturalista», riporta nella presentazione l’Ufficio comunicazione e Verde pubblico di Lugano. In effetti la passeggiata può trasformarsi da spostamento quotidiano a territorio di scoperta: «passo dopo passo, pagina dopo pagina, scopri perché l’Ontano nero, che cresce così scomposto lungo il fiume, in realtà è al posto giusto». Senza pannelli didattici o segnalazioni, prima della gita è consigliata una lettura della mini guida. Le dodici tappe, o meglio le dodici opportunità d’osservazione e riflessione, sono proposte risalendo il fiume Cassarate, ma si possono chiaramente percorrere anche all’inverso (in circa un’oretta

abbondante), scoprendo la natura in città, ma anche altri aspetti meno appariscenti. L’avvio è sulle rive del Ceresio, alla Foce, i cui lavori di rinaturazione hanno permesso di ridare vita al fiume. Flora e fauna hanno lentamente ritrovato il loro ambiente di vita ed è proprio dove il fiume è naturale che si osserva oggi una vegetazione più interessante e la presenza di una fauna variegata. Nella prima tappa, a due passi dalla città e dai suoi rumori, s’affronta il mondo dei macrobenthos, organismi di poco superiore al millimetro che vivono in stretto contatto con il fondo del mare o di un lago. Si tratta per esempio

di larve d’insetti, minuscoli crostacei o vermi, i quali costituiscono la dieta principale di molti animali legati all’ambiente acquatico. Due delle tappe del percorso si soffermano proprio su alcuni aspetti degli uccelli e dei pesci presenti lungo il Cassarate, come il germano reale, il cigno o il cormorano. Lungo il marciapiede, tra semafori e passaggi pedonali, ecco le fila di ippocastani che adagiano i loro rami nell’acqua del fiume: «un albero comune ai viali alberati e ai giardini ottocenteschi, ma anche alle corti soleggiate delle osterie di paese, dove veniva piantato per via della folta chioma che

L’itinerario è presentato in una guida pubblicata dalla Città di Lugano. (stampanoni)

crea una zona d’ombra ampia e fitta», indica la guida. Alberi che sono protagonisti anche in seguito, con il parco di Casa Serena, «un bell’esempio di giardino cosmopolita», dove s’incontrano piante imponenti e specie tipiche della regione insubrica ma non solo. Tornando sul versante sinistro del Cassarate, «lontani» dalle auto che sfilano sull’altro lato, ecco spiccare un vecchio Biancospino, immerso tra le Querce rosse americane che caratterizzano questo tratto di sentiero pedonale lungo il fiume. La sua presenza nel contesto urbano accanto alla scuola media di Viganello ricorda «che quel sentiero, situato quasi in centro città, un tempo era un campo coltivato in periferia». Non bisogna dimenticarsi di guardare ogni tanto anche verso le vette delle cime sopra il luganese, montagne che raccontano un po’ di storia geologica: per esempio la pietra calcarea dei Denti della Vecchia, in contrasto ad altre cime tipiche di rocce silicee, con forme spesso arrotondate e plasmate principalmente dai ghiacciai. Nell’alveo del Cassarate, tra sassi, alberi, arbusti, erba e altri vegetali, si scopre anche un bell’esemplare di Ontano nero, a conferma della sua sorprendente resistenza alla sommersione. Meno piacevole è l’invasione di organismi esotici, tra cui il caso più eclatante

lungo il Cassarate è attualmente quello del Poligono del Giappone, una pianta che può raggiungere i tre metri di altezza e, con le sue radici che si estendono orizzontalmente fino a 7 m di distanza, è difficile o quasi impossibile da eliminare. Un vegetale che ha colonizzato vaste aree lungo il riale ma non solo, mettendo a rischio la sopravvivenza e l’esistenza delle specie autoctone. Le ultime proposte del percorso si raggiungono sempre immersi in un ambiente urbano, ma con il centro città ormai lontano e la strada a tratti nascosta dagli alberi. Nel prato accanto alla vecchia masseria di Cornaredo sono stati piantati circa sessanta individui di specie frutticole diverse, tra cui anche i Cornioli, che rimandano al nome dato al quartiere. I Gelsi sono invece una testimonianza e un ricordo lontano dell’allevamento dei Bachi da seta, fiorente attività dell’industria ticinese dell’ottocento. La passeggiata può poi proseguire verso il Piano della Stampa, uscendo dalla mappa della guida ma scoprendo altri scorci di natura in città. Il libretto, con la grafica di Leonardo Angelucci, le fotografie di Nicolas Polli e completato con una cartina, è stato ristampato nel 2019 in quattro lingue e si può richiedere gratuitamente scrivendo a luganoalverde@lugano.ch.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 giugno 2021 • N. 25

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società e territorio

le vie del multiverso sono infinite

Videogiochi Arriva Ratchet & Clank: Rift Apart, un gioco d’avventura che mette in risalto tutte le caratteristiche

e il dinamismo delle console di nuova generazione

Davide Canavesi L’arrivo dei mesi estivi solitamente significa calma piatta per quanto riguarda le uscite di nuovi videogiochi. D’altra parte, perché non approfittare della bellezza della Svizzera coi suoi fiumi, laghi e montagne? Tutto questo però a PlayStation non interessa, visto l’uscita del nuovo Ratchet & Clank: Rift Apart agli inizi di giugno. Un titolo molto atteso per diversi motivi, non da ultimo il fatto che si tratta del primo vero assaggio di next gen. In Ratchet & Clank: Rift Apart, gioco d’avventura e azione prodotto da Insomniac Studios, ritorneremo in compagnia del Lombax più famoso della storia di PlayStation. Anzi, in realtà dell’unico Lombax esistente, visto che l’incipit del gioco è proprio la ricerca, da parte di Ratchet, di altri membri della propria specie. Il gioco si apre con una festosa parata in onore dei due eroi che hanno salvato la galassia innumerevoli volte. Un’idea interessante, di solito gli eroi dei videogiochi devono sempre e solo salvare il mondo senza ricevere chissà quali complimenti alla fine. Tuttavia, come scontato, il dinamico duo dovrà di nuovo farsi in quattro per salvare la situazione e impedire al Dottor Nefarious di compiere nuove malefatte. Questa volta però la colpa è di Clank: il robottino ha creato una tecnologia in grado di aprire portali dimensionali per permettere al compagno di esplorare il multiverso alla

ricerca di altri suoi simili. Il malvagio Nefarious ruba il congegno, procede a distruggerlo per errore, scatenando catastrofici eventi a catena in tutta la galassia. Le realtà cominciano a fondersi, mostri si riversano nelle strade cittadine, il caos regna sovrano. L’unica linea d’azione possibile è rimboccarsi le maniche e tentare di riparare al danno causato. Ma le vie del multiverso sono infinite… specialmente perché i due protagonisti si ritroveranno ben presto separati l’uno dall’altro! Ratchet in una dimensione e Clank in un’altra. Fortunatamente per quest’ultimo, lo attende un incontro davvero inatteso: una tostissima Lombax di nome Rivet. Ratchet & Clank: Rift Apart è il più classico dei giochi d’avventura con una spiccata vena platform. Nel corso della storia ci ritroveremo infatti ad esplorare diversi mondi, saltando, sparando, scivolando e schivando attacchi nemici. Ma in Rift Apart c’è anche altro. Per prima cosa i personaggi giocabili sono quattro: Ratchet, Clank, Rivet e Glitch. La maggior parte del gioco sarà visto attraverso gli occhi di Ratchet o di Rivet. Troveremo anche sezioni più orientate alla risoluzione di piccoli enigmi ambientali nei panni di Clank e intermezzi d’azione frenetica con Glitch, un adorabile robot in formato mini. L’avventura ci porterà a visitare diversi pianeti, scontrarci con diverse tipologie di nemici e fare la conoscenza di buffi personaggi. Lo humor di Ratchet & Clank: Rift Apart è orientato verso un pubblico

Rivet, la tenace e combattente Lombax. (© 2021 sony interactive entertainment)

più giovane ed è un continuo di battutine e buffe gag che comunque funzionano anche per i giocatori più navigati. Saremo chiamati ad esplorare liberamente diverse ambientazioni, con la possibilità di concentrarci solamente sulla storia principale, oppure tentare di portare a termine anche compiti secondari e collezionare diversi oggetti. La progressione dei personaggi si concentra sullo sbloccare nuove armi e scambiare risorse con potenziamenti. Troveremo diversi elementi cosmetici per perfezionare l’aspetto dei nostri personaggi in base ai nostri gusti. Por-

tare a termine il gioco nella sua totalità prenderà una ventina di ore, una cifra del tutto rispettabile per un gioco di questo genere. In apertura abbiamo detto che Ratchet & Clank: Rift Apart è un primo vero assaggio di next gen. Il motivo è presto detto: non sarebbe stato possibile, nella sua forma attuale, sulle vecchie console. Il gioco infatti permette al giocatore di passare da una dimensione all’altra senza soluzione di continuità. A titolo di esempio, ci ritroveremo su un pianeta completamente distrutto da un cataclisma, con enormi rocce

fluttuanti nel vuoto cosmico. Grazie a degli speciali cristalli potremo passare in men che non si dica ad una versione alternativa del mondo in cui incontreremo abitanti e una fervente attività. Il tutto senza caricamenti. Il merito di questo gioco è quello di dimostrare quanto un’esperienza senza lunghe attese per caricamento cambi la nostra percezione del gioco. Questo nuovo Ratchet & Clank dà più la sensazione di film animato, con transizioni fluide tra cinematiche e gameplay. Non ci sono video pre-renderizzati, nessuna schermata nera ad interrompere il flusso degli eventi. Non bisogna nemmeno dimenticare il fatto che graficamente questo gioco è di primissimo ordine. Anche comparandolo con il film in computer graphic del 2016 questo gioco per PlayStation 5 non sfigura minimamente. La potenza del nuovo hardware insomma non è solamente una evoluzione ma una rivoluzione perché permette l’introduzione di nuove meccaniche di gioco che rendono più fresca l’esperienza. Ratchet & Clank: Rift Apart è una delle ragioni per portarsi a casa una PS5, anche se l’attuale condizione del mercato rende assai complicato procurarsene una. Tecnicamente il gioco è una meraviglia, la storia non è forse molto originale ma è interessante quanto basta. Lo humor e i personaggi sono piuttosto memorabili. Insomma, magari ogni tanto possiamo anche lasciar perdere lago e montagna? annuncio pubblicitario

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società e territorio

Il fiuto di un cane, la perseveranza di un volontario redog Compie 50 anni la Società svizzera per cani da ricerca e da salvataggio. Abbiamo incontrato

il team dell’unità regionale ticinese durante un’esercitazione sul Tamaro Guido Grilli Ritrovare persone disperse. Salvare vite. Affidarsi al fiuto di un cane pazientemente addestrato dal suo conducente. È sabato mattina quando in vetta al Tamaro assistiamo a un’esercitazione di Redog Ticino, una delle 12 unità regionali della Società svizzera per cani da ricerca e da salvataggio, che quest’anno taglia un traguardo prestigioso: 50 anni di attività umanitaria, basata esclusivamente sul volontariato. Ogni team è formato da un cane e da un conducente, poi ci sono gli aiuti, ossia soccorritori con le medesime competenze ma senza l’animale a quattro zampe. Bisogna esserci per capire quanto è indissolubile il connubio fra ogni cane e padrone. Uno degli esercizi avviene nell’ampio prato in pendenza, sotto la chiesa di Botta. Un figurante all’improvviso si stacca dal gruppo e sparisce a nascondersi – è qui che interviene l’impareggiabile fiuto del cane (220 milioni di ricettori olfattivi contro i 5-10 dell’uomo). Il conducente rivolge il proprio cane verso il possibile luogo di ritrovamento – questione anche d’aria e vento, vettore indispensabile per catturare gli odori – e quindi, indicando con il braccio e la mano allungate la direzione, l’animale parte a corsa. E quando tornerà con in bocca il «bringsel», l’oggetto per segnalare un ritrovamento – sacco, marsupio o avrà individuato il disperso – il soccorritore lo seguirà e, accanto alla persona ritrovata, il cane otterrà la sua ricompensa: cibo, feste e tante carezze.

Redog in Svizzera conta 750 soci, tutti volontari: alla centrale di allarme arrivano tra le 10 e le 25 chiamate di intervento all’anno Angelo Arrigoni, 61 anni, da 17 alla Redog, vice-istruttore, sta lavorando per raggiungere il suo secondo brevetto. «Con il primo cane, un meticcio di strada, confrontato a tutte le paure del mondo – racconta – sono riuscito, con tutto il gruppo Redog e il capo intervento, a costruire un binomio affiatatissimo, giungere alla conclusione della formazione e ad essere operativo: ho svolto 8 interventi ufficiali. Dopo il mio prepensionamento ho deciso di rimettermi in gioco con un altro cane». Con quali vantaggi? «Si ha più esperienza, ma è sempre un ricominciare da capo. Ogni cane ha la sua storia. Occorre sempre trovare una grande sintonia tra conducente e cane, che va costrui-

Da sin.: Daniele Zanetti con il cane Opal, Tiziano Barray con Zara, Sarah Lustenberger con Ginger, Paolo Canonica, Barbara Zanetti con Zoe, Roberto Arrondo, Angelo Arrigoni con Thea. (stefano spinelli)

ta passo a passo. Si lavora sempre sulla motivazione, con la ricompensa basata principalmente sul gioco. Questa attività ci impegna tutti i weekend. Per arrivare al secondo brevetto? Occorrono circa tre anni. Servono costanza e pazienza: talora si fanno quattro passi avanti e poi uno indietro». Nel team di Redog c’è anche Barbara Zanetti, 52 anni. È dapprima il suo cane, Zoe, a voler esprimersi con un irrefrenabile e affettuoso abbaio. «Ho iniziato con la ricerca da catastrofe e poi sono passata alla ricerca di superficie, anche perché Zoe è piuttosto energica e la vedo più adatta a muoversi in spazi aperti anziché sotto le macerie. È un cucciolo e si vede, ma ha voglia di andare a cercare le persone. Deve ancora capire la tecnica di riporto, è ancora a volte distratta, ma piano piano… Per ora è nella dimensione dell’esercitazione: ha voglia di cercare qualcuno, un figurante che scappa a nascondersi. Lungo il collo ha il “bringsel” e quando trova la persona dovrebbe tornare da me con questo oggettino in bocca in segno di ritrovamento per poi ottenere la ricompensa, ma non siamo ancora arrivati a questa meta». Parliamo del sodalizio. Roberto Arrondo, 56 anni, due brevetti alle spalle, è uno dei 12 capi intervento a livello svizzero per la Redog nella quale è attivo da 17 anni, formatore e in preallarme 365 giorni l’anno, salvo durante

Il drone è un grande aiuto nella ricerca. (stefano spinelli)

le vacanze: «Redog in Svizzera conta 750 soci, tutti volontari che complessivamente prestano più di 100 mila ore all’anno. Riceviamo alla nostra centrale d’allarme tra le 10 e le 25 chiamate d’intervento, che poi vengono filtrate e gestite in collaborazione con la polizia. In media sono 10 all’anno gli interventi effettivi. Con l’impiego di un cane garantiamo una copertura di ricerca fino a 200-250 mila metri quadri, pari a 20-30 campi da calcio». Sovente le ricerche si concludono con esito letale. «Sì, purtroppo è così. Ma per fortuna qualche volta registriamo ritrovamenti di persone ancora in vita. La casistica è ampia: ricercatori di funghi, cacciatori, persone con problemi di orientamento, soprattutto anziani che si allontano dal loro domicilio». Cosa offre la Redog agli altri partner d’intervento? «Possediamo unità cinofile per la ricerca di persone disperse. Redog non è solo attiva nella ricerca di superficie, ma anche sotto le macerie, quindi catastrofe, spesso impiegati anche all’estero in caso di terremoti, oltre che in Svizzera (ricordo le frane di Davesco-Soragno e Bombinasco). Siamo inoltre dotati di dispositivi tecnici di grande aiuto per la ricerca: il drone, visori termici – in grado di misurare la temperatura dei corpi, utile soprattutto d’inverno quando lo sbalzo della temperatura corporea rispetto a quella dell’ambiente è considerevole – viso-

ri notturni e sonde per la ricerca sotto le macerie. Nei gruppi d’oltre Gottardo abbiamo inoltre i cani molecolari (mantrailing), che seguono l’odore specifico della persona dopo averlo preso da un capo d’abbigliamento appartenente all’individuo disperso. Da qualche anno abbiamo inoltre qualche “cane da cadavere”, che si distingue dal “cane da superficie” che cerca di principio persone vive». Altri numeri significativi: a livello svizzero Redog conta 47 cani di ricerca di superficie brevettati; 50 persone brevettate per l’aiuto Sar. Redog Ticino, presieduto da Fabio Giussani, che assieme ad Arrondo è uno dei due capi intervento cantonali, conta invece 3 conducenti brevettati per la ricerca e 6 aiuti Sar. Per la ricerca di superficie vi sono una quindicina di membri, di cui 4 in attesa di brevetto e che stanno al contempo lavorando col proprio cane per arrivare a far ottenere anche a loro l’ambìto diploma. La ricerca è gratuita per i parenti delle persone scomparse (centrale d’allarme Redog 0844 441144). Ma come si ottiene il brevetto? «Per il brevetto di superficie bisogna superare nel medesimo anno due test pratici di ricerca che contemplano l’attitudine del cane al lavoro – in seguito l’esame di brevetto prevede una ricerca di bosco, una in un sentiero e una in una zona aperta, tutte della durata di 1 ora e mezzo, alla presenza di una decina

Oltre ad addestrare il cane, si deve superare un esame Sar-Helfer. (stefano spinelli)

di giudici. Inoltre occorre superare un esame denominato, “Sar-Helfer – Search and Rescue, aiuto nella ricerca e salvataggio”, che include tecniche alpine, nozioni topografiche e competenze nei primi soccorsi – massaggio cardiaco compreso». Tra i soccorritori esperti c’è Daniele Zanetti, responsabile di Redog Ticino per la formazione dei nuovi conducenti nelle tecniche alpine. «Il lavoro deve svolgersi con continuità» – osserva, mentre accarezza il suo Opal con cui da diversi anni ha superato il brevetto conducente-cane. «L’impegno è tanto. Io sono in pensione, per cui ho tempo». La performance del cane migliora di anno in anno? «Sì, perché si lavora sulla felicità del cane. Per lui trovare un sacco, una persona è sinonimo di ricompensa. Quando arriva il weekend, Opal intuisce che si va a lavorare. Lo vedi saltare, felice». Parliamo di esperienze di salvataggio concrete. «Una delle ricerche recenti ha riguardato una donna, purtroppo con esito mortale. La signora aveva perso una scarpa durante una caduta, ritrovata da uno dei nostri cani e così siamo giunti alla persona, purtroppo esanime. Un’esperienza positiva ha invece riguardato una donna con problemi cognitivi, che si era dispersa. L’abbiamo ritrovata sana e salva di notte. Si spera di non essere mai toccati da disgrazie simili, ma purtroppo esistono: famiglie che hanno perso dei cari e altre che grazie a noi o altri enti di soccorso sono riusciti a ritrovare parenti in vita». In vetta incontriamo pure un giovanissimo: Paolo Canonica, 22 anni, informatico, segretario della Redog Ticino. «Sono catturato soprattutto dagli aspetti tecnologici della ricerca» – dichiara mentre manovra un drone, che ha appena lanciato in queste alture a distanze altrimenti irraggiungibili per l’uomo. Ci mostra le immagini nella telecamera catturate dall’oggetto volante, cui tutti i soccorritori ripongono grandi speranze. Un complemento indispensabile, che si aggiunge al fiuto dei cani e al grande sacrificio dell’energico gruppo della Redog Ticino. E tra il gruppo qualcuno supera i confini della formalità: «Siamo tutti uniti, come una famiglia».


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società e territorio Rubriche

approdi e derive di lina Bertola aggrappati al carro del sole Il giorno più lungo, nella memoria collettiva, è quello dello sbarco in Normandia avvenuto nel 1944, raccontato nel 1959 nel libro di Cornelius Ryan e ripreso in seguito in un famoso film. Anche oggi è il giorno più lungo, in un’accezione però molto più luminosa. Il 21 giugno è il giorno del solstizio d’estate, l’apice, l’apogeo della presenza del sole nei nostri cieli, un evento considerato fin dalle civiltà più antiche un simbolo di fertilità e di benessere. La luce del sole ha attraversato tutta la nostra cultura come grande metafora del bene e della verità, e anche come immagine di quella bellezza che sempre nutre ciò che è buono e ciò che è vero. Una luce che ha illuminato tante domande, e tante risposte, sul senso della vita. Basti pensare alla grandiosa rappresentazione che del sole diede Platone nel mito della caverna. Il mito racconta il passaggio dal mondo ingannevole di una realtà fatta di ombre (in cui gli uomini sono costretti

a vivere incatenati) al mondo reale, illuminato dalla luce del sole. Platone descrive l’ascesa faticosa e dolorosa dall’ombra alla luce, dall’ignoranza alla vera conoscenza, e ci offre una narrazione molto poetica di ciò che accoglie colui che abbandona le tenebre: la luce del sole, appunto. È una luce potente, accecante, che bisogna imparare a guardare piano piano, prima riflessa nelle cose ma che alla fine, dopo un lungo esercizio, si offre al nostro sguardo in tutta la sua incantevole bellezza. Giunti a questo punto, racconta Platone, si riesce a comprendere che è la luce del sole a rendere visibili tutte le realtà naturali e, soprattutto, a permettere loro di esistere. Questa immagine del sole offre al pensiero una scorciatoia intuitiva molto efficace per comprendere che cosa sia il bene, il cui significato sarebbe altrimenti indicibile. Il sole rappresenta il bene come fondamento del senso della vita e della possibilità per l’uomo di conoscerlo e di coltivarlo.

Non è difficile intravedere l’onda lunga di questo immaginario che ha navigato nel tempo per giungere fino alle lumières del Settecento: quelle stesse lumières che continuano ad alimentare il progetto umano della modernità. Ma l’immagine platonica del sole sa condurci anche a ritroso, verso miti ancor più antichi, verso quel Carro del Sole con cui il dio Apollo percorreva ogni giorno il nostro cielo da Oriente a Occidente, lasciando in noi vivida la percezione di quel suo eterno viaggiare nel tempo a scandire i nostri giorni. E così, seppur ben consapevoli delle verità astronomiche, continuiamo ad emozionarci davanti ad un sole che sorge ogni mattina in delicate albe, o che si scioglie lentamente al tramonto nelle onde del mare. Il solstizio d’estate non è dunque solo un evento astronomico ma è pure un evento con una forza simbolica che in qualche modo parla anche di noi, del tempo del nostro vivere.

Da domani, lentamente quanto inesorabilmente, le ombre aumenteranno sulle nostre giornate e la potenza del sole comincerà a raccontarci anche del suo progressivo declino. Noi, fortunatamente, non sappiamo mai, prima, quale sia, e quando avverrà il solstizio della nostra vita, e nemmeno sappiamo di tutti quei piccoli solstizi che attraversano i nostri giorni. Per questo forse ogni nostro desiderio non ancora, o non mai realizzato rimane l’archetipo del senso della vita, e questo perché la possibilità di mantenere vivo il desiderio è il linguaggio di una speranza che getta la sua luce sempre oltre. Eppure, in luoghi imprevisti e spesso imprevedibili, sui sentieri del nostro camminare nei giorni, inesorabilmente sta ad attenderci un intimo solstizio, che è lì solo per noi. Ma noi fortunatamente non lo sappiamo e quando, a posteriori, ci sembra di averlo riconosciuto, restiamo comunque in qualche modo aggrap-

pati al Carro del Sole e al ritmo di un continuo divenire. Aggrappati ad un tempo che spesso non amiamo troppo scandire, possiamo nutrire il nostro animo con altre luci. Anche con la luce delle stelle, ad esempio, che arriva a noi quando sono già spente: una prova, forse poco scientifica, ma ricca di senso, del continuo nascere e rinascere della vita. A volte però il buio arriva all’improvviso, senza annunciarsi, infrangendo le leggi astronomiche e i suoi tempi. Di quell’amico che abbiamo incontrato in un momento indimenticabile, bellissimo e colmo di luce, non sapevamo che sarebbe stata l’ultima volta. E quante esperienze finiscono, senza annunciarlo, nel momento più luminoso? Allora, ancora una volta, diamo ragione a Epicuro che ci invita a prestare attenzione, e cura, all’intensità della luce che sappiamo donare ai nostri giorni e non alla sua durata sempre sfuggente.

voce degli avventori nonché la grazia di alcune avventrici, le pietre olivastre del chiosco con persiane verde scuro e in cima sul tetto un pellicano-pinnacolo in pietra che si becca il petto, l’odore d’inizio estate da parco cittadino, sono solo alcuni degli ingredienti che combinati, inducono a una mezzoretta di gioia. Sul selciato davanti alla villa neoclassica, con i sanpietrini, sono formati i cinque cerchi olimpici intrecciati. Oltre Voltaire, dal 1922, la villa è nota per aver ospitato il Comitato olimpico internazionale per decenni e a un certo punto, al terzo piano, persino, in pianta stabile, il barone Pierre De Coubertin (1863-1937). La moglie dell’inventore delle olimpiadi moderne, dopo la morte del marito, è rimasta a vivere qui nel loro appartamento fino al 1963. Non si è mai mossa, La Baigneuse (1932) in pietra sul prato lì davanti, dove alcune famigliole fanno un picnic. Scolpita in pietra da Milo Martin non lontano da qui, nell’incantevole orangerie alle spalle del Tribunale federale che spezza in due il parco. È in quella parte superiore,

sopra l’avenue du Tribunal-Fédéral, che si trova la torre neogotica costruita seguendo l’acquarello di Pierre-Louis Bouvier intitolato Projet de tourelle de Mon-Repos (1820). L’avvisto salendo, magnifica e lugubre, in pietra calcarea. Ai suoi piedi, dalle false rovine, sgorga la cascata. C’è anche un sotterraneo enigmatico, chiuso da un’inferriata. Anfratti per imboscarsi non mancano. La porticina della torre, ad arco gotico, è chiusa. Le feritoie ricordano dei buchi della serratura capovolti. Odore di hashish. Proseguendo nel boschetto si arriva a un tempietto monoptero dove la vista abbraccia il Lemano. Ritorno giù nella parte ovoidale con i percorsi disorientanti. Alla fine è solo sdraiandosi nell’erba, a piedi nudi, che si entra in vero rapporto con il posto. Nasce così d’un tratto, tra le comuni margheritine e l’odore d’erba in giugno, un legame forte con il luogo, tipico di nomadi e sradicati. E si acuisce la sua condivisione con chi, in tutti questi anni, ci ha passato qualche ora di riposo assoluto. Le nuvole ora sono in stile John Constable.

creatività. Non solo, pandemia a parte stiamo vivendo la quarta rivoluzione industriale circondati da supercomputer portatili, robot intelligenti, veicoli autonomi, importanti sviluppi nel campo della neuro-tecnologia, della scrittura del codice genetico e molto altro ancora. Le rivoluzioni industriali sono da sempre foriere di fermento culturale. Staremo a vedere se vale anche per noi, intanto è evidente che le nuove tecnologie stanno modificando il nostro modo di fare acquisti, lavorare e consumare cultura. È di questi giorni la notizia dell’acquisto della storica casa di cineproduzione, la Metro-Goldwyn-Mayer, da parte di Amazon per la bellezza di 8,45 miliardi di dollari. Per gli abbonati Prime Video significherà accedere ad un catalogo sempre più ricco di film e serie televisive. Ma schermi e video a parte c’è e continuerà ad esserci chi al cinema e al teatro vorrà andare fisica-

mente. Mi metto anch’io nel gruppo e mi sono ritrovata appieno nelle parole di qualche giorno fa di Gigi Zoppello, vice caporedattore del quotidiano «L’Adige di Trento», alla sua prima teatrale dopo tanti mesi: «Per carità, tenetevi il vostro divano, Netflix, Amazon Video, lo streaming. Io invece sono guarito: mi è bastato – venerdì sera – tornare in un palchetto del Teatro Sociale di Trento per vedere il superbo spettacolo di danza di Hervé Koubi: il movimento, i corpi, il sudore, l’odore dei velluti e degli stucchi, la polvere del palco, le luci e… il pubblico». Che meraviglia, mai rinunceremo alla socialità, all’emozione del teatro che ci fa sentire vivi e non riflessi. Resta però il fatto che i tempi cambiano, i pubblici si differenziano e grazie alla tecnologia le offerte si moltiplicano. Possiamo dunque avere l’una e l’altra formula e, insieme, la ricchezza della scelta in un ecosistema sempre più vario.

passeggiate svizzere di Oliver scharpf Il parco mon-repos a losanna È Pierre-Louis Bouvier (1765-1836), grande miniaturista ginevrino, l’ispiratore della torre neogotica sopra le false rovine con cascata, da scoprire nell’angolo più segreto e romantico del parco Mon-Repos (505 m) a Losanna dove cammino svagato una fine mattina d’inizio estate. Autore di delicatissimi ritrattini come quello per esempio di Madame de Staël, di un manuale di successo intitolato Manuel des jeunes artistes et amateurs en peinture (1827), e inventore di una macchina per macinare i colori, questo progetto gli viene affidato da Vincent Perdonnet (17681850). Agente di cambio di Vevey che ha fatto fortuna a Parigi ed è una delle figure principali della storia di questo parco aperto al pubblico nel 1921, dove, adesso, ammiro i riflessi purpureiramati del fogliame di un faggio ultracentenario varietà atropunicea. Il portamento dei liriodendri, noti anche come tulipiferi, piantati verso il 1818 secondo una prospettiva atmosferica studiata da un architetto paesaggista parigino specialista in giardini all’in-

glese, è anche abbastanza ammirevole. I camminamenti ghiaiosi, quasi labirintici, portano il passeggiatore a perdersi in scorci inattesi con carpe koi che guizzano tra le ninfee, giochi d’acqua tra rocaille e papaveri, panchine nascoste, umbratili: per innamorati o pensatori solitari. Camminando, si svela man mano la messa in scena riposante che al contempo provoca fantasticherie come quadretti di vedutisti inglesi malinconici. Versi di pappagalli, molti, di tutti i colori, alcuni enormi, buffi. A prima vista potrebbero divertire poi però fanno anche un po’ pena, così rinchiusi nelle voliere. Sarebbe bello vederli volare in giro come quelli che ricordo, liberi, nei parchi di New Delhi. Alle spalle delle voliere ci sono le ex scuderie diventate, da un centinaio d’anni, degli atelier. L’attrazione maggiore, oltre alla torre nata da un acquarello, è la Folie Voltaire. Un chiosco ottagonale settecentesco che da una ventina d’anni è una casa da tè rinomata per le sue crêpes e limonate fatte in casa. Il bel nome non è a vanvera. Folie è il termine architettonico giusto,

valido pure per la torre, per questo tipo di edificio che in italiano è detto capriccio. E prende il nome del famoso filosofo francese perché a una cinquantina di passi di qui, nella villa Mon-Repos, tra il 1755 e il 1759, era di casa. Amico di Philippe de Gentil (1710-1773), terzo marchese di Langallerie e barone di Saintonge, altro personaggio chiave di questo luogo di cui era proprietario prima di Perdonnet, Voltaire è legato al parc de Mon-Repos soprattutto per via della sua rappresentazione, nel febbraio 1757, di Zaïre. Tragedia in cinque atti interpretata dallo stesso Voltaire nel ruolo di Lusignan, applaudita tra le mura del teatro domestico del marchese morto qui per le conseguenze di un morso di un gatto affetto dal virus della rabbia. All’ombra degli ippocastani, sorseggio un tè di menta marocchino. Da molto non mi sentivo così a casa, come alla Folie Voltaire. Oasi losannese di pura bellezza dove la qualità dell’ombra, maculata dalla lieve luce tardo mattinale, la gentilezza della troupe che la gestisce, le fronde degli alberi in giro, il tono di

la società connessa di natascha Fioretti sentiamoci vivi e non riflessi Di questi tempi, se andate sulla homepage del sito del National Theatre vi capiterà di vedere un bellissimo, come sempre, Benedict Cumberbatch nei panni di Amleto. Accanto a lui noterete una scritta ingombrante che sulle prime vi creerà qualche perplessità. Una su tutte vi chiederete che cosa c’entri Prime Video di Amazon con il National Theatre. L’arcano è presto spiegato, Amazon e il Teatro hanno stretto un accordo per cui importanti produzioni teatrali in cartellone come Frankenstein, Amleto o Fleabag, di Phoebe Waller-Bridge, a molti nota come serie televisiva, saranno godibili in streaming sugli schermi degli abbonati inglesi e irlandesi. Per Lisa Burger, codirettrice del National Theatre, si tratta di un importante sostegno al settore: «chi fa teatro continua ad essere colpito dalle conseguenze della pandemia. Questa collaborazione ci permetterà di sostenere gli artisti». Va

detto che già in passato le performance teatrali del National Theater approdavano nei cinema inglesi. Martin Backlund, direttore dei contenuti Prime Video per l’Inghilterra e l’Irlanda si dice naturalmente contento di poter offrire ai propri abbonati alcune delle più memorabili produzioni teatrali dell’ultimo decennio e di quelli a venire, sottolineando come i migliori attori e le migliori attrici inglesi spesso abbiano iniziato la loro carriera calcando le scene teatrali: «è importante illuminare e mantenere vivo questo incredibile patrimonio». Non è il primo slancio di Amazon verso il mondo del teatro. Nell’agosto dello scorso anno ha donato mezzo milione di sterline al Fondo per la comunità teatrale lanciato da Olivia Colman, celebre protagonista della serie The Crown, con l’intento di conferire borse di studio ad attori e attrici in particolare indipendenti. Sappiamo che le

misure anti Covid nell’ultimo anno hanno colpito tutto il settore culturale. In Inghilterra per i teatri le entrate si sono dimezzate. Dunque come si farà adesso, quali lezioni abbiamo imparato e quali le strategie per il futuro? A quanto riporta il «Guardian» in un articolo di Mark Sweney c’è di che stare allegri e per diversi motivi. Intanto la riapertura dei cinema inglesi nel primo weekend ha segnato un record di incassi con sette milioni di sterline. C’è fame di cultura e in fondo la storia ci ha già dimostrato come le avversità possano spronare la creatività. Larry Elliott, economista, sempre sul «Guardian» ci ricorda che Shakespeare ha scritto le sue opere più importanti durante e dopo lo scoppio della peste. La Grande Depressione degli anni Trenta è coincisa con una produzione eccezionale di film hollywoodiani, insomma dai grandi shock come quello pandemico sgorga il balsamo della


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ambiente e Benessere ecco il multivan eHybrid Presentato in anteprima mondiale il nuovo pulmino Volkswagen a emissioni zero

Il selvaggio western scozzese Luci, maree e nuvole nere come il piombo: sono le Av Bred Ey dei vichinghi pagina 15

pagina 14

Bacco in campania Si conclude il viaggio degustativo dei vini di una terra tanto generosa quanto vulcanica

le nove erbe di s. Giovanni Sono iperico, lavanda, ruta, verbena, artemisia, salvia, noce, rosmarino e alloro pagina 19

pagina 16 Un esemplare di Microcebus murinus. (arjan Haverkamp)

Il grande sonno e il grande sogno

Fantascienza Un lemure del Madagascar insegnerà all’uomo come andare in letargo nei viaggi spaziali

Loris Fedele La fantascienza si sta muovendo dentro la realtà. Comincia con questa frase a effetto il comunicato di una recente ricerca di alcuni biologi e biochimici affiliati all’Università di Carleton, nella capitale canadese. Prendendola un po’ larga fanno notare che l’uomo vuole tornare sulla Luna in questa decade e, ancor più, entro il 2040 vuole scendere su Marte. Ma da biologi sanno bene che le condizioni spaziali sottopongono il corpo umano a pericolosi attacchi. Non per nulla sulla Stazione Spaziale Internazionale gli astronauti sono sottoposti a continui controlli medici. Si sa che la prolungata assenza di peso fa perdere massa muscolare e rende fragili le ossa perché non c’è più da contrastare la gravità terrestre. Per non parlare del bombardamento di radiazioni cosmiche che altera il nostro sistema immunitario e crea vari danni alla salute. Per arrivare su Marte oltre alla sfida fisiologica da superare ci saranno tutti i problemi tecnici e logistici. Uno banale ma non trascurabile: il viaggio di andata dura sei mesi, poi un anno di permanenza sul pianeta per aspettare un allineamento favorevole con la Terra, infine sei mesi per il ritorno. Quanto cibo dovranno portarsi appresso? Senza contare che restare chiusi per due volte sei mesi nell’angusto abitacolo della capsula spaziale, in estremo isolamento,

può generare importanti problemi psicologici. L’ideale sarebbe poter dormire per tutto il viaggio, dicono i ricercatori. Ma come si può indurre il corpo degli astronauti a mettersi in quella condizione? Ecco che arriva la fantascienza: bisognerebbe ibernarli. L’ibernazione è una condizione biologica nella quale le funzioni vitali sono ridotte al minimo: il battito cardiaco e la respirazione rallentano, il metabolismo si riduce e la temperatura corporea si abbassa. Può essere intesa come il letargo degli animali o come l’ipotermia preventiva in medicina. Ma tecnologicamente, almeno su individui vivi, non ci siamo ancora. Una cinquantina d’anni fa, nel 1967, si inaugurò questa controversa e costosissima pratica. Il corpo di un uomo appena deceduto venne congelato, ed è tuttora conservato in celle frigorifere, nella speranza che in futuro le nuove conoscenze medico scientifiche e tecnologie più avanzate permetteranno di riportarlo in vita, curando la malattia che l’aveva fatto morire. La pratica fece proseliti, pare siano quasi 400 le persone ibernate finora. La tecnica va avviata entro mezz’ora dalla morte e il corpo viene portato alla temperatura dell’azoto liquido, prossima allo zero assoluto. Il «paziente» è così crioconservato. L’ibernazione in azoto liquido è utilizzata in medicina per la conservazione di spermatozoi ed embrioni umani, ma non è applicabi-

le per conservare parti di dimensioni maggiori. Nell’ibernazione post mortem prima ricordata ai liquidi corporei sono addizionate sostanze antigelo che li fanno condensare e vetrificare senza cristallizzare e senza congelare, così da non danneggiare le pareti cellulari. In teoria, una volta scongelate potrebbero tornare funzionali. Se l’ibernazione come descritta è scienza, far tornare in vita quella persona per ora è fantascienza. Allora perché pensare di far dormire in uno stato simile gli astronauti? Perché certi animali ci riescono. Alla prestigiosa Duke University della Carolina del Nord, negli USA, da una quindicina d’anni si sta studiando un primate con un talento straordinario. È un minuscolo lemure del Madagascar, per l’esattezza il Microcebo Murino (peso 50 grammi, alto 15 centimetri più 15 centimetri di coda), capace di mettersi in stato di ibernazione per periodi fino a otto mesi. Poiché i lemuri sono geneticamente più simili agli umani dei ratti da laboratorio, perché non studiarne i processi e cercare di trasportare questa loro capacità nell’uomo? Le applicazioni medico scientifiche potrebbero essere molteplici. I lemuri della Duke University durante il loro periodo di ibernazione riescono a fare un solo respiro ogni 20 minuti e a portare il loro battito cardiaco da 200 a 4 battiti al minuto. Se un paziente in attesa urgente di un trapianto d’organo riu-

scisse a fare lo stesso potrebbe restare in questo stato sospeso dando più tempo ai medici per trovare il donatore compatibile. I ricercatori del «Centro dei lemuri» della Duke lavorano in stretto contatto coi colleghi che si occupano della medicina del sonno. Insieme hanno paragonato i tempi di veglia e sonno e le reazioni dei lemuri con quelli umani. Si sa che nell’uomo la mancanza di sonno fa crescere il rischio di turbe del comportamento, dell’obesità, del diabete e di problemi cardiovascolari. Quindi il sonno è necessario. Perché dormiamo? Gli studi ci hanno dato diverse risposte: si dorme per risparmiare energia, per eliminare tossine dal cervello, per dimenticare alcune cose che abbiamo imparato alleggerendo così le sinapsi, che hanno lavorato molto nelle ore di veglia, riportandole a livelli normali e pronte a recepire nuovi stimoli una volta risvegliati. Ci sono due tipi di sonno: il sonno REM (movimento rapido degli occhi) che è quello nel quale sogniamo, e il sonno non-REM, che è il sonno profondo che rigenera il nostro corpo ed è vitale. La privazione di questo sonno può essere letale e lo si è verificato nei ratti. Però gli scienziati ritengono che il piccolo lemure, mentre è ibernato, sperimenti solo il sonno REM. Allora perché non muore? Forse perché non dorme affatto durante il lungo periodo di ibernamento. È questa la supposizione di uno

degli autori della ricerca della Duke. L’ibernazione differisce dal letargo perché non è un vero sonno: gli animali ibernati possono reagire agli stimoli, seppure in modo torpido. Le nuove ricerche canadesi sul Microcebo murino che riprendono gli studi della Duke hanno mostrato che a guidare la loro abilità di ibernazione sono i microRNA, dei piccoli pezzi di RNA, che agiscono come geni inibitori molecolari. L’RNA è un acido nucleico. L’RNA è una molecola polimerica implicata in vari ruoli biologici di codifica, decodifica, e regolazione dell’espressione dei geni. I microRNA trovati dai biologi canadesi hanno mostrato quali processi biologici rimanevano attivi (on) per proteggere l’animale e quali erano spenti (off) per salvarne l’energia. In particolare alcuni RNA combattevano il danneggiamento muscolare durante l’ibernazione. Altri ruoli sono sembrati coinvolgere la prevenzione della morte delle cellule, rallentando o fermando le crescite cellulari non necessarie. Si è riscontrata anche una regolazione degli zuccheri e dei grassi. Studiata e capita a fondo la strategia microRNA usata dai lemuri, agli scienziati resterebbe il compito di sfruttare questo genetico interruttore on/off per rapidi e reversibili cambi che potrebbero permettere una temporanea ibernazione umana nel viaggio verso Marte.


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ambiente e Benessere

Finalmente abbiamo il Bulli a zero emissioni, o quasi motori Sono trascorsi quattro anni dall’esibizione di un suo

prototipo, oggi è realtà. Il suo nome è: Volkswagen Multivan eHybrid

Mario Alberto Cucchi Nel gennaio del 2017, raccontavamo del prototipo Volkswagen ID.Buzz presentato al Salone dell’auto di Detroit. Si trattava dell’ultimo North American International Auto Show organizzato sotto la Presidenza Obama e la sua famosa spinta verso una mobilità sostenibile ed ecologica. ID.Buzz era un prototipo decisamente avveniristico. Il movimento era garantito da due propulsori elettrici, uno per asse, in grado di erogare ben 374 cavalli di potenza massima. L’autonomia dichiarata si aggirava intorno ai 600 chilometri.

«

Tra le motorizzazioni è prevista una versione ibrida plug-in, in grado di percorrere distanze quotidiane in modalità esclusivamente elettrica

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L’attesa è stata lunga e proprio in questi giorni è stato presentato in anteprima mondiale il nuovo pulmino Volkswagen in grado di viaggiare a emissioni zero: il Multivan. «Esibisce inconfondibilmente i geni del Van Design più famoso al mondo», afferma Albert Kirzinger, responsabile del Design Volkswagen. «Abbiamo ulteriormente sviluppato il carattere inconfondibile di questa icona – continua Kirzinger – facendogli compiere un grande passo in avanti, rimanendo tuttavia fedeli alle linee tipiche del Bulli. Citiamo, ad esempio, la linea caratteristica orizzontale del T3 che abbraccia l’intera carrozzeria. Con un volto riconoscibile e simpatico e un design essenziale e senza tempo». Le sue misure sono tipicamente Multivan: è largo 1941 mm, lungo 4973 mm e alto fino a 1903 mm. Un vero maestro nelle trasformazioni: van adatto alle famiglie numerose e sportive ma anche veicolo per traslochi e, perché no, persino camper. Per molti, un insostituibile compagno di vita ora equipaggiato anche con un luminoso tetto panoramico in cristallo. Chiariamolo subito però: non si tratta di un pulmino

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alimentato esclusivamente da batterie! Ciononostante, per la prima volta tra le motorizzazioni è prevista una versione ibrida plug-in che è in grado di percorrere le tipiche distanze quotidiane in modalità esclusivamente elettrica. Ebbene, in Germania, secondo uno studio del Ministero Federale dei Trasporti e delle Infrastrutture digitali, il 95 per cento di tutti i viaggi giornalieri in auto è rappresentato da tragitti inferiori ai cinquanta chilometri. Multivan eHybrid può viaggiare a zero emissioni per qualche decina di chilometri e sino a 130 km/h, purché le batterie agli ioni di litio con contenuto energetico pari a 13 kWh siano cariche. Sopra quella velocità entra in funzione un propulsore benzina TSI quattro cilindri turbo in grado di erogare 150 cavalli a cui si sommano i 116 dell’elettrico. La potenza sistema totale è di ben 218 cavalli.

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Il Multivan Volkswagen è una novità assoluta presentata in questi giorni.

Multivan porta in dote anche la guida parzialmente automatizzata. A seconda dell’equipaggiamento, sono disponibili fino a venti sistemi di assistenza. Tra questi il sistema di controllo perimetrale Front Assist con funzione di frenata di emergenza City, il sistema d’assistenza alle manovre di scarto con nuovo assistente alle svolte, il riconoscimento della segnaletica stradale, l’assistenza per il mantenimento della corsia Lane Assist e il cruise control. Tra gli innovativi nuovi sistemi figura l’IQ. DRIVE Travel Assist, che consente una guida semi-automatizzata da 0 a 210 km/h. E la versione totalmente elettrica allora ce la possiamo scordare? In Volkswagen dicono di no. Nel 2022 arriveranno due modelli esclusivamente elettrici. Tra questi un van realizzato all’insegna del life style. E pare che si chiamerà proprio ID.BUZZ.


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ambiente e Benessere

un caribe vichingo reportage La Scozia estrema e le sue isole dell’Ovest

La baia di Traigh Losgantair dell’Isola di Harris (Ebridi esterne). (sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica)

Enrico Martino, testo e foto Un universo mobile di paesaggi meteoropatici che vivono di luci, maree e nuvole nere come il piombo. Il sole, quando c’è, accende di colori caraibici baie immense e scogliere che sembrano confini del mondo, «Luoghi così belli che, quando si riparte, si è un’altra persona…» ha scritto lo svedese Björn Larsson in Il cerchio celtico, thriller cult fantapolitico in parte ambientato proprio nei mari tempestosi delle Ebridi Esterne, un pugno di isole parcheggiate al largo della Scozia. Sono le Av Bred Ey dei vichinghi, le isole «al limite del mare» quintessenza di una Scozia estrema dove onde e vento hanno avuto tutto il tempo di prendere una lunga rincorsa direttamente dal Labrador, e i battelli di salvataggio sono sempre pronti a scivolare in mare. Non più di duecento chilometri dal faro di Butt of Lewis a nord all’isola di Barra a sud, dove il marrone nerastro della torba, il verde delle brughiere e il bianco accecante delle spiagge fanno da sfondo a chiese medioevali e dolmen intagliati nelle rocce più antiche del mondo, gneiss formatisi 2900 milioni di anni or sono. A Traigh Losgantair, sull’isola di Harris, i confini tra mare e terra smettono di esistere un paio di volte al giorno quando la bassa marea disegna con

Ricostruzione di una delle case di ferro scoperte nelle dune di sabbia nel 1992.

lentezza impercettibile canali e arcipelaghi di sabbia per poi cancellare chilometri di spiaggia in pochi minuti, trasformandoli in un immenso specchio di mare che riflette il cielo. In un cottage appeso tra la brughiera e la spiaggia John Mackay tutto questo lo racconta tessendo le sfumature del clò mor, il «grande tessuto». Il tweed, anzi l’Harris Tweed. Non è solo una stoffa ma qualcosa di intimamente legato alle tradizioni del mondo gaelico e ai colori dei suoi paesaggi, il verde dell’erica, il marrone della torba, il viola dei mirti, il rosso scuro del crotal, un lichene grattato via dalle rocce. Per capirlo bisogna ascoltare John quando parla come un elfo di

Lewis Island: le maestose rocce di Mangersta Cliffs esposte all’Atlantico.

Tolkien, nel suo accento scozzese che sibila come il vento che qui non manca mai, soprattutto intorno alle colline da cui emerge il campanile dell’antica chiesa di Saint Clement a sud di Harris dove tra le ombre delle navate i drakkar, le navi sottili scolpite sulle tombe dei chieftains del clan MacLeod, rievocano un popolo che ha attraversato come una tempesta questi mari, i vichinghi. «Se guardi una mappa di Lewis, il 90% dei toponimi e il 31% del DNA del clan MacLeod dell’isola di Lewis – divisa da Harris non dal mare o dalla geografia ma dagli invalicabili confini dei clan – è di discendenza vichinga» esordisce il mite reverendo MacLeod che di quei suoi terribili antenati conserva solo i lineamenti. «Qui sei secoli fa si parlava norvegese e il gaelico che noi cerchiamo di conservare in realtà era il linguaggio della cultura e delle classi alte che i nostri antenati norvegesi avevano adottato». Lui è un pastore dei Wefrees, come si autodefiniscono i fedeli della Free Church protestante radicata soprattutto in questo lembo di Scozia, uomini asciutti e anziane signore dotate di permanenti al titanio insensibili a venti e tempeste che ogni domenica sotto un cielo imbottito di nuvole grigie si dirigono verso qualche candida chiesetta dove la funzione inizia sempre in gaelico.

Sono rimasti in pochi, soprattutto dopo le Clearances di due secoli or sono, quando molti proprietari terrieri costrinsero i loro antenati a emigrare in America, spesso sotto la minaccia dei fucili, per fare posto alla «peste bianca», le più redditizie pecore Cheviot Blackface. Sono ovunque, dormono in mezzo alla strada e ti squadrano alzando a stento il sopracciglio mentre si godono il caldo dell’asfalto, vere padrone di un arcipelago dove i villaggi sono grumi di cottages, e «quando costruisci una casa devi guardare come soffia il vento, altrimenti certi giorni non riesci neanche ad aprire la porta» ironizza Chris, un insegnante di Balbecula. Bisogna saper vivere sotto questo cielo che certi giorni è così alto da dare le vertigini, irraggiungibile anche per i monoliti dei cerchi di pietre di Calanais eretti prima di Stonehenge, tra il 2900 e il 2600 a.C., testimoni di una lunga storia come l’antico broch di Carloway, una sorta di grande nuraghe fortificato che domina un paesaggio di torba e di loch, i fiordi che scandiscono la costa. Sull’isoletta di Great Bernera il passato lo ricostruiscono ogni anno, in senso letterale, da quando nel 1985 una tempesta ha fatto riemergere dalle dune un villaggio dell’Età del Ferro. Gli archeologi lo hanno ricoperto di sabbia per proteggerlo dalle tempeste invernali, ma un gruppo di appassionati

L’Harris Tweed è ancora tessuto dai tessitori nelle proprie case.

ha ricostruito una capanna, «bisogna rifare il tetto ogni estate» sospira James Crawford, architetto e archeologo dilettante. «È un modo per salvare la nostra cultura perché noi siamo più vicini all’Islanda che a Londra». Una storia unita da trame invisibili alle croci celtiche tra le romantiche rovine delle chiese medioevali di Howmore lungo le grandi spiagge dell’isola di South Uist, una frontiera religiosa che ha diviso le Ebridi tra la Riforma protestante che scendeva da nord e la Controriforma cattolica che saliva dall’Irlanda, ma è la stessa gente, comunità di pescatori che lavorano e vivono insieme dove i problemi sono altri, soprattutto l’alcool che rode dentro durante inverni bui e freddi. Solitudini in cui ogni tanto irrompeva la Storia, dai vichinghi a Charles Edward Stuart, il Bonnie Prince Charles delle ballate scozzesi che per riconquistare il trono nel 1745 sbarcò a Eriskay, un’isoletta di South Uist, per poi ritornarci un anno dopo, disastrosamente sconfitto a Culloden. Fu solo grazie a una ragazza del posto, Flora MacDonald, che passò il Minch, lo stretto di mare che divide le Ebridi Esterne da Skye, travestito da serva irlandese per sfuggire alle navi britanniche, poi si imbarcò per la Francia e a Flora restò solo una ciocca di capelli e la promessa di rivedersi a Londra, dove invece passò un anno rinchiusa nella Torre di Londra per averlo aiutato. Da allora la Storia si è definitivamente allontanata dall’arcipelago e strade, televisione e computer hanno compresso secoli di cambiamenti nello spazio di una generazione, e qualche volta di fronte agli «stranieri» gli abitanti delle Ebridi si sentono come gli ultimi maya. Poi ci ridono volentieri sopra e tirano avanti, rassicurati nelle loro radici dalla vista di microscopici porti in coma profondo dove l’arrivo del ferry è l’unico colpo di vita e i pescatori infagottati sorseggiano l’ultimo goccio di uisge beatha, l’«acqua felice» o «acqua di santità» più conosciuta come whisky, prima di essere risucchiati in un mare tra i più imprevedibili e tempestosi d’Europa.


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ambiente e Benessere

profonda, fertile, povera, argillosa, vulcanica Bacco giramondo Continua il viaggio alla scoperta dei vini della Campania – Seconda parte Davide Comoli In Campania le aree adatte alla viticoltura si trovano un po’ ovunque, grazie ai terreni sciolti, profondi e fertili, ricchi di ferro, sabbia, argille e scorie vulcaniche. Anche l’ottima base ampelografica, la perfetta esposizione, gli inverni miti, le estati tiepide, le piogge concentrate nei periodi autunnali e il clima temperato, rendono naturale la diffusione della viticoltura in tutta la regione. Possiamo quindi affermare, senza timore di essere smentiti che, oltre alle splendide isole e le zone intorno al Vesuvio, anche il vino ha la sua parte nell’attirare in Campania migliaia di appassionati intenditori di questa bevanda. Oltrepassato il confine con il Lazio, nella fascia costiera compresa tra Formia, Mondragone e Sessa Aurunca, entriamo in provincia di Caserta, nella zona di produzione del Falerno del Massico; nome che ricorda il famoso vino prodotto nell’antichità, sebbene nessuno può dire quanto del vecchio ci sia in quello prodotto oggi. Noi possiamo al massimo affermare che comunque quello provato da noi a Caianello, prodotto in prevalenza con Aglianico e Primitivo e gustato con il classico «capretto con piselli all’uovo» non verrà certo dimenticato. Sta crescendo pure l’interesse per l’Alto Casertano nei dintorni di Caiazzo, dove viene coltivato il Pallagrello Bianco, che con le sue note aggrumate è l’ideale compagno per il polpo e le patate al forno. Riprendendo la strada verso Napoli, facciamo sosta a Caserta per visitare

la famosa Reggia eretta dal Vanvitelli, dove nei pressi gustiamo un ottimo Asprinio vinificato con il metodo Martinotti, gustando, e dove se non qui, l’immancabile «Pizza». In provincia di Napoli, le aree più interessanti per la viticoltura sono quelle sulle colline litoranee, in particolare quelle dei Campi Flegrei, della penisola Sorrentina – dove i terreni sono ricchi e profondi, e i vigneti nell’area dei Monti Lattari sono a terrazze –, del Vesuvio, delle isole di Capri, Ischia e Procida. Nell’area di Napoli, le varie tipologie di terreni donano realtà vitivinicole differenti, Falanghina e Piedirosso, dai quali si ottengono vini freschi e moderati, ma di modesta struttura: vengono coltivati nelle sabbie silicee dei Campi Flegrei. A Capri la vite (piccola produzione) viene allevata a pergola o spalliera, in loco si produce una Falanghina di media struttura, da bersi con un’estiva «insalata di vermicelli». Nell’isola di Ischia i terreni in genere sono lavici e tufacei, i vigneti si trovano in zone scoscese del vulcano spento Epomeo (788 m). Ischia fu probabilmente la prima colonia greca VII a.C. durante le loro peregrinazioni nel Mediterraneo, a cui diedero il nome di «Pithekoussai» (isola dei grandi vasi di terracotta) e gli Eubei che la colonizzarono portarono senza ombra di dubbio la viticoltura. I vitigni più coltivati sono per quelli a bacca bianca il Forastera e il Biancolella, per i rossi il Piedirosso: indimenticabile questo vino che annaffiò il nostro «coniglio all’ischitiana» in una lontana Pasqua. L’Irpinia, in provincia di Avellino, esprime tre eccellenze in campo enolo-

I terrazzamenti di Ravello, anche vignati, nella provincia di Salerno, sulla Costiera amalfitana. (deror avi)

gico, il Fiano d’Avellino, il Greco di Tufo e il Taurasi. Situati sulla media collina i vigneti del Fiano sono formati da argille ricche di fosforo e potassio. La zona eletta per la sua produzione è quella del Lazio: lo consigliamo da bere un po’ maturo, magari con una «frittata di friarelli» con abbondante formaggio grattugiato, oppure alla famosa minestra maritata, dove alle carni di maiale e gallina, vengono aggiunte sette differenti erbe. Il Greco di Tufo è prodotto nel cuore dell’Irpinia, dove troviamo miniere di zolfo e cave di tufo, è un vitigno che matura in ottobre, dona dei vini sapidi con sentori di ginestra e fiori di sambuco, con un piacevole retrogusto di nocciola tostata, da provare con dei crostacei. La zona del Taurasi comprende di-

ciassette comuni (tra cui Taurasi). Qui la vite viene coltivata a spalliera bassa, e il vino prodotto è considerato uno dei migliori vini prodotto nel mezzogiorno d’Italia, è frutto del vitigno Aglianico (almeno 85 per cento), il quale è un vitigno originario della Magna Grecia: il suo nome deriva dalla volgarizzazione del termine «ellenikon». Prima di essere commercializzato deve obbligatoriamente invecchiare tre anni di cui uno almeno in botte, 4 anni e almeno 18 mesi in botte per la «Riserva». Questo vino ha un colore rubino intenso tendente al granato, con note di ciliegie, fragole e in opposizione cuoio e spezie amare. È un vino molto complesso, da abbinare a piatti di carne a lunga cottura. Prima di scendere verso Salerno, risaliamo verso la provincia di Beneven-

to, dove si producono quasi la metà dei vini della regione e si nota una notevole trasformazione a livello qualitativo, ne è testimone la D.O.C.G. Aglianico del Taburno. Qui ci troviamo alla confluenza del fiume Isclero nel più conosciuto Volturno, dove il monte Taburno (1394 mslm) domina la vallata circostante e la cittadina di Dugenta, dove vengono coltivati pressoché tutti i vitigni campani. Qui è nata la D.O.C. Sannio, dove abbiamo provato l’autoctono Sciascinoso, vino da bere giovane, con profumi intensi di prugna e mirtillo, abbinati a «salsicce di bufalo»; pasto per digerire il quale ci siamo fatti aiutare dal liquore «Strega» prodotto in queste zone. In provincia di Salerno incontriamo la D.O.C. più meridionale della Campania; è un’area vastissima e variegata, con terreni poveri a sfondo argilloso e privi di materia organica. La vite viene coltivata nel territorio sud-ovest nelle vicinanze del fiume Calore. Dal punto di vista qualitativo troviamo la D.O.C. «Costa d’Amalfi» con i 13 comuni della costiera, dove il Biancolella e la Falanghina da bere con «spaghetti con la colatura di alici di Cetara», caratterizzano il vino bianco, mentre il Piedirosso, l’Aglianico e il Sciascinoso, il rosso. Scendendo più a sud, troviamo nel grande Parco del Cilento la D.O.C. omonima e gli otto comuni che producono la D.O.C. San Lorenzo, dove abbiamo concluso il nostro viaggio bevendo un fresco rosato prodotto con uve Barbera/Sangiovese, con un saporito «vermicelli marechiaro»: frutti di mare, gamberi, pomodori freschi, aglio, pepe e prezzemolo. annuncio pubblicitario

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la calabria a tavola

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Allan Bay Continuiamo con la saga delle ricette regionali italiane: oggi tocca alla Calabria. Parlare di cucina regionale in Italia è facile, dato che le differenze fra le varie regioni, a livello storico, climatico eccetera sono molto nette – anche se esistono tante similarità fra le regioni vicine, naturalmente. Al limite è più difficile parlare della cucina, diciamo così, nazionale italiana, che è un fenomeno recentissimo, dato che è una fusion – mai questo termine è più che adeguato – di una parte delle ricette delle diverse regioni, una fusion che però è «avvenuta più» nelle grandi città che nei piccoli borghi e nelle campagne. Ma questo è un argomento non facile da affrontare, dato che nel mio paese, il localismo è un’istanza sommamente condivisa.

Terra dei cedri: freschi vengono gustati in insalata, ma la parte più utilizzata è la carnosa scorza, da cui si ricavano canditi, liquori, creme e oli aromatizzati Terra di mare e montagna, la Calabria vanta una gastronomia di tradizione antichissima, che ha subìto nel tempo influssi normanni, arabi, greci, francesi e spagnoli – e delle regioni vicine. Ingredienti tipici sono l’olio extravergine d’oliva e il peperoncino, gloria grande e «recente» (nel senso che è un dono delle Americhe), affiancati da molti ortaggi e da agrumi come limoni, arance, mandarini e, soprattutto, cedri. Già Apicio, nel I secolo d.C., citava ricette a base di questi agrumi, che in Italia vengono coltivati praticamente solo qui. I cedri freschi vengono gustati in insalata, ma la parte più utilizzata è la profumata e carnosa scorza, da cui

si ricavano canditi, liquori, creme e oli aromatizzati. Quanto agli ortaggi, predominano le melanzane, declinate in numerose preparazioni: in agrodolce, al funghetto, a scapece, alla reggitana, sotto forma di involtini o in una variante della parmigiana arricchita con uova sode e polpette di carne o di pesce. Tra i formaggi, i migliori dei quali provengono dalla Sila, si segnalano in particolare burrata, caciocavallo e pecorino; le stesse montagne danno ottimi porcini, base della ricercatissima Tiella con i funghi, una preparazione in umido con patate e aromi. L’offerta di piatti di pesce è naturalmente ampia: pesce spada, preparato per esempio con capperi, limone, origano e prezzemolo, sotto forma di involtini, oppure fritto e marinato alla scapece; baccalà, cucinato con pomodori e peperoni o con cavolfiore, limone e prezzemolo; stoccafisso, stufato con olive, uvetta, patate e pomodori. La pasta casalinga viene realizzata in molti modi diversi, anche se oggi se ne sta perdendo sempre più l’abitudine. Tipici, per esempio, i Maccheroni a ru ferretto, sorta di bucatini arrotolati intorno a un apposito strumento, conditi con tonno, acciughe, sarde, funghi, mollica con i peperoni e altro ancora. Molto consistente anche il condimento delle lasagne, dette Sagne chine: carne macinata di maiale, piselli, mozzarella, funghi, carciofi, uova sode. C’è spazio ancora per i salumi (capocollo, ’nduja, soppressata) e per il pane, spesso venduto in grandi forme e farcito per realizzare varie sorte di grossi panini, come il Purgatorio alla calabrese. Molto diffuse anche le pitte, focacce variamente farcite (acciughe, pomodori, capperi, tonno, olive…), tra le quali la più nota è il Morseddu, a base di trippa e fegato. Infine, taralli sia dolci sia salati fanno parte della tradizione calabra, insieme a dolci a base di miele e frutta secca: ne sono un esempio i mostaccioli, grandi biscotti che possono assumere svariate forme.

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Gastronomia Prosegue il tour con le specialità e le principali ricette delle regioni d’Italia

csF (come si fa)

Il sanato è un vitello nutrito fino a circa 12 mesi con solo latte. La carne è molto tenera, bianchissima, di sapore delicato, e rilascia pochi liquidi durante la cottura: per questo è particolarmente ricercata. Si trova più facilmente in Piemonte e nella Valle d’Aosta, regioni nelle quali è tipico l’allevamento di questo vitello, ma anche altrove, oramai. Il nome deriva da una specie di museruola («sana») che

un tempo gli allevatori mettevano ai vitelli di poche settimane per evitare che mangiassero fieno o paglia (contenenti ferro, che dà il colore rosso alla carne). In passato – la macellazione dell’animale dopo pochi mesi, con peso inferiore a 120 kg, e l’alimentazione esclusivamente a base di latte materno – facevano del sanato un prodotto di lusso; oggi lo è molto di meno, sebbene resti leggermente più caro del vitello. Vediamo come si fa una classica ricetta: il Roston (con gli ingredienti per 4 persone). Mondate 250 g di funghi porcini freschi, affettateli e saltateli in una casseruola con una noce di burro finché non avranno espulso tutta l’acqua di vegetazione. Legate 800 g di filetto di sanato con filo alimentare, inserendovi qualche rametto di

rosmarino, e fatelo rosolare in una casseruola con una noce di burro, rigirandolo perché si colori da tutte le parti. Unite un bicchiere di vino bianco secco sobbollito per 3 minuti, coprite e cuocete per 10 minuti, girandolo a metà cottura. Scolatelo e mettetelo in forno a 100°; a questo punto aggiungete nella casseruola i funghi, 4 cucchiai di soffritto di cipolle e 1 dl di panna fresca e cuocete per 5 minuti, poi regolate di sale e di pepe. Togliete la carne dal forno, eliminate il filo e tagliatela in 4 trance, che farete insaporire nel fondo di cottura per 1 minuto. Servitela su piatti caldi. Come capita spesso in Piemonte, potete arricchire il piatto con qualche fettina di tartufo bianco. Io, in maniera eterodossa, aggiungo qualche fettina di tartufo nero insieme ai funghi.

Ballando coi gusti Oggi, due primi piatti abbastanza robusti dove sono presenti i gamberi: un ingrediente che facilmente si abbina con tanti altri.

Mesciua ai gamberi

Insalata di riso e gamberetti

Ingredienti per 4 persone: 16 gamberi · 150 g di fagioli cannellini bagnati · 250

Ingredienti per 4 persone: 250 g di riso da insalata · 200 g di gamberetti sgusciati

Sgusciate i gamberi e private le code del budellino nero. Tritate cipolla, carota e sedano e rosolatele in una casseruola con 1 filo di olio per 5 minuti. A questo punto unite il pomodoro tagliato a fette e le teste e i gusci dei gamberi: rosolate, flambate con un bicchiere di vino e coprite a filo di brodo vegetale. Aggiungete una foglia di alloro e cuocete per 40 minuti, mescolando. Alla fine, eliminate le sole teste e l’alloro, frullate il resto poi passate al passaverdura a fori fini. Mettete i legumi e il farro in una pentola, aggiungete il fumetto, coprite a filo con acqua e cuocete per 3 ore, unendo altra acqua se necessaria. Fuori dal fuoco salate, pepate e mescolate. Disponete la mesciua nelle fondine e guarnite con le code di gamberi tagliate a fettine. Irrorate con un filo di olio e servite.

Cuocete il riso in acqua salata, scolatelo al dente e raffreddatelo sotto acqua corrente fredda, poi stendetelo su un foglio di carta da forno. Sbollentate i gamberetti per 1 minuto in acqua leggermente salata; scolateli e metteteli in una terrina. Tagliate i pomodorini a dadini. Tagliate i carciofi a pezzetti, lo stesso fate con i capperi dopo averli ben sciacquati. Aggiungete nella terrina coi gamberi i pomodorini, i carciofi e i capperi e mescolate bene. Completate con il prezzemolo e con altro olio a piacere, spruzzate con aceto e se necessario cospargete un po’ di sale; infine versate il riso nel condimento. Mescolate, pepate e servite.

g di ceci bagnati · 200 g di farro bagnato · 1 cipolla · 1 carota · 1 gambo di sedano · 1 pomodoro · alloro · vino bianco secco · brodo vegetale · olio di oliva · sale e pepe.

· 80 g di carciofi sott’olio · 2 cucchiai di capperi sott’aceto · 4 pomodorini · 1 cucchiaio di prezzemolo tritato · aceto di mele · olio extra vergine d’oliva · sale e pepe.


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Idee e acquisti per la settimana

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twister di spelta

Sotto la crosta croccante del pane twister cotto nel forno di pietra si nasconde un delicato aroma di cereali e spelta. Il lungo tempo di lievitazione dell’impasto assicura un gusto equilibrato e permette di conservare il pane fresco per più giorni. È prodotto con ingredienti puramente naturali Insalata di cetriolo ai lamponi Ingredienti per 4 persone cetriolo 1 1 mazzetto di ravanelli 2 pomodori peperone giallo 1 1 peperoncino verde 2 cipollotti 100 g di lamponi cucchiai d’olio d’oliva 4 4 cucchiai di Condimento bianco 1 cucchiaino di miele di fiori liquido sale, pepe 1 pane, ad es. Twister alla spelta

Foto e Styling: Veronika Studer

Preparazione Taglia il cetriolo e i ravanelli a fettine sottili, i pomodori e il peperone a cubetti. Dimezza il peperoncino per il lungo, privalo dei semi e taglialo a striscioline. Sminuzza i cipollotti. Sistema tutto in un vassoio con i lamponi. Per la salsa, mescola l’olio con il Condimento e il miele, poi insaporisci con sale e pepe. Irrora l’insalata con la salsa, mescola e servi con il pane. Completa l’insalata a piacimento, aggiungendo qualche foglia di lattuga.

Pane dal forno di pietra di spelta twister Limited Edition 400 g Fr. 3.30


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le magiche erbe di san Giovanni

mondoverde Un piccolo viaggio curioso e un filo esoterico nelle credenze popolari che spopolavano alla ricorrenza

del 24 giugno

Su una rivista di giardinaggio ho letto di un progetto fotografico riguardante le erbe di San Giovanni e incuriosita ho approfondito la ricerca, visto che l’unica pianta con questo nome comune e di mia conoscenza, è l’iperico (Hypericum perforatum). Sbagliato! Da una rapida ricerca in internet, ho scoperto tutta una serie di piante con poteri preziosi, che se raccolti la mattina del 24 giugno (festa cristiana dedicata per l’appunto a San Giovanni Battista) e tenuti in un sacchettino bianco, diventano un amuleto (!). Le piante usate sono nove e oltre all’iperico troviamo lavanda, ruta, verbena, artemisia, salvia, noce, rosmarino e alloro, ma molti includono anche chiodi di garofano, felce, cipolla, aglio, rosa, timo e menta. Tutte queste piante hanno la nomea di avere poteri magici o esoterici, come ad esempio il noce: nel Medioevo si riteneva che le streghe seguaci di Diana volassero sotto al noce di Benevento per il Grande Sabba, ed è proprio a causa di questa credenza che il vescovo Barbato lo fece tagliare. Un gesto che avrebbe dovuto impedire altre riunioni, se non fosse che dal suolo ne spuntò un altro. Non so voi, ma a me queste leggende (di streghe volanti) unite a fatti naturali mi fanno da un lato sorridere (rendendomi conto di quanto la scienza sia importante) mentre dall’altro mi fanno riflettere su quanto superstizioni

nino Barbieri

Anita Negretti

e credenze abbiano causato dolori alle persone. E così, mescolando ignoranza, paura e voglia di risposte, l’uomo nel passato, ma in alcuni casi ancora oggi, riunisce credenze religiose, sacrifici e osservazioni astronomiche in un solo credo. Il 24 giugno, infatti, non è solo una festa cristiana, ma corrisponde al solstizio d’estate, che determina la notte più breve dell’anno, e proprio per questo considerata carica di mistero. Così che le erbe raccolte in quella notte, venivano legate a mazzetti con una cor-

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li o nelle aiuole di parchi e giardini, in passato veniva vista come pianta sacra, tanto da guadagnarsi il nome di «scacciadiavolo». Il suo pigmento rosso, l’ipericina, prodotto in modo naturale dai suoi fiori e bacche era simbolo del sangue versato da San Giovanni durante la decapitazione da parte di Salomè, la principessa giudaica. Dell’artemisia (Artemisia vulgaris), che ha foglie molto aromatiche e dalla varietà spontanea, gli ibridatori hanno creato varietà decorative, con foglie grigie, che creano ampi cuscini sempreverdi in vasi e giardini. Con-

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku

Cruciverba La còrea di Sydenham è un tipo di encefalite, come viene chiamata più comunemente? Scoprilo a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 5, 2, 3, 4)

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dicella a sette nodi e poste all’ingresso delle abitazioni per difendersi dagli incantesimi. Ma potranno ancora conservare un filo di magia queste piante che oggi vengono prodotte in massa, si spostano sui carrelli e container che attraversano i cieli e i mari d’Europa e spesso migrano da continente a continente per essere commercializzate e vendute in eleganti negozi di fiori o su banchi di supermercati? L’iperico, bellissima tappezzante dai fiori giallo intenso e bacche rosse, presenti a decine nelle rotonde strada-

sacrata a Diana, veniva utilizzata per creare ghirlande per mettere in fuga gli spiriti maligni e proteggere il bestiame. Stessa credenza per lavanda e ruta, ancor più evidente per quest’ultima poiché produce fiori gialli che quando sbocciano hanno quattro petali, a ricordare la croce; per questo probabilmente la chiesa cattolica permetteva di coltivarlo solo nelle case benedette, creando così sospetti sui propri vicini. L’elenco delle superstizioni è ancora lungo, ma preferisco concludere con quella che riguarda il custode del «potere» per me più emblematico: l’aglio. Questa bulbosa originaria dell’Asia produce foglie aromatiche e se lasciata nel terreno a lungo, produrrà dei bei fiori bianchi, simili a quello dell’aglio decorativo, fiore tanto di moda nei giardini ben curati visto il loro notevole pregio ornamentale e l’alto prezzo dei bulbi (si arriva fino a 30 franchi a bulbo per le varietà più pregiate). Tutti noi lo usiamo in cucina per aromatizzare i piatti eppure, questo candido bulbetto dal forte aroma, che vive pacifico nel mio frigorifero, dovrebbe essere in realtà un potente ammazza mostri; dote che, lo ammetto, mi fa alquanto sorridere. Eppure, in un passato di non troppi anni fa, lo si usava legato in collane da mettere intorno al collo proprio la notte del 24, per proteggersi da stregoni, fattucchiere e vampiri. Sebbene nell’originario romanzo Dracula di Bram Stoker, si usasse una collana di fiori di aglio…

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regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «azione» e sul sito web www.azione.ch

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I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.

orIZZoNtalI

1. Si utilizzano con due dita 7. Crescono lateralmente 8. Articolo spagnolo 9. Una consonante 10. Piccola insenatura marina 11. Una delle isole Cicladi 12. Titolo nobiliare 15. Si prende a morsi 17. A Londra è il numero uno! 18. Fiume francese 19. Le iniziali del musicista

sudoku soluzione:

Scoprire i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

partecipazione online: inserire la

soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-

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Allevi 20. Le hanno alcuni mammiferi 21. La metà di VIII 22. Per usarla le si spezza il collo 23. Dopo il «bi» 24. È considerata un continente 25. Lo era Sartre Verticali 1. Destino, sorte 2. Possono essere essenziali... 3. Fanno rima ... con ma 4. La conduttrice D’Amico 5. Parte dell’intestino 6. Isabella per gli amici 10. Ha un fusto nodoso 11. C’è anche quella cotta 12. Sotto il materasso 13. Contrapposta all’altra 14. Due quinti di cento 15. Una gioia del mare 16. Evidente 18. Con «opera» fa una telenovela 20. Pronome dimostrativo 21. Desinenza verbale 22. Le iniziali del cantante Renga 23. Scrisse Gerusalemme liberata (Iniz.)

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soluzione della settimana precedente

VETTE ITALIANE – La vetta più alta situata interamente in territorio italiano: GRAN PARADISO – La sua altezza supera metri: QUATTROMILA. G R A P O M N B D O R S A T O P A T P R O R S

N A T O A A L D I O R A N T A C O T O M O L I

A R I A Q U I O U R I T E I I O N A S

Z O R R O

luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui

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politica e economia Il piano di erdogan La Turchia riscopre il suo passato, volta le spalle all’Europa e si volge verso l’Asia e l’Africa

la danimarca caccia i migranti Copenaghen è tra i Paesi europei con le leggi più severe in materia di immigrazione e asilo

Il golpe birmano e la cina La mano di Pechino si allunga sul Paese in mano alla giunta militare dal golpe del 1° febbraio

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Imposta di successione? L’OCSE rispolvera una vecchia idea che però in Svizzera è stata spesso contestata pagina 27

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Joe Biden e il rilancio delle alleanze

l’analisi Il viaggio del presidente americano

in Europa è stato un successo. Ecco i risultati più significativi della missione

Federico Rampini Joe Biden quando era senatore aveva una vera passione per la politica estera. Lo incontravo regolarmente al World economic forum di Davos dove figurava tra gli habitué. Frequentava anche un’importante conferenza strategica a Monaco di Baviera. Per decenni ha coltivato amicizie in Europa, sostenendo che le relazioni umane contano per una diplomazia efficace. Per lui quindi la tournée europea di giugno ha avuto il sapore di una «rimpatriata» fra amici, anche se gli altri leader in carica appartengono a generazioni più giovani. È stato un gesto di riguardo l’aver riservato al vecchio Continente il primo viaggio in persona dopo i tanti summit in videoconferenza. Gli europei avevano bisogno di essere rassicurati, non solo perché memori dei quattro anni di unilateralismo di Donald Trump ma anche perché tanti segnali confermano che per l’America il centro del mondo si situa nel Pacifico. Mission accomplished, missione compiuta. Se guardiamo al simbolismo questa visita è stata un successo. America is back, l’America è tornata, è lo slogan che Biden ha ripetuto a ogni tappa. L’America non era mai scomparsa ma il «ritorno» in questione si riferisce al rilancio di una tradizione diplomatica imperniata sulle alleanze. Biden l’ha rinnovata con due aggiornamenti. Anzitutto ha reso esplicito lo scopo di queste alleanze: rafforzare le coalizioni di liberaldemocrazie, in una fase di avanzata degli autoritarismi, in particolare quello cinese. L’altro filo conduttore della visita è stata l’idea che le democrazie devono dimostrare in modo concreto l’efficacia dei propri sistemi politici. Non ci si può accontentare di proclamare in linea di principio la bontà dei nostri valori, bisogna produrre risultati che creino consensi tra i cittadini, così come a modo suo il regime comunista cinese ha realizzato delle performance di sviluppo e modernizzazione innegabili. In questa luce rivedo le tappe della missione di Biden isolandone i risultati più significativi. Al G7 l’accordo sulla

tassa minima globale è stato il pezzo forte. Non bisogna esagerare la portata di quella svolta. Però è un passo nella direzione giusta, indispensabile per cominciare a invertire una tendenza consolidata negli ultimi quarant’anni: siamo vissuti in un mondo dove gli Stati facevano a gara tra loro per attirare multinazionali offrendo privilegi fiscali. Per compensare questo mancato gettito spremevano il ceto medio e le imprese più piccole. Un accordo politico per una tassa minima sui giganti transnazionali è la condizione per cambiare il segno della fiscalità mondiale. Restano tanti ostacoli da superare, ma Biden ha dato un segnale che le democrazie possono rimettere al centro gli interessi dei cittadini. A Bruxelles la tappa alla Nato ha affermato un principio nuovo. La Cina per la prima volta appare nel comunicato conclusivo di un vertice dell’Alleanza atlantica, dove viene citata dodici volte. Avendo il secondo budget militare del mondo dietro gli Stati uniti, e un arsenale crescente di «nuove armi», le sue ambizioni «pongono un problema» per la Nato. Le guerre del futuro saranno diverse e la Nato riscrive il suo Strategic concept per la prima volta da 11 anni, con un accento forte su cyberguerre, intelligenza artificiale, disinformazione, hackeraggi. L’Articolo 5, il pilastro del Trattato perché enuncia l’obbligo di intervenire in difesa di uno Stato membro aggredito, verrà aggiornato per includervi le minacce contro i satelliti e i cyber-attacchi. La sfera d’intervento della Nato si allarga verso l’Indo-Pacifico, dove si era già spinta con l’intervento militare in Afghanistan. Il secondo summit di Bruxelles, fra Usa e Ue, ha dato un risultato concreto. Vengono sospesi per 5 anni dazi che colpivano vini, formaggi e prodotti industriali europei come rappresaglia per i sussidi pubblici al gruppo aeronautico Airbus. Il contenzioso Airbus-Boeing durava da 17 anni e si era condotto a due livelli: da una parte la battaglia legale davanti al tribunale dell’Organizzazione mondiale del commercio dove gli uni e gli altri erano stati condanna-

Era il primo viaggio di persona del presidente americano dopo tanti summit online. (schutterstock)

ti per l’uso illecito dei sussidi pubblici ai colossi aeronautici. D’altra parte, in virtù di quelle vittorie in tribunale, sia Washington sia Bruxelles avevano introdotto dazi compensativi-punitivi, su settori non collegati all’aeronautica, ma passibili di infliggere un danno proporzionale. La tregua scongiura il rischio di dazi su 12 miliardi di dollari annui di interscambio. La tregua ha la minaccia cinese come sottofondo. La Cina ha avviato la costruzione del suo polo aeronautico. Il jet passeggeri cinese si chiama C919 ed entrerà in servizio alla fine di quest’anno. Questa è la ragione forte dietro il compromesso tra i referenti governativi di Airbus e Boeing, che vogliono concordare fra loro il limite accettabile degli aiuti pubblici. Per quanto americani ed europei abbiano tutti sostenuto i propri «campioni» con denari pubblici (i contributi statunitensi talvolta erano dis-

simulati dalla duplice natura di Boeing che costruisce jet passeggeri ma anche apparecchi militari), quando scende in campo il Governo di Pechino si può essere certi che la mole di sussidi erogati fa impallidire gli altri. Un’altra decisione è la creazione di un Consiglio Usa-Ue per il commercio e la tecnologia. Questo organismo tecnico bilaterale funge da camera di compensazione per prevenire conflitti commerciali, ed è anche un luogo dove americani ed europei concorderanno gli standard globali per le nuove tecnologie, per esempio l’intelligenza artificiale, prima che sia la Cina a farlo. Saper imporre gli standard tecnici universali è sempre stato un segnale di egemonia sul fronte dell’innovazione. Oggi l’Occidente non può dare per scontato che questo primato gli appartenga. L’incontro di Ginevra con Putin è stato meno sterile di quanto si poteva

temere. Il ritorno dei due ambasciatori a Mosca e Washington, che erano stati ritirati in precedenza, è un segnale di normalità. Biden ha elencato terreni sui quali pensa che il dialogo sia stato utile, perché la Russia ha interesse a cooperare: gli aiuti umanitari per portare cibo alla popolazione civile in Siria; l’importanza di evitare che l’Iran si doti dell’arma nucleare; la necessità di mantenere l’Artico fuori da una corsa agli armamenti; la prevenzione del terrorismo in Afghanistan. C’è un’intesa possibile, è la «stabilità strategica» e questo era l’obiettivo minimalista che la Casa Bianca aveva fissato per l’evento di Ginevra. «Riportare le relazioni russo-americane alla prevedibilità»: nemici come prima, ma in un quadro dove certe regole del gioco sono implicite, ciascuno conosce le «linee rosse» dell’altro da non oltrepassare per evitare di innescare crisi incontrollabili.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 giugno 2021 • N. 25

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Il sultano erdogan e lo sguardo al passato storia La Turchia gira le spalle all’Occidente, volgendosi verso l’Africa e l’Asia.

Il regime in difficoltà agita le bandiere del patriottismo, invoca le radici religiose e coltiva le memorie legate alla grandezza antica

Con un decreto del luglio 2020 il museo viene soppresso e Santa Sofia, a Istanbul, torna a essere una moschea. (shutterstock)

Alfredo Venturi Un «errore molto grande», secondo Recep Tayyip Erdogan, quello di Kemal Atatürk che con un decreto del 1934 trasformò in museo la grandiosa meraviglia bizantina di Santa Sofia. Per quasi mille anni, fra il 6° e il 15° secolo, fu una basilica cristiana, sede del patriarcato di Costantinopoli. Nel 1453, quando Maometto II conquistò la seconda Roma, la chiesa diventò moschea. E tale rimase fino a quando cadde l’impero ottomano e ciò che ne restava si trasformò in una Repubblica laica. Il presidente che prese il posto del sultano, Atatürk appunto, laicizzò anche la moschea che diventò un museo, magnifica testimonianza del passato e principale attrazione di Istanbul.

Il Paese è membro dell’Alleanza altlantica e trattiene l’intenso flusso di migranti in cambio di denaro È proprio questo il grande errore che Erdogan imputa al suo lontano predecessore: avere cancellato il più significativo fra i luoghi di culto islamici, avere annullato la destinazione religiosa del fastoso simbolo della gloria ottomana strappato ai cristiani. Del resto si tratta, nella visione del nuovo sultano, di un errore rimediabile: con un decreto del luglio 2020 il museo viene soppresso e Santa Sofia torna a essere una moschea. Chiarissimo il messaggio di Erdogan al suo popolo, al mondo musulmano e al resto della comunità internazionale: la Turchia riscopre il suo passato, gira le spalle all’Europa e si volge verso l’Asia e l’Africa, verso il nucleo mediorientale e nordafricano di quello che fu l’impero travolto dalla Grande guerra a coronamento di un lungo declino. Uffi-

cialmente è tuttora candidata a entrare nell’Ue e lo stesso Erdogan si è nuovamente espresso per l’adesione, ma di fatto questa è ormai acqua passata, nessuno pensa realmente a Bruxelles che permanendo ad Ankara l’attuale gestione il negoziato possa ripartire. Eppure rimane sul tappeto un significativo dettaglio, l’impegno a trattenere, in cambio di sostanziose iniezioni finanziarie da parte dell’Unione, l’intenso flusso di migranti che provenendo dal Medio Oriente cerca attraverso il territorio turco di raggiungere l’Europa. Rimane anche la singolarità di un Paese che, pur avendo distolto lo sguardo dall’Occidente, è tuttora membro dell’Alleanza atlantica (che si è riunita settimana scorsa a Bruxelles). Per la Nato la Turchia è sempre stata il pilastro convenzionale a guardia dei confini sudorientali della comunità occidentale. Una condizione in contrasto con la cronica ostilità e i secolari contenziosi che la dividono da un altro membro dell’alleanza, la Grecia. Atene e Ankara non di rado ai ferri corti, eppure alleati. Al di là delle motivazioni ufficiali di ordine storico e religioso, Erdogan è mosso dalla necessità di offrire al suo popolo una politica di orgoglio nazionale che attenui gli effetti di una grave crisi economica. Da alcuni anni la nostalgia per il passato si manifesta con rinnovata intensità il 29 maggio, quando si celebra l’anniversario della presa di Costantinopoli. Secondo un collaudato modello storico, il regime in difficoltà agita le bandiere del patriottismo, invoca le radici religiose, coltiva le memorie legate alla grandezza antica. All’epoca in cui il sultano governava un territorio che si estendeva dall’Europa balcanica e carpatica al Nordafrica, dal Medio Oriente alle Colonne d’Ercole, dall’Anatolia alla «mezzaluna fertile» fra l’Egitto e la Mesopotamia. Agli anni fra Cinquecento e Seicento, quando gli ottomani sfidarono l’Europa e sembra-

vano sul punto di prevalere. La sfidarono sul mare, fino alla battaglia navale di Lepanto, e la sfidarono in terra. Di fatto arrivarono fin sotto le mura di Vienna e il Continente si trovò di fronte alla prospettiva dell’islamizzazione. Come qualche secolo prima Poitiers, dove i Franchi fermarono l’avanzata araba, Lepanto e Vienna bloccarono gli ottomani. Sono punti di svolta ai quali sarebbe difficile attribuire un valore poco più che simbolico, come si fa per Poitiers. Dopo l’apogeo cominciò il lento declino che si accentuò fra Otto e Novecento, e come sempre accade quando un ciclo storico entra in fase calante e un’istituzione vacilla, potenze affamate di bottino e di potere si precipitarono sulla preda. Le province nordafricane diventarono colonie o protettorati europei, la guerra italo-turca si concluse con la perdita non soltanto della Tripolitania e della Cirenaica ma anche di Rodi e dell’arcipelago egeo del Dodecanneso. Poi toccò a quella che nelle carte dell’epoca ancora si chiama Turchia europea: le guerre balcaniche portarono alla nascita di nuovi Stati mentre due Imperi si allargarono su quei territori, l’austro-ungarico e il russo. E finalmente, con la prima guerra mondiale, il crollo definitivo dello Stato ottomano e la spartizione delle sue spoglie. Inconsapevoli dei guai in cui finirono col cacciarsi, Francia e Gran Bretagna s’insediarono nel Medio Oriente. A questo punto il generale Mustafa Kemal, che presto si farà chiamare Atatürk, padre dei turchi, afferrò la barra del timone e lanciò la sua innovativa politica filo-occidentale. Prima di tutto depose l’ultimo sultano, Maometto VI, lanciò il Partito popolare repubblicano e s’installò alla presidenza della nuova Repubblica. Poi diede il via a un piano di radicali riforme. La lingua turca, che fino a quel momento si scriveva con i caratteri arabi, venne convertita all’alfabeto latino. Atatürk

abolí il Califfato e pose le organizzazioni religiose sotto il controllo dello Stato. Vietò alle donne di portare il velo nei luoghi pubblici. Per non turbare troppo i fedeli conservò l’Islam come religione ufficiale. Fece riscrivere i Codici, i suoi giuristi s’ispirarono alla Svizzera per il civile, all’Italia per il penale. Affidò alle forze armate la funzione di garanzia di uno Stato laico e occidentalizzante, non fosse per il partito unico e la forte impronta autoritaria. È lo Stato kemalista che Erdogan sta scuotendo fin dalle fondamenta innalzando il ruolo della religione, ridimensionando quello dei militari, abolendo la legge sul velo. Si direbbe che voglia adattare le scelte politiche alla geografia del Paese. Non sarà più quel superstite pezzetto dei domini europei che ospita gli splendori di BisanzioCostantinopoli-Istanbul a determinare l’essenza ideologica della Turchia, prevarrà la grande massa asiatica della penisola anatolica, che contiene la capitale spostata da Atatürk proprio per attenuare il peso ingombrante della metropoli sul Bosforo. Non a caso questo Paese atlantico e candidato all’Unione europea guarda con interesse all’Asia centrale non più sovietica, dove si parlano lingue altaiche strettamente imparentate con il turco: kazako, uzbeko, kirghiso, turkmeno. Lingue depositate nei secoli dai popoli nomadi che dall’Oriente mongolico sciamavano verso Occidente. Anche i rapporti con l’Afghanistan, che Ankara considera nevralgici, fanno parte di questa predilezione asiatica. Oltre al ripristino in mutata forma, dove sia possibile, degli antichi vincoli imperiali la svolta neo-ottomana comprende anche la proiezione verso il Levante centro-asiatico. Nelle Repubbliche post-sovietiche il nazionalismo turco localizza un’area d’influenza che appare come una scelta obbligata, predisposta com’è dai sedimenti della storia.

politica e economia Fra i libri di paolo a. dossena serGio salVi, «Questi turchi» (Insula, maggio 2021), introduzione di Franco cardini Quando sente la parola «turchi» la gente pensa automaticamente alla Turchia e al sultano barbuto col fez. È un errore, come spiegano due grandi studiosi come Sergio Salvi (l’autore del libro) e Franco Cardini (che ha scritto una strordinaria introduzione per il saggio). In realtà i turchi sono una popolazione originaria dell’Altai e prevalentemente insediata nel vecchio Turkestan russo, cioè l’Asia centrale. Forza dinamica millenaria, i turchi distruggono l’impero romano con gli unni (che pur fermandosi sul Mincio sospingono i germani fino a Roma) e l’impero bizantino con gli ottomani, che turchizzano l’Anatolia. Non riusciranno ad abbattere l’impero d’Austria, che li ferma a Vienna e che firma con loro la pace di Karlowitz (1699). Da questo momento comincia il riflusso, che durerà fino al 1918, con l’esplosione dell’Impero ottomano. Corretto il primo errore circa l’origine storico-geografica dei turchi, occorre correggere il secondo, che riguarda invece la loro cultura. Il trauma della sconfitta del 1918, e la brutale politica persecutoria dei vincitori, producono un effetto tsunami in Germania, dove arriva Hitler, e in Turchia, dove arriva Kemal. Kemal è un «giacobino», un occidentalizzatore spietato: stermina gli armeni, che rappresentano ai suoi occhi una doppia minaccia, l’oscurantismo religioso e il separatismo etnico. Il suo è lo Stato giacobino per eccellenza, rinchiuso nei confini naturali anatolici, dove non c’è posto per chi non parla turco e per chi non accetta l’occidentalizzazione. Barbe, fez e veli vengono scoraggiati. Poi accade qualcosa di imprevisto: «la rimonta inattesa dell’Islam», un fenomeno che comincia nelle periferie, lontano dalle città secolarizzate dei giacobini, dei tecnici, degli studenti e degli intellettuali. Nelle campagne la gente ama ancora il fez e non dimentica le antiche tradizioni. C’è un ragazzo, un giovanissimo venditore ambulante di limonate e panini al sesamo, che si aggira con un carretto e che viene da un distretto povero di Istanbul. Questo ragazzo, Recep Tayyip Erdogan, incarna la rimonta dell’Islam. Spinto dalla forte religiosità della sua famiglia, abbandona il carretto e scende in politica. All’inizio sembra un moderato, una specie di «democristiano» dell’Islam: è infatti apparentemente ispirato dall’imam ecumenista Gülen. Tuttavia, col tempo, Erdogan si fa sempre più aggressivo ed estremista (arriva al punto di appoggiare l’Isis) venendo, per le sue «pulsioni» imperiali, soprannominato «il sultano». Lui abbraccia contemporaneamente pan-islamismo e pan-turchismo. Il panturchismo è l’ideologia di Enver Pascià, turco anatolico morto in Asia centrale, terra che sognava di ricongiungere alla Turchia in contrasto con i massoni patriottici di Ankara. Dunque Erdogan riscopre i rapporti con la madrepatria centro-asiatica, ma anche col Causaso e con qualsiasi terra che ospiti gruppi turcofoni, nel nome di un mega-nazionalismo turco-musulmano. Aggiornatissimo, il libro, tra storia e attualità, arriva a coprire anche le ultimissime crisi nelle quali Erdogan si è inserito (Libia, Siria eccetera). Sergio Salvi è equilibrato e in certi casi (come in quello di Israele, che bombarda i vicini) dà torto ai nemici di Erdogan, il quale è comunque descritto come un bruto corrotto.


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politica e economia

Non è un paese per migranti

Il punto Negli ultimi anni la Danimarca ha messo in atto una serie misure controverse per scoraggiare gli arrivi.

Le più recenti: la revoca dei permessi ai rifugiati di origine siriana e l’esame delle domande oltre confine

Francesca Mannocchi Migliaia di rifugiati siriani hanno manifestato nelle ultime settimane in decine e decine di città della Danimarca. Le organizzazioni umanitarie del Paese, Mellemfolkeligt samvirke, Dansk flygtningehjælp ungdom e Amnesty international, hanno sostenuto i manifestanti e portato i sit-in anche di fronte alla sede del Parlamento a Copenaghen. Le piazze hanno chiesto al Governo di mettere fine alle revoche dei permessi di soggiorno per i rifugiati di origine siriana. Lo scorso aprile, infatti, la Danimarca – pur non riconoscendo formalmente il Governo di Bashar al Assad – ha inaugurato una politica di cancellazione dei permessi di soggiorno dei cittadini siriani originari della provincia di Damasco, sulla base di un controverso report che considera l’area ormai sicura, esponendo diverse centinaia siriani con regolare permesso di soggiorno alla possibilità di dover lasciare il Paese. A oggi sono alcune centinaia le persone a cui sono stati revocati o non rinnovati i permessi. Molte di loro avevano imparato il danese e trovato un’occupazione stabile. La Danimarca è tra i Paesi europei con le leggi più severe in materia di immigrazione e asilo. Dal 2011 nel Paese con circa 6 milioni di abitanti sono arrivati dalla Siria circa 34 mila rifugiati. Al culmine della crisi migratoria in Europa, nel 2015, la Danimarca ha ricevuto più di 20 mila domande di asilo, domande che sono scese a 2716 nel 2019 e 1515 nel 2020. Diverse misure controverse sono state messe in atto per scoraggiare l’immigrazione. Nel 2018 sono state emanate leggi per regolare la vita delle persone «non occidentali» che risiedevano nei «ghetti», parola che la legge danese usa per definire i quar-

Proteste a Copenaghen contro la revoca dei permessi ai migranti siriani. (aFP)

tieri in cui vivono le persone in gravi difficoltà economiche. Tra le misure entrate in vigore anche l’obbligo per i figli di immigrati di frequentare corsi di «valori danesi» e la riduzione del numero di alloggi a pigione moderata destinati alle famiglie provenienti da Paesi extraeuropei. E nel 2019 l’allora Governo di centrodestra annunciò un «cambio di paradigma» delle politiche migratorie, inasprendo le norme sui ricongiungimenti familiari e confer-

Bloccati in un «paese terzo» A inizio giugno il Parlamento danese ha approvato un’altra controversa proposta di legge. Il testo si inserisce nella stretta sull’immigrazione del Governo socialdemocratico guidato dalla ministra di Stato, Mette Frederiksen, e ha un chiaro scopo «deterrente»: ambisce a dissuadere l’arrivo dei migranti nel Paese nordico. La normativa prevede infatti che le domande di asilo o di altre forme di protezione internazionale vengano esaminate in centri che si trova-

no fuori dal territorio danese, in un «Paese terzo» che non è stato ancora identificato, il quale si farà carico di accogliere i richiedenti l’asilo anche una volta che la loro domanda sarà stata accettata e di espellere i migranti che avranno ricevuto un rifiuto. La Danimarca è diventato quindi il primo Paese europeo a prevedere l’esame delle richieste di asilo al di fuori dell’Europa e a bloccare completamente l’arrivo di migranti nel suo territorio.

mando il principio della natura temporanea dello status di rifugiato nel Paese. Così quando il Paese di origine di un rifugiato viene considerato sicuro e i suoi timori di persecuzione ritenuti infondati, il permesso viene revocato. Le conclusioni di un recente rapporto del «Country guidance for Syria» dell’Easo, l’ufficio europeo di sostegno all’asilo, che ha valutato il governatorato di Damasco «relativamente stabile», sono state sostenute dal giudice nazionale danese Henrik Block Andersen, capo del Danish refugee board, una sorta di Corte d’appello sulle richieste d’asilo. Il giudice ha dichiarato che nella capitale siriana al momento non esisterebbe «un rischio reale per un civile di essere colpito personalmente». Però le conclusioni del rapporto in questione sono come detto controverse e 11 dei 12 analisti che hanno contribuito a stendere il documento hanno criticato le posizioni del Governo danese. Inoltre il report include un paragrafo che non viene mai menzionato da Copenaghen. Questo tratteggia il destino che i cittadini siriani affrontano una volta tornati a casa: 3 siriani su 4, tra quelli in fuga dalla guerra civile, una volta tornati nelle zone controllate dal regime sono

esposti al rischio di violenze, abusi, arruolamento forzato, arresto, tortura e sparizione. Questi dati vengono confermati anche da numerose Ong e organi di stampa indipendenti siriani, come «Syrian untold», il quale sostiene che il regime di Bashar al Assad abbia costruito un meccanismo di sparizioni e arresti di massa, e che molti arresti, pur effettuati dalle forze ufficiali del regime, si tramutino in rapimenti a scopo di estorsione. «A Damasco il regime di Assad ha rafforzato il proprio potere attraverso terribili violazioni dei diritti umani: arresti arbitrari e la diffusione di strutture dove viene praticata la tortura», ha dichiarato la dottoressa Haifaa Awad, un’attivista per i diritti umani siriana che vive a Copenaghen. L’attuale Governo danese, socialdemocratico, non solo attua con convinzione la politica delle revoche, ma aspira – nelle parole della ministra di Stato Mette Frederiksen – ad arrivare a «zero richiedenti l’asilo». Obiettivo condiviso dal ministro per l’Immigrazione, Mattias Tesfaye, che ha offerto ingenti fondi a chi decidesse di tornare in Siria volontariamente. Dato che il Governo danese non ha relazioni diplomatiche con Damasco e che dunque non sussi-

stono accordi bilaterali per negoziare i rimpatri, chi vede revocato il permesso di soggiorno e non parte, viene destinato ai «centri di partenza», cioè strutture gestite dal sistema carcerario danese. All’interno di questi luoghi i rifugiati vengono privati del diritto di studiare, di cercare un lavoro o frequentare corsi di lingua. Finché appunto partono. Però chi rientra in Siria spesso non ha neppure più un’abitazione cui fare ritorno, perché molti centri urbani sono stati distrutti dai bombardamenti. Dan Hindsgaul, segretario generale di Amnesty international Danimarca, ha dichiarato di non comprendere le valutazioni delle autorità danesi, di fatto opposte a quelle di tutti gli altri Paesi, che non rispettano i diritti umani: «Le nostre ricerche dimostrano che i siriani che sono stati rimpatriati vengono sottoposti costantemente a interrogatori da parte delle forze di sicurezza siriane tristemente note per il ruolo svolto in arresti arbitrari, torture e uccisioni». Sebbene dunque, negli ultimi anni, il regime di Bashar al Assad abbia ripreso il controllo di quasi tutto il Paese e le ostilità militari siano fortemente diminuite, la Siria era e resta tutt’altro che un Paese sicuro. annuncio pubblicitario

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politica e economia

la mano lunga di pechino sul myanmar prospettive Ci sarebbe la Cina dietro la presa di potere della giunta birmana, il blocco di internet e social media

nonché il genocidio dei Rohingya. Popolo che con la sua presenza disturba la creazione dei «corridoi economici»

Francesca Marino Il processo-farsa ad Aung San Suu Kyi, la discussa leader birmana premio Nobel per la pace e vincitrice delle ultime elezioni svoltesi nel Paese prima del colpo di Stato avvenuto lo scorso 1° febbraio, è cominciato a porte chiuse settimana scorsa. E dietro le porte chiuse si continuano ad accumulare nuove accuse, alcune fantasiose altre più verosimili, contro la leader della Lega nazionale per la democrazia (Lnd), che ha detenuto il potere fino all’altro ieri. Non che Suu Kyi, appannata icona di democrazia contro la quale ci sono state proteste in tutto il mondo e petizioni per ritirare il Nobel assegnatole, abbia più la reputazione immacolata del passato. Il sostegno dato ai militari nella persecuzione e nel genocidio dei Rohingya, a favore dei quali la leader non ha mai speso una parola, neppure di generica solidarietà umana, pesa come un macigno. Così come pesano le giravolte ideologiche, politiche e geopolitiche compiute dal suo Governo nei mesi passati. Giravolte che, cercando di mantenere difficili equilibri senza mai prendere posizioni nette in un senso o nell’altro, hanno finito per scontentare un po’ tutti. A cominciare dall’ingombrantissimo elefante nella stanza: la Cina. La Cina che Suu Kyi, tra sorprese e polemiche, aveva scelto come meta del suo primo viaggio all’estero da premier, la Cina che aveva investito moltissimo, sia in termini eco-

nomici che di immagine, nel costruire una relazione con l’Lnd che però non si era rivelata fruttuosa come sperato. Perché, alla fine, dietro tutta la retorica ideologico-militare del colpo di Stato, si tratta sempre e solo di «corridoi» e di vile denaro. Del China-Myanmar economic corridor in questo caso, e delle preoccupazioni cinesi degli scorsi mesi. Dei 38 progetti sul tappeto, difatti, il Governo del Myanmar, quello eletto in modo più o meno democratico, ne aveva approvati soltanto 9. Non solo: il Governo stava cercando di sviluppare una serie di progetti con l’India, che del disegno espansionistico della Belt and road initiative è la prima e più decisa oppositrice. Sul tappeto la strada panoramica India-Myanmar-Thailandia, la rete di trasporto e transito multi-modale di Kaladan e una «Zona economica speciale» intorno al porto di Sittwe. Una spina nel fianco dei cinesi che difatti, secondo la maggioranza, sarebbero dietro alla presa di potere della giunta. Le dichiarazioni ufficiali sono state, come da copione, decisamente neutre ed esprimevano «preoccupazione» e addirittura «shock» per lo stato delle cose nel Paese. Però, e anche stavolta come da copione, Pechino ha prontamente bloccato una risoluzione del consiglio di sicurezza delle Nazioni unite che condannava il colpo di stato militare e l’arresto di Suu Kyi. Non solo. Secondo il think tank australiano Strategic policy institute,

Le tre dita alzate, simbolo delle proteste contro il colpo di Stato del 1° febbraio. (Keystone)

per molti giorni dopo il colpo di Stato, quando la giunta aveva già bloccato i voli, aerei non identificati, senza registrazione ufficiale, volavano sul Myanmar trasportando soldati e mercanzie cinesi di genere ignoto. Molto probabilmente armi, sostengono in molti. E, secondo il «Taiwan Times», truppe cinesi sono state avvistate attorno a parecchie città birmane. Il che, dato il modo in cui la Cina progetta i suoi corridoi economici, è del tutto ve-

rosimile. Con i lavoratori cinesi arrivano difatti invariabilmente le truppe, per «proteggere» i lavoratori suddetti. Il buon vecchio schema della Compagnia delle Indie orientali reiterato all’infinito, insomma. Ci sarebbe lo zampino di Pechino anche, secondo i dissidenti, nel blocco totale delle connessioni internet e dei vari Whatsapp e Telegram su cui, verosimilmente, si organizzano le proteste. E anche dietro il genocidio dei

Rohingya ci sarebbe la mano della Cina e la «sindrome del corridoio». Le terre abitate dai Rohingya sono difatti, guarda caso, parte essenziale dei progetti cinesi di «sviluppo e connettività». E Pechino, come già accaduto nel Belucistan pakistano, non vuole avere nulla a che fare con conflitti di tipo etnico-religioso. Che possono essere utilmente risolti, secondo la Cina, con la corruzione o, quando questa fallisce, seguendo l’ormai impareggiabile modello dello Xinjiang. Non a caso, ogni volta che è stato suggerito un piano di rientro per i Rohingya, il Myanmar ha proposto di reinsediare gli sfollati non nelle loro aree di origine ma in altre zone del Paese. Lande desolate, in pratica, che hanno il vantaggio di non essere di utilità alcuna per i progetti cinesi. A parte Aung San Suu Kyi, protetta in certo qual modo dalla sua fama, dal colpo di Stato del 1° febbraio sono state arrestate circa cinquemila persone di cui non si ha notizia e che difficilmente otterranno un processo, per quanto farsesco, come Suu Kyi. Invece i morti sono circa 900. La giunta apre il fuoco sui dimostranti o su semplici passanti che hanno la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, uomini, donne o bambini che siano. Mentre riprenderà presto, a quanto dicono, il contestatissimo progetto di costruzione di una diga con centrale idroelettrica a Myitsone, nel nord del Myanmar. Sponsorizzato, guarda caso, dalla Cina. annuncio pubblicitario

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politica e economia

l’ocse rispolvera l’idea di un’imposta di successione

Fiscalità Poco efficace sul piano fiscale, trova scarse giustificazioni tanto sul piano etico, quanto su quello puramente

economico. In Svizzera la proposta di introdurla a livello federale venne bocciata nel 2015 dal 71% dei votanti

Ignazio Bonoli Nei paesi più industrializzati sembra tornare di moda l’imposta sulle successioni, mentre alcuni paesi non l’hanno mai applicata e altri (compreso il canton Ticino nel 2000) l’hanno abolita, almeno per ascendenti e discendenti diretti. Ora però, su pressione di alcuni paesi industrializzati, ci si è messa anche l’OCSE. Nella sua ultima analisi, l’organizzazione, solitamente molto prudente, prende chiaramente partito per questa imposta e tenta di farla apparire accettabile, poiché finalizzata a rifinanziare le enormi spese causate dalla lotta contro l’epidemia di CoronaVirus. Essa le attribuisce virtù quali quella di fautore della parità fra ceti sociali o almeno di artefice di una riduzione delle disparità e della cattiva distribuzione delle ricchezze. Le attribuisce inoltre un ruolo importante anche per il finanziamento delle rilevanti spese rese necessarie dalla lotta contro la pandemia da Coronavirus. E questo proprio nell’intento di ridurre le disparità create negli ultimi due anni e di migliorare l’efficienza dei sistemi fiscali nazionali. Le disparità dei patrimoni, negli ultimi decenni, hanno subito un aumento considerevole negli Stati Uniti. Disparità che invece sono cresciute poco in paesi come Germania, Fran-

cia, Gran Bretagna o Corea del Sud. Per contro – statisticamente – è molto evidente la forte diminuzione delle disparità, cioè la percentuale di coloro che detengono i patrimoni maggiori rispetto alla maggior parte dei meno fortunati. Il che può far pensare che un’introduzione generalizzata di una nuova imposta non sia particolarmente urgente. Tuttavia, per giustificarne la necessità, l’OCSE si appella all’efficacia di questa imposta. Va detto che, sul piano teorico, anche per ambienti liberali, questa imposta crea qualche dilemma. Per esempio il premio Nobel James Buchanan aveva a suo tempo ventilato l’idea di un’imposta di successione al 100%, di modo che tutte le generazioni potessero ripartire alla pari. Tuttavia molti pensatori hanno seguito la scuola di Chicago di Milton Friedman che aveva ottenuto la soppressione dell’imposta negli Stati Uniti. L’esempio classico di queste tesi era quello di due coppie di sposi che durante la loro vita avevano gestito in proprio un’azienda. Mentre, dopo il pensionamento, una delle coppie ha vissuto in modo da scialacquare il suo patrimonio, l’altra ha continuato a vivere in modo modesto, e fu fiera di lasciare il patrimonio ai suoi eredi. In concreto sono parecchi i motivi per cui anche in questi momenti di necessità finanziarie, non è opportuno

introdurre una nuova imposta. Non solo a livello nazionale, ma nemmeno a livello cantonale. A parte le questioni di principio per cui lo Stato non dovrebbe mettere le mani sui beni delle famiglie, non va dimenticato che proprio in Svizzera i cantoni (e anche i comuni) applicano un’imposta sulla sostanza. Si arriverebbe perciò a colpire due volte fiscalmente il medesimo patrimonio. Senza contare che anche l’imposta sulla sostanza viene tollerata soltanto a livelli bassi. In caso contrario si provocherebbe, in molti casi, una progressiva distruzione proprio del capitale che genera l’utile sul quale si applica l’imposta principale. Questo vale a maggior ragione per le successioni nelle piccole e medie aziende, spesso a conduzione familiare. In sostanza la tassa di successione punirebbe il risparmio privato. Non a caso, nel 2015, la proposta di introdurre la tassa di successione a livello federale è stata respinta dal 71% dei votanti. Appare perciò pretestuoso quando l’OCSE pretende che questa tassa sarebbe «efficiente», nel senso che si applica una sola volta e, quindi, provoca pochi costi amministrativi. A giustificazione del rimprovero di tassare due volte uno stesso capitale, l’OCSE argomenta che anche l’IVA colpisce due volte uno stesso reddito già tassato, ma dimentica il ruolo delle im-

Toni accesi e slogan forti, durante la campagna per la votazione federale del 27 maggio 2015. (Keystone)

poste di consumo. È però evidente che ogni imposta o tassa, diretta o indiretta, non invoglia a risparmiare e, paradossalmente, riduce il substrato fiscale stesso a lunga scadenza. Ci si può chiedere come mai l’OCSE possa parlare dei vantaggi dell’imposta di successione, ben sapendo che a livello di paesi industrializzati genera in media solo lo 0,5% delle entrate fiscali. In Svizzera qualcosa di più. Nel canton Zurigo, per esempio, colpisce

solo il 13% delle masse ereditarie, ma negli Stati Uniti solo lo 0,2%, poiché si applica solo per le sostanze più elevate. Va però anche notato che, nella maggior parte dei casi, le sostanze ereditate fanno parte del capitale di aziende e non è per nulla opportuno tassare questo capitale. Tanto meno in un momento in cui una ripresa dell’economia è molto più urgente – e in sé anche più efficace – del finanziare un debito pubblico molto cresciuto. annuncio pubblicitario

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politica e economia

Venti anni fa i sans-papiers uscivano dall’anonimato

anniversari Nel 2001, gruppi di sans-papiers occupavano chiese e luoghi pubblici per sensibilizzare

l’opinione pubblica sul problema della regolarizzazione del loro soggiorno in Svizzera. Il ricordo di due protagoniste

Luca Beti «Me lo ricordo come se fosse ieri. Stavo seguendo distrattamente le notizie trasmesse dal telegiornale quando la mia attenzione è stata catturata dalle immagini dell’occupazione di una chiesa a Friburgo. Non credevo ai miei occhi. Finalmente le mie preghiere venivano esaudite. La lotta per la regolarizzazione dei sans-papiers aveva avuto inizio in Svizzera. Era la mia lotta, a cui volevo assolutamente partecipare», racconta oggi Maria Folleco, emigrante proveniente dall’Equador. Maria, che allora viveva nell’illegalità perché la sua richiesta d’asilo era stata respinta, si è così recata presso la chiesa Saint Paul di Friburgo. Il Lunedì di Pentecoste di vent’anni anni fa, il luogo di culto era stato infatti occupato dal «Collectif des sans-papiers». Per alcuni giorni, Maria si è aggirata guardinga, mantenendosi a distanza perché la chiesa era presidiata dalla polizia. «Non sapevo come fare, anche perché non parlavo quasi francese. Una studentessa latino-americana mi ha aiutata a entrare in contatto con il collettivo», ricorda la sessantatreenne. Maria si è unita al gruppo. Il «Collectif des sans-papiers» era composto di ex stagionali, lavoratrici e lavoratori in nero, richiedenti l’asilo respinti e da alcuni attivisti. Tra di loro c’era anche Sandra Modica, allora studentessa, oggi docente presso la Scuola universitaria professionale di lavoro sociale di Friburgo. «In quegli anni offrivo insieme ad altre persone consulenze giuridiche a sans-papiers che volevano regolarizzare la loro situazione. La legge in vigore non ci permetteva però di aiutarli tutti. Invece di abbandonarli al loro destino di clandestini abbiamo deciso di lottare al loro fianco sul piano politico», racconta la ticinese, allora trentenne. «L’idea di occupare una chiesa e di uscire dall’ombra è venuta proprio dai sans-papiers. È stata una decisione molto coraggiosa perché loro rischiavano l’espulsione». Dopo circa tre mesi di preparazione, il 6 giugno 2001 si è passati all’azione. Il «Collectif des sans-papiers» ha occupato la chiesa Saint-Paul e ha rivendicato la legalizzazione collettiva del loro soggiorno in Svizzera. «Ci siamo lanciati in questa avventura senza sapere bene quanto sarebbe durata», ricorda Sandra. «Siamo rimasti nella chiesa fino alla fine dell’estate. Da lì ci siamo spostati in un museo dove abbiamo ottenuto, per

Agosto 2001, davanti alla chiesa Saint Paul a Friborgo: i sans-papiers diventano persone con un volto e una storia. (Keystone)

così dire, asilo politico. Di sera stendevamo i nostri materassi sul pavimento di una sala d’esposizione che di giorno era aperta al pubblico. Dopo circa due mesi ci siamo trasferiti in una sala per concerti e poi, di posto in posto, la lotta è continuata per quasi due anni».

Nonostante la grande manifestazione nel 2001 a Berna, il parlamento riconfermò la prassi, respingendo la richiesta di una regolarizzazione collettiva Quella di Friburgo non è stata la prima occupazione in Svizzera. Il movimento dei sans-papiers era nato a Losanna. Il 25 aprile 2001, alcune famiglie kosovaro-albanesi, affiancate dal gruppo «En quatre ans on prend racine» (in quattro anni si mettono radici), avevano occupato la chiesa del quartiere Bellevaux. Si opponevano all’ordine di espulsione di 160 connazionali, molti ex stagionali giunti in Svizzera alla fine degli anni

Ottanta e Novanta. Dopo questa prima azione spettacolare, la lotta si estese in tutto il Paese, prima nella Svizzera francese, poi nella Svizzera tedesca e italiana, dove nacque il Movimento dei senza voce. Per la prima volta, le svizzere e gli svizzeri avevano scoperto che migliaia di persone vivono illegalmente nella Confederazione, senza un permesso di soggiorno valido e in condizioni di vita e lavoro precarie. «La solidarietà della popolazione è stata toccante», dice Maria. «In moltissimi hanno abbracciato la nostra causa e sono scesi per strada a lottare al nostro fianco. È un’esperienza che non dimenticherò mai». Nel 2001, Maria Folleco era una delle innumerevoli clandestine in Svizzera. Originaria del Nord dell’Equador ha raggiunto la Confederazione nel 1997 dove ha chiesto asilo per motivi di discriminazione razziale. Discendente di schiavi, l’afro-ecuadoriana ha lasciato a casa quattro figli, due ancora piccoli, affidandoli alle cure del padre e della madrina. Nel 1998 la sua richiesta d’asilo è stata respinta e Maria è stata invitata a lasciare il Paese. Si dà alla clandestinità. Vive alla giornata. Trova un alloggio di fortuna e inizialmente viene

sfruttata come baby-sitter e donna delle pulizie. Con il passare del tempo la sua situazione personale e professionale migliora. Quella di Maria è una storia esemplare dei sans-papiers. Sono persone che vivono in Svizzera senza un regolare permesso di soggiorno, ma non necessariamente senza un documento d’identità. Difficile conoscerne il numero esatto visto che vogliono passare inosservati e conducono una vita «normale». A dipendenza dei metodi di calcolo, il loro numero oscilla tra le 58mila e le 105mila persone. Stando all’ultima stima della Segreteria di Stato della migrazione risalente a sei anni fa, i sanspapiers sono 76mila. Due su tre sono immigrati clandestinamente. Altri non hanno lasciato la Confederazione allo scadere del permesso di soggiorno. Infine, ci sono i richiedenti l’asilo respinti che sono rimasti nonostante la decisione di espulsione delle autorità. Quattro su cinque sono originari dell’America latina, gli altri provengono da Africa e Asia o da Stati europei non membri dell’UE e dell’AELS. Quasi il 90 per cento lavora in nero. I più lavorano nelle economie domestiche, come donne delle pulizie, si occupano dei bambini

e delle persone anziane, sono impiegati nel settore delle costruzioni, della ristorazione e dell’albergheria, nell’agricoltura o nell’industria del sesso. «Ho abbracciato la lotta sapendo che potevo perdere tutto. Ma qual era l’alternativa? Vivere per sempre con la paura di essere scoperta ed espulsa», racconta Maria Folleco. Il «Collectif des sans-papiers» di Friburgo non ha chiesto la legalizzazione di una singola persona, bensì la regolarizzazione collettiva. «Ci siamo rifiutati di definire dei criteri. Volevamo la legalizzazione di tutti, indipendentemente dal Paese d’origine o dal percorso che li aveva portati in Svizzera, senza fare alcuna distinzione tra migranti economici e richiedenti l’asilo», spiega Sandra Modica. Le autorità hanno però rifiutato le richieste dei movimenti dei sans-papiers. Il desiderio di una regolarizzazione generale deve fare i conti con i pugni chiusi della politica federale. Dopo una grande manifestazione a Berna tenuta nel novembre 2001, il tema viene affrontato dal Consiglio nazionale e da quello degli Stati nell’ambito di un dibattito urgente. Entrambe le Camere confermano la prassi adottata dalle autorità, ossia la regolarizzazione di singoli casi valutando di volta in volta la situazione particolare del richiedente. È una stangata per i movimenti in tutta la Svizzera. «A livello politico è stata durissima», ricorda Sandra. «È stata una lotta sfiancante. Ci siamo trovati contro un muro. E così abbiamo proposto dei dossier di regolarizzazione individuale. Alcuni venivano accolti, altri no e ciò ha spaccato il movimento. In seguito è giunta la stanchezza e l’amarezza». Con il passare dei mesi, le occupazioni delle chiese e dei luoghi pubblici sono finite. La lotta non è stata tuttavia vana. Grazie a una serie di interventi parlamentari, si sono fatti alcuni passi avanti: i sans-papiers hanno diritto al soccorso d’urgenza, all’assicurazione infortuni, vecchiaia e superstiti, hanno l’obbligo di affiliarsi a una cassa malattia e ricevono gli assegni familiari. I figli dei sans-papiers possono andare a scuola e in seguito seguire un apprendistato. «Avere diritto alle assicurazioni sociali è stata una bella conquista», dice Maria Folleco, che ha ottenuto nel 2010 il permesso di soggiorno dopo 12 anni di clandestinità. «La lotta non è però finita. Dobbiamo batterci per le nuove generazioni di illegali visto che il fenomeno della migrazione ci sarà sempre». annuncio pubblicitario

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politica e economia Rubriche

Il mercato e la piazza di angelo Rossi un ticino tutto urbano Ci fu un tempo, non poi così lontano, in cui il Ticino si divideva in due zone: la zona urbana formata dai quattro agglomerati di Mendrisio-Chiasso, Lugano, Bellinzona e Locarno, e la zona rurale formata dal territorio delle valli e dalle montagne del Sottoceneri e del Sopraceneri. Nella zona rurale viveva, ancora 50 anni fa, un terzo della popolazione residente nel Cantone; gli altri due terzi abitavano già le città e i comuni suburbani dei quattro agglomerati. Nel corso degli ultimi 50 anni gli agglomerati – il cui perimetro, è utile ricordarlo, viene definito dell’Ufficio federale di statistica (l’ultima revisione è stata fatta nel 2012) – sono andati sempre più allargandosi. Oggi essi hanno confini comuni e occupano praticamente tutta la superficie del Sottoceneri, il piano di

Magadino, buona parte della Riviera e delle Centovalli, nonché l’imbocco delle valli Maggia e Verzasca. Per effetto di questo allargamento delle superfici degli agglomerati, la popolazione urbana rappresenta oggi quasi il 90% della popolazione residente nel Cantone. La quota della popolazione rurale, invece, non costituisce più che il 10% del totale. In termini di superficie il Cantone, invece, continua ad essere diviso in due: gli spazi urbani occupano una metà della superficie cantonale, le zone rurali l’altra metà. Ma gli ettari di superficie che, un tempo, costituivano la ricchezza dei comuni di valle e di montagna, hanno perso, con il declino delle attività agricole, molto della loro importanza. Tanto più che oggi sono diventati bosco e non sono più lavorati. Se dalla popolazione dovessimo passa-

vece, ingloba il territorio servito dalle reti ferroviarie suburbane e quindi potrebbe andare da Biasca a Luino e a Como, se non addirittura fino a Varese, per integrare la parte maggiore della fascia di frontiera italiana abitata dai frontalieri occupati nel Cantone. Altri ancora si tengono alla definizione ufficiale di spazi a carattere urbano, come vengono chiamati gli agglomerati urbani oggi, accettando, magari, di aggiungere agli agglomerati sottocenerini una piccola coda e due alette che penetrano nel territorio della vicina Italia. Indipendentemente dalla sua definizione precisa, il territorio della città-Ticino costituisce sicuramente la parte più dinamica del Cantone. Nei suoi agglomerati sono localizzati anche, quasi senza eccezione, i comuni e i contribuenti più ricchi del Cantone.

I lettori non saranno quindi sorpresi di apprendere che qui si concentrano gli investimenti pubblici e privati. Tutte queste realtà testimoniano che, nel corso degli ultimi due decenni del passato secolo e dei primi due di quello nuovo, il già fragile equilibrio tra zona rurale e zona urbana del Cantone si è rotto, nonostante tutti gli aiuti e tutte le misure che il Cantone ha preso per sostenere le regioni rurali e di montagna. Sono molte le conseguenze scaturite da questa nuova situazione. Una, che si afferma per la sola forza dei rapporti, è che la zona rurale è oggi così piccola che non può più vivere delle sole sue risorse. Né possono, con le sole loro risorse, risolvere i numerosi problemi che devono affrontare le persone che vivono ancora nella metà rurale del nostro territorio cantonale.

Mondiale decente. All’ultimo Europeo Antonio Conte fece un mezzo miracolo, battendo Belgio e Spagna e portando ai rigori la Germania campione del mondo con Pellè centravanti. Poi abbandonò gli Azzurri al loro destino per andare al Chelsea. Ora finalmente l’Italia si riaffaccia su una competizione internazionale. Gli Europei si dovevano giocare l’anno scorso. Sono stati rinviati, ma ora si gioca. Non sfugge a nessuno che questo coincide con un momento particolare nella storia europea. Il calcio è stato prima bloccato, poi costretto a sbarrare le porte degli stadi, privandosi del proprio elemento naturale: i tifosi. Alcuni tra i più grandi campioni hanno avuto la Covid, che non ha risparmiato neppure l’avvicinamento agli Europei. Non sarà un campionato come gli altri. Presenterà più problemi da risolvere. Ma sotto altri aspetti sarà ancora più bello. Compresa la formula itinerante, destinata ad accomunare un Continente che ha molto sofferto in questo ultimo tempo, e per qualche giorno pure a riunificarlo, compresa la Londra della Brexit che ospiterà la finale. Anche le classiche serate estive a casa dei parenti e degli amici avranno un sapore particolare. E non solo perché

in Italia sono oggetto di litigi tra il ministro della Salute, di sinistra, e i governatori di destra. Alla fine sarà una questione di buon senso: rispettando le regole scritte e quelle in ogni caso legate alla prudenza, non potranno privarci del rito della partita in compagnia. Ben venga il calcio europeo, quindi. Ma attenzione a non abbassare la guardia. Il «Daily News», quotidiano di New York, titola a caratteri cubitali: «It’s over», è finita. E anche molti di noi ne sono convinti. Stiamo cioè commettendo lo stesso errore di un anno fa, in questi stessi giorni: pensare che la pandemia sia un brutto ricordo e che tutto possa ricominciare come prima. Purtroppo non è così. Lo confermano le notizie che arrivano da Londra, con i casi in aumento, la diffusione della variante indiana (Delta), il rinvio delle riaperture. Intendiamoci, è giusto ricominciare a vivere. Riaprire ristoranti, cinema, teatri. Recuperare quel gusto della socialità, quel calore delle relazioni umane che rende dolce la vita, in particolare d’estate. Più che gli assembramenti, preoccupa la sensazione che si sta diffondendo: che ormai ne siamo fuori e quindi non ha senso fare la

seconda dose del vaccino, iniettare la prima ai giovani. Purtroppo non è così. Gli esperti possono anche essersi contraddetti in questi mesi, ma su un dato sono concordi: il vaccino serve. Eviterà che il virus torni a diffondersi tra qualche mese con la forza dell’autunno scorso. Protegge dalle varianti. Se anche non può immunizzarci al cento per cento, ci salva dalle forme più gravi della malattia, quindi previene l’intasamento degli ospedali e il blocco del sistema sanitario, da cui deriverebbe l’esigenza di richiudere tutto. Certo, tutti siamo stanchi, quando vediamo un virologo in Tv cambiamo canale, quando sentiamo nominare la «variante Delta» sbuffiamo come fosse un brutto film di spionaggio. Ma illuderci che sia tutto passato ci porterebbe a un’amara disillusione. Fino a quando non saremo vaccinati quasi tutti, non potremo stare tranquilli. E fino a quando non sarà vaccinato il resto del mondo, ci sarà sempre il pericolo che il virus ritorni, in qualche forma. Perché ormai si è capito che nessun blocco dei voli, nessun limite – per quanto necessario – è risolutivo. Quindi godiamoci il calcio, ma senza diventare né imprudenti, né isterici.

In quest’opera enciclopedica, che all’epoca conobbe un enorme successo, l’autore tracciava una parabola che avrebbe condotto i paesi occidentali al crepuscolo. Tra le cause della decadenza Spengler annoverava il progressivo regresso delle nascite, un fenomeno che si era inserito come una tara nella vita di coppia. La principale causa era da ricercarsi nell’emancipazione femminile avvenuta nel passaggio dalla comunità rurale alla società industriale: «La donna originaria, la donna del contadino, è madre. Tutta la sua vocazione bramata fin dalla fanciullezza è chiusa in questa parola. Ma ora appare la donna di Ibsen [Henrik Johan, drammaturgo norvegese, famoso per Casa di bambola], la compagna, l’eroina di una tipica letteratura da grande città che va dal dramma nordico al romanzo parigino. Queste donne invece di figli hanno conflitti psichici, il matrimonio per esse è un

problema d’arti applicate, l’essenziale è la “reciproca comprensione”». La diagnosi di Spengler non rimase lettera morta. La prospettiva che la «razza ariana» fosse in procinto di scomparire, incalzata da «razze» più giovani, vigorose e soprattutto più prolifiche, ispirò una serie di misure volte ad incrementare la natalità. Penalizzato era chi non poteva procreare (tassa sul celibato); veniva invece premiato chi era in grado di mettere al mondo una prole numerosa. La minaccia da contrastare, come recitava un significativo volumetto pubblicato nel 1928 con prefazione dello stesso Spengler e di Mussolini, era «regresso delle nascite: morte dei popoli». Solo un organismo demograficamente vitale avrebbe potuto affrontare con successo la lotta per la sopravvivenza. Oggi ragionamenti simili su base razziale non hanno più cittadinanza,

almeno nelle politiche per la famiglia. E tuttavia non manca mai chi mette sotto accusa la donna-lavoratrice, la donnaemancipata, colpevole di anteporre la carriera al suo destino «naturale» di moglie e madre. Segnali in questo senso sono emersi anche nel nostro piccolo Ticino, dopo che le statistiche hanno rilevato tendenze demograficamente preoccupanti per i prossimi anni. Urge quindi intervenire, ma non nel senso auspicato da Spengler e dai suoi discepoli in camicia nera. Infatti non in tutte le aree dell’Occidente industrializzato il rapporto nascite-decessi ha assunto la traiettoria osservabile nel nostro cantone o nella vicina Italia. Chi nel tempo ha saputo sviluppare un «welfare» modulare, con strutture adeguate ai bisogni delle famiglie (asili non intesi come semplici parcheggi, aiuti finanziari mirati, sgravi fiscali) guarda ora al futuro con maggiore serenità.

re alle attività economiche ci accorgeremmo che la quota degli agglomerati è addirittura superiore al 90% di qualche punto. La stessa constatazione potremmo farla se ci riferissimo a un indicatore come il prodotto interno lordo. Governo e Gran Consiglio hanno preso atto di questa evoluzione nella revisione del piano direttore cantonale. Nella stessa, varata più di dieci anni fa, trattando degli insediamenti si parla di città-Ticino, un concetto che, nel frattempo, è diventato, se non popolare, sicuramente molto alla moda. Non passa settimana che non se ne discuta in questo o quest’altro foro della nostra opinione pubblica. Il vantaggio di questo concetto è di essere molto elastico. Per taluni la città-Ticino va da piazza del Duomo a Milano fino al passo del San Gottardo. Per altri, in-

In&outlet di aldo Cazzullo Godiamoci il calcio ma con prudenza Sono stato a vedere Italia-Svizzera allo stadio Olimpico di Roma e c’era un’atmosfera bellissima. Tifosi italiani e svizzeri (molti svizzeri) fianco a fianco. Gesti di rispetto e di simpatia. Una partita bella e veloce, lasciamo perdere il risultato. La Svizzera è una squadra multietnica, quindi più moderna. L’Italia non ancora.

Ai Mondiali 2018 l’Italia non c’era: eliminata ignominiosamente nei gironi. Fu un torneo molto tecnico, semifinali e finale giocate al fresco di San Pietroburgo e Mosca, con Putin in tribuna e la statua di Lenin fuori dallo stadio a riassumere il concitato secolo russo. Se è per questo, è dalla vittoria del 2006 che la Nazionale italiana non gioca un

Una vista di Piazza del popolo a Roma prima della partita. (shutterstock)

cantoni e spigoli di Orazio martinetti Il declino non è inevitabile I dati indicano che la lunga marcia attraverso il deserto pandemico volge al termine, almeno nell’Europa occidentale. Nel giro di pochi mesi i ricercatori sono riusciti ad approntare una batteria efficace di vaccini. Anche se la curva dei contagi dovesse risalire con l’arrivo della stagione fredda, è poco probabile che raggiungerà i picchi che abbiamo conosciuto finora. Cento anni or sono, l’influenza nota sotto il nome di «spagnola» fece in Svizzera circa 25mila vittime, su una popolazione totale di 3 milioni e 800mila anime (0,65%); dal marzo dell’anno scorso il Covid-19 ha stroncato meno di 11mila vite, su una popolazione di oltre 8 milioni e 600mila (0,12%). Il sistema medicosanitario ha dunque retto, dopo un primo, comprensibile smarrimento, dovuto all’alta letalità del virus, le cui origini non sono state ancora chiarite. Certo, è difficile confrontare le due epoche, sia

sul piano del contesto generale, sia sul piano del progresso medico. Nel 1918 la «spagnola» si diffuse in un paese rimasto integro ma prostrato dall’incertezza sull’esito della guerra e da opprimenti ristrettezze economiche: situazione che acuì i contrasti sociali, poi sfociati nello sciopero generale del novembre. Niente di tutto questo si è registrato nel biennio 2020-2021: nessun blocco delle importazioni e nessun sogno rivoluzionario alle viste; solo un’inquietudine su un modello di sviluppo che sembra distruggere le basi su cui ha prosperato. L’inquietudine circola soprattutto tra i giovani che manifestano per la salvezza del pianeta; ma come definire questo stato d’animo, come circoscriverlo? Una risposta la fornì, proprio un secolo fa, un saggista tedesco, Oswald Spengler, il quale – tra il 1918 e il 1922 – diede alle stampe un grosso volume intitolato Il tramonto dell’Occidente.


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cultura e spettacoli le nostre radici a svitto La sede svittese del Museo nazionale invita alla scoperta del passato della Svizzera

Hamlet è (anche) donna Antonio Latella ha messo in scena un lungo Amleto, affidando il ruolo principale alla giovane Federica Rosellini

Il freddo dentro Un doppio percorso di scoperta e sofferenza nel nuovo, avvincente libro di Froelich

pagina 35

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le vedute di sugimoto Alla Fondazione Rolla di Bruzella le immagini pregnanti di Hiroshi Sugimoto pagina 39

pagina 37

Un’illustrazione di Augusto Boal realizzata da Ledwina Costantini. (ledwina Costantini)

a teatro con Boal

teatro La Dino Audino Editore pubblica l’opera didattica del regista brasiliano Daniele Bernardi Recentemente, dopo l’attesa riapertura dei teatri, la visione di alcuni spettacoli mi ha spinto a riflessioni sulle necessità che dovrebbero essere la premessa di quest’arte. Il caso ha voluto che, al contempo, stessi leggendo Giochi per attori e non attori, primo tomo dell’importante opera di Augusto Boal che, dal 2020, la Dino Audino Editore ha inserito nel suo catalogo ed è oggetto principale di questo mio scritto. Ma viene naturale, nell’approfondire e conoscere la pratica di un maestro che ha rischiato la pelle e vissuto l’esilio in nome della ragione del proprio mestiere (Boal operò in Brasile negli anni 60 e, dopo essere stato arrestato e torturato, nel 1971 lasciò il paese per tornarvi nella seconda metà degli anni 80) confrontare ciò che si apprende dalla pagina con quanto avviene nel proprio presente. In particolare sono state due creazioni ad aver fatto sì che mi interrogassi su che tipo di teatro avremmo forse bisogno, oggi. La prima affrontava un discusso fatto di cronaca, lungamente combattuto e sofferto, il quale ora, in parte anche grazie alla risonanza di un

film, sembra avere infine avuto giustizia. L’altro, invece, aveva come tema la memoria dell’Olocausto. Entrambe le opere, quindi, sceglievano di scontrarsi con realtà estremamente concrete, estremamente dure e piuttosto conosciute – magari in modo superficiale, ma comunque molto narrate – attraverso drammaturgie costruite ad hoc. Quello che stupiva nei due lavori – tra l’altro di artisti di generazioni lontane l’una dall’altra – era che, nonostante il centro di ogni operazione fosse un fatto storico la cui conoscenza è condivisa, ci fosse stata la volontà artistica di una scrittura originale ma mancasse un elemento particolare – di tipo civile, non di mero «stile» – che facesse da perno strutturale all’operazione. In parole povere, era come se i fatti venissero riportati attraverso formule standardizzate e dati noti che, purtroppo, poco aggiungevano a quanto il pubblico già sapeva e che, a mio avviso, giustificavano a fatica la ragione d’essere di ambedue le iniziative. Ciò mi pare diverso da quanto si proponeva Boal – il quale usò lungamente il teatro proprio come strumento di intervento sociale e politico – con l’ideazione di quella disciplina a cui

diede nome di Teatro dell’Oppresso, oggi ancora utilizzata da molti (anche in Svizzera italiana vi sono degli esempi). Infatti, fra gli scopi dei tanti esercizi di Giochi per attori e non attori c’è quello di rompere le meccanizzazioni che irrigidiscono il nostro «racconto della realtà» per fare emergere nuove prospettive del problema affrontato. Al contrario di quanto si potrebbe credere, infatti il teatro non è il luogo in cui ritroviamo noi stessi, ma quello in cui perdiamo l’orientamento rispetto a ciò che sappiamo. Non si va a teatro per sentirsi dire ciò che si conosce o che i media ripetono, ma perché si necessita di una visione, perché qualcosa che il teatro soltanto può provocare accada al di là dell’idea stessa di rappresentazione. Ecco la ragione per la quale Carmelo Bene sosteneva che un certo fare teatro è «un giochetto borghese» ed ecco perché le riflessioni di Boal, oggi, ci possono ancora interessare. Il libro pubblicato da Dino Audino contiene quello che il regista brasiliano chiamava l’«arsenale del Teatro dell’Oppresso», cioè la serie di «giochi» il cui obiettivo è risvegliare i partecipanti dal torpore fisico e psichico delle consuetudini: esercizi che invitano a

un uso dissociato del corpo, a una diversa esplorazione dello spazio che lo ospita; proposte ritmiche e vocali che divengono vere e proprie narrazioni collettive; creazioni di immagini che, attraverso il coinvolgimento fisico dei partecipanti, permettono di mettere in luce relazioni di potere tra oppressi e oppressori di una determinata realtà (lo ripetiamo: Boal, il quale visse anche in Europa, fece esperienza delle dittature latinoamericane). Ma soprattutto, in Giochi per attori e non attori, sono riportate le regole di sistemi quali il teatro-forum, il cui obiettivo prevede la messa in scena di un preciso conflitto all’interno di una comunità attraverso la partecipazione dei membri di quest’ultima; una pratica scenica, quindi, che vuole farsi davvero strumento di disvelamento, di possibilità di scoperta e trasformazione attraverso la visione teatrale. Ciò detto, se comparo la mia recente esperienza di spettatore alla lettura dell’opera didattica di Boal, non è perché io creda che si debba fare o vedere teatro-forum dalla mattina alla sera per sentirsi davvero a teatro. Se nel consigliare il libro di Boal (i cui esercizi sono tra l’altro rivolti a chiunque,

perché, come diceva lui stesso, «tutti possono fare teatro, persino gli attori») mi permetto di riflettere, in generale, sul senso di un teatro che si vuole fare portavoce di determinate situazioni di sofferenza, è perché le sue pagine mi suggeriscono l’importanza, che il nostro tempo sempre più esige, dell’aggiungere qualcosa se si affrontano i drammi sociali o storici del mondo che abitiamo. «Sono convinto che tutte le scuole teatrali (...) possono essere utili in un dato luogo e in una data epoca; ma ho scoperto che è possibile vivere soltanto se si ha un’ardente identificazione con un punto di vista», recitava la «nostra» Cristina Castrillo – chiosando Peter Brook – nel suo storico Umbral (1999): che il teatro allora, soprattutto quello che cerca il confronto con una materia incandescente, si faccia davvero carico della sofferta ricerca di quel punto di vista e nient’altro. Bibliografia

Augusto Boal, Giochi per attori e non attori. Introduzione al Teatro dell’Oppresso, Roma, Dino Audino Editore, 2020, pp. 192.


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cultura e spettacoli

le origini della svizzera in mostra musei Su tre livelli e un ambiente suggestivo la nascita del patrio suol, esposizione permanente

con metodologie moderne e interattive Tommaso Stiano Forse non tutti sanno che il Museo nazionale svizzero è distribuito su quattro sedi, ossia un centro di ricerca e tre musei. Nel comune zurighese di Affoltern am Albis è ubicato il moderno Centro delle collezioni con 860mila oggetti e i laboratori di fotografia, conservazione e restauro. La sede espositiva più grande, da poco rinnovata e ampliata, è a Zurigo accanto alla stazione centrale ed è conosciuta anche da noi con il nome tedesco di Landesmuseum; a Prangins, sulle rive del Lemano vodese, troviamo il Château de Prangins e nella cittadina di Svitto il Forum della storia svizzera. Le tre sedi museali, oltre a esibire le loro collezioni permanenti di storia, arte e cultura svizzere, organizzano mostre temporanee di vario genere che riguardano il nostro territorio. Ma, addentriamoci nel museo svittese. Il museo di svitto e la mostra permanente

A cinque minuti di bus dalla stazione ferroviaria, nel centro storico della città di Svitto troviamo il Forum della storia svizzera, così si chiama lo spazio che accoglie l’esposizione permanente dedicata alle origini della Confederazione. Aperto nel 1995 in uno stabile ristrutturato che un tempo era granaio e arsenale, il museo vuole rispondere a questo triplice interrogativo: «Dove, come e quando è nata la Svizzera?». Ecco spiegato perché

l’itinerario storico centra l’attenzione solo sul periodo che va dal XII al XIV secolo, periodo che è presentato su tre dei quattro livelli dello stabile, quello sotterraneo è riservato alle mostre temporanee. Si comincia dall’alto, un cammino tra le cime delle montagne che permette di scorgere un’ampia porzione del Vecchio Continente. Infatti, nei locali del secondo piano sono presentate le vicende dell’Europa centromeridionale che fanno da contesto geopolitico al formarsi del territorio nazionale. La Svizzera nacque in seno al Sacro Romano Impero a partire dal Duecento, epoca di imperatori che concedevano diritti territoriali a nobili e cavalieri nelle località a ridosso delle Alpi centrali. Con alcuni documenti veri e altri riprodotti, avvalendosi di moderni sistemi digitali e interattivi, i fatti storici sono esposti nelle tre lingue nazionali e in inglese. L’importanza dei monasteri e gli amanuensi, la nascita delle università e lo studio delle sette arti liberali, l’introduzione delle cifre indoarabiche e i primi libri contabili, lo sviluppo economico e l’aspirazione autonomista di alcune città dell’impero sono i primi argomenti che coinvolgono il visitatore. Una rampa di scale ci porta poi al primo piano, il campo visivo si restringe agli scambi commerciali a lunga e breve distanza; protagoniste sono le vie di transito attraverso l’arco alpino, primariamente la «Via delle genti»

Particolare di una pergamena (attorno al 1330) con 28 vessilli vescovili e 559 stemmi della nobiltà sud-occidentale del Sacro Romano Impero. (t. stiano)

che valica il San Gottardo a partire dal XIII secolo e che comporta la circolazione di persone e mercanzie con nessi e connessi: sentieri e mulattiere, soste e ospizi, dazi, somieri, mercati, fiere, denari, cambiavalute e il protettore dei viandanti San Cristoforo. Su questo piano spicca per bellezza la «Schwarze Stube», il soggiorno del 1311 salvato appena in tempo durante la demolizione di una casa tipica svittese. Come alcuni borghi italiani, in quel periodo anche le comunità a nord delle Alpi cercano e pretendono una certa autonomia decisionale; nasce così il primo

nucleo confederato cui gli Asburgo cedono i propri diritti e, superando varie difficoltà, i primi cantoni svizzeri cominciano a deliberare su questioni di governo locale (Landsgemeinde, Patto del 1291). Scendiamo ancora e arriviamo al piano terra dove ci accoglie una mucca morta, indizio delle numerose faide interne alle comunità vallerane che rendevano insicura la vita degli abitanti e delle loro proprietà, un grosso problema che poi i cantoni hanno saputo risolvere. Entriamo quindi in una fitta selva oscura allestita di pro-

posito per ricordare che la Svizzera è nata nei cantoni forestali. I tronchi si aprono e mostrano delle vetrine che spiegano l’evolversi della storia patria con le alleanze tra i cantoni per arginare gli Asburgo nella battaglia di Sempach del 1386. Quasi cent’anni dopo questo decisivo conflitto viene pubblicato il Libro bianco di Sarnen, redatto dal cancelliere di Obvaldo, dove sono narrati i tre miti fondatori svizzeri, una sorta di Trinità laica con la leggenda di Guglielmo Tell (campione della libertà), il giuramento del Grütli e le gesta di Arnold von Winkelried, eroe a Sempach. Le risposte alla domanda iniziale comprendono pure i miti, i quali contribuiscono a creare il pathos attorno a una nazione, consolidano le comunità e giustificano l’autodeterminazione, anche loro devono essere conosciuti purché non vengano confusi con la verità dei fatti. E alla fine dell’itinerario, per la gioia dei bambini… da zero a cent’anni, ci sono vesti, armature e scudi finti per un simpatico quadretto in fogge da cavaliere a ricordo della visita. dove e quando

Le origini della Svizzera. In cammino dal XII al XIV secolo, Museo Nazionale Svizzero-Forum della storia svizzera, Zeughausstrasse 5, 6430 Schwyz. Orari: lu chiuso; ma-do, 10.00-17.00. Altre info: www.forumschwytz.ch annuncio pubblicitario

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cultura e spettacoli

Hamlet e Federica

maschere e rituali all’ombra della cava...

teatro In scena al Piccolo Teatro di Milano, regia di Antonio Latella

Giovanni Fattorini Nella terza messinscena di Amleto firmata da Antonio Latella, le parole del protagonista (che qui si chiama Hamlet, come nel testo originale) sono recitate da una donna (la giovane Federica Rosellini). L’idea non è nuova. In Italia l’avevano già messa in atto Giacinta Pezzana (1878) e Emma Gramatica. Fuori d’Italia, le più famose interpretazioni en travesti del principe di Danimarca sono quella di Asta Nielsen (in un film del 1921 che si basava sulle teorie di un professore americano, secondo il quale Amleto era una donna allevata come un uomo per motivi dinastici), e quella impavidamente proposta nel 1899 dalla cinquantaseienne Sarah Bernhardt. A proposito della quale, in una delle lezioni su Shakespeare tenute nel 1947 presso la New School for Social Research di New York, W.H. Auden ebbe a dire: «Singolarmente, tutti cercano di identificarsi con Amleto, comprese le attrici – e fu proprio mentre recitava nei panni di Amleto che Sarah Bernhardt, non mi duole affatto ricordarlo, si ruppe una gamba».

L’Hamlet di Antonio Latella dura sei ore e quaranta minuti e si svolge per intero alla luce Spero di tutto cuore che Federica Rosellini non si rompa una gamba, ma temo che possa riportare seri danni a entrambe le rotule, dato che nelle prime due ore di spettacolo è costretta a tenerle ininterrottamente poggiate su un inginocchiatoio. Ma perché una donna nei panni di Amleto? «Per me»

Federica Rosellini è Hamlet. (masiar Pasquali)

ha detto Latella «l’Hamlet del XXI secolo va oltre la sessualità, oltre la distinzione donna/uomo, per approdare a una condizione altra. […] nei classici le parole non hanno genitali, volano talmente al di sopra di tutto, da fare la differenza.» Personalmente, penso che «grado e specie di sessualità di un uomo», come ha scritto Nietzsche, «si estendono sino all’ultimo vertice del suo spirito». E se le parole dei classici non hanno genitali, come afferma Latella, i personaggi dei classici (io sono tra coloro a cui interessano i personaggi, non i «vettori del testo» di cui parla il regista) sicuramente li hanno, e in qualche caso sono assai vistosi: ad esempio quelli del petroniano Ascilto, che apparendo tutto nudo ai bagni suscita l’applauso di una folla ammirata e

deferente (Satyricon, 92, 9). È stato detto che il personaggio Amleto, e l’opera drammatica di cui è il protagonista, costituiscono uno dei più alti e intensi momenti di autocoscienza della civiltà occidentale. E tuttavia, alla domanda «chi è Amleto?» non è mai stata data una risposta convincente. Lo dimostra il fatto che da quattrocento e più anni è oggetto di innumerevoli interpretazioni, rimodellamenti e parodie. Oggi, a mio parere, chi voglia proporre un’interpretazione che sia di qualche interesse e novità è comunque tenuto a essere chiaro, per dirla in termini latelliani, circa la natura dei «genitali» di Amleto: che sono quelli di un uomo. Naturalmente, non è necessario esibirli in modo plateale, come il regista napoletano ha fatto con alcuni perso-

naggi maschili di certi suoi precedenti spettacoli. Nella prima parte della messinscena, l’Hamlet di Federica Rosellini (che ha capelli ondulati e lunghi fino alla vita) indossa un’ampia tunica bianca; nella seconda, un abito nero e inequivocabilmente femminile, sovrapposto a quello precedente (contrapposizione e sovrapposizione di colori e fogge dei costumi sono proprie anche degli altri personaggi). Povera di timbri, la sua voce non si fa neppure apprezzare per varietà di toni (sono ancora impressionato, ad esempio, dalla sbrigativa piattezza con cui pronuncia le memorabili battute sul teschio di Yorick). Ciò dipende sicuramente anche dal fatto che la Rosellini, aderendo al disegno registico di non dare vita a un personaggio, ma di dare voce a un «vettore del testo», ha cercato di astenersi per quanto possibile (al pari degli altri attori) da inflessioni peculiari, sottili sfumature emotive e sentimentali, sottolineature inequivocabili. Di conseguenza, l’Hamlet di Rosellini-Latella, in quanto personaggio, ha scarso rilievo e colore. Per me, quindi, è poco interessante. Intervalli compresi, lo spettacolo dura sei ore e quaranta (anche perché il testo tradotto da Federico Bellini non ha subito tagli) e si svolge per intero in piena luce (come La tragédie d’Hamlet di Peter Brook, anno 2001). Naturalmente, sono molte le cose che meriterebbero un commento, a cominciare dalla drammaturgia di Linda Dalisi, che rende poco coinvolgente l’azione narrativa. Ho preferito focalizzare la figura del protagonista en travesti, perché è quella più pubblicizzata dai titoli giornalistici. dove e quando

Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 27 giugno.

Il telefonino e i dioscuri

massimario classico Questione di educazione, fortuna e,

in casi eccezionali, di un pizzico di eroismo Elio Marinoni Memoria minuitur nisi eam exerceas «La memoria si affievolisce, se non la si esercita» (Cicerone, La vecchiaia, 7, 21) Ordinem esse maxime, qui memoriae lumen adferret «È soprattutto l’ordine, che illumina la memoria» (Cicerone, L’oratore, II, 353) Tra la serata di venerdì 1. luglio e il sabato 2 luglio 2016 un attentato terroristico di matrice islamista provocò la morte di più di venti ospiti (di cui nove italiani e sette giapponesi) del ristorante Holey Artisan Bakery di Dacca (Bangladesh). Tra gli scampati alla strage figurava il conte Gian Galeazzo (detto Gianni) Boschetti, imprenditore tessile modenese da oltre vent’anni stabilitosi in Bangladesh. Il Boschetti si salvò perché, raggiunto da una chiamata di lavoro sul telefono cellulare mentre si trovava a tavola con la moglie e con amici, per educazione – come egli stesso ebbe poi a spiegare – si era alzato e recato in giardino; stava per rientrare, chiamato dalla moglie, quando, avvistati due uomini armati, corse a rifugiarsi dietro un cespuglio. Da qui, il Boschetti telefonò all’Ambasciata d’Italia lanciando l’allarme e seguendo poi per parecchie ore le diverse fasi dell’attentato prima di mettersi in salvo all’esterno del complesso. Ora però era attanagliato – ebbe a dichiarare – dai sensi di colpa.

La vicenda si presta ad alcune riflessioni. L’uso smodato del telefono cellulare, fino a fenomeni di vera e propria dipendenza (phone addiction), e i danni che ne possono conseguire sul piano personale e interpersonale (si pensi al film Perfetti sconosciuti, spassoso ma al tempo stesso inquietante) sono da qualche tempo oggetto di studio di esperti della comunicazione, sociologi e filosofi*. Da questo punto di vista il caso del Boschetti è edificante a rovescio, non tanto perché offre una testimonianza in più delle potenzialità positive di questo ritrovato tecnologico (un esempio per tutti, di sconvolgente e coinvolgente attualità: le videochiamate, agevolate da umanissimi infermieri, tra i parenti e i malati di Covid, isolati nelle loro stanze d’ospedale), ma perché nella fattispecie l’uso discreto del telefonino, imposto al conte dal bon ton, si è addirittura rivelato per lui salvifico. Quanto alle modalità della «salvazione» (lo squillo del cellulare e il conseguente spostamento del Boschetti all’esterno della sala), esse presentano una singolare analogia con un episodio riferito da Cicerone (De oratore, II, 352-353): il poeta lirico greco Simonide di Ceo, ospite a cena alla corte del tiranno Scopas a Crannon in Tessaglia, fu da lui rimproverato per una digressione troppo lunga sui Dioscuri (Castore e Polluce) in un componimento poetico commissionatogli; poco dopo, fu avvisato che fuori della porta c’erano due giovani che lo cercavano; egli allo-

In scena ...mentre

Flavio Sala potrebbe finalmente osare

Giorgio Thoeni Le opere d’arte africane esposte nei musei etnografici europei spesso sono state sottratte indebitamente e nutrono il dibattito sempre attuale sulla ricollocazione dei beni artistici. È il tema che ha ispirato Juri Cainero e la sua compagnia Onyrikon per Lo specchio di Iyagbon, spettacolo andato in scena con successo alle Cave di Arzo e nato dall’incontro del regista con Samson Ogiamien. Scultore nigeriano, discendente da una famiglia fra le vittime di un terribile massacro e saccheggio perpetrato a Benin City dai soldati britannici nel 1897, Samson ha realizzato la maschera di Yagbon, divinità del pantheon nigeriano, simbolo della terra e protettore degli artisti. Il pretesto teatrale si trasforma in un percorso

Samson Ogiamier insieme a Juri Cainero.

inverso, dove l’oggetto viene sottratto al museo per essere restituito alla sua dimensione rituale. Il pubblico, prima di sistemarsi nell’anfiteatro della cava, passa in rassegna diverse opere: è l’introduzione allo spettacolo, avvolto in uno scenario suggestivo per un rituale magico, dove maschere collettive animano il progetto di Juri Cainero, Beatriz Navarro, Samson Ogiamien e uno stuolo di interpreti. talento e popolarità a teatro

ra si alzò e uscì, ma non vide nessuno. Proprio in quell’istante, il soffitto della sala da pranzo crollò seppellendo sotto le macerie il tiranno e tutti i convitati. I due giovani che avevano attirato all’esterno il poeta erano i semidei Castore e Polluce. Ricordandosi la posizione che i commensali occupavano a tavola, il poeta operò il riconoscimento degli sfigurati cadaveri, dimostrando così l’importanza delle tecniche mnemoniche. L’aneddoto greco è ispirato al concetto tipicamente greco della hybris: il tiranno viene punito per la sua tracotanza; il poeta che aveva celebrato i Dioscuri si salva. Sia Simonide che Boschetti sono «miracolosamente» salvati da una chiamata che li attira all’esterno: nel caso di Simonide la chiamata salvifica arriva, per il tramite di un servitore, da esseri soprannaturali, grati al poeta per la pietas da lui dimostrata; nel caso del Boschetti, essa giunge, per il tramite di un telefono cellulare, da parte di un ignaro dipendente e non avrebbe avuto un effetto salvifico se il conte, bene educato, non avesse ritenuto opportuno allontanarsi da tavola. Una volta scampati alla strage, i due cercano per vie diverse di rendersi utili: Simonide avvalendosi della mnemotecnica, da lui coltivata per la sua attività di poeta; Boschetti, servendosi di quello stesso supporto tecnologico che lo ha salvato. Perché il Boschetti ha dichiarato alla stampa di essere oppresso dai sensi di colpa? Evidentemente, anche se non lo ha detto a chiare lettere, per es-

Un comodo mezzo di comunicazione, ma occhio all’educazione. (Wikipedia)

sere rimasto per ore acquattato dietro il cespuglio, per non essere rientrato a tentare di trarre in salvo la moglie o quanto meno a condividere con lei la sorte fatale. Ma possiamo fargliene una colpa? Sappiamo tutti quanto sia forte, nell’uomo come negli altri esseri viventi, l’istinto di sopravvivenza e nessuno di noi può dire come avrebbe reagito nelle stesse circostanze. Certo, la storia e la cronaca ci presentano anche casi di personaggi che tale istinto sacrificano in nome di un affetto o di un ideale, e questi personaggi li chiamiamo eroi. Ma eroi si nasce, bene educati si diventa. Nota

* Si vedano per es. Maurizio Ferraris, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano 2011; e il capitolo Sui telefonini in Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe, La nave di Teseo, Milano 2016, pp. 111-124.

Il Teatro Sociale di Bellinzona ha chiuso la sua breve programmazione con Gabaré, una serata di intrattenimento con Flavio Sala e i suoi boys. Si è trattato di un momento di leggerezza – anche un po’ alla buona – sufficiente però per confermare il talento comico e attoriale di Sala sul quale ci piace tornare. Non solo perché far ridere non è da tutti. Come non è facile tenere in pugno il pubblico: si può essere spiritosi, talvolta anche grossolani e avere la battuta pronta, ma affrontare una platea teatrale è impegnativo e può rivelarsi una trappola. Flavio Sala sembra avere nel suo corredo artistico, oltre a una naturale simpatia, qualcosa che supera la capacità di improvvisare. Lo dimostra anche quando certi numeri fanno ormai parte di un archivio che il pubblico riconosce e applaude, sia sotto un tendone carnevalesco sia in occasione delle presenze radiotelevisive. Eppure ci piacerebbe che la sua personalità teatrale crescesse e ci regalasse nuove sorprese. È un’impressione che si rinnova nel vederlo in scena e su cui vorremmo scommettere. Ovviamente dovrebbe crederci anche lui, facendo bene i suoi calcoli e senza troppo cedere alle lusinghe di un facile compiacimento popolare. Che è comunque determinante, ma che riuscirebbe a rafforzarsi affrontando, per esempio, un repertorio d’autore, dove capacità e talento diventano tutt’uno col personaggio. Insomma, crediamo che il frutto sia maturo. Ma occorre anche qualcuno che lo sappia cogliere, consigliandolo e guidandolo con professionalità e lungimiranza. Forse è giunto il momento di guardarsi attorno.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 giugno 2021 • N. 25

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cultura e spettacoli I tre esploratori Henry R. Bowers, Edward Wilson e Apsley Cherry-Garrard. (Wikipedia)

le facce delle vespe pubblicazioni Libro divertente e pieno

di sorprese del neuroscenziato italiano Giorgio Vallortigara Stefano Vassere

di lunghi inverni

Narrativa Ne L’indicibile inverno il parallelismo biografico tra

l’esploratore britannico Apsley Cherry-Garrard e una giovane donna

La nostra apprezzata collaboratrice Benedicta Froelich è conosciuta da tempo come autrice di corpose ricerche storico-biografiche che mostrano il suo interesse per personaggi celebri della storia anglosassone, come Lawrence d’Arabia e il «Bonnie Prince» Charles Edward Stuart. Su di lei sembrano esercitare un fascino particolare le figure di eroi che partendo da premesse altamente positive, in possesso di doti personali e di grandi ambizioni, finiscono invece per concludere la loro esistenza in modo drammatico, smentendo ogni possibile positiva previsione sul loro destino. Questo suo ultimo lavoro si muove sulla falsariga dei precedenti, ma si profila per una sua specificità narrativa. Ne L’indicibile inverno, l’autrice mette in scena contemporaneamente due eroi: da un lato la figura dell’inglese Apsley Cherry-Garrard, vissuto in Inghilterra tra il 1886 e il 1959, e dall’altro quella di Frida, una giovane che vive in un anonimo paesino della Brianza nel nostro tempo. Si tratta quindi di una biografia parallela in cui le vicende del nobile britannico, sofferente potremmo dire di una sindrome post-traumatica, si intrecciano con le sofferenze psicologiche di quella che diventerà poi, nel racconto, la sua biografa. In questo senso il sottotitolo di Una storia bipolare sta proprio a segnalare due momenti narrativi che si intrecciano uno nell’altro, offrendo peraltro una chiara allusione

al disturbo psicologico di cui soffre la ragazza. In questa chiave di rimandi continui da una biografia all’altra il racconto è molto ben orchestrato, lasciando lentamente emergere segnali che collegano la vita dello sfortunato esploratore antartico con la quotidianità difficile e apparentemente altrettanto sfortunata di un’esploratrice del presente. Senza voler anticipare e svelare i tratti principali di tale dialogo a distanza di un secolo (le vicende dei due protagonisti si svolgono infatti quasi esattamente 100 anni dopo) possiamo dire che Apsley Cherry-Garrard è stato membro di una sfortunata campagna di esplorazione, organizzata dal celebre Capitano Robert Falcon Scott. Frida, nel racconto, si appassiona per la storia del tragico evento e inizia un percorso di identificazione che la aiuterà a vedere meglio i tratti della sua situazione personale e la porterà, diversamente da Apsley, a dare una soluzione positiva al proprio problema. Il Lord Inglese, infatti dopo essere tornato dall’Antartide non troverà più un equilibrio interiore, se non in momenti sporadici, e vivrà una continua condizione di sofferenza (di nuovo: non vogliamo qui anticipare nulla della trama della doppia biografia, sarebbe un peccato per il lettore). Per quello che riguarda le doti letterarie del testo in sé, occorre dire che il libro della Froelich sembra inserirsi,

più che nel filone biografico, in quello molto battuto e conosciuto del «diario terapeutico», genere in cui la letteratura italiana può vantare alcuni capolavori assoluti. Da La coscienza di Zeno a Il male oscuro, le sofferenze interiori del protagonista, il suo conflitto tra la propria sintomatologia psicologica e le opinioni dello psichiatra che se ne occupa, sono un tema narrativo molto utilizzato e comunque affascinante. Volendo confrontare tali due celebri esempi con il libro in questione, si nota ne L’indicibile inverno la mancanza del tono ironico e autoironico del protagonista nei confronti della propria sintomatologia e dell’eziologia del proprio problema. La Froelich predilige un registro intenso, drammatico, che si fa in qualche momento anche melo-drammatico, in particolare nella ricostruzione degli episodi storici, da lei romanzati a tratti con uno stile un po’ affettato. Molto più moderni, necessariamente, e agili i passaggi della storia di Frida, che scava al fondo della sua sofferenza e, come detto, trova lo spunto per una soluzione catartica al suo disagio interiore grazie all’elaborazione della tragica vicenda di Apsley Cherry-Garrard e dei suoi compagni. /AZ

«All’Università del Sussex, dove proseguì la mia formazione, c’era un collega che si occupava dei ragni saltatori, in particolare del modo in cui questi animali sono capaci di aggirare gli ostacoli “tenendo a mente» la preda scomparsa alla vista. Avevo indagato gli stessi comportamenti di detour nei pulcini di pollo domestico, così ci scambiammo qualche idea». Non c’è alcun dubbio: leggere libri come questo Pensieri della mosca con la testa storta di Giorgio Vallortigara, neuroscienziato trentino noto per ricerche molto apprezzate sul comportamento cognitivo degli animali, è soprattutto uno spasso, e non da poco. Prendiamo il caso delle scimmie macaco reso adulte, le quali come noi umani riconoscono icone che cercano di rendere la fisionomia di un viso umano, per intenderci quelle fatte con le verdure o disegnate sulla superficie liquida di un caffè. Oppure il fatto che i singoli esemplari di un particolare tipo di vespa cartonaia (la polistes fuscatus) distinguono letteralmente i visi delle proprie compagne di sciame; a dire il vero potremmo già accontentarci di sapere che queste vespe hanno visi diversi l’una dall’altra, perché d’istinto si è tentati di pensare che le vespe hanno tutte lo stesso aspetto. Di più, Vallortigara ci spiega che sulla base di questi tratti si fonda gran parte delle relazioni sociali e gerarchiche all’interno del gruppo. Ancora, le api discriminano in taluni esperimenti segnali percettivi come i colori, ma sanno anche estrarre e astrarre concetti superiori del tipo «se devo raggiungere una gratificazione o evitare una punizione, vado nella dire-

Bibliografia

Benedicta Froelich, L’indicibile inverno. Una storia bipolare. Oltre Edizioni, 2020.

zione del colore di prima o scelgo quella di un altro colore»: non il colore in sé ma il fatto se un colore è uguale o diverso da quello precedente. Ragionamento e non pura percezione, categorie astratte e non semplici stimoli sensoriali. Poi è chiaro che non si legge un libro del genere solo per divertirsi. Una cosa che emerge con insistenza in vari punti riguarda il confronto tra la capacità di un animale, uomo compreso, di fare cose ritenute cognitivamente alte e di stabilire una socialità accettabile e consapevole da una parte e le dimensioni del cervello e il numero di neuroni per dirigere tutto ciò dall’altra. Pare che non basti un gran testone per disporre di una grande intelligenza e che altre siano le evidenze importanti, non da ultimo un quoziente di encefalizzazione secondo il quale conta quanto pesa il cervello di una specie animale rispetto a quello di specie di pari taglia. Che poi questo tagli fuori un’intera lunghissima stagione di studi di paleontologia umana che stabiliscono l’inizio della facoltà del linguaggio nell’uomo primitivo sulla base del volume di crani trovati qua e là è effetto secondario, cui si dovrà peraltro un giorno trovare una risposta. Tant’è. Le vespe del tipo «una faccia, una razza» di cui si è detto hanno dei cervelli mini, «un milione scarso di neuroni» (l’uomo ne ha ottantasei miliardi, lo dimostra un calcolo spiegato molto bene a pagina 77); ciò proverebbe che abilità cognitive e conseguenti competenze sociali (per esempio lo «stare al mondo vespesco») possono essere considerate elementari e non determinano da sole la superiorità dell’uomo. Di fatto, «per riconoscere i volti poche centinaia di neuroni sono sufficienti. Il problema semmai è la memoria dei volti». E anche qui… «le pecore possono imparare a riconoscere cinquanta facce individuali di loro compagne e ricordarle a due anni di distanza». Ah, ci sono inoltre le api che distinguono i quadri di Monet da quelli di Picasso e i piccioni che riconoscono beccando lo schermo parole della lingua inglese. E un percorso di lettura a sé è sostanziato dalle epigrafi poste a capo di ogni capitolo: da Antonio Rosmini (nato a Rovereto come Vallortigara) a Emily Dickinson (due), Campanella, Montale (due), Borges (due), Achille Campanile. Bibliografia

Divertente, ma non solo.

Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta, Milano, Adelphi, 2021.

trenta minuti per ore di riflessioni

Netflix Il cortometraggio Due estranei della coppia di registi Roe-Free tematizza la delicata condizione

della comunità afroamericana negli USA Alessandro Panelli Due estranei (Two Distant Strangers) è il primo cortometraggio diretto da Martin Desmond Roe e Travon Free ed è interpretato dal celebre cantante Joey Bada$$ e da Andrew Howard (già conosciuto per il suo ruolo in Tenet e Limitless). L’opera vanta l’Oscar al miglior cortometraggio del 2021 e narra le vicende di Carter (Joea Bada$$), un giovane grafico di fumetti afroamericano. Dopo avere passato la notte accanto alla bella Perri (Zaria Simone), averla salutata ed essere sceso in strada, il ragazzo s’imbatte nelle grinfie di un poliziotto bianco e razzista di nome Merk (Andrew Howard) che, dopo

averlo ingiustamente aggredito verbalmente, lo uccide soffocandolo. Una scena che richiama inevitabilmente quella – vera – che il 25 maggio 2020 vide protagonisti George Floyd e Derek Michael Chauvin, e scatenò le reazioni universali della comunità afroamericana ridando slancio al movimento Black Lives Matter. Due estranei, per quanto inizialmente possa sembrare una commedia leggera, punta ben presto il dito contro la violenza esercitata dai poliziotti statunitensi nei confronti della popolazione afroamericana. Dopo essere morto una prima volta, Carter-Bada$$ si risveglia nuovamente nel letto di Perri e si accorge di rivivere la stessa scena della mattina

precedente: è finito in un loop temporale che lo porterà a subire le violenze del poliziotto all’infinito. Sulla falsariga di film come Groundhog Day (Harold Ramis, 1993) e Edge of Tomorrow (Doug Liman, 2014) il protagonista prova a uscire dal loop in tutti i modi, arrivando perfino a fare amicizia con il poliziotto. L’opera ha una sua audacia nel tematizzare in maniera tragicomica l’ingiusta e per molti versi agghiacciante disparità di trattamento tra cittadini bianchi e di colore da parte delle forze dell’ordine statunitensi. In più di un’occasione, lo spettatore è chiamato a ridere, seppur con una nota di amarezza. Forse, da un film insignito del premio Oscar, in alcuni passaggi ci si aspette-

rebbe una maggiore profondità, sebbene il cortometraggio si lasci seguire con gusto fino alla fine. L’unica vera pecca del film risiede nel personaggio di Perri, la donna nel cui letto Carter si risveglia: la recitazione di Zaria Simone è infatti sopra le righe al punto tale da rendere quasi stucchevoli e dunque inverosimili alcune scene, e interrompendo il flusso narrativo che di per sé fila liscio. Un approfondimento psicologico dei personaggi che delineasse meglio i rapporti tra polizia e cittadini afroamericani avrebbe probabilmente giovato a quella che poteva essere la missione del film, ma malgrado ciò Due estranei risulta comunque compiuto.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 21 giugno 2021 • N. 25

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cultura e spettacoli

Il suono della pittura

Jazz in mostra Un’iniziativa del Museo d’Arte di Mendrisio propone

un gemellaggio tra le arti significativo e affascinante: è il primo di una serie

Eliana Bernasconi

Nicola Angelucci alla batteria nella sala Nel settembre del 1943. (s. spinelli)

perfetta per il cinema. Nasce sempre da suggestioni visive. Descrive atmosfere, paesaggi. È una cosa che succede a livello inconscio, non è che io stia realmente pensando a quello. Qualcosa che non hai codificato coscientemente ma che riesci a rendere visivo». Oltre a questa, diciamo, «predisposizione» del jazz a fare da accompagnamento alle immagini (e del resto sono numerosi gli esempi di gemellaggio tra pittura e improvvisazione musicale reperibili sul mercato discografico) resta il fatto che gli ambienti silenziosi del museo si prestano in modo eccezionale alla performance degli strumenti. All’improvviso ci si rende conto di come tutto questo spazio sia in realtà un «vuoto» architettonico, in grado di suscitare echi e riverberi di grande profondità e intensità. Sia il contrabbasso di Riccardo Fioravanti (come sua postazione ha scelto un angolo di corridoio, di fronte a un gigantesco Cactus dipinto da Emery) sia il sassofono di Max Ionata acquistano una voce solenne e anche un po’ mistica (e del resto non possiamo dimen-

ticare che ci troviamo tra le mura di un antico convento...). Ionata non ha scelto una collocazione fissa ma, brandendo il suo sax, percorre i vari corridoi, sfiorando i visitatori e soffermandosi ogni tanto davanti ad alcune tele. La vicinanza col pubblico, numeroso e attento, è inusuale. Chi ascolta riesce a percepire persino quel bellissimo, caratteristico rumore: il soffio che attraversa lo strumento. Un fruscìo sottile, modulato, che è la marca stilistica di molti grandi nella storia del jazz. I musicisti si sono dati il cambio nella loro personale esplorazione sonora dell’esposizione: l’ultimo a entrare in scena è stato il batterista Nicola Angelucci. Il suo strumento è collocato al centro di una delle sale più belle, quella che ospita le grandi opere dedicate all’atterraggio a Magadino di un bombardiere americano, Nel settembre del ’43. L’ambiente molto ampio potrebbe far risuonare in modo eccessivo le rullate e i colpi sui tamburi. Forse per questo Angelucci sceglie di eseguire la sua improvvisazione colpendo le pelli in un

primo tempo solo con le mani, poi più leggermente con le spazzole di metallo. Anche qui è bella la concomitanza: le opere di Emery così vistose e cariche di energia, suscitate dalla visione dell’enorme aeromobile, sembrano interpretate, tradotte in suono dagli scoppi cadenzati. Ora, la curiosità di chi assiste a questa affascinante performance è sapere se Emery fosse in qualche modo un appassionato di jazz: lo conferma, il figlio Nicola, il quale ricorda il padre ascoltare assiduamente durante il suo lavoro la musica di Chet Baker, di Stan Getz, di Milt Jackson. Oltretutto, nel suo periodo di studio milanese, negli anni 50, Emery si era cimentato come musicista proprio alla batteria. Il cerchio si chiude dunque, tra questa proposta e l’avventura artistica del pittore ticinese: ora i musicisti si spostano nel chiostro del Museo dove per il piacere del pubblico proporranno un vero concerto. E, per informazione di chi legge, è importante sapere che l’esperienza verrà ripetuta, nei prossimi mesi. Varrà la pena di parteciparvi.

In contemplazione con sugimoto Fotografia Alla Fondazione Rolla di Bruzella alcune immagini appartenenti alla celebre serie

Seascapes, cui Hiroshi Sugimoto ha lavorato per molti anni Gian Franco Ragno Nato a Tokyo nel 1948, Hiroshi Sugimoto, giapponese di nascita e di prima formazione, ma americano d’adozione, è universalmente noto come uno dei maggiori fotografi contemporanei, con esposizioni e presenza nelle collezioni dei più importanti musei al mondo. Poco più di dieci anni fa, al Kunstmuseum di Lucerna, passò proprio una delle più recenti e complete retrospettive, curata dallo stesso artista. E non è tutto: negli anni più recenti si è inoltre occupato di architettura – ideando alcune case del tè in cubi trasparenti, una a Versailles e una all’Isola di San Giorgio a Venezia – e ad altre sculture sitespecific. È assai conosciuto per la profonda e disciplinata impostazione concettuale delle sue serie che si materializzano, tranne che per nuovi esperimenti condotti a colore nell’ultimo decennio, in un raffinatissimo bianco e nero. Le sue serie, siano esse intitolate Theaters e Drive-Ins – dove centrale è lo schermo di un bianco abbacinante in quanto l’obiettivo rimane per tutta la durata del film – o Dioramas, sui Musei di Storia naturale negli Stati Uniti, o ancora ispi-

mostre A Chiasso

un nuovo spazio espositivo open

Alessandro Zanoli C’è una sala, nel percorso espositivo attualmente dedicato a Sergio Emery al Museo d’arte di Mendrisio, (mostra aperta fino al 4 luglio, v. «Azione» 24 maggio, La pittura come esplorazione, A. Brughera) in cui sono raccolti alcuni lavori particolari, quadri realizzati prendendo ispirazione dalla terra e dal paesaggio dell’Umbria. Ci chiniamo a leggere l’etichetta con le indicazioni relative a una tela di grandi dimensioni, attraversata da fitti e spessi colpi di pennello neri, grigi, gialli e bianchi: Terra Arata, recita la didascalia, e precisa: «(Armonico dissonante), 1994». Nell’aria, attraverso i corridoi del museo, galleggiano note di contrabbasso: un richiamo un po’ triste e ancestrale ma che si accorda perfettamente con questa immagine. Sulla parete a fianco, un più piccolo disegno in matita e tempera sembra riprodurre altre lontane colline dell’Umbria. Il titolo qui è inequivocabile: Musicale, 1995. Emery deve aver forse trovato un’analogia visiva tra uno spartito e questo profilo lineare, rarefatto. Ultima suggestione, ancora più chiara: grande tela quadrata, pennellate energiche di nero, alternate su tutta la superficie, macchie che suscitano bizzarre associazioni di idee. Ricordano forse pulsazioni di tamburo, dinamiche, figure geometriche da ascoltare. Il titolo del quadro che è di fronte a noi? Ritmo in nero, acrilico su tela, 1994-96. L’iniziativa proposta due sabati fa dal Museo, sotto il titolo di «Jazz in mostra» ha colpito nel segno. L’idea di chiedere ad alcuni jazzisti di animare i corridoi e le sale con le note dei loro strumenti, lasciandosi ispirare dalle suggestioni pittoriche di Emery ha trovato una piena disponibilità da parte dei musicisti. Come ci ha confermato al termine del concerto il chitarrista Bebo Ferra, sia nella pratica di solista così come in quella di compositore un jazzista è abituato a confrontarsi con le immagini visive. «Se conosci la mia musica puoi crederla una colonna sonora

artfolder, apertura al futuro

Hiroshi Sugimoto, South Pacific Ocean, Waihau, 1990. (Fond. Rolla)

rate dal Museo delle Cere, sono illuminate in modo così magistrale da far sembrare vere le figure, oltre ad essere tra le immagini più note della scena artistica attuale. Di tutte queste serie merita un discorso più approfondito la più famosa, Seascapes, poiché si fonda su una composizione rigidissima e una profonda e lunga continuità: la linea dell’orizzonte crea due aree perfettamente distinte, con il cielo in quella superiore e il mare in quella inferiore. Nelle immagini troviamo quindi un perfetto equilibrio tra

gli elementi aria e acqua. Come in molti dei lavori di Sugimoto, non vi è traccia umana. Punto di arrivo di una ricerca estetica dell’essenzialità estrema, gli orizzonti marini di Sugimoto raggiungono un ideale di bellezza eliminando ogni elemento superfluo o dettaglio superficiale. Il mare, con la sua forza attrattiva quasi ancestrale, invita a prendere parte a un viaggio che porta a una visione, spingendo al contempo a una riflessione profonda sulla necessità di catturare anche il più minuscolo moto all’oriz-

zonte, rappresentato di volta in volta nelle singole immagini sotto forma di minime variazioni sul tema: il vento che increspa la superficie del mare, il cielo coperto, la nebbia che nega momentaneamente l’osservazione dell’orizzonte. Una decina delle vedute marine in questione è esposta ancora per questa settimana alla Fondazione Rolla di Bruzella. Esse provengono da un portfolio dell’autore e sono nate a cavallo degli anni Novanta, quindi nel bel mezzo di una ricerca che ha condotto l’artista giapponese Sugimoto nei quattro angoli della terra tra il 1980 e il 2003, dunque quasi per quasi un quarto di secolo. L’allestimento sobrio con tutta probabilità piacerebbe all’artista, che sembra prediligere – in un’atmosfera orientale – i vuoti ai pieni. Contemplazione, meditazione e silenzio: virtù sconosciute, potremmo dire, nell’epoca della distrazione continua data dagli attuali media. dove e quando

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Le Gallerie d’arte in Ticino hanno un’attività notevole, propongono offerte differenziate, sono spesso nel giro di circuiti e scambi internazionali. Sono invece rare le gallerie che portano avanti un discorso culturale autentico senza perseguire la ricerca del profitto. Negli ultimi decenni inoltre sono scomparse alcune gallerie che si muovevano sul territorio locale, come ad esempio la chiassese Galleria Mosaico, che aveva molto investito nella valorizzazione degli artisti di area lombardo-ticinese. Ci sembra dunque importante segnalare l’apertura di una piccola galleria che si propone di offrire occasioni espositive anche ad artisti giovani e ancora sconosciuti. Situata in un palazzo storico di Chiasso, sul confine con l’Italia, la Galleria e Spazio espositivo Artfolder è gestita da Lydia Stadler. Per la prima mostra Stadler ha raggruppato opere di cinque artisti del territorio: Marco Lupi, Sergio Morello, Francine Mury, Ivo Soldini e Lydia Stadler. Di Lupi abbiamo imparato a conoscere il felice rapporto con il mondo interiore e i racconti che in un gioioso istinto si concretizzano in strutture di forme e colori. Quasi superfluo è presentare Sergio Morello, poiché è ben nota la fedeltà alla pittura della sua lunga e magistrale carriera; l’o-

Opera di Lydia Stadler. (nonsolofotografia.ch)

pera esposta in Galleria è recente e una diversa impostazione stilistica la differenzia dal linguaggio raggiunto nelle appassionate ricerche precedenti. L’opera di Mury è da sempre un appassionato dialogo di ri-conoscenza e di ri-congiunzione con la natura e con la sua luce, osservandone con curiosità quasi scientifica gli aspetti segreti e svelandoli per chi guarda. Nell’opera di Ivo Soldini, pur nella dimensione ridotta richiesta dallo spazio espositivo, si coglie la tipica tensione dinamica delle forme sempre sorretta dall’impostazione volumetrica di masse miranti alla monumentalità. Lydia Stadler, fotografa plastica di formazione, proviene da un’intensa sperimentazione innovativa del mezzo fotografico, sul quale ha molto lavorato, non trascurando disegno e collage per impadronirsi delle varie soluzioni espressive. In anni recenti si è avvicinata al Suminagashi, antica arte giapponese che sfrutta gli infiniti effetti degli inchiostri fluttuanti nell’acqua e che i monaci Zen hanno trasformato in una tecnica di meditazione attiva. Lydia Stadler vi si è ispirata creando un inedito percorso: è riuscita a fotografare e stampare queste visioni su tavolette di plexiglas ottenendo risultati sorprendenti. dove e quando

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Twister alla spelta cotto su pietra TerraSuisse Limited Edition, 400 g, confezionato

Gruyère, Emmentaler e M-Classic Sandwich, in confezioni speciali, per es. Gruyère, 30 fette, 600 g, 6.– invece di 7.50

Migros Ticino

Offerte valide solo dal 22.6 al 28.6.2021, fino a esaurimento dello stock


Scorta

Grande scelta, piccoli prezzi

30%

conf. da 2

20%

Tutti i sottaceti e i cetriolini

Tutte le spezie bio

per es. cetrioli alle erbe Condy, 270 g, 1.30 invece di 1.90

(prodotti Alnatura esclusi), per es. Herbamare per insalate e verdure, 250 g, 3.65 invece di 4.60

25% 4.40 invece di 5.90

Aceto di vino alle erbe aromatiche Kressi Chirat 2x1l

Se nza addit iv i

conf. da 2

31% 8.95 invece di 13.–

Sofficini M-Classic surgelati, al formaggio, agli spinaci o ai funghi, per es. al formaggio, 2 x 10 pezzi, 2 x 600 g

30% 3.75 invece di 5.40

20% Rigatoni o spaghetti Garofalo per es. rigatoni, 2 x 500 g

20x

20x PUNTI

surgelati, 600 g

5.95

in confezioni multiple, 3 x 250 ml o 2 x 500 ml, per es. 3 x 250 ml, 6.– invece di 7.50

PUNTI

Novità

Knöpfli al formaggio M-Classic

Latte di cocco Thai Kitchen

20x

PUNTI

Novità

5.95

conf. da 3

conf. da 2

Novità

Sofficini al Gruyère bio surgelati, 360 g

2.80

Riegele IPA Liberis senza alcol 330 ml


20%

a partire da 2 pezzi

Tutti i tipi di zucchero fino cristallizzato 1 kg e 4 x 1 kg, per es. cristal, 1 kg, –.80 invece di 1.–

Prodot to prove nien da commercio equote

a partire da 2 pezzi

–.50 di riduzione

Tutta la frutta secca bio e tutte le noci bio

33%

–.60 di riduzione

Miele in vasetto da 550 g o in flacone squeezer da 500 g

Tutte le capsule di caffè M-Classic, UTZ

per es. miele di fiori cremoso in vasetto, 550 g, 5.– invece di 5.60

compatibili con il sistema Nespresso®*, per es. Lungo, 30 capsule, 4.65 invece di 6.90, * questa marca appartiene a terzi che non sono in alcun modo legati alla Delica AG.

Nuov e salse dip pe r carne, pe sc e, pollame e ve rdure

(prodotti Alnatura e Demeter esclusi), per es. datteri senza nocciolo, Faitrade, 200 g, 2.25 invece di 2.75

20x

20x

PUNTI

PUNTI

conf. da 10

Novità

22% San Pellegrino Sanbittèr o Crodino per es. Sanbittèr San Pellegrino, 10 x 100 ml, 5.75 invece di 7.40

2.95

Novità

Salsa al miele e alla senape Thomy 230 ml, in vendita nelle maggiori filiali

invece di 11.20

Novità

Novità

Rivella rossa o blu, 6 + 2 gratis, 8 x 500 ml

2.95

230 ml, in vendita nelle maggiori filiali

PUNTI

PUNTI

25% 8.40

Salsa Sweet-Sour con paprica Thomy

20x

20x conf. da 8

2.95

Salsa chimichurri alle erbe Thomy 230 ml, in vendita nelle maggiori filiali

2.95

Salsa chili con jalapeños Thomy 230 ml, in vendita nelle maggiori filiali

Offerte valide solo dal 22.6 al 28.6.2021, fino a esaurimento dello stock


Dolce e salato

Per i piccoli momenti gustosi della giornata

LO SAPEVI? Il classico cake della nonna fa parte da decenni dell'assortimento Migros. Esso viene prodotto negli stabilimenti JOWA della Migros a Volketswil. Per breve tempo verranno lanciate due nuove varietà, una con yogurt e semolino ai lamponi e l'altra con yogurt e pezzetti di mango candito. Tutti i cake della nonnanon contengono conservanti né coloranti.

Hit 4.50 Migros Ticino

20x PUNTI

Novità

3.40

Muffin al cioccolato 6 pezzi, 210 g, confezionati

conf. da 3

20% 8.80 invece di 11.10

Biscotti Ovomaltine Crunchy o Petit Beurre, per es. Crunchy, 3 x 250 g

conf. da 2

Cake della nonna lampone o mango, per es. lampone, 350 g, confezionato

20%

24% 6.95 invece di 9.20

Crunchy Ice Ovomaltine prodotto surgelato, 4 pezzi, 4 x 100 ml

conf. da 2

20%

Prodotti per la colazione Ovomaltine

Cioccolato Ovomaltine

müesli, prodotti in polvere, barrette o Crunchy Cream, per es. Crisp Müesli, 2 x 500 g, 9.50 invece di 11.90

disponibile in diverse varietà e in confezioni speciali, per es. Ovo Rocks, 2 x 120 g, 6.70 invece di 8.40


conf. da 2

26% Pralinés Lindt

conf. da 10

Mini o Connaisseurs, per es. Mini, 2 x 180 g, 17.50 invece di 23.90

40% Tavolette di cioccolato Frey

Prodot to a Meile n, sul lago di Z urig o

Giandor o Noxana, per es. Giandor, 10 x 100 g, 11.70 invece di 19.50

conf. da 4

33% 11.95

invece di 17.90

23% MegaStar prodotto surgelato, alla mandorla, alla vaniglia e al cappuccino, in conf. speciale, per es. alla mandorla, 12 x 120 ml

conf. da 3

30%

conf. da 2

20%

Gomme da masticare M-Classic

Graneo o Snacketti Zweifel

disponibili in diverse varietà, per es. spearmint, 3 x 80 g, 5.75 invece di 8.25

disponibili in diverse varietà, per es. Graneo Original, 2 x 100 g, 4.70 invece di 5.90

Migros Ticino

Gelati in barattolini monoporzione surgelati, Ice Coffee, Vacherin o Bananasplit, per es. Ice Coffee, 4 x 165 ml, 5.95 invece di 7.80

a partire da 2 pezzi

–.50 di riduzione

Tutti i prodotti da forno per l'aperitivo Gran Pavesi e Roberto per es. crocchini al rosmarino Roberto, 250 g, 2.30 invece di 2.80

Offerte valide solo dal 22.6 al 28.6.2021, fino a esaurimento dello stock


Bellezza e cura del corpo

Per una cura dalla A alla Z ...

conf. da 2

20% Rasoio da donna BiC in confezioni multiple o speciali, per es. rasoio usa e getta Twin Lady, 2 x 10 pezzi, 6.80 invece di 8.50 a partire da 2 pezzi

La giusta flessibilità i o pe r se guire al meg li cont or ni del corpo

20% Tutto l’assortimento per la depilazione Veet e I am (confezioni multiple escluse), per es. strisce depilatorie di cera a freddo con Aloe Vera I am, 20 pezzi, 7.– invece di 8.70

conf. da 2

20% Tutti i saponi in confezioni multiple o speciali, per es. sapone cremoso Milk & Honey I am, 2 x 300 ml, 4.60 invece di 5.80

Dissolv e il masc ara reil make -up e si st e nti all'ac q ua

conf. da 2

25% Prodotti per la cura del viso o del corpo Nivea (prodotti per le mani esclusi), per es. struccante per occhi per trucco resistente all'acqua, 2 x 125 ml, 8.70 invece di 11.60

Hit 6.95

Rasoio da donna Wilkinson Xtreme3 Beauty in conf. speciale, 8 pezzi


Abbigliamento e accessori

... e tutto l’occorrente!

40% Tutto l'assortimento di reggiseni, biancheria intima e per la notte da donna per es. canottiera da donna, bianca, bio, tg. M, il pezzo, 8.95 invece di 14.95

IL TRUCCHETTO Per non far scivolare le camicette e altri capi dalle grucce, dotare le due estremità di elastici acquistati nel reparto cartoleria.

30% Tutto l'assortimento di occhiali da sole e da lettura per es. occhiali da sole da donna Central Square, il pezzo, 34.95 invece di 49.95 conf. da 12

Hit 4.95 conf. da 5

Hit 12.95

Appendiabiti neri con gancio girevole

50% Calzini antiscivolo o fantasmini da donna Ellen Amber disponibili in diversi colori, numeri 35–38 e 39–42, per es. neri, n. 35–38

99.50 invece di 199.–

Scarpa da escursionismo da donna Lowa Lakar Evo Gore-Tex Mid grigia, n. 38-41, per es. n. 39, il paio, in vendita nelle maggiori filiali Offerte valide solo dal 22.6 al 28.6.2021, fino a esaurimento dello stock


Varie

Pratici affari per grandi e piccini

set da 2

a partire da 2 pezzi

50%

33% 12.90

Tutti i detersivi Total per es. Color, 2,475 kg, 7.95 invece di 15.90

invece di 19.35

conf. da 2

20% 3.60 invece di 4.50

21% Oxi Booster Total Color e White, in conf. speciale, 1,5 kg, per es. Color

conf. da 3

33% Pellicola salvafreschezza o foglio d'alluminio o sacchetti multiuso Tangan

Carta da forno Tangan N°31 2 x 24 fogli

per es. pellicola salvafreschezza n. 11, 3 x 36 m, 5.60 invece di 8.40

iat i Be n e quipag gro pe r i l r i e n t a sc u o l a

Hit 4.50 Migros Ticino

20% Matite colorate Bellcolor, FSC in conf. speciale, 24 pezzi

Prodotti di cartoleria in confezioni multiple o speciali, per es. set di penne fineliner Stabilo® Point 88®, 25 pezzi, 19.95 invece di 24.95

11.95

invece di 15.20

Additivi per il bucato Total in confezioni multiple o speciali, per es. Total Spray & Wash, 2 x 750 ml

conf. da 2

Hit 5.65

Sacchetti con zip Tangan 3 litri, 2 x 15 pezzi


Fiori e giardino

a partire da 2 pezzi

40% Tutti i prodotti in carta Cucina & Tavola Paper, FSC

33%

(prodotti Hit esclusi), per es. tovaglioli in tinta unita, arancioni, 40 cm, 30 pezzi, 1.50 invece di 2.50

Carta igienica Soft Supreme alla camomilla e Deluxe Sensitive, in confezione speciale, FSC, per es. Supreme alla camomilla, 24 rotoli, 12.50 invece di 18.80

1.–

a partire da 2 pezzi

di riduzione

20%

9.95

Tutti i tipi di latte di proseguimento Hipp

Girasoli M-Classic mazzo da 5, il mazzo

invece di 10.95

(latte Pre e latte di tipo 1 esclusi), per es. Combiotik 2, bio, 800 g, 16.– invece di 19.95

Con elastic o in vita

Hit 37.95

a partire da 2 pezzi

Tower Country Rotho 4 rotelle, con 3 cestelli formato A4, il pezzo

25% Tutti i pannolini Huggies DryNites e Little Swimmers per es. Little Swimmers tg. 3–4, confezione da 12 pezzi, 9.60 invece di 12.80

Hit Hit 6.50 Migros Ticino

13.95

set da 2

41% Vasca da bucato Flower disponibile in blu o rosa, 12 litri, per es. blu, il pezzo

34.95 invece di 59.90

Roller 6

Bouquet di rose M-Classic, Fairtrade mazzo da 30, lunghezza dello stelo 40 cm, disponibili in diversi colori, per es. gialle, arancioni e rosse, il mazzo

con 6 rotelle e coperchio, disponibile in rosso o verde lime, 57 litri, per es. rosso, il set Offerte valide solo dal 22.6 al 28.6.2021, fino a esaurimento dello stock


Consiglio dal bancone

Ispirazioni estive appena pescate

Validi gio.– dom. Prezzi

imbattibili del

weekend

29% 1.20 invece di 1.70

! r cre de re a e p e r a v o Pr ri d t ti svizze ste nibile . e r e b m a o G svizze ro s o t n e m a v al l e

20%

30% 1.85 invece di 2.65

Tutti i gamberetti in vendita al banco per es. tail-on cotti, d'allevamento, Vietnam, ASC, per 100 g, 3.20 invece di 4.05

Manghi Costa d’Avorio/Porto Rico/ Repubblica Dominicana, il pezzo, offerta valida dal 24.6 al 27.6.2021

Bistecca di scamone di maiale marinata, IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g, offerta valida dal 24.6 al 27.6.2021

a partire da 2 pezzi

6.50

Capesante, MSC

8.45

pesca, Atlantico nordoccidentale, per 100 g, in vendita al banco

Offerte valide solo dal 22.6 al 28.6.2021, fino a esaurimento dello stock

Coda di astice cruda, MSC pesca, Atlantico nordoccidentale, per 100 g, in vendita al banco

30% Tutto l'assortimento Borotalco per es. roll-on Original, 50 ml, 3.85 invece di 5.50, offerta valida dal 24.6 al 27.6.2021


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